dossier CONSIGLIERI COMUNALI
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ottobre 2023 |
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CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI:
Non ci sono controlli sui sindaci. Le minoranze sono private dei
dati per poter giudicare.
L'abolizione dell'art. 130 della Costituzione rende
irresponsabili i conti degli enti locali.
L'articolo 130 della Costituzione Italiana prevedeva il
controllo di legittimità sugli atti degli Enti Locali.
Infatti, esso così recitava: «Un organo della Regione,
costituito nei modi stabiliti dalla legge della Repubblica,
esercita, anche in forma decentrata, il controllo di
legittimità sugli atti delle Province, dei Comuni e degli
altri enti locali».
Quando nel 1970 furono istituite, le Regioni con proprie
leggi diedero vita ai Comitati Regionali di Controllo (Co.Re.Co.)
in ogni Provincia, a cui i Comuni erano obbligati a inviare
i propri atti deliberativi per il controllo di legittimità.
L'articolo
9, comma secondo, della legge costituzionale n. 3 del
18.10.2001 ha abrogato l'articolo 130 della Costituzione
italiana, eliminando il controllo di legittimità sugli atti
degli Enti Locali.
Nel corso dell'anno successivo tutte le Regioni italiane
hanno provveduto a sciogliere i Co.Re.Co, per cui da quel
momento in poi il controllo di legittimità sugli atti è
stato esercitato internamente dai singoli dirigenti delle
Province e dei Comuni nelle materie di propria competenza,
con l'assurda coincidenza
di controllore e controllato.
L'abrogazione dell'articolo 130 della Costituzione e la
cancellazione delle leggi regionali istitutive dei Co.Re.Co.
hanno determinato una situazione paradossale nella vita
degli Enti Locali con gravissime conseguenze di ordine
politico e istituzionale.
In primo luogo, è stato davvero poco rispettoso dei principi
della democrazia alterare nella vita degli Enti Locali la
dialettica tra le forze politiche di maggioranza e quelle di
minoranza, privando queste ultime della possibilità di
richiedere ad un organo esterno il controllo di legittimità
sugli atti deliberativi assunti dalla maggioranza.
La funzione di controllo delle forze di minoranza è stata
del tutto azzerata, in quanto esse sono state private della
facoltà del controllo amministrativo e hanno avuto e tuttora
hanno a disposizione soltanto due strade: il ricorso
al Tribunale Amministrativo Regionale e/o la denuncia
all'Autorità Giudiziaria.
La prima strada non è affatto percorribile, in quanto richiede
cospicue risorse finanziarie, di cui non dispongono i gruppi
consiliari degli Enti Locali. La seconda strada
distorce gravemente la dialettica democratica, dirottando le
relazioni politiche tra maggioranza e opposizione sul piano
giudiziario. Il che ammorba il clima politico complessivo
locale con forte pregiudizio per il bene della Comunità.
In secondo luogo, è stato davvero irresponsabile privare gli
atti degli Enti Locali del controllo esterno di legittimità,
in quanto il condizionamento delle
mafie e della criminalità organizzata costituisce una
costante in quasi tutto il territorio nazionale
e, massimamente, nel Mezzogiorno d'Italia. Gli
amministratori locali, i dirigenti e i responsabili di
servizio sono stati lasciati soli di
fronte alle forti pressioni di gruppi criminali, a cui
spesso non si sottraggono per paura o, in alcuni casi, per
scelta.
In terzo luogo,
è stato del tutto deplorevole aver reso più semplice la
violazione di una serie di norme di regolamenti per una
gestione poco trasparente degli Enti Locali anche con gravi
risvolti corruttivi.
Noi Liberaldemocratici Italiani, per tutte queste ragioni,
proponiamo che nella prossima riforma faccia ritorno
l'articolo 130 della Costituzione Italiana (articolo
ItaliaOggi del 28.10.2023). |
dicembre 2022 |
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CONSIGLIERI COMUNALI: Il
consigliere comunale che vuole copia delle carte deve fornire Pec personale
e contratto. Va fornita la prova da cui risulti l'esclusiva intestazione a
suo nome della casella di posta certificata.
Con la
sentenza 30.12.2022 n. 1221, il TAR Piemonte, Sez. II, ha fornito
importanti chiarimenti sulla corretta gestione operativa dello speciale
diritto d'accesso del consigliere comunale.
Quest'ultimo non può limitarsi a indicare agli uffici un indirizzo di Pec
per la trasmissione della documentazione, ma deve trasmettere loro anche i
documenti contrattuali provenienti dal gestore del servizio da cui risulti
l'esclusiva intestazione a suo nome della casella di posta certificata. Ciò
indipendentemente dal nominativo 'leggibile' nell'indirizzo e salvo
che l'amministrazione intenda attivare una casella di posta appositamente
dedicata all'accesso del consigliere.
Secondo il giudice solo in questo modo può essere garantita l'effettiva
riconducibilità dell'indirizzo di spedizione al consigliere interessato; con
ogni correlata responsabilità anche in merito al corretto uso di tale
strumento informatico. L'eventuale successiva condivisione abusiva di
informazioni riservate o qualsiasi altra forma di uso non autorizzato di
tali dati ovvero esorbitante dalle finalità istituzionali rientra
nell'ambito delle condotte contrarie a legge di cui risponde il singolo
autore e che l'amministrazione può far valere nelle sedi competenti.
In merito alla posizione dell'amministrazione e agli oneri che sulla stessa
incombono per garantire il pieno diritto d'accesso del consigliere, le
informazioni riservate di cui quest'ultimo può venire a conoscenza devono
essere utilizzate solo per finalità pertinenti all'esercizio del mandato
conferito; e nel rigoroso rispetto del segreto d'ufficio e dei principi in
materia di privacy.
Con la conseguenza che il consigliere risponde sul piano penale civile ed
amministrativo di qualsiasi uso esorbitante da detti limiti e di ogni forma
di diffusione di dati non autorizzata; anche non volontaria o dovuta a
carente custodia degli stessi. In sede di accesso agli atti la trasmissione
di dati sensibili o informazioni riservate comporta in ogni caso a carico
dell'amministrazione specialmente se è implicato l'uso di strumenti
telematici l'onere di adottare corrispondenti misure per garantire la
legittimità del flusso di detti dati nell'ambito degli uffici e i soggetti
interessati tra i quali rientra anche il consigliere comunale.
Individuato il presupposto di ammissibilità il titolare del trattamento dei
dati di regola il Sindaco negli enti locali deve mettere in atto misure
tecniche ma anche organizzative adeguate a garantire, ed essere in grado di
dimostrare, che lo stesso viene effettuato conformemente alla normativa
sulla privacy; tenuto conto della natura, dell'ambito di applicazione, del
contesto e delle finalità del trattamento; nonché dei rischi per i diritti e
le libertà delle persone.
L'amministrazione dovrà quindi, per parte sua, implementare tutti gli
strumenti di tutela della riservatezza di cui è già dotata ma anche
adottarne nuovi per garantire il corretto trattamento delle informazioni
riservate da parte del consigliere comunale (articolo
NT+Enti Locali & Edilizia del 28.02.2023).
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SENTENZA
1. Con il presente ricorso la signora Si.Zi., eletta alla carica di
consigliere di minoranza del Comune di San Martino Canavese, agisce per
l’ottemperanza della
sentenza 01.03.2021 n. 215 di questo Tribunale, passata in giudicato,
nella parte in cui il predetto ente è stato condannato a consentire
l’accesso integrale ai dati di sintesi del protocollo informatico dell’ente
(ossia numero di registrazione al protocollo, data, mittente, destinatario,
modalità di acquisizione, oggetto), chiedendo la condanna
dell’amministrazione a dare corretta esecuzione alla pronuncia con piena
ostensione dei suddetti dati, nonché la nomina di un commissario ad acta
e la fissazione di una somma di denaro per ogni eventuale violazione o
inosservanza successiva, ai sensi dell’art. 114, comma 4-ter, lett. e), cod.
proc. amm.
2. Lamenta la ricorrente che l’amministrazione, invece di consentire
l’accesso integrale ai dati di sintesi, si sarebbe limitata a fornire solo
quelli riguardanti il periodo 20.10.2020–22.03.2021 e avrebbe oscurato
numerosi protocolli a far data dall’08.03.2021, in quanto dichiarati
riservati.
In particolare, l’ente ha precisato che gli oscuramenti sarebbero
stati finalizzati a garantire il corretto trattamento dei dati personali e
il rispetto della normativa in materia, avendo ad oggetto “annotazioni su
atti di Anagrafe, Stato Civile, comunicazioni provenienti da altre P.A.
relative ad indagini in corso od altro, sulle istanze e/o gli atti relativi
alla fruizione degli istituti previsti e disciplinati dalla Legge 104/1992”,
cioè dati “che non possono considerarsi in alcun modo attratti nella sfera
di necessaria conoscenza e/o conoscibilità che deve essere assicurata ai
Consiglieri Comunali” (cfr. doc. 8 della ricorrente).
3. A sostegno della domanda, la signora Zi. deduce la “violazione ed elusione del giudicato derivante dalla sentenza TAR Piemonte n. 215/2021”,
nonché la “nullità ex art 21-septies legge 241/1990 di ogni atto con essa
contrastante”, contestando sia la decisione dell’amministrazione di limitare
l’accesso ai dati di sintesi riguardanti il solo periodo successivo al
20.10.2020, stante la mancanza di alcuna plausibile giustificazione, sia la
sussistenza di motivi di riservatezza tali da poter limitare l’accesso del
consigliere comunale ai dati di sintesi, essendo questi vincolato al
segreto.
4. Si è costituito in giudizio il Comune di San Martino Canavese per
resistere al gravame, precisando, in sintesi, quanto segue:
- ottemperando alla sentenza de qua, l’amministrazione ha consegnato alla
ricorrente copia dei dati di sintesi del protocollo informatico relativi al
periodo dal 20.10.2020 al 22.03.2021 e da allora in avanti, con cadenza
settimanale, inoltrandoli all’indirizzo PEC dalla stessa all’uopo comunicato
(...@pec.it);
- alcuni dati riguardanti minori, procedimenti penali, separazioni/divorzi e
documenti pervenuti al Comune ma non riguardanti l’amministrazione della
cosa pubblica, sono stati oscurati al momento della registrazione al
protocollo, nel rispetto di quanto previsto dal Manuale di gestione
protocollo dell’ente, che impone di adottare misure atte a garantire la
riservatezza dei dati sensibili o la cui conoscenza possa arrecare danni a
terzi o al buon andamento dell’attività amministrativa;
- la ricorrente non avrebbe fornito alcuna garanzia che l’indirizzo pec
comunicato per la trasmissione dei dati fosse ad uso personale e non
condiviso con altri soggetti, in particolare con il marito di cui riporta
anche il cognome, nonostante le richieste formulate dal Comune;
- l’oscuramento di informazioni riservate si sarebbe reso necessario per
evitare, in assenza di una chiara dimostrazione dell’uso esclusivo e
riservato del suddetto indirizzo pec, l’eventuale responsabilità, in caso di
arbitraria divulgazione, del soggetto che ha effettuato la trasmissione
senza le adeguate garanzie, in violazione della normativa vigente in
materia;
- le informazioni che l’amministrazione non ha reso conoscibili non
rientrerebbero tra quelle cui il consigliere comunale ha diritto o necessità
di accedere per l’esercizio del mandato politico-amministrativo ricevuto;
- l’amministrazione avrebbe trasmesso i dati a partire dal 20.10.2020 poiché
così era stato indicato nell’istanza della ricorrente, sulla quale si è
pronunciata la sentenza da ottemperare e, dunque, in conformità a quest’ultima.
5. Le parti hanno scambiato scritti difensivi e, alla camera di consiglio
del 12.10.2022, la causa è stata trattenuta in decisione.
6. Il ricorso è fondato nei termini di seguito chiariti.
7. La questione centrale dibattuta nel presente giudizio attiene
all’estensione del diritto di accesso della signora Zi., nella sua qualità
di consigliere comunale, ai dati di sintesi del protocollo del Comune di San
Martino Canavese, dovendosi stabilire se sia legittimo che, a tutela della
riservatezza di dati sensibili e di diritti dei terzi, l’amministrazione
oscuri l’intera registrazione di protocollo trasmessa alla ricorrente o
parte di essa.
8. Rileva il Collegio come la questione sopra delineata sia stata già
esaminata nella sentenza n. 215/2021 di questo Tribunale, nella quale è dato
leggere quanto segue: “la difesa dell’amministrazione comunale ha contestato
che aderire alla richiesta della ricorrente significherebbe consentire un
accesso generalizzato e non controllato che travalicherebbe i confini della
proporzionalità e della ragionevolezza, che avrebbe ad oggetto anche dati
sensibili e soggetti a privacy, in assenza delle necessarie garanzie sul
trattamento dei dati personali, e notizie e documenti sottratti all’ambito
di esercizio delle funzioni del consigliere, in quanto afferenti ad attività
svolte dall’amministrazione per conto dello Stato e di altri soggetti
istituzionali.
Il Collegio non condivide queste obiezioni.
L’art. 43, c. 2, TUEL consente al consigliere comunale di accedere a tutte
le notizie e informazioni in possesso dell’amministrazione comunale,
ritenute utili all’espletamento del mandato. La richiesta presentata dalla
ricorrente ha ad oggetto non il contenuto della documentazione registrata al
protocollo ma i soli dati di sintesi: ciò è sufficiente ad escludere che
porti ad un accesso generalizzato e a un travalicamento dei limiti della
ragionevolezza e proporzionalità. Né costituisce ostacolo l’eventuale natura
riservata dei dati poiché il consigliere è vincolato al segreto d'ufficio.
Questa conclusione si pone in linea con la giurisprudenza maggioritaria che,
in più occasioni, ha affermato il diritto del consigliere ad accedere al
protocollo informatico dell’ente mediante password (Tar Sardegna, sent. n.
531/2018, n. 317/2019; Tar Campania, Salerno, sent. n. 545/2019, Tar
Basilicata, sent. n. 599/2019) o comunque mediante esibizione di copia
cartacea dei dati di sintesi del protocollo informatico (Tar Sicilia,
Catania, sent. n. 926/2020)”.
9. La pronuncia da ottemperare ha espressamente stabilito che il diritto di
accesso del consigliere comunale non è ostacolato, né limitato, dal
carattere “sensibile” delle informazioni oggetto dell’istanza ostensiva, in
considerazione del vincolo di segretezza –con le conseguenti responsabilità
civili, penali e amministrative– qualora egli prenda visione di atti e
documenti riservati che incidono sulla sfera giuridica e soggettiva di
terzi.
Una volta verificato che la sentenza in questione ha riconosciuto
alla ricorrente il diritto di accesso ai dati di sintesi del protocollo
anche se contenenti dati riservati, l’amministrazione è tenuta a consentirne
l’esercizio in termini integrali e senza oscuramenti.
La questione
controversa diviene, allora, l’individuazione di modalità di accesso o di
trasmissione della documentazione che consentano il necessario bilanciamento
tra il diritto del consigliere comunale e il rispetto delle disposizioni in
materia di tutela della privacy contenute nel Regolamento (UE) 2016/679
“relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento
dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati” e nel D.Lgs. n. 196/2003, come novellato dal D.Lgs. n. 101/2018.
Ritiene il Collegio che, ferma restando la decisione dell’amministrazione in
ordine alle concrete modalità di attuazione dell’accesso della consigliera
Zi. in base alle esigenze organizzative dell’ente (purché satisfattive di
tale diritto), possano in linea di principio ritenersi compatibili sia la
consegna brevi manu, sia la trasmissione della documentazione in via
telematica.
9.1. Nel primo caso, la richiedente ha l’onere di ritirare la documentazione
presso gli uffici comunali, nell’orario e nel giorno che, con cadenza
periodica, verrà indicato dall’amministrazione, tenuto conto del tempo
necessario all’estrazione delle copie e delle esigenze organizzative in
rapporto allo svolgimento delle normali attività comunali. Difatti, come
evidenziato nella sentenza n. 215/2021, l’esercizio del diritto di accesso
del consigliere non può avvenire a discapito della funzione pubblica, ma
deve “comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali”,
secondo un principio di bilanciamento che è volto a garantire il
soddisfacimento dell’esigenze conoscitive della ricorrente e il dovere di
adempiere correttamente alle funzioni proprie dell’ente.
9.2. Nel secondo caso, l’amministrazione può individuare a propria
discrezione modalità di invio dematerializzato della documentazione (tramite
pec, su supporto informatico da consegnare al richiedente, tramite
condivisione di files o utilizzando il cloud) conformemente a quanto
previsto dall’art. 2 del D.Lgs. n. 82/2005, secondo cui “(…) le autonomie
locali assicurano la disponibilità, la gestione, l'accesso, la trasmissione,
la conservazione e la fruibilità dell'informazione in modalità digitale e si
organizzano ed agiscono a tale fine utilizzando con le modalità più
appropriate le tecnologie dell'informazione e della comunicazione”.
Analogamente, l’amministrazione può provvedere –sempre, ripetesi,
nell’ambito delle proprie valutazioni discrezionali, purché satisfattive del
diritto di accesso della ricorrente– anche alla consegna alla signora Zi.
di apposita password che le consenta di effettuare l’accesso ai dati di
sintesi del protocollo tramite le dotazioni informatiche di pertinenza dei
consiglieri, se presenti, o da altra postazione in uso presso gli uffici,
oppure può disporre l’attivazione di un accesso da remoto tramite Vpn (Virtual
Private Network) o con altra modalità protetta.
10. La trasmissione alla ricorrente di dati sensibili o informazioni
riservate in sede di accesso agli atti comporta in ogni caso a carico
dell’amministrazione –specialmente se implica l’uso di strumenti telematici– l’onere di adottare adeguate misure per garantire la legittimità del
flusso di detti dati nell’ambito degli uffici e tra i soggetti interessati –tra i quali rientra, pertanto, anche il consigliere comunali che acceda a
contenuti riservati– in osservanza delle vigenti previsioni in materia di
tutela della privacy.
In questa prospettiva, ritiene il Collegio che l’art.
43 del D.Lgs. n. 267/2000, nel porre l’obbligo per il comune di rendere
accessibili i dati in proprio possesso ai consiglieri comunali, rappresenti
una delle norme di legge che permettono di trattare dati e informazioni
personali per il perseguimento di finalità istituzionali ovvero, come oggi
afferma l’art. 2 sexies del D.Lgs. n. 196/2003, per finalità “di interesse
pubblico rilevante”.
11. Individuato il presupposto di ammissibilità del trattamento dei dati, il
titolare del trattamento ai sensi del Regolamento (UE) 2016/679 –di regola
il Sindaco negli enti locali– “mette in atto misure tecniche e
organizzative adeguate per garantire, ed essere in grado di dimostrare, che
il trattamento è effettuato conformemente al presente regolamento”, tenuto
conto “della natura, dell'ambito di applicazione, del contesto e delle
finalità del trattamento, nonché dei rischi aventi probabilità e gravità
diverse per i diritti e le libertà delle persone fisiche” (cfr. art. 24 del
citato Regolamento).
L’amministrazione dovrà quindi, per parte sua,
implementare gli strumenti di tutela della privacy di cui è già dotata o
adottarne dei nuovi, al fine di garantire il corretto trattamento delle
informazioni riservate nell’ambito dell’esercizio del diritto di accesso
della signora Zi. nella sua qualità di consigliere comunale, anche
eventualmente nominandola quale soggetto “autorizzato” al trattamento dei
dati personali delle persone fisiche per l’esercizio di specifiche funzioni
riconducili all’art. 43 citato, figura prevista dall’art. 2-quaterdecies del
D.Lgs. n. 196/2003, con le correlate responsabilità.
12. Tanto chiarito in merito alla posizione dell’amministrazione e agli
oneri che sulla stessa incombono per garantire il pieno accesso della
ricorrente ai dati di sintesi del protocollo dell’ente, va rammentato che le
informazioni riservate di cui la signora Zi. possa venire a conoscenza
devono essere utilizzate solo per finalità pertinenti all’esercizio del
mandato conferito, nel rigoroso rispetto del segreto d’ufficio e dei
principi in materia di privacy, con la conseguenza che questa risponde, sul
piano penale, civile e amministrativo, di qualsiasi uso esorbitante da detti
limiti o di ogni forma di diffusione non autorizzata di dati sensibili,
anche non volontaria e dovuta a omessa o carente custodia degli stessi.
12.1. Ciò comporta che l’indicazione, da parte della ricorrente, di un
indirizzo di posta elettronica certificata per la trasmissione della
documentazione, unitamente all’allegazione dei documenti contrattuali
provenienti dal gestore del servizio da cui risulti l’esclusiva intestazione
a suo nome della casella di posta (indipendentemente dal nome riportato
nell’indirizzo e salvo che l’amministrazione intenda attivare una casella di
posta appositamente dedicata all’accesso della signora Zi.), è sufficiente
a garantire la riconducibilità di quest’ultima alla ricorrente medesima, con
ogni correlata responsabilità, di cui si è già detto, anche in merito al
corretto uso di tale strumento informatico.
12.2. L’eventuale successiva condivisione abusiva di informazioni riservate
o qualsiasi altra forma di uso non autorizzato di tali dati ed esorbitante
dalle finalità istituzionali rientra, pertanto, nell’ambito delle condotte
contrarie a legge, di cui risponde il singolo autore e che l’amministrazione
potrà far valere, ove lo ritenesse, presso le competenti sedi.
13. Passando all’esame della seconda questione sollevata in ricorso, ritiene
il Collegio che l’amministrazione debba consentire alla ricorrente l’accesso
ai dati di sintesi del protocollo senza limiti temporali, non a partire
dalla data del 20.10.2020 di presentazione dell’istanza di cui si
controverteva nel giudizio concluso con l’ottemperanda sentenza n. 215/2021.
L’art. 43 del D.Lgs. n. 267/2000, infatti, consente l’estensione di tale
diritto a qualsiasi atto ravvisato utile per l'esercizio delle funzioni
consiliari e, dunque, anche a quelli anteriori all’assunzione del mandato
elettivo.
14. In conclusione, il ricorso deve essere accolto nei termini sopra
chiariti, con obbligo dell’amministrazione di consentire alla consigliera
Zi. l’accesso integrale e senza oscuramenti ai dati di sintesi del
protocollo informatico del Comune di San Martino Canavese, come stabilito
dalla sentenza di questo Tribunale n. 215/2021, adottando ogni misura
organizzativa e tecnica che risulti possibile per consentire l’esercizio di
tale diritto nel rispetto degli obblighi di tutela della riservatezza e di
protezione dei dati sensibili di cui al D.Lgs. n. 196/2003 e al Regolamento
(UE) 2016/679.
15. Non si rinvengono, allo stato, i presupposti per la nomina di un
commissario ad acta e per la condanna al pagamento della ulteriore penalità
di mora di cui all’art. 114, comma 4, lett. e), cod. proc. amm., considerata
la peculiarità della materia, nonché la condotta dell’amministrazione e la
volontà della stessa manifestata, anche negli scritti difensivi, di dare
esecuzione con le adeguate garanzie al giudicato formatosi sulla sentenza di
cui è stata chiesta l’ottemperanza (TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 30.12.2022 n. 1221). |
settembre 2021 |
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CONSIGLIERI COMUNALI: Le
assenze da consigliere comunale devono avere valide giustificazioni.
Rimane precluso al lavoratore dipendente e consigliere,
al quale ai fini per cui è causa è assimilabile anche un appartenente
all'Arma dei Carabinieri sia pure posto in una posizione di elevato rango
nella gerarchia militare, compiere una sorta di autovalutazione sulla
prevalenza dell'interesse a prestare la propria ordinaria attività
lavorativa su quello a prendere parte alle sedute consiliari, atteso che
l'ordinamento rimette tale decisione al datore di lavoro e non al dipendente
direttamente.
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Con il ricorso introduttivo del presente giudizio il Tenente Colonnello
dell’Arma dei Carabinieri sig. Mi.Ru. ha impugnato, chiedendone
l’annullamento previa sospensione degli effetti, le delibere, unitamente ai
verbali, con cui il Consiglio comunale di Caiazzo ha disposto la sua
decadenza dalla carica di consigliere del Comune di Caiazzo e la surroga con
altro esponente per non aver preso parte alle sedute del consiglio del 28 e
30.12.2020 e del 03.03.2021;
Con nota dell’08.03.2021 il Sindaco del Comune di Caiazzo, preso atto delle
suddette assenze, ha comunicato al ricorrente l’avvio del procedimento di
decadenza dalla carica di consigliere.
Con nota del giorno successivo il Ten. Col Ru. ha rappresentato “che
nelle date del 28 e 30.12.2020 e 03.03.2021, è stato impossibilitato a
partecipare alle riunioni del Consiglio comunale in quanto, in qualità di
Tenente Colonnello dei Carabinieri, Capo Ufficio OAIO (Operazioni,
Informazioni, Addestramento e Ordinamento) della Divisione Unità
Specializzate Carabinieri in Roma, non ha potuto usufruire del permesso di
cui all’art. 79 del Decreto Legislativo n. 267/2000 a causa di primarie
esigenze di servizio”, aggiungendo, inoltre, “che la distanza
intercorrente tra i Comuni di Roma e Caiazzo, a causa dei considerevoli
tempi di percorrenza di andata/ritorno con autovettura/mezzo pubblico, non
consente di assentarsi dal Comando di appartenenza nella giornata lavorativa
limitatamente alla durata della riunione consiliare”.
Il ricorrente allegava alle proprie deduzioni la nota del 16.03.2021 con cui
il proprio superiore attestava che “nelle date del 28 e 30.12.2020,
nonché del 03.03.2021 il Tenente Colonnello Mi.Ru., Capo Ufficio OAIO di
questa Divisione Unità Specializzate Carabinieri è stato impegnato in
servizio”.
Nonostante le deduzioni prodotte, in data 02.04.2021 il Consiglio comunale
deliberava la decadenza del ricorrente dalla carica di consigliere comunale,
ritenendo non fondate le deduzioni prodotte dall’interessato.
Al fine di ricostituire la composizione dell’organo consiliare nei termini e
nei numeri stabiliti dalla Legge, nella seduta del 16/04/2021, ha deliberato
di procedere alla surroga del consigliere ricorrente con il dott. An.Co..
Avverso i provvedimenti sopra menzionati parte ricorrente ha dedotto: ...
...
Oggetto dell’odierno giudizio sono i provvedimenti con i quali il Consiglio
comunale di Caiazzo ha dichiarato la decadenza del ricorrente dalla carica
di consigliere, per non aver preso parte a tre sedute consecutive del
consiglio e, poi, ha disposto la surroga del ricorrente con altro esponente.
Avverso tali atti parte ricorrente eccepisce il difetto di motivazione della
delibera di decadenza e l’infondatezza della stessa perché non avrebbe
tenuto conto che il sig. Ru. era chiamato ad espletare importanti impegni di
servizio per l’Arma dei Carabinieri, come da attestazioni proprie e del
proprio superiore che il Comune convenuto avrebbe giudicato insufficienti
senza motivazione. Il sig. Ru. lamenta poi l’illegittimità derivata della
delibera di surroga e l’eccesso di potere per una pretesa discriminazione
che essa determinerebbe ai propri danni.
I rilievi, che per la loro connessione possono essere esaminati
congiuntamente, sono complessivamente infondati.
L’art. 79 del d.Lgs. 267/2000 stabilisce che «i lavoratori dipendenti,
pubblici e privati, componenti dei consigli comunali, provinciali,
metropolitani, delle comunità montane e delle unioni di comuni, nonché dei
consigli circoscrizionali dei comuni con popolazione superiore a 500.000
abitanti, hanno diritto di assentarsi dal servizio per il tempo strettamente
necessario per la partecipazione a ciascuna seduta dei rispettivi consigli e
per il raggiungimento del luogo di suo svolgimento».
Ai sensi dell’art. 43, co. 4, del d.lgs. n. 267/2000 “Lo statuto
stabilisce i casi di decadenza per la mancata partecipazione alle sedute e
le relative procedure, garantendo il diritto del consigliere a far valere le
cause giustificative”.
L’art. 32 dello Statuto comunale stabilisce che una volta avviato il
procedimento «il Consigliere ha la facoltà di far rilevare le cause
giustificative delle assenze, nonché a fornire al Sindaco eventuali
documenti probatori, entro il termine indicato nella comunicazione scritta,
che comunque non può essere inferiore a giorni 20 decorrenti dalla data del
ricevimento. Scaduto quest’ultimo termine, il Consiglio esamina ed infine
delibera tenuto adeguata-mente conto delle cause giustificative presentate
da parte del Consigliere interessato».
In questo quadro normativo la gravata delibera approvata dal Consiglio
comunale risulta puntualmente motivata, atteso che reca in allegato la
proposta sulla quale il Consiglio si è espresso a maggioranza e che indica
specificamente le ragioni per le quali ha ravvisato i presupposti per
dichiarare la decadenza del ricorrente.
Ed infatti, si legge nella proposta approvata che la motivazione addotta dal
ricorrente è stata ritenuta non sufficiente per la “genericità delle
cause giustificative delle assenze, perché legate ad attività “ordinarie” e
non eccezionali di lavoro, rispetto alle quali il TUEL prevede specifici
permessi idonei proprio ad assicurare la presenza assidua ai lavori del
Consesso ed a garantire, quindi, lo svolgimento del mandato elettorale nel
rispetto della fiducia attribuita ad ogni singolo Consigliere dai cittadini;
ad abundantiam, ulteriore motivazione è altresì la fondamentale importanza
degli argomenti agli o.d.g. delle tre sedute consiliari in cui il
Consigliere è risultato assente, laddove quindi la presenza era richiesta
come necessario ed indispensabile momento di esercizio del munus publicum”.
Sul punto la giurisprudenza ha affermato che «non può ritenersi
giustificata l'assenza alle sedute consiliari per motivi di lavoro, in
quanto la ricorrente, essendo una lavoratrice subordinata, ai sensi degli
artt. 79 e 80 D.Lgs. n. 267 del 2000 ha diritto ad assentarsi dal lavoro con
permesso retribuito per la partecipazione a ciascuna seduta del Consiglio
Comunale» (TAR Basilicata, sez. I, n. 236/2021).
Nel caso di specie dall’attestazione rilasciata dal superiore gerarchico del
ricorrente risulta esclusivamente che il sig. Ru. era presente a lavoro,
senza, tuttavia, indicare alcuna specifica esigenza di servizio che avrebbe
motivato il diniego del permesso alla partecipazione; anzi non risulta che
il ricorrente abbia effettivamente richiesto all’Arma la possibilità di
assentarsi dal lavoro per prendere parte alla seduta del Consiglio comunale
di Caiazzo.
Ne consegue che è stato il ricorrente in via autonoma a ritenere prevalenti
le esigenze di servizio rispetto a quelle di prendere parte alle sedute del
Consiglio comunale, per cui seppure non possa concludersi nel senso che egli
abbia manifestato disinteresse rispetto alla partecipazione all’attività
dell’organo, può comunque affermarsi che egli abbia ritenuto prevalente
l’interesse a prestare la propria attività lavorativa ordinaria rispetto
alla partecipazione alle sedute del Consiglio, laddove il sistema prevede
che il dipendente (pubblico o privato), eletto alla carica di consigliere
comunale, abbia diritto ad assentarsi dal lavoro fruendo dei relativi
permessi ex lege e sia, anzi tenuto a richiedere al proprio datore di
assentarsi, salvo che sussistano prevalenti esigenze di servizio che siano
attestate dal proprio ente datoriale.
Ciò che quindi rimane precluso al lavoratore dipendente, al quale ai fini
per cui è causa è assimilabile anche un appartenente all’Arma dei
Carabinieri sia pure posto in una posizione di elevato rango nella gerarchia
militare, è compiere una sorta di autovalutazione sulla prevalenza
dell’interesse a prestare la propria ordinaria attività lavorativa su quello
a prendere parte alle sedute consiliari, atteso che l’ordinamento rimette
tale decisione al datore di lavoro e non al dipendente direttamente, il
quale, partecipando alla competizione elettorale e avendo acquisito la
carica di consigliere, deve ritenersi, comunque, tenuto a richiedere i
permessi necessari a svolgere il proprio incarico rappresentativo.
Deve quindi ritenersi che la valutazione in ordine alla decadenza del
ricorrente operata dal Consiglio comunale di Caiazzo sia immune dai vizi
denunciati, in quanto dotata di una motivazione congrua individuata
nell’assenza dei presupposti legali per assentarsi dalle sedute consiliari,
in linea con il quadro dei principi normativi e giurisprudenziali sopra
brevemente illustrato.
Ne consegue che anche la delibera di surroga sia legittima, atteso che il
Consiglio era tenuto a procedere alla sostituzione del ricorrente dichiarato
decaduto con altro esponente, senza che in tale attività sia ravvisabile
alcuna discriminazione ai danni del ricorrente, trattandosi, anzi di un atto
dovuto e volto a garantire la continuità di funzionamento dell’organo.
In definitiva tutte le censure si appalesano infondate e il ricorso deve
conseguentemente essere respinto
(TAR Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 14.09.2021 n. 5884 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
giugno 2021 |
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ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: La
giurisprudenza amministrativa è unanime nell’affermare che i consiglieri
comunali vantano un incondizionato diritto di accesso –prevalente anche
sull’eventuale diritto alla riservatezza dei terzi coinvolti dalle istanze ostensive, tenuto conto del
segreto d’ufficio cui gli stessi sono tenuti- a tutti gli atti che possono
essere utili all'espletamento delle loro funzioni.
Ciò anche al fine di valutare la correttezza e l'efficacia dell'operato
dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle
questioni di competenza del Consiglio oltre che per promuovere, nell'ambito
di quest’ultimo, tutte le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti
del corpo elettorale locale.
Il diritto di cui all’art. 43 citato T.U.E.L. presenta, dunque, una ratio
diversa da quella che contraddistingue l’accesso ai documenti amministrativi
di cui agli artt. 22 e ss. L. n. 241/1990 -riconosciuto a chiunque sia
portatore di un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è
chiesto l'accesso- in quanto strettamente funzionale all'esercizio del munus pubblico di consigliere comunale e, quindi, alla verifica ed al
controllo dell’operato degli organi decisionali dell'ente locale, quale
espressione del principio democratico dell'autonomia locale e della
rappresentanza esponenziale della collettività.
Siffatto diritto, quindi, al fine di «evitare che sia la stessa
Amministrazione a diventare arbitro dell'ambito del controllo sul proprio
operato […] non incontra alcuna limitazione in relazione alla eventuale
natura riservata degli atti, stante il vincolo al segreto d'ufficio ex art.
622 cod. pen., e alla necessità di fornire la motivazione della richiesta.
In definitiva gli unici limiti all'esercizio del diritto di accesso dei
consiglieri comunali possono rinvenirsi, per un verso, nel fatto che esso
deve avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli
uffici comunali e, per altro verso, che esso non deve sostanziarsi in
richieste assolutamente generiche ovvero meramente emulative, fermo restando
tuttavia che la sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente e
approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre
surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto stesso».
Ancor più di recente è stato ribadito che: «La giurisprudenza, con un
sufficiente grado di stabilità, ha ritenuto che i consiglieri comunali hanno
un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere
d'utilità all'espletamento del loro mandato, ciò anche al fine di permettere
di valutare, con piena cognizione, la correttezza e l'efficacia dell'operato
dell'amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle
questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell'ambito
del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti
del corpo elettorale locale.
Di conseguenza sul consigliere comunale non può gravare alcun particolare
onere di motivare le proprie richieste di accesso, atteso che, diversamente
opinando, sarebbe introdotto una sorta di controllo dell'ente, attraverso i
propri uffici, sull'esercizio del mandato del consigliere comunale; dal
termine "utili" contenuto nel prima ricordato art. 43 non può conseguire
alcuna limitazione al diritto di accesso dei consiglieri comunali, detto
aggettivo servendo in realtà a garantire l'estensione di tale diritto di
accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per l'esercizio del mandato.
Ciò in quanto il diritto di accesso del consigliere comunale
non riguarda solamente le competenze attribuite al Consiglio comunale, ma,
essendo riferito all'espletamento del mandato, investe l'esercizio del munus
in tutte le sue potenziali implicazioni, al fine di consentire la
valutazione della correttezza ed efficacia dell'operato dell'amministrazione
comunale.
Corollario di tale impostazione è che non può essere legittimamente opposto
un diniego sull'istanza di accesso dei consiglieri motivato con riferimento
alla esigenza di assicurare la riservatezza dei dati contenuti nei documenti
richiesti e dunque il diritto alla privacy di soggetti terzi, in quanto, con
riguardo all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali, tale
esigenza è salvaguardata dall'art. 43, comma 2, dello stesso d.lgs. n. 267
del 2000, che impone ad essi il segreto ove accedano ad atti che incidono
sulla sfera giuridica e soggettiva di terzi.
La natura del diritto (soggettivo pubblico) di accesso dei consiglieri
comunali e le prerogative allo stesso connesse comporta, per un'esigenza di
coerenza dell'ordinamento, riflessi anche sul piano processuale, invero in
poche occasioni approfonditi in sede applicativa, ma che inducono a
condividere l'assunto dell'appellante, secondo cui nella materia
dell'accesso dei consiglieri comunali non è configurabile una posizione di
controinteresse in capo al soggetto portatore dell'interesse alla
riservatezza.
Si intende cioè osservare che, non contemplando il diritto di accesso del
consigliere comunale i vincoli e le limitazioni previsti dalla disciplina
generale di cui alla legge n. 241 del 1990 (ed in particolare quelli
relativi alla riservatezza dei terzi), neppure in sede processuale assume
rilievo la posizione del terzo che potrebbe opporsi all'accesso, e pertanto
non è configurabile alcun controinteressato».
...
L’applicazione dei principi testé esposti al caso in esame conduce
all’accertamento giurisdizionale del diritto degli odierni ricorrenti ad
avere accesso, per come dagli stessi richiesto, a tutti gli atti e documenti
di cui ai fascicoli edilizi, di condono edilizio e di vigilanza edilizia
relativi al complesso immobiliare di proprietà -OMISSIS-, in Catasto al
-OMISSIS-, -OMISSIS-, in quanto oggetto di una segnalazione in ordine a
possibili abusi e ciò allo scopo di vigilare in ordine alla correttezza
dell’attività amministrativa fin qui posta in essere.
L’istanza ostensiva in parola, oltre a soddisfare la ratio legis sottesa
all’art. 43, comma 2, citato T.U.E.L. è, inoltre, assentibile anche in quanto
precisa, puntuale e, come tale, non comportante alcun aggravio per gli
uffici comunali i quali ben possono –rectius devono- evaderla senza alcun
differimento di sorta.
Il sostanziale rifiuto di evadere la richiesta ostensiva in questione non
può, peraltro, trovare giustificazione nell’asserita esistenza -peraltro
evidenziata soltanto in giudizio dalla difesa dell’ente– del segreto
istruttorio di cui all’art. art. 329, comma 1, c.p.p.
Ed invero, innanzitutto, dalla produzione documentale agli atti del giudizio
si evince la mera pendenza, avuto riguardo al compendio immobiliare
-OMISSIS-, di un procedimento di vigilanza urbanistico-edilizia, azionato
dall’Ufficio Tecnico comunale in sinergia con la Polizia Municipale,
rientrante nell’ordinaria sfera di competenza dell’ente locale, secondo
quanto disposto dall’art. 27, comma 1, D.P.R. n. 380/2001, a norma del quale:
«Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale esercita,
anche secondo le modalità stabilite dallo statuto o dai regolamenti
dell'ente, la vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio
comunale per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di
regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità
esecutive fissate nei titoli abilitativi».
Risulta, inoltre, che l’amministrazione stia valutando le risultanze di
siffatta attività di vigilanza a valle della quale redigerà una
relazione finale in cui darà conto degli eventuali abusi riscontrati e
dell’eventuale rilevanza penale degli stessi, con i connessi obblighi di
informazione nei confronti dell’Autorità Giudiziaria penale.
L’attività di vigilanza in parola, non essendo qualificabile in termini
di attività di indagine penale, tale dovendosi ritenere, a mente dell’art.
329 c.p.p., esclusivamente quella compiuta dal “pubblico ministero e dalla
polizia giudiziaria”, è doverosamente ostensibile, per le ragioni sopra
esposte, nei confronti dei consiglieri comunali istanti.
A tale conclusione si dovrebbe giungere anche nel caso in cui, a valle della
chiusura di siffatto procedimento amministrativo di vigilanza, l’ente
dovesse determinarsi a trasmettere all’Autorità Giudiziaria Penale i
relativi atti istruttori e provvedimentali, successivamente adottati.
Ed invero, l’eventuale migrazione di tali atti nel fascicolo del
procedimento penale che dovesse essere, conseguentemente, avviato non
sarebbe idonea a modificare la natura “amministrativa” degli accertamenti
compiuti dall’ente i quali, non essendo stati realizzati né dal pubblico
ministero né dalla polizia giudiziaria, continuerebbero a rimanere
ostensibili dal Comune anche in pendenza di siffatto procedimento penale,
giacché non “coperti” dal cd. segreto istruttorio di cui all’art. 329 c.p.p.
Quanto sopra trova riscontro in quel condivisibile orientamento anche di
questo Tribunale, secondo cui «L'esistenza di un'indagine penale non
implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti
che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di
indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli
coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso.
Infatti, soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia
giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai
sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da una
pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale sono
atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di
vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo
l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque,
restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto che non intervenga
uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non
può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso garantito
all'interessato dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna
delle ipotesi di cui all'art. 24, 1. n. 241 del 1990"».
---------------
... per l’annullamento:
- della nota prot. n. 9372 del 22.02.2021, a firma del Dirigente
Arch. Ma. Di St., di diniego dell'istanza di accesso agli atti;
- della nota prot. n. 10003 del 24.02.2021 a firma del Dirigente
Arch. Ma. Di St., di diniego dell'istanza di accesso agli atti e di
conclusione del procedimento.
per l'accertamento:
- dell’illegittimità del diniego di accesso agli atti;
e per la condanna:
- dell'Amministrazione intimata a consentire l'accesso mediante
visione ed estrazione di copie di atti e documenti relativi alla richiesta
formulata in data 18.11.2020, prot. n. 52706.
...
1. Con ricorso tempestivamente notificato e depositato in data 24.03.2021, i ricorrenti, nella espressa qualità di consiglieri comunali del
Comune di Cerveteri, mercé l’impugnazione delle note comunali in epigrafe
indicate, di contenuto sostanzialmente reiettivo, hanno chiesto
l’accertamento giurisdizionale del proprio diritto ad avere accesso, ai
sensi dell’art. 43, comma 2, D.lgs. n. 267/2002, ai documenti amministrativi
appresso indicati, relativi a taluni interventi edilizi, residenziali e non,
insistenti nel territorio comunale di Cerveteri, in area contraddistinta al
-OMISSIS-, -OMISSIS-(località -OMISSIS- di -OMISSIS-) di proprietà della
famiglia -OMISSIS-, in quanto oggetto di segnalazioni anonime che ne
denunciano il carattere abusivo:
1) Visura e copia conforme originale della regolare licenza di
costruzione degli immobili realizzati sulla -OMISSIS--OMISSIS- in località
-OMISSIS- di -OMISSIS- nella via di -OMISSIS- del Comune di Cerveteri (come
da piantina allegata alla segnalazione denuncia);
2) Visura e copia conforme originale di eventuale condono o condoni
inerenti gli immobili realizzati sulla -OMISSIS--OMISSIS- in località
-OMISSIS- di -OMISSIS- nella via di -OMISSIS- del Comune di Cerveteri (come
da piantina allegata alla segnalazione denuncia);
3) Visura e copia conforme originale di eventuali verbali di
sopralluogo della polizia edilizia (Polizia locale), avvenuto accertamento,
sanzioni e ordinanze con relativa trasmissione alle Autorità di competenza
inerenti ai presunti abusi edilizi, riguardanti varie costruzioni
residenziali e non presenti su -OMISSIS--OMISSIS- in località -OMISSIS- di
-OMISSIS- nella via di -OMISSIS- del Comune di Cerveteri (come da piantina
allegata alla segnalazione denuncia);
4) Visura e copia conforme originale di eventuali procedure e
azioni finalizzate alla demolizione e/o all’acquisizione al Patrimonio
Pubblico, messe in atto dal competente Ufficio Urbanistica e dalla Polizia
Locale di Cerveteri, inerenti i presunti abusi edilizi riguardanti varie
costruzioni residenziali e non presenti su -OMISSIS--OMISSIS- in località
-OMISSIS- di -OMISSIS- nella via di -OMISSIS- del Comune di Cerveteri (come
da piantina in allegato presente nella pervenuta segnalazione denuncia);
5) Visura e copia conforme originale, se esistenti, di eventuali
ordinanze, procedure, denunce, atti e/o azioni con i quali, a fronte della
eventuale constatazione di presunti abusi edilizi, riguardanti varie
costruzioni residenziali e non presenti su -OMISSIS--OMISSIS- in località
-OMISSIS- di -OMISSIS- nella via di -OMISSIS- del Comune di Cerveteri, sono
stati perseguiti gli eventuali responsabili debitamente individuati dai
soggetti coinvolti e dalle competenti Autorità.
2. A fronte dell’istanza in parola, l’amministrazione comunale forniva ai
ricorrenti dati ed informazioni ritenuti parziali rispetto all’oggetto di
ostensione.
Più precisamente, a mezzo pec del 24.02.2021, il Responsabile della
Polizia Municipale informava i ricorrenti che gli accertamenti in ordine a
possibili violazioni della vigente disciplina urbanistico-edilizia nell’area
del territorio comunale attenzionata erano ancora in corso e che si era in
attesa che l’Ufficio Tecnico, a valle dell’attività di vigilanza, redigesse
una relazione finale ricognitiva dell’esistenza di eventuali abusi che, ove
esistenti, sarebbero stati perseguiti, mediante l’adozione delle correlate
misure di cui gli istanti sarebbero stati informati.
3. Il gravame risulta affidato a plurimi motivi di diritto, tutti
sostanzialmente tendenti all’affermazione del proprio diritto, nella qualità
di consiglieri comunali, ad avere accesso incondizionato a tutti gli atti
richiesti, attinenti la realizzazione di possibili abusi edilizi, in quanto
utili all’espletamento del loro mandato, anche al fine di vigilare sulla
correttezza, trasparenza ed efficienza dell’agere dell’ente locale, secondo
quanto previsto dall’art. 43, comma 2, D.lgs. n. 267/2000 (T.U.E.L.).
4. Il Comune di Cerveteri ha resistito al gravame mediante articolate
deduzioni difensive, tendenti a contestare il diritto dei ricorrenti ad
avere accesso agli atti dei fascicoli edilizi relativi agli interventi
attenzionati dall’amministrazione, all’uopo opponendo, per un verso,
l’inesistenza di parte della documentazione richiesta, avuto specifico
riguardo alle misure sanzionatorie eventualmente già adottate, e, per
l’altro, il segreto istruttorio cui sarebbero tenuti la Polizia Municipale e
l’Ufficio Urbanistica in relazione agli accertamenti in corso.
5. In data 21.05.2021, la difesa dell’ente ha depositato nota prot. n. 25063
del 20.05.2021, con cui il Comandante della Polizia Municipale ha notiziato
i ricorrenti in ordine alle date dei sopralluoghi effettuati, congiuntamente
a personale dell’Ufficio Tecnico, presso il complesso edilizio di proprietà
-OMISSIS-, tra i -OMISSIS-, ribandendo il differimento dell’accesso
all’esito dell’elaborazione delle relative risultanze che sarebbero state
compendiate nella “specifica relazione tecnica” finale.
6. In occasione della camera di consiglio dell’01.06.2021, in vista della
quale i ricorrenti hanno insistito nelle proprie richieste ostensive,
ritenendole non soddisfatte dalle comunicazioni interlocutorie inoltrate
dall’amministrazione, la causa è stata trattenuta in decisione.
7. Il ricorso è fondato.
8. L’accertamento del diritto dei consiglieri comunali, odierni ricorrenti,
ad avere accesso a tutti gli atti e documenti amministrativi richiesti, di
fatto coincidenti con tutti quelli inerenti i fascicoli edilizi, di condono
edilizio nonché di vigilanza edilizia relativi agli edifici di proprietà
-OMISSIS-, insistenti sull’area contraddistinta in Catasto al -OMISSIS-,
-OMISSIS- del territorio comunale di Cerveteri, passa dalla preliminare
ricognizione della ratio sottesa alla disposizione normativa di cui all’art.
43, comma 2, D.lgs. n. 267/2000, a norma della quale «I consiglieri comunali e
provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del
comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti,
tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento
del proprio mandato. Essi sono tenuti al segreto nei casi specificamente
determinati dalla legge».
Sul punto, la giurisprudenza amministrativa, condivisa dal Collegio, è
unanime nell’affermare che i consiglieri comunali vantano un incondizionato
diritto di accesso –prevalente anche sull’eventuale diritto alla
riservatezza dei terzi coinvolti dalle istanze ostensive, tenuto conto del
segreto d’ufficio cui gli stessi sono tenuti- a tutti gli atti che possono
essere utili all'espletamento delle loro funzioni.
Ciò anche al fine di valutare la correttezza e l'efficacia dell'operato
dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle
questioni di competenza del Consiglio oltre che per promuovere, nell'ambito
di quest’ultimo, tutte le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti
del corpo elettorale locale.
8.1 Il diritto di cui all’art. 43 citato T.U.E.L. presenta, dunque, una ratio
diversa da quella che contraddistingue l’accesso ai documenti amministrativi
di cui agli artt. 22 e ss. L. n. 241/1990 -riconosciuto a chiunque sia
portatore di un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è
chiesto l'accesso- in quanto strettamente funzionale all'esercizio del munus pubblico di consigliere comunale e, quindi, alla verifica ed al
controllo dell’operato degli organi decisionali dell'ente locale, quale
espressione del principio democratico dell'autonomia locale e della
rappresentanza esponenziale della collettività.
Siffatto diritto, quindi, al fine di «evitare che sia la stessa
Amministrazione a diventare arbitro dell'ambito del controllo sul proprio
operato […] non incontra alcuna limitazione in relazione alla eventuale
natura riservata degli atti, stante il vincolo al segreto d'ufficio ex art.
622 cod. pen., e alla necessità di fornire la motivazione della richiesta.
In definitiva gli unici limiti all'esercizio del diritto di accesso dei
consiglieri comunali possono rinvenirsi, per un verso, nel fatto che esso
deve avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli
uffici comunali e, per altro verso, che esso non deve sostanziarsi in
richieste assolutamente generiche ovvero meramente emulative, fermo restando
tuttavia che la sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente e
approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre
surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto stesso» (così TAR
Sicilia, Catania, sez. I, 04/05/2020, n. 926; cfr. anche, TAR Piemonte,
Torino, sez. II, 01/03/2021, n. 215; TAR Emilia Romagna, Parma, sez. I,
20/01/2020, n. 16).
Ancor più di recente è stato ribadito che: «La giurisprudenza, con un
sufficiente grado di stabilità, ha ritenuto che i consiglieri comunali hanno
un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere
d'utilità all'espletamento del loro mandato, ciò anche al fine di permettere
di valutare, con piena cognizione, la correttezza e l'efficacia dell'operato
dell'amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle
questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell'ambito
del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti
del corpo elettorale locale.
Di conseguenza sul consigliere comunale non può
gravare alcun particolare onere di motivare le proprie richieste di accesso,
atteso che, diversamente opinando, sarebbe introdotto una sorta di controllo
dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio del mandato del
consigliere comunale; dal termine "utili" contenuto nel prima ricordato art.
43 non può conseguire alcuna limitazione al diritto di accesso dei
consiglieri comunali, detto aggettivo servendo in realtà a garantire
l'estensione di tale diritto di accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per
l'esercizio del mandato (così, tra le tante, Cons. Stato, V, 17.09.2010, n. 6963).
Ciò in quanto il diritto di accesso del consigliere comunale
non riguarda solamente le competenze attribuite al Consiglio comunale, ma,
essendo riferito all'espletamento del mandato, investe l'esercizio del munus
in tutte le sue potenziali implicazioni, al fine di consentire la
valutazione della correttezza ed efficacia dell'operato dell'amministrazione
comunale.
Corollario di tale impostazione è che non può essere legittimamente opposto
un diniego sull'istanza di accesso dei consiglieri motivato con riferimento
alla esigenza di assicurare la riservatezza dei dati contenuti nei documenti
richiesti e dunque il diritto alla privacy di soggetti terzi, in quanto, con
riguardo all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali, tale
esigenza è salvaguardata dall'art. 43, comma 2, dello stesso d.lgs. n. 267
del 2000, che impone ad essi il segreto ove accedano ad atti che incidono
sulla sfera giuridica e soggettiva di terzi (Cons. Stato, V, 11.12.2013, n. 5931).
La natura del diritto (soggettivo pubblico) di accesso dei consiglieri
comunali e le prerogative allo stesso connesse comporta, per un'esigenza di
coerenza dell'ordinamento, riflessi anche sul piano processuale, invero in
poche occasioni approfonditi in sede applicativa, ma che inducono a
condividere l'assunto dell'appellante, secondo cui nella materia
dell'accesso dei consiglieri comunali non è configurabile una posizione di
controinteresse in capo al soggetto portatore dell'interesse alla
riservatezza.
Si intende cioè osservare che, non contemplando il diritto di accesso del
consigliere comunale i vincoli e le limitazioni previsti dalla disciplina
generale di cui alla legge n. 241 del 1990 (ed in particolare quelli
relativi alla riservatezza dei terzi), neppure in sede processuale assume
rilievo la posizione del terzo che potrebbe opporsi all'accesso, e pertanto
non è configurabile alcun controinteressato» (così Consiglio di Stato sez.
V, 19/04/2021, n. 3161).
9. L’applicazione dei principi testé esposti al caso in esame conduce
all’accertamento giurisdizionale del diritto degli odierni ricorrenti ad
avere accesso, per come dagli stessi richiesto, a tutti gli atti e documenti
di cui ai fascicoli edilizi, di condono edilizio e di vigilanza edilizia
relativi al complesso immobiliare di proprietà -OMISSIS-, in Catasto al
-OMISSIS-, -OMISSIS-, in quanto oggetto di una segnalazione in ordine a
possibili abusi e ciò allo scopo di vigilare in ordine alla correttezza
dell’attività amministrativa fin qui posta in essere (in tema di accesso dei
consiglieri comunali agli atti di cui alle pratiche edilizie, si veda TAR
Puglia, Bari, sez. III, 04/06/2019, n. 795).
10. L’istanza ostensiva in parola, oltre a soddisfare la ratio legis sottesa
all’art. 43, comma 2, citato T.U.E.L. è, inoltre, assentibile anche in quanto
precisa, puntuale e, come tale, non comportante alcun aggravio per gli
uffici comunali i quali ben possono –rectius devono- evaderla senza alcun
differimento di sorta.
Il sostanziale rifiuto di evadere la richiesta ostensiva in questione non
può, peraltro, trovare giustificazione nell’asserita esistenza -peraltro
evidenziata soltanto in giudizio dalla difesa dell’ente– del segreto
istruttorio di cui all’art. art. 329, comma 1, c.p.p.
Ed invero, innanzitutto, dalla produzione documentale agli atti del giudizio
si evince la mera pendenza, avuto riguardo al compendio immobiliare
-OMISSIS-, di un procedimento di vigilanza urbanistico-edilizia, azionato
dall’Ufficio Tecnico comunale in sinergia con la Polizia Municipale,
rientrante nell’ordinaria sfera di competenza dell’ente locale, secondo
quanto disposto dall’art. 27, comma 1, D.P.R. n. 380/2001, a norma del quale:
«Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale esercita,
anche secondo le modalità stabilite dallo statuto o dai regolamenti
dell'ente, la vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio
comunale per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di
regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità
esecutive fissate nei titoli abilitativi».
Risulta, inoltre, che l’amministrazione stia valutando le risultanze di
siffatta attività di vigilanza, espletata nel corso dei sopralluoghi del
18.02.2021, 04.03.2001 e 20.05.2001, a valle della quale redigerà una
relazione finale in cui darà conto degli eventuali abusi riscontrati e
dell’eventuale rilevanza penale degli stessi, con i connessi obblighi di
informazione nei confronti dell’Autorità Giudiziaria penale.
10.1 L’attività di vigilanza in parola, non essendo qualificabile in termini
di attività di indagine penale, tale dovendosi ritenere, a mente dell’art.
329 c.p.p., esclusivamente quella compiuta dal “pubblico ministero e dalla
polizia giudiziaria”, è doverosamente ostensibile, per le ragioni sopra
esposte, nei confronti dei consiglieri comunali istanti.
A tale conclusione si dovrebbe giungere anche nel caso in cui, a valle della
chiusura di siffatto procedimento amministrativo di vigilanza, l’ente
dovesse determinarsi a trasmettere all’Autorità Giudiziaria Penale i
relativi atti istruttori e provvedimentali, successivamente adottati.
Ed invero, l’eventuale migrazione di tali atti nel fascicolo del
procedimento penale che dovesse essere, conseguentemente, avviato non
sarebbe idonea a modificare la natura “amministrativa” degli accertamenti
compiuti dall’ente i quali, non essendo stati realizzati né dal pubblico
ministero né dalla polizia giudiziaria, continuerebbero a rimanere
ostensibili dal Comune anche in pendenza di siffatto procedimento penale,
giacché non “coperti” dal cd. segreto istruttorio di cui all’art. 329 c.p.p.
Quanto sopra trova riscontro in quel condivisibile orientamento anche di
questo Tribunale, secondo cui «L'esistenza di un'indagine penale non
implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti
che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di
indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli
coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso.
Infatti, soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia
giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai
sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da una
pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale sono
atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di
vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo
l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque,
restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto che non intervenga
uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non
può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso garantito
all'interessato dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna
delle ipotesi di cui all'art. 24, 1. n. 241 del 1990" (TAR Catania,
(Sicilia) sez. III, 01/02/2017, n. 229)» (così TAR Lazio-Roma, sez. II,
02/01/2020, n. 4).
11. Sulla scorta delle superiori considerazioni, il ricorso è fondato, con
conseguente accertamento del diritto dei consiglieri comunali ricorrenti ad
avere visione ed estrarre copia degli atti e documenti richiesti con
l’istanza del 18.11.2020, prot. n. 52706 appresso indicati, ove esistenti:
- Visura e copia conforme originale della regolare licenza di
costruzione degli immobili realizzati sulla -OMISSIS--OMISSIS- in località
-OMISSIS- di -OMISSIS- nella via di -OMISSIS- del Comune di Cerveteri (come
da piantina allegata pervenuta segnalazione denuncia);
- Visura e copia conforme originale di eventuale condono o condoni
inerenti gli immobili realizzati sulla -OMISSIS--OMISSIS- in località
-OMISSIS- di -OMISSIS- nella via di -OMISSIS- del Comune di Cerveteri (come
da piantina allegata alla segnalazione denuncia);
- Visura e copia conforme all’originale di tutti i verbali relativi
ai sopralluoghi fin qui posti in essere presso gli immobili realizzati sulla
-OMISSIS--OMISSIS- in località -OMISSIS- di -OMISSIS- nella via di
-OMISSIS- del Comune di Cerveteri, allo stato indicati dal Comune in
relazione degli accessi del 18.02.2021; 04.03.2021 e 20.05.2021, e di quelli
eventualmente a venire.
Con espressa declaratoria del diritto dei ricorrenti ad avere copia, già
richiesta, della relazione conclusiva che verrà elaborata a chiusura della
suddetta attività di vigilanza edilizia nonché degli eventuali provvedimenti
repressivo-sanzionatori che l’amministrazione ritenesse di adottare, con
eventuale nota di trasmissione alle Autorità di competenza.
11.2 Va, dunque, ordinato al Comune di Cerveteri di esibire gli atti sopra
indicati, anche mediante estrazione di copia, nel termine di trenta giorni
dalla comunicazione e/o notificazione, se anteriore, della presente sentenza
ovvero dall’intervenuta formazione degli stessi (TAR Lazio-Roma, Sez.
II-quater,
sentenza 21.06.2021 n. 7338 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
marzo 2021 |
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Il consigliere comunale ha diritto di accesso:
- ai dati di sintesi del protocollo informatico, ossia numero di
registrazione al protocollo, data, mittente, destinatario,
modalità di acquisizione, oggetto, sia mediante la visione
sia mediante il rilascio di copia cartacea;
- ai CUD di alcuni dipendenti nonché a tutti i
documenti, contenuti nei fascicoli degli stessi,
relativi al trattamento economico e alla carriera.
L'art. 43 del TUEL attribuisce ai consiglieri comunali il
diritto di ottenere dagli uffici tutte le notizie e
informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del
loro mandato.
La giurisprudenza delinea questo diritto affermando come
esso sia direttamente funzionale non tanto all'interesse del
consigliere comunale (o provinciale) quanto alla cura
dell'interesse pubblico connessa al mandato conferito: i
consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di
accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità
all'espletamento delle loro funzioni, ciò anche al fine di
permettere di valutare -con piena cognizione- la correttezza
e l'efficacia dell'operato dell'amministrazione, nonché per
esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza
del Consiglio, e per promuovere, anche nell'ambito del
Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli
rappresentanti del corpo elettorale locale.
Ne consegue, per un verso, che sul consigliere comunale non
può gravare alcun particolare onere di motivare le proprie
richieste di accesso, atteso che, diversamente opinando,
sarebbe introdotta una sorta di controllo dell'ente,
attraverso i propri uffici, sull'esercizio delle funzioni
del consigliere comunale, e, per altro verso, che dal
termine "utili", contenuto nell'articolo 43 del d.lgs. 18.08.2000,
n. 267, non può conseguire alcuna limitazione al diritto di
accesso dei consiglieri comunali, poiché tale aggettivo
comporta in realtà l'estensione di tale diritto di accesso a
qualsiasi atto ravvisato utile per l'esercizio delle
funzioni.
La giurisprudenza ritiene inoltre che il diritto del
consigliere comunale ad ottenere dall'ente tutte le
informazioni utili all'espletamento delle funzioni non
incontri neppure alcuna limitazione derivante dalla loro
eventuale natura riservata, in quanto il consigliere è
vincolato al segreto d'ufficio.
In definitiva gli unici limiti all'esercizio del diritto di
accesso dei consiglieri comunali si rinvengono, per un
verso, nel fatto che esso deve avvenire in modo da
comportare il minor aggravio possibile per gli uffici
comunali (attraverso modalità che ragionevolmente sono
fissate nel regolamento dell'ente) e, per altro verso, che
esso non deve sostanziarsi in richieste assolutamente
generiche ovvero meramente emulative, fermo restando
tuttavia che la sussistenza di tali caratteri deve essere
attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al
fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili
limitazioni al diritto stesso.
---------------
L’art. 43, c. 2, TUEL consente al consigliere comunale di
accedere a tutte le notizie e informazioni in possesso
dell’amministrazione comunale, ritenute utili
all’espletamento del mandato.
La richiesta presentata dalla ricorrente ha ad oggetto non
il contenuto della documentazione registrata al protocollo
ma i soli dati di sintesi: ciò è sufficiente ad escludere
che porti ad un accesso generalizzato e a un travalicamento
dei limiti della ragionevolezza e proporzionalità. Né
costituisce ostacolo l’eventuale natura riservata dei dati
poiché il consigliere è vincolato al segreto d'ufficio.
Questa conclusione si pone in linea con la giurisprudenza
maggioritaria che, in più occasioni, ha affermato il diritto
del consigliere ad accedere al protocollo informatico
dell’ente mediante password o comunque mediante esibizione
di copia cartacea dei dati di sintesi del protocollo
informatico.
Deve, poi, essere consentito l’accesso anche ai CUD
delle due dipendenti del Comune e ai documenti contenuti nei
loro fascicoli relativi al trattamento economico e alla
carriera.
Anche in questo caso l’obiezione della difesa resistente, e
cioè che i documenti non sarebbero ostensibili perché
strettamente personali e soggetti alla stretta tutela in
materia di privacy, non può essere condivisa.
Come si è detto, non sono opponibili limitazioni connesse
all’esigenza di assicurare la riservatezza dei dati e il
diritto alla privacy dei terzi, atteso che, con riferimento
all'esercizio del diritto in esame, tale esigenza è
efficacemente salvaguardata dalla disposizione di cui al
comma 2 dell’art. 43 cit., che impone al consigliere
comunale il segreto ove la pretesa ostensiva abbia ad
oggetto atti che incidono sulla sfera giuridica e soggettiva
di terzi.
---------------
... per l'annullamento
- del silenzio mostrato dal Comune in ordine alle istanze
presentate dalla dr.ssa Zi., in qualità di consigliere
comunale, ai fini di ottenere l'esibizione dei seguenti
documenti:
- documentazione contabile relativa alla realizzazione delle due
piattaforme rialzate sulla strada provinciale (istanza
22.10.2020)
- copia dell'allegato alla determinazione n. 10 del 06.02.2020
“Liquidazione spese economato 4° Trim 2019”, cioè l'elenco
delle spese sostenute dall'economato nel quarto trimestre
2019 con i relativi buoni e titoli di spesa (istanza
20.10.2020)
- dati di sintesi del protocollo informatico, ossia numero di
registrazione al protocollo, data, mittente, destinatario,
modalità di acquisizione, oggetto, sia mediante la visione
sia mediante il rilascio di copia cartacea (istanza
20.10.2020)
- CUD di due dipendenti del Comune (istanza 20.10.2020 e successiva
integrazione 27.10.2020)
e per l'accertamento del diritto della ricorrente ad
accedere alla suindicata documentazione, nonché a qualsiasi
documentazione che si mostri, sia attualmente che in futuro,
necessaria al corretto svolgimento della funzione di
consigliere comunale.
...
1. La sig.ra Si.Zi. -consigliere comunale di
minoranza del Comune di San Martino Canavese– ha domandato
l’annullamento del silenzio serbato dal Comune di San
Martino Canavese sulle istanze, presentate il 22.10.2020 e
il 27.10.2020, con cui ha domandato l’accesso ai seguenti
documenti:
I. documentazione contabile relativa alla realizzazione delle due
piattaforme rialzate sulla strada provinciale;
II. copia dell’allegato alla determinazione n. 10 del 06.02.2020 “Liquidazione spese economato 4° Trim 2019”, cioè
l’elenco delle spese sostenute dall’economato nel quarto
trimestre 2019 con i relativi buoni e titoli di spesa;
III. dati di sintesi del protocollo informatico, ossia numero di
registrazione al protocollo, data, mittente, destinatario,
modalità di acquisizione, oggetto, sia mediante la visione
sia mediante il rilascio di copia cartacea;
IV. CUD di due dipendenti del Comune -quanto all’istruttore
direttivo addetto ai servizi finanziari relativamente agli
anni 2017, 2018, 2019; quanto al collaboratore
amministrativo relativamente all’anno 2019– e tutti i
documenti, contenuti nei fascicoli delle due dipendenti,
relativi al trattamento economico e alla carriera.
2. La ricorrente ha lamentato l’illegittimità del silenzio
per violazione dell’art. 43, secondo comma, del D.Lgs.
267/2000, violazione degli artt. 2, 3, e 22 della l. n.
241/1990, violazione dei principi generali di cui al D.Lgs.
n. 33/2013, violazione del regolamento per l’accesso ai
documenti del Comune di San Martino Canavese, violazione
dell’art. 97 Cost. e violazione dei principi di buon
andamento della P.A.
3. La ricorrente ha inoltre domandato l’accertamento del
diritto ad accedere a qualsiasi documentazione
amministrativa necessaria allo svolgimento delle funzioni di
consigliere comunale.
...
6. L'art. 43 del TUEL attribuisce ai consiglieri comunali il
diritto di ottenere dagli uffici tutte le notizie e
informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del
loro mandato.
La giurisprudenza delinea questo diritto affermando come
esso sia direttamente funzionale non tanto all'interesse del
consigliere comunale (o provinciale) quanto alla cura
dell'interesse pubblico connessa al mandato conferito: i
consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di
accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità
all'espletamento delle loro funzioni, ciò anche al fine di
permettere di valutare -con piena cognizione- la
correttezza e l'efficacia dell'operato dell'amministrazione,
nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di
competenza del Consiglio, e per promuovere, anche
nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano
ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale
(Consiglio di Stato sez. V, 05/09/2014, n. 4525).
Ne consegue, per un verso, che sul consigliere comunale non
può gravare alcun particolare onere di motivare le proprie
richieste di accesso, atteso che, diversamente opinando,
sarebbe introdotta una sorta di controllo dell'ente,
attraverso i propri uffici, sull'esercizio delle funzioni
del consigliere comunale, e, per altro verso, che dal
termine "utili", contenuto nell'articolo 43 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267, non può conseguire alcuna limitazione
al diritto di accesso dei consiglieri comunali, poiché tale
aggettivo comporta in realtà l'estensione di tale diritto di
accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per l'esercizio
delle funzioni (Consiglio Stato sez. V, 17.09.2010,
n. 6963).
La giurisprudenza ritiene inoltre che il diritto del
consigliere comunale ad ottenere dall'ente tutte le
informazioni utili all'espletamento delle funzioni non
incontri neppure alcuna limitazione derivante dalla loro
eventuale natura riservata, in quanto il consigliere è
vincolato al segreto d'ufficio.
In definitiva gli unici limiti all'esercizio del diritto di
accesso dei consiglieri comunali si rinvengono, per un
verso, nel fatto che esso deve avvenire in modo da
comportare il minor aggravio possibile per gli uffici
comunali (attraverso modalità che ragionevolmente sono
fissate nel regolamento dell'ente) e, per altro verso, che
esso non deve sostanziarsi in richieste assolutamente
generiche ovvero meramente emulative, fermo restando
tuttavia che la sussistenza di tali caratteri deve essere
attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al
fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili
limitazioni al diritto stesso (Cons. Stato, sez. V, 05.09.2014, n. 4525).
7. Nel caso di specie, il Collegio non condivide quanto
sostenuto dalla difesa dell’amministrazione comunale circa
l’abuso del diritto da parte della sig.ra Zi., per
l’elevato numero delle istanze presentate, in un arco
limitato di tempo, e l’ampia mole di documenti richiesti, a
fronte delle limitate dimensioni e risorse di cui dispone il
Comune: le due istanze presentate il 22.10.2020 e il
27.10.2020 non sono generiche, avendo ad oggetto specifici
documenti; né si ravvisano elementi che ne denotino il
carattere emulativo o irragionevole.
Quanto alle dimensioni dell’amministrazione comunale, esse
non possono certamente giustificare una limitazione del
diritto previsto all’art. 43 TUEL.
8. I documenti indicati al punto I sono stati consegnati
alla ricorrente.
9. Con riferimento a questa parte del ricorso deve,
pertanto, essere dichiarata la cessazione della materia del
contendere.
10. Non altrettanto può dirsi con riferimento ai documenti
indicati al punto II, non essendo stato dato accesso
integrale a quanto richiesto.
Il Comune ha trasmesso alla ricorrente copia di parte della
documentazione allegata alla determinazione n. 10 del 06.02.2020, consistente nell’elenco delle spese sostenute
(doc. 6 del Comune) ma non ha invece consentito l’accesso ai
buoni e ai titoli di spesa.
Non può condividersi quanto obiettato dalla difesa
dell’amministrazione comunale circa la possibilità di
ricavare dall’elenco fornito tutti i dati utili e necessari
a ricostruire le spese sostenute, essendo indicati
l’intervento, il numero di buono, il creditore, la somma
pagata e la data di pagamento.
I documenti devono, invero, essere esibiti nella loro
versione integrale, di modo da consentirne una conoscenza
completa. In caso contrario verrebbe legittimata una sorta
di filtro da parte dell’amministrazione all’ampio e
incondizionato diritto del consigliere comunale, previsto
all’art. 43, d.lgs. n. 267/2000, ad ottenere “tutte le
notizie e le informazioni”, in possesso del Comune, utili
all'espletamento del mandato.
11. Alla luce dei principi giurisprudenziali sopra
richiamati sono fondate anche le pretese della ricorrente
all’accesso ai documenti indicati ai punti III e IV.
12. I documenti indicati al punto III consistono nei dati di
sintesi del protocollo informatico (ossia numero di
registrazione al protocollo, data, mittente, destinatario,
modalità di acquisizione, oggetto); di essi ne viene chiesto
l’accesso mediante visione e rilascio di copia cartacea.
La difesa dell’amministrazione comunale ha contestato che
aderire alla richiesta della ricorrente significherebbe
consentire un accesso generalizzato e non controllato che
travalicherebbe i confini della proporzionalità e della
ragionevolezza, che avrebbe ad oggetto anche dati sensibili
e soggetti a privacy, in assenza delle necessarie garanzie
sul trattamento dei dati personali, e notizie e documenti
sottratti all’ambito di esercizio delle funzioni del
consigliere, in quanto afferenti ad attività svolte
dall’amministrazione per conto dello Stato e di altri
soggetti istituzionali.
Il Collegio non condivide queste obiezioni.
L’art. 43, c. 2, TUEL consente al consigliere comunale di
accedere a tutte le notizie e informazioni in possesso
dell’amministrazione comunale, ritenute utili
all’espletamento del mandato.
La richiesta presentata dalla ricorrente ha ad oggetto non
il contenuto della documentazione registrata al protocollo
ma i soli dati di sintesi: ciò è sufficiente ad escludere
che porti ad un accesso generalizzato e a un travalicamento
dei limiti della ragionevolezza e proporzionalità. Né
costituisce ostacolo l’eventuale natura riservata dei dati
poiché il consigliere è vincolato al segreto d'ufficio.
Questa conclusione si pone in linea con la giurisprudenza
maggioritaria che, in più occasioni, ha affermato il diritto
del consigliere ad accedere al protocollo informatico
dell’ente mediante password (Tar Sardegna, sent. n.
531/2018, n. 317/2019; Tar Campania, Salerno, sent. n.
545/2019, Tar Basilicata, sent. n. 599/2019) o comunque
mediante esibizione di copia cartacea dei dati di sintesi
del protocollo informatico (Tar Sicilia, Catania, sent. n.
926/2020).
13. Deve, poi, essere consentito l’accesso anche ai CUD
delle due dipendenti del Comune e ai documenti contenuti nei
loro fascicoli relativi al trattamento economico e alla
carriera.
Anche in questo caso l’obiezione della difesa resistente, e
cioè che i documenti non sarebbero ostensibili perché
strettamente personali e soggetti alla stretta tutela in
materia di privacy, non può essere condivisa.
Come si è detto, non sono opponibili limitazioni connesse
all’esigenza di assicurare la riservatezza dei dati e il
diritto alla privacy dei terzi, atteso che, con riferimento
all'esercizio del diritto in esame, tale esigenza è
efficacemente salvaguardata dalla disposizione di cui al
comma 2 dell’art. 43 cit., che impone al consigliere
comunale il segreto ove la pretesa ostensiva abbia ad
oggetto atti che incidono sulla sfera giuridica e soggettiva
di terzi (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 11/12/2013, n.
5931).
14. È, invece, inammissibile la domanda con cui la
ricorrente ha chiesto l’accertamento, in via generale, del
diritto ad accedere a qualsiasi documentazione
amministrativa necessaria allo svolgimento delle funzioni di
consigliere comunale: il rito in materia di accesso può
avere ad oggetto determinazioni o silenzi
dell’amministrazione relativi a istanze volte alla
ostensione di specifici documenti ma non pretese ad un
accesso generalizzato, le quali trovano, peraltro,
riconoscimento nell’art. 43, TUEL, con le forme e nei limiti
dallo stesso previsti.
15. Per le ragioni esposte, in parte va dichiarata cessata
la materia del contendere, in parte il ricorso va accolto e
in parte va dichiarato inammissibile.
Per l’effetto il
Comune di San Martino Canavese va condannato a consentire
l’accesso integrale ai documenti di cui ai punti II, III e
IV, entro il termine di trenta giorni dalla comunicazione
della presente sentenza (TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 01.03.2021 n. 215 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
settembre 2020 |
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CONSIGLIERI COMUNALI: L’astensione del Consigliere comunale dalle
deliberazioni assunte dall’organo collegiale deve trovare applicazione in
tutti i casi in cui, per ragioni di ordine obiettivo, egli non si trovi in
posizioni di assoluta serenità rispetto alle decisioni da adottare di natura
discrezionale, con la precisazione che il concetto di "interesse" del
consigliere alla deliberazione comprende ogni situazione di conflitto o di
contrasto di situazioni personali, comportante una tensione della volontà,
verso una qualsiasi utilità che si possa ricavare dal contribuire
all'adozione di una delibera.
Come emerge dal tenore letterale dell'art. 78,
comma 2, del d.lgs. n. 267 del 2000 e dalla sua ratio, la regola generale è
che l’amministratore debba astenersi al minimo sentore di conflitto di
interessi, reale o potenziale che sia; la deroga divisata per gli atti
generali e normativi, oltre a non essere assoluta (perché qualora si profili
il concreto interesse personale si ripristina l'obbligo di astensione), è da
considerarsi tassativa ed incapace quindi, di incidere sul perimetro della
fattispecie ampliandolo internamente.
---------------
L’obbligo di allontanamento dalla seduta, in quanto dettato al fine di
garantire la trasparenza e l'imparzialità dell'azione amministrativa, sorge
per il solo fatto che l’amministratore rivesta una posizione suscettibile di
determinare, anche in astratto, un conflitto di interesse, a nulla rilevando
che lo specifico fine privato sia stato o meno realizzato e che si sia
prodotto o meno un concreto pregiudizio per la p.a.
Il conflitto d'interessi, nei suoi termini essenziali valevoli per ciascun
ramo del diritto, si individua nel contrasto tra due interessi facenti capo
alla stessa persona, uno dei quali di tipo "istituzionale" ed un
altro di tipo personale. Non rileva quindi che il consiglio abbia proceduto
in modo imparziale ovvero senza condizionamenti, essendo l'obbligo di
astensione per incompatibilità, espressione del principio generale di
imparzialità e di trasparenza (art. 97 Cost.), al quale ogni Pubblica
amministrazione deve conformare la propria immagine, prima ancora che la
propria azione.
Viene nella sostanza recepito nella norma in esame quel comune sentire che
nei riguardi di coloro che amministrano la cosa pubblica si traduce nel
detto secondo il quale essi non soltanto debbono essere ma anche apparire
non in conflitto con l'oggetto della questione che sono chiamati a
deliberare (Cons. Stato Sez. IV, 25.09.2014, n. 4806, per cui, inoltre, solo
relativamente agli atti a carattere generale l’amministratore pubblici deve
astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione nei soli
casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto
della deliberazione e specifici interessi dell'amministratore o di parenti o
affini fino al quarto grado).
Di recente, inoltre, la Sezione si è espressa nel senso che proprio l’obbligo
di astensione, tipizzato dall’art. 51 c.p.c., rappresenta un corollario del
principio di imparzialità, sancito dall’art. 97 Cost., di cui, assume
portata generale, sicché le ipotesi di astensione obbligatoria non sono
tassative, e come tali da interpretarsi restrittivamente, ma piuttosto
esemplificative di circostanze che mutuano l’attitudine a generare il dovere
di astensione direttamente dal superiore principio di imparzialità, che ha
carattere immediatamente e direttamente precettivo.
L’obbligo di astensione rinviene la sua ragione giustificativa nel pieno
rispetto del principio costituzionale del buon andamento ed imparzialità
dell’azione amministrativa sancito dall’art. 97 della Costituzione, posto a
tutela del prestigio della pubblica amministrazione e che non tollera alcun
tipo di compressione.
---------------
Con il secondo motivo di appello si contesta l’erronea applicazione
dell’art. 78 del d.lgs. 267 del 2000 e l’errata applicazione dell’art. 51
c.p.c.
Sostengono, infatti, l’appellante Comune e, altresì, la società -OMISSIS-,
nel proprio atto di appello, che agli amministratori comunali dovrebbe
essere applicata solo la disciplina dell’art. 78 del Testo Unico Enti Locali
e quindi il giudice di primo grado avrebbe errato nel trarre un principio
generale contenente un obbligo di astensione dall’art. 51 del codice di
procedura civile riferibile solo al giudice.
Il Collegio non condivide tali argomentazioni.
Ai sensi dell’art. 78 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267, Testo Unico Enti
Locali, “il comportamento degli amministratori, nell'esercizio delle
proprie funzioni, deve essere improntato all'imparzialità e al principio di
buona amministrazione, nel pieno rispetto della distinzione tra le funzioni,
competenze e responsabilità degli amministratori di cui all'art. 77, comma
2, e quelle proprie dei dirigenti delle rispettive amministrazioni.
2. Gli amministratori di cui all'art. 77, comma 2, (ovvero sindaci, anche
metropolitani, presidenti delle province, consiglieri dei comuni anche
metropolitani e delle province, componenti delle giunte comunali,
metropolitane e provinciali, presidenti dei consigli comunali, metropolitani
e provinciali, presidenti, consiglieri e assessori delle comunità montane,
componenti degli organi delle unioni di comuni e dei consorzi fra enti
locali, nonché componenti degli organi di decentramento) devono astenersi
dal prendere parte alla discussione ed alla votazione di delibere
riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto
grado. L'obbligo di astensione non si applica ai provvedimenti normativi o
di carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui
sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della
deliberazione e specifici interessi dell'amministratore o di parenti o
affini fino al quarto grado.
3. I componenti la giunta comunale competenti in materia di urbanistica, di
edilizia e di lavori pubblici devono astenersi dall'esercitare attività
professionale in materia di edilizia privata e pubblica nel territorio da
essi amministrato.
4. Nel caso di piani urbanistici, ove la correlazione immediata e diretta di
cui al comma 2 sia stata accertata con sentenza passata in giudicato, le
parti di strumento urbanistico che costituivano oggetto della correlazione
sono annullate e sostituite mediante nuova variante urbanistica parziale.
Nelle more dell'accertamento di tale stato di correlazione immediata e
diretta tra il contenuto della deliberazione e specifici interessi
dell'amministratore o di parenti o affini è sospesa la validità delle
relative disposizioni del piano urbanistico.
5. Al sindaco ed al presidente della provincia, nonché agli assessori ed ai
consiglieri comunali e provinciali è vietato ricoprire incarichi e assumere
consulenze presso enti ed istituzioni dipendenti o comunque sottoposti al
controllo ed alla vigilanza dei relativi comuni e province”.
In base al dato testuale delle disposizioni dell’art. 78 TUEL la
interpretazione sostenuta dagli appellanti non può essere condivisa, in
quanto il primo comma dell’art. 78 si riferisce ad un principio generale di
imparzialità da cui deriva l’obbligo di astensione, che deve pertanto
ritenersi di carattere generale. Ciò è confermato dal secondo comma
dell’art. 78 che impone l’astensione non solo dalla votazione ma anche dalla
“discussione” di delibere riguardanti interessi propri o di loro
parenti o affini sino al quarto grado.
Tale obbligo di astensione di carattere generale prescinde quindi da ogni
valutazione sia dell’effettivo contributo causale alla delibera
concretamente adottata nonché del concreto rapporto con l’interesse in
questione.
Solo infatti per le delibere di carattere normativo o generale deve essere
considerata la sussistenza di un interesse “immediato e diretto”,
trattandosi appunto di atti a contenuto generale, mentre in delibere che
abbiano ad oggetto situazioni concrete, come nel caso di specie, la
disposizione di legge prescinde dalla valutazione di un carattere immediato
e diretto dell’interesse.
Tale è anche l’interpretazione seguita dalla giurisprudenza di questo
Consiglio, per cui “l’astensione del Consigliere comunale dalle
deliberazioni assunte dall’organo collegiale deve trovare applicazione in
tutti i casi in cui, per ragioni di ordine obiettivo, egli non si trovi in
posizioni di assoluta serenità rispetto alle decisioni da adottare di natura
discrezionale, con la precisazione che il concetto di "interesse" del
consigliere alla deliberazione comprende ogni situazione di conflitto o di
contrasto di situazioni personali, comportante una tensione della volontà,
verso una qualsiasi utilità che si possa ricavare dal contribuire
all'adozione di una delibera. Come emerge dal tenore letterale dell'art. 78,
comma 2, del d.lgs. n. 267 del 2000 e dalla sua ratio, la regola generale è
che l’amministratore debba astenersi al minimo sentore di conflitto di
interessi, reale o potenziale che sia; la deroga divisata per gli atti
generali e normativi, oltre a non essere assoluta (perché qualora si profili
il concreto interesse personale si ripristina l'obbligo di astensione), è da
considerarsi tassativa ed incapace quindi, di incidere sul perimetro della
fattispecie ampliandolo internamente" (Cons. Stato Sez. IV, 28.01.2011
n..693; Consiglio Stato, sez. V, 13.06.2008, n. 2970).
L’obbligo di allontanamento dalla seduta, in quanto dettato al fine di
garantire la trasparenza e l'imparzialità dell'azione amministrativa, sorge
per il solo fatto che l’amministratore rivesta una posizione suscettibile di
determinare, anche in astratto, un conflitto di interesse, a nulla rilevando
che lo specifico fine privato sia stato o meno realizzato e che si sia
prodotto o meno un concreto pregiudizio per la p.a.
Il conflitto d'interessi, nei suoi termini essenziali valevoli per ciascun
ramo del diritto, si individua nel contrasto tra due interessi facenti capo
alla stessa persona, uno dei quali di tipo "istituzionale" ed un
altro di tipo personale. Non rileva quindi che il consiglio abbia proceduto
in modo imparziale ovvero senza condizionamenti, essendo l'obbligo di
astensione per incompatibilità, espressione del principio generale di
imparzialità e di trasparenza (art. 97 Cost.), al quale ogni Pubblica
amministrazione deve conformare la propria immagine, prima ancora che la
propria azione.
Viene nella sostanza recepito nella norma in esame quel comune sentire che
nei riguardi di coloro che amministrano la cosa pubblica si traduce nel
detto secondo il quale essi non soltanto debbono essere ma anche apparire
non in conflitto con l'oggetto della questione che sono chiamati a
deliberare (Cons. Stato Sez. IV, 25.09.2014, n. 4806, per cui, inoltre, solo
relativamente agli atti a carattere generale l’amministratore pubblici deve
astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione nei soli
casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto
della deliberazione e specifici interessi dell'amministratore o di parenti o
affini fino al quarto grado).
Di recente, inoltre, la Sezione, con un orientamento dal quale non si
ritiene di potersi discostare, si è espressa nel senso che proprio l’obbligo
di astensione, tipizzato dall’art. 51 c.p.c., rappresenta un corollario del
principio di imparzialità, sancito dall’art. 97 Cost., di cui, assume
portata generale, sicché le ipotesi di astensione obbligatoria non sono
tassative, e come tali da interpretarsi restrittivamente, ma piuttosto
esemplificative di circostanze che mutuano l’attitudine a generare il dovere
di astensione direttamente dal superiore principio di imparzialità, che ha
carattere immediatamente e direttamente precettivo. L’obbligo di astensione
rinviene la sua ragione giustificativa nel pieno rispetto del principio
costituzionale del buon andamento ed imparzialità dell’azione amministrativa
sancito dall’art. 97 della Costituzione, posto a tutela del prestigio della
pubblica amministrazione e che non tollera alcun tipo di compressione
(Consiglio di Stato, Sez. II, 21.10.2019 n. 7113; id. Sez. II, 09.03.2020,
n. 1654).
Tale interpretazione dell’obbligo di astensione come principio di carattere
generale comporta l’infondatezza dei motivi d’appello, in quanto sia il
-OMISSIS- che i consiglieri non avrebbero dovuto partecipare neppure alla
discussione sulla delibera, con conseguente irrilevanza altresì della prova
di resistenza.
Neppure può rilevare la circostanza che avessero un rapporto di lavoro od un
contratto di locazione con la società beneficiaria, rilevando in base alla
disciplina normativa e alla sua interpretazione giurisprudenziale anche un
conflitto di interessi meramente potenziale ed essendo comunque legittimo,
in base alla giurisprudenza sopra richiamata e integralmente condivisa dal
Collegio, il richiamo alla espressa previsione dell’art. 51 c.p.c. che
individua tra i presupposto per l’astensione i rapporti di credito e debito
con le parti
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 10.09.2020 n. 5423 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
agosto 2020 |
|
ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Ordinanzite,
la grave malattia che flagella l'ordinamento giuridico
(24.08.2020 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
CONSIGLIERI COMUNALI: L’accesso
agli atti esercitato dal consigliere comunale ai sensi dell’art. 43 d.lgs.
n. 267 del 2000 ha natura e caratteri diversi rispetto alle altre forme di
accesso, esprimendosi in un non condizionato diritto di accesso a tutti gli
atti che possano essere d’utilità all’espletamento delle sue funzioni, ciò
anche al fine di permettere di valutare -con piena cognizione- la
correttezza e l’efficacia dell’operato dell’amministrazione, nonché per
esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio e
per promuovere tutte le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti
del corpo elettorale locale.
Per tali ragioni, da un lato sul consigliere comunale non può gravare
(e ciò sin da prima dell’introduzione nell’ordinamento dell’istituto
dell’accesso civico generalizzato) alcun particolare onere di motivare le
proprie richieste di accesso, atteso che, diversamente opinando, sarebbe
introdotta una sorta di controllo dell’ente, attraverso i propri uffici,
sull’esercizio delle sue funzioni; d’altra parte dal termine «utili»,
contenuto nell’articolo 43 d.lgs. n. 267 del 2000, non può conseguire alcuna
limitazione al diritto di accesso dei Consiglieri comunali, poiché tale
aggettivo comporta in realtà l’estensione di tale diritto di accesso a
qualsiasi atto ravvisato utile per l’esercizio delle funzioni.
L’unico limite all’accesso del consigliere comunale è configurabile, in
termini generali, “nell’ipotesi in cui lo stesso si traduca in strategie
ostruzionistiche o di paralisi dell’attività amministrativa con istanze che,
a causa della loro continuità e numerosità, determinino un aggravio notevole
del lavoro degli uffici ai quali sono rivolte e determinino un sindacato
generale sull’attività dell’amministrazione.
---------------
Proprio in quanto funzionale al mandato, l’accesso non richiede una puntuale
e specifica motivazione, né tanto meno una dimostrazione delle attività
consiliari perseguite e della lesione che ne discenderebbe in caso di
limitazione: da un lato non è concepibile un controllo ex ante
sull’esercizio del mandato in relazione all’accesso esercitato,
dall’altro la prescritta utilità dei documenti non può valere a limitare
il diritto d’accesso “poiché tale aggettivo comporta in realtà l’estensione
di tale diritto di accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per l’esercizio
delle funzioni”.
---------------
Il diritto del consigliere comunale ad ottenere dall’ente tutte le
informazioni utili all’espletamento delle funzioni non incontra […] alcuna
limitazione derivante dalla loro eventuale natura riservata, in quanto il
consigliere è vincolato al segreto d’ufficio.
---------------
6.1. Va premesso che l’accesso agli atti esercitato dal consigliere comunale
ai sensi dell’art. 43 d.lgs. n. 267 del 2000 ha natura e caratteri diversi
rispetto alle altre forme di accesso, esprimendosi in un non condizionato
diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d’utilità
all’espletamento delle sue funzioni, ciò anche al fine di permettere di
valutare -con piena cognizione- la correttezza e l’efficacia dell’operato
dell’amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle
questioni di competenza del Consiglio e per promuovere tutte le iniziative
che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale (Cons.
Stato, V, 05.09.2014, n. 4525).
Per tali ragioni, da un lato sul consigliere comunale non può gravare (e ciò
sin da prima dell’introduzione nell’ordinamento dell’istituto dell’accesso
civico generalizzato) alcun particolare onere di motivare le proprie
richieste di accesso, atteso che, diversamente opinando, sarebbe introdotta
una sorta di controllo dell’ente, attraverso i propri uffici, sull’esercizio
delle sue funzioni; d’altra parte dal termine «utili», contenuto
nell’articolo 43 d.lgs. n. 267 del 2000, non può conseguire alcuna
limitazione al diritto di accesso dei Consiglieri comunali, poiché tale
aggettivo comporta in realtà l’estensione di tale diritto di accesso a
qualsiasi atto ravvisato utile per l’esercizio delle funzioni (Cons. Stato,
n. 4525 del 2014, cit.; IV, 12.02.2013, n. 843).
L’unico limite all’accesso del consigliere comunale è configurabile, in
termini generali, “nell’ipotesi in cui lo stesso si traduca in strategie
ostruzionistiche o di paralisi dell’attività amministrativa con istanze che,
a causa della loro continuità e numerosità, determinino un aggravio notevole
del lavoro degli uffici ai quali sono rivolte e determinino un sindacato
generale sull’attività dell’amministrazione (Cons. Stato, IV, 12.02.2013, n.
846)” (Cons. Stato, V, 02.03.2018, n. 1298).
6.2. Facendo applicazione dei su indicati principi al caso in esame emerge
la fondatezza delle doglianze proposte dall’appellante.
Va anzitutto escluso che il mero differimento dell’accesso in quanto tale
non possa perciò solo pregiudicare il diritto del consigliere comunale ad
accedere agli atti ex art 43 d.lgs. n. 267 del 2000: deriva infatti dal
differimento pur sempre una limitazione, benché temporanea, dell’accesso -e,
dunque, dell’ostensione di documenti utili all’esercizio delle funzioni
consiliari- pregiudizievole per le sue prerogative di consigliere, tanto più
nel caso di specie, in cui il differimento non è correlato a un termine
certo e perdura ormai da tempo.
Sotto altro profilo, non si pone in coerenza con i principi
giurisprudenziali in materia d’accesso del consigliere comunale la
motivazione della sentenza impugnata laddove ritiene legittimo il
differimento affermando che, in ragione della fase ancora tecnica e
preliminare in cui il procedimento di valutazione della proposta versa, “non
si configur[i per il Ri.] alcuna compressione, in termini giuridicamente
rilevanti, delle prerogative connesse all’espletamento del suo mandato di
Consigliere comunale”.
Come già rilevato, infatti, proprio in quanto funzionale al mandato,
l’accesso non richiede una puntuale e specifica motivazione, né tanto meno
una dimostrazione delle attività consiliari perseguite e della lesione che
ne discenderebbe in caso di limitazione: da un lato non è concepibile un
controllo ex ante sull’esercizio del mandato in relazione all’accesso
esercitato, dall’altro la prescritta utilità dei documenti non può valere a
limitare il diritto d’accesso “poiché tale aggettivo comporta in realtà
l’estensione di tale diritto di accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per
l’esercizio delle funzioni” (Cons. Stato, n. 4525 del 2014, cit.; n. 843
del 2013, cit.); né d’altra parte sono state specificamente opposte dalla
difesa dell’ente eventuali modalità emulative o inutilmente gravose
nell’esercizio dell’accesso che potrebbero valere a giustificarne la
limitazione.
Ciò posto, la sola fase ancora preliminare e tecnica di valutazione della
proposta del project financing non vale a elidere di per sé la
potenziale “utilità” dei documenti per il consigliere istante, stanti
i principi già richiamati sulla detta nozione di utilità e il suo
significato nella prospettiva delle prerogative consiliari.
6.3. Neppure può valere a escludere allo stato l’accesso richiesto il regime
speciale previsto dall’art. 53 d.lgs. n. 50 del 2016.
A prescindere dalle questioni inerenti la circostanza che il diritto
esercitato dal consigliere comunale ha altra origine, natura e statuto
disciplinare (art. 43 d.lgs. n. 267 del 2000), è decisivo rilevare come i
documenti cui l’appellante ha chiesto di accedere riguardano la proposta di
project financing, e perciò si collocano -nell’ambito dello schema
delineato dall’art. 183, comma 15, d.lgs. n. 50 del 2016- nella fase
antecedente alla (eventuale) gara, riguardando il rapporto fra il proponente
il progetto e l’amministrazione: per questo, da un lato il regime dell’art.
53 d.lgs. n. 50 del 2016 non è direttamente pertinente rispetto all’accesso
controverso, dall’altro è ben ravvisabile -considerata la dimensione
endoamministrativa in cui il rapporto allo stato si colloca- una posizione
qualificata del consigliere che ne legittima l’accesso ai documenti, dovendo
peraltro la proposta essere valutata dall’amministrazione ed eventualmente
inserita (attraverso il suo progetto di fattibilità) negli strumenti di
programmazione e approvata (cfr. invece, per la limitazione all’accesso
degli altri operatori economici in tale fase, Cons. Stato, V, 28.05.2009, n.
3319; IV, 26.01.2009, n. 391 e 392).
In siffatto contesto neppure rilevano le ragioni di riservatezza dei
documenti oggetto dell’istanza d’accesso dedotte da ATM, le quali non sono
in realtà neppure valorizzate nell’atto di differimento impugnato, e non
assumono peraltro di per sé valore a mente della consolidata giurisprudenza
secondo cui “il diritto del consigliere comunale ad ottenere dall’ente
tutte le informazioni utili all’espletamento delle funzioni non incontra […]
alcuna limitazione derivante dalla loro eventuale natura riservata, in
quanto il consigliere è vincolato al segreto d’ufficio” (Cons. Stato, I,
14.03.2014, n. 865; V, 11.12.2013, n. 5931; 29.08.2011, n. 4829; 04.05.2004,
n. 2716; oltre a Cons. Stato, n. 4525 del 2014, cit.); del resto, lo stesso
appellante ha dato conto a tal proposito di esser consapevole di “resta[re]
vincolato dall’obbligo del segreto” (cfr. appello, sub par. 2.a)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 13.08.2020 n. 5032 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Commissione consiliare statuto e regolamento. Atto di convocazione viziato.
Conseguenze.
L’avviso di convocazione di una seduta di commissione
comunale, completo di tutti i suoi elementi e pervenuto nei termini
richiesti, fatto da un soggetto non legittimato in base alla norma
regolamentare dell’Ente (in particolare, dal responsabile amministrativo
anziché del Presidente del consiglio comunale) non integra alcuna
fattispecie di invalidità.
Dalla previsione di cui al secondo comma, prima parte, dell’articolo
21-octies della legge 241/1990 deriva, infatti, l’irrilevanza della
violazione delle norme sul procedimento o sulla forma dell'atto quando il
contenuto dispositivo dello stesso "non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato”.
Le consigliere comunali chiedono un parere in merito alla legittimità o meno
della convocazione di una seduta della commissione consiliare statuto e
regolamento viziata, secondo quanto dalle stesse sostenuto, essendo stata la
stessa convocata da un responsabile amministrativo del Comune invece che dal
Presidente della commissione, in conformità alla previsione del regolamento
sul funzionamento del consiglio comunale.
In via preliminare, si osserva che non compete a questo Ufficio esprimersi
in merito alla legittimità degli atti degli enti locali stante l’avvenuta
soppressione del regime dei controlli ad opera della legge costituzionale
3/2001. Di seguito, pertanto, si forniranno una serie di considerazioni
giuridiche che si ritiene possano risultare di utilità in relazione alla
problematica posta.
L’articolo 11 dello statuto comunale, al comma 1, prevede che: “Il
Consiglio comunale nomina la commissione consiliare per lo Statuto ed i
regolamenti nonché le altre commissioni previste come obbligatorie dalla
legge.” Il successivo comma 5 stabilisce, poi, che: “Le attribuzioni,
l’organizzazione, l’attività e le forme di pubblicità dei lavori delle
commissioni consiliari sono stabiliti dal regolamento per la disciplina ed
il funzionamento del Consiglio comunale”.
Quest’ultimo, all’articolo 13, disciplinante il funzionamento delle
commissioni consiliari, al comma 3, recita: “La prima convocazione delle
commissioni viene fissata dal Sindaco con avviso scritto da recapitarsi ai
componenti con un preavviso di almeno cinque giorni.” Il successivo
comma 5 dispone, poi, che: “Le successive riunioni della commissione sono
convocate dal rispettivo presidente, con le modalità di cui al comma 3. Su
espressa indicazione degli interessati, l’avviso stesso può essere
sostituito da comunicazione informatica”.
Nel caso di specie, l'avviso è stato fatto dal responsabile amministrativo
anziché dal Presidente, come previsto dal regolamento; di qui la necessità
di valutare le conseguenze eventualmente scaturenti da tale comportamento.
In particolare, ai fini della valutazione del tipo di vizio di cui si
sarebbe in presenza e delle eventuali conseguenze che dallo stesso
potrebbero scaturire si prende in considerazione il disposto di cui
all’articolo 21-octies della legge 07.08.1990, n. 241, rubricato “Annullabilità
del provvedimento”, il quale, al comma 1, recita: “E' annullabile il
provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da
eccesso di potere o da incompetenza”.
Il successivo comma 2, tuttavia, stabilisce che: “Non è annullabile il
provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma
degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese
che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello
in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque
annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora
l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento
non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. La
disposizione di cui al secondo periodo non si applica al provvedimento
adottato in violazione dell'articolo 10-bis.”
A parere di chi scrive, avuto riguardo alla previsione del comma 2
dell’articolo 21-octies richiamato, nel caso di specie, non ricorrono le
circostanze per ritenere esistente una fattispecie di invalidità.
Dalla previsione di cui al secondo comma, prima parte, dell’articolo
21-octies della legge 241/1990 deriva, infatti, l’irrilevanza della
violazione delle norme sul procedimento o sulla forma dell'atto quando il
contenuto dispositivo dello stesso "non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato” [1].
La novella dell'articolo 21-octies della legge sul procedimento
amministrativo codifica “quelle tendenze già emerse in giurisprudenza
mirate a valutare l'interesse a ricorrere, che viene negato ove il
ricorrente non possa attendersi, dalla rinnovazione del procedimento, una
decisione diversa da quella già adottata.” [2]
Nel caso in riferimento si verserebbe proprio in tale fattispecie, atteso
che l’avviso di convocazione, in caso di sua rinnovazione, manterrebbe un
contenuto analogo a quello in concreto adottato. Ne consegue che pare
risultare preclusa l’annullabilità, per incompetenza relativa, dell’avviso
di convocazione di cui trattasi e, dunque, anche degli eventuali
provvedimenti conseguenti, per invalidità derivata. [3]
Quanto detto sopra circa il fatto che l’avviso di convocazione, in caso di
sua rinnovazione, manterrebbe inalterato il suo contenuto -e per questo il
fatto che lo stesso sia stato comunicato da soggetto incompetente non
integra un vizio invalidante- è dovuto al fatto che detto atto possiede già
tutti i requisiti sostanziali necessari per raggiungere il proprio scopo che
è quello, proprio degli atti di convocazione in generale, di mettere i
consiglieri in condizione di partecipare ad una determinata seduta
esercitando i diritti inerenti il proprio munus pubblico.
In proposito si riportano alcune considerazioni espresse con riferimento
all'avviso di convocazione dei consigli comunali.
Afferma, al riguardo, la dottrina [4]
che “la funzione dell’avviso è quella di garantire una “preinformazione”
ai consiglieri comunali sugli argomenti in discussione senza pretendere di
entrare nel contenuto degli stessi: […] la comunicazione assolve una
funzione prestabilita di “informazione”; deve contenere gli argomenti posti
in discussione (oggetto sintetico); individua il luogo, il giorno, e l’ora
della seduta; va consegnata a “domicilio”; avviene in forma libera, non è
prevista la notificazione (ex art. 21-bis della Legge n. 241 del 1990). Si
deve, quindi, desumere che l’avviso di convocazione ha una funzione tipica
di “strumento di conoscenza”, con una natura “recettizia”, […] è importante
che il consigliere comunale sia posto nelle condizioni di conoscere tutti
gli elementi utili per la partecipazione ai lavori, e questa conoscenza può
essere aliunde dimostrata qualora si possa constatare che l’interessato ne
era reso edotto”.
Anche la giurisprudenza, ha rilevato che “l’avviso di convocazione delle
sedute consiliari è lo strumento indispensabile per il corretto e regolare
funzionamento dell'organo consiliare, consentendo ai consiglieri comunali,
diretti rappresentanti della comunità, non solo di essere informati delle
riunioni dell'assise cittadina, ma soprattutto di potervi partecipare
attivamente […].” [5]
Il Ministero dell’Interno [6],
relativamente ad una fattispecie afferente un avviso di convocazione recante
la data sia di prima che di seconda convocazione di una seduta consiliare,
non comunicato nei termini quanto alla prima convocazione, ha affermato che
“la irregolarità della convocazione del Consigliere comunale, come può
essere sanata attraverso la convalida, così costituisce motivo di
annullamento degli atti deliberativi adottati soltanto nel caso in cui alla
stessa possa essere riconosciuta una efficacia preclusiva della piena
capacità del Consigliere di esprimere il voto in seno al collegio di
appartenenza.” [7]
In conclusione, in relazione al contenuto dell’avviso di convocazione e alla
sua funzione, come esplicitati dagli orientamenti sopra riportati, ne deriva
che, come già affermato, nel caso in esame il vizio contestato non risulta
invalidante, in quanto il contenuto dell’avviso di cui si tratta non sarebbe
diverso in caso di rinnovazione e il fatto che l’avviso in questione
possiede tutti i requisiti funzionali al suo scopo porta ad escludere che
nel caso di specie possa ritenersi leso il diritto alla partecipazione dei
lavori della commissione consiliare dei consiglieri comunali, ai quali lo
stesso è stato comunicato nei termini e con i contenuti ad esso propri.
[8]
---------------
[1] Benché l’articolo 21-octies della legge 241/1990, nella prima parte
del comma 2, circoscriva il rimedio alle ipotesi di atto vincolato,
tuttavia, come rilevato dalla dottrina “è però evidente che
un’interpretazione strettamente letterale dell’aggettivo “vincolato”
circoscriverebbe di molto, e senza una ragionevole spiegazione,
l’operatività della norma, stante la scarsità, in natura, di atti vincolati,
ossia privi di margini di discrezionalità.
Sotto questo profilo, appare perciò plausibile assumere che la disposizione
si rivolga, piuttosto che ai soli atti astrattamente privi di profili di
discrezionalità, a tutti quei provvedimenti che, muovendo da presupposti di
fatto e di diritto pacifici ed incontestati, possono dar luogo, nel
concreto, ad una sola scelta da parte dell’amministrazione” (così, R.
Porcelli, “Art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990. Analisi della
giurisprudenza”, in “Il diritto amministrativo, Rivista giuridica”, Anno XII,
n. 07 - Luglio 2020).
[2] TAR Lazio, Roma, sez. I, sentenza dell’08.06.2009, n. 5460.
[3] Peraltro, di difficile individuazione sarebbe l’atto “definitivo”
eventualmente suscettibile di impugnazione per invalidità derivata. Al
riguardo si ricorda che le commissioni consiliari si configurano come
articolazioni interne al consiglio comunale. Come rilevato dal Ministero
dell’Interno (parere del 03.04.2014) “esse non sono organi necessari
dell’ente locale, cioè non sono componenti indispensabili della sua
struttura organizzativa, bensì organi strumentali dei consigli ed, in quanto
tali, costituiscono componenti interne dell’organo assembleare, prive di una
competenza autonoma e distinta da quella ad esso attribuita.
In altri termini, le commissioni consiliari operano sempre e comunque
nell’ambito della competenza dei consigli”. Con specifico riferimento alle
competenze delle commissioni consiliari soccorre l’articolo 11, comma 4,
dello statuto dell’Ente il quale attribuisce alle stesse una funzione
istruttoria e consultiva nei confronti del consiglio comunale.
[4] M. Lucca, “Norma regolamentare per la convocazione, con strumenti
informatici, del consiglio comunale”, in www.segretarientilocali.it
[5] TAR Campania, Napoli, Sez. I, sentenza del 22.10.2018, n. 6129. Nello
stesso senso si veda, anche, Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza del
14.09.2012, n. 4892.
[6] Ministero dell’Interno, parere del 18.03.2005.
[7] Nel caso esaminato dal Ministero dell’Interno, la prima seduta
consiliare, non comunicata nei termini previsti, era andata deserta. Atteso
che la mancata comunicazione nei termini dell’avviso di convocazione aveva
riguardato solo tre consiglieri il Ministero dell’Interno ha rilevato come
“in nessun caso l'assenza di detta irregolarità avrebbe potuto portare ad un
esito diverso della seduta, dal momento che, anche se i tre si fossero
presentati, l'adunanza avrebbe dovuto ugualmente essere dichiarata deserta.
In altri termini, poiché alla 'prova di resistenza' la irregolarità
riscontrata non risulta in grado di modificare l'esito della seduta,
cosicché il presupposto della 'seconda convocazione' (seduta deserta) non
può ritenersi ad essa condizionato, non sembra che il vizio della prima
convocazione si estenda alla seconda”.
[8] Nel caso di specie, sotto questo profilo, si osserva che mancherebbe
l’interesse a ricorrere stante la mancata lesione dello ius ad officium del
consigliere. Al riguardo, si osserva che, in linea generale, il consigliere
comunale è legittimato ad impugnare le sole deliberazioni emanate dal
consiglio quando esse ledano un suo interesse personale diretto.
La giurisprudenza, al riguardo, ha affermato che “il consigliere dell’ente
locale deve essere considerato di per sé privo della legittimazione ad agire
in giudizio, posto che quest’ultima non risiede nella semplice deviazione
dell’atto impugnato rispetto allo schema normativamente previsto, occorrendo
quanto meno che da tale deviazione derivi la compressione di una sua
prerogativa inerente all’ufficio (e salve le questioni inerenti l’effettiva
incidenza del vizio procedimentale sulla legittimità sostanziale dell’atto
emesso in sede collegiale); in quest’ottica è indispensabile aver riguardo
alla natura e al contenuto della delibera impugnata, e non alle norme
interne relative al funzionamento dell’organo, per cui è irrilevante ogni
altra violazione di forma e di sostanza nell’adozione di una deliberazione”
(Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 02.12.2015, n. 5459).
La dottrina, nel richiamare recente giurisprudenza sull’argomento (TAR
Campania, sez. I, sentenza del 05.06.2018, n. 3710) ha, ulteriormente,
precisato che “l’impugnativa di singoli consiglieri può ipotizzarsi soltanto
quando vengano in rilievo atti incidenti in via diretta sul diritto
all’ufficio dei medesimi e, quindi, su un diritto spettante alla persona
investita della carica di consigliere, dovendosi escludere che ogni
violazione di forma o di sostanza nell’adozione di una deliberazione, che di
per sé può produrre un atto illegittimo impugnabile dai soggetti diretti
destinatari o direttamente lesi dal medesimo, si traduca in una automatica
lesione dello ius ad officium” (03.08.2020 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
luglio 2020 |
|
CONSIGLIERI COMUNALI: Questo
Comune sta continuando a svolgere le sedute di Giunta e Consiglio in
modalità remota, ma sono giunte alcune lamentele a riguardo della mancata
trasmissione via streaming delle sedute consiliari.
Il regolamento di funzionamento del Consiglio Comunale, essendo abbastanza
datato ed in procinto di essere modificato, non prevede una disciplina.
E’ possibile procedere?
L’art. 73, comma 1, del D.L. “Cura Italia” 17.03.2020 n. 18
denominato “semplificazioni in materia di organi collegiali” recita
testualmente che “al fine di contrastare e contenere la diffusione del
virus COVID-19 e fino alla data di cessazione dello stato di emergenza
deliberato dal Consiglio dei ministri il 31.01.2020, i consigli dei comuni,
delle province e delle città metropolitane e le giunte comunali, che non
abbiano regolamentato modalità di svolgimento delle sedute in
videoconferenza, possono riunirsi secondo tali modalità, nel rispetto di
criteri di trasparenza e tracciabilità previamente fissati dal presidente
del consiglio, ove previsto, o dal sindaco, purché siano individuati sistemi
che consentano di identificare con certezza i partecipanti, sia assicurata
la regolarità dello svolgimento delle sedute e vengano garantiti lo
svolgimento delle funzioni di cui all'articolo 97 del decreto legislativo
18.08.2000, n. 267, nonché adeguata pubblicità delle sedute, ove previsto,
secondo le modalità individuate da ciascun ente”.
Pertanto, la normativa emergenziale che ha consentito lo svolgimento delle
sedute degli organi collegiali degli Enti Locali in modalità “da remoto”
anche in assenza di apposita regolamentazione dell’Ente pone una serie di
questioni e di paletti nella sua applicazione:
• tale possibilità, in assenza di regolamentazione, è valida fino
alla cessazione dello Stato di emergenza (attualmente al 31 luglio p.v.);
• i criteri, per ciò che concerne nello specifico lo svolgimento
del Consiglio Comunale, devono essere preventivamente fissati da apposito
decreto del Presidente del Consiglio (o del Sindaco se non previsto dalla
legge o dallo Statuto);
• deve essere garantita l’adeguata pubblicità delle sedute.
In linea generale, tanto la normativa sulla privacy (il garante si è
espresso con un parere abbastanza datato nel marzo 2002) che il Ministero
dell’Interno (con un primo parere del 20.12.2004 ed un successivo molto più
recente del 28.06.2018) hanno chiarito la possibilità della ripresa,
registrazione e diffusione delle immagini delle sedute consiliari, previa
l’adozione di apposita regolamentazione ed informativa resa ai presenti.
Il Ministero dell’Interno, nel primo parere più datato del 2004, addirittura
prevedeva, in assenza di regolamentazione, la possibilità di disciplinare la
fattispecie, volta per volta, da parte del Presidente del Consiglio.
Detto tutto ciò, possiamo affermare che, almeno fino alla cessazione dello
Stato di Emergenza ed in assenza di regolamentazione nonché di previsione
normativa specifica, il Presidente del Consiglio (o il Sindaco qualora
ricorra la fattispecie) può disciplinare con proprio decreto le specifiche
modalità di registrazione, trasmissione e diffusione delle sedute consiliari
che si svolgono con le modalità di cui al citato D.L. 18/2020 in modo da
garantire quei criteri di trasparenza e pubblicità dallo stesso richiamati
(es. diretta sul sito web del Comune, diretta facebook). Lo stesso decreto
potrà, ad esempio prevedere che la registrazione (e la conseguente
diffusione extra canali istituzionali) non possa essere effettuata in
proprio né dai consiglieri comunali e né dai cittadini che assistono
virtualmente alla seduta.
Successivamente, qualora l’Ente terminato lo Stato di Emergenza, decida di
dotarsi di apposita regolamentazione per lo svolgimento dei lavori anche in
modalità “da remoto”, potrà procedere alla registrazione,
trasmissione e diffusione delle immagini esclusivamente con le modalità che
saranno ivi disciplinate.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.L. 17.03.2020. n. 18 -
Parere garante Privacy Marzo 2002 - Parere Ministero Interno 20.12.2004 -
Parere Ministero Interno 28.06.2018 (08.07.2020 -
tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
giugno 2020 |
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CONSIGLIERI COMUNALI: Accesso
agli atti C.E.C..
Domanda
In vista della campagna elettorale delle prossime elezioni comunali, un
consigliere attualmente in carica –delegato di una lista– chiede di avere
copia degli atti di approvazione delle liste dei candidati alle scorse
elezioni comunali, esaminate dalla Commissione elettorale circondariale.
È possibile dare parere positivo a questa istanza di accesso e concedere le
copie di quanto richiesto?
Risposta
L’art. 43 del D.Lgs. n. 267/2000 prevede che: “2. I consiglieri comunali
e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del
comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti,
tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento
del proprio mandato. Essi sono tenuti al segreto nei casi specificamente
determinati dalla legge.”
Gli articoli 22 e seguenti della legge 241/1990 regolano il diritto di
accesso agli atti amministrativi.
Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale del Consiglio di Stato, i
consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti
gli atti che possano essere d’utilità all’espletamento delle loro funzioni,
ciò anche al fine di permettere di valutare –con piena cognizione– la
correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, nonché per
esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio e
per promuovere, anche nell’ambito del Consiglio stesso, le iniziative che
spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
In base a quanto sopra citato il consigliere in questione ha, credo
indubbiamente, diritto ad accedere ai dati richiesti. Peraltro anche il
Garante della Privacy si è più volte espresso in materia, ritenendo
legittimo l’accesso.
A mio modo di vedere però la richiesta di accesso deve essere inoltrata alla
Commissione Elettorale Circondariale, che è l’organo competente all’esame ed
all’ammissione delle liste e che detiene la documentazione in questione.
Perché è vero che l’art. 22 della legge 241/1990 parla di accessibilità dei
documenti “detenuti” dalla pubblica amministrazione, ma lo stesso
articolo, al comma 6, chiarisce che il diritto di accesso è esercitabile
fino a quando la pubblica amministrazione “ha l’obbligo di detenere”
i documenti amministrativi ai quali si chiede di accedere.
Nell’ambito della presentazione delle liste per le elezioni comunali, la
procedura dettata dal D.P.R. 16.05.1960, n. 570, prevede che i documenti
siano presentati alla segreteria comunale nelle date stabilite dalla legge.
Il segretario comunale però deve immediatamente inoltrare il tutto alla
Commissione elettorale circondariale, organo competente ad effettuare
l’ammissione vera e propria.
Secondo il mio punto di vista l’obbligo giuridico di detenere i documenti è
della Commissione elettorale circondariale, che resta l’unico organo
competente per le attività sopra descritte (05.06.2020
- link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - CONSIGLIERI COMUNALI: Ai
fini dell’ammissibilità soggettiva, nella richiesta di parere inoltrata,
alla Sezione regionale di controllo, dal vicesindaco devono essere indicate
espressamente le circostanze di cui all’art. 53 del d.lgs. 18.08.2000, n.
267 (impedimento permanente o temporaneo, decadenza o decesso del Sindaco)
che legittimano l’esercizio delle funzioni vicarie.
---------------
PREMESSO
In data 18.02.2020, la vicesindaco del Comune di Modugno (BA) ha inoltrato
alla Sezione regionale di controllo per la Puglia una richiesta di parere ex
art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131, in materia di «oneri per
permessi retribuiti» usufruiti da consiglieri comunali ex artt. 79-80
del d.lgs. n. 267/2000.
In tale richiesta, avanzata con la preliminare precisazione che il parere
era inoltrato da «La sottoscritta …, giusto impedimento del Sindaco Dott.
… prot. n. 7937 del 13/02/2020, rappresentante legale pro tempore del Comune
di Modugno, in qualità di Vice Sindaco, avvalendosi della facoltà prevista
dall'art. 7, comma 8, della legge n. 131/2003…», veniva posto il quesito
se, alla luce della legislazione vigente, sia legittimo il rimborso degli
oneri sostenuti dal datore di lavoro per la partecipazione alle riunioni di
consiglio comunale e commissione da parte di un dipendente del Consorzio per
l’Area di sviluppo Industriale di Bari che ricopre la carica di Consigliere
comunale del Comune di Modugno, anche in considerazione della partecipazione
dello stesso ente locale al capitale sociale dell’anzidetto Consorzio (ente
pubblico economico), nonché del consolidamento (deliberato dal Comune ai
sensi dell’art. 11-bis del d.lgs. n. 118/2011 della citata partecipata.
La Sezione remittente, nella conseguente deliberazione n. 25 del 23.03.2020,
ha rilevato che la richiesta di parere risultava firmata dalla vicesindaco,
la quale aveva addotto un impedimento del sindaco non specificato e/o
documentato in atti.
Al riguardo, la stessa Sezione ha evidenziato che, nell’esercizio della
funzione consultiva, le Sezioni regionali di controllo hanno avuto modo di
pronunciarsi in più occasioni sulla tematica della legittimazione soggettiva
alla richiesta di pareri da parte del vicesindaco, giungendo a conclusioni
tra loro non conformi.
Ha ritenuto opportuno, pertanto, il deferimento ai sensi dell’art. 6, comma
4, del d.l. n. 174/2012, della seguente questione: «se
sia ammissibile la richiesta di parere firmata dal vicesindaco anche nel
caso di assenza o impedimento temporaneo del sindaco ai sensi del secondo
comma dell’art. 53 del d.lgs. 267/2000 e se, comunque, possa presumersi la
legittimità della dichiarata sostituzione».
CONSIDERATO
1. Questa Sezione, fin dall’atto di indirizzo approvato nell’adunanza del
27.04.2004 e dalla deliberazione n. 5/AUT/2006 del 10.03.2006 –con le
successive integrazioni contenute nelle deliberazioni n. 13/SEZAUT/2007, n.
9/SEZAUT/2009, n. 3/SEZAUT/2014/QMIG, n. 4/SEZAUT/2014/QMIG e n. 24/SEZAUT/2019/QMIG–
ha esplicitato i requisiti di ammissibilità soggettiva (legittimazione
dell’organo richiedente) e oggettiva (attinenza del quesito alla materia
della contabilità pubblica, generalità ed astrattezza del quesito proposto,
mancanza di interferenza con altre funzioni svolte dalla magistratura
contabile o con giudizi pendenti presso la magistratura civile, penale,
amministrativa e contabile) indicanti i caratteri di specializzazione
funzionale che caratterizzano la Corte dei conti in sede consultiva, e che
giustificano la peculiare attribuzione da parte del legislatore ai sensi
dell’art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131.
In particolare, quanto alla verifica dell’ammissibilità oggettiva delle
richieste di pareri, anche le Sezioni riunite di questa Corte (deliberazione
n. 54/CONTR/2010) hanno avuto modo di precisare che alle Sezioni regionali
di controllo non è stata attribuita una funzione di consulenza di portata
generale, bensì limitata unicamente alla “materia di contabilità pubblica”.
Dato che qualsiasi attività amministrativa può avere riflessi finanziari, è
stato ritenuto che, ove non si adottasse una nozione strettamente tecnica di
detta materia, si incorrerebbe in una dilatazione dell’ambito oggettivo
della funzione consultiva tale da rendere le Sezioni regionali di controllo
della Corte dei conti organi di consulenza generale dell’amministrazione
pubblica.
Pertanto, la nozione di contabilità pubblica –come ampiamente evidenziato da
questa Sezione nelle deliberazioni n. 5/SEZAUT/2006 e 3/SEZAUT/2014/QMIG-
anche se da intendersi in continua evoluzione in relazione alle materie che
incidono direttamente sulla sana gestione finanziaria dell’Ente e sui
pertinenti equilibri di bilancio, non può ampliarsi al punto da
ricomprendere qualsivoglia attività degli Enti che abbia, comunque, riflessi
di natura finanziaria e/o patrimoniale.
Se è vero, infatti, che ad ogni provvedimento amministrativo può seguire una
fase contabile, attinente all’amministrazione di entrate e spese ed alle
connesse scritture di bilancio, è anche vero che la disciplina contabile si
riferisce solo a tale fase discendente, distinta da quella sostanziale,
antecedente, del procedimento amministrativo, non disciplinata dalla
normativa contabile. La richiesta di parere deve, poi, connotarsi per il
carattere della generalità ed astrattezza e non deve implicare valutazioni
inerenti i comportamenti amministrativi da porre in essere.
L’oggetto del parere, inoltre, non deve riguardare indagini in corso della
Procura regionale od eventuali giudizi pendenti innanzi alla Sezione
giurisdizionale regionale della Corte dei conti, e, in ogni caso «la
funzione consultiva di questa Corte non può espletarsi in riferimento a
quesiti che riguardino comportamenti amministrativi suscettibili di
valutazione della Procura della stessa Corte dei conti o di altri organi
giudiziari, al fine di evitare che i pareri prefigurino soluzioni non
conciliabili con successive pronunce dei competenti organi della
giurisdizione (ordinaria, amministrativa, contabile o tributaria). La
funzione consultiva della Corte dei conti, infatti, non può in alcun modo
interferire e, meno che mai, sovrapporsi a quella degli organi giudiziari»
(deliberazione n. 24/SEZAUT/2019/QMIG).
Diversamente opinando, detta funzione si tradurrebbe in una atipica (e non
consentita) attività di consulenza preventiva sulla legittimità dell’operato
amministrativo, che potrebbe essere ipoteticamente attivata al fine di
precostituire una causa giustificativa di esonero di responsabilità. In
proposito, si ricorda che l’art. 69, comma 2, del d.lgs. 26.08.2016, n. 174,
recante il Codice di giustizia contabile, nel disciplinare le ipotesi di
archiviazione del fascicolo istruttorio da parte del P.M. erariale,
stabilisce espressamente l’assenza di colpa grave anche quando «l’azione
amministrativa si è conformata al parere reso dalla Corte dei conti in via
consultiva, in sede di controllo e in favore degli enti locali nel rispetto
dei presupposti generali per il rilascio dei medesimi».
Analogamente, per quanto riguarda la legittimazione soggettiva alla
richiesta di pareri, questa Sezione, nelle pronunce sopra richiamate ha
affermato il carattere tassativo dell’elencazione degli enti legittimati a
formulare le richieste di parere, individuati in Regioni, Province, Comuni e
Città metropolitane, i quali esercitano tale possibilità attraverso i
rispettivi legali rappresentanti pro-tempore ovvero tramite il
Consiglio delle autonomie locali (CAL), se istituito, in caso di richiesta
di parere alle Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti.
Nel caso, invece, in cui la predetta richiesta venga indirizzata
direttamente alla Sezione delle autonomie (ipotesi introdotta dall’art.
10-bis, del d.l. 24.06.2016 n. 113, convertito dalla l. 07.08.2016 n. 160,
che ha innovato l'articolo 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131 in
materia di attività consultiva della Corte), la stessa dovrà essere
formulata per le Regioni, dalla Conferenza delle Regioni e delle Province
autonome e dalla Conferenza dei Presidenti delle assemblee legislative delle
Regioni e delle Province autonome, mentre per i Comuni, le Province e le
Città metropolitane, dalle rispettive componenti rappresentative nell'ambito
della Conferenza unificata.
2. La questione deferita dalla Sezione di controllo pugliese attiene alla
specifica ipotesi di ammissibilità soggettiva della richiesta di parere
firmata dal vicesindaco nel caso di assenza o impedimento temporaneo del
sindaco, ai sensi del secondo comma dell’art. 53 del d.lgs. n. 267/2000 (T.U.E.L.),
il quale prevede che «Il vicesindaco ed il vicepresidente sostituiscono
il sindaco e il presidente della provincia in caso di assenza o di
impedimento temporaneo, nonché nel caso di sospensione dall'esercizio della
funzione ai sensi dell'articolo 59».
Con riguardo, tuttavia, all’oggetto del parere richiesto dall’ente alla
Sezione di controllo, sinteticamente riportato in premessa, va
incidentalmente osservato che nella fattispecie anche l’ammissibilità
oggettiva, alla luce di quanto sopra richiamato in merito ai rigorosi
criteri che la delimitano, potrebbe apparire dubbia laddove la richiesta di
parere fosse rivolta a conseguire indicazioni concrete per una specifica e
puntuale attività gestionale dell’ente.
Si evidenzia, pertanto, l’opportunità che le Sezioni regionali di controllo
non limitino l’esame al solo profilo dell’ammissibilità soggettiva, ma
procedano comunque alla verifica della sussistenza di entrambi i requisiti
di procedibilità, al fine di evitare che l’ente possa successivamente
riproporre, una volta sanato il difetto di legittimazione soggettiva, la
medesima richiesta oggettivamente inammissibile.
Tornando ai profili specifici della questione deferita a questa Sezione,
nelle pronunce delle Sezioni regionali di controllo si sono evidenziati due
diversi orientamenti. La tesi prevalente (si vedano, tra le altre: Corte dei
conti, Sez. reg. Lombardia deliberazione n. 236/2018, n. 347/2015, n.
161/2015, e n. 177/2019; Sez. reg. Marche n. 196/2015; Sez. reg. Veneto n.
242/2018, Sez. reg. Campania, n. 22/2014 e n. 297/2016; Sez. reg. Umbria,
deliberazione n. 70/2010; Sez. reg. Basilicata n. 58/2019) è nel senso di
ritenere che la ricorrenza delle circostanze di cui all’art. 53 del T.U.E.L.
debba trovare adeguata evidenziazione nella richiesta di parere. In
particolare, è stato affermato che «…le circostanze che impediscono
l’esercizio della funzione da parte del Sindaco devono essere indicate in
modo espresso nella formulata richiesta di parere, al fine di poter
preliminarmente imputare effettivamente la richiesta di parere all’ente per
il tramite dell’organo vicario di quello legittimato, ex art. 53 del
T.U.E.L.» (Sez. reg. Lombardia, n. 236/2018).
In altre pronunce si ammette in astratto la possibilità per il vicesindaco
di formulare richiesta di parere anche in caso di impedimento temporaneo del
Sindaco, confermando, tuttavia, la circostanza che le ragioni
dell’impedimento debbano essere documentate, ovvero risultare da fatti
notori (Sez. reg. Campania n. 297/2016 e Sez. reg. Veneto, n. 242/2018).
Diverso, invece, l’orientamento più risalente espresso dalla Sez. Lombardia
nelle deliberazioni nn. 16/2006, 27/2008, 218/2014, nell’ultima delle quali
si afferma che «…ai sensi dell’art. 53, comma 2, del decreto legislativo
18.08.2000, n. 267, il vicesindaco sostituisce il sindaco in caso di assenza
o impedimento temporaneo ed è, pertanto, giuridicamente legittimato ad
adottare tutti i provvedimenti oggettivamente necessari nell’interesse
pubblico, essendo investito, come organo vicario, della pienezza dei poteri
sostitutivi. Si precisa inoltre che anche nell’ipotesi in cui dall’atto del
vicesindaco non emerga espressamente il titolo che legittima l’esercizio
della potestà vicaria, deve ritenersi operante la presunzione che tale
esercizio sia avvenuto nel rispetto dei presupposti di legge».
L’assunto della Sezione meneghina appare confortato dal TAR Bolzano,
Trentino-Alto Adige, sez. I, sent. n. 129/2019: «La giurisprudenza,
riferita alla pressoché identica disposizione statale contenuta nel Testo
unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali (art. 53, comma 2, del
d.lgs. 18.08.2000, n. 267), ha chiarito che trattasi di una supplenza
generale, prevista ex lege, che si estende a tutti gli atti del sindaco,
senza bisogno di delega specifica, né di motivazione in ordine alle ragioni
dell'impedimento del sindaco (in termini: Consiglio di Stato, Sez. V,
21.11.2003, n. 7617; Sez. I, 14.06.2001, n. 501/2001; Sez. V, 01.10.1999, n.
1224; TAR Palermo Sez. III, 12.10.2005, n. 2455 e TAR L'Aquila Sez. I,
06.06.2007, n. 288)».
3. Per inquadrare correttamente la questione proposta, occorre precisare che
i limiti della funzione consultiva attribuita alla Corte dei conti
attengono, quanto al profilo soggettivo, sia all'ente che ha la capacità di
proporre l'istanza, sia al soggetto che può effettuare formalmente la
richiesta.
Il primo limite, che può definirsi come “legittimazione soggettiva
esterna”, è posto espressamente dall’art. 7, comma 8, della legge n.
131/2003. La legittimazione soggettiva esterna a richiedere pareri alle
Sezioni regionali di controllo appartiene alle Regioni, che la esercitano
direttamente, e a Comuni, Province e Città metropolitane, le cui richieste
sono formulate, di norma, tramite il Consiglio delle autonomie locali, se
istituito.
Al riguardo questa Sezione, nella già richiamata delibera n. 13/AUT/2007, ha
ribadito la natura tassativa dell’elenco contenuto nella norma sopra
richiamata, anche in base alla considerazione che l’elencazione (Regioni,
Comuni, Province, Città metropolitane) riproduce letteralmente quella
dell’articolo 114 della Costituzione, nel testo sostituito dall’art. 1 della
legge costituzionale 18.10.2001, n. 3, della quale l’articolo 7, comma 8,
della legge n. 131/2003 è norma di attuazione. Nella medesima delibera si è,
inoltre, affermato che «la possibilità di andare oltre il significato
letterale della legge, per applicare la norma anche a casi non espressamente
previsti, ricorrendo all'interpretazione estensiva, è ammessa nel caso in
cui l'oggetto non previsto possiede caratteri che lo assimilano a quelli
contemplati dalla legge, tanto da presumere che il legislatore abbia omesso
involontariamente di comprenderlo insieme con gli altri».
Il secondo limite, che può definirsi come “legittimazione soggettiva
interna”, riguarda il potere di rappresentanza del soggetto che agisce
in nome e per conto dell'ente nella richiesta di parere. Tale legittimazione
deriva dalla ratio della funzione consultiva intestata dalla legge alla
Corte dei conti, quale organo di magistratura indipendente di rilevanza
costituzionale, che agisce in posizione di neutralità in un contesto di
attribuzione di natura collaborativa nell'interesse generale del sistema
delle autonomie locali.
Tale funzione non può risolversi in un servizio di consulenza amministrativa
generale a favore dei soggetti interni al sistema delle autonomie, ovvero di
consulenza amministrativa specifica su singoli atti a favore degli apparati
burocratici degli enti territoriali. Consiste, invece, in un’interpretazione
di norme fornita in termini di collaborazione istituzionale agli enti
territoriali anche al fine del rispetto dell'equilibrio dei relativi
bilanci, e dell'osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti
dall'ordinamento dell'Unione Europea richiesto dall’art. 119 della
Costituzione. Non può che conseguirne, dunque, l'ammissibilità soggettiva
delle sole richieste provenienti dall’organo di vertice politico che detiene
la rappresentanza istituzionale dell’ente.
4. Tanto premesso, ai sensi dell’art. 50, comma 2, T.U.E.L., è il sindaco il
legale rappresentante dell’ente comunale e, pertanto, tale figura
istituzionale costituisce organo di vertice politico con legittimazione
soggettiva interna ed esterna a sollecitare l’esercizio della funzione
consultiva da parte delle Sezioni regionali di controllo della Corte dei
conti. Queste ultime, tuttavia, non di rado si sono trovate a deliberare in
merito a richieste di parere inoltrate dal vicesindaco. I poteri del
vicesindaco sono disciplinati dall’art. 53 del T.U.E.L. rubricato “Dimissioni,
impedimento, rimozione, decadenza, sospensione o decesso del Sindaco o del
presidente della provincia”.
Nel primo comma della norma ora richiamata è regolato il caso di impedimento
permanente o di sopravvenuta mancanza del Sindaco («In caso di
impedimento permanente, rimozione, decadenza o decesso del sindaco o del
presidente della provincia, la giunta decade e si procede allo scioglimento
del consiglio. Il consiglio e la giunta rimangono in carica sino alla
elezione del nuovo consiglio e del nuovo sindaco o presidente della
provincia. Sino alle predette elezioni, le funzioni del sindaco e del
presidente della provincia sono svolte, rispettivamente, dal vicesindaco e
dal vicepresidente»).
Nel secondo comma è prevista l’ipotesi di impedimento temporaneo («Il
vicesindaco ed il vicepresidente sostituiscono il sindaco e il presidente
della provincia in caso di assenza o di impedimento temporaneo, nonché nel
caso di sospensione dall'esercizio della funzione ai sensi dell'articolo 59»).
Va evidenziato che la norma risulta priva di alcuni elementi idonei a
precisarne la concreta portata: non è definita, infatti, l’ampiezza dei
poteri sostitutivi del vicesindaco nelle diverse ipotesi dell’assenza, della
sospensione o del temporaneo impedimento del sindaco e non sono, peraltro,
specificati i casi in cui l’impedimento del sindaco debba qualificarsi
permanente piuttosto che temporaneo. Tale indeterminatezza ha sollecitato il
giudice amministrativo a pronunciarsi in merito alla portata del dettato
normativo in oggetto.
In particolare, il Consiglio di Stato (parere Sez. I, 14.06.2001, n.
501/2001) ha ritenuto che «…secondo i principi, la preposizione di un
sostituto all'ufficio o carica in cui si è realizzata la vacanza implica di
norma l'attribuzione di tutti i poteri spettanti al titolare, con la sola
limitazione temporale connessa alla vacanza stessa […] la legge ha
manifestamente voluto evitare che l'impedimento del sindaco si risolvesse in
una moratoria nell'attività di governo dell’ente».
L’assunto è ripreso dal TAR Bolzano, Trentino-Alto Adige (Sez. I, sent. n.
129/2019), che tuttavia, lo estende fino a ricomprendervi un profilo –la non
necessità di motivare la sostituzione– che (come si dirà in proseguo) non è
affatto esplicitato dai precedenti avvisi del Consiglio di Stato: «La
giurisprudenza, riferita alla pressoché identica disposizione statale
contenuta nel Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali
(art. 53, comma 2, del d.lgs. 18.08.2000, n. 267), ha chiarito che trattasi
di una supplenza generale, prevista ex lege, che si estende a tutti gli atti
del sindaco, senza bisogno di delega specifica, né di motivazione in ordine
alle ragioni dell'impedimento del sindaco» (in termini: Consiglio di
Stato, Sez. V, 21.11.2003, n. 7617; Sez. V, 01.10.1999, n. 1224; TAR Palermo
Sez. III, 12.10.2005, n. 2455 e TAR L'Aquila Sez. I, 06.06.2007, n. 288).
Orientamento analogo a quello della sentenza da ultimo richiamata è stato
espresso, sostanzialmente, dalla Sezione regionale di controllo per la
Lombardia nella deliberazione n. 218/2014/PAR. In tale pronuncia, come sopra
evidenziato, viene affermato che «…ai sensi dell’art. 53, comma 2, del
decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, il vicesindaco sostituisce il
sindaco in caso di assenza o impedimento temporaneo ed è, pertanto,
giuridicamente legittimato ad adottare tutti i provvedimenti oggettivamente
necessari nell’interesse pubblico, essendo investito, come organo vicario,
della pienezza dei poteri sostitutivi. Si precisa inoltre che anche
nell’ipotesi in cui dall’atto del vicesindaco non emerga espressamente il
titolo che legittima l’esercizio della potestà vicaria, deve ritenersi
operante la presunzione che tale esercizio sia avvenuto nel rispetto dei
presupposti di legge».
5. Quest’ ultimo orientamento, proprio alla luce di quanto sopra evidenziato
in merito alla ratio dell’attribuzione della funzione consultiva a
questa Corte, non può essere condiviso. Sembra opportuno, innanzitutto,
precisare che nella giurisprudenza del Consiglio di Stato, richiamata dalla
sopra citata sentenza TAR Bolzano, Trentino-Alto Adige n. 129/2019,
l’affermazione che la preposizione di un sostituto all'ufficio o carica in
cui si è realizzata la vacanza implica di norma l'attribuzione di tutti i
poteri spettanti al titolare, non comportando, invece, (e il Consiglio di
Stato, infatti, non arriva ad una simile conclusione) che non debbano essere
indicate le ragioni dell’impedimento del sindaco.
A maggior ragione, la “vicarietà” non può essere presunta dalla
Sezione regionale di controllo quando si tratti di decidere circa il
requisito soggettivo di ammissibilità della richiesta di parere, in quanto
la tutela dell’esigenza di continuità nell’azione amministrativa dell’ente
locale investe un aspetto diverso e, per così dire, “esterno” alla
funzione consultiva di questa Corte, rispetto alla necessità che la
circostanza che abilita alla sostituzione del sindaco, e quindi la “vicarietà”
dell’esercizio delle di lui funzioni, venga esplicitamente indicata nella
richiesta di parere.
Giova ricordare, infatti, che, ai sensi dell’art. 47, comma 3, del T.U.E.L.,
«Nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti e nelle province
gli assessori sono nominati dal sindaco o dal presidente della provincia
anche al di fuori dei componenti del consiglio, fra i cittadini in possesso
dei requisiti di candidabilità, eleggibilità e compatibilità alla carica di
consigliere». Analoga possibilità, ai sensi del comma 4 della medesima
norma, può essere prevista nello Statuto dei comuni con popolazione
inferiore a 15.000 abitanti.
Pertanto, può accadere che il vicesindaco non sia un soggetto direttamente
investito di rappresentanza popolare, ovvero che sia nominato a sua volta da
un vicesindaco (ad esempio, in ipotesi di decesso del sindaco), fino a
giungere all’ipotesi che la richiesta di parere sia formulata dall’assessore
più anziano “spendendo” i poteri sostitutivi del sindaco ove sia
quest’ultimo che il vicesindaco abbiano un impedimento.
Appare del tutto evidente, quindi, che deve essere evitato il rischio che la
richiesta di parere possa risolversi in un’interlocuzione tra una
magistratura contabile competente per legge a fornire una consulenza a
livello politico-istituzionale ed un organo di vertice politico che non sia
deputato ad esprimere una richiesta (non meramente tecnico–amministrativa,
ma) di interpretazione di norme funzionale a quella collaborazione
istituzionale prefigurata dall’art. 119 della Costituzione. Con ciò
prescindendosi anche dalle concrete e contingenti vicende dell’ente che
hanno stimolato la richiesta di parere e per la cura delle quali è
necessaria la continuità dell’azione amministrativa.
Risulta, pertanto, in linea con le considerazioni di cui sopra il parere
espresso dalla Sezione di controllo della Lombardia (mutando il proprio
precedente orientamento) nella deliberazione n. 236/2018, a mente della
quale «Le circostanze che impediscono l’esercizio della
funzione da parte del Sindaco devono essere indicate in modo espresso nella
formulata richiesta di parere, al fine di poter preliminarmente imputare
effettivamente la richiesta di parere all’ente per il tramite dell’organo
vicario di quello legittimato, ex art. 53 del T.U.E.L.».
Negli stessi termini che qui si condividono si sono pronunciate le Sezioni
regionali Veneto n. 242/2018, Campania, n. 22/2014 e n. 297/2016; Umbria, n.
70/2010). In senso sostanzialmente conforme, da ultimo, anche la Sez. reg.
Lombardia n. 404/2019: «Sotto il profilo soggettivo, la
richiesta di parere, proposta dal Vicesindaco, in considerazione della
temporanea assenza del Sindaco per motivi di salute, deve ritenersi
ammissibile in quanto, nella stessa istanza, vengono esplicitate in modo
espresso le ragioni che legittimano lo stesso ad agire in sostituzione del
sindaco e conseguentemente a rappresentare l’ente ai sensi dell’art. 52,
comma 2 del TUEL».
P.Q.M.
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, pronunciandosi sulla
questione di massima posta dalla Sezione regionale di controllo per la
Puglia con la deliberazione n. 25/2020/PAR, enuncia il seguente principio di
diritto:
«Ai fini dell’ammissibilità soggettiva, nella richiesta
di parere inoltrata, alla Sezione regionale di controllo, dal vicesindaco
devono essere indicate espressamente le circostanze di cui all’art. 53 del
decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (impedimento permanente o
temporaneo, decadenza o decesso del Sindaco) che legittimano l’esercizio
delle funzioni vicarie».
La Sezione regionale di controllo per la Puglia si atterrà ai principi di
diritto enunciati nel presente atto di orientamento. Agli stessi principi si
conformeranno tutte le Sezioni regionali di controllo ai sensi dell’art. 6,
comma 4, del d.l. 10.10.2012, n. 174, convertito dalla legge 07.12.2012, n.
213
(Corte dei Conti, Sez. Autonomie,
deliberazione 01.06.2020 n. 11). |
maggio 2020 |
|
CONSIGLIERI COMUNALI - INCARICHI PROFESSIONALI: Le
scelte degli amministratori pubblici, dovendo conformarsi ai criteri di
legalità ed a quelli giuridici di economicità, di efficacia e di
buon
andamento, sono soggette al controllo della Corte dei Conti.
Nei giudizi di responsabilità
amministrativa, poiché in via generale l'amministrazione deve
provvedere ai suoi compiti con mezzi, organizzazione e personale
propri, la Corte dei Conti può valutare se gli strumenti scelti dagli
amministratori pubblici siano adeguati oppure esorbitanti ed estranei
rispetto al fine pubblico da perseguire, e la verifica della legittimità
dell'attività amministrativa non può prescindere dalla valutazione del
rapporto tra gli obiettivi conseguiti e i costi sostenuti.
Inoltre, la discrezionalità
riconosciuta agli amministratori pubblici nell'individuazione della
soluzione più idonea nel singolo caso concreto a realizzare l'interesse
pubblico perseguito (causa e limite intrinseco e funzionale
dell'attività della P.A.) è legittimamente esercitata in quanto risultino
osservati i criteri giuridici informatori dell'agere della P.A. dettati
dalla
Costituzione (art. 97),
- codificati all'art. 1, comma 1, L. n. 20 del
1994 («L'attività amministrativa persegue i fini determinati dalla
legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia e di
pubblicità»), come modificato dall'art. 3 L. n. 546 del 1993
(«ferma restando l'insindacabilità nel merito delle scelte
discrezionali»),
- ribaditi dall'art. 1 d.lgs. n. 29 del 1993 e dall'art. 1,
comma 1, L. n. 286 del 1999 [«Le pubbliche amministrazioni
devono: a) garantire la legittimità, regolarità e correttezza dell'azione
amministrativa (controllo di regolarità amministrativa e contabile);
b) verificare l'efficacia, efficienza ed economicità dell'azione
amministrativa al fine di ottimizzare, anche mediante tempestivi
interventi di correzione, il rapporto tra costi e risultati (controllo di
gestione)»].
Pertanto, le scelte degli amministratori, dovendo conformarsi ai
suddetti criteri di legalità e a quelli giuridici di economicità
(ottimizzazione dei risultati in relazione alle risorse disponibili), di
efficacia (idoneità dell'azione amministrativa alla cura effettiva degli
interessi pubblici da perseguire, congruenza teleologia e funzionale)
e di buon andamento, sono soggette al controllo della Corte dei Conti,
in quanto assumono rilevanza sul piano della legittimità e non della
mera opportunità dell'azione amministrativa.
A tale stregua, non eccede la giurisdizione contabile non solo la
verifica se l'amministratore abbia compiuto l'attività per il perseguimento
di finalità istituzionali dell'ente, ma anche se nell'agire
amministrativo abbia rispettato tali norme e principi giuridici, sicché
la Corte dei Conti non viola il limite giuridico della «riserva di
amministrazione» (da intendere come preferenza tra alternative,
nell'ambito della ragionevolezza, per il soddisfacimento dell'interesse
pubblico) nel controllare anche la giuridicità sostanziale (e cioè
l'osservanza dei criteri di razionalità, nel senso di correttezza e
adeguatezza dell'agire, logicità, e proporzionalità tra costi affrontati e
obbiettivi conseguiti, costituenti al contempo indici di misura del
potere amministrativo e confini del sindacato giurisdizionale)
dell'esercizio del potere discrezionale.
Non travalica, dunque, il limite esterno della giurisdizione
contabile né quelli relativi alla riserva di amministrazione la pronunzia
con la quale la Corte dei Conti ravvisi la non
adeguatezza o esorbitanza rispetto al fine pubblico da perseguire.
L'insindacabilità "nel merito" delle scelte discrezionali compiute
dai soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei Conti non
comporta, infatti, che esse siano sottratte al sindacato giurisdizionale
di conformità alla legge formale e sostanziale che regola l'attività e
l'organizzazione amministrativa.
---------------
Sotto altro profilo, con riferimento alle decisioni del giudice
amministrativo si è da queste Sezioni Unite posto in rilievo che le
stesse possono dirsi essere viziate per eccesso di potere
giurisdizionale e, quindi, sindacabili per motivi inerenti alla
giurisdizione, soltanto laddove detto giudice, eccedendo i limiti del
riscontro di legittimità del provvedimento impugnato e sconfinando
nella sfera del merito (riservato alla P.A.), compia una diretta e
concreta valutazione della opportunità e convenienza dell'atto, ovvero
quando la decisione finale, pur nel rispetto della formula
dell'annullamento, esprima la volontà dell'organo giudicante di
sostituirsi a quella dell'amministrazione, così esercitando una
giurisdizione di merito in situazioni che avrebbero potuto dare
ingresso soltanto a una giurisdizione di legittimità (cfr. Cass., Sez.
Un., 30/10/2013, n. 24468).
Si è altresì sottolineato che nei giudizi di responsabilità
amministrativa, poiché in via generale l'amministrazione deve
provvedere ai suoi compiti con mezzi, organizzazione e personale
propri, la Corte dei Conti può valutare se gli strumenti scelti dagli
amministratori pubblici siano adeguati oppure esorbitanti ed estranei
rispetto al fine pubblico da perseguire, e la verifica della legittimità
dell'attività amministrativa non può prescindere dalla valutazione del
rapporto tra gli obiettivi conseguiti e i costi sostenuti (cfr., per la
negazione che violi i limiti esterni della giurisdizione contabile e quelli
relativi alla riserva di amministrazione la pronuncia con la quale la
Corte dei Conti ritenga illegittimo il ricorso ad incarichi esterni in
assenza dei presupposti previsti dalla legge, Cass., Sez. Un.,
23/11/2012, n. 20728; Cass., Sez. Un., 23/01/2012, n. 831).
Si è in proposito ulteriormente osservato come la discrezionalità
riconosciuta agli amministratori pubblici nell'individuazione della
soluzione più idonea nel singolo caso concreto a realizzare l'interesse
pubblico perseguito (causa e limite intrinseco e funzionale
dell'attività della P.A.) è legittimamente esercitata in quanto risultino
osservati i criteri giuridici informatori dell'agere della P.A. dettati
dalla
Costituzione (art. 97), codificati all'art. 1, comma 1, L. n. 20 del
1994 («L'attività amministrativa persegue i fini determinati dalla
legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia e di
pubblicità»), come modificato dall'art. 3 L. n. 546 del 1993
(«ferma restando l'insindacabilità nel merito delle scelte
discrezionali»), ribaditi dall'art. 1 d.lgs. n. 29 del 1993 e dall'art. 1,
comma 1, L. n. 286 del 1999 [«Le pubbliche amministrazioni
devono: a) garantire la legittimità, regolarità e correttezza dell'azione
amministrativa (controllo di regolarità amministrativa e contabile);
b) verificare l'efficacia, efficienza ed economicità dell'azione
amministrativa al fine di ottimizzare, anche mediante tempestivi
interventi di correzione, il rapporto tra costi e risultati (controllo di
gestione)»].
Pertanto, le scelte degli amministratori, dovendo conformarsi ai
suddetti criteri di legalità e a quelli giuridici di economicità
(ottimizzazione dei risultati in relazione alle risorse disponibili), di
efficacia (idoneità dell'azione amministrativa alla cura effettiva degli
interessi pubblici da perseguire, congruenza teleologia e funzionale)
e di buon andamento, sono soggette al controllo della Corte dei Conti,
in quanto assumono rilevanza sul piano della legittimità e non della
mera opportunità dell'azione amministrativa.
A tale stregua, non eccede la giurisdizione contabile non solo la
verifica se l'amministratore abbia compiuto l'attività per il perseguimento
di finalità istituzionali dell'ente, ma anche se nell'agire
amministrativo abbia rispettato tali norme e principi giuridici, sicché
la Corte dei Conti non viola il limite giuridico della «riserva di
amministrazione» (da intendere come preferenza tra alternative,
nell'ambito della ragionevolezza, per il soddisfacimento dell'interesse
pubblico) nel controllare anche la giuridicità sostanziale (e cioè
l'osservanza dei criteri di razionalità, nel senso di correttezza e
adeguatezza dell'agire, logicità, e proporzionalità tra costi affrontati e
obbiettivi conseguiti, costituenti al contempo indici di misura del
potere amministrativo e confini del sindacato giurisdizionale)
dell'esercizio del potere discrezionale.
Non travalica dunque il limite esterno della giurisdizione
contabile né quelli relativi alla riserva di amministrazione la pronunzia
con la quale, come nella specie, la Corte dei Conti ravvisi la non
adeguatezza o esorbitanza rispetto al fine pubblico da perseguire
(cfr., con riferimento alla diversa ipotesi dell'illegittimità del ricorso
ad
incarichi esterni in assenza dei presupposti previsti dalla legge,
nonché con riferimento a consulenze, pareri e difesa giudiziale alla
luce dei presupposti legali e delle clausole generali di giuridicità
innanzi richiamati al fine di verificare la legittimità della scelta e la
correttezza della gestione delle risorse pubbliche per i compensi
corrisposti, alla luce anche del fondamentale principio del buon
andamento e della ragionevole proporzionalità tra costi e benefici in
relazione ai fini da perseguire, Cass., Sez. Un., 05/03/2009, n. 5288;
Cass., Sez. Un., 09/05/2011, n. 10069; Cass., Sez. Un., 13/06/2011, n.
12902; Cass., Sez. Un., 23/01/2012, n. 831; Cass., Sez. Un.,
13/02/2012, n. 1979; Cass., Sez. Un., n. 20728 del 2012; Cass., Sez.
Un., n. 4283 del 2013; ancora, con riferimento all'attività
amministrativa di potenziamento del servizio 118, Cass., Sez. Un.,
14/05/2014, n. 10416).
L'insindacabilità "nel merito" delle scelte discrezionali compiute
dai soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei Conti non
comporta, infatti, che esse siano sottratte al sindacato giurisdizionale
di conformità alla legge formale e sostanziale che regola l'attività e
l'organizzazione amministrativa (v. Cass., Sez. Un., 28/06/2018, n.
17121) (Corte di Cassazione, Sezz. unite civili,
sentenza 13.05.2020 n. 8848). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Regolamento comunale per la disciplina del diritto di accesso dei
consiglieri comunali ai documenti amministrativi.
I regolamenti comunali in tema di diritto di accesso
agli atti da parte dei consiglieri comunali devono uniformarsi ai principi
elaborati dalla giurisprudenza, secondo i quali detti amministratori vantano
un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere
d’utilità all’espletamento delle loro funzioni.
Tale diritto non incontra alcuna limitazione derivante dalla eventuale
natura riservata dei documenti richiesti, in quanto il consigliere è
vincolato al segreto d'ufficio (fanno eccezione gli atti coperti da segreto
in base a specifiche disposizioni di legge, come quelle che tutelano il
segreto delle indagini penali o la segretezza della corrispondenza e delle
comunicazioni). L’esercizio del diritto di accesso deve comunque avvenire
con modalità tali da non recare pregiudizio all’attività degli uffici
amministrativi.
Fermo che eventuali norme limitative dell’accesso dei consiglieri contenute
nei regolamenti comunali devono essere interpretate ed applicate alla luce
dei predetti principi, competerebbe unicamente all’autorità giudiziaria
amministrativa, eventualmente adita, annullare le determinazioni
amministrative illegittime.
Il Capogruppo consiliare chiede un parere in merito alla legittimità del
regolamento adottato dal consiglio comunale, relativo alla disciplina del
diritto di accesso agli atti da parte dei consiglieri comunali.
In via preliminare, si ricorda che non compete a questo Ufficio esprimersi
in merito alla legittimità degli atti degli enti locali, stante l’avvenuta
soppressione del regime dei controlli ad opera della legge costituzionale
3/2001. Di seguito, pertanto, si forniranno una serie di considerazioni
giuridiche in ordine al diritto di accesso agli atti dei consiglieri
comunali, che si ritiene possano risultare di utilità in relazione alla
fattispecie prospettata.
L’articolo 43, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, recita:
“I consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere dagli
uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro
aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro
possesso, utili all’espletamento del proprio mandato. Essi sono tenuti al
segreto nei casi specificamente determinati dalla legge”.
Come affermato, in diverse occasioni, dalla giurisprudenza “i consiglieri
comunali vantano un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che
possano essere d’utilità all’espletamento delle loro funzioni; ciò anche al
fine di permettere di valutare con piena cognizione la correttezza e
l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, nonché per esprimere un voto
consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere,
anche nell’ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai
singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.”
[1].
Anche il Ministero dell’Interno, ha avuto modo di precisare che «il
diritto dei consiglieri ha una ratio diversa da quella che contraddistingue
il diritto di accesso ai documenti amministrativi riconosciuto alla
generalità dei cittadini (ex articolo 10 del richiamato decreto legislativo
n. 267/2000) ovvero a chiunque sia portatore di un "interesse diretto, concreto
e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento al quale è chiesto l'accesso (ex art. 22 e ss. della
legge 07.08.1990, n. 241)» [2].
E, ancora, in altra occasione, sempre il Ministero ha osservato che: “Fermo
restando che l’Ente dovrebbe comunque disporre di apposito regolamento per
la disciplina di dettaglio per l’esercizio di tale diritto, si osserva che
la maggiore ampiezza di legittimazione all’accesso rispetto al cittadino
(art. 10 del decreto legislativo n. 267/2000) è riconosciuta in ragione del
particolare munus espletato dal consigliere comunale. Infatti, il
consigliere deve essere posto nelle condizioni di valutare, con piena
cognizione di causa, la correttezza e l’efficacia dell’operato
dell’Amministrazione, onde potere esprimere un giudizio consapevole sulle
questioni di competenza della P.A., opportunamente considerando il ruolo di
garanzia democratica e la funzione pubblicistica da questi esercitata. A tal
fine, il consigliere comunale non deve motivare la propria richiesta di
informazioni, poiché, diversamente opinando, la P.A. si ergerebbe ad arbitro
delle forme di esercizio delle potestà pubblicistiche dell’organo deputato
all’individuazione ed al perseguimento dei fini collettivi.
Conseguentemente, gli Uffici comunali non hanno il potere di sindacare il
nesso intercorrente tra l’oggetto delle richieste di informazioni avanzate
da un Consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da questi
espletato” [3].
Con riferimento ai limiti opponibili alle richieste di accesso dei
consiglieri comunali, sulla scorta dei pronunciamenti giurisprudenziali
intervenuti su tale tema è dato distinguere alcuni casi che costituiscono
dei limiti formali alla richiesta di accesso da altri che, invece,
riguardano il contenuto dell’eventuale documento richiesto
dall’amministratore locale.
Sotto il primo profilo si segnala l’irricevibilità di richieste di accesso
eccessivamente generiche o che per la loro mole possano recare pregiudizio
all’attività degli uffici amministrativi. In questo senso si riporta una
recente sentenza del giudice amministrativo la quale afferma che: “Le
richieste di accesso agli atti fatte dai consiglieri comunali devono essere
formulate in maniera specifica e dettagliata, recando l'indicazione degli
estremi identificativi degli atti e dei documenti o, qualora tali elementi
non siano noti al richiedente, almeno di quelli che consentano
l'individuazione degli atti medesimi, in modo da comportare il minore
aggravio agli uffici che dovranno esitare la richiesta, secondo i tempi
necessari per non determinare interruzione alle altre attività di tipo
corrente, e quindi senza pregiudizio per la corretta funzionalità
amministrativa” [4].
Interessante, al riguardo, è anche una sentenza del Supremo giudice
amministrativo il quale ha affermato che: “La giurisprudenza in tema di
diritto di accesso ai documenti da parte dei consiglieri comunali e
provinciali, e, per estensione, anche regionali, ne ha ravvisato il limite
proprio nell'ipotesi in cui lo stesso si traduca in strategie
ostruzionistiche o di paralisi dell'attività amministrativa con istanze che,
a causa della loro continuità e numerosità, determinino un aggravio notevole
del lavoro degli uffici ai quali sono rivolte e determinino un sindacato
generale sull'attività dell'amministrazione. L'accesso, in altri termini,
deve avvenire in modo da comportare il minore aggravio possibile per gli
uffici comunali, e non deve sostanziarsi in richieste assolutamente
generiche o meramente emulative” [5].
Il Ministero dell’Interno, nel fare proprie le considerazioni espresse dalla
giurisprudenza e sopra riportate, ha al riguardo precisato che, tuttavia, i
limiti di cui sopra non possono comportare ingiustificate compressioni
all’esercizio del diritto di accesso da parte dei consiglieri, con la
conseguenza che non devono essere introdotte surrettiziamente inammissibili
limitazioni al diritto stesso, determinandosi altrimenti un illegittimo
ostacolo al concreto esercizio della funzione dell’amministratore locale,
che è quella di verificare che il Sindaco e la Giunta municipale esercitino
correttamente la loro funzione.
Al riguardo si riporta un parere nel quale il Ministero ha richiamato le
considerazioni espresse dalla Commissione per l’accesso ai documenti
amministrativi [6],
la quale ha specificato che “in conformità al consolidato orientamento
giurisprudenziale amministrativo (cfr., fra le molte, C.d.S., Sez. V,
22.05.2007, n. 929), riguardo le modalità di accesso alle informazioni e
alla documentazione richieste dai consiglieri comunali ex art 43 TUEL, il
diritto di accesso agli atti di un consigliere comunale -nell'esercizio del
proprio munus publicum- non può subire compressioni di alcun genere, tali da
ostacolare l'esercizio del suo mandato istituzionale, con l'unico limite di
poter esaudire la richiesta (qualora essa sia di una certa gravosità)
secondo i tempi necessari per non determinare interruzione alle altre
attività di tipo corrente” [7].
Con riferimento alla documentazione ostensibile ai consiglieri comunali, si
ribadisce l’ampiezza che caratterizza le richieste di accesso avanzate dagli
stessi: come rilevato dal Consiglio di Stato, “il diritto del consigliere
comunale ad ottenere dall'ente tutte le informazioni utili all'espletamento
delle funzioni non incontra neppure alcuna limitazione derivante dalla loro
eventuale natura riservata, in quanto il consigliere è vincolato al segreto
d'ufficio” [8].
Tuttavia, fermo il principio di cui sopra, la giurisprudenza ha negato
l’accesso a degli amministratori locali relativamente a documentazione
coperta da segreto istruttorio: “I consiglieri hanno l’incondizionato
diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d’utilità
all’espletamento del loro mandato, al fine di permettere loro di valutare
–con piena cognizione– la correttezza e l’efficacia dell’operato
dell’Amministrazione […]; diverso discorso è invece da farsi relativamente
agli ulteriori atti di indagine penale, eventualmente delegata, che
rientrano nel segreto istruttorio regolato dall’art. 329 c.p.p. e rispetto
ai quali non può esercitarsi l’accesso se non nelle forme consentite dalla
partecipazione al procedimento penale cui essi ineriscono”
[9].
Nello stesso senso si è espresso anche il Ministero dell’Interno
[10] il quale, nel fare
proprie due pronunce del Consiglio di Stato [11]
ha osservato che: «L'Alto Consesso ha ritenuto che la posizione dei
consiglieri comunali non possa essere talmente privilegiata da consentire
loro l'accesso a tutti i documenti, anche segreti, dell'amministrazione,
assumendo solo l'obbligo di non divulgare le relative notizie. […] Se ne
deduce, così, che il diritto di accesso del consigliere comunale, da
esercitarsi riguardo ai dati effettivamente utili all'esercizio del mandato
ed ai soli fini di questo, deve essere coordinato con altre norme vigenti,
come quelle che tutelano il segreto delle indagini penali o la segretezza
della corrispondenza e delle comunicazioni […]».
Concludendo, si ritiene che i regolamenti comunali debbano uniformarsi ai
principi elaborati dalla giurisprudenza sopra illustrati e che eventuali
norme limitative dell’accesso dei consiglieri comunali debbano comunque
essere interpretate ed applicate alla luce dei predetti principi.
In ogni caso, si rappresenta che, come tra l’altro affermato anche dal
Ministero dell’Interno [12]
e dalla Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi
[13], entrambi
interpellati su una questione analoga a quella in esame
[14], “l’autorità competente ad
annullare eventuali determinazioni amministrative illegittime è solo il Tar
[…] salve le iniziative di modifica rimesse alla autonoma valutazione
consiliare”.
---------------
[1] TAR Sardegna Cagliari, sez. I, sentenza del 28.11.2017, n. 740; nello
stesso senso, tra le altre, Consiglio di Stato, sentenza del 05.09.2014, n.
4525.
[2] Ministero dell’Interno, parere del 27.09.2018.
[3] Ministero dell’Interno, parere del 06.04.2017.
[4] TAR Campania Salerno, sez. II, sentenza del 04.04.2019, n. 545. Nello
stesso senso si veda anche TAR Sardegna Cagliari, sez. I, sentenza del
13.02.2019, n. 128.
[5] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 02.03.2018, n. 1298.
[6] Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, “L’accesso ai
documenti amministrativi”, anno 2011, sedute dell'11.10. e dell'08.11.2011.
[7] Ministero dell’Interno, parere del 18.05.2017.
[8] Consiglio di Stato, sez. V, sentenze del 29.08.2011, n. 4829 e del
04.05.2004, n. 2716.
[9] TAR Trento, sez. I, sentenza del 07.05.2009, n. 143. Nello stesso senso
si veda Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 28.10.2016, n. 4537; TAR
Sicilia, Catania, sentenza del 25.07.2017, n. 1943; TAR Potenza, sentenza
del 14.12.2005, n. 1028.
[10] Ministero dell’Interno, parere del 13.02.2004.
[11] Rispettivamente Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 02.04.2001, n.
1893 e Consiglio di Stato, sentenza del 26.09.2000, n. 5105.
[12] Ministero dell’Interno parere del 18.05.2017, già citato in nota 7.
[13] Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, “L’accesso ai
documenti amministrativi”, anno 2011, seduta dell'08.11.2011.
[14] In entrambi i casi si trattava della richiesta di parere in ordine alla
legittimità del Regolamento per il diritto di accesso agli atti di un
Comune, che si riteneva lesivo delle prerogative in materia di accesso
stabilite per i consiglieri comunali (08.05.2020 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
aprile 2020 |
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CONSIGLIERI COMUNALI - LAVORI PUBBLICI:
Accesso a cantieri da parte di consiglieri comunali.
Non è configurabile un diritto in senso stretto dei
consiglieri comunali a visitare un cantiere dove si svolgono lavori affidati
dal Comune o ad effettuarvi un sopralluogo, atteso che la legge nulla
prevede per quanto riguarda tale evenienza, non potendo quindi individuarsi
un corrispondente obbligo dell'Amministrazione di accogliere una richiesta
in tal senso.
L’esercizio delle funzioni di controllo è, infatti, riconosciuto
dall’ordinamento come funzione generale al consiglio quale organo nel suo
complesso, che può avvalersi di commissioni consiliari appositamente
istituite.
Non sono invece contemplate dalla normativa vigente per i consiglieri
comunali competenze di tipo ispettivo da esercitarsi singolarmente su
attività materiali, tanto più che, trattandosi di cantieri, spetta alle
figure responsabili anche sotto il profilo delle norme in materia di
sicurezza, in relazione alle proprie competenze, valutare la richiesta di
accesso di persone comunque estranee ai lavori.
I Consiglieri comunali chiedono un parere in merito al diritto, agli stessi
negato dal Comune, di accedere a cantieri nei quali si stanno realizzando
alcune opere comunali, al fine di poter prendere visione personalmente dello
stato di attuazione delle stesse, nell’esercizio delle funzioni loro
proprie. Chiedono, altresì, che la Regione intervenga “affinché siano
rimossi gli ostacoli frapposti dal Comune […] nei confronti degli scriventi
Consiglieri Comunali”.
Preliminarmente, si osserva che non compete all’Amministrazione regionale
intervenire su questioni siffatte: lo scrivente Servizio in questa sede si
limita a fornire in via collaborativa delle considerazioni relative
all’inquadramento giuridico della problematica in oggetto.
Il diritto di accesso degli amministratori locali trova la sua fonte
normativa di riferimento nell’articolo 43, comma 2, del decreto legislativo
18.08.2000, n. 267, il quale attribuisce ai consiglieri il diritto di
ottenere dagli uffici del comune, nonché dalle sue aziende ed enti
dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili
all’espletamento del proprio mandato.
Il fondamento di tale diritto risiede nel fatto che le informazioni
acquisibili dagli amministratori dell’ente devono considerare l’esercizio,
in tutte le sue potenziali esplicazioni, della funzione di cui ciascun
amministratore è individualmente investito quale membro del consiglio. Di
qui la possibilità per ognuno di essi di compiere, attraverso la visione dei
provvedimenti adottati e l’acquisizione di informazioni, una compiuta
valutazione della correttezza e dell’efficacia dell’operato
dell’amministrazione comunale, utile non solo per poter esprimere un voto
maggiormente consapevole sugli affari di competenza del consiglio, ma anche
per promuovere, nell’ambito del consiglio stesso, le varie iniziative
consentite dall’ordinamento ai membri di quel collegio
[1].
I consiglieri hanno infatti, a norma dell’articolo 43, commi 1 e 3, del
decreto legislativo n. 267/2000, diritto di iniziativa su ogni questione
sottoposta alla deliberazione del consiglio, hanno diritto di chiedere la
convocazione del consiglio e di presentare interrogazioni, mozioni e ogni
altra istanza di sindacato ispettivo, secondo la disciplina dettata dallo
statuto e dal regolamento consiliare.
L’esercizio delle funzioni di controllo è riconosciuto dall’ordinamento come
funzione generale al consiglio quale organo nel suo complesso, che può
avvalersi di commissioni consiliari appositamente istituite ai sensi
dell’articolo 44, comma 1, del decreto legislativo n. 267/2000, con funzioni
di controllo e di garanzia. Il comma 2 consente l’istituzione all’interno
dell’organo consiliare di commissioni di indagine sull’attività
dell’amministrazione, demandando allo statuto e al regolamento consiliare la
disciplina relativa a poteri, composizione e funzionamento.
Emerge di tutta evidenza che la normativa citata non contempla per i
consiglieri comunali competenze di tipo ispettivo da esercitarsi
singolarmente su attività materiali, tanto più che, trattandosi di cantieri,
spetta alle figure responsabili anche sotto il profilo delle norme in
materia di sicurezza, in relazione alle proprie competenze, valutare la
richiesta di accesso di persone comunque estranee ai lavori
[2].
Alla luce delle considerazioni sopra esposte, non è configurabile un diritto
in senso stretto dei consiglieri comunali a visitare un cantiere dove si
svolgono lavori affidati dal Comune o ad effettuarvi un sopralluogo, atteso
che la legge nulla prevede per quanto riguarda tale evenienza, non potendo
quindi individuarsi un corrispondente obbligo dell'Amministrazione di
accogliere una richiesta in tal senso.
Ferma la mancanza di tale obbligo in capo al Comune, si ribadisce che
consentire o meno l‘accesso dei consiglieri comunali ai cantieri rientra
nella responsabilità dell’Amministrazione, la quale deve operare al riguardo
un’attenta ponderazione della normativa in materia di sicurezza, tenendo
anche in debita considerazione i provvedimenti dalla stessa adottati in
attuazione del D.Lgs. 09.04.2008, n. 81.
---------------
[1] Si veda, tra le altre, TAR Campania Salerno, sez. II, sentenza del 04.04.2019, n. 545 la quale recita: “Le istanze di accesso avanzate dai
componenti dei consigli comunali presentano una loro specificità rispetto a
quella della generalità dei cittadini, essendo ai primi riconosciuti ampi
poteri ai sensi dell'art. 43 D.Lgs. n. 267/2000. In particolare, il diritto
di accesso dei consiglieri comunali, nella sua tendenziale
onnicomprensività, è strettamente funzionale all'esercizio delle funzioni di
indirizzo e controllo degli atti degli organi decisionali dell'ente locali,
consentendo loro di valutare, con piena cognizione, la correttezza e
l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione e di promuovere le iniziative
che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale, e quindi si
configura come significativa espressione del principio democratico
dell'autonomia locale e della rappresentanza responsabile della
collettività.
[2] In questo senso si è espressa anche l’ANCI in un parere del 26.10.2005 nel quale, in coerenza con quanto sopra già espresso, ha osservato che:
“Si ritiene comunque che competa ai consiglieri comunali la più ampia
facoltà ai sensi dell’art. 43 tuel di prendere visione ed estrarre copia di
atti e documentazione amministrativa che si trovi presso gli uffici
comunali. Sulla base di tali principi si può pertanto ritenere che competa
ai consiglieri comunali di visionare, chiedendone se del caso copia, gli
elaborati tecnici afferenti a lavori pubblici sussistendo, per converso, un
correlativo obbligo degli uffici di rilasciarli; - Non appare invece
ammissibile che tali stessi soggetti possano accedere, in forza della
qualifica posseduta, nei cantieri per effettuare attività di vigilanza; - Ai
consiglieri comunali l'ordinamento non assegna infatti poteri di "vigilanza"
o "controllo" di questo tipo (che semmai competono agli organi di polizia
municipale dell'ente)” (09.04.2020 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
marzo 2020 |
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Emergenza COVID-19. Pubblicità delle sedute del consiglio comunale.
Nella situazione di emergenza da COVID -19 in atto, nel
silenzio del regolamento, spetta al sindaco, quale presidente del consiglio
comunale, stabilire le modalità che meglio possano soddisfare il rispetto
del principio di pubblicità delle sedute consiliari.
Nel confronto tra l’effettuare la diretta streaming o, invece, il procedere
alla diffusione, successivamente alla seduta, della registrazione integrale
della stessa, si ritiene che la prima modalità, qualora la strumentazione
necessaria sia nella disponibilità dell’Ente, configuri lo strumento che in
maniera più diretta ed efficace consentirebbe di dare adeguata pubblicità
alla seduta del consiglio comunale.
Il Comune chiede un parere in merito alle modalità di svolgimento delle
sedute del consiglio comunale in questo particolare momento caratterizzato
dalla situazione di emergenza da Covid-19 in atto. Più in particolare
desidera sapere se vi sia l’obbligo che le sedute consiliari si tengano in
diretta streaming o se il requisito della pubblicità possa essere
soddisfatto anche in differita, per il tramite della pubblicazione della
registrazione. Chiede, altresì, se, in caso di registrazione della seduta,
il segretario comunale debba comunque riportare nel verbale, in sintesi, i
tratti salienti della discussione.
La materia delle modalità di svolgimento delle sedute consiliari in questo
momento di emergenza sanitaria in atto è stato regolamento sia dal
legislatore regionale che statale. Il primo è intervenuto con la legge
regionale 13.03.2020, n. 3 recante “Prime misure urgenti per far fronte
all’emergenza epidemiologica da COVID–19”, la quale all’articolo 11 reca
“Modalità di svolgimento delle sedute della Giunta regionale e del Consiglio
regionale in casi di emergenza”. Tale articolo risulta di interesse anche
per gli enti locali della nostra Regione stante il disposto di cui al comma
5, secondo cui “Le disposizioni di cui ai commi da 1 a 4 possono trovare
applicazione anche agli enti locali della regione, in quanto compatibili con
il loro ordinamento e nel rispetto della propria autonomia”.
Nell’evidenziare che la norma sopra citata pone una facoltà (“possono”) per
gli enti locali di adeguarsi a quanto disposto dalla norma stessa, si
riproduce il contenuto della disposizione recentemente emanata dal Consiglio
regionale secondo cui:
“1. In caso di situazione di particolare gravità e urgenza, riconosciuta con
provvedimento del Consiglio dei Ministri o del Presidente del Consiglio dei
Ministri, che renda temporaneamente impossibile o particolarmente difficile
al Consiglio regionale, alle Commissioni consiliari, alla Conferenza dei
Presidenti dei Gruppi consiliari o alla Giunta regionale riunirsi secondo le
ordinarie modalità stabilite dalla normativa vigente, è consentito lo
svolgimento delle sedute in modalità telematica.
2. Ai fini della presente legge, per seduta in modalità telematica si
intendono le sedute degli organi collegiali di cui al comma 1 con
partecipazione a distanza dei componenti dell’organo stesso attraverso
l’utilizzo di strumenti telematici idonei a consentire la comunicazione in
tempo reale a due vie e, quindi, il collegamento simultaneo fra tutti i
partecipanti ed idonei, per quanto riguarda il Consiglio regionale, a
permettere l’espressione del voto anche a scrutinio segreto.
3. La sussistenza delle condizioni di cui al comma 1 è riconosciuta:
a) per il Consiglio regionale e per le Commissioni consiliari, dal
Presidente del Consiglio, sentita la Conferenza dei Presidenti dei Gruppi
consiliari;
b) omissis;
c) omissis.
4. Con gli atti di rispettiva competenza gli organi di cui al comma 1
adottano le necessarie disposizioni attuative di quanto disposto dal
presente articolo.
5. Le disposizioni di cui ai commi da 1 a 4 possono trovare applicazione
anche agli enti locali della regione, in quanto compatibili con il loro
ordinamento e nel rispetto della propria autonomia”.
A livello di normazione statale è stato emanato in data 17.03.2020 il
decreto legge n. 18 recante “Misure di potenziamento del Servizio sanitario
nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese
connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19” il quale all’articolo 73,
comma 1, prevede che “Al fine di contrastare e contenere la diffusione del
virus COVID-19 e fino alla data di cessazione dello stato di emergenza
deliberato dal Consiglio dei ministri il 31.01.2020, i consigli dei
comuni, delle province e delle città metropolitane e le giunte comunali, che
non abbiano regolamentato modalità di svolgimento delle sedute in
videoconferenza, possono riunirsi secondo tali modalità, nel rispetto di
criteri di trasparenza e tracciabilità previamente fissati dal presidente
del consiglio, ove previsto, o dal sindaco, purché siano individuati sistemi
che consentano di identificare con certezza i partecipanti, sia assicurata
la regolarità dello svolgimento delle sedute e vengano garantiti lo
svolgimento delle funzioni di cui all'articolo 97 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, nonché adeguata pubblicità delle sedute, ove previsto,
secondo le modalità individuate da ciascun ente”.
Il successivo comma 5 stabilisce, infine, che: “Dall'attuazione della
presente disposizione non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico
della finanza pubblica. Le amministrazioni pubbliche interessate provvedono
agli adempimenti di cui al presente articolo con le risorse umane,
finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente sui propri
bilanci”.
Premesso che, stante la potestà legislativa esclusiva della nostra Regione
in materia di ordinamento degli enti locali e delle relative
circoscrizioni
[1], esercitata con l’emanazione della legge regionale 3/2020,
in Friuli Venezia Giulia trova applicazione la legge regionale in luogo di
quella statale, pur tuttavia dal confronto tra le due disposizioni si evince
la sostanziale conformità dei precetti dalle stesse posti.
Inoltre, quanto al requisito della pubblicità delle sedute da tenersi in
modalità telematica/videoconferenza, oggetto del presente quesito, la legge
regionale nulla dice espressamente, laddove, invece, il legislatore statale
ha unicamente disposto che debba essere data “adeguata pubblicità delle
sedute […] secondo le modalità individuate da ciascun ente”. Per tale parte
si ritiene che il legislatore statale abbia espresso un principio generale
applicabile anche nella nostra Regione.
Atteso che il regolamento dell’Ente non dispone alcunché circa tale aspetto,
si ritiene che spetti al Sindaco, quale Presidente del consiglio comunale,
stabilire le modalità che, nell’attuale situazione emergenziale, meglio
possano soddisfare il rispetto del principio di pubblicità delle sedute
consiliari. A tal fine, si ritiene che l’Ente debba avvalersi degli
strumenti a propria disposizione, attesa anche la previsione di legge
statale di cui all’articolo 73, comma 5, del DL 18/2020, secondo cui “le
amministrazioni pubbliche interessate provvedono agli adempimenti di cui al
presente articolo con le risorse umane, finanziarie e strumentali
disponibili a legislazione vigente sui propri bilanci”.
In particolare, delle due modalità proposte nel quesito, l’una consistente
nella diretta streaming e l’altra nella pubblicazione, successivamente alla
seduta, della registrazione integrale della seduta stessa, nel ribadire che
spetta al Presidente del consiglio decidere quale modalità utilizzare,
preferibilmente previo confronto con i Capigruppo
[2], si ritiene che
entrambe le modalità prefigurate siano in grado di raggiungere lo scopo per
il quale sono state predisposte e cioè consentire la pubblicità della seduta
del consiglio comunale.
Ciò premesso non può sottacersi che, qualora il
Comune abbia la strumentazione necessaria a consentire la diretta streaming,
essa pare configurare lo strumento che in maniera più diretta ed efficace
consentirebbe di dare adeguata pubblicità alla seduta del consiglio
comunale.
Con riferimento all’ultima questione posta, si ritiene che il segretario
comunale debba comunque indicare nel verbale, tra gli altri, l’argomento
trattato nella discussione, con tale espressione intendendosi far
riferimento all’indicazione dei tratti salienti della seduta stessa
[3].
---------------
[1] Ai sensi dell’articolo 4, primo comma, n. 1-bis), dello Statuto di
autonomia, introdotto dalla legge costituzionale 23.09.1993, n. 2.
[2] In mancanza di diversa previsione regolamentare, attuativa delle
disposizioni normative inerenti allo svolgimento delle sedute consiliari in
modalità telematica/videoconferenza, si ritiene infatti che, nell’ambito
della leale collaborazione tra maggioranza e minoranze consiliari, sia
opportuno che il Sindaco senta i Capigruppo.
[3] L’articolo 81 del regolamento consiliare (rubricato “Processo verbale
delle sedute”) prevede che il segretario debba redigere il processo verbale
della seduta indicando “a) la data e l’ora della seduta; b) il numero di
consiglieri presenti e le generalità degli assenti; c) l’argomento che viene
trattato; d) il risultato della discussione, con l’indicazione del numero
dei Consiglieri che hanno votato a favore della proposta, delle generalità
di quelli che hanno votato contro la proposta o che si siano astenuti”
(articolo 81, comma 2) (31.03.2020 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
La privacy al tempo del virus COVID-19.
Domanda
Un consigliere di minoranza, con una interpellanza urgente, ha chiesto al
sindaco di pubblicare giornalmente, nel sito web del comune, i nominativi e
gli indirizzi delle persone risultate positive ai test sul COVD-19, sulla
base dei dati trasmessi dalla Prefettura, così da consentire agli altri
cittadini si prendere le loro precauzioni.
E’ possibile farlo?
Risposta
L’emergenza sanitaria, che ha colpito così tanto duramente la nostra nazione
–e il mondo intero– ha comportato l’adozione di misure per il contenimento
del contagio molto rilevanti e inimmaginabili sino a un mese fa.
Alcune di queste limitazioni hanno toccato, persino, dei diritti
fondamentali. Si pensi, per tutti, al diritto di libera circolazione e al
diritto di riunione, sanciti rispettivamente dagli articoli 16 e 17 della
Costituzione.
È giusto chiedersi, dunque, se lo stato di emergenza nazionale dichiarato
con una delibera del Consiglio dei ministri del 31.01.2020, per la durata di
sei mesi, possa, in qualche modo, incidere anche sul diritto alla tutela dei
dati delle persone fisiche, così come disciplinati dal Regolamento (UE)
2016/679 e, per quanto compatibili, dal decreto legislativo 30.06.2003, n.
196, alla luce delle modifiche introdotte dal d.lgs. 10.08.2018, n. 101.
La domanda risulta legittima, oltre che doverosa e una prima risposta è
venuta direttamente dal Comitato Europeo per la Protezione dei Dati (EDPB)
con la “Dichiarazione sul trattamento dei dati personali nel contesto
dell’epidemia di COVID-19”, adottata il 19.03.2020.
Il massimo organismo europeo in materia di tutela della privacy afferma che:
“Le norme in materia di protezione dei dati (come il regolamento generale
sulla protezione dei dati) non ostacolano l’adozione di misure per il
contrasto della pandemia di coronavirus. La lotta contro le malattie
trasmissibili è un importante obiettivo condiviso da tutte le nazioni e,
pertanto, dovrebbe essere sostenuta nel miglior modo possibile. È
nell’interesse dell’umanità arginare la diffusione delle malattie e
utilizzare tecniche moderne nella lotta contro i flagelli che colpiscono
gran parte del mondo. Il Comitato europeo per la protezione dei dati
desidera comunque sottolineare che, anche in questi momenti eccezionali,
titolari e responsabili del trattamento devono garantire la protezione dei
dati personali degli interessati. Occorre pertanto tenere conto di una serie
di considerazioni per garantire la liceità del trattamento di dati personali
e, in ogni caso, si deve ricordare che qualsiasi misura adottata in questo
contesto deve rispettare i principi generali del diritto e non può essere
irrevocabile. L’emergenza è una condizione giuridica che può legittimare
limitazioni delle libertà, a condizione che tali limitazioni siano
proporzionate e confinate al periodo di emergenza”.
Il documento, consultabile nel sito web del Garante Privacy italiano al
seguente link, tratta argomenti importanti come:
1 .La liceità del trattamento;
2. i principi fondamentali relativi al trattamento dei dati
personali;
3. l’uso dei dati di localizzazione da dispositivi mobili;
4. l’utilizzo dei dati nel contesto lavorativo.
In buona sostanza, anche la recentissima indicazione dell’EDPB, rileva che
le esigenze di contenimento dell’epidemia (pandemia, dall’11.03.2020,
secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità) e la tutela dei dati “particolari”
–come la salute– delle persone fisiche, rappresentano esigenze contrapposte
che vanno “contemperate”. Per fare ciò è necessario eliminare gli
agganci tra il dato personale di salute e la giusta necessità di informare
la popolazione; ciò lo si può fare applicando la pseudonimizzazione o l’anonimizzazione.
Rispondendo, quindi, alla specifica domanda del quesito è possibile
osservare che il sindaco, anche nella sua veste di autorità sanitaria locale
(ex art. 32, della legge 833/1978), riceve dalle autorità sanitarie
regionali o dalla Prefettura, i dati personali, completi di nominativo e
indirizzo, sia delle persone risultate “positive” ai test, che delle
persone collocate in quarantena fiduciaria dall’autorità sanitaria. Tale
trasferimento di dati risulta indispensabile anche per poter dare modo al
sindaco –tramite gli addetti della polizia locale– di procedere ai necessari
controlli e verifiche, circa il rispetto del periodo di quarantena, da parte
dei soggetti che ne sono obbligati.
Per quanto riguarda, invece, la comunicazione dei dati personali riferiti
allo stato di salute via web in favore dei cittadini (del globo), sarà
necessario rendere anonimi i dati riferiti ai nominativi e indirizzi di
residenza delle persone sottoposte a misure, pubblicando solamente un dato
numerico complessivo che dia conto, eventualmente, delle persone risultate
positive e di quelle che sono collocate in quarantena fiduciaria.
D’altro canto, va ricordato che la “sicurezza” degli altri cittadini,
viene garantita dall’autorità sanitaria competente per territorio, la quale
è tenuta a svolgere un’accurata indagine epidemiologica e a porre in “quarantena
con sorveglianza attiva” tutte quelle persone che possono essere entrate
in contatto con il soggetto positivo. Qualsiasi altra soluzione adottata
–oltre a violare gli articolo 6 e 9 del Regolamento (UE) 2016/679– darebbe
lo spunto per avviare una iniqua e pericolosa “caccia all’untore” (29.03.2020
- link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Emergenza COVID-19. Sedute del consiglio comunale.
Lo svolgimento delle sedute del consiglio comunale,
nella situazione di emergenza da Covid-19 in atto, pur nell’assenza di
prescrizioni normative specifiche, impositive di particolari obblighi, deve
avvenire con modalità coerenti con le indicazioni che, a livello nazionale e
regionale, sono fornite per cercare di limitare quanto più possibile la
diffusione del virus.
Compete al presidente del consiglio comunale/sindaco stabilire tali modalità
di gestione delle sedute consiliari quali la necessità che esse si tengano a
porte chiuse, in guisa da evitare assembramenti di persone, o l’opportunità
di limitare le sedute del consiglio a quelle aventi ad oggetto questioni
urgenti e in ogni caso non differibili.
Il Comune, in considerazione della situazione di emergenza da Covid-19 in
atto, chiede un parere in merito alle modalità di svolgimento dei consigli
comunali. In particolare, desidererebbe avere delle indicazioni generali
sulle modalità di gestione delle sedute consiliari, tra cui la
necessità/opportunità di limitare le stesse ai soli casi di necessità e
indifferibilità.
In via preliminare si osserva che, ai sensi dell’articolo 38, comma 2, del
decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 “il funzionamento dei consigli,
nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto, è disciplinato dal
regolamento”.
Ai sensi dell’articolo 4 del regolamento sul funzionamento del consiglio
comunale, la presidenza del consiglio spetta al sindaco (o, in caso di sua
assenza, al vicesindaco) il quale, ai sensi del successivo articolo 5,
provvede, tra l’altro, al “proficuo funzionamento dell’assemblea consiliare”
(comma 2) ed “esercita i poteri necessari per mantenere l’ordine e per
assicurare l’osservanza della legge, dello Statuto e del regolamento” (comma
3).
Spetta, pertanto, al sindaco, nella sua qualità di presidente del consiglio
comunale, assumere ogni decisione circa l’ordinato e proficuo svolgimento
delle sedute consiliari: nel particolare contesto in essere si ritiene che
il potere del sindaco comprenda ogni decisione ritenuta idonea a
fronteggiare l’emergenza esistente e, in particolare, permetta lo
svolgimento delle sedute consiliari con modalità coerenti con le indicazioni
che, a livello nazionale e regionale, sono fornite per cercare di limitare
quanto più possibile la diffusione del virus.
Con riferimento alle norme emanate, sia dal legislatore statale che
regionale, per fronteggiare l’emergenza in atto, non paiono sussistere
prescrizioni specifiche, impositive di particolari obblighi circa la tenuta
delle sedute consiliari.
In particolare, quanto alla normativa statale, i decreti del Presidente del
Consiglio dei Ministri emanati in attuazione del decreto-legge 23.02.2020, n. 6 pongono l’obbligo di rispettare una serie di condizioni generali
di tipo igienico-sanitario, la cui applicabilità è collegata all’esistenza
di più persone che si ritrovano in un unico luogo: di qui la necessità del
loro rispetto anche nel caso di sedute del consiglio comunale con la
presenza “fisica” dei consiglieri
[1].
Corollario della ratio sottesa all’emanazione di tali norme (che è quella di
evitare i contatti ravvicinati tra le persone al fine di limitare quanto più
possibile la trasmissione del virus da un individuo ad un altro) pare
essere, altresì, la necessità che, in questo momento di emergenza, le sedute
del consiglio comunale si tengano a porte chiuse, in guisa da limitare
assembramenti di persone
[2].
In linea con la ratio sopra indicata e con le prescrizioni che a livello
statale sono state adottate per gli altri settori della vita quotidiana, si
porrebbe, anche l’eventuale decisione del sindaco, quale presidente del
consiglio comunale, di limitare le sedute del consiglio a quelle aventi ad
oggetto questioni urgenti e in ogni caso non differibili. Nel ribadire
l’inesistenza di un obbligo siffatto, una decisione di tale natura
risulterebbe senz’altro coerente con l’attuale situazione emergenziale in
essere e con le indicazioni esistenti a livello nazionale che depongono nel
senso di limitare, sotto ogni profilo, gli spostamenti e i “movimenti” di
persone.
A tale riguardo, si fa presente che in data 12.03.2020 l’Assessore
regionale alle autonomie locali, funzione pubblica, sicurezza, politiche
dell'immigrazione, corregionali all'estero e lingue minoritarie ha inviato a
tutti i sindaci della nostra regione una nota nella quale, tra l’altro, si
afferma che: “E’ evidente che la situazione emergenziale che coinvolge
l’intera Nazione, comporta anche sacrifici e rallentamenti ineludibili in
numerose attività anche lavorative. Ciò significa che è dovere di tutti –soprattutto di coloro che abbiano responsabilità pubbliche– discernere con
serietà le attività veramente indifferibili da ogni altra che potrà essere
svolta o soddisfatta successivamente”.
Inoltre, si segnala anche la legge regionale 13.03.2020, n. 3 recante
“Prime misure urgenti per far fronte all’emergenza epidemiologica da COVID–19”, la quale all’articolo 11 reca “Modalità di svolgimento delle sedute
della Giunta regionale e del Consiglio regionale in casi di emergenza”. Tale
articolo risulta di interesse anche per gli enti locali della nostra Regione
stante il disposto di cui al comma 5, secondo cui “Le disposizioni di cui ai
commi da 1 a 4 possono trovare applicazione anche agli enti locali della
regione, in quanto compatibili con il loro ordinamento e nel rispetto della
propria autonomia”
[3].
Nell’evidenziare che la norma sopra citata pone una facoltà (“possono”) per
gli enti locali di adeguarsi a quanto disposto dalla stessa, si riproduce il
contenuto della disposizione recentemente emanata dal Consiglio regionale
secondo cui:
“1. In caso di situazione di particolare gravità e urgenza, riconosciuta
con provvedimento del Consiglio dei Ministri o del Presidente del Consiglio
dei Ministri, che renda temporaneamente impossibile o particolarmente
difficile al Consiglio regionale, alle Commissioni consiliari, alla
Conferenza dei Presidenti dei Gruppi consiliari o alla Giunta regionale
riunirsi secondo le ordinarie modalità stabilite dalla normativa vigente, è
consentito lo svolgimento delle sedute in modalità telematica.
2. Ai fini della presente legge, per seduta in modalità telematica si
intendono le sedute degli organi collegiali di cui al comma 1 con
partecipazione a distanza dei componenti dell’organo stesso attraverso
l’utilizzo di strumenti telematici idonei a consentire la comunicazione in
tempo reale a due vie e, quindi, il collegamento simultaneo fra tutti i
partecipanti ed idonei, per quanto riguarda il Consiglio regionale, a
permettere l’espressione del voto anche a scrutinio segreto.
3. La sussistenza delle condizioni di cui al comma 1 è riconosciuta:
a) per il Consiglio regionale e per le Commissioni consiliari, dal
Presidente del Consiglio, sentita la Conferenza dei Presidenti dei Gruppi
consiliari;
b) omissis;
c) omissis.
4. Con gli atti di rispettiva competenza gli organi di cui al comma 1
adottano le necessarie disposizioni attuative di quanto disposto dal
presente articolo.
5. Le disposizioni di cui ai commi da 1 a 4 possono trovare applicazione
anche agli enti locali della regione, in quanto compatibili con il loro
ordinamento e nel rispetto della propria autonomia” (16.03.2020 -
link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Gruppi consiliari.
1) La disciplina dei gruppi consiliari, ai
sensi dell’art. 38, comma 2, del D.Lgs. 267/2000, è dettata dal regolamento
sul funzionamento del consiglio comunale “nel quadro dei principi stabiliti
dallo statuto”. Pertanto, le problematiche relative alla costituzione e al
funzionamento dei gruppi consiliari devono essere valutate alla stregua
delle specifiche norme statutarie e regolamentari di cui l’ente si è dotato.
2) Qualora un consigliere comunale esca dal gruppo di originaria
appartenenza e non intenda aderire ad alcun gruppo esistente, dovrebbe
essergli data la possibilità di aderire al gruppo misto, se esistente, o di
costituirlo ex novo: la possibilità che il gruppo misto sia costituito anche
da un solo componente soddisfa, infatti, il diritto di autodeterminazione
del consigliere e consentirebbe il pieno rispetto del principio
costituzionalmente garantito del divieto di mandato imperativo.
Il Consigliere comunale desidera sapere quale sia la “prassi corretta da
seguire per dimettersi dal gruppo elettorale di appartenenza mantenendo però
la posizione di consigliere comunale di minoranza indipendente”. La
questione posta attiene la più ampia tematica della disciplina dei gruppi
consiliari all’interno della compagine assembleare comunale.
In via preliminare si osserva che “il principio generale del divieto di
mandato imperativo sancito dall’articolo 67 della Costituzione, e
pacificamente applicabile ad ogni assemblea elettiva, assicura ad ogni
consigliere l’esercizio del mandato ricevuto dagli elettori –pur
conservando verso gli stessi la responsabilità politica– con assoluta
libertà, ivi compresa quella di far venir meno l’appartenenza dell’eletto
alla lista o alla coalizione di originaria appartenenza”
[1].
Sempre in termini generali si chiarisce che, come rilevato dal Ministero
dell’Interno, “i gruppi non sono configurabili quali organi dei partiti e,
pertanto, non sembra sussistere in capo a questi ultimi una potestà
direttamente vincolante sia per un membro del gruppo di riferimento, che per
gli organi assembleari dell’ente”
[2].
Interessante, al riguardo è una
pronuncia del giudice amministrativo la quale ha precisato che “i gruppi
consiliari, in seno al Consiglio comunale […] hanno […] una duplice natura.
Essi infatti rappresentano, per un verso, la proiezione dei partiti
all’interno delle assemblee, e, per altro verso, costituiscono parte
dell’ordinamento assembleare, in quanto articolazioni interne di un organo
istituzionale. È dunque possibile distinguere due piani di attività dei
gruppi: uno, più strettamente politico, che concerne il rapporto del singolo
gruppo con il partito politico di riferimento, l’altro, gravitante
nell’ambito pubblicistico, in relazione al quale i gruppi costituiscono
strumenti necessari per lo svolgimento delle funzioni proprie degli organi
assembleari, contribuendo ad assicurare l’elaborazione di proposte e il
confronto dialettico tra le diverse posizioni politiche e
programmatiche”
[3].
Con riferimento alla fattispecie in esame l’intenzione del consigliere
comunale è quella di uscire dal gruppo originario di appartenenza costituito
dai consiglieri eletti nella medesima lista. A seguito di tali dimissioni si
porrebbe la questione di definire la nuova collocazione che assumerebbe
l’indicato consigliere attesa la sua volontà di mantenere “la posizione di
consigliere comunale di minoranza indipendente”.
La questione verrà nel prosieguo affrontata sotto il profilo della
disciplina dei gruppi consiliari, e non già di quello dei gruppi politici,
l’appartenenza o l’uscita dai quali è regolamentata dalle norme interne dei
diversi movimenti politici, senza influenza diretta sull’attività del
consiglio comunale.
Preliminarmente, si ricorda che la disciplina dei gruppi consiliari, ai
sensi dell’articolo 38, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n.
267, è dettata dal regolamento sul funzionamento del consiglio comunale “nel
quadro dei principi stabiliti dallo statuto”, essendo riconosciuta ai
consigli piena autonomia funzionale ed organizzativa. Pertanto, le
problematiche relative alla costituzione e al funzionamento dei gruppi
consiliari devono essere valutate alla stregua delle specifiche norme
statutarie e regolamentari di cui l’ente si è dotato.
Tale disciplina è contenuta nell’articolo 30 dello statuto comunale e
nell’articolo 8 del regolamento sul funzionamento del consiglio comunale.
Il primo (articolo 30 dello statuto) recita: “I consiglieri possono
costituirsi in gruppi, designando il capogruppo, secondo quanto previsto nel
regolamento e ne danno comunicazione al Segretario comunale. Qualora non si
eserciti tale facoltà o nelle more della designazione, i capigruppo sono
individuati nei consiglieri che abbiano riportato il maggior numero dei voti
nella lista di appartenenza”.
Il secondo (articolo 8 del regolamento consiliare) prevede che:
“1. I Consiglieri eletti nella medesima lista formano, di
regola, un Gruppo Consiliare.
2. Ciascun Gruppo è costituito da almeno due Consiglieri. Nel caso
che una lista presentata alle elezioni abbia avuto eletto un solo
Consigliere, a questi sono riconosciute le prerogative e la rappresentanza
spettanti ad un Gruppo Consiliare.
3. I singoli Gruppi devono comunicare per iscritto al Sindaco il
nome del Capo gruppo, durante la prima riunione del Consiglio neo-eletto.
[…]
4. Il Consigliere che intende appartenere ad un Gruppo diverso da
quello in cui è stato eletto deve darne comunicazione al Sindaco, allegando
la dichiarazione di accettazione del Capo del nuovo gruppo.
5. Il Consigliere che si distacca dal gruppo in cui è stato eletto
e non aderisce ad altri gruppi non acquisisce le prerogative spettanti ad un
gruppo consiliare. Qualora più Consiglieri vengano a trovarsi nella predetta
condizione, essi costituiscono un gruppo misto che elegge al suo interno il
Capo gruppo. Della costituzione del gruppo misto deve essere data
comunicazione per iscritto al Sindaco, da parte dei Consiglieri interessati.
6. Omissis”.
In via preliminare necessita ricordare che l’interpretazione delle norme
regolamentari in oggetto spetta in via esclusiva al consiglio comunale che è
l’organo competente all’adozione delle stesse. Di seguito pertanto si
forniscono delle possibili interpretazioni dell’articolo 8 del regolamento
per il funzionamento del consiglio che possano essere di ausilio per la
soluzione della questione posta.
Quanto alle modalità da porre in essere per uscire dal gruppo di
appartenenza si ritiene applicabile il disposto di cui al comma 4
dell’articolo 8 citato secondo cui “Il Consigliere che intende appartenere
ad un Gruppo diverso da quello in cui è stato eletto deve darne
comunicazione al Sindaco”. Si ritiene che tale norma possa applicarsi non
solo nel caso, espressamente disciplinato, di uscita da un gruppo e adesione
ad altro già esistente ma anche nella diversa ipotesi in cui non esista un
gruppo al quale aderire.
Peraltro, l’articolo 30 dello statuto comunale prevede che la costituzione
dei gruppi consiliari debba essere comunicata al segretario comunale. Al
fine di coordinare le due disposizioni si ritiene opportuno che la
comunicazione da parte dell’amministratore locale venga effettuata nei
confronti sia del sindaco che del segretario comunale.
Si pone, poi, la questione di individuare il gruppo di successiva
appartenenza del consigliere comunale in riferimento.
Attesa, infatti, l’impossibilità per il consigliere di costituire da solo un
gruppo autonomo, stante la previsione di cui al comma 2 dell’articolo 8 del
regolamento consiliare in base al quale “ciascun gruppo è costituito da
almeno due Consiglieri”, bisogna considerare la possibilità che lo stesso
entri a far parte del gruppo misto o lo costituisca, se non esistente. Non
pare invece sostenibile la possibilità che un amministratore locale non
faccia parte di alcun gruppo consiliare. La mancata incardinazione in un
gruppo consiliare, infatti, si tradurrebbe in un’inaccettabile
penalizzazione per il consigliere, attesa l’esistenza di diverse norme nel
nostro ordinamento che presuppongono l’appartenenza ad un gruppo
consiliare
[4].
Nel ribadire che la materia dei gruppi consiliari deve trovare la propria
disciplina nelle norme statutarie e regolamentari dell’ente locale, si
osserva che l’articolo 8, comma 5, del regolamento sul funzionamento del
consiglio comunale parrebbe non consentire la possibilità di istituire il
gruppo misto anche con la partecipazione di un unico componente. Esso,
infatti, prevede che: “Il Consigliere che si distacca dal gruppo in cui è
stato eletto e non aderisce ad altri gruppi non acquisisce le prerogative
spettanti ad un gruppo consiliare. Qualora più Consiglieri vengano a
trovarsi nella predetta condizione, essi costituiscono un gruppo misto che
elegge al suo interno il Capo gruppo. Della costituzione del gruppo misto
deve essere data comunicazione per iscritto al Sindaco, da parte dei
Consiglieri interessati”.
Occorre, peraltro, considerare che in linea generale il gruppo misto è un
gruppo consiliare con carattere residuale, nel quale confluiscono i
consiglieri, anche di diverso orientamento, che non si riconoscono negli
altri gruppi costituiti, o che non possono costituire un proprio gruppo per
mancanza delle condizioni previste dallo statuto o dal regolamento e la cui
costituzione non dovrebbe essere subordinata alla presenza di un numero
minimo di componenti. La possibilità di consentire che il gruppo misto sia
costituito anche da un solo componente soddisfa, in altri termini, il
diritto di autodeterminazione del consigliere e consentirebbe il pieno
rispetto del principio costituzionalmente garantito del divieto di mandato
imperativo.
Si rileva, ancora, che fino a quando il gruppo misto è composto da un solo
membro, lo stesso dovrebbe assumere automaticamente la veste di capogruppo.
Il Ministero dell’Interno, in diverse occasioni, nell’affrontare la
questione in riferimento, pur premettendo che “le problematiche relative
alla costituzione e funzionamento dei gruppi consiliari devono essere
valutate alla stregua delle specifiche norme statutarie e regolamentari di
cui l’ente locale si è dotato”
[5], stante la piena autonomia funzionale e
organizzativa riconosciuta ai consigli comunali, ha affermato che
“l’esercizio del diritto di costituire il gruppo misto non dovrebbe essere
subordinato alla presenza di un numero minimo di componenti”
[6].
Concludendo, alla luce delle considerazioni suesposte le norme regolamentari
del Comune dovrebbero rispettare i principi sopra espressi per quanto
concerne la costituzione del gruppo misto. Si suggerisce, pertanto, di
richiedere all’Ente di appartenenza di valutare l'opportunità di procedere
alla modifica di quelle disposizioni che si pongano in contrasto con essi e
che costituirebbero una lesione delle prerogative riconosciute ai
consiglieri comunali.
---------------
[1] Così TAR Trentino Alto Adige, sentenza del 09.03.2009, n. 75.
[2] Ministero dell’Interno, parere del 21.01.2020.
[3] TAR Lazio, Roma, sez. II-ter, sentenza del 15.12.2004, n. 16240.
[4] Una tale necessità si desume da diverse previsioni che presuppongono
l’esistenza dei gruppi consiliari all’interno del consiglio comunale. Si
pensi, a titolo di esempio, alla norma di cui all’art. 38, comma 3, TUEL,
ove si demanda al regolamento sul funzionamento del consiglio la disciplina,
tra l’altro, anche della gestione delle risorse attribuite per il
funzionamento dei gruppi consiliari regolarmente costituiti o all’art. 39,
comma 4, TUEL il quale prevede che il presidente del consiglio comunale
assicuri una adeguata e preventiva informazione ai gruppi consiliari sulle
questioni sottoposte al consiglio.
[5] Ministero dell’Interno, parere del 12.08.2019.
[6] Ministero dell’Interno, parere del 22.11.2019. Nello stesso senso
Ministero dell’Interno, parere del 21.07.2017 (05.03.2020 - link
a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
febbraio 2020 |
|
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Consigli, parla lo statuto. Un consigliere non può restare senza
gruppo. Se non ci sono le condizioni per costituirne uno, deve confluire nel
misto.
Un consigliere può essere espulso dal proprio gruppo consiliare?
Un consigliere comunale è stato espulso dal gruppo consiliare di
appartenenza essendo «venuto meno il necessario rapporto di fiducia»,
e lo stesso amministratore non ha aderito ad alcun altro gruppo compreso il
gruppo misto. Nell'ambito dei consigli comunali, i gruppi non sono
configurabili quali organi dei partiti e, pertanto, non sembra sussistere in
capo a questi ultimi una potestà direttamente vincolante sia per un membro
del gruppo di riferimento, che per gli organi assembleari dell'ente.
Si richiama la sentenza n. 16240/2004 con la quale il Tar Lazio ha precisato
che i gruppi consiliari hanno una duplice natura; essi rappresentano, per un
verso, la proiezione dei partiti all'interno delle assemblee, e, per altro
verso, costituiscono parte dell'ordinamento assembleare, in quanto
articolazioni interne di un organo istituzionale. Nella citata pronuncia, si
legge che «è dunque possibile distinguere due piani di attività dei
gruppi: uno, più strettamente politico, che concerne il rapporto del singolo
gruppo con il partito politico di riferimento, l'altro, gravitante
nell'ambito pubblicistico, in relazione al quale i gruppi costituiscono
strumenti necessari per lo svolgimento delle funzioni proprie degli organi
assembleari, contribuendo ad assicurare l'elaborazione di proposte e il
confronto dialettico tra le diverse posizioni politiche e programmatiche».
L'art. 38, comma 2, del Tuel demanda al regolamento, «nel quadro dei
principi stabiliti dallo statuto», la disciplina del funzionamento dei
consigli; pertanto, le problematiche relative alla costituzione e al
funzionamento dei gruppi consiliari devono essere valutate alla stregua
delle specifiche norme statutarie e regolamentari di cui l'ente locale si è
dotato.
Dalla lettura dello statuto e del regolamento sul funzionamento del
consiglio comunale, emerge che i consiglieri possono costituire gruppi
monopersonali solamente nel caso in cui sia stato eletto un solo consigliere
nell'ambito di una lista, oppure, «in corrispondenza della nascita di
nuovi movimenti politici a livello nazionale». Dall'esame delle norme
citate emerge, altresì, che, qualora i consiglieri nel corso della
consiliatura abbiano abbandonato il proprio gruppo originario, ove non
abbiano diritto a costituire un gruppo di un solo componente, «vanno
assegnati al gruppo misto».
Tali disposizioni, nel prevedere l'iscrizione d'ufficio al gruppo misto in
assenza dei presupposti previsti a giustificazione del gruppo monopersonale,
sembrerebbero escludere la possibilità che il consigliere possa decidere di
non appartenere ad alcun gruppo. Nell'ambito delle surriferite fonti di
autonomia locale non sembra potersi rinvenire una specifica normativa che
preveda l'ipotesi della espulsione di un consigliere dal proprio gruppo di
appartenenza originario.
Tanto premesso, nel ribadire che la materia dei gruppi consiliari è
interamente demandata allo statuto e al regolamento sul funzionamento del
consiglio, si rappresenta che è in tale ambito che dovrebbero trovare
adeguata soluzione le relative problematiche applicative. Spetta, infatti,
alle decisioni del consiglio comunale, valutare l'opportunità di indicare,
con apposita modifica regolamentare, anche le ipotesi in argomento (articolo ItaliaOggi del 21.02.2020). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Pubblicazione
provvedimenti organi indirizzo e dirigenti.
Domanda
Quali sono i provvedimenti adottati dagli organi di indirizzo e dai
dirigenti, oggetto degli specifici obblighi di pubblicazione, di cui
all’art. 23, del d.lgs. n. 33/2013?
Risposta
L’articolo 23, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, nella sua versione
iniziale, prevedeva l’obbligo di pubblicare e aggiornare ogni sei mesi, in
distinte partizioni della sezione «Amministrazione trasparente», gli
elenchi dei provvedimenti adottati dagli organi di indirizzo politico e dai
dirigenti, con particolare riferimento ai provvedimenti finali dei
procedimenti di:
a) autorizzazione o concessione;
b) scelta del contraente per l’affidamento di lavori, forniture e
servizi, anche con riferimento alla modalità di selezione prescelta ai sensi
del codice dei contratti pubblici, relativi a lavori, servizi e forniture,
di cui al d.lgs. n. 163/2006;
c) concorsi e prove selettive per l’assunzione del personale e
progressioni di carriera di cui all’art. 24 del d.lgs. n. 150/2009;
d) accordi stipulati dall’amministrazione con soggetti privati o
con altre amministrazioni pubbliche.
Il successivo comma 2, stabiliva, invece, che per ciascuno dei provvedimenti
compresi negli elenchi di cui al comma 1 doveva essere pubblicato:
• il contenuto;
• l’oggetto;
• l’eventuale spesa prevista;
• gli estremi relativi ai principali documenti contenuti nel
fascicolo relativo al procedimento.
La pubblicazione doveva avvenire nella forma di una scheda sintetica,
prodotta automaticamente in sede di formazione del documento che contiene
l’atto.
La norma originaria –peraltro non cristallina nella sua formulazione, in
virtù della presenza della locuzione “con particolare riferimento”–
ha subito delle sostanziali modifiche da parte dell’articolo 22, comma 1,
del decreto legislativo 25.05.2016, n. 97, che ha abrogato le lettere a) e
c), del comma 1 e l’intero comma 2.
Alla luce delle modifiche intervenute, il testo dell’art. 23, del d.lgs.
33/2013, risulta, oggi, così strutturato:
Art. 23 Obblighi di pubblicazione concernenti i provvedimenti
amministrativi
1. Le pubbliche amministrazioni pubblicano e aggiornano ogni sei
mesi, in distinte partizioni della sezione «Amministrazione trasparente»,
gli elenchi dei provvedimenti adottati dagli organi di indirizzo politico e
dai dirigenti, con particolare riferimento ai provvedimenti finali dei
procedimenti di:
[a) autorizzazione o concessione;]
b) scelta del contraente per l’affidamento di lavori, forniture e servizi,
anche con riferimento alla modalità di selezione prescelta ai sensi del
codice dei contratti pubblici, relativi a lavori, servizi e forniture, di
cui al d.lgs. 18.04.2016, n. 50, fermo restando quanto previsto
dall’articolo 9-bis;
[c) concorsi e prove selettive per l’assunzione del personale e
progressioni di carriera di cui all’art. 24 del d.lgs. 150/2009;]
d) accordi stipulati dall’amministrazione con soggetti privati o con altre
amministrazioni pubbliche, ai sensi degli artt. 11 e 15 della legge
07.08.1990, n. 241.
[2. Per ciascuno dei provvedimenti compresi negli elenchi
di cui al comma 1 sono pubblicati il contenuto, l’oggetto, la eventuale
spesa prevista e gli estremi relativi ai principali documenti contenuti nel
fascicolo relativo al procedimento. La pubblicazione avviene nella forma di
una scheda sintetica, prodotta automaticamente in sede di formazione del
documento che contiene l’atto.]
Alla luce di quanto sopra, la risposta al quesito può essere formulata
come di seguito riportato:
– ogni sei mesi e per la durata di anni cinque, occorre pubblicare
su Amministrazione trasparente > Provvedimenti, un elenco con i principali
provvedimenti degli organi di indirizzo che, nei comuni, sono il Sindaco, la
Giunta e il Consiglio comunale [1],
pertanto, andranno pubblicati i seguenti elenchi:
• deliberazioni di Consiglio comunale;
• deliberazione di Giunta comunale;
• ordinanze del sindaco, ex art. 50 del TUEL 267/2000;
• ordinanze del sindaco, ex art. 54 TUEL 267/2000;
• decreti del sindaco.
Per ciò che concerne i dirigenti (o posizioni organizzative, in enti senza
la dirigenza) occorre pubblicare degli elenchi semestrali di:
• determinazioni dirigenziali;
• ordinanze dirigenziali.
La tempistica degli obblighi di pubblicazione può essere indicata nella
sezione Trasparenza, del Piano Anticorruzione, prevedendo –ma è solo una
nostra indicazione– che gli elenchi del primo semestre dell’anno vengano
pubblicati entro il 30 settembre del medesimo anno e gli elenchi del secondo
semestre, entro il 31 marzo dell’anno successivo.
Per quanto riguarda, invece, gli atti per la scelta del contraente per
l’affidamento di lavori, forniture e servizi, si ritiene che l’obbligo possa
ritenersi già assolto, pubblicando tutti gli atti nella sottosezione Bandi
di gara e contratti, come scrupolosamente previsto dall’articolo 37, del
d.lgs. 33/2013 [2],
mentre per gli accordi con altri soggetti, stipulati ai sensi degli artt. 11
e 15 della legge 241/1990, l’obbligo sarà già assolto con la pubblicazione
degli elenchi delle deliberazioni di Giunta e di Consiglio o, in caso di
accordi di rilevante impatto sull’organizzazione e sulle funzioni dell’ente,
nella sottosezione Disposizioni generali > Atti generali.
L’elenco, in assenza di specifiche indicazioni della legge e dell’ANAC
[3], si ritiene che possa
essere formato come da tabella sotto riportata, prestando la massima
attenzione e cautela al contenuto dell’oggetto dell’atto, soprattutto alla
luce delle vigenti disposizioni in materia di tutela dei dati personali (si
pensi, a titolo di esempio per tutti, alle ordinanze sindacali di TSO e ASO
[4]).
ATTO
NUM. DATA
OGGETTO
Delibera consiliare 01
07.01.2020 Approvazione …
Contrariamente a ciò che si trova pubblicato in alcuni siti web di qualche
ente locale, chi scrive, ritiene che non sia più pubblicabile il contenuto
(cioè il testo integrale) degli atti adottati dagli amministratori e dai
dirigenti. Ciò in virtù dell’introduzione, nella legislazione italiana,
proprio dal d.lgs. 97/2016, dell’innovativo (e per certi versi
rivoluzionario) istituto dell’accesso civico generalizzato (cosiddetto: FOIA)
[5].
Istituto attraverso il quale, qualsiasi cittadino del mondo, potrà avanzare
richiesta di accesso ai dati e documenti detenuti dalle pubbliche
amministrazioni, in forma totalmente gratuita e senza necessità di
motivazione. Una volta consultati gli elenchi e avuto contezza dell’oggetto
dell’atto, sarà estremamente agevole presentare istanza di accesso con il
FOIA o con la legge 241/1990 (Titolo V, motivando la richiesta ex art. 22,
comma 1, lettera b [6]).
I relativi modelli per garantire l’accesso (FOIA o legge 241), dovranno
essere pubblicati e resi facilmente scaricabili e compilabili, dagli enti
nella sottosezione Altri contenuti > Accesso civico.
---------------
[1] Si veda articolo 36, comma 1, del d.lgs. 18.08.2000, n. 267;
[2] Si veda Allegato 1, delibera ANAC n. 1310 del 28/12/2016, sottosezione
“Provvedimenti”;
[3] Si veda Paragrafo 5.5, della delibera ANAC n. 1310 del 28/12/2016,
recante “Prime linee guida recanti indicazioni sull’attuazione degli
obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni contenute
nel d.lgs. 33/2013 come modificato dal d.lgs. 97/2016”;
[4] TSO = Trattamento Sanitario Obbligatorio; ASO = Assistenza Sanitaria
Obbligatoria;
[5] Si veda articolo 5, comma 2 e seguenti e articolo 5-bis, d.lgs. 33/2013;
[6] Legge 241/1990, art. 22, co. 1, lettera b): per “interessati”, tutti i
soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi,
che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è
chiesto l’accesso (18.02.2020 - link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Barriere
architettoniche, il Comune che non le elimina discrimina
indirettamente il consigliere disabile.
Il Comune attua una forma di «discriminazione indiretta»
contro il consigliere disabile se non rimuove le barriere
architettoniche che gli impediscono di accedere "in via
autonoma" alla sala consiliare. L'ente locale è tenuto a
risarcirgli i danni subiti in relazione a tutto il periodo
in cui il suo diritto di accesso è stato impedito a meno
dell'aiuto di terzi, per quanto messi a disposizione
dall'ente stesso. E, la successiva installazione di
un'ascensore per disabili non cancella i disagi subiti che
sono appunto il danno ingiusto risarcibile in termini di
responsabilità aquiliana.
La Corte di Cassazione, Sez. III civile, con la
sentenza 13.02.2020 n. 3691 conferma -a carico
del Comune- il risarcimento del danno, quantificato in via
equitativa, in favore del consigliere penalizzato dalla
mancata predisposizione di modifiche architettoniche o di
sistemi ad hoc per rendere accessibili i luoghi
pubblici di sua appartenenti a chi sia portatore di
disabilità.
A nulla rilevando che in alternativa al sostegno fisico del
personale comunale di servizio il Comune avesse anche deciso
di tenere le assemblee consiliari nella palestra elementare
proprio per favorire il consigliere in difficoltà. Si
tratta, comunque di quella discriminazione indiretta -a
norma del comma 3 dell'articolo 2 della legge 67/2006- che
non è mirata contro una singola persona concretamente
danneggiata dallo stato dei luoghi, ma rileva per la sua
potenzialità lesiva dei diritti dei disabili coinvolti dalla
situazione di fatto.
Quindi la mancanza di volontà di discriminare una specifica
persona non fa venir meno la violazione dei diritti
costituzionalmente garantiti ai portatori di handicap
fisico.
L'elemento soggettivo che rileva non è l'intenzione
volontaria o colpevole di arrecare un danno, ma la
negligenza e la mera inerzia del soggetto chiamato ad
adempiere al dovere di rimuovere le barriere architettoniche
per consentire il corrispondente esercizio del diritto
all'accessibilità. Come dice la Cassazione la
discriminazione indiretta si realizza anche con «comportamenti
neutri». Mentre non è elemento neutro, bensì fonte di
responsabilità aquiliana, la mancata predisposizione di
mezzi tesi a migliorare l'accesso dei disabili agli edifici
già costruiti, in attesa di interventi definitivi
maggiormente migliorativi per l'esercizio del relativo
diritto.
Infatti, per tale motivo la Cassazione ha confermato il
ragionamento dei giudici di appello che avevano respinto la
lamentela del Comune sul proprio obbligo di risarcire, in
quanto aveva predisposto un mezzo ("trattorino") che
seppur non adeguato a garantire l'accesso autonomo del
disabile dimostrava l'intenzione di superamento delle
barriere architettoniche. Invece, nelle more dell'intervento
edilizio risolutivo sussiste la responsabilità anche per la
misura provvisoria inadeguata allo scopo. Ovviamente tale
qualità di adeguatezza (in questo caso, di un montascale
piuttosto che di un trattorino) è valutazione di merito non
ridiscutibile in sede di legittimità.
Infine il Comune contestava la liquidazione del danno in via
equitativa facendo rilevare il proprio sforzo di
contemperare i limiti fisici di un edificio anni '50 con
l'esigenza di accedere da parte del consigliere disabile. La
Cassazione fa notare che è l'inadeguatezza dell'azione messa
in campo a tutela della persona disabile a determinare il
vulnus risarcibile. In questo caso si è trattato della
predisposizione di un mezzo insicuro e non utilizzabile in
via autonoma da parte del fruitore.
Conclude la Cassazione che in sede di legittimità è
insindacabile il giudizio del giudice di merito che ravvisa
i presupposti del risarcimento in via equitativa, mentre
deve essere percepibile e quindi ricorribile in Cassazione
l'eventuale carenza motivazionale sul calcolo del quantum
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 14.02.2020).
-----------------
MASSIMA
6. Il ricorso va rigettato.
6.1. In particolare, il primo motivo è in parte non
fondato e in parte inammissibile.
6.1.1. La censura è, in particolare, non fondata, laddove
pretende di attribuire natura programmatica alle norme che
impongono l'eliminazione delle barriere architettoniche.
Giova premettere, al riguardo, come questa Corte abbia già
affermato che l'esistenza di "ampia
definizione legislativa e regolamentare di barriere
architettoniche e di accessibilità rende la normativa
sull'obbligo dell'eliminazione delle prime, e sul diritto
alla seconda per le persone con disabilità, immediatamente
precettiva ed idonea a far ritenere prive di qualsivoglia
legittima giustificazione la discriminazione o la situazione
di svantaggio in cui si vengano a trovare queste ultime",
consentendo loro "il ricorso alla tutela
antidiscriminatoria, quando l'accessibilità sia impedita o
limitata" ciò, a prescindere, "dall'esistenza di una
norma regolamentare apposita che attribuisca la
qualificazione di barriera architettonica ad un determinato
stato dei luoghi"
(così, in motivazione Cass. Sez. 3, sent. 23.09.2016, n.
18762, Rv. 642103-02).
Una conclusione, questa, che appare del
tutto in linea con la necessità di assicurare alla normativa
suddetta un'interpretazione conforme a Costituzione, se è
vero che -come sottolinea la stessa giurisprudenza
costituzionale- l'accessibilità "è divenuta una «qualitas»
essenziale" perfino "degli edifici privati di nuova
costruzione ad uso di civile abitazione, quale conseguenza
dell'affermarsi, nella coscienza sociale, del dovere
collettivo di rimuovere, preventivamente, ogni possibile
ostacolo alla esplicazione dei diritti fondamentali delle
persone affette da handicap fisici"
(così, Corte cost., sent. n. 167 del 1999; nello stesso
senso, Corte cost. sent. n. 251 del 2008).
Del pari, si è sottolineato come "il
superamento delle barriere architettoniche -tra le quali
rientrano, ai sensi dell'art. 1, comma 2, lettera b), del
d.P.R. n. 503 del 1996, gli «ostacoli che limitano o
impediscono a chiunque la comoda e sicura utilizzazione di
spazi, attrezzature o componenti»- è stato previsto (comma 1
dell'art. 27 della legge n. 118 del 1971) «per facilitare la
vita di relazione» delle persone disabili", evidenziandosi
che tali principi "rispondono all'esigenza di una generale
salvaguardia della personalità e dei diritti dei disabili e
trovano base costituzionale nella garanzia della dignità
della persona e del fondamentale diritto alla salute degli
interessati, intesa quest'ultima nel significato, proprio
dell'art. 32 Cost., comprensivo anche della salute psichica
oltre che fisica"
(così, nuovamente, Corte cost. sent. n. 251 del 2008).
6.1.2. Il motivo è, invece, addirittura inammissibile
laddove il ricorrente deduce di aver ottemperato al dovere
di apportare all'edificio municipale "tutti quegli
accorgimenti che possano migliorarne la fruibilità da parte
dei disabili", attraverso la messa disposizione del "trattorino",
lamentando, così, la violazione, in particolare, dell'art.
1, comma 3, del d.P.R. n. 503 del 1996.
Così prospettata, infatti, la censura fuoriesce dalla
portata applicativa dell'art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc.
civ., e ciò alla stregua del principio secondo cui "il
vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di
un'erronea ricognizione, da parte del provvedimento
impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di
legge e implica necessariamente un problema interpretativo
della stessa; l'allegazione di un'erronea ricognizione della
fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa"
-che è quanto si lamenta nel caso di specie, dal momento che
ci si duole del fatto che il "trattorino" non sia
stato ritenuto accorgimento idoneo ad migliore la fruibilità
dell'edificio municipale in attesa dell'installazione
dell'ascensore- "è, invece, esterna all'esatta
interpretazione della norma e inerisce alla tipica
valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di
legittimità" (da ultimo, "ex multis", Cass. Sez.
1, ord. 13.10.2017, n. 24155, Rv. 645538-03, nonché Cass.
Sez. 3, ord. 13.03.2018, n. 6035, Rv. 648414-01).
Lo stesso è a dirsi della dedotta errata interpretazione
dell'art. 2 della legge n. 67 del 2006, giacché la censura è
basata sull'assunto che esso Comune si sarebbe
tempestivamente attivato per l'installazione dell'ascensore,
ovvero su una valutazione fattuale, preclusa in questa sede,
essendo inammissibile il motivo di ricorso per cassazione "con
cui si deduca, apparentemente, una violazione di norme di
legge mirando, in realtà, alla rivalutazione dei fatti
operata dal giudice di merito, così da realizzare una
surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un
nuovo, non consentito, terzo grado di merito" (da
ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 04.04.2017, n. 8758, Rv.
643690-01).
6.2. Il secondo motivo è anch'esso in parte non
fondato e in parte inammissibile.
6.2.1. Va, innanzitutto, esaminata la censura secondo cui la
sentenza impugnata avrebbe omesso del tutto "la
valutazione dell'elemento soggettivo dell'azione del Comune
volta al superamento della barriera architettonica", e
ciò minimizzando l'installazione del cd. "trattorino".
Al riguardo, deve osservarsi -nel ribadire, peraltro, che il
riconoscimento del carattere discriminatorio di "una
disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o
un comportamento apparentemente neutri" in ogni caso "presuppone
la verifica della sussistenza degli elementi soggettivi ed
oggettivi dell'illecito aquiliano ai sensi dell'art. 2043
cod. civ., al quale va ricondotta la fattispecie prevista
dall'art. 3, comma 3, della legge n. 67 del 2006" (cfr.
Cass. Sez. 3, sent. n. 18762 del 2016, cit.)- che tale
censura, ancora una volta, finisce con il risolversi nella
richiesta di un apprezzamento di fatto sulla idoneità del "trattorino"
a garantire l'accessibilità all'edificio municipale, non
consentita in questa sede, donde la sua inammissibilità.
6.2.2. Quanto, invece, alla censura che investe la
determinazione del risarcimento del danno, va evidenziato
-nel senso, questa volta, della non fondatezza- come quello
previsto dalla norma in esame sia uno sistema equitativo di
liquidazione del danno.
Di conseguenza, trovano applicazione i principi secondo cui
"l'esercizio, in concreto, del potere discrezionale
conferito al giudice di liquidare il danno in via equitativa
non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità",
purché a condizione -soddisfatta nel caso che occupa- che "la
motivazione della decisione dia adeguatamente conto dell'uso
di tale facoltà, indicando il processo logico e valutativo
seguito" (da ultimo, Cass. Sez. 3, sent. 13.10.2017, n.
24070, Rv. 645831-01; in senso analogo Cass. Sez. 1, sent.
15.03.2016, n. 5090, Rv. 639029-01), restando, poi, inteso
che "al fine di evitare che la relativa decisione si
presenti come arbitraria e sottratta ad ogni controllo",
occorre che il giudice indichi, anche solo "sommariamente
e nell'ambito dell'ampio potere discrezionale che gli è
proprio, i criteri seguiti per determinare l'entità del
danno e gli elementi su cui ha basato la sua decisione in
ordine al «quantum»" (Cass. Sez. 3, sent. 31.01.2018, n.
2327, Rv. 647590-01), senza però che egli sia "tenuto a
fornire una dimostrazione minuziosa e particolareggiata di
un univoco e necessario rapporto di consequenzialità di
ciascuno degli elementi esaminati e l'ammontare del danno
liquidato, essendo sufficiente che il suo accertamento sia
scaturito da un esame della situazione processuale
globalmente considerata" (Cass. Sez. 3, sent.
10.11.2015, n. 22885, Rv. 637822-01).
Nel caso di specie, la Corte marchigiana, nell'operare la
quantificazione, ha dichiarato di aver "tenuto conto
della destinazione d'uso del fabbricato interessato, della
qualifica rivestita all'epoca dall'istante, nonché del
periodo di tempo per il quale si è protratta la situazione
di inadempienza dell'ente territoriale", così indicando
i criteri seguiti nella determinazione del "quantum". |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: La
piattaforma ANAC per l’acquisizione dei piani triennali di
prevenzione della corruzione.
Domanda
Da una lettura delle disposizioni in merito alla stesura del
PTPCT 2020 e agli adempimenti da eseguire, successivamente
alla approvazione definitiva, è emersa la necessità di
compilare il questionario sul sito di ANAC secondo le
modalità indicate nella “Piattaforma di Acquisizione dei
Piani Triennali per la Prevenzione della Corruzione e per la
Trasparenza – Guida alla compilazione dei questionari per le
Pubbliche Amministrazioni”.
Si chiede se tale compilazione sia obbligatoria e se è da
effettuarsi entro il termine del 31 gennaio 2020, medesimo
termine indicato per la approvazione del PTPCT.
Risposta
L’articolo 1, comma 8, della legge 06.11.2012, n. 190,
prevede che, entro il 31 gennaio di ogni anno, l’organo di
indirizzo politico, su proposta del Responsabile della
Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (RPCT), adotti il
Piano Triennale di Prevenzione della Corruzione e
Trasparenza (PTPCT) e lo trasmetta all’Autorità Nazionale
Anticorruzione (ANAC)
Al comma 14, del medesimo articolo, si prevede che, entro il
15 dicembre di ogni anno, il RPCT trasmetta all’organo di
indirizzo politico e all’Organismo Indipendente di
Valutazione (OIV) una relazione recante i risultati
dell’attività svolta e la pubblichi sul sito web
dell’amministrazione.
I due adempimenti (PTPCT e Relazione annuale) sono
evidentemente collegati in quanto il nuovo PTPCT dovrà tener
conto dei risultati dell’annualità precedente.
Generalmente l’ANAC, prima della scadenza del 15 dicembre,
proroga il termine e lo allinea con quello previsto per
l’adozione del PTPCT. Anche quest’anno l’ANAC, con il
Comunicato del 13.11.2019, ha posticipato il termine per la
pubblicazione della relazione annuale del RPCT al
31.01.2020.
Tra i compiti dell’ANAC, vi è quello di verificare e
monitorare l’adozione, da parte delle amministrazioni, del
PTPCT e l’attuazione della normativa e delle misure di
prevenzione della corruzione.
Tale attività si è esplicata non solo attraverso la
cosiddetta vigilanza, ma anche attraverso un’attività di
monitoraggio, finalizzata a valutare la qualità dei PTPCT e
delle misure di prevenzione, la congruità di tali documenti
rispetto alle indicazioni fornite dall’Autorità nei Piani
Nazionali Anticorruzione (PNA) e l’opportunità di eventuali
correttivi.
Dal 2019 è disponibile una Piattaforma, predisposta dall’ANAC,
per l’acquisizione e il monitoraggio dei Piani
Anticorruzione e per la redazione delle relazioni annuali
dei Responsabili. Essa può essere utilizzata anche per il
monitoraggio di competenza del RPCT.
Il Presidente ANAC ne ha dato notizia con il Comunicato del
12.06.2019, consentendo di accreditarsi e di inserire i dati
relativi al PTPCT 2019-2021.
La piattaforma permette:
a) all’Autorità, di condurre analisi qualitative dei dati
grazie alla sistematica e organizzata raccolta delle
informazioni e, dunque, di poter rilevare le criticità dei
PTPCT e migliorare, di conseguenza, la sua attività di
supporto alle amministrazioni;
b) ai RPCT:
– di avere una migliore conoscenza e consapevolezza dei requisiti
metodologici più rilevanti per la costruzione del PTPCT;
– monitorare nel tempo i progressi del proprio PTPCT;
– conoscere, in caso di successione nell’incarico di RPCT, gli
sviluppi passati del PTPCT;
– effettuare il monitoraggio sull’attuazione del PTPCT;
– produrre la relazione annuale.
Il PNA 2019 (delibera ANAC n. 1064 del 13.11.2019) e il
citato Comunicato ANAC non esplicitano in maniera chiara se
sia obbligatorio procedere alla registrazione e
all’inserimento dei dati relativi al PTPCT 2020-2022.
Tuttavia, considerato che viene richiamato, quale base
giuridica della piattaforma, il comma 8, dell’art. 1, della
legge 190/2012, che prevede la trasmissione del PTPCT ad
ANAC, si può ritenere che la Piattaforma sia la modalità per
adempiere a tale previsione normativa.
A sostegno di tale interpretazione si richiama l’allegato 1,
al PNA 2019 nel quale si dice che i RPCT “sono tenuti ora
a registrarsi ed accreditarsi” sulla Piattaforma. La
precisazione che, per il 2020, la Piattaforma opera in forma
sperimentale, sembra relativa esclusivamente all’ambito di
operatività, limitato, per ora, alle sole amministrazioni di
cui all’art. 1, comma 2 del decreto legislativo 30.03.2001,
n. 165.
L’utilizzo della Piattaforma per il monitoraggio di
competenza del RPCT è, invece, facoltativo, come facoltativo
è il livello di approfondimento, non obbligando il sistema
all’inserimento di tutte le misure specifiche.
Non è, invece, previsto un termine per l’inserimento, che
potrà essere effettuato a partire dall’adozione del PTPCT,
essendo un adempimento strumentale al monitoraggio, sia
dell’ANAC che del RPCT.
La Piattaforma si compone di tre sezioni:
• Anagrafica: finalizzata all’acquisizione delle informazioni in
merito all’amministrazione, al Responsabile della
prevenzione della Corruzione e Trasparenza, alla sua
formazione e alle sue competenze;
• questionario Piano Triennale: finalizzato all’acquisizione delle
informazioni relative al Piano Triennale per la Prevenzione
della Corruzione e Trasparenza (PTPCT) e alla programmazione
delle misure di prevenzione della corruzione;
• questionario Monitoraggio attuazione: finalizzato
all’acquisizione delle informazioni relative alle misure di
prevenzione ed allo stato di avanzamento del PTPCT.
Per ulteriori informazioni si rinvia al box 15,
dell’Allegato 1, al PNA 2019 e alle indicazioni disponibili
al
seguente link.
A completamento informativo, si segnala che con comunicato
del 27.11.2019, il Presidente dell’ANAC precisa che
l’utilizzo e la compilazione dei dati nella Piattaforma non
può essere delegato a soggetti esterni all’Amministrazione,
in attuazione del principio secondo cui soggetti terzi non
possono predisporre il PTPCT e neppure fornire contributi
per la redazione dello stesso. Nel Comunicato si specifica,
anche, che non possono far parte della struttura di supporto
al RPCT soggetti esterni all’amministrazione.
Per la relazione annuale 2019, l’ANAC prevede che si possa,
alternativamente, utilizzare la Scheda in formato Excel,
analoga a quella in uso negli anni scorsi (con due sole
sezioni aggiuntive concernenti rispettivamente “la
rotazione straordinaria” e “il pantouflage”), o
generare in modo automatico la relazione attraverso la
Piattaforma, dopo aver completato l’inserimento dei dati
relativi ai PTPCT e alle misure di attuazione (vedi
Comunicato del 13.11.2019).
È prevedibile che, per la relazione 2020, l’ANAC richiederà
esclusivamente la seconda modalità.
Tutto ciò premesso, la risposta allo specifico quesito è la
seguente:
a) la compilazione può ritenersi obbligatoria;
b) il termine per provvedervi non è stato definito, ma non è quello
del 31.01.2020.
Per quanto sopra, l’ente interpellante ha come obbligo di
pubblicare la relazione riferita all’anno 2019 e il PTPCT
2020/2022, approvato con deliberazione della Giunta
comunale, nel proprio sito web nella sezione Amministrazione
trasparente > Altri contenuti > Prevenzione della corruzione
(11.02.2020 - link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Incompatibilità di un amministratore locale.
Nei confronti dell’assessore di uno dei comuni facenti
parte di un’UTI che venisse assunto alle dipendenze dell’Unione medesima,
soltanto qualora tale soggetto fosse componente degli organi di governo
della stessa sussisterebbe la causa di incompatibilità di cui al combinato
disposto degli articoli 60 comma 1, n. 7), e 63, comma 1, n. 7), TUEL,
secondo cui è ineleggibile/incompatibile l’amministratore locale che sia
dipendente del comune medesimo.
L’Unione territoriale intercomunale (UTI) chiede un parere in merito
all’esistenza di una causa di incompatibilità per l’assessore di uno dei
comuni facenti parte dell’UTI medesima qualora lo stesso venisse assunto
alle dipendenze dell’Unione.
Preliminarmente si sottolinea che l’articolo 5, comma 2, della legge
regionale 12.12.2014, n. 26 prevede che all’Unione territoriale
intercomunale si applichino “i principi previsti per l’ordinamento degli
enti locali e, in quanto compatibili, le norme di cui all’articolo 32 del
decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 (testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali)”.
Il comma 4 del citato articolo 32 stabilisce che all’unione si applicano, in
quanto compatibili e non derogati con altre disposizioni di legge, i
principi previsti per l’ordinamento dei comuni, con particolare riguardo
allo status degli amministratori.
Pertanto, in base a tale ultimo richiamo, le norme contemplate nel D.Lgs.
267/2000, e in particolare gli articoli 60 e 63 del medesimo decreto, in
quanto compatibili e non derogate nei termini sopra indicati, devono
ritenersi applicabili anche con riferimento alle unioni di comuni.
Premesso quanto sopra, si ritiene debba essere preso in considerazione
l’articolo 60 comma 1, num. 7), TUEL, in combinato disposto con l’articolo
63, comma 1, num. 7), TUEL secondo cui è ineleggibile/incompatibile
l’amministratore locale che sia dipendente del comune medesimo.
Quanto alla fattispecie in riferimento seguirebbe l’insorgenza dell’indicata
causa di incompatibilità nel caso in cui il medesimo soggetto fosse
dipendente dell’unione di comuni e, nel contempo, componente degli organi di
governo della stessa.
A tale ultimo riguardo necessita segnalare che sono organi dell'Unione
l'Assemblea, il Presidente e, qualora istituito, l’Ufficio di presidenza
[1].
Quanto all’assemblea essa è costituita da tutti i sindaci dei comuni
aderenti a ciascuna Unione e, solo nel caso di impossibilità a partecipare
alle sedute dell'Assemblea o nel caso di incompatibilità, questi possono
delegare un assessore a rappresentarli. [2]
Con riferimento al caso in esame segue che la causa di incompatibilità sopra
citata verrebbe in rilievo solo nel caso in cui l’assessore divenisse
componente dell’assemblea dell’UTI.
Analoghe considerazioni possono compiersi avuto riguardo all’Ufficio di
presidenza: la causa di incompatibilità in esame sorgerebbe nei confronti
dell’assessore qualora lo stesso fosse componente di tale organo di governo.
Non si prende, invece, in considerazione la figura giuridica del Presidente
non potendo l’assessore ricoprire detto ruolo. [3]
Da ultimo si ricorda che, ai sensi dell’articolo 28, comma 5, della legge
regionale 29.11.2019, n. 21 “a far data dall'01.01.2021 le Unioni
territoriali intercomunali di cui al comma 1 [4]
sono trasformate di diritto nella rispettiva Comunità di montagna”.
Da tale data, pertanto, affinché non si realizzi la causa di incompatibilità
sopra esaminata, necessiterà valutare che l’indicato assessore, mantenendo
l’attività lavorativa alle dipendenze della costituita Comunità di montagna,
non entri a far parte di alcun organo di governo della stessa.
[5]
---------------
[1] Si veda l’articolo 12, commi 1 e 2, della legge regionale 26/2014 il
quale recita:
“1. Sono organi dell'Unione l'Assemblea, il Presidente e l’organo
di revisione.
2. Lo statuto delle Unioni può prevedere l'istituzione di un
Ufficio di presidenza con funzioni esecutive e, in tal caso, ne determina le
competenze e la relativa composizione”.
[2] Precisamente l’articolo 13, comma 6, della legge regionale 26/2014
recita, al riguardo: “In caso di impossibilità a partecipare alle sedute
dell'Assemblea, i Sindaci possono delegare un assessore a rappresentarli. In
caso di incompatibilità previste dalla vigente normativa statale, la delega
può essere conferita anche in via permanente.”
[3] Il Presidente, infatti, è un sindaco (articolo 14, comma 1, della legge
regionale 24/2016 secondo cui: “Il Presidente è eletto dall'Assemblea tra i
suoi componenti”).
[4] Si tratta delle Unioni che esercitano le funzioni delle soppresse
Comunità montane di cui alla legge regionale 33/2002.
[5] Circa l’applicabilità agli organi politici della Comunità delle norme
dettate dal TUEL sullo status degli amministratori locali si rileva che
l’articolo 6, comma 2, della legge regionale 21/2019 in combinato disposto
con l’articolo 7, comma 1, della legge regionale medesima prevede che alle
Comunità di montagna “si applicano i principi e, in quanto compatibili, le
norme previste per i Comuni” (05.02.2020 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
gennaio 2020 |
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CONSIGLIERI COMUNALI: I
consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti
gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento delle loro funzioni.
La giurisprudenza è univoca nel ritenere che “i
consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti
gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento delle loro funzioni,
ciò anche al fine di permettere di valutare -con piena cognizione- la
correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per
esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e
per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che
spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale”.
Sicché, va riaffermato il
principio sulla base del quale l’istanza di accesso del consigliere comunale
non può essere sorretta dalla sola allegazione della carica ricoperta ma
deve, altresì, essere riconnessa ad un concreto esercizio delle prerogative
consiliari pervenendo, quindi, al rigetto in ragione della mancata
allegazione di un effettivo interesse all’accesso.
---------------
In data 10.09.2019 il ricorrente, Consigliere comunale del Comune di
Fabbrico, avanzava richiesta di accesso ex artt. 43, comma 2, del d.Lgs. n.
267/2000 e 22 della L. n. 2421/1990, riferita alla “copia della comparsa
di costituzione e risposta depositata dal difensore del Comune di Fabbrico
avv. Pa.Mi. nel procedimento giurisdizionale per risarcimento danno attivato
avanti al tribunale civile di Reggio Emilia dal -OMISSIS- contro il Comune
di Fabbrico” (vicenda che coinvolge l’Amministrazione relativamente
all’esecuzione dei lavori di adeguamento sismico e ristrutturazione del
Palazzetto dello Sport comunale).
Con atto del 07.10.2019, il Comune negava l’accesso ritenendo esclusa, anche
per i Consiglieri comunali, l’operatività dell’istituto dell’accesso agli
atti giudiziari.
Con nota del 10 ottobre successivo il ricorrente reiterava la propria
richiesta e, in assenza di ulteriori riscontri, con il ricorso introduttivo
del presente giudizio, impugnava il diniego intervenuto.
Il Comune, con atto del 12.11.2019, in esito alla richiesta da ultimo
presentata dal ricorrente, adottava un nuovo diniego esplicitando più
estesamente le ragioni per le quali gli atti richiesti non potevano
costituire oggetto di ostensione.
Il ricorrente impugnava il reiterato diniego con motivi aggiunti affermando,
sostanzialmente, la piena accessibilità dell’atto richiesto e la
contraddittorietà dell’agire amministrativo stante il precedente
accoglimento di una analoga istanza di accesso riferita all’atto di
citazione introduttivo del giudizio civile in questione.
Il Comune si costituiva in giudizio confutando le avverse doglianze ed
affermando la legittimità de proprio diniego.
All’esito della camera di consiglio del 15.01.2020, la causa veniva decisa.
Deve in premessa evidenziarsi che l’art. 43, comma 2, del D.Lgs. n. 267/2000
prevede che “i consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di
ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché
dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in
loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato. Essi sono tenuti
al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge”.
Circa lo specifico tema, la giurisprudenza è univoca nel ritenere che “i
consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti
gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento delle loro funzioni,
ciò anche al fine di permettere di valutare - con piena cognizione - la
correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per
esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e
per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che
spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale” (TAR
Sicilia, Palermo, Sez. I, 09.01.2015, n. 77).
Il Regolamento comunale per l’esercizio del diritto di accesso del Comune di
Fabbrico, disciplina l’accesso documentale dei Consiglieri Comunali all’art.
39.
Ai sensi del comma 3 del citato articolo, “i consiglieri comunali hanno
diritto di ottenere dagli uffici del comune, nonché dalle istituzioni,
aziende ed enti dallo stesso dipendenti, tutte le notizie e le informazioni
in loro possesso, al fine di tutelare, in via generale, i diritti derivanti
dalla propria posizione di consigliere comunale e già in particolare, di
consentire la piena conoscenza di elementi informazioni utili
all’espletamento del mandato”.
Lo stesso comma specifica ulteriormente che “i consiglieri hanno diritto:
… b) di ottenere copie degli atti e dei documenti necessari per l’esercizio
del loro mandato”.
Il successivo comma 4 dispone che “il consigliere non è tenuto a
dimostrare l’esistenza di un interesse giuridicamente rilevante, ma è
sufficiente che dichiari che le notizie e le informazioni sono richieste per
l’espletamento del mandato”.
L’unico limite all’esercizio del diritto in questione posto dalla fonte
regolamentare in esame, è contemplato nel comma 11 laddove si afferma che “l’accesso
dei consiglieri comunali è vietato esclusivamente nelle eseguenti
fattispecie: a) richieste assolutamente generiche, meramente emulative,
pretestuose o paralizzanti l’attività amministrativa indirizzata a controlli
generali di tutta l’attività dell’Amministrazione per un determinato arco di
tempo”.
Chiarito nei su esposti termini il contesto normativo e giurisprudenziale di
riferimento deve rilevarsi che l’istanza di accesso presentata dal
ricorrente era motivata sul presupposto dell’utilità della documentazione
richiesta in vista della trattazione consiliare di questioni che, in
ipotesi, avrebbero potuto incidere, sotto il profilo finanziario, sulla
corretta tenuta del bilancio dell’Ente.
L’Amministrazione, rifacendosi ai contenuti della decisione del Consiglio di
Stato n. 12/2019 (riassunta e ripetutamente richiamata), negava l’accesso
rilevando l’insufficienza della sola qualità di Consigliere comunale, a
consentire un indiscriminato accesso agli atti essendo, altresì, necessario
“che l’istanza muova da un’effettiva esigenza collegata all’esame di
questioni proprie dell’Assemblea consiliare”.
Ne deriverebbe, secondo l’Amministrazione, che l’istituto dell’accesso del
Consigliere comunale sarebbe garantito “solo se funzionale all’attività
del Consiglio comunale, rilevando di converso che tale estensione del
diritto non può andare oltre agli argomenti all’o.d.g. (quelli dell’art. 42
del TUEL)” (diniego impugnato).
Il ricorso è fondato.
Preliminarmente deve rilevarsi l’inconferenza della richiamata pronunzia del
Consiglio di Stato in quanto in detta sede il giudice di appello,
riaffermava il principio sulla base del quale l’istanza di accesso del
consigliere comunale non può essere sorretta dalla sola allegazione della
carica ricoperta ma deve, altresì, essere riconnessa ad un concreto
esercizio delle prerogative consiliari pervenendo, quindi, al rigetto
dell’appello, in ragione della mancata allegazione di un effettivo interesse
all’accesso.
L’odierna fattispecie differisce da quella esaminata in detta sede avendo il
ricorrente allegato, ed essendo documentata, l’attinenza della richiesta
allo svolgimento delle attività assembleari.
Deve in primis evidenziarsi che, con atto del 20.09.2019,
protocollato il giorno successivo, due Consiglieri del gruppo consiliare di
opposizione (capeggiato dal ricorrente) richiedevano la convocazione del
Consiglio comunale includendo nelle questioni all’ordine del giorno: “1.
Lo stato di fatto delle opere di adeguamento sismico e ristrutturazione del
Palazzetto dello Sport di Fabbrico; 2. Lo stato di fatto della vertenza
legale con l’impresa appaltatrice …”.
La conoscenza dell’atto oggetto della richiesta di ostensione era, pertanto,
“utile” (nei sensi di cui al richiamato art. 42 del TUEL) in vista
della discussione assembleare di profili riferiti alla vicenda della
ristrutturazione del Palazzetto dello Sport, al centro della disputa (e del
giudizio civile) in atto fra il Comune e l’appaltatore incaricato delle
relative lavorazioni.
Nel caso di specie, quindi, sotto un primo profilo, sussiste il requisito
della funzionalità dell’accesso all’esercizio delle attività consiliari,
richiesta dalla disciplina normativa nazionale; sotto altro profilo non
ricorre il carattere emulativo, pretestuoso e paralizzante che, ai sensi
delle illustrate disposizioni regolamentari interne, inibiscono l’esercizio
dell’accesso.
La determinazione impugnata, infine, è ulteriormente viziata per
contraddittorietà avendo l’Amministrazione (in precedenza e con riferimento
alla medesima vicenda giudiziaria), accolto l’istanza di accesso avente ad
oggetto l’atto di citazione dell’appaltatore con il quale veniva instaurato
il giudizio risarcitorio in atto
(TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza 20.01.2020 n. 16 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Quote rosa nelle giunte. Anche negli enti
sotto i 3.000 abitanti. Assessori esterni al consiglio per garantire la
parità di genere
I comuni con popolazione inferiore ai 3.000 abitanti
sono tenuti al rispetto delle quote rosa nella composizione delle rispettive
giunte?
Il comma 137 della legge n. 56/2014 dispone che «nelle giunte dei comuni
con popolazione superiore a 3.000 abitanti, nessuno dei due sessi può essere
rappresentato in misura inferiore al 40%, con arrotondamento aritmetico».
Per quanto concerne i comuni con popolazione inferiore ai 3.000 abitanti,
occorre tenere conto che ai sensi dell'art. 6, comma 3, del decreto
legislativo n. 267/2000, come modificato dalla legge n. 215/2012, è previsto
che gli statuti comunali e provinciali stabiliscano norme per assicurare
condizioni di pari opportunità tra uomo e donna e per garantire la presenza
di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali non elettivi del
comune e della provincia, nonché degli enti, aziende ed istituzioni da essi
dipendenti.
L'art. 2, comma 1, lett. b), della stessa legge n. 215/2012 ha modificato
l'art. 46, comma 2, del Tuel disponendo che il sindaco ed il presidente
nella provincia nominano i componenti della giunta «nel rispetto del
principio di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la presenza di
entrambi i sessi».
La normativa va letta alla luce dell'art. 51 della Costituzione, come
modificato dalla legge costituzionale n. 1/2003, che ha riconosciuto dignità
costituzionale al principio della promozione della pari opportunità tra
donne e uomini.
Pertanto si ritiene che per i comuni con popolazione inferiore a 3.000
abitanti debbano trovare applicazione le disposizioni contenute nei citati
articoli 6, comma 3 e 46, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 e
nella legge n. 215/2012. Tali disposizioni, recependo i principi sulle pari
opportunità dettati dall'art. 51 della Costituzione, dall'art. 1 del decreto
legislativo dell'11.04.2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità) e
dall'art. 23 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, non
hanno un mero valore programmatico, ma carattere precettivo, finalizzato a
rendere effettiva la partecipazione di entrambi i sessi in condizioni di
pari opportunità, alla vita istituzionale degli enti territoriali.
Per quanto concerne la possibilità di pervenire alla nomina di assessori
esterni, si richiama quanto osservato dalla scrivente amministrazione con
circolare n. 6508 del 24.04.2014, nella quale gli enti locali sono stati
invitati a valutare l'opportunità di procedere alle modifiche statutarie
funzionali alla piena attuazione del principio di parità di genere
introducendo la possibilità di ricorrere alla nomina di assessori privi
dello status di consigliere comunale.
In proposito, risulta che, ai sensi dello statuto del comune che ha
prospettato la questione, è prevista la possibilità di nominare gli
assessori «anche al di fuori dei componenti del Consiglio fra i cittadini in
possesso dei requisiti di compatibilità ed eleggibilità alla carica di
Consigliere comunale». Pertanto, il sindaco dell'ente potrebbe valutare la
possibilità di applicare tale disposizione statutaria al fine di conformare
la composizione della giunta alle previsioni legislative.
Si fa presente, a tale riguardo, che il Tar Abruzzo, con sentenza n. 105 del
2019, ha ritenuto fondato il ricorso avverso un provvedimento di nomina
della giunta in quanto non sarebbe stata effettuata «la necessaria
attività istruttoria volta ad acquisire la disponibilità alla nomina di
persone di sesso femminile anche tra cittadini al di fuori dei componenti
dell'organo consiliare» (articolo ItaliaOggi del
10.01.2020). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Incompatibilità del sindaco.
Nei confronti del sindaco, il cui fratello risulta
appaltatore di lavori di manutenzione di un immobile comunale, si configura
la causa di incompatibilità di cui all’art. 61, comma 1-bis, del D.Lgs.
267/2000 secondo cui “non possono ricoprire la carica di sindaco o di
presidente di provincia coloro che hanno ascendenti o discendenti ovvero
parenti o affini fino al secondo grado che coprano nelle rispettive
amministrazioni il posto di appaltatore di lavori o di servizi comunali o
provinciali o in qualunque modo loro fideiussore".
Il Comune chiede un parere in merito all’esistenza di una causa di
incompatibilità per il sindaco atteso che suo fratello, titolare di una
ditta individuale, è risultato aggiudicatario di una gara indetta dall’Ente
per l’esecuzione di lavori di manutenzione di un fabbricato di proprietà
comunale.
Con riferimento al quesito posto viene in rilievo la norma di cui
all’articolo 61, comma 1-bis, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267
ai sensi della quale: “Non possono ricoprire la carica di sindaco o di
presidente di provincia coloro che hanno ascendenti o discendenti ovvero
parenti o affini fino al secondo grado che coprano nelle rispettive
amministrazioni il posto di appaltatore di lavori o di servizi comunali o
provinciali o in qualunque modo loro fideiussore”.
Il Ministero dell’Interno, in un proprio parere
[1], ha rilevato che: “Solo
per coloro che intendono ricoprire la carica di sindaco o di presidente
della provincia, è prevista un'ipotesi d'incompatibilità, specificamente
loro dettata dall'art. 61, comma 1-bis, del D.Lgs. n. 267/2000, che
impedisce di ricoprire le due cariche a coloro che hanno ascendenti o
discendenti ovvero parenti o affini fino al secondo grado che coprano nelle
rispettive amministrazioni il posto di appaltatore di lavori o di servizi
comunali. La previsione si aggiunge a quella comune di cui all'art. 63,
comma 1, n. 2, del T.U.O.E.L. e colpisce i citati amministratori anche in
assenza di un vantaggio diretto o indiretto che possa essere imputato loro
personalmente, ma rimanga esclusivo del parente che gestisce l'appalto o il
servizio, a maggior salvaguardia del principio d'imparzialità dell'azione
amministrativa e per porre al riparo coloro che svolgono una pubblica
funzione dal sospetto di essere influenzati da interessi confliggenti con
quelli del comune”
[2].
Attesa la chiarezza del dettato letterale della disposizione in esame, si
ritiene che si configuri l’indicata causa di incompatibilità per il sindaco
il cui fratello (parente in linea collaterale di secondo grado) risulta
appaltatore di lavori di manutenzione di un immobile comunale. Tale
conclusione rimane ferma indipendentemente dalle modalità di svolgimento
della gara, alla quale il fratello poteva, com’è avvenuto, regolarmente
partecipare e prescinde, altresì, dalla considerazione che l’applicazione di
una norma siffatta potrebbe creare, di fatto, seri disagi e difficoltà nel
reperimento di imprese che svolgano determinati lavori o servizi in realtà
comunali dalle ridotte dimensioni demografiche e connotate da una peculiare
posizione geografica.
Per completezza espositiva si ricorda che il comma 1-bis dell’articolo 61 TUEL è stato aggiunto dall’articolo 7, comma 1, lett. b-bis), n. 3), del
decreto legge 29.03.2004, n. 80, convertito, con modificazioni, dalla
legge 28.05.2004, n. 140, a seguito della dichiarazione di
incostituzionalità, avvenuta con sentenza 31.10.2000, n. 450,
dell’articolo 61, n. 2, TUEL nella parte in cui prevedeva la medesima
fattispecie quale causa generatrice di ineleggibilità alla carica di
sindaco
[3].
---------------
[1] Ministero dell’Interno, parere del 25.05.2010.
[2] Prosegue l’indicato parere rilevando che: “Per tutti gli altri
amministratori non è posta invece analoga disposizione, per cui la
possibilità di conflitto fra gli interessi del consigliere e quelli del
Comune non può essere presunta dall'esistenza di un rapporto di parentela
con l'amministratore di un'impresa che opera in servizi o appalti dell'Ente,
ma va accertata adeguatamente”.
[3] La Corte costituzionale, in altri termini, aveva cancellato
dall’ordinamento una previsione legislativa che aveva finito per considerare
più grave il fatto che il candidato alla carica di sindaco avesse un
rapporto di parentela o affinità con un appaltatore (e, quindi, causa di
ineleggibilità, ex articolo 61, n. 2, TUEL testo precedente) rispetto a
quello di essere egli stesso appaltatore in proprio di lavori o servizi
comunali (e, quindi, causa di incompatibilità, ex articolo 63, comma 1, num.
2, TUEL).
Nel rispetto di quanto deciso dalla Corte Costituzionale è successivamente
intervenuto il decreto legge 80/2004 che ha aggiunto, come sopra già
riportato, il comma 1-bis dopo il comma 1 dell’articolo 61 del D.Lgs.
267/2000 (09.01.2020 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Paletti alle registrazioni.
Non esiste un diritto a filmare le sedute. Il presidente del consiglio
valuta caso per caso. Necessario un regolamento.
È
possibile registrare e diffondere le immagini delle sedute di consiglio
comunale pur in assenza di apposita previsione regolamentare, riconoscendo
poteri autorizzativi al presidente del consiglio?
Il vigente ordinamento conferisce al consiglio comunale autonomia funzionale
e organizzativa (art. 38, comma 3, Tuel) entro la quale si riconduce la
potestà di regolare, con apposite norme, ogni aspetto attinente al
funzionamento dell'assemblea, tra cui anche quello della registrazione del
dibattito e delle votazioni con mezzi audiovisivi, sia da parte degli uffici
di supporto all'attività di verbalizzazione del segretario comunale che da
parte dei consiglieri, degli organi di informazione e dei cittadini che
assistono alla sedute pubbliche.
In questo quadro di riferimento, norme interne possono regolare, pertanto,
nell'ambito della disciplina dello svolgimento delle adunanze, anche la
registrazione del dibattito e delle votazioni con mezzi audiovisivi; ciò sia
per gli uffici di supporto alla verbalizzazione (art. 97, comma 4, lett. a)
del decreto legislativo n. 267/2000), che per i consiglieri e i cittadini che
assistono alla seduta; lo stesso regolamento può riservare
all'amministrazione il compito di registrare le sedute con mezzi audiovisivi
escludendo da tale possibilità altri soggetti.
La pubblicità delle sedute non implica, infatti, la facoltà di registrazione
ma la libera presenza di chi abbia interesse ad assistervi (v. sentenza
della Corte di cassazione, sez. I, n. 5128/2001 ove si afferma la
legittimità di un regolamento consiliare che vieta di introdurre nella sala
del consiglio apparecchi di riproduzione audiovisiva, se non previa
autorizzazione).
La giurisprudenza (in particolare, la sentenza n. 826 del 16/03/2010 del Tar
per il Veneto) afferma che in assenza di un'apposita disciplina
regolamentare adottata dall'ente, non possono essere garantiti i diritti
previsti dal codice sul trattamento dei dati personali di cui al dlgs 196
del 2003 e successive modifiche, non essendo consentito al
sindaco-presidente estemporanei assensi, alla videoregistrazione.
È stato ritenuto, invece, immediatamente concedibile da parte del presidente
del consiglio comunale, nei confronti di emittenti televisive nazionali e
locali l'autorizzazione a riprendere, in via non sistematica, gratuitamente
e senza diritti di esclusiva, talune brevi fasi delle sedute del consiglio
comunale in quanto da tale autorizzazione non conseguono obblighi di sorta
per l'amministrazione comunale quale «titolare» o «responsabile» del
trattamento dei personali.
Non sussiste, quindi, un autonomo e indiscriminato diritto a procedere alla
registrazione che consenta di superare gli eventuali divieti posti
dall'amministrazione.
Sulla materia, anche il Garante per la protezione dei dati personali con
nota del 23.04.2003 ha ritenuto che l'amministrazione comunale possa,
con apposita norma regolamentare, porre delle condizioni e dei limiti alle
riprese ed alla diffusione televisiva delle riunioni del consiglio comunale,
prevedendo, in quella sede, l'onere di informare preventivamente i presenti
nell'aula consiliare dell'esistenza delle telecamere e della successiva
diffusione delle immagini, ovvero il divieto di divulgare informazioni sullo
stato di salute, nonché le ipotesi in cui eventualmente limitare le riprese
per assicurare la riservatezza dei soggetti presenti o oggetto del
dibattito.
Con precedenti pareri, questo ministero aveva ritenuto la possibilità per il
presidente del consiglio di regolare e valutare la registrazione caso per
caso, seppur in assenza di espressa previsione regolamentare, nell'esercizio
dei già richiamati poteri di «direzione dei lavori e delle attività del
consiglio», di cui all'art. 39, comma 1, del decreto legislativo n. 267/2000
in stretta correlazione alle esigenze di ordinato svolgimento dell'attività
consiliare ed in relazione all'oggetto dei lavori previsti all'ordine del
giorno.
Tuttavia alla luce anche degli orientamenti giurisprudenziali e del Garante
per la protezione dei dati personali, si ritiene, invece, opportuno un
approfondimento della problematica che non può non condurre alla necessità
della previa adozione di norme regolamentari entro le quali il Presidente
può esercitare le proprie prerogative (articolo ItaliaOggi del 03.01.2020). |
dicembre 2019 |
|
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ La parità vale sempre. Anche per le nomine
in corso di consiliatura. L’uguaglianza di genere nelle giunte non deve
poter essere aggirata.
Per rispettare la normativa in tema di parità di
genere nelle giunte si deve sostituire l'assessore esterno che si sia
dimesso nel corso della consiliatura?
Il caso segnalato si riferisce a un comune con popolazione superiore a 3.000
abitanti la cui giunta era formata da quattro assessori oltre al sindaco. A
seguito delle dimissioni dell'assessore esterno di genere femminile,
attualmente la giunta è composta da quattro uomini, compreso il sindaco, e
da una sola donna.
Atteso che lo statuto dell'ente contempla la possibilità di nominare un
numero di assessori non inferiore a tre e non superiore a quattro, sorge il
dubbio se, nello specifico caso, visto che la situazione attuale è
conseguente alle dimissioni dell'assessore esterno e non ad una nuova nomina
effettuata dal sindaco, sia possibile mantenere la composizione della giunta
come risultante a seguito delle suddette dimissioni o sia necessario
riequilibrare le percentuali di genere previste dalla vigente normativa. La
normativa di riferimento dispone che «nelle giunte dei comuni con
popolazione superiore a 3.000 abitanti, nessuno dei due sessi può essere
rappresentato in misura inferiore al 40%, con arrotondamento aritmetico».
Al riguardo, il Consiglio di stato, con sentenza n. 4626 del 05/10/2015, ha
precisato che tutti gli atti adottati nella vigenza dell'art. 1, comma 137,
trovano in esso «un ineludibile parametro di legittimità» e,
pertanto, un'interpretazione che riferisse l'applicazione della norma alle
sole nomine assessorili effettuate all'indomani delle elezioni e non anche a
quelle adottate in corso di consiliatura consentirebbe un facile aggiramento
della suddetta normativa. Tali osservazioni sono state ribadite da ultimo
dal Tar Abruzzo con sentenza n. 105 del 2019 (articolo ItaliaOggi del 27.12.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Incompatibilità
di alcuni consiglieri comunali facenti parte di associazioni locali.
1) Per i consiglieri comunali che
rivestono, altresì, la carica, rispettivamente, di Presidente, Segretario,
Tesoriere di un’associazione, che riceve contributi in denaro da parte
dell’amministrazione comunale, potrebbe sussistere la causa di
incompatibilità prevista dall’art. 63, c. 1, n. 1), del D.Lgs. 267/2000,
nella parte in cui dispone che non può ricoprire la carica di consigliere
comunale l’amministratore o il dipendente con poteri di rappresentanza o di
coordinamento di ente, istituto o azienda che riceva dal comune, in via
continuativa, una sovvenzione in tutto o in parte facoltativa, quando la
parte facoltativa superi nell’anno il dieci per cento del totale delle
entrate dell’ente. Sotto il profilo soggettivo, atteso il diverso ruolo
svolto dai singoli consiglieri all’interno dell’associazione si deve
valutare, per ciascuno di essi, se rientrino o meno nella nozione di
amministratore o in quella di dipendente con poteri di rappresentanza o di
coordinamento.
2) Non può ricoprire la carica di amministratore locale “colui che,
come titolare, amministratore, dipendente con poteri di rappresentanza o di
coordinamento ha parte, direttamente o indirettamente, in servizi, esazioni
di diritti, somministrazioni o appalti, nell’interesse del comune” (art. 63,
co. 1, n. 2, TUEL). La disposizione in oggetto, quindi, si riferisce al
soggetto che, rivestito di una delle predette qualità soggettive, nel
partecipare ad un servizio nell’interesse del Comune sia contestualmente
portatore di un proprio specifico interesse, contrapposto a quello generale
dell’ente locale e, quindi, per questo potenzialmente confliggente con
l’esercizio imparziale della carica elettiva. Qualora un amministratore
locale rivestisse una delle qualità soggettive sopra indicate nell’ambito di
un’associazione spetterebbe all'Ente valutare se la stessa svolga o meno un
servizio nell'interesse dell'amministrazione comunale.
Il Comune chiede di conoscere un parere in merito alla possibile sussistenza
di cause di incompatibilità, ai sensi dell’articolo 63 del decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267, per alcuni consiglieri comunali (sia di
maggioranza che di minoranza) i quali fanno parte, nel ruolo di Presidente,
Tesoriere, Segretario o socio, di associazioni (sportive e non) del
territorio che ricevono contributi da parte del Comune stesso.
Con riferimento alla fattispecie in esame risulta necessario prendere in
considerazione il disposto di cui all’articolo 63, comma 1, n. 1), seconda
parte, TUEL, ai sensi del quale non può ricoprire la carica di consigliere
comunale l’amministratore o il dipendente con poteri di rappresentanza o di
coordinamento di ente, istituto o azienda che riceva dal comune, in via
continuativa, una sovvenzione in tutto o in parte facoltativa, quando la
parte facoltativa superi nell’anno il dieci per cento del totale delle
entrate dell’ente.
Innanzitutto si osserva come, secondo autorevole dottrina [1], il termine
“ente” deve essere inteso in senso lato e, pertanto, vi rientrano anche gli
organismi privi di personalità giuridica. In questo senso si è pronunciata
anche la Corte di cassazione [2] che ha inteso comprendere nella nozione di
ente sovvenzionato le persone giuridiche pubbliche, private e le
associazioni non riconosciute che, pur non dotate di personalità giuridica,
abbiano autonomia amministrativa e patrimoniale.
Requisito oggettivo per l’insorgenza dell’indicata causa di incompatibilità
è che l’associazione riceva dal comune una sovvenzione, consistente in
un’erogazione continuativa a titolo gratuito, volta a consentire all’ente
sovvenzionato di raggiungere, con l’integrazione del proprio bilancio, le
finalità in vista delle quali è stato costituito. Tale sovvenzione deve
possedere tre caratteri:
- continuità, nel senso che la sua erogazione non deve essere
saltuaria od occasionale;
- facoltatività (in tutto o in parte): l’intervento finanziario
dell’ente non deve cioè derivare da un obbligo, ovvero può essere in parte
obbligatorio e in parte facoltativo [3];
- notevole consistenza: l’apporto della sovvenzione deve essere,
per la parte facoltativa, superiore al dieci per cento del totale delle
entrate annuali dell’ente sovvenzionato.
Quanto al requisito soggettivo richiesto dall’articolo 63, comma 1, n. 1),
TUEL, esso consiste nel fatto che l’amministratore comunale ricopra,
all’interno dell’associazione, il ruolo di amministratore o di dipendente
con poteri di rappresentanza o di coordinamento.
Ai fini dell’accertamento dell’incompatibilità in argomento in capo ai
consiglieri comunali [4] risulta necessario esaminare se i diversi ruoli
rivestiti dagli stessi all’interno dell’associazione implichino il su indicato requisito soggettivo.
In particolare, quanto al Presidente non sembra dubbia la sua ascrivibilità
tra gli amministratori dell’associazione. [5]
Con riferimento alla figura del segretario e del tesoriere, bisognerà in
primo luogo verificare, alla luce delle previsioni statutarie, se gli stessi
siano, giuridicamente, dipendenti o meno dell’associazione. In caso di
risposta positiva si tratta, in subordine, di valutare se, per lo
svolgimento delle loro mansioni, vi sia esplicazione di poteri di
rappresentanza o di coordinamento in seno all’associazione. Fermo rimanendo
che una tale valutazione potrà compiersi solo alla luce di quanto previsto
nelle clausole statutarie, pare che tanto le funzioni del segretario
[6]
quanto quelle del tesoriere [7] non dovrebbero di norma comportare
l’esplicazione di poteri di rappresentanza né di coordinamento.
[8]
Da ultimo, non si configura la causa di incompatibilità in riferimento avuto
riguardo agli amministratori locali che siano semplici soci di tali
associazioni attesa l’assenza del requisito soggettivo richiesto dalla norma
in commento e consistente nel fatto di essere “amministratori o dipendenti
con poteri di rappresentanza o di coordinamento” di tali soggetti giuridici.
Per completezza espositiva si segnala, altresì, la disposizione di cui
all’articolo 63, comma 1, n. 2), TUEL, nella parte in cui prevede che non
possa ricoprire la carica di amministratore locale “colui che, come
titolare, amministratore, dipendente con poteri di rappresentanza o di
coordinamento ha parte, direttamente o indirettamente, in servizi, esazioni
di diritti, somministrazioni o appalti, nell’interesse del comune”.
La norma citata potrebbe venire in rilievo qualora il tipo di attività
effettuata dall’associazione -presso cui il consigliere comunale è
amministratore o dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento– possa configurarsi come servizio svolto nell’interesse del comune
[9].
Innanzitutto, come evidenziato in diversi pareri ministeriali, “l’assenza
della finalità di lucro, non è sufficiente ad escludere la sussistenza
dell’indicata incompatibilità. Il comma 2 dell’articolo. 63 ha, infatti,
escluso l’applicazione della suddetta ipotesi solo per coloro che hanno
parte in cooperative sociali, iscritte regolarmente nei registri pubblici,
dal momento che solo tali forme organizzative offrono adeguate garanzie per
evitare il pericolo di deviazioni nell’esercizio del mandato da parte degli
eletti ed il conflitto, anche solo potenziale, che la medesima persona
sarebbe chiamata a dirimere se dovesse scegliere tra l’interesse che deve
tutelare in quanto amministratore dell’ente che gestisce il servizio e
l’interesse che deve tutelare in quanto consigliere del comune che di quel
servizio fruisce” [10].
La norma in esame è finalizzata ad evitare che la medesima persona fisica
rivesta contestualmente la carica di amministratore di un comune e la
qualità di amministratore di un soggetto che si trovi in rapporti giuridici
con l’ente locale, caratterizzati da una prestazione da effettuare all’ente
o nel suo interesse, atteso che tale situazione potrebbe determinare
l’insorgere di una posizione di conflitto di interessi.
In particolare, la locuzione “aver parte”, se correlata alla successiva
locuzione “nell’interesse del comune” allude alla contrapposizione tra
interesse “particolare” del soggetto ed interesse del comune,
istituzionalmente “generale”, in relazione alle funzioni attribuitegli, e,
quindi, sottintende alla situazione di potenziale conflitto di interessi, in
cui si trova il predetto soggetto, rispetto all’esercizio imparziale della
carica elettiva.
Inoltre, l’ampia espressione “servizi nell’interesse del comune” suole ricomprendere “qualsiasi rapporto intercorrente con l'ente locale che a
causa della sua durata e della costanza delle prestazioni effettuate sia in
grado di determinare conflitto di interessi” [11]. La giurisprudenza ha,
altresì, specificato che l'ampia espressione di “servizi nell'interesse del
comune” si riferisce “a tutte quelle attività che l'ente locale, nell'ambito
dei propri compiti istituzionali e mediante l'esercizio dei poteri normativi
ed amministrativi attribuitigli, fa e considera proprie [...]”
[12].
La disposizione in oggetto, quindi, si riferisce al soggetto che, rivestito
di una delle predette qualità soggettive, partecipi ad un servizio pubblico,
inteso nell’ampio senso sopra specificato, come portatore di un proprio
specifico interesse, contrapposto a quello generale dell’ente locale e,
quindi, per questo potenzialmente confliggente con l’esercizio imparziale
della carica elettiva.
Qualora un amministratore locale rivestisse una delle qualità soggettive
sopra indicate nell’ambito di un’associazione spetterebbe all'Ente valutare
se la stessa svolga o meno un servizio nell'interesse dell'amministrazione
comunale.
---------------
[1] Cfr. P. Virga, Diritto amministrativo, Amministrazione locale, 3, ed.
Giuffré, II ed. 1994, pag. 78 e segg.; R.O. Di Stilo – E. Maggiora,
Ineleggibilità e incompatibilità alle cariche elettive, ed. Maggioli, 1985,
pag. 73; E. Maggiora, Ineleggibilità, incompatibilità, incandidabilità
nell’ente locale, 2000, pagg. 136-137.
[2] Corte di cassazione, sentenza del 22.06.1972, n. 2068.
[3] Per quanto riguarda il concetto di facoltatività, si rileva che, secondo
l’orientamento del Ministero dell’Interno (parere del 30.12.2010, prot.
n. 15900/TU/63), la sovvenzione è facoltativa “nel senso e nei limiti in cui
non trovi origine in un obbligo stabilito dalla legge”.
Per completezza
espositiva si segnala, peraltro, anche un diverso orientamento dottrinario
il quale afferma che per determinare l'incompatibilità la sovvenzione non
deve avere il carattere dell'obbligatorietà, nel senso che “non deve essere
conseguenza di una legge, o di un regolamento o di un contratto bilaterale,
ma deve rientrare nella discrezionalità, cioè deve essere concessa a titolo
gratuito o ciò che è lo stesso deve rientrare nella libera determinazione
dell'Ente che la accorda” (Rocco Orlando di Stilo, 'Gli organi regionali,
provinciali, comunali e circoscrizionali', Maggioli editore, 1982, pag. 140.
Nello stesso senso, Enrico Maggiora, 'Ineleggibilità, incompatibilità,
incandidabilità nell'ente locale', Giuffrè editore, 2000, pag. 142; AA.VV.,
'L'ordinamento comunale', Giuffré editore, 2005, pag. 138.
Tale filone
interpretativo è seguito anche dall'ANCI il quale ha affermato che la
facoltatività della sovvenzione richiede che 'l'intervento finanziario
dell'ente locale non deve derivare da un obbligo di legge o da un obbligo
convenzionale' (così pareri del 17.09.2014 e del 28.04.2014).
[4] Non ha alcun rilievo al riguardo il fatto che i consiglieri siano di
maggioranza o di minoranza.
[5] Per completezza espositiva si segnala che, invece, per quanto concerne
l’eventuale ipotesi di consiglieri comunali membri del “Consiglio
direttivo”, si tratterà di verificare se sia possibile ricomprendere gli
stessi nella nozione legislativa di “amministratore” contemplata
dall’articolo 63 del TUEL, in ordine alla quale è prevista la causa di
incompatibilità in argomento. Tale valutazione dovrebbe essere effettuata
considerando la situazione concreta, in relazione a quanto previsto nelle
clausole statutarie dell’associazione: si rileva comunque al riguardo che,
di norma, i membri dell’esecutivo svolgono funzioni sussumibili tra quelle
proprie dell’organo di amministrazione, con conseguente configurarsi
dell’incompatibilità in esame, nella sussistenza degli altri requisiti
richiesti dalla legge.
[6] Tendenzialmente rientrano tra i compiti del segretario dell’associazione
l’estensione, la sottoscrizione e l’eventuale custodia dei verbali
dell’Assemblea dei soci; la tenuta aggiornata del libro soci e di altri
eventuali registri dell’associazione.
[7] In linea di massima è compito del tesoriere tenere, controllare e
aggiornare i libri contabili, conservando la documentazione che ad essi
sottende, curare la gestione della cassa dell’associazione, predisporre i
bilanci.
[8] Per completezza espositiva, si segnala che, per il verificarsi della
causa di incompatibilità in riferimento è richiesto che il dipendente abbia
poteri di rappresentanza o, in alternativa, di coordinamento. Ratio della
norma è evitare che l’amministratore rivesta, al contempo, il ruolo di
controllore e di controllato del proprio operato. Significativa, al
riguardo, è la sentenza della Cassazione civile, sez. I, del 20.11.2004, n. 21942.
Potrebbe, altresì, verificarsi il caso che siano nominati segretario e/o
tesoriere alcuni componenti del consiglio direttivo dell’associazione. In
tal caso, atteso che gli stessi rivestirebbero, nel contempo, il ruolo di
membro del direttivo, valgono le considerazioni che saranno espresse nel
prosieguo in relazione a tale figura.
[9] Si pensi, a titolo di esempio, al caso di un’associazione sportiva che
gestisce la palestra comunale: fattispecie esaminata dal Ministero
dell’Interno il quale nel parere del 29.05.2007 ha ravvisato il
sussistere dell’indicata causa di incompatibilità stante la sussistenza di
tutti i requisiti richiesti dall’articolo 63, comma 1, n. 2), TUEL.
[10] Ministero dell’Interno, pareri del 12.05.2011 e dell’11.01.2011.
[11] Saporito, Pisciotta, Albanese, “Elezioni regionali ed amministrative”,
Bologna, 1990, pag. 115.
[12] Cassazione civile, sez. I, sentenza del 16.01.2004, n. 550 (13.12.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Deleghe
agli amministratori locali.
1) Non sussiste alcun obbligo da parte del
sindaco di conferire deleghe per materia ai vari assessori, potendo lo
stesso mantenere a sé le attribuzioni afferenti i diversi settori
dell’amministrazione. Segue altresì che, anche in mancanza di deleghe,
l’organo giuntale è da considerarsi pienamente legittimato ad operare nella
sua composizione collegiale e nel rispetto delle regole ad esso proprie.
2) Il sindaco, al momento della nomina di un assessore esterno deve
verificare che non sussistano nei suoi confronti cause di incandidabilità,
ineleggibilità o incompatibilità, fermo restando che andrà accertato il
permanere dei requisiti anche nel corso del mandato.
3) È inammissibile l’attribuzione di deleghe con rilevanza esterna
ai consiglieri comunali, potendo le stesse, ove previste, avere solo
rilevanza interna e finalità consultiva. L’ordinamento consente, piuttosto,
l’attribuzione a singoli consiglieri di compiti di collaborazione,
circoscritti all’esame ed alla cura di affari specifici, che non implichi la
possibilità di assumere atti a rilevanza esterna, né di adottare atti di
gestione spettanti agli organi burocratici.
Il Comune chiede un parere relativamente a diverse questioni riguardanti gli
amministratori locali. In particolare desidera sapere:
1) se sia possibile per il sindaco non attribuire alcuna delega
agli assessori nominati;
2) se sia valida la nomina degli assessori esterni compiuta dal
sindaco, atteso il non avvenuto accertamento dell’inesistenza in capo agli
stessi delle condizioni di eleggibilità, compatibilità e candidabilità;
3) se sia possibile attribuire una delega ad un consigliere
comunale.
Con riferimento alla prima questione posta si osserva che, come rilevato
dall’ANCI in un parere rilasciato sull’argomento
[1]
“il ruolo politico
dell’assessore si esplicita […] in maniera primaria nell’ambito dell’organo
collegiale Giunta” e, solo in via secondaria, la figura dell’assessore è
caratterizzata dalle “deleghe” assegnate dal Sindaco. Si consideri, altresì
che non è dato riscontrare l’esistenza di alcuna norma di legge nel decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267, recante “Testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali”, che obblighi il sindaco
all’attribuzione di tali deleghe. A ciò si aggiunga la considerazione per
cui lo statuto comunale, all’articolo 17, nel declinare le “attribuzioni di
amministrazione”
[2]
del sindaco prevede, al comma 1, che questi “possa” e
non già “debba” delegare le sue funzioni o parte di esse ai singoli
assessori.
Da tali premesse si ritiene consegua l’insussistenza di un obbligo da parte
del sindaco di conferire deleghe per materia ai vari assessori, potendo lo
stesso mantenere a sé le attribuzioni afferenti i diversi settori
dell’amministrazione. Segue altresì che, anche in mancanza di deleghe,
l’organo giuntale è da considerarsi pienamente legittimato ad operare nella
sua composizione collegiale e nel rispetto delle regole ad esso proprie.
Passando a trattare della seconda questione posta, si rileva che l’articolo
24 dello statuto comunale prevede, al comma 2, che: “Gli assessori sono
normalmente scelti tra i consiglieri; possono tuttavia essere nominati anche
assessori esterni al Consiglio, purché dotati dei requisiti di eleggibilità,
compatibilità e candidabilità alla carica di Consigliere Comunale ed in
possesso di particolare competenza tecnica, amministrativa o professionale.
Qualora siano stati nominati assessori esterni, il Consiglio Comunale, nella
prima seduta successiva alla loro nomina, procede ad accertare le condizioni
di eleggibilità, di compatibilità e di candidabilità degli stessi”.
Con riferimento al caso in esame il Comune, atteso che la prima seduta
consiliare successiva alla nomina degli assessori esterni da parte del
sindaco è andata deserta, chiede se la nomina degli assessori possa dirsi
validamente effettuata.
Ai sensi dell’articolo 46, comma 2, TUEL “il sindaco e il presidente della
provincia nominano, nel rispetto del principio di pari opportunità tra donne
e uomini, garantendo la presenza di entrambi i sessi, i componenti della
giunta […]”: l’atto di nomina degli assessori è, dunque, di competenza del
sindaco.
Quanto alla valutazione dei “requisiti di candidabilità, eleggibilità e
compatibilità” si ritiene che la norma statutaria dell’Ente, sopra
riportata, non possa trovare applicazione in quanto non coerente con il
quadro normativo dettato dal TUEL in materia di organi di governo del
comune.
La norma statutaria sopra riportata, nella parte in cui attribuisce al
consiglio comunale l’accertamento delle condizioni di eleggibilità, di
compatibilità e di candidabilità degli assessori esterni demanda, infatti, a
tale organo una competenza che non gli è propria, non essendo l’assessore
esterno componente del consiglio ma solo della giunta comunale.
L’ANCI in un
proprio parere,
[3]
con riferimento all’individuazione dell’organo deputato
alla contestazione di una causa di incompatibilità di un assessore esterno,
ha affermato che “vi siano due possibili strade: la prima è che il
procedimento di contestazione della cause di incompatibilità (che può
sfociare in una pronuncia di decadenza) si svolga ad iniziativa della Giunta
anziché del Consiglio, poiché è questo l’organo collegiale di appartenenza;
l’altra possibilità –preferibile a parere di chi scrive– è che sia il
Sindaco a revocare l’assessore incompatibile. Il testo unico degli enti
locali stabilisce infatti che il Sindaco possa nominare come assessori
esterni solo i cittadini “in possesso dei requisiti di candidabilità,
eleggibilità e compatibilità alla carica di consigliere comunale”: orbene,
se il soggetto nominato come assessore esterno non possiede questi
requisiti, è chiaro che la sua investitura non può ritenersi legittima, per
cui è necessario che il Sindaco proceda alla revoca dell’atto di nomina
stesso.”
Concludendo su tale punto, si ritiene che l’assessore esterno nominato dal
sindaco possa esercitare le prerogative che gli sono proprie in quanto
assessore, sia singolarmente che quale componente dell’organo giuntale di
cui fa parte, fermo restando che andrà verificato il permanere dei requisiti
nel corso del mandato con le modalità ritenute opportune.
[4]
Si ritiene,
altresì, che la valutazione della sussistenza dei requisiti di candidabilità,
eleggibilità e compatibilità alla carica di assessore sia stata compiuta dal
sindaco all’atto della nomina degli stessi.
Passando a trattare dell’ultima questione posta, il Ministero dell’Interno
ha ripetutamente ritenuto inammissibile l’attribuzione di deleghe con
rilevanza esterna ai consiglieri comunali, potendo le stesse, ove previste,
avere solo rilevanza interna e finalità consultiva, specificando che
l’ordinamento consente, piuttosto, l’attribuzione a singoli consiglieri di
compiti di collaborazione, circoscritti all’esame ed alla cura di affari
specifici, che non implichi la possibilità di assumere atti a rilevanza
esterna, né di adottare atti di gestione spettanti agli organi burocratici.
Per delega interna s’intende l’incarico funzionale affidato dal titolare
dell’organo delegante per lo svolgimento di un’attività ausiliaria di
studio, proposta e vigilanza in determinati settori. Risulta, quindi essere
una misura organizzativa che, pur potendo assumere notevole importanza
pratica e rilevanza politica, non può produrre effetti giuridici.
In particolare, in un recente parere
[5]
il Ministero dell’Interno ha
ribadito che «nell'ambito dell'autonomia statutaria dell'ente locale,
sancita dall'art. 6 del citato decreto legislativo n. 267/2000, è ammissibile
la disciplina di deleghe interorganiche, purché il contenuto delle stesse
sia coerente con la funzione istituzionale dell'organo cui si riferisce.
Occorre considerare che il consigliere può essere incaricato di studi su
determinate materie e di compiti di collaborazione circoscritti all'esame e
alla cura di situazioni particolari, che non implichino la possibilità di
assumere atti a rilevanza esterna, né di adottare atti di gestione spettanti
agli organi burocratici.
Il consigliere, infatti, svolge la sua attività istituzionale, in qualità di
componente di un organo collegiale quale il consiglio, che è destinatario
dei compiti individuati e prescritti dalle leggi e dallo statuto.
Atteso che il consiglio svolge attività di indirizzo e controllo
politico-amministrativo, partecipando "…alla verifica periodica
dell'attuazione delle linee programmatiche da parte del Sindaco … e dei
singoli assessori" (art. 42, comma 3, del T.U.O.E.L.), ne scaturisce
l'esigenza di evitare una incongrua commistione nell'ambito dell'attività di
controllo.
In proposito, va osservato che il TAR Toscana, con decisione n.
1248/2004, ha respinto il ricorso avverso una norma statutaria concernente
la delega ai consiglieri di funzioni sindacali in quanto la stessa escludeva
implicitamente che potessero essere delegati compiti di amministrazione
attiva, tali da comportare “…l’inammissibile confusione in capo al medesimo
soggetto del ruolo di controllore e di controllato…”.
Si aggiunge, altresì, che il Consiglio di Stato, con parere n. 4883/11 reso
in data 17.10.2012, ha ritenuto fondato un ricorso straordinario al
Presidente della Repubblica in quanto l’atto sindacale impugnato, nel
prevedere la delega ai consiglieri comunali di funzioni di amministrazione
attiva, determinava “… una situazione, per lo meno potenziale, di conflitto
di interesse.”.
---------------
[1] ANCI, parere dell’11.10.2007.
[2] Tale è la rubrica dell’articolo 17 dello statuto comunale.
[3] ANCI, parere dell’08.09.2004.
[4] Con riferimento alla norma di cui all’articolo 24 dello statuto nella
parte in cui attribuisce al consiglio comunale il compito di accertare le
condizioni di eleggibilità, di compatibilità e di candidabilità degli
assessori esterni, per quanto sopra già esposto, si suggerisce all’ente di
provvedere alla sua modifica.
[5] Ministero dell’Interno, parere del 28.10.2019. Nello stesso senso
si vedano, anche i pareri del 12.08.2019 e del 05.01.2018 (11.12.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
novembre 2019 |
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Composizione della giunta comunale. Quote di genere.
Nelle giunte dei comuni con popolazione superiore a
3.000 abitanti, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura
inferiore al 40 per cento, con arrotondamento aritmetico. L’impossibilità di
rispettare la percentuale di rappresentanza di genere configura una
situazione eccezionale che deve essere adeguatamente provata, con
conseguente necessità di un’accurata e approfondita istruttoria e di
un’altrettanto adeguata e puntuale motivazione del provvedimento sindacale
di nomina degli assessori che quella percentuale di rappresentanza non
riesca a garantire.
Il Comune chiede un parere in merito alla composizione della giunta
comunale. Più in particolare riferisce che, a seguito delle dimissioni di
una componente dell’organo giuntale, quest’ultimo non è rispettoso delle
quote di genere. Chiede, pertanto, se sia possibile mantenere l’assetto
attuale della giunta attesa la difficoltà di individuazione di un altro
componente di sesso femminile e considerata l’imminenza del rinnovo del
consiglio comunale.
L’articolo 18 dello statuto comunale, al comma 1, prevede che: “La Giunta
Comunale è composta dal Sindaco, che la convoca senza formalità e la
presiede, e da un numero di Assessori non superiore a sei, tra cui un Vice
Sindaco [1].
È nominata dal Sindaco che ne dà comunicazione al Consiglio nella prima
seduta successiva alle elezioni, unitamente alla proposta degli indirizzi
generali di governo.
Il Sindaco può nominare fino ad un massimo di due Assessori non Consiglieri,
senza attribuire loro le funzioni di Vice Sindaco. I due Assessori dovranno
essere individuati all’interno delle liste dei candidati alla carica di
consigliere comunale collegate al Sindaco eletto”.
Attesa la formulazione statutaria che fissa un numero massimo di assessori
nominabili dal sindaco segue che questi potrebbe individuare un numero anche
inferiore rispetto al massimo consentito. Sotto tale profilo giuridico,
pertanto, l’attuale organo giuntale che risulta composto da quattro
assessori più il sindaco potrebbe considerarsi correttamente costituito e
legittimato ad operare.
Le considerazioni di cui sopra devono tuttavia tenere in debito conto anche
il necessario rispetto del principio di parità di genere.
Al riguardo si osserva che l’articolo 1, comma 137, della legge 07.04.2014, n. 56 prevede che: “Nelle giunte dei comuni con popolazione superiore
a 3.000 abitanti, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura
inferiore al 40 per cento, con arrotondamento aritmetico”.
Relativamente al caso in esame, su quattro assessori almeno due dovrebbero
pertanto appartenere al genere meno rappresentato.
Preliminarmente si osserva che la norma citata deve essere applicata non
solo con riguardo alle nomine assessorili effettuate all’indomani delle
elezioni ma anche a quelle adottate in corso di consiliatura. Una diversa
interpretazione, come affermato dal Supremo giudice amministrativo
[2],
“consentirebbe un facile aggiramento della suddetta prescrizione” che
costituisce un “ineludibile parametro di legittimità” di tutti gli atti
adottati nella sua vigenza.
La giurisprudenza ha affrontato, in diverse occasioni, la questione della
valenza da attribuire alla norma sopra citata, e, in particolare, se essa
“abbia o meno un limite intrinseco di operatività e cioè se, in ogni caso e
senza alcuna eccezione , la composizione della giunta debba comunque
assicurare la presenza dei due generi in misura non inferiore al 40% ovvero
se sia astrattamente configurabile (e sistematicamente compatibile con
quella previsione normativa) una situazione, di carattere assolutamente
eccezionale, in cui, la giunta comunale possa ritenersi legittimamente
costituita ed altrettanto legittimamente operante, pur se quella percentuale
non sia stata rispettata” [3].
Il giudice amministrativo [4] nell’osservare che l’applicazione della
prescrizione contenuta nell’articolo 1, comma 137, della legge 56/2014,
volta a garantire la parità tra i sessi e conseguentemente le reciproche
pari opportunità, deve essere contemperata con il principio, anch’esso di
valenza costituzionale, di continuità delle “funzioni
politico-amministrative”, afferma che “il giusto contemperamento dei due
delineati principi costituzionali che vengono in gioco (e cioè il limite
intrinseco, logico-sistematico, di operatività della norma in questione) può
ragionevolmente rintracciarsi nella effettiva impossibilità di assicurare
nella composizione della giunta comunale la presenza dei due generi nella
misura stabilita dalla legge, impossibilità che deve essere adeguatamente
provata e che pertanto si risolve nella necessità di un’accurata e
approfondita istruttoria ed in un’altrettanto adeguata e puntuale
motivazione del provvedimento sindacale di nomina degli assessori che quella
percentuale di rappresentanza non riesca a rispettare”.
Ancora si è affermato che “l’impossibilità in concreto di rispettare la
percentuale di rappresentanza di genere debba risultare in modo puntuale ed inequivoco e debba avere un carattere tendenzialmente oggettivo”.
Sul fatto che l’impossibilità di rispettare la parità di genere nell’organo
giuntale debba essere adeguatamente provata si è ulteriormente espressa la
giurisprudenza amministrativa rilevando che “il Sindaco ha l’obbligo di
svolgere indagini conoscitive, intese ad individuare, all’interno della
società civile, nell’ambito del bacino territoriale di riferimento del
Comune, personalità femminili in possesso di quelle qualità–doti
professionali, nonché condivisione dei valori etico-politici propri della
maggioranza uscita vittoriosa alle elezioni, idonee a ricoprire l’incarico
di componente la giunta municipale” [5].
Sempre con riferimento al tipo di prova di cui il sindaco dovrebbe avvalersi
a giustificazione del mancato rispetto del principio di parità di genere
nell’organo giuntale la giurisprudenza [6] ha affermato come si tratti di una
prova “particolarmente ardua, in quanto non possono essere utilizzate
motivazioni di tipo meramente soggettivo (mancanza di conoscenza personale o
di un preesistente rapporto fiduciario) e neppure ragioni di opportunità
collegate agli equilibri tra i gruppi politici di maggioranza”.
Le considerazioni di cui sopra risultano avallate anche dal Ministero
dell’Interno che, in diverse occasioni, nell’affrontare la questione in
riferimento, ha fatto proprie le conclusioni cui era giunta la
giurisprudenza amministrativa [7].
Quanto all’ulteriore questione della validità delle deliberazioni adottate
dalla giunta in caso di mancata osservanza della normativa in materia di
quote di genere, il Ministero dell’Interno [8] ha richiamato le osservazioni
formulate al riguardo dal Consiglio di Stato in sede consultiva
[9] il quale
ha precisato che “vanno considerate due ipotesi. La prima si riferisce al
caso in cui l’atto deliberativo sia stato adottato, mentre è pendente
ricorso giurisdizionale avverso l’irregolare composizione dell’organo. Come
ricordato dalla stessa Amministrazione richiedente, la questione è stata
risolta dalla giurisprudenza amministrativa, che si è espressa nel senso che
l’organo in carica si presume validamente costituito sino al deposito della
sentenza che ne accerta l’illegittima composizione (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, 13.01.2012, n. 1). Fino a quel momento la Giunta o il
Consiglio dispongono dei pieni poteri e i relativi atti beneficiano del
principio della continuità degli organi amministrativi. Tale orientamento è
condiviso dalla Sezione.
La seconda ipotesi prende in esame il caso in cui l’atto deliberativo sia
stato adottato da un organo la cui irregolare composizione non sia stata
impugnata. Anche in questa situazione non ci sono riflessi diretti sulla
validità dell’atto. L’atto, se non impugnato nei termini, è divenuto
inoppugnabile, esso ha acquistato stabilità [10]”.
Concludendo, con riferimento al quesito posto, compete al sindaco valutare
se sussistono motivazioni sufficienti, idonee a comprovare l’impossibilità
di nomina di un ulteriore componente femminile all’interno della giunta
comunale, coerenti con le considerazioni espresse dalla giurisprudenza
sull’argomento e sopra riportate [11]. Atteso che, nel caso in esame, la
mancata rappresentanza di genere nella misura richiesta dalla legge è
sopravvenuta nel corso del mandato, non è dato riscontrare la presenza di un
atto (quale sarebbe il decreto di nomina) nel quale dare conto dell’iter
motivazionale seguito. Quest’ultimo potrebbe, comunque, essere portato a
conoscenza del consiglio comunale da parte del sindaco.
---------------
[1] Per completezza espositiva si segnala che, ai sensi dell’articolo 12,
comma 39, della legge regionale 29.12.2010, n. 22 “Il numero massimo
degli Assessori comunali è determinato, per ciascun comune, in misura pari a
un quarto del numero dei Consiglieri del comune, con arrotondamento
all’unità superiore. Nel calcolo del numero dei Consiglieri comunali si
computa il Sindaco. […]”.
Come precisato anche nella circolare n. 02/EL del
25.03.2019 dell’allora Direzione centrale autonomie locali, sicurezza e
politiche dell’immigrazione “a prescindere dall’effettivo adeguamento
statutario, nell’ipotesi in cui lo statuto dell’Ente preveda la nomina di un
numero di assessori superiore al massimo consentito dalla legge regionale,
il Sindaco dovrà attenersi al numero massimo indicato dalla legge regionale
stessa”.
Atteso che il Comune ha una popolazione compresa tra i 3.001 e i
10.000 abitanti il numero massimo di assessori sarebbe di cinque (più il
sindaco). Nel caso in esame la giunta comunale risultava formata da 5
assessori e, a seguito delle dimissioni di uno di essi, la stessa risulta
attualmente composta da 4 assessori (più il sindaco) di cui uno solo di
sesso femminile.
Si ricorda, inoltre, che con legge regionale 09.08.2018, n. 20 (articolo
10, comma 46, che ha inserito l’articolo 39-bis della legge regionale
22/2010) è stata introdotta la possibilità per il sindaco di nominare,
qualora sussistano particolari esigenze di governo locale anche di natura
transitoria, un ulteriore assessore, oltre il numero massimo previsto.
[2] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 05.10.2015, n. 4626.
[3] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 03.02.2016, n. 406.
[4] Consiglio di Stato, sentenza 406/2016, citata in nota 3.
[5] TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, sentenza del 09.01.2015, n. 1.
Nello stesso senso si veda TAR Puglia, Lecce, sez. I, sentenza del 07.02.2013, n. 289.
[6] TAR Lombardia, Brescia, sez. II, sentenza del 05.01.2012, n. 1.
[7] Si vedano i pareri del Ministero dell’Interno del 05.01.2018 e del
16.05.2017.
[8] Ministero dell’Interno, parere del 03.04.2018.
[9] Consiglio di Stato, parere del 19.01.2015, n. 93.
[10] Prosegue l’indicato parere affermando che: “A chiarimento si considera
che il potere amministrativo è conferito dalla legge per la cura di
interessi che non sono propri del soggetto che lo esercita e che richiedono
una situazione di supremazia nell’ordinamento giuridico (principio di
legalità). A detto principio si aggiungono il principio di necessità, cioè
il dovere del soggetto investito del potere di perseguire l’interesse
pubblico sino a quando perduri la situazione che ha originato il potere e
l’esigenza di curare gli interessi per cui è esercitato.
Ne consegue che la stabilità dell’azione amministrativa è premessa e sintesi
dei principi generali ai quali deve ispirarsi l’esercizio del potere
pubblico: economicità, efficacia e non aggravamento, pubblicità e
trasparenza, ragionevolezza e proporzionalità, buona fede e legittimo
affidamento”.
[11] Non pare al riguardo possibile giustificare la mancata nomina del
componente femminile col fatto che è imminente il rinnovo del consiglio
comunale (27.11.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Programma emendabile. Parola al consiglio sulle linee del sindaco. La facoltà non è esclusa in
base all'art. 42 del decreto 267/2000.
Si possono emendare le linee programmatiche presentate dal sindaco
al consiglio comunale ai sensi dell'articolo 46, comma 3, del dlgs n.
267/2000?
L'articolo 46, comma 3, del dlgs n. 267/2000 demanda allo statuto il
termine entro il quale il sindaco, previa audizione della giunta, presenta
al consiglio le linee programmatiche relative alle azioni e ai progetti da
realizzare nel corso del mandato. Il citato articolo prescrive che lo
statuto disciplini anche i modi di partecipazione del consiglio «alla
definizione, all'adeguamento e alla verifica periodica dell'attuazione delle
linee programmatiche da parte del sindaco... e dei singoli assessori».
Il
Consiglio nella sua funzione di indirizzo e controllo come enunciata dal
decreto legislativo n. 267/2000 è chiamato, dunque, a partecipare al programma
amministrativo sia nella fase iniziale che nelle fasi intermedie, con le
modalità indicate proprio nello statuto. Lo statuto di un comune stabilisce
che il sindaco, in sede di verifica annuale dello stato di attuazione dei
programmi, presenta al Consiglio una relazione sul grado di realizzazione
delle linee programmatiche nei termini di cui all'art. 193 del Tuoel.
Alla luce della normativa sopra richiamata, si ritiene che le linee
programmatiche non possano non essere «partecipate» tramite delibere quali
atti tipici con i cui gli organi collegiali manifestano la propria volontà.
Pertanto non si ritiene esclusa la facoltà di proporre emendamenti alle
linee programmatiche presentate dal sindaco, considerato che il disposto
recato dal citato articolo 42, comma 3, del dlgs n. 267/2000 assegna al
consiglio la competenza alla definizione, all'adeguamento e alla verifica
periodica del programma di governo
(articolo ItaliaOggi del 22.11.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Danno
erariale al sindaco per l'incarico dirigenziale a un funzionario senza
laurea.
Il sindaco che attribuisce un incarico dirigenziale a un funzionario non
laureato arreca un danno erariale al Comune.
Lo ha stabilito la corte dei Corte dei conti del Veneto, con la
sentenza 20.11.2019 n. 182,
con la quale ha condannato il sindaco di un Comune al risarcimento di un
danno erariale per oltre 78 mila euro, a seguito del decreto di conferimento
di un incarico dirigenziale a un funzionario privo del necessario diploma di
laurea.
L'attribuzione dell'incarico a tempo determinato, con decorrenza dal giugno
2013 al maggio 2018, era avvenuta con un decreto del sindaco adottato ai
sensi dell'articolo 110 del Tuel, che disciplina gli incarichi a contratto.
L'argomentazione addotta dai giudici a sostegno della pesante condanna fa
perno sul fatto che quest'ultimo articolo consente la copertura dei posti di
qualifica dirigenziale mediante contratto a tempo determinato «fermi
restando i requisiti richiesti dalla qualifica da ricoprire».
Il requisito della laurea
L'impianto normativo connesso a questo disposto non lascia dubbi in ordine
alla necessità del diploma di laurea per l'accesso alla dirigenza della Pa.
In particolare, l'articolo 19 del Dlgs 165/2001 (testo unico sul pubblico
impiego), con riguardo all'attribuzione degli incarichi dirigenziali a tempo
determinato, fa espresso riferimento alla formazione universitaria e post
universitaria ai fini della verifica della competenza professionale, mentre
l'articolo 28 del medesimo decreto, per quanto riguarda l'accesso alle
qualifiche dirigenziali a tempo indeterminato, prevede anch'esso la
necessità del possesso di titolo di laurea.
Tenuto conto di ciò, il decreto illegittimo ha comportato il riconoscimento
al funzionario di un trattamento economico superiore a quello che gli
sarebbe spettato se l'incarico gli fosse stato attribuito con il
riconoscimento di una posizione organizzativa, e per questo la Corte ha
addebitato al sindaco un danno pari alla differenza retributiva tra le due
posizioni in organico per tutto il periodo di svolgimento dell'incarico.
Il collegio ha respinto l'argomentazione difensiva secondo cui il sindaco
non avrebbe avuto alternative nella scelta del funzionario (dato che era
l'unico dipendente di categoria D disponibile ad assumere l'incarico), senza
tener conto del fatto che la nomina avrebbe fatto risparmiare al Comune i
costi di un conferimento di incarico dirigenziale a un soggetto esterno.
Al contrario, i giudici hanno sostenuto che «esistevano nell'organico
dell'ente altre professionalità a cui attribuire l'incarico», mentre per
quanto concerne il presunto risparmio di spesa la difesa del sindaco «nulla
ha argomentato in merito alla possibilità di affidare la responsabilità
dell'area a un funzionario di categoria D mediante l'istituto della
posizione organizzativa».
La colpa grave
La sezione ha poi ravvisato i connotati di una colpa grave nella condotta
del primo cittadino, in quanto in materia si è ormai consolidato «un
quadro normativo chiaro, privo di insidie sul piano ermeneutico, anche alla
luce della concorde e costante giurisprudenza amministrativa».
A nulla è valso il tentativo della difesa nel sostenere un coinvolgimento di
altri organi comunali nella responsabilità decisionale per il conferimento
dell'incarico dirigenziale illegittimo.
Secondo i giudici la circostanza che, a monte del decreto in questione, la
giunta comunale avesse adottato un piano di fabbisogno del personale
prevedendo la copertura del posto di qualifica dirigenziale mediante
contratto a tempo determinato con incarico in base all'articolo 110 del Tuel
non ha escluso neppure parzialmente la responsabilità del convenuto.
La decisione di giunta, infatti, atteneva unicamente alle modalità di
copertura del posto, e non all'individuazione del soggetto al quale
l'incarico avrebbe dovuto essere conferito da parte del sindaco, nella veste
di titolare della funzione di scelta del responsabile dell'ufficio.
Il segretario generale, chiamato a sua volta in causa dal sindaco in qualità
di soggetto titolare delle «funzioni di assistenza
giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell'ente in ordine alla
conformità dell'azione amministrativa alle leggi, allo statuto e ai
regolamenti» (articolo 97 del tuel), è stato scagionato dal collegio per
aver rappresentato al sindaco subito dopo l'adozione del decreto,
verbalmente e per iscritto, i profili di illegittimità dell'avvenuto
conferimento dell'incarico.
In definitiva, l'addebito del danno erariale è stato posto interamente a
carico del sindaco dell'ente, individuato dalla Corte quale titolare
esclusivo del potere di esercitare la funzione di scelta dell'incarico, con
esclusione peraltro della cosiddetta «esimente politica», riferibile
ai soli atti rientranti nella competenza di uffici tecnici o amministrativi
e approvati, autorizzati o eseguiti in buona fede dagli organi politici (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
10.12.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Accesso alla dirigenza e responsabilità erariale
per mancanza del diploma di laurea.
In materia di conferimento di incarichi dirigenziali a
tempo determinato negli enti locali, la normativa di settore (d.lgs.
267/2000), nell’individuarne la disciplina (art. 110), ha rinviato, quanto a
requisiti e presupposti, alla generale disciplina del pubblico impiego (D.lgs.
29/1993 prima e, poi, D.lgs. 165/2001) e, quindi, all’art. 19 del D.lgs.
165/2001 (la cui applicazione agli enti locali è stata espressamente
prevista dal D.lgs. 150/2009, benché in giurisprudenza, anche di questa
Corte, non si fosse mancato di sottolinearne, anche in precedenza, l’estensibilità
oltre l’impiego statale in quanto rappresentativa di principio generale)
che, al comma 6, stabilisce i requisiti per il conferimento di incarichi
dirigenziali a tempo determinato, prevedendo la concorrenza del requisito
culturale della formazione universitaria con il requisito professionale
dell’esperienza quinquennale in posizioni funzionali previste per l’accesso
alla dirigenza.
Tale ultima disposizione, nel testo
in vigore all’epoca dei fatti (2013) e, cioè, successivamente alle modifiche
apportate dall’art. 40 del D.lgs n. 150/2009, aveva una formulazione
letterale che non poteva (e non può) lasciare adito a dubbio ermeneutico
alcuno in relazione al necessario possesso del titolo di studio della
laurea: la “particolare specializzazione professionale” che è
requisito per l’attribuzione dell’incarico, infatti, deve essere comprovata
“dalla formazione universitaria e postuniversitaria, post universitaria,
da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro…”.
Requisito culturale e di esperienza lavorativa dunque, non possono in alcun
modo essere ritenuti, anche solo sulla base della littera legis,
alternativi tra loro, ma debbono, coerentemente con la ratio legis,
sussistere congiuntamente.
Invero, “il criterio secondo il
quale il legislatore ha inteso disciplinare l’immissione nell’esercizio di
funzioni dirigenziali di soggetti, quali essi siano, in precedenza già non
investiti di tale qualifica, risulta evidentemente informato alla volontà di
acquisire professionalità estranee, tali da presentare qualità aggiuntive e
comunque non minori rispetto ai già elevati requisiti previsti per le nomine
di funzionari appartenenti ai ruoli dirigenziali. Tanto premesso, consegue
da ciò attraverso una lettura sistematica dell’art. 19, c. 6, che la facoltà
da tale norma prevista richiede, nei suoi destinatari, il concorrente
possesso di una particolare specializzazione, sia professionale, che
culturale e scientifica; quando si passi all’accertamento di tali requisiti,
in relazione alle funzioni da attribuire, l’interprete, dal canto suo, non
può sottrarsi alla verifica, sotto ogni profilo, della presenza di tutti gli
elementi che complessivamente rendono il soggetto idoneo all’incarico. Ne
discende che, ferma rimanendo l’esigenza dell’accertamento di un livello di
formazione culturale identificabile nel possesso della laurea, gli elementi
che configurano e completano in estranei il profilo della professionalità
debbano, insieme ad altri, ricavarsi dal già disimpegnato esercizio di
funzioni almeno di pari rilevanza di quelle previste nel nuovo compito.
Quindi, oltre all’accertato possesso di sufficiente formazione culturale, in
un contesto normativo in cui è però prevista l’attribuzione di incarichi
dirigenziali previa verifica della sussistenza di livelli di formazione
particolarmente elevati, occorre che la valutazione venga estesa ad un
puntuale esame dei curricula degli incaricandi”.
L’aver conferito, da parte del convenuto, un incarico dirigenziale a
soggetto non in possesso di diploma di laurea costituisce una violazione
delle predette disposizioni, integrando l’elemento oggettivo della
responsabilità amministrativa.
--------------
In relazione all’elemento soggettivo, ritiene il Collegio che la condotta
del convenuto sia connotata, come prospettato dalla Procura regionale, da
colpa grave.
Invero, il
decreto di conferimento dell’incarico è, formalmente e sostanzialmente, atto
proprio del Sindaco, adottato nell’ambito di funzioni ad esso attribuite in
via esclusiva dal TUEL e dal Regolamento comunale di organizzazione degli
uffici e dei servizi del Comune
La circostanza che, a monte del decreto in questione, la Giunta Comunale,
organo al quale compete la programmazione in materia di personale ex art.
48, comma 2, TUEL, avesse deciso -appunto all’interno di un atto programmatorio a valenza generale quale il Piano occupazionale-
la “copertura del
posto di qualifica dirigenziale dell’Area II “servizi economico-finanziari e tributari” mediante contratto a tempo determinato” con
incarico ai sensi dell’art. 110 TUEL, anziché ricorrere ad altre opzioni
(incarico a tempo determinato a personale esterno, concorso pubblico,
attribuzione di posizione organizzativa) non vale ad escludere, neppure
parzialmente, la responsabilità del convenuto.
Tale decisione, infatti, attiene unicamente alle modalità di copertura del
posto, non alla individuazione e alla scelta del soggetto al quale
l’incarico avrebbe dovuto essere conferito, queste ultime riferibili
unicamente alla volontà del titolare del potere di esercitare la relativa
funzione: il sindaco, appunto.
Né la circostanza che il personale apicale degli uffici o il segretario
comunale fossero tenuti alla predisposizione dell’atto vale ad escludere in
capo al sindaco la responsabilità dell’atto stesso, a ripartirla o ad
attenuarla: si tratta, infatti, di compito di mera redazione materiale del
documento, non di una (com)partecipazione alla formazione della volontà che
nel documento si trasfonde dando, appunto, origine all’atto; la scelta del
soggetto destinatario dell’incarico (e, quindi, la valutazione della
sussistenza della speciale professionalità richiesta dalla norma) è di
esclusiva pertinenza del Sindaco.
--------------
Nell’attuale assetto normativo regolante la figura ed il ruolo del
segretario comunale, dopo l’intervento della legge 127/1997 (che ha abrogato
il parere preventivo obbligatorio di legittimità del segretario sugli atti
degli organi collegiali), al segretario sono attribuite funzioni meramente
consultive e di assistenza agli organi del comune –la cui ampiezza, peraltro,
è delimitata dalla introduzione della figura del Direttore generale- e di
coordinamento dell’attività dei dirigenti, ma non certo funzioni di
amministrazione attiva.
La mera
sottoscrizione degli atti di Giunta e Consiglio comunale quale soggetto verbalizzatore (art. 97, comma 3, TUEL) assolve ad una specifica funzione
redazionale e certificativa, propria del Segretario, che non comporta alcuna
responsabilità diversa da quella di registrazione dei fatti e delle volontà
in conformità a quanto avvenuto nella seduta e, perciò, esterna ed estranea
al processo formativo delle volontà espresse dagli organi collegiali a
seguito di deliberazione (ed, in ipotesi, causative di danno).
--------------
Il conferimento di incarico dirigenziale ex art. 110 TUEL è atto proprio del
Sindaco dal quale è causalmente derivato il contestato danno al Comune con il pagamento di competenze retributive ad un
soggetto privo della professionalità necessaria per la copertura
dell’incarico illegittimamente conferito.
Invero, l’illegittimità dell’incarico conferito a soggetto privo dei requisiti di
studio richiesti dalla norma ha causato all’amministrazione un ingiusto
pregiudizio economico: il danno in caso di prestazioni rese in mancanza del
prescritto titolo di studio e professionale è insito nella lesione della
violazione del sinallagma contrattuale, dal momento che alla retribuzione
percepita non corrisponde una prestazione adeguatamente commisurata e
qualitativamente corrispondente alla professionalità richiesta.
---------------
Oggetto del presente giudizio è la responsabilità risarcitoria del
convenuto, all’epoca Sindaco pro tempore del Comune di Villafranca di
Verona, per l’illegittimo conferimento di incarico dirigenziale intra
dotazione organica, a tempo determinato, ad un dipendente dell’ente poiché
sprovvisto dell’imprescindibile requisito del diploma di laurea, così come
previsto dalla disciplina di rango primario vigente all’atto del
conferimento dell’incarico medesimo, nel giugno 2013.
Secondo la prospettazione della Procura Regionale, il possesso del titolo di
studio della laurea, non solo era un requisito obbligatoriamente richiesto,
ma emergeva in modo chiaro e puntuale dal complesso delle disposizioni
normative regolanti la materia, circostanza che di per sé impediva il venir
meno della gravità delle colpa.
A tale conclusione la Procura è pervenuta in considerazione dell'art. 110
del D.lgs. 267/2000, che prevede che la copertura dei posti di qualifica
dirigenziale possa avvenire mediante contratto a tempo determinato “fermi
restando i requisiti richiesti dalla qualifica da ricoprire”, dell’art.
19 del D.Lgs. 165/2001 -divenuto applicabile a tutte le amministrazioni di
cui all’art. 1, comma 2, del D.lgs. 165/2001 in forza dell’art. 40, comma 1,
lett. f), del D.lgs. 150/2009-, che disciplina il conferimento di incarichi
dirigenziali a tempo determinato e fa riferimento alla “particolare
specificazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla
formazione universitaria e postuniversitaria”, e infine dell’art. 28 del
D.Lgs. 165/2001 che, benché riferito alle nomine in ruolo dei dirigenti per
le quali, appunto, è richiesto il diploma di laurea, è da considerarsi norma
di generale applicazione, anche per ragioni di logica e coerenza del
sistema.
Si tratterebbe di un quadro normativo chiaro, privo di insidie sul piano
ermeneutico, anche alla luce della concorde e costante giurisprudenza
amministrativa da un lato e, dall’altro, della stessa Corte dei Conti, più
volte intervenuta nella materia de qua anche in sede di controllo di
legittimità (Sez. Centr. Contr. Leg. n. 31/2001, n. 3/2003) che in sede
consultiva di controllo (a partire dalla Sez. Contr. Lombardia n. 31/2001) e
ribadita anche dal Dipartimento della Funzione Pubblica fin dal 2008 (parere
n. 35/2008).
La difesa del convenuto non ha formulato contestazioni circa le norme
applicabili, al momento dell’adozione del decreto sindacale n. 11 del
18.06.2013, al conferimento di incarichi dirigenziali ai sensi dell’art. 110
del TUEL -e, quindi, in relazione alla necessità del possesso del requisito
della laurea-, tuttavia ha rappresentato che tale quadro normativo, in ogni
caso farraginoso e di non semplice ricostruzione a causa della tecnica
normativa del rinvio mobile, solo a partire dalla riforma del 2009 non
poneva dubbi interpretativi circa i requisiti professionali e di studio
necessari per il conferimento di incarichi dirigenziali.
In precedenza, infatti, la formulazione letterale dell’art. 19, comma 6, del
D.lgs. 165/2001, elencando i requisiti possesso di laurea/esperienza in
maniera disgiuntiva, consentiva di ritenere legittimo il conferimento di
incarico anche a soggetti non in possesso del titolo di studio, ma in
possesso di concreta esperienza di lavoro maturata presso pubbliche
amministrazioni; solo dopo il d.lgs. 150/2009, il testo della disposizione è
stato mutato in modo tale da non lasciare spazio a soluzioni ermeneutiche
diverse circa la necessaria compresenza di entrambi i requisiti.
Osserva il Collegio che l’adozione da parte dell’odierno convenuto,
all’epoca dei fatti Sindaco pro tempore del Comune di Villafranca di
Verona, del decreto n. 11 del 18.06.2013 integra una condotta antigiuridica,
essendo condivisibile la ricostruzione del quadro normativo applicabile alla
fattispecie dedotta dalla Procura Regionale e, nella sostanza, condivisa
anche dalla difesa del convenuto.
Come già ricordato, in materia di conferimento di incarichi dirigenziali a
tempo determinato negli enti locali, la normativa di settore (d.lgs.
267/2000), nell’individuarne la disciplina (art. 110), ha rinviato, quanto a
requisiti e presupposti, alla generale disciplina del pubblico impiego (D.lgs.
29/1993 prima e, poi, D.lgs. 165/2001) e, quindi, all’art. 19 del D.lgs.
165/2001 (la cui applicazione agli enti locali è stata espressamente
prevista dal D.lgs. 150/2009, benché in giurisprudenza, anche di questa
Corte, non si fosse mancato di sottolinearne, anche in precedenza, l’estensibilità
oltre l’impiego statale in quanto rappresentativa di principio generale)
che, al comma 6, stabilisce i requisiti per il conferimento di incarichi
dirigenziali a tempo determinato, prevedendo la concorrenza del requisito
culturale della formazione universitaria con il requisito professionale
dell’esperienza quinquennale in posizioni funzionali previste per l’accesso
alla dirigenza.
Osserva a tal proposito il Collegio che tale ultima disposizione, nel testo
in vigore all’epoca dei fatti (2013) e, cioè, successivamente alle modifiche
apportate dall’art. 40 del D.lgs n. 150/2009, aveva una formulazione
letterale che non poteva (e non può) lasciare adito a dubbio ermeneutico
alcuno in relazione al necessario possesso del titolo di studio della
laurea: la “particolare specializzazione professionale” che è
requisito per l’attribuzione dell’incarico, infatti, deve essere comprovata
“dalla formazione universitaria e postuniversitaria, post universitaria,
da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro…”.
Requisito culturale e di esperienza lavorativa dunque, non possono in alcun
modo essere ritenuti, anche solo sulla base della littera legis,
alternativi tra loro, ma debbono, coerentemente con la ratio legis,
sussistere congiuntamente.
Come osservato, infatti, già prima dell’intervento del legislatore del 2009
dalla Sezione del controllo di legittimità su atti del Governo di questa
Corte con la delibera n. 3/2003 del 09.01.2003, “il criterio secondo il
quale il legislatore ha inteso disciplinare l’immissione nell’esercizio di
funzioni dirigenziali di soggetti, quali essi siano, in precedenza già non
investiti di tale qualifica, risulta evidentemente informato alla volontà di
acquisire professionalità estranee, tali da presentare qualità aggiuntive e
comunque non minori rispetto ai già elevati requisiti previsti per le nomine
di funzionari appartenenti ai ruoli dirigenziali. Tanto premesso, consegue
da ciò attraverso una lettura sistematica dell’art. 19, c. 6, che la facoltà
da tale norma prevista richiede, nei suoi destinatari, il concorrente
possesso di una particolare specializzazione, sia professionale, che
culturale e scientifica; quando si passi all’accertamento di tali requisiti,
in relazione alle funzioni da attribuire, l’interprete, dal canto suo, non
può sottrarsi alla verifica, sotto ogni profilo, della presenza di tutti gli
elementi che complessivamente rendono il soggetto idoneo all’incarico. Ne
discende che, ferma rimanendo l’esigenza dell’accertamento di un livello di
formazione culturale identificabile nel possesso della laurea, gli elementi
che configurano e completano in estranei il profilo della professionalità
debbano, insieme ad altri, ricavarsi dal già disimpegnato esercizio di
funzioni almeno di pari rilevanza di quelle previste nel nuovo compito.
Quindi, oltre all’accertato possesso di sufficiente formazione culturale, in
un contesto normativo in cui è però prevista l’attribuzione di incarichi
dirigenziali previa verifica della sussistenza di livelli di formazione
particolarmente elevati, occorre che la valutazione venga estesa ad un
puntuale esame dei curricula degli incaricandi”.
L’aver conferito, da parte del convenuto, un incarico dirigenziale a
soggetto non in possesso di diploma di laurea costituisce una violazione
delle predette disposizioni, integrando l’elemento oggettivo della
responsabilità amministrativa.
In relazione all’elemento soggettivo, ritiene il Collegio che la condotta
del convenuto sia connotata, come prospettato dalla Procura regionale, da
colpa grave.
Contrariamente, infatti, a quanto sostenuto dalla difesa del convenuto,
il
decreto di conferimento dell’incarico è, formalmente e sostanzialmente, atto
proprio del Sindaco, adottato nell’ambito di funzioni ad esso attribuite in
via esclusiva dal TUEL e dal Regolamento comunale di organizzazione degli
uffici e dei servizi del Comune di Villafranca di Verona (art. 50, comma 10,
TUEL: “Il sindaco e il presidente della provincia nominano i responsabili
degli uffici e dei servizi, attribuiscono e definiscono gli incarichi
dirigenziali e quelli di collaborazione esterna secondo le modalità ed i
criteri stabiliti dagli articoli 109 e 110, nonché dai rispettivi statuti e
regolamenti comunali e provincia”; Art. 109 TUEL: (Conferimento di
funzioni dirigenziali) “1. Gli incarichi dirigenziali sono conferiti a
tempo determinato, ai sensi dell'articolo 50, comma 10, con provvedimento
motivato e con le modalità fissate dal regolamento sull'ordinamento degli
uffici e dei servizi, secondo criteri di competenza professionale, in
relazione agli obiettivi indicati nel programma amministrativo del sindaco o
del presidente della provincia (…)”; art, 12, comma 1, lett. c), del
Regolamento secondo cui spetta al Sindaco “l’attribuzione e la
definizione degli incarichi dirigenziali ai responsabili di area” e art.
60, comma 1, dello Statuto comunale: “(Incarichi dirigenziali) 1. L’atto
del Sindaco di conferimento o revoca degli incarichi dirigenziali è adottato
sentita la Giunta e il Direttore Generale, se nominato o il Segretario
Generale.”).
La circostanza che, a monte del decreto in questione, la Giunta Comunale,
organo al quale compete la programmazione in materia di personale ex art.
48, comma 2, TUEL, avesse deciso -appunto all’interno di un atto programmatorio a valenza generale quale il Piano occupazionale: D.G.C. n. 90
del 2013, cfr. doc. 16 allegato all’atto di citazione- la “copertura del
posto di qualifica dirigenziale dell’Area II “servizi economico-finanziari e tributari” mediante contratto a tempo determinato” con
incarico ai sensi dell’art. 110 TUEL, anziché ricorrere ad altre opzioni
(incarico a tempo determinato a personale esterno, concorso pubblico,
attribuzione di posizione organizzativa) non vale ad escludere, neppure
parzialmente, la responsabilità del convenuto.
Tale decisione, infatti, attiene unicamente alle modalità di copertura del
posto, non alla individuazione e alla scelta del soggetto al quale
l’incarico avrebbe dovuto essere conferito, queste ultime riferibili
unicamente alla volontà del titolare del potere di esercitare la relativa
funzione: il sindaco, appunto.
Né la circostanza che il personale apicale degli uffici o il segretario
comunale fossero tenuti alla predisposizione dell’atto vale ad escludere in
capo al sindaco la responsabilità dell’atto stesso, a ripartirla o ad
attenuarla: si tratta, infatti, di compito di mera redazione materiale del
documento, non di una (com)partecipazione alla formazione della volontà che
nel documento si trasfonde dando, appunto, origine all’atto; la scelta del
soggetto destinatario dell’incarico (e, quindi, la valutazione della
sussistenza della speciale professionalità richiesta dalla norma) è di
esclusiva pertinenza del Sindaco.
La difesa del ricorrente, poi, attribuisce al Segretario comunale, che con
il suo comportamento reticente avrebbe omesso di rappresentare alla Giunta e
al Sindaco l’esistenza di profili di illegittimità, l’aver indotto in errore
gli organi politici, privando il Sindaco in particolare di “scegliere
diversamente da come ha fatto” (pag. 18 comparsa).
Anche a prescindere dalla contraddittorietà dell’argomentazione difensiva,
avendo lo stesso convenuto in precedenza sostenuto che la scelta del rag.
Da. per l’attribuzione dell’incarico dirigenziale “si presentava
sostanzialmente come obbligata” (pag. 10 comparsa) essendo quest’ultimo
l’unico dipendente di categoria D disponibile ad assumere l’incarico,
nell’attuale assetto normativo regolante la figura ed il ruolo del
segretario comunale, dopo l’intervento della legge 127/1997 (che ha abrogato
il parere preventivo obbligatorio di legittimità del segretario sugli atti
degli organi collegiali), al segretario sono attribuite funzioni meramente
consultive e di assistenza agli organi del comune –la cui ampiezza, peraltro,
è delimitata dalla introduzione della figura del Direttore generale- e di
coordinamento dell’attività dei dirigenti, ma non certo funzioni di
amministrazione attiva.
Risulta in atti che il segretario comunale di Villafranca di Verona abbia
assolto al proprio compito di consulenza/assistenza, avendo rappresentato al
Sindaco i profili di illegittimità del decreto di conferimento
dell’incarico, sia per le vie brevi prima sia formalmente con PEC nei giorni
immediatamente successivi all’adozione: la Procura ha prodotto, infatti,
copia della comunicazione scritta che la medesima ha dichiarato di aver
consegnato brevi manu al Sindaco e inviato tramite PEC.
La difesa del convenuto ha contestato la veridicità della circostanza,
peraltro confermata dalla medesima Segretario in sede di audizione (doc. 33
Procura), producendo sub doc. 9 una nota (erroneamente qualificata come
dichiarazione) a firma del Vice Segretario generale del Comune di
Villafranca di Verona, dr. Bo., con la quale lo stesso trasmette al
difensore un file di excel (non prodotto in atti) contenente l’elenco degli
atti protocollati in arrivo nel periodo 21.06.2013-30.06.2010, evidenziando
che con le chiavi di ricerca “sindaco” e “Fa.” non si producono
risultati.
E’ di tutta evidenza che, anche al di là della considerazione per cui il
file predetto, in assenza di iniziative processuali di parte convenuta
diverse dalla prova testimoniale richiesta –inammissibile sia per l’omessa
formulazione di specifici capitoli, ma anche irrilevante per le ragioni che
seguiranno-, non avrebbe certo potuto essere acquisito d’ufficio agli atti
del giudizio -con la conseguenza che la mera cognizione dell’ esistenza di
un file non consente di valutarne il contenuto- e anche a voler superare
ogni questione in merito alla natura e alla capacità probatoria di un file
in assenza di forme di certificazione circa la sua completezza, autenticità
ed effettiva corrispondenza con i dati del server (se il protocollo è
elettronico) ovvero dei registri (se il protocollo è cartaceo) del Comune,
l’estratto del protocollo generale dell’ente dal quale non risulta
l’avvenuta protocollazione di una comunicazione, potrebbe unicamente
attestare, appunto, che al protocollo generale non risulta acquisito un
documento, ma non può escludere, in assoluto, che tale documento esista o
sia stato consegnato al destinatario.
E ciò a maggior ragione se si considera che il documento allegato dal
Segretario al proprio esposto (doc. 1 Procura) porta un numero del
protocollo riservato (il n. 89 del 2013: il relativo registro –non prodotto
né offerto in produzione- è conservato nell’Ufficio del Segretario, come
risulta dalla dichiarazione resa dalla d.ssa Sa. in sede di
audizione), circostanza che di certo spiega l’assenza di numero di
protocollo generale e che non è stata oggetto di contestazione alcuna da
parte della difesa del convenuto.
Del resto, la stessa Sa. ha espressamente confermato in audizione di
aver, dapprima, rappresentato verbalmente l’illegittimità dell’atto e di
aver, poi, consegnato la nota scritta brevi manu ed infine di averla
trasmessa anche tramite PEC.
In tale sede, peraltro, la medesima Segretario ha dichiarato anche che nei
colloqui intercorsi con il convenuto, quest’ultimo è apparso a conoscenza
del fatto che il rag. Da. non avrebbe potuto rivestire l’incarico
dirigenziale per difetto del titolo di studio, tant’è che oggetto di
discussione era la possibilità di conferire detto incarico ad altro
dipendente comunale in possesso di laurea, il dr. Gr., che seguiva le
questioni relative alla programmazione di competenza del settore finanziario
e di aver appreso dell’incarico solo successivamente al conferimento,
essendole stata consegnata una copia del relativo decreto sindacale.
A fronte di tali evidenze probatorie, ampiamente circostanziate e non incise
dalle produzioni documentali della difesa, non sembra che possa fondatamente
ritenersi che via siano state condotte omissive imputabili al Segretario
utili a escludere o ridurre la responsabilità del Sindaco.
Quanto, poi,
al ruolo del Segretario comunale in relazione alla citata delibera
della Giunta comunale che ha
approvato il piano occupazionale 2013 (che, peraltro, come si è visto, non è
causativa di danno alcuno), la mera
sottoscrizione degli atti di Giunta e Consiglio comunale quale soggetto verbalizzatore (art. 97, comma 3, TUEL) assolve ad una specifica funzione
redazionale e certificativa, propria del Segretario, che non comporta alcuna
responsabilità diversa da quella di registrazione dei fatti e delle volontà
in conformità a quanto avvenuto nella seduta e, perciò, esterna ed estranea
al processo formativo delle volontà espresse dagli organi collegiali a
seguito di deliberazione (ed, in ipotesi, causative di danno).
Priva di giuridico pregio appare, infine, l’argomentazione difensiva secondo
cui il Sindaco, organo politico, non sarebbe per ciò tenuto, nell’esercizio
delle sue funzioni e nell’adozione degli atti propri –quelli, cioè, per i
quali è titolare di competenza esclusiva quale quello di cui si tratta-,
alla conoscenza delle norme, dovendo provvedervi in sua vece gli uffici
tecnici, invocando all’uopo la giurisprudenza di questa Corte in punto di
esimente politica.
“La disposizione normativa invocata dal ricorrente, infatti, (art. 1,
comma 1-ter, della L. n. 20/1994), prevedendo che la responsabilità dei
componenti di un organo politico viene meno quando essi abbiano in buona
fede autorizzato o approvato atti di competenza di organi tecnici o
amministrativi, non tutela sempre e comunque, come sembra pretendere
l’appellante, il soggetto politico in quanto tale, ma si limita a prevedere
la sua irresponsabilità nelle sole ipotesi in cui esso abbia fatto
affidamento sull’attività gestoria svolta dai dipendenti amministrativi
della quale non abbia potuto apprezzare, per la peculiarità dei relativi
contenuti, il carattere potenzialmente lesivo.
Come ha invero correttamente osservato la Corte territoriale, la richiamata
norma si limita ad attuare il principio di separazione tra politica e
gestione amministrativa, più volte affermato dal legislatore (art. 3 d.lgs.
n. 29/1993, art. 4 d.lgs. n. 165/2001, art. 107 del d.lgs. n. 267/2000) ed
in forza del quale i poteri di indirizzo e di controllo
politico-amministrativo spettano agli organi di governo delle
amministrazioni pubbliche, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e
tecnica è attribuita mediante poteri autonomi ai dirigenti, Ne segue che
tale norma non consente di ancorare sic et simpliciter l’irresponsabilità
del soggetto politico al particolare ruolo istituzionale che lo diversifica
dai dirigenti, dovendosi detta disposizione considerare inoperante quando il
soggetto stesso abbia direttamente compiuto, nell’ambito delle sue
competenze, atti causativi di danno erariale” (Sez. III App., 432/2016).
Ed è, appunto, questo il caso che ci aggrava: come già ricordato più sopra,
il conferimento di incarico dirigenziale ex art. 110 TUEL è atto proprio del
Sindaco dal quale è causalmente derivato il contestato danno al Comune di
Villafranca di Verona con il pagamento di competenze retributive ad un
soggetto privo della professionalità necessaria per la copertura
dell’incarico illegittimamente conferito.
Venendo ad esaminare il terzo elemento costitutivo della responsabilità
erariale, l’avvenuta causazione di un danno risarcibile, il Collegio osserva
che, come peraltro correttamente rappresentato dalla Procura attrice,
l’illegittimità dell’incarico conferito a soggetto privo dei requisiti di
studio richiesti dalla norma ha causato all’amministrazione un ingiusto
pregiudizio economico: il danno in caso di prestazioni rese in mancanza del
prescritto titolo di studio e professionale è insito nella lesione della
violazione del sinallagma contrattuale, dal momento che alla retribuzione
percepita non corrisponde una prestazione adeguatamente commisurata e
qualitativamente corrispondente alla professionalità richiesta, come
peraltro ormai acquisito dalla costante giurisprudenza di questa Corte (cfr.
Sez. Veneto sent. n. 107/2015; Sez. Sicilia n. 55/2014; Sez. Lombardia n.
280/2013; Sez. Toscana n. 433/2011; Sez. Sardegna n. 1246/2009; Sez.
Piemonte n. 24/2009 per citare, ex multis, alcune tra le più recenti
e, da ultimo, Sez. Campania n. 129/2017).
Alla luce di tali consolidati orientamenti, corretto appare, quindi, il
criterio di quantificazione del danno utilizzato dalla Procura e, cioè, la
differenza fra le retribuzioni percepite dal Dalgal in dipendenza
dall’incarico dirigenziale e quelle che gli sarebbero spettate qualora
avesse ricevuto il riconoscimento di una posizione organizzativa quale
funzionario di cat. D5 (questa sì, legittima e conforme alla normativa e
alle disposizioni contrattuali applicabili ratione temporis: “ART.
8 - Area delle posizioni organizzative.
1. Gli enti istituiscono posizioni di lavoro che richiedono, con assunzione
diretta di elevata responsabilità di prodotto e di risultato:
a) lo svolgimento di funzioni di direzione di unità organizzative
di particolare complessità, caratterizzate da elevato grado di autonomia
gestionale e organizzativa;
b) lo svolgimento di attività con contenuti di alta professionalità
e specializzazione correlate a diplomi di laurea e/o di scuole universitarie
e/o alla iscrizione ad albi professionali;
c) lo svolgimento di attività di staff e/o di studio, ricerca,
ispettive, di vigilanza e controllo caratterizzate da elevate autonomia ed
esperienza.
2. Tali posizioni, che non coincidono necessariamente con quelle già
retribuite con l’indennità di cui all’art. 37, comma 4, del CCNL del
06.07.1995, possono essere assegnate esclusivamente a dipendenti
classificati nella categoria D, sulla base e per effetto d’un incarico a
termine conferito in conformità alle regole di cui all’art. 9.” CCNL del
31.03.1999).
La difesa del convenuto contesta in nuce l’esistenza di un danno
risarcibile rappresentando, al contrario, l’avvenuta realizzazione di una
economia di spesa in quanto il posto avrebbe comunque dovuto essere coperto,
con maggiori costi, con ricorso ad un dirigente esterno, argomentando in
ordine alla necessaria copertura del posto con una figura dirigenziale non
potendosi procedere ad accorpamenti di aree, ma nulla argomentando in merito
alla possibilità di affidare la responsabilità dell’area ad un funzionario
di cat. D mediante l’istituto della posizione organizzativa,
contrattualmente previsto (ed applicabile al caso de quo), appunto
oggetto di contestazione da parte della Procura Regionale.
In conclusione, sussistendone tutti i presupposti, deve essere dichiarata la
responsabilità erariale del convenuto per i fatti di cui è causa e lo stesso
deve essere condannato al risarcimento del danno in favore del Comune di
Villafranca di Verona.
Per le ragioni ampiamente più sopra esposte in merito alla solo presunta
compartecipazione di soggetti terzi (Giunta comunale/Segretario Comunale)
alla formazione della volontà sottostante al decreto di conferimento
dell’incarico, ritiene il Collegio non ricorrere nemmeno i presupposti per
l’applicazione del potere riduttivo, così come richiesto dalla difesa.
In conclusione, la domanda attorea deve essere accolta e il convenuto
condannato al risarcimento in favore del Comune di Villafranca di Verona del
danno complessivamente derivante dai fatti di cui è causa e quantificato in
euro 78.120,00, somma comprensiva della rivalutazione monetaria, oltre agli
interessi legali dalla data della sentenza al saldo effettivo.
Ai sensi dell’art. 31 del c.g.c. il convenuto va inoltre condannato al
pagamento delle spese di giustizia, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Sezione Giurisdizionale Regionale per il Veneto della Corte dei Conti,
ogni diversa e/o contraria domanda od eccezione respinta, definitivamente
pronunciando nel giudizio iscritto al n. 30799 del registro di segreteria
promosso dal Procuratore Regionale nei confronti di Fa.Ma.;
- respinge l’eccezione preliminare di prescrizione;
- in accoglimento della domanda avanzata dalla Procura Regionale
condanna Fa.Ma. al risarcimento del danno nei confronti del Comune di
Villafranca di Verona di euro 78.120,00 (settantottomilacentoventi/00),
somma comprensiva della rivalutazione monetaria, oltre interessi dalla data
della sentenza fino al saldo effettivo (Corte dei Conti Veneto,
sentenza 20.11.2019 n. 182). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: Parere in merito alla possibilità di rifondere spese legali ad
un ex amministratore
(Legali Associati per Celva,
nota 18.11.2019 -
tratto da www.celva.it).
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Dalla descrizione fornita dal Comune di Ayas risulta che nei confronti di
un amministratore e di un dipendente dell’Ente veniva instaurato un
procedimento penale per turbativa d’asta e che nel mese di novembre 2011 il
Tribunale di Aosta metteva sentenza di assoluzione degli imputati perché il
fatto non sussiste. (...continua). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Legittimazione
ad impugnare la proroga dello scioglimento del Consiglio comunale.
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Processo amministrativo – Legittimazione – Attiva - Proroga scioglimento
Consiglio comunale – Impugnazione – Singolo elettore – Inammissibilità.
L’impugnazione dello scioglimento dell’organo
consiliare ai sensi dell’art. 143 del T.U.E.L., come anche della sua
proroga, non è annoverabile tra le azioni proponibili dai singoli elettori
ai sensi dell’art. 9 del T.U.E.L., e ciò in quanto la misura dissolutoria di
cui all’art. 143, mentre incide sulle situazioni soggettive dei componenti
degli organi elettivi che, per effetto di essa, vengono a subire una perdita
di status, non altrettanto incide su quella dell’ente locale, titolare di
posizioni autonome e distinte, che, anzi, nella misura vede uno strumento di
tutela e di garanzia della pubblica amministrazione (1).
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(1) Ha chiarito la Sezione che è inammissibile per difetto di
legittimazione l’azione popolare proposta per impugnare lo scioglimento del
consiglio comunale e la nomina di una commissione straordinaria per la
provvisoria gestione del medesimo, perché lo strumento offerto dall’art. 9
del T.U.E.L. non può essere utilizzato per far valere azioni che non sono di
spettanza dell’ente locale nell’interesse del quale si dichiara di agire.
Il provvedimento di proroga è, sì, contestabile in sede giurisdizionale
avanti al giudice amministrativo da parte dei componenti del disciolto
organo consiliare, ma solo se e nella misura in cui tale contestazione, per
vizi propri del medesimo provvedimento –ad esempio per la sua tardività– o
per vizî derivati dallo scioglimento medesimo, possa condurre al
reinsediamento dei soggetti eletti, risultato da escludersi, nella vicenda
esaminata, per l’accertata definitiva legittimità del predetto scioglimento,
e non già al fine di ottenere la fissazione di nuove, più ravvicinate nel
tempo, elezioni.
Non sussiste dunque legittimazione dei componenti della disciolta
amministrazione comunale, nemmeno quali cittadini-elettori, ad impugnare il
provvedimento di proroga per far valere un siffatto interesse.
Il presupposto dell’eccezionalità, previsto dall’art. 143, comma 10,
T.U.E.L., atto a giustificare la proroga dello scioglimento del consiglio
comunale per infiltrazione mafiosa si lega all’eccezionalità della
situazione che ha determinato lo scioglimento del consiglio comunale, non
dovendo ipotizzarsi una c.d. doppia eccezionalità, la prima, tale da
determinare la misura dissolutoria, e la seconda, del tutto diversa dalla
prima, tale da giustificarne la proroga.
È insita nella stessa natura della proroga, infatti, l’esigenza di
proseguire gli effetti dell’originario provvedimento al fine di consentire
che questo possa continuare ad esplicare la propria efficacia per tutte le
ragioni che ne hanno giustificato l’iniziale adozione e non è logicamente
sostenibile che i motivi della prolungata efficacia debbano essere del tutto
diversi e avulsi rispetto a quelle originarie ragioni al cospetto di una
misura, come quella straordinaria dello scioglimento del consiglio comunale,
adottata proprio al fine di contrastare l’infiltrazione mafiosa negli organi
politici e amministrativi dell’ente locale.
La proroga non è, cioè, una misura straordinaria che si assomma ad una
misura straordinaria, ma la mera prosecuzione temporale dell’unica misura
straordinaria in presenza di stringenti ragioni finalizzate al regolare
funzionamento dei servizi affidati alle pubbliche amministrazioni
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 12.11.2019 n. 7762 -
tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Richiesta convocazione del consiglio comunale da parte di un quinto dei
consiglieri. Questione pregiudiziale.
1) In caso di convocazione del consiglio
comunale da parte di almeno un quinto dei consiglieri le istanze possono
essere dichiarate improcedibili da parte del presidente del consiglio
comunale o del sindaco soltanto qualora le stesse vertano o su un oggetto
che per legge è manifestamente estraneo alle competenze del collegio
consiliare oppure su un oggetto illecito o impossibile, non potendo invece
essere sindacate nel merito le richieste avanzate dal prescritto quorum di
consiglieri.
2) L’istituto della questione pregiudiziale deve essere coordinato
con il potere dei consiglieri (“della minoranza”) di chiedere la
convocazione del consiglio medesimo, riconosciuto e definito come “diritto”
dal legislatore. Sono, pertanto, ammissibili solo quelle questioni
pregiudiziali che impediscono la discussione dell’argomento posto all’ordine
del giorno per ragioni interne e proprie della specifica procedura o per
altre ragioni legittime di pregiudizialità connesse con l’oggetto
dell’argomento, con esclusione di questioni strumentalmente dirette a porre
nel nulla la funzione del diritto di iniziativa.
Il Comune chiede un parere in merito ad una richiesta di convocazione del
consiglio comunale formulata ai sensi dell’articolo 39, comma 2, del decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267 [1]
dalla minoranza consiliare e avente ad oggetto la discussione di una mozione
su una pluralità di argomenti afferenti una medesima tematica. Sulla
questione in riferimento si è già pronunciato il segretario comunale che,
quanto ai contenuti della stessa, “inclina fortemente a dubitare che il
suo oggetto sia riconducibile alla competenza consiliare”.
In via preliminare si rileva in generale che, nel caso di richiesta di
convocazione del consiglio comunale da parte di almeno un quinto dei
consiglieri, il sindaco ha l’obbligo di riunire il consiglio in un termine
non superiore ai venti giorni. Entro tale termine si deve provvedere non
solo alla convocazione ma anche alla riunione dell’assemblea consiliare.
[2]
In caso d’inosservanza di tale obbligo soccorre la previsione di cui
all’articolo 26, comma 1, della legge regionale 04.07.1997, n. 23 secondo
cui: “Ai sensi dell'articolo 3 del decreto legislativo 9/1977 nella
regione Friuli-Venezia Giulia, in caso di inosservanza degli obblighi di
convocazione del Consiglio comunale e provinciale, previa diffida, provvede
l'Assessore regionale per le autonomie locali”.
È, quindi, consentito al soggetto competente alla convocazione del consiglio
di attivarsi anche dopo la scadenza del termine prescritto, fino
all’intervento sostitutivo regionale.
Nella fattispecie prospettata viene in rilevo la problematica
dell’individuazione dei limiti alla sindacabilità da parte del sindaco,
quale presidente del consiglio, delle richieste di convocazione
dell’assemblea da parte dei consiglieri di minoranza nell’ipotesi in cui
sussistano dubbi circa la competenza dell’organo consiliare in ordine agli
argomenti da iscrivere all’ordine del giorno.
Al riguardo sussiste un costante orientamento ministeriale
[3] secondo cui le istanze possono
essere dichiarate improcedibili da parte del presidente del consiglio
comunale o del sindaco soltanto “qualora le richieste stesse vertano o su
un oggetto che per legge è manifestamente estraneo alle competenze del
collegio consiliare oppure su un oggetto illecito o impossibile”, non
potendo tali soggetti sindacare nel merito le richieste avanzate dal
prescritto quorum di consiglieri.
Al riguardo, il Ministero ha richiamato in più occasioni la giurisprudenza
consolidata secondo cui, di fronte alla richiesta di convocazione, il
presidente del consiglio può soltanto verificare, sotto il profilo formale,
che la stessa provenga dal prescritto numero di soggetti legittimati, mentre
non potrà sindacarne l’oggetto, atteso che spetta al consiglio comunale la
verifica della propria competenza e, quindi, l’ammissibilità delle questioni
da trattare [4].
Di conseguenza, rimane preclusa al presidente del consiglio, destinatario
della richiesta di convocazione, una valutazione di merito circa
l’ammissibilità delle questioni, salvo che non si tratti di oggetto che, in
quanto illecito, impossibile o per legge manifestamente estraneo alle
competenze del consiglio, in nessun caso potrebbe essere posto all’ordine
del giorno, neppure su autonoma iniziativa del presidente stesso.
Infatti, la richiesta di convocazione del consiglio da parte di un quinto
dei consiglieri rappresenta lo strumento parallelo alla forma ordinaria di
convocazione da parte del suo presidente e risulta, pertanto, collocata su
un piano di parità: la ratio della norma sarebbe travisata qualora alla
richiesta si ponessero dei limiti non previsti per la convocazione da parte
del presidente del consiglio.
Con riferimento alle questioni per le quali la minoranza consiliare ha
richiesto la convocazione del consiglio si rileva che, almeno per una di
esse, il segretario comunale, nel parere rilasciato sull’argomento, ha
affermato che «l’invito “a mettere a disposizione le risorse finanziarie
necessarie per far espletare all’Istituto Comprensivo (…) il bando atto ad
individuare l’operatore economico che si occupa della supervisione degli
alunni durante il pranzo” potrebbe costituire oggetto di disamina consiliare
ove interpretato come una sollecitazione ad adeguare e/o integrare gli
stanziamenti del bilancio comunale».
Si precisa, al riguardo che “nello stabilire se una determinata questione
sia o meno di competenza del Consiglio comunale occorre aver riguardo non
solo agli atti fondamentali espressamente elencati dal comma 2 dell’art. 42
del Testo Unico, ma anche alle funzioni di indirizzo e di controllo
politico-amministrativo di cui al comma 1 del medesimo articolo 42, con la
possibilità, quindi, che la trattazione da parte del collegio non debba
necessariamente sfociare nell’adozione di un provvedimento finale. Il
Consiglio comunale ha, infatti, un potere generale di indirizzo e di
controllo politico-amministrativo sull’attività del Comune […]”
[5].
Quanto, poi, alle ulteriori questioni poste, alla luce di quanto sopra
riportato, il sindaco potrebbe dichiarare le stesse improcedibili solo
qualora ritenesse il loro oggetto illecito, impossibile o per legge
manifestamente estraneo alle competenze del consiglio.
In caso contrario, dovrebbe riunire il consiglio in un termine non superiore
ai venti giorni e questi dovrebbe effettuarne la trattazione a meno che,
prima dell’inizio della loro discussione, un consigliere ponesse su di esse
la questione pregiudiziale e il Consiglio la approvasse.
A tale riguardo l’articolo 26 del regolamento del consiglio comunale
rubricato “Questioni pregiudiziali e sospensive” recita: “1. Il
Consigliere, prima che abbia inizio la discussione su un argomento
all’ordine del giorno, può porre la questione pregiudiziale, per ottenere
che quell’argomento non si discuta, o la questione sospensiva, per ottenere
che la discussione stessa venga rinviata al verificarsi di determinante
scadenze.
2. La questione sospensiva può essere posta anche nel corso della
discussione.
3. Le questioni sono discusse immediatamente prima che abbia inizio o che
continui la discussione; questa prosegue solo se il Consiglio non le
respinga a maggioranza.
4. Dopo il proponente, sulle questioni possono parlare solo un consigliere a
favore ed uno contro.
5. In caso di contemporanea presentazione di più questioni pregiudiziali o
di più questioni sospensive, si procede, previa unificazione, ad un’unica
discussione, nella quale può intervenire un solo consigliere per gruppo,
compresi i proponenti. Se la questione sospensiva è accolta, il Consiglio
decide sulla scadenza della stessa.
6. Gli interventi sulla questione pregiudiziale e sulla questione sospensiva
non possono eccedere, ciascuno, i cinque minuti. La votazione ha luogo per
alzata di mano.
7. I richiami al regolamento, all’ordine del giorno o all’ordine dei lavori
e le questioni procedurali hanno la precedenza sulle discussioni principali.
In tali casi, possono parlare, dopo il proponente, un consigliere contro ed
uno a favore e per non più di cinque minuti ciascuno.
8. Ove il Consiglio venga, dal Presidente, chiamato a decidere sui richiami
e sulle questioni di cui al precedente comma, la votazione avviene per
alzata di mano”.
Con riferimento alla fattispecie in essere l’istituto della questione
pregiudiziale, quanto ad ambito di ammissibilità, deve essere coordinato con
il potere dei consiglieri (“della minoranza”) di chiedere la
convocazione del consiglio medesimo, riconosciuto e definito come “diritto”
dal legislatore (artt. 43 e 39, secondo comma, D.Lgs. 18.08.2000 n. 267).
Sui limiti entro cui può essere esercitato dalla maggioranza consiliare il
diritto di disporre questioni pregiudiziali o sospensive si è espressa la
giurisprudenza [6]
la quale ha chiarito che “pare che l’ordinamento abbia voluto fare giusto
bilanciamento fra due principi: da un lato, il principio maggioritario, a
sua volta rafforzato nel sistema elettorale degli Enti locali, quanto al
momento del decidere; dall’altro, il principio del valore della funzione
della minoranza, espressa nel diritto di convocazione dell’assemblea per
decidere su un argomento. Ritiene, pertanto, il Collegio che il
coordinamento fra diritto di iniziativa della minoranza e potere della
maggioranza a porre questioni pregiudiziali, vada risolto nel senso che
l’ordinamento dà prevalenza e garantisce comunque la effettività del primo,
sia nel momento iniziale (convocazione del Consiglio), che nel suo
ineliminabile aspetto funzionale (discussione). Ne consegue, che ogni qual
volta l’ordinamento prevede e garantisce il diritto di iniziativa della
minoranza mediante convocazione dell’assemblea, il potere della maggioranza
di porre questioni pregiudiziali non può che essere inteso in senso
congruente con il diritto di iniziativa. In tale situazione il Collegio
ritiene che siano ammissibili solo quelle questioni pregiudiziali che
impediscono la discussione dell’argomento posto all’ordine del giorno per
ragioni interne e proprie della specifica procedura, con esclusione di
questioni strumentalmente dirette a porre nel nulla la funzione del diritto
di iniziativa”.
La medesima sentenza prosegue affermando come sia necessario, altresì,
verificare “se, accanto ed oltre le questioni pregiudiziali connesse con
la specifica procedura della mozione, non possano esistere anche altre
ragioni legittime di pregiudizialità connesse con l’oggetto stesso della
mozione così come definito dalla proposta di deliberazione posta quale
conclusione della mozione”.
Calando le sopra riportate considerazioni giurisprudenziali nel caso
concreto potrebbe affermarsi che le questioni poste dalla minoranza
consiliare a base della richiesta di convocazione possano non essere
discusse nel merito dall’organo consiliare qualora questi ritenesse il loro
oggetto manifestamente estraneo alle sue competenze. Verrebbe, in altri
termini, rimesso ai poteri “sovrani” dell’assemblea decidere in via
pregiudiziale che gli argomenti (tutti o alcuni) in riferimento, inseriti
nell’ordine del giorno, non debbano essere discussi in quanto ritenuti
estranei alle proprie competenze. In conformità a quanto previsto dalla
norma regolamentare il proponente la questione pregiudiziale dovrebbe
motivare la stessa e dopo di lui, “sulle questioni possono parlare solo
un consigliere a favore ed uno contro” (articolo 26, comma 4, del
regolamento del consiglio comunale).
-----------------
[1] Recita l’articolo 39, comma 2, del D.Lgs. 267/2000: “Il presidente
del consiglio comunale o provinciale è tenuto a riunire il consiglio, in un
termine non superiore ai venti giorni, quando lo richiedano un quinto dei
consiglieri, o il sindaco o il presidente della provincia, inserendo
all’ordine del giorno le questioni richieste”.
[2] Per completezza espositiva si rileva che, secondo chi scrive, nel caso
in esame deve essere presa in considerazione la disciplina procedurale
relativa alla richiesta di convocazione da parte di almeno un quinto dei
consiglieri e non già quella, contenuta nel regolamento sul funzionamento
del consiglio comunale, relativa all’istituto delle mozioni (il quale
prevede, all’articolo 44, che le stesse “sono svolte all’inizio della seduta
immediatamente successiva alla loro presentazione”).
[3] In questo senso, tra gli altri, si vedano i pareri del Ministero
dell’Interno del 06.04.2017 e del 16.03.2018.
[4] Si veda TAR Piemonte, sez. II, sentenza del 24.04.1996, n. 268.
[5] Così Ministero dell’Interno, parere del 28.06.2018. In senso conforme,
Tribunale di Giustizia Amministrativa di Trento, sentenza del 14.01.2010, n.
20.
[6] TAR Puglia, Lecce, sez. I, sentenza del 06.02.2004, n. 1022. Nello
stesso senso, TAR Puglia, Lecce, sez. I, sentenza del 25.07.2001, n. 4278
(08.11.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Approvazione del verbale della seduta del consiglio comunale. Richiesta di
rettifica del verbale.
Nel verbale della seduta del consiglio comunale non
tutti gli atti o fatti devono essere necessariamente documentati ma solo
quelli che, secondo un criterio di ragionevole individuazione, assumono
rilevanza proprio in relazione alle finalità cui l’attività di
verbalizzazione è preposta.
La dottrina prevalente afferma che le frasi offensive o ingiuriose devono
essere omesse dal verbale. Altro orientamento afferma, invece, la
sussistenza non già di un obbligo ma di una mera facoltà in capo al
segretario di omissione delle frasi offensive o ingiuriose, salvo che non
gliene sia fatto esplicito obbligo.
Il Comune chiede un parere in merito ad una richiesta di rettifica del
verbale di una seduta del consiglio comunale, nel quale il segretario
comunale non aveva inserito alcune frasi ritenute offensive ed ingiuriose.
Più in particolare riferisce che, nel corso della seduta consiliare
successiva, in relazione al punto dell’ordine del giorno avente ad oggetto “approvazione
verbali seduta precedente”, un gruppo consiliare ha presentato per
iscritto una richiesta di rettifica dello stesso chiedendo l’inserimento di
alcune precisazioni riguardanti una discussione verificatasi tra il sindaco
e un consigliere comunale nel corso della seduta di consiglio, con reciproca
richiesta di verbalizzazione di frasi ritenute sconvenienti ed offensive; in
particolare in tale occasione il consigliere comunale aveva rivolto una
richiesta orale al segretario di verbalizzare l’affermazione pronunciata nei
suoi confronti “per fatto personale ai sensi art. 45 del vigente
Regolamento Consiglio Comunale [1],
trattandosi di una frase offensiva”.
Nel verbale il segretario comunale aveva dato atto che “la finalità del
verbale sia quella di restituire, a futura memoria, i fatti salienti
verificatisi nel corso della seduta, fatti cioè di interesse per la Comunità
di […], e di garantire, nel contempo, il controllo sulla corretta formazione
della volontà collegiale, senza che sussista alcun obbligo, in capo a
costui, di rendere una minuziosa descrizione delle singole attività compiute
o delle singole opinioni espresse e di verbalizzare allusioni ovvero frasi
ritenute sconvenienti o offensive”. In conseguenza di un tanto nel
verbale non erano state riportate le parole oltraggiose pronunciate nel
corso dell’adunanza consiliare.
Di qui la richiesta di rettifica avanzata dal gruppo di minoranza, cui
appartiene il consigliere in riferimento, la quale è stata sottoposta alla
decisione del consiglio comunale il quale ha disposto “il non
accoglimento della richiesta di rettifica/integrazione al verbale presentata
dal Consigliere XX, ritenendo completo ed esaustivo il verbale così come
redatto dal segretario comunale”.
In via preliminare si ricorda che il verbale è un documento dotato di
pubblica fede descrittivo di atti o fatti compiuti alla presenza di un
soggetto verbalizzante appositamente incaricato. [2]
Come affermato da certa dottrina [3]
il verbale della seduta di un organo collegiale “rappresenta la «memoria»
di quanto è accaduto e documenta i fatti salienti della seduta, affinché i
fatti in essa avvenuti possano essere successivamente documentati”.
Anche la giurisprudenza, intervenuta sull’argomento, ha affermato che: “Il
verbale ha l’onere di attestare il compimento dei fatti svoltisi al fine di
verificare il corretto iter di formazione della volontà collegiale e di
permettere il controllo delle attività svolte, non avendo al riguardo alcuna
rilevanza l’eventuale difetto di una minuziosa descrizione delle singole
attività compiute o delle singole opinioni espresse.”
[4]
Pertanto, non tutti gli atti o fatti devono essere necessariamente
documentati nel verbale, ma solo quelli che, secondo un criterio di
ragionevole individuazione, assumono rilevanza proprio in relazione alle
finalità cui l’attività di verbalizzazione è preposta.
Con specifico riferimento all’obbligo o meno del segretario di
verbalizzazione di frasi ingiuriose, si osserva come la dottrina prevalente
[5] afferma che esse
debbano essere omesse dal verbale. In tal senso, in un parere dell’ANCI si
legge che: “Eventuali ingiurie, allusioni o dichiarazioni offensive o
diffamatorie non debbono essere riportate a verbale ed il Segretario
comunale provvede ad escluderle”. [6]
Per completezza espositiva, si segnala l’orientamento di certa dottrina la
quale afferma la sussistenza non già di un obbligo ma di una mera facoltà in
capo al segretario di omissione delle frasi offensive o ingiuriose. In tale
senso è stato affermato che “avendo il segretario l’obbligo di inserire a
verbale solo i punti essenziali della discussione, si può ritenere che il
segretario stesso abbia la facoltà di evitarne la riproduzione, salvo che
non gliene sia fatto esplicito obbligo”. [7]
Le considerazioni sopra espresse –anche alla luce della dottrina da ultimo
citata, la quale ritiene che il segretario comunale debba procedere alla
verbalizzazione delle parole offensive “se gliene sia fatto esplicito
obbligo”- devono essere lette alla luce delle previsioni contenute al
riguardo nel regolamento del consiglio comunale.
In particolare, l’articolo 40 dello stesso recita: “1. Dichiarata aperta
la seduta il presidente, a mezzo del Segretario, dà lettura dei verbali
della seduta precedente.
2. Sul processo verbale non è concessa la parola se non a chi vi intende far
inserire una rettifica oppure per fatto personale senza entrare nel merito
della discussione.
3. Si intende per rettifica una richiesta di modifica di una parola o di
brevi concetti che il verbalizzante può avere male interpretato o riportato.
Non è possibile far inserire nuovi concetti che si assume di avere detto se
non previa approvazione mediante votazione del Consiglio Comunale, previa
dettatura da parte del Consigliere interessato del nuovo intervento da
inserire a verbale”.
In via preliminare si ricorda che l’interpretazione delle norme contenute
nel regolamento del consiglio comunale compete unicamente all’organo che
tali norme si è dato; di conseguenza chi scrive esprime in via meramente
collaborativa alcune considerazioni giuridiche che possano essere di ausilio
all’Ente nella soluzione della questione posta, ferma rimanendo l’autonomia
dell’organo consiliare nell’interpretazione delle proprie norme.
Fermo l’orientamento della dottrina che ritiene non si debbano mai riportare
le frasi offensive od oltraggiose, quanto all’ulteriore filone dottrinario,
secondo il quale il segretario sarebbe tenuto alla verbalizzazione delle
frasi offensive qualora sia rinvenibile un espresso obbligo di
verbalizzazione delle stesse, dall’analisi dell’articolo 40, comma 3, del
regolamento sul funzionamento del consiglio parrebbe potersi desumere la
sussistenza di tale obbligo di verbalizzazione qualora il consiglio comunale
deliberi in tal senso.
Nel caso in esame, invece, l’organo consiliare si è espresso in senso
contrario alla rettifica/integrazione al verbale, ritenendo completa ed
esaustiva la sua redazione come effettuata dal segretario comunale.
-----------------
[1] L’articolo 45 del regolamento del consiglio comunale recita: “1. È
fatto personale l’essere intaccato nella propria condotta o il sentirsi
attribuire opinioni contrarie a quelle espresse.
2. Chi chiede la parola del fatto personale, deve indicare in che
cosa questo consista ed il Presidente decide se il richiedente abbia o meno
diritto di parlare”.
[2] Così, R. Nobile, “Verbalizzazione e verbali delle sedute degli organi e
degli organismi collegiali negli enti locali”, in La Gazzetta degli enti
locali, 2015.
[3] I. Tricomi, Prontuario degli Enti Locali, 2003, pag. 380.
[4] Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 25.07.2001, n. 4074. Nello
stesso senso, Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza del 02.03.2001, n. 1189
e TAR Lazio–Roma, sez. I, sentenza del 12.03.2001, n. 1835. In questo senso
si veda, anche il parere del Ministero dell’Interno del 20.01.2015.
[5] Si veda, c. Polidori, “Verbali e organi collegiali nelle pubbliche
amministrazioni”, Trieste, 2012, pag. 195.
[6] ANCI, parere del 18.12.2007.
[7] A.R., “Consiglio comunale – verbale delle adunanze – contenuto –
redazione dei processi verbali”, in L’Amministrazione italiana, n. 11/1999
(08.11.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
ottobre 2019 |
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CONSIGLIERI COMUNALI - PATRIMONIO:
OGGETTO: acquisto di terreno comunale da parte di amministratore del
Comune tramite permuta – sussistenza di un interesse pubblico – divieto di
cui all’art. 1471 c.c. e all’art. 15 del Regolamento comunale –
applicabilità – parere
(Legali Associati per Celva,
nota 29.10.2019 -
tratto da www.celva.it).
---------------
Il Comune di La Thuile ha sottoposto alla nostra attenzione, per il
tramite del CELVA, quesito avente ad oggetto le modalità di applicazione
dell’art. 1471 c.c., recante “Divieti speciali di comprare”, nonché
dell’art. 15 del Regolamento comunale per la disciplina delle alienazioni di
beni immobili. (...continua). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Indennità
amministratori: vige ancora la riduzione del 10% sull’ammontare in essere
alla data del 30/09/2005.
Domanda
L’Amministrazione comunale del mio Ente è stata eletta nello scorso mese di
maggio. Ho un dubbio: la riduzione del 10% sull’indennità spettante agli
amministratori introdotta alcuni anni fa è ancora vigente?
Risposta
Come noto le indennità spettanti agli amministratori degli enti locali
trovano la loro disciplina nell’art. 82 del TUEL. Per la loro
quantificazione, che avviene essenzialmente per fascia demografica di
appartenenza, vige ancora il decreto ministeriale n. 119 del 04/04/2000, a
suo tempo adottato ai sensi dell’art. 23 della legge n. 265/1999.
Il quesito del lettore fa riferimento alla decurtazione del 10% introdotta
dall’art. 1, comma 54, della legge 23/12/2005, n. 266, che deve essere
applicato all’ammontare dell’indennità risultante alla data del 30/09/2005,
a cui devono essere assoggettate sono anche le indennità e i gettoni di
presenza spettanti agli amministratori degli enti locali.
Sul tema è poi intervenuto l’art. 76, comma 3, del d.l. 25/06/2008, n. 112
convertito dalla legge 06/08/2008, n. 133 che ha modificato l’art. 82, comma
11, del TUEL (già in precedenza modificato dall’art. 2, comma 25, della
legge 24/12/2007, n. 244), eliminando ogni possibilità di incremento delle
indennità di funzione e dei gettoni di presenza rispetto alla misura
determinata ai sensi del comma 8 dello stesso articolo, ovvero mediante
decreto ministeriale.
L’art. 5, comma 7, del d.l. 31/05/2010, n. 78 convertito dalla legge
30/07/2010, n. 122 ha infine previsto un’ulteriore rideterminazione in
ribasso delle indennità di funzione e dei gettoni di presenza per un periodo
non inferiore ai tre anni e in una misura variabile in ragione della
dimensione demografiche dell’ente, rinviandone tuttavia l’attuazione ad un
decreto ministeriale che a tutt’oggi non ha ancora visto la luce. La norma è
pertanto rimasta lettera morta. Sul tema è recentemente intervenuta la Corte
dei conti, sezione regionale di controllo per l’Abruzzo con parere n. 113
del 12 settembre scorso.
I magistrati contabili hanno ribadito l’orientamento giurisprudenziale ormai
da tempo consolidato: affermano che essendo stata abolita fin dal 2008 la
possibilità per gli enti di modificare autonomamente l’importo delle
indennità, le delibere contenenti eventuali riduzioni, superiori a quella
fissate dalla legge, vanno intese come rinunce volontarie ad una parte
dell’indennità. Come tali, esse non hanno alcuna influenza sull’ammontare
delle stesse per gli esercizi successivi (Sezione di controllo per il
Piemonte deliberazione n. 278/2012/PAR).
Il principio è stato poi confermato dalla Sezione delle autonomie con parere
n. 35/2016/QMIG che afferma che le indennità di funzione non possono essere
soggette ad un congelamento rapportato ad un determinato momento storico e
mantenuto negli esercizi futuri, solo perché circostanze di natura personale
e discrezionale (ad esempio, in caso di riduzione volontaria, parziale o
totale, dell’indennità da parte di un amministratore in carica all’atto
della sua rideterminazione) abbiano potuto incidere sugli importi spettanti.
Gli importi decurtati per scelte volontarie e soggettive non possono
costituire una base storica sulla quale rapportare le medesime indennità per
il futuro.
Da ciò discende che le indennità che siano state volontariamente ridotte al
di sotto della soglia stabilita dalla legge possano essere rideterminate in
aumento fino a raggiungere la misura teorica massima legale definita dal DM
n. 119/2000 in ragione della dimensione demografica dell’ente. Resta invece
pienamente confermato l’abbattimento percentuale previsto dall’art. 1, comma
54, della legge 23/12/2005, n. 266, che continua pertanto ad applicarsi
all’ammontare dell’indennità risultante alla data del 30/09/2005
(28.10.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
settembre 2019 |
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CONSIGLIERI COMUNALI:
1.- Criminalità – Enti locali – art. 143 TUEL - scioglimento degli organi
elettivi ed amministrativi per infiltrazioni di stampo mafioso - elementi
sintomatici.
2.- Criminalità – Enti locali – scioglimento degli organi elettivi ed
amministrativi per infiltrazioni di stampo mafioso – garanzie procedimentali
– limiti.
1. Gli elementi sintomatici del
condizionamento criminale devono caratterizzarsi per concretezza ed essere,
anzitutto, assistiti da un obiettivo e documentato accertamento nella loro
realtà storica; per univocità, intesa quale loro chiara direzione agli scopi
che la misura di rigore è finalizzata a prevenire; per rilevanza, che si
caratterizza per l’idoneità all’effetto di compromettere il regolare
svolgimento delle funzioni dell’ente locale.
L’art. 143 del T.U.E.L., al comma 1 (nel testo novellato dall’art. 2, comma
30, della l. n. 94 del 2009), richiede infatti che gli elementi capaci di
evidenziare la sussistenza di un rapporto tra l’organizzazione mafiosa e gli
amministratori dell’ente considerato infiltrato devono essere «concreti,
univoci e rilevanti» ed assumere una valenza tale da determinare
un’alterazione del procedimento di formazione della volontà degli organi
elettivi ed amministrativi e da compromettere l’imparzialità delle
amministrazioni comunali e provinciali, nonché il regolare funzionamento dei
servizi ad esse affidati.
La coesistenza di elementi oggettivi ed elementi soggettivi è indubbiamente
necessaria ad integrare la fattispecie dell’art. 143 del T.U.E.L.: gli uni e
gli altri devono convergere non in una rappresentazione statica e
dicotomica, ma dinamica e sinergica: la vita politica e amministrativa di un
ente, infatti, nella sua complessità, non può essere letta e valutata in
modo esasperatamente analitico, sicché, se è vero che elementi oggettivi e
soggettivi devono sussistere entrambi, è anche vero che essi devono essere
letti insieme, secondo una connessione che, per quanto non assolutamente
certa, deve apparire almeno altamente probabile e assistita da una valida
spiegazione razionale, rispetto alla quale tutte le altre spiegazioni
risultino meno plausibili.
Se è vero che il mero disordine amministrativo o che semplici prassi quanto
meno opinabili o addirittura estese sequenze di atti illegittimi adottati
dall’ente locale non bastano, in sé, a giustificare la misura dissolutoria,
non si può negare però che le irregolarità nella gestione dei pubblici
appalti, possano costituire un indice significativo della grave
compromissione che l’esercizio delle funzioni amministrative risente per
effetto della penetrazione diffusa delle logiche mafiose all’interno
dell’apparato politico e amministrativo locale, ad ogni livello.
2. L’avvio del procedimento, di cui all’art. 143 del T.U.E.L., non
deve essere preceduto dalla comunicazione, di cui all’art. 7 della l. n. 241
del 1990, né da particolari guarentigie procedimentali non solo per il tipo
di interessi coinvolti che non concernono, se non indirettamente, le
persone, ma la complessiva rappresentazione operativa dell’ente locale e,
quindi, in ultima analisi, gli interessi dell’intera collettività comunale,
ma anche perché la difesa delle ragioni degli amministratori coinvolti e dei
componenti del consiglio disciolto, scaturenti dal principio del giusto
procedimento, è comunque assicurata –per quanto posticipata– alla sede del
controllo giurisdizionale: è dunque sul piano della tutela giurisdizionale
che si sposta, essenzialmente, il controllo sull’emissione di queste misure
preventive, straordinarie ed eccezionali, tutela giurisdizionale.
A fronte, infatti, di una misure caratterizzate dal fatto di costituire la
reazione dell’ordinamento alle ipotesi di attentato all’ordine ed alla
sicurezza pubblica, non è ipotizzabile alcuna violazione dell’art. 97 Cost.
per l’assenza o per la diminuzione delle garanzie partecipative, dato che la
disciplina del procedimento amministrativo è rimessa alla discrezionalità
del legislatore nei limiti della ragionevolezza e del rispetto degli altri
principi costituzionali, tra i quali non è compreso quello del “giusto
procedimento” amministrativo, dato che la tutela delle situazioni soggettive
è comunque assicurata in sede giurisdizionale dagli artt. 24 e 113 Cost.
(massima free tratta da www.giustamm.it -
Consiglio di Stato, Sezione III,
sentenza 26.09.2019 n. 6435 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Ufficio
di staff con incarico gratuito.
Domanda
È possibile costituire l’ufficio di staff (ex art. 90 TUEL) attribuendo un
incarico gratuito ad un collaboratore del sindaco? Cambia qualcosa se il
collaboratore fosse in pensione?
Risposta
Per poter costituire un ufficio alle dirette dipendenze del sindaco (o della
giunta o dei singoli assessori) è necessario che la materia venga
preventivamente disciplinata nel ROUS (Regolamento per l’Ordinamento degli
Uffici e dei Servizi). L’ufficio di staff viene costituito per l’esercizio
delle funzioni di indirizzo e controllo attribuite –in questo caso– al
sindaco.
L’ufficio di staff –struttura eventuale, ma non necessaria in un ente
locale– può essere costituito da dipendenti dell’ente, che lasciano i propri
incarichi e mansioni per dedicarsi ad altro, o, se l’ente non è dissestato o
strutturalmente deficitario, da collaboratori assunti con contratto a tempo
determinato. Se questi collaboratori, sono dipendenti di altra
amministrazione, vengono posti in aspettativa senza assegni (comma 1).
Al personale assunto con contratto di lavoro subordinato e a tempo
determinato, si applica il CCNL del comparto Funzioni locali (comma 2).
L’ufficio di staff trova la sua ragion d’essere nella collaborazione
dell’organo politico, per l’esercizio delle funzioni di indirizzo e
controllo, per cui sono escluse tutte le attività gestionali che restano in
capo ai dipendenti inquadrati nella struttura organizzativa del comune,
identificati nei dirigenti o posizioni organizzative negli enti senza la
dirigenza (comma 3-bis).
Ricapitolando tutte le disposizioni contenute nell’articolo 90, del decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267, comprese le ultime modifiche apportate, nel
2014 con il d.l. 90, possiamo riassumere che la costituzione dell’ufficio di
staff:
• non richiede la pubblicazione di avvisi o lo svolgimento di prove
selettive;
• non richiede il possesso di specifici titoli di studio;
• non richiede specifica esperienza professionale;
• non richiede particolari contenuti del curriculum vitae o
professionale;
• non richiede che vi sia una verifica preventiva dell’assenza di
professionalità nell’ambito dell’ente;
• prevede, necessariamente, un carattere oneroso;
• non pone alcun limite alla possibilità di inquadrare i
destinatari degli incarichi, i cui contratti possono, pertanto,
classificarli dalla categoria A fino alla dirigenza, nell’ambito del CCNL
del comparto Funzioni locali;
• non pone alcun limite alla retribuzione;
• non richiede alcuna particolare motivazione sulla scelta del
destinatario;
• è assoggettata ai limiti di spesa per il personale (media della
spesa del triennio 2011/2013).
Dopo aver provato a chiarire il quadro normativo in cui ci si muove, dando
risposta al doppio quesito presentato è possibile scrivere quanto segue:
a) data la chiara portata dei commi 1 e 2 dell’articolo 90, del
TUEL, non è possibile nominare un componente dell’ufficio di staff a titolo
gratuito. Il collaboratore esterno deve essere titolare di un contratto di
lavoro subordinato, a tempo determinato, parametrato a quello dei dipendenti
del comparto Funzioni locali, con le eventuali deroghe –previste nel comma
3– per ciò che concerne il trattamento economico accessorio;
b) non sarebbe vietato nominare nell’ufficio di staff un
collaboratore in pensione, ma resta vietato nominarlo a titolo gratuito.
A completamento si riporta l’articolo 90, nel testo attualmente in vigore:
Articolo 90 Uffici di supporto agli organi di direzione politica
1. Il regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi può
prevedere la costituzione di uffici posti alle dirette dipendenze del
sindaco, del presidente della provincia, della giunta o degli assessori, per
l’esercizio delle funzioni di indirizzo e di controllo loro attribuite dalla
legge, costituiti da dipendenti dell’ente, ovvero, salvo che per gli enti
dissestati o strutturalmente deficitari, da collaboratori assunti con
contratto a tempo determinato, i quali, se dipendenti da una pubblica
amministrazione, sono collocati in aspettativa senza assegni.
2. Al personale assunto con contratto di lavoro subordinato a tempo
determinato si applica il contratto collettivo nazionale di lavoro del
personale degli enti locali.
3. Con provvedimento motivato della giunta, al personale di cui al
comma 2 il trattamento economico accessorio previsto dai contratti
collettivi può essere sostituito da un unico emolumento comprensivo dei
compensi per il lavoro straordinario, per la produttività collettiva e per
la qualità della prestazione individuale.
3-bis. Resta fermo il divieto di effettuazione di attività
gestionale anche nel caso in cui nel contratto individuale di lavoro il
trattamento economico, prescindendo dal possesso del titolo di studio, è
parametrato a quello dirigenziale
(26.09.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Pubblicazione
dati organi politici cessati dalla carica.
Domanda
A seguito delle elezioni comunali, svoltesi il 26.05.2019, quali dati
dobbiamo tenere ancora pubblicati, riferiti ai componenti degli organi
politici scaduti?
Risposta
Per i titolari di incarichi politici (nei comuni: Sindaco, Consiglieri e
Assessori) gli obblighi di pubblicità e trasparenza sono contenuti
nell’articolo 14, comma 1, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33 e
riguardano:
a) l’atto di nomina o di proclamazione, con l’indicazione della
durata dell’incarico o del mandato elettivo;
b) il curriculum;
c) i compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della
carica; gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi
pubblici;
d) i dati relativi all’assunzione di altre cariche, presso enti
pubblici o privati, ed i relativi compensi a qualsiasi titolo corrisposti;
e) gli altri eventuali incarichi con oneri a carico della finanza
pubblica e l’indicazione dei compensi spettanti;
f) le dichiarazioni di cui all’art. 2, legge 441/1982, nonché le
attestazioni e dichiarazioni di cui agli artt. 3 e 4 della medesima legge,
come modificata dal presente decreto, limitatamente al soggetto, al coniuge
non separato e ai parenti entro il secondo grado, ove gli stessi vi
consentano. Viene in ogni caso data evidenza al mancato consenso. Alle
informazioni di cui alla presente lettera concernenti soggetti diversi dal
titolare dell’organo di indirizzo politico non si applicano le disposizioni
di cui all’art. 7.
È bene specificare che gli obblighi della precedente lettera f) –relativi
alla situazione reddituale e patrimoniale– vanno adempiuti per gli
amministratori e loro parenti (se ne danno il consenso) nei comuni con più
di 15.000 abitanti, come previsto dalla delibera ANAC del 07.10.2014, n.
144, come integralmente sostituita dalla determinazione dell’Autorità datata
08.03.2017, n. 241, Paragrafo 2.1.
Una volta che i titolari di incarichi politici, invece, cessano dalla loro
carica, occorre prestare attenzione al comma 2, del già citato articolo 14
che, testualmente, prevede:
2. Le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati cui ai commi 1 e 1-bis
entro tre mesi dalla elezione, dalla nomina o dal conferimento dell’incarico
e per i tre anni successivi dalla cessazione del mandato o dell’incarico dei
soggetti, salve le informazioni concernenti la situazione patrimoniale e,
ove consentita, la dichiarazione del coniuge non separato e dei parenti
entro il secondo grado, che vengono pubblicate fino alla cessazione
dell’incarico o del mandato. Decorsi detti termini, i relativi dati e
documenti sono accessibili ai sensi dell’articolo 5.
A seguito, dunque, della cessazione del mandato o dell’incarico, i dati di
cui sopra, devono restare pubblicati per i tre anni successivi (sino al
25.05.2022, nel vostro caso), con la sola eccezione per le informazioni
concernenti la situazione patrimoniale e, ove consentita, la dichiarazione
del coniuge non separato e dei parenti entro il secondo grado (padre, madre,
nonno/a, fratelli, sorelle figli), che devono essere pubblicate solamente
fino alla cessazione dell’incarico o del mandato.
Trascorsi i previsti tre anni, i dati non più pubblicati nella sezione
Amministrazione trasparente del sito web, restano conservati in archivio e
su di loro è possibile prevedere l’accesso civico generalizzato (cd: FOIA),
come disciplinato dall’art. 5, comma 2, del d.lgs. 33/2013.
Nella citata determinazione n. 241/2017, recante «Linee guida recanti
indicazioni sull’attuazione dell’art. 14 del d.lgs. 33/2013 «Obblighi di
pubblicazione concernenti i titolari di incarichi politici, di
amministrazione, di direzione o di governo e i titolari di incarichi
dirigenziali» come modificato dall’art. 13 del d.lgs. 97/2016», nel
Paragrafo 4, vengono fornite dettagliate indicazioni in merito agli Obblighi
di trasparenza dei soggetti cessati dall’incarico.
Nella delibera è anche disponibile l’Allegato 2, contenente il Modello per
la comunicazione e pubblicazione dei dati della variazione patrimoniale dei
titolari di incarichi politici, di amministrazione, di direzione o di
governo e dei titolari di incarichi dirigenziali cessati dalla carica o
dall’incarico, sempre riferito ai comuni con più di 15.000 abitanti, che si
riporta integralmente nel modello allegato.
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Publika – modello soggetti cessati dalla carica
(24.09.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Ricorsi, accesso illimitato. Niente paletti all’istanza del
consigliere. La giurisprudenza esclude lesioni alla riservatezza del
ricorrente.
Può l'amministrazione rifiutare l'accesso del
consigliere comunale alla documentazione relativa a un ricorso, di cui sia
venuto a conoscenza dalla consultazione del protocollo informatico,
adducendo la necessità di acquisire l'autorizzazione da parte
dell'interessato ricorrente?
L'esercizio del diritto di accesso, esercitabile dai consiglieri comunali ai
sensi dell'art. 43, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, è definito
dal Consiglio di stato (sentenza n. 4471/2005) «diritto soggettivo pubblico funzionalizzato», finalizzato al controllo politico-amministrativo
sull'ente, nell'interesse della collettività (cfr. Cds V, 05/09/2014, n.
4525, cit. da Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi del 29.11.2018); si tratta, all'evidenza, di un diritto dai confini più ampi
del diritto di accesso riconosciuto al cittadino nei confronti del comune di
residenza (art. 10 Tuel) o, più in generale, nei confronti della p.a.,
disciplinato dalla legge n. 241 del 1990 (cfr. parere della commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi del 28.10.2014 e il richiamato
del 29.11.2018).
Il diritto a ottenere dall'ente tutte le informazioni utili all'espletamento
del mandato non incontra alcuna limitazione derivante dalla loro eventuale
natura riservata, in quanto il consigliere, a cui è ostensibile anche
documentazione che per ragioni di riservatezza non sarebbe ordinariamente
ostensibile ad altri richiedenti, è vincolato al segreto d'ufficio (Tar
Lombardia, Milano, sent. n. 2363 del 23.09.2014 e citato Cds, sez. V, 05.09.2014, n. 4525).
Peraltro, in fattispecie simili alla presente, il Consiglio di stato, sez.
V, con decisione 04/05/2004, n. 2716, riguardo alla normativa prevista dal
dpcm n. 200 del 26.01.1996, recante il regolamento per la categoria di
documenti dell'avvocatura dello stato sottratti al diritto di accesso, ha
rilevato che le limitazioni ivi previste «non possono applicarsi, in via
analogica, ai consiglieri comunali, i quali, nella loro veste di componenti
del massimo organo di governo del comune, hanno titolo ad accedere anche
agli atti concernenti le vertenze nelle quali il comune è coinvolto nonché
ai pareri legali richiesti dall'amministrazione comunale, onde prenderne
conoscenza e poter intervenire al riguardo».
Il predetto dpcm pone un limite solo agli atti defensionali, (art. 2, comma
2, lett. b) a cui comunque i consiglieri comunali potrebbero accedere
essendo tenuti al segreto; nel caso in oggetto, trattandosi, invece, del
testo di un ricorso già presentato all'organo competente, non pare peraltro
sussistere alcuna lesione dell'interessato (che in relazione alla richiesta
del consigliere comunale assume la veste di «controinteressato»).
Infatti, anche in virtù della definizione di cui all'art. 22, comma 1, lett.
c), della legge n. 241/1990, dall'esercizio dell'accesso il ricorrente non
vedrebbe compromesso il proprio diritto alla riservatezza dato che l'atto è
già noto alla controparte (il comune) che può diffonderlo all'interno dei
propri uffici anche al fine della preparazione delle memorie di parte.
In merito ai tempi di rilascio degli atti, ferma restando la necessità di
una regolamentazione della materia dell'accesso, si ritiene che la stessa
deve tendere a garantire l'esercizio del diritto, con la previsione di
termini ragionevoli compatibili con le esigenze tecniche degli uffici
addetti alla loro consegna
(articolo ItaliaOggi del 20.09.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI: In
sede di convalida degli eletti devo contestare una causa di incompatibilità
per debito tributario verso l'ente. Ciò parrebbe comportare la diffusione di
dati personali.
La seduta deve essere pubblica? Ricordo che l'opposizione di cause di
incompatibilità può essere rilevata d'ufficio o da qualsiasi cittadino.
Il regolamento del parlamento europeo relativo alla protezione delle persone
fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera
circolazione di tali dati e che abroga la Dir. n. 95/46/CE, vale a dire il
Reg. (CE) 27.04.2016, n. 2016/679/UE, all'art. 4, sotto la rubrica
"Definizioni", stabilisce che “s'intende per «dato personale» qualsiasi
informazione riguardante una persona fisica identificata o identificabile
(«interessato»); si considera identificabile la persona fisica che può
essere identificata, direttamente o indirettamente, con particolare
riferimento a un identificativo come il nome, un numero di identificazione,
dati relativi all'ubicazione, un identificativo on-line o a uno o più
elementi caratteristici della sua identità fisica, fisiologica, genetica,
psichica, economica, culturale o sociale".
Pertanto, sicuramente la causa di incompatibilità per debito tributario
verso l'ente dell'eletto è un dato personale. Tuttavia, l'art. 6, comma 1,
del Reg. cit. sotto la rubrica "Liceità del trattamento" stabilisce che:
"Il trattamento è lecito solo se e nella misura in cui ricorre almeno una
delle seguenti condizioni:
a) l'interessato ha espresso il consenso al trattamento dei propri dati
personali per una o più specifiche finalità;
b) il trattamento è necessario all'esecuzione di un contratto di cui
l'interessato è parte o all'esecuzione di misure precontrattuali adottate su
richiesta dello stesso;
c ) il trattamento è necessario per adempiere un obbligo legale al quale è
soggetto il titolare del trattamento;
d) il trattamento è necessario per la salvaguardia degli interessi vitali
dell'interessato o di un'altra persona fisica;
e) il trattamento è necessario per l'esecuzione di un compito di interesse
pubblico o connesso all'esercizio di pubblici poteri di cui è investito il
titolare del trattamento;
f) il trattamento è necessario per il perseguimento del legittimo interesse
del titolare del trattamento o di terzi, a condizione che non prevalgano gli
interessi o i diritti e le libertà fondamentali dell'interessato che
richiedono la protezione dei dati personali, in particolare se l'interessato
è un minore.”
Si rileva, ancora, che il D.Lgs. 30.06.2003, n. 196, novellato dal D.Lgs.
10.08.2018, n. 101, che ha recepito il Regolamento suddetto, all'art.
2-ter, (Base giuridica per il trattamento di dati personali effettuato per
l'esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all'esercizio di
pubblici poteri) ha stabilito che:
— "La diffusione e la comunicazione di dati personali, trattati per
l'esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all'esercizio di
pubblici poteri, a soggetti che intendono trattarli per altre finalità sono
ammesse unicamente se previste ai sensi del comma 1.” (comma 3);
— "si intende per: a) "comunicazione", il dare conoscenza dei dati personali
a uno o più soggetti determinati diversi dall'interessato, dal
rappresentante del titolare nel territorio dell'Unione europea, dal
responsabile o dal suo rappresentante nel territorio dell'Unione europea,
dalle persone autorizzate, ai sensi dell'articolo 2-quaterdecies, al
trattamento dei dati personali sotto l'autorità diretta del titolare o del
responsabile, in qualunque forma, anche mediante la loro messa a
disposizione, consultazione o mediante interconnessione; b) "diffusione", il
dare conoscenza dei dati personali a soggetti indeterminati, in qualunque
forma, anche mediante la loro messa a disposizione o consultazione". (comma
4)
Il comma 1 del citato art. 2-ter, stabilisce inoltre che "La base giuridica
prevista dall'art. 6, par. 3, lett. b) del regolamento, è costituita
esclusivamente da una norma di legge o, nei casi previsti dalla legge, di
regolamento".
Pertanto, essendo la causa di incompatibilità per debiti tributari
espressamente prevista dalla legge -ossia dall'art. 63, D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 che sotto la rubrica "Incompatibilità" stabilisce al comma 1
"Non può ricoprire la carica di sindaco, presidente della provincia,
consigliere comunale, consigliere metropolitano, provinciale o
circoscrizionale ... 6) Colui che, avendo un debito liquido ed esigibile,
rispettivamente, verso il comune o la provincia ovvero verso istituto od
azienda da essi dipendenti è stato legalmente messo in mora ovvero, avendo
un debito liquido ed esigibile per imposte, tasse e tributi nei riguardi di
detti enti, abbia ricevuto invano notificazione dell'avviso di cui
all'articolo 46 del decreto del Presidente della Repubblica 29.09.1973, n. 602"-, il trattamento del dato personale nelle sue forme della
comunicazione e della diffusione è lecito.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 63
D.Lgs. 30.06.2003, n. 196
Reg. (CE) 27.04.2016, n. 2016/679/UE, art. 4
Reg. (CE) 27.04.2016, n. 2016/679/UE, art. 6
(18.09.2019 - tratto da http://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
CONSIGLIERI COMUNALI: La
parità di genere nella giunta comunale prevale sullo statuto.
Il rispetto della parità di genere nella composizione delle giunte comunali
è insuperabile. La natura fiduciaria della carica di assessore non può
giustificare la limitazione di un eventuale interpello alle sole donne
appartenenti allo stesso partito o alla stessa coalizione che ha espresso il
primo cittadino. In altre parole va adeguatamente comprovata, certificata da
parte del sindaco, l'accidentale situazione di obiettiva e assoluta
impossibilità di rispettare la percentuale di genere femminile nella
composizione dell'organo politico-amministrativo. Sono in gioco i principi
costituzionali di uguaglianza tra tutti i cittadini e di democraticità della
Repubblica nell'avvalersi di competenze e capacità, ma anche i principi di
legalità, imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione.
Con la
sentenza
17.09.2019 n. 1578, il TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
ha affrontato il delicato tema della parità tra i generi, soffermandosi su
alcuni dei profili più sensibili di concreta applicazione: l'esercizio delle
funzioni democratico-rappresentative dei cittadini.
La vicenda
Alcuni consiglieri comunali di minoranza si sono rivolti al Tar per ottenere
l'annullamento dei decreti con i quali il sindaco della loro cittadina aveva
provveduto a designare la giunta municipale indicando come assessori tre
uomini e una sola donna.
Secondo i ricorrenti, il sindaco, oltre a non rispettare il dettato
normativo, non avrebbe svolto alcuna effettiva attività istruttoria, non
potendosi realmente desumere quale procedura avesse posto in atto per
acquisire la disponibilità da parte di persone di genere femminile. Non
solo, il sindaco neppure avrebbe dato conto di rinunce all'incarico
assessorile, tanto all'interno della stessa maggioranza consiliare, che
della società civile tutta.
La decisione
Il Tar ha ammesso che solo l'effettiva impossibilità di assicurare la
presenza dei due generi nella misura stabilita dalla legge giustifica
deroghe a questi principi. Inattuabilità che però deve essere comprovata
attraverso un'accurata e approfondita istruttoria e una conforme e puntuale
motivazione del provvedimento sindacale di nomina degli assessori.
L'impossibilità di rispettare la percentuale di rappresentanza di genere
deve risultare in concreto, in modo circostanziato e inequivoco e deve avere
un carattere tendenzialmente oggettivo.
Non è pensabile che mere situazioni soggettive o contingenti -come ad
esempio quelle che possano derivare dall'applicazione di disposizioni
statutarie relative al funzionamento degli organi comunali ovvero che
attengano alle modalità di elezione degli stessi ovvero dipendenti dalla
mancanza di candidati all'interno del partito o della coalizione vincitrice
delle elezioni, o comunque di piena ed esclusiva fiducia del sindaco-
possano legittimare la deroga alla effettiva applicazione della normativa.
Nel caso in cui lo statuto comunale non preveda la figura dell'assessore
esterno, per la piena attuazione del principio di pari opportunità tra
uomini e donne l'ente dovrà dunque procedere a modifiche statutarie (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'11.10.2019).
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SENTENZA
1. Fr.Ca., Al.Fi. e An.Gi.Ma., in qualità di cittadini e di consiglieri
comunali di minoranza di Castrolibero hanno adìto questo Tribunale allo
scopo di ottenere l’annullamento dei decreti nn. 10936, 10938, 10939 e 10941
del 14.06.2018 con i quali il Sindaco ha provveduto a designare la Giunta
Municipale dell’ente indicando tra gli assessori tre uomini e una
rappresentante femminile, così violando, secondo la prospettazione contenuta
nel ricorso, l’art. 1, comma 137, della Legge 56/2014 che fa obbligo, nel
caso di comuni con popolazione superiore a 3000 abitanti, di garantire una
rappresentanza di genere nella misura del 40%.
2. Oltre a non rispettare il dettato normativo, sostengono i ricorrenti, il
Sindaco non avrebbe svolto alcuna attività istruttoria, non potendosi
desumere quale procedura abbia posto in atto per acquisire l’eventuale
disponibilità per lo svolgimento delle funzioni assessorili da parte di
persone di genere femminile; neppure avrebbe dato conto di eventuali rinunce
all’incarico de quo tanto all’interno della stessa maggioranza
consiliare quanto nella società civile.
...
6. Nel merito è palese la fondatezza del ricorso per violazione del
menzionato referente normativo.
6.1. La natura fiduciaria della carica assessorile non può giustificare,
infatti, la limitazione di un eventuale interpello -di cui in ogni caso non
vi è alcuna prova- alle sole persone appartenenti allo stesso partito o alla
stessa coalizione di quella che ha espresso il Sindaco, soprattutto in
realtà locali niente affatto estese, come quella di cui ci si occupa, ciò
tanto più in considerazione del principio alla cui attuazione è finalizzata
la norma in questione. Nessuna prova, inoltre, è stata effettivamente
fornita in ordine a una adeguata istruttoria svolta per reperire, per la
nomina di assessore femminile, idonee personalità nell’ambito territoriale
di riferimento.
6.2. Deve quindi ritenersi che non risulti provata quella situazione di
obiettiva ed assoluta impossibilità di rispettare la percentuale di genere
femminile nella composizione della giunta comunale fissata dal legislatore,
condizione che, in una logica di contemperamento dei principi costituzionali
che vengono in gioco costituisce il “limite intrinseco,
logico–sistematico, di operatività della norma in questione” (Consiglio
di Stato, Sez. V, 406/2016).
7. Nemmeno può, da ultimo, convenirsi con l’approccio ermeneutico sostenuto
nel ricorso, teso a configurare in chiave non immediatamente precettiva la
più volte enunciata disposizione di legge, impostazione che appare
eccessivamente svalutativa del relativo disposto normativo, rispondente a
specifici valori di rango costituzionale, sinteticamente riassumibili nella
necessità di assicurare la parità di genere.
7.1. E’ pertanto palesemente infondata, ad avviso del Collegio, la questione
di legittimità della norma stessa prospettata dall’amministrazione con
riferimento agli artt. 5 e 97 della Costituzione.
7.2. Ciò tanto più se si tiene conto che rientra nella esclusiva
discrezionalità del legislatore nazionale la scelta delle modalità ritenute
più idonee ed adeguate per rendere tendenzialmente effettivo, anche
nell’accesso alle cariche elettive, il principio di uguaglianza sancito
dall’articolo 3 della Costituzione, assicurando pari opportunità per la
partecipazione alla concreta gestione della cosa pubblica, finalità cui è
preordinata in modo non macroscopicamente illogico o irragionevole la
fissazione di una soglia percentuale minima di rappresentanza di genere
all’interno della giunta comunale, la quale, quindi, neppure può ritenersi
lesiva delle prerogative delle autonomie locali attesa, tra l’altro, la
proclamata unità e indivisbilità della Repubblica.
8. Il ricorso, per quanto osservato, è fondato. |
ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI - CONSIGLIERI COMUNALI: Nel
nuovo ordinamento delle autonomie locali (d.lgs. 18.08.2000, n. 267, art.
50, fonte primaria), competente a conferire al difensore del comune la
procura alle liti è solo il sindaco, sicché la delibera della giunta
comunale, quand'anche prevista dalla normativa secondaria rappresentata
dallo statuto, resta un atto meramente gestionale e tecnico, privo di
valenza esterna.
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Rilevato che
- il primo motivo è in parte inammissibile, in parte infondato;
- per un verso si tratterebbe, in tesi, di omessa pronuncia
sull'eccezione, in senso lato, indicata come formulata, e non del dedotto
omesso esame, il cui regime normativo fa diversamente riferimento a un fatto
storico discusso in istruttoria;
- per altro verso i ricorrenti indicano di aver proposto
l'eccezione in una non meglio specificata memoria di replica, senza chiarire
quindi se sia stato un atto meramente illustrativo facente parte della
discussione scritta finale, ovvero di altro atto assertivo, con una
violazione degli artt. 366, nn. 3 e 6, cod. proc. civ., che non permette di
constatare se si tratti di questione nuova, e come tale in questa sede
preclusa, essendo sotteso, al rilievo, possibile anche d'ufficio, un
accertamento in fatto (la presenza o meno della delibera, in funzione della
decisione sulla sussistenza di valida procura);
- nel merito, infine, la questione sarebbe stata comunque
infondata, poiché questa Corte ha chiarito che, nel nuovo ordinamento delle
autonomie locali (d.lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 50, fonte primaria),
competente a conferire al difensore del comune la procura alle liti è solo
il sindaco, sicché la delibera della giunta comunale, quand'anche prevista
dalla normativa secondaria rappresentata dallo statuto, resta un atto
meramente gestionale e tecnico, privo di valenza esterna (Cass., 23/03/2016,
n. 5802, pag. 3, Cass., 21/06/2018, n. 16459, pagg. 4-5) (Corte di
Cassazione, Sez. III civile,
sentenza 10.09.2019 n.
22526). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Atto
illegittimo se alla votazione partecipa il consigliere obbligato
all'astensione.
Nel caso in cui sia stata approvata una deliberazione con la partecipazione
di un consigliere che non ha rispettato l'obbligo di astensione, l'atto non
può essere oggetto di convalida, in quanto si limiterebbe a emendare il
vizio in modo solo formale e apparente e non a eliminare il fatto storico
della partecipazione alla seduta del soggetto e dell'influenza che tale
partecipazione ha determinato sulle convinzioni e opinioni degli altri
componenti.
Lo afferma il TAR Abruzzo-Pescara con la
sentenza 09.09.2019 n.
209.
Il fatto
È stata impugnata la deliberazione consiliare di approvazione del progetto
preliminare dei lavori per la realizzazione di un'area polifunzionale, con
contestuale adozione di variante semplificata al vigente piano regolatore
edilizio, per diversi motivi tra i quali la partecipazione di un consigliere
comunale che non si sarebbe astenuto dal prendere parte alla discussione e
avrebbe altresì votato a favore della deliberazione, pur riguardando
interessi propri. Con motivi aggiunti il ricorrente ha poi chiesto
l'annullamento della delibera, nel frattempo intervenuta, con cui il
consiglio comunale ha convalidato la delibera.
L'articolo 78, comma 2, del Tuel impone agli amministratori di astenersi dal
prendere parte alla discussione e alla votazione di delibere riguardanti
interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado. L'obbligo
di astensione non si applica ai soli provvedimenti normativi o di carattere
generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una
correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e
specifici interessi dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto
grado.
L'astensione
Il Tar Abruzzo accoglie il ricorso e annulla i provvedimenti impugnati,
sulla base della considerazione che la violazione dell'obbligo di astensione
mira a evitare che la partecipazione alla seduta e alla votazione del
soggetto portatore di un interesse egoistico possa influenzare le decisioni
dell'organo collegiale «a prescindere dall'accertamento in concreto di tale
influenza». Il pericolo, cioè, è valutato in astratto e in via presuntiva
dallo stesso legislatore, per questo il vizio non appare emendabile con una
mera nuova votazione priva della presenza del soggetto che ha partecipato e
votato nella prima riunione.
Infatti la convalida, la cui funzione è quella di emendare il vizio
originario e mantenere il provvedimento con efficacia retroattiva, si limita
a rimuovere il vizio in modo solo formale e apparente, in quanto non può
eliminare il fatto storico della partecipazione alla seduta del soggetto
interessato e soprattutto l'influenza che tale partecipazione ha ormai
determinato sulle convinzioni e opinioni degli altri. Talché, concludono i
giudici abruzzesi, l'atto convalidato resta comunque adottato con la
partecipazione del consigliere che si sarebbe dovuto astenere.
La via maestra per «recuperare» quanto deciso dal Consiglio comunale allora
non è la convalida, posto che il vizio non è emendabile, ma secondo il Tar
Abruzzo sarebbe stato necessario provvedere ad una nuova e autonoma
delibera, annullando in autotutela la precedente (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
30.09.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Accessi al server regolati. Connessioni da
remoto, disciplina ad hoc. Consiglieri e protocollo dell’ente: dal Tar
Campania utili parametri.
In un comune siciliano può un consigliere accedere da remoto al server
comunale del protocollo dell'ente in carenza di previsione regolamentare che
lo preveda espressamente?
L'esercizio del diritto di accesso, esercitabile dai consiglieri comunali ai
sensi dell'art. 43, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, è definito
dal Consiglio di stato (sentenza n. 4471/2005) «diritto soggettivo pubblico funzionalizzato», finalizzato al controllo politico-amministrativo
sull'ente, nell'interesse della collettività (cfr. Consiglio di stato V,
05/09/2014, n. 4525, cit. da Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi del 29.11.2018); si tratta di un diritto dai confini
più ampi del diritto di accesso riconosciuto al cittadino nei confronti del
comune di residenza (art. 10 Tuoel) o, più in generale, nei confronti della
p.a., disciplinato dalla legge n. 241 del 1990 (cfr. parere della
Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi del 28.10.2014 e
il richiamato del 29.11.2018).
Per i comuni della regione Sicilia si
applica l'art. 217 del Testo coordinato delle leggi regionali relative
all'ordinamento degli enti locali (Art. 199, Ordinamento amministrativo
degli enti locali nella Regione siciliana approvato con legge regionale n.
16/1963 (art. 20, legge regionale n. 1/1976 e art. 56, legge regionale n.
9/1986), il quale prevede, analogamente, che «I consiglieri comunali (...),
per l'effettivo esercizio della loro funzione, hanno diritto di prendere
visione dei provvedimenti adottati dall'ente e degli atti preparatori in
essi richiamati nonché di avere tutte le informazioni necessarie
all'esercizio del mandato e di ottenere, senza spesa, copia degli atti
deliberativi. Copia dell'elenco delle delibere adottate dalla giunta è
trasmessa al domicilio dei consiglieri e depositata presso la segreteria a
disposizione di chiunque ne faccia richiesta».
Il protocollo informatico,
come noto, è stato introdotto dall'art. 50 del dpr n. 445/2000, il quale, al
comma 3, richiede la realizzazione o la revisione dei sistemi informativi
automatizzati in conformità anche alle disposizioni di legge sulla
riservatezza dei dati personali; gli articoli 53 e 55 del citato dpr n. 445
prevedono, rispettivamente, la «registrazione di protocollo» e la «segnatura
di protocollo» che contengono una serie di dati che consentono la
rintracciabilità dei documenti.
La citata Commissione per l'accesso, già con
il parere del 16.03.2010 stabiliva che «l'accesso diretto tramite
utilizzo di apposita password al sistema informatico dell'Ente, ove
operante, è uno strumento di accesso certamente consentito al consigliere
comunale che favorirebbe la tempestiva acquisizione delle informazioni
richieste senza aggravare l'ordinaria attività amministrativa. Ovviamente il
consigliere comunale rimane responsabile della segretezza della password di
cui è stato messo a conoscenza a tali fini (art. 43, comma 2, Tuoel)».
Anche
il Garante per la protezione dei dati personali (v. relazione del 2004, pag.
19 e 20) aveva specificato che «nell'ipotesi in cui l'accesso da parte dei
consiglieri comunali riguardi dati sensibili, l'esercizio di tale diritto,
ai sensi dell'art. 65, comma 4, lett. b), del Codice, è consentito se
indispensabile per lo svolgimento della funzione di controllo, di indirizzo
politico, di sindacato ispettivo e di altre forme di accesso a documenti
riconosciute dalla legge e dai regolamenti degli organi interessati per
consentire l'espletamento di un mandato elettivo. Resta ferma la necessità,
(...) che i dati così acquisiti siano utilizzati per le sole finalità
connesse all'esercizio del mandato, rispettando in particolare il divieto di
divulgazione dei dati idonei a rivelare lo stato di salute. Spetta quindi
all'amministrazione destinataria della richiesta accertare l'ampia e
qualificata posizione di pretesa all'informazione ratione officii del
consigliere comunale».
Già il Tar Sardegna con la sentenza n. 29/2007 ha
affermato, tra l'altro, che è consentito prendere visione del protocollo
generale senza alcuna esclusione di oggetti e notizie riservate e di materie
coperte da segreto, posto che i consiglieri comunali sono comunque tenuti al
segreto ai sensi dell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000, mentre il Tar Lombardia, Brescia,
01.03.2004 n. 163, ha ritenuto non ammissibile
imporre ai consiglieri l'onere di specificare in anticipo l'oggetto degli
atti che intendono visionare, giacché trattasi di informazioni di cui gli
stessi possono disporre solo in conseguenza dell'accesso.
Sempre il Tar
Sardegna, approfondendo la tematica, con la sentenza n. 531/2018, ha
specificato che il «possesso delle chiavi di accesso telematico, rappresenta
una condizione preliminare, ma nondimeno necessaria, per l'esercizio
consapevole del diritto di accesso, in modo che questo si svolga non
attraverso una apprensione generalizzata e indiscriminata degli atti
dell'amministrazione comunale (...), ma mediante una selezione degli oggetti
degli atti di cui si chiede l'esibizione. Peraltro, una delle modalità
essenziali per poter operare in tal senso è rappresentata proprio dalla
possibilità di accedere (non direttamente al contenuto della documentazione
in arrivo o in uscita dall'amministrazione, ma) ai dati di sintesi
ricavabili dalla consultazione telematica del protocollo». Anche il Tar
Campania (Sezione staccata di Salerno), con la recentissima decisione n. 545
del 04/04/2019 ha confermato il diritto del consigliere comunale all'accesso
anche da remoto al protocollo informatico dell'ente.
Il predetto tribunale,
ribadendo sostanzialmente quanto stabilito dal Tar Sardegna con la
richiamata sentenza 531/2018, ha ritenuto che tale esercizio non dovrebbe
tuttavia essere esteso al contenuto della documentazione in arrivo o in
uscita dall'amministrazione soggetta, invece, alle ordinarie regole in
materia di accesso, tra le quali la necessità di richiesta specifica, ma ai
soli dati di sintesi ricavabili dalla consultazione telematica del
protocollo (numero di registrazione al protocollo, data, mittente,
destinatario, modalità di acquisizione, oggetto). Il Tar Campania con la
citata decisione n. 545/2019 ha accolto il ricorso imponendo
all'amministrazione comunale resistente di apprestare, entro il termine di
60 giorni decorrente dalla comunicazione della medesima decisione «le
modalità organizzative per il rilascio di password per l'accesso da remoto
al protocollo informatico al consigliere comunale ricorrente».
Ciò premesso,
si osserva che la disciplina regolamentare si pone anche come strumento di
previsione delle misure tecniche necessarie per l'effettivo esercizio del
diritto in parola in capo al consigliere comunale. Tale strumento,
necessario al fine di porre i competenti uffici comunali nelle condizioni di
operare correttamente, dovrebbe, dunque, essere obbligatoriamente adottato
dall'ente in tempi ragionevoli ben potendo prendersi a parametro i termini
individuati dal sopra citato Tar della Campania o termini più brevi
favorevoli ai consiglieri comunali
(articolo ItaliaOggi del 06.09.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Vincoli
rigidi ai rimborsi delle spese legali agli amministratori.
La
sentenza 05.09.2019 n. 461 della Corte dei conti del Lazio evidenzia
l'impossibilità per gli enti locali di rimborsare le spese legali superiori
a quelle stabilite dal giudice contabile.
La linea di demarcazione per gli
amministratori, rispetto ai dipendenti, di una possibile apertura al
rimborso delle spese legali in materia civile, amministrativa e penale, è
stata fornita solo con il Dl 78/2015; mentre in sede contabile, a fronte del
sicuro conflitto di interessi iniziale con l'amministrazione di
appartenenza, in caso di assoluzione sono rimborsabili le sole spese
stabilite dal giudice contabile.
Per evitare dubbi sulla possibilità di rimborsare le spese legali ai propri
amministratori superiori a quelle indicate nella sentenza di assoluzione
contabile meritano alcune precisazioni sulla deliberazione n. 73/2017 della
Corte dei conti dell'Emilia Romagna richiamata nella sentenza della Corte
laziale (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 17
settembre).
La difesa da parte degli amministratori
Per poter difendere la propria posizione, il sindaco e l'avvocato chiamati
in giudizio per responsabilità erariale hanno ritenuto di poter far
riferimento, tra l'altro, alle indicazioni dei giudici contabili
emiliano-romagnoli contenute nella deliberazione 73/2017.
Il passaggio significativo, a giustificazione della possibilità di
riconoscere da parte dell'ente locale un compenso superiore a quello
statuito dal giudice contabile, è dovuto in parte alle affermazioni secondo
cui «il rimborso delle spese legali in favore dei dipendenti e degli
amministratori pubblici, assolti per non avere commesso il fatto nell'ambito
di un procedimento connesso con l'espletamento del servizio, deriva dal
principio per il quale non solo nei rapporti privati, ma anche in quelli
pubblici, chi agisce per un interesse altrui non deve sopportare nella sua
sfera personale gli effetti svantaggiosi di questa attività, bensì deve
essere tenuto indenne sia dalle spese sostenute, sia dai danni subiti per la
fedele esecuzione del suo compito (Corte dei conti a Sezioni riunite n.
707/1991)».
Precisando, tuttavia, successivamente che «solo recentemente il
legislatore statale ha riconosciuto, con l'articolo 7-bis del Dl 19.06.2015 n. 78, convertito con modificazioni dalla legge
06.08.2015 n. 125,
detto diritto anche in favore degli amministratori locali».
Nell'interpretazione della difesa è stato ritenuto che mente prima del Dl n.
78/2015 l'amministratore locale godeva di un diritto di essere tenuto
indenne dai danni subiti per la fedele esecuzione del suo compito, con la
nuova disposizione inserita nel Dl n. 78/2015 il rimborso diveniva soggetto
di una serie di presupposti e quindi soggetto ai soli limiti posti dal
giudice contabile.
La corretta interpretazione
Il possibile dubbio nasce dal fatto che la sentenza della Corte laziale non
ha confutato su questo punto la difesa dei convenuti. Da una semplice
lettura della deliberazione, non può che rilevarsi, in via principale, come
non si sia in presenza di alcun parere (anche perché in materia di rimborso
delle spese legali da molti anni la Corte dei conti non può esprimersi), ma
di specifico controllo sul questionario inviato agli enti locali concernente
la gestione dei servizi legali.
Il preambolo della Corte, quindi, ha come scopo quello di stigmatizzare il
non corretto pagamento effettuato dall'ente locale ad un proprio dipendente,
su un provvedimento di archiviazione per estinzione del reato per remissione
di querela, senza alcun accertamento interno atto a verificare se i
comportamenti tenuti fossero o meno contrari ai doveri di ufficio,
preannunciando la medesima linea tenuta anche di recente dal giudice
amministrativo (Tar Lazio, sentenza 05.09.2019 n. 10749).
Conclusioni
La deliberazione del Corte dei conti dell'Emilia Romagna, pertanto, non
avalla alcuna possibilità di un rimborso delle spese legali
all'amministratore per un importo superiore a quello previsto nella sentenza
del giudice contabile, ritenendo che il Collegio contabile Laziale non
l'abbia volontariamente confutata proprio per mancata attinenza della stessa
con il danno erariale emerso nella vicenda contabile.
In conclusione, sia prima che dopo il Dl n. 78/2015, in seguito
all'interpretazione autentica fornita dal legislatore (articolo 10-bis,
comma 10, del Dl 203/2005), l'ente locale si espone al danno erariale tutte
le volte in cui dispone un rimborso delle spese legali superiore a quello
stabilito dal giudice contabile (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
25.09.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI: La
richiesta avente ad oggetto il rilascio delle credenziali informatiche di
accesso all’area “Contabile e Patrimonio” appare esorbitante rispetto alla
ratio ed al
perimetro del diritto di accesso esercitabile da parte dei consiglieri
regionali, sicché risulta legittimo il diniego opposto.
In linea generale, l'accesso ai documenti esercitato dai consiglieri comunali e
provinciali, e, per estensione, anche regionali, espressione delle loro
prerogative di controllo democratico, non incontra alcuna limitazione in
relazione all'eventuale natura riservata degli atti, stante anche il vincolo
del segreto d'ufficio che lo astringe.
---------------
Vero è che l’accesso previsto dall’art. 43 del T.U.E.L. -pacificamente
estensibile ai consiglieri regionali- deve essere letto ed applicato in
conformità alla progressiva digitalizzazione che ha interessato negli ultimi
anni l’attività degli uffici pubblici, ciò che rende sicuramente ammissibile
l’accesso mediante l’utilizzo di sistemi informatici.
E’ però parimenti vero che la concreta modalità dell’accesso con l’impiego
di applicativi informatici non deve determinare la elusione dei principi di
fondo che conformano l’esercizio del relativo diritto, nei termini stabiliti
dagli artt. 22 e 24 della legge n. 241 del 1990.
In particolare, resta ferma la regola per cui l’esercizio del diritto di
accesso presuppone la presentazione di una richiesta specifica e puntuale,
che deve riferirsi a documenti preesistenti e già formati.
Invece, nel caso di specie, il rilascio delle credenziali informatiche di accesso
all’area “Contabile e Patrimonio”, nei termini
richiesti dai ricorrenti, consentirebbe ai consiglieri regionali di accedere
alla generalità indiscriminata dei documenti relativi alla contabilità
dell’ente in mancanza di apposita istanza.
Tale forma di accesso “diretto” si risolve in un monitoraggio assoluto e
permanente sull’attività degli uffici, tale da violare la ratio
dell’istituto, che, così declinato, eccede strutturalmente la sua funzione
conoscitiva e di controllo in riferimento ad una determinata informazione
e/o ad uno specifico atto dell’ente, siccome ritenuti strumentali al mandato
politico, per appuntarsi, a monte, sull’esercizio della funzione propria
dell’area “Contabile e Patrimonio” e sulla complessiva attività degli
uffici, con finalità essenzialmente esplorative, che eccedono dal perimetro
delle prerogative attribuite ai consiglieri regionali.
In tal senso è stato affermato che “è legittimo il diniego opposto alla
richiesta tendente ad ottenere la documentazione relativa a molteplici
settori dell'Ente ed ancorata non ad un determinato periodo di tempo, ma
sostanzialmente riferita anche ad epoche future. Infatti una richiesta così
strutturata, tesa ad utilizzare, in lettura, gli applicativi informatici del
Comune, appare preordinata a compiere un sindacato generalizzato
sull'attività, presente, passata e futura, degli organi decidenti,
deliberanti e amministrativi dell'Ente e non risulta strumentale al mandato
politico, che deve essere riferito a singole problematiche che di volta in
volta interessano l'elettorato e desumibili da atti e documenti già in
possesso dell’Amministrazione … omissis … In definitiva, compete al
richiedente la selezione preventiva del materiale di proprio interesse,
attività propedeutica connaturata alle modalità dell’accesso, che non può
mai avere finalità solo esplorative, ancorché il diritto sia esercitato da
soggetti cui la legge riconosce una legittimazione rafforzata. Pertanto, è condivisibile l’assunto posto a
fondamento del contestato diniego, secondo cui il rilascio delle richieste
credenziali si tradurrebbe in un accesso generalizzato e indiscriminato a
tutti i dati della corrispondenza in entrata e uscita e della contabilità”.
Più di recente, la giurisprudenza del TAR ha ritenuto legittimo il
rilascio delle credenziali di accesso al sistema informatico dell’ente ai
soli fini della consultazione del protocollo informatico, avendo cura di
precisare espressamente che tali credenziali non devono consentire l’accesso
diretto ai documenti: “… al fine di evitare ogni accesso indiscriminato alla
totalità dei documenti protocollati, il Collegio è dell’avviso che l’accesso
da remoto vada consentito in relazione ai soli dati di sintesi ricavabili
dalla consultazione telematica del protocollo, non potendo essere esteso al
contenuto della documentazione, la cui acquisizione rimane soggetta alle
ordinarie regole in materia di accesso (tra le quali la necessità di
richiesta specifica)”.
---------------
6. Il ricorso è infondato.
6.1. Innanzi tutto si osserva che è condivisibile quanto sostenuto dai
ricorrenti in riferimento al fatto che il diritto di accesso del consigliere
regionale non incontra il limite della riservatezza.
Infatti, sul punto la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha recentemente
chiarito che: “l'accesso ai documenti esercitato dai consiglieri comunali e
provinciali, e, per estensione, anche regionali, espressione delle loro
prerogative di controllo democratico, non incontra alcuna limitazione in
relazione all'eventuale natura riservata degli atti, stante anche il vincolo
del segreto d'ufficio che lo astringe” (Cons. Stato, Sez. V, 02.03.2018 n.
1298).
Ciò nondimeno, la predetta questione non è conferente nel caso di specie,
dal momento che il limite della riservatezza, inizialmente opposto dalla
Regione Molise con la nota del 01.03.2019, non ha trovato ulteriore
riscontro in sede di riesame.
6.2. Con la nota in data 05.03.2019 la Regione Molise ha conclusivamente
giustificato il provvedimento di diniego in ragione del fatto che “la
concessione della richiesta abilitazione equivarrebbe ad un accesso
indiscriminato e generale su non ben definiti atti d’ufficio”.
Sotto tale profilo il diniego di rilascio delle credenziali di accesso al
sistema informativo Urbi Smart appare giustificato e conforme ai principi
desumibili dalla normativa di riferimento.
Vero è che l’accesso previsto dall’art. 43 del T.U.E.L. -pacificamente
estensibile ai consiglieri regionali- deve essere letto ed applicato in
conformità alla progressiva digitalizzazione che ha interessato negli ultimi
anni l’attività degli uffici pubblici, ciò che rende sicuramente ammissibile
l’accesso mediante l’utilizzo di sistemi informatici.
E’ però parimenti vero che la concreta modalità dell’accesso con l’impiego
di applicativi informatici non deve determinare la elusione dei principi di
fondo che conformano l’esercizio del relativo diritto, nei termini stabiliti
dagli artt. 22 e 24 della legge n. 241 del 1990.
In particolare, resta ferma la regola per cui l’esercizio del diritto di
accesso presuppone la presentazione di una richiesta specifica e puntuale,
che deve riferirsi a documenti preesistenti e già formati.
Invece, nel caso di specie, il rilascio delle credenziali di accesso
all’area “Contabile e Patrimonio” del sistema Urbi Smart, nei termini
richiesti dai ricorrenti, consentirebbe ai consiglieri regionali di accedere
alla generalità indiscriminata dei documenti relativi alla contabilità
dell’ente in mancanza di apposita istanza.
Tale forma di accesso “diretto” si risolve in un monitoraggio assoluto e
permanente sull’attività degli uffici, tale da violare la ratio
dell’istituto, che, così declinato, eccede strutturalmente la sua funzione
conoscitiva e di controllo in riferimento ad una determinata informazione
e/o ad uno specifico atto dell’ente, siccome ritenuti strumentali al mandato
politico, per appuntarsi, a monte, sull’esercizio della funzione propria
dell’area “Contabile e Patrimonio” e sulla complessiva attività degli
uffici, con finalità essenzialmente esplorative, che eccedono dal perimetro
delle prerogative attribuite ai consiglieri regionali.
6.3. In tal senso è stato affermato che “è legittimo il diniego opposto alla
richiesta tendente ad ottenere la documentazione relativa a molteplici
settori dell'Ente ed ancorata non ad un determinato periodo di tempo, ma
sostanzialmente riferita anche ad epoche future. Infatti una richiesta così
strutturata, tesa ad utilizzare, in lettura, gli applicativi informatici del
Comune, appare preordinata a compiere un sindacato generalizzato
sull'attività, presente, passata e futura, degli organi decidenti,
deliberanti e amministrativi dell'Ente e non risulta strumentale al mandato
politico, che deve essere riferito a singole problematiche che di volta in
volta interessano l'elettorato e desumibili da atti e documenti già in
possesso dell’Amministrazione … omissis … In definitiva, compete al
richiedente la selezione preventiva del materiale di proprio interesse,
attività propedeutica connaturata alle modalità dell’accesso, che non può
mai avere finalità solo esplorative, ancorché il diritto sia esercitato da
soggetti cui la legge riconosce una legittimazione rafforzata (TAR Toscana,
I, 30.03.2016, n. 563). Pertanto, è condivisibile l’assunto posto a
fondamento del contestato diniego, secondo cui il rilascio delle richieste
credenziali si tradurrebbe in un accesso generalizzato e indiscriminato a
tutti i dati della corrispondenza in entrata e uscita e della contabilità”
(TAR Toscana, Sez. I, 22.12.2016 n. 1844).
6.4. Più di recente, la giurisprudenza del TAR ha ritenuto legittimo il
rilascio delle credenziali di accesso al sistema informatico dell’ente ai
soli fini della consultazione del protocollo informatico, avendo cura di
precisare espressamente che tali credenziali non devono consentire l’accesso
diretto ai documenti: “… al fine di evitare ogni accesso indiscriminato alla
totalità dei documenti protocollati, il Collegio è dell’avviso che l’accesso
da remoto vada consentito in relazione ai soli dati di sintesi ricavabili
dalla consultazione telematica del protocollo, non potendo essere esteso al
contenuto della documentazione, la cui acquisizione rimane soggetta alle
ordinarie regole in materia di accesso (tra le quali la necessità di
richiesta specifica)” (TAR Basilicata, 10.07.2019 n. 599).
6.5. Per le ragioni sopra esposte la richiesta avente ad oggetto il rilascio
delle credenziali di accesso all’area “Contabile e Patrimonio” del sistema Urbi Smart o comunque la previsione di equivalenti strumenti di reperimento
di atti ed informazioni, appare esorbitante rispetto alla ratio ed al
perimetro del diritto di accesso esercitabile da parte dei consiglieri
regionali, sicché il ricorso merita di essere respinto
(TAR Molise,
sentenza 03.09.2019 n. 285 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
agosto 2019 |
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Interrogazione di alcuni consiglieri comunali. Diritto di accesso agli atti
degli amministratori locali. Limiti.
I consiglieri comunali hanno l’incondizionato diritto di
accesso a tutti gli atti in possesso dell’Amministrazione che possano essere
d’utilità all’espletamento del mandato al fine di permettere loro di
valutare –con piena cognizione– la correttezza e l’efficacia dell’operato
del Comune, nonché per promuovere, anche nell’ambito del Consiglio comunale,
le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale
locale.
Diverso discorso è invece da farsi relativamente agli atti di indagine
penale che rientrano nel segreto istruttorio regolato dall’art. 329 c.p.p. e
rispetto ai quali non può esercitarsi l’accesso se non nelle forme
consentite dalla partecipazione al procedimento penale cui essi ineriscono.
Il Comune chiede di conoscere un parere in merito all’ambito di esercizio
dei diritti spettanti ai consiglieri comunali ai sensi dell’articolo 43 del
decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 e in particolare, all’istituto
dell’interrogazione e del diritto di accesso agli atti.
A tal fine riferisce dell’avvenuta presentazione di un’interrogazione da
parte di alcuni consiglieri comunali con la quale veniva chiesto al sindaco
di riferire sui contenuti di un’indagine giudiziaria in corso che interessa
l’amministrazione comunale. Trattandosi di operazioni di indagine sottoposte
al segreto d’ufficio l’Ente desidera sapere quali limitazioni sussistano al
riguardo anche sotto il profilo dell’eventuale sussistenza del diritto di
accesso agli atti spettante agli amministratori locali.
L’articolo 43 del D.Lgs. 267/2000, al comma 1, prevede che i consiglieri
comunali abbiano diritto di presentare interrogazioni e mozioni mentre il
successivo comma 3 stabilisce che il sindaco o l’assessore da esso delegato
risponde, “entro 30 giorni, alle interrogazioni e ad ogni istanza di
sindacato ispettivo presentata dai consiglieri. Le modalità della
presentazione di tali atti e delle relative risposte sono disciplinate dallo
statuto e dal regolamento consiliare”.
Il regolamento dell’Ente disciplina l’istituto delle interrogazioni e delle
istanze di sindacato ispettivo all’articolo 34 precisando, al comma 1, che
l’interrogazione “è definita come la domanda, singola o collettiva, che i
Consiglieri possono rivolgere al Sindaco o alla Giunta, nel rispetto delle
singole competenze, per avere notizia sulla veridicità di qualche fatto ed
informazione, su eventuali provvedimenti adottati o che si presumono siano
da adottare. Non può eccedere i cinque minuti”.
Si tratta di un istituto il cui utilizzo è garantito ai consiglieri comunali
al fine di poter esercitare il proprio munus publicum. La facoltà di
presentare interrogazioni, interpellanze e ordini del giorno rientra tra le
funzioni di sindacato ispettivo attribuite dalla legge agli amministratori
locali. Si tratta di istituti finalizzati a garantire la funzione propria
del consigliere comunale che è quella di verificare che il sindaco e la
giunta esercitino correttamente la loro attività di governo.
Analoga ratio sorregge l’istituto del diritto di accesso spettante agli
amministratori locali il quale trova la sua fonte normativa di riferimento
nell’articolo 43, comma 2, TUEL il quale recita: “I consiglieri comunali
e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del
comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti,
tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento
del proprio mandato. Essi sono tenuti al segreto nei casi specificamente
determinati dalla legge”.
La giurisprudenza ha, infatti, costantemente sottolineato che le
informazioni acquisibili devono considerare l’esercizio, in tutte le sue
potenziali esplicazioni, del munus di cui ciascun consigliere
comunale è individualmente investito, in quanto membro del consiglio. Ne
deriva che tale munus comprende la possibilità per ogni consigliere
di compiere, attraverso la visione dei provvedimenti adottati e
l’acquisizione di informazioni, una compiuta valutazione della correttezza e
dell’efficacia dell’operato dell’amministrazione comunale, utile non solo
per poter esprimere un voto maggiormente consapevole sugli affari di
competenza del consiglio, ma anche per promuovere, nell’ambito del consiglio
stesso, le varie iniziative consentite dall’ordinamento ai membri di quel
collegio [1].
Premesso quanto sopra necessita ora soffermarsi sui limiti cui soggiacciono
i diritti di cui sopra e, in particolare, per ciò che rileva in questa sede,
sull’obbligo al segreto istruttorio che impedisce l’ostensione dei documenti
coperti dal segreto e, in parallelo, altresì, la diffusione di ogni
informazione concernente le indagini giudiziarie in corso e per le quali
sussiste l’obbligo alla segretezza.
Come affermato dalla dottrina [2]
«la giurisprudenza ha chiarito che l’innovazione legislativa introdotta
con il T.U.E.L. non poteva travolgere le diverse ipotesi di segreto previste
dall’ordinamento, anche in presenza di documenti formati o detenuti
dall’amministrazione.
L’esistenza di ipotesi speciali di segreto è stata esplicitata dall’art. 24,
comma 1, lett. a), della legge 241/1990 che esclude il diritto di accesso
“(…) nei casi di segreto o di divieto di divulgazione espressamente previsti
dalla legge (…)”, riferendosi a casi in cui l’esigenza di segretezza è volta
alla protezione di “interessi di natura e consistenza diversa da quelli
genericamente amministrativi” [3].
Si è così affermato che il diritto non è esercitabile nei confronti di
alcuni tipi di atti […] da ritenersi segreti e non sufficientemente protetti
dal semplice obbligo di non divulgazione delle notizie ivi riportate.
[4]
Se così non fosse, l’accesso del consigliere ai documenti coperti da segreto
“assumerebbe una portata oggettiva più ampia di quella riconosciuta ai
cittadini ed ai titolari di posizioni giuridiche differenziate (pure
comprensive di situazioni protette a livello costituzionale)”
[5].
Le esigenze connesse all’espletamento del mandato non potrebbero, pertanto,
autorizzare un privilegio incondizionato a scapito di altri soggetti
interessati e a sacrificio degli interessi tutelati dalla normativa sul
segreto».
Tra i casi di segreto previsti dall’ordinamento a preclusione del diritto di
accesso rientra quello istruttorio in sede penale, delineato dall’art. 329
c.p.p. a tenore del quale “Gli atti d'indagine compiuti dal pubblico
ministero e dalla polizia giudiziaria, le richieste del pubblico ministero
di autorizzazione al compimento di atti di indagine e gli atti del giudice
che provvedono su tali richieste sono coperti dal segreto fino a quando
l'imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura
delle indagini preliminari” [6].
In questo senso si è espressa la giurisprudenza la quale ha affermato che: “I
consiglieri hanno l’incondizionato diritto di accesso a tutti gli atti che
possano essere d’utilità all’espletamento del loro mandato, al fine di
permettere loro di valutare –con piena cognizione– la correttezza e
l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, nonché per promuovere, anche
nell’ambito del Consiglio comunale, le iniziative che spettano ai singoli
rappresentanti del corpo elettorale locale. […] diverso discorso è invece da
farsi relativamente agli ulteriori atti di indagine penale, eventualmente
delegata, che rientrano nel segreto istruttorio regolato dall’art. 329 c.p.p. e rispetto ai quali non può esercitarsi l’accesso se non nelle forme
consentite dalla partecipazione al procedimento penale cui essi ineriscono”
[7].
Nello stesso senso si è espresso anche il Ministero dell’Interno[8] il
quale, nel fare proprie due pronunce del Consiglio di Stato
[9] ha osservato che: «L'Alto
Consesso ha ritenuto che la posizione dei consiglieri comunali non possa
essere talmente privilegiata da consentire loro l'accesso a tutti i
documenti, anche segreti, dell'amministrazione, assumendo solo l'obbligo di
non divulgare le relative notizie. […] Se ne deduce, così, che il diritto di
accesso del consigliere comunale, da esercitarsi riguardo ai dati
effettivamente utili all'esercizio del mandato ed ai soli fini di questo,
deve essere coordinato con altre norme vigenti, come quelle che tutelano il
segreto delle indagini penali o la segretezza della corrispondenza e delle
comunicazioni […]».
---------------
[1] Si veda, tra le altre, Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del
29.08.2011, n. 4829.
[2] R. Cicatelli, “Il diritto di accesso del consigliere comunale agli atti
della magistratura della Corte dei Conti. Nota alla sentenza del Consiglio
di Stato, sez. V, 02.01.2019, n. 12”, in “Il Piemonte delle Autonomie”,
2019.
[3] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 02.04.2001, n. 1893.
[4] Si riportano le parole del Consiglio di Stato espresse nella sentenza
1893/2001: “Con riguardo alla posizione specifica dei consiglieri comunali,
occorre chiarire la portata della espressione normativa "essi sono tenuti al
segreto nei casi specificamente determinati dalla legge" (articolo 43, comma
2, del T.U. 18.08.2000 n. 267). La norma, per la sua collocazione
sistematica e per il suo significato letterale, intende ribadire la regola
secondo cui, lecitamente acquisite e le informazioni e le notizie utili
all'espletamento del mandato, il consigliere, di regola, è autorizzato a
divulgarle. Un divieto di comunicazione a terzi deve derivare da apposita
disposizione normativa.
In tale prospettiva si spiega, coerentemente, il rapporto tra la disciplina
sulla protezione dei dati personali e la pretesa all'accesso del consigliere
comunale. Questi è legittimato ad acquisire le notizie ed i documenti
concernenti dati personali, anche sensibili, poiché, di norma, tale attività
costituisce "trattamento" autorizzato da specifica disposizione legislativa
(legge n. 675/1996; decreto legislativo n. 135/1999), secondo le regole
integrative fissate dalle determinazioni ed autorizzazioni generali del
Garante e dagli atti organizzativi delle singole amministrazioni.
Ma il consigliere comunale non può comunicare a terzi i dati personali (in
particolare quelli sensibili) se non ricorrono le condizioni indicate dalla
normativa in materia di tutela della riservatezza.
Questi principi sono alla base della decisione n. 940/2000 della Sezione, la
quale ammette l'accesso del consigliere comunale anche nei casi in cui esso
incide sulla riservatezza dei terzi, senza affrontare la diversa questione
dell'accesso ai documenti coperti dal segreto, per la tutela di diversi
interessi.
Non è plausibile, invece, la tesi secondo cui il consigliere comunale, in
tale veste, potrebbe accedere a tutti i documenti, anche segreti,
dell'amministrazione, assumendo solo l'obbligo di non divulgare le relative
notizie.
In tal modo, l'accesso ai documenti del consigliere comunale, ritenuto
prevalente anche sul segreto professionale, assumerebbe una portata
oggettiva più ampia di quella riconosciuta ai cittadini ed ai titolari di
posizioni giuridiche differenziate (pure comprensive di situazioni protette
a livello costituzionale). Il mandato politico-amministrativo affidato al
consigliere esprime certamente il principio democratico dell'autonomia
locale e della rappresentanza esponenziale della collettività, ma,
nell'attuale contesto normativo, non può autorizzare un privilegio così
marcato, a scapito degli altri soggetti interessati alla conoscenza dei
documenti amministrativi e con sacrificio degli interessi tutelati dalla
normativa sul segreto.”
[5] Consiglio di Stato, sentenza n. 1893/2001, citata in nota 3.
[6] Per completezza espositiva si segnala che il testo dell’articolo come
sopra riportato è stato così modificato dal decreto legislativo 29.12.2017,
n. 216, il quale all’articolo 2, comma 1, lett. f), ha inserito all'articolo
329, comma 1, dopo le parole: «e dalla polizia giudiziaria» le seguenti: «,
le richieste del pubblico ministero di autorizzazione al compimento di atti
di indagine e gli atti del giudice che provvedono su tali richieste».
Il successivo articolo 9, al comma 1 (così modificato dall’art. 2, comma 1,
del D.L. 25.07.2018, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla legge
21.09.2018, n. 108, dall’art. 1, comma 1139, lett. a), n. 1), della legge
30.12.2018, n. 145, a decorrere dal 01.01.2019, e, successivamente,
dall’art. 9, comma 2, lett. a), D.L. 14.06.2019, n. 53) ha, peraltro,
stabilito che la disposizione di cui all’articolo 2 si applica alle
operazioni di intercettazione relative a provvedimenti autorizzativi emessi
dopo il 31.12.2019.
[7] TAR Trento, sez. I, sentenza del 07.05.2009, n. 143. Nello stesso senso
si veda Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 28.10.2016, n. 4537; TAR
Sicilia, Catania, sentenza del 25.07.2017, n. 1943; TAR Potenza, sentenza
del 14.12.2005, n. 1028.
[8] Ministero dell’Interno, parere del 13.02.2004.
[9] Rispettivamente Consiglio di Stato, sentenza 1893/2001, già citata in
nota 3, e Consiglio di Stato, sentenza del 26.09.2000, n. 5105 (02.08.2019
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luglio 2019 |
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CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Incarichi a contratto misurati. Non sono strumenti ordinari per
coprire. Il Tar Calabria chiarisce la portata limitata del dlgs 267 (art.
110).
A giudizio del Tar, l’incarico è stato attribuito
senza tenere in alcun modo conto della circostanza relativa alla presenza
nel proprio organico dei ricorrenti, dipendenti a tempo indeterminato.
Gli incarichi a contratto non sono uno strumento ordinario di copertura dei
fabbisogni e possono essere assegnati esclusivamente nel caso di dimostrata
assenza nell'organico di professionalità.
La
sentenza 17.07.2019 n. 456 del TAR Calabria-Reggio Calabria
chiarisce la portata limitata delle disposizioni dell'articolo 110 del dlgs
267/2000, evidenziando i corretti presupposti e condizioni per attivare gli
incarichi a contratto. Il Tar ha annullato la deliberazione con la quale era
stata decisa l'assunzione di un responsabile di servizio (in un comune privo
di dirigenti) ai sensi dell'articolo 110 del Tuel (Testo unico enti locali),
per violazione delle disposizioni normative, per altro ponendo le spese a
carico del comune soccombente e trasmettendo il fascicolo alla procura della
Corte dei conti.
A giudizio del Tar, l'incarico è stato attribuito «senza tenere in alcun
modo conto della circostanza relativa alla presenza nel proprio organico dei
ricorrenti, dipendenti a tempo indeterminato la cui idoneità professionale a
ricoprire l'incarico in discorso non è mai stata contestata e, dall'altro,
che non ha assolto minimamente all'onere di esplicitare le ragioni per cui
si è ritenuto di dover ricorrere alla procedura in discorso».
Il comune ha violato le previsioni dell'art. 19, comma 6, del dlgs 165/2001,
norma da applicare obbligatoriamente insieme con l'art. 110 del Tuel. La
difesa dell'ente locale aveva espresso la tesi secondo la quale i contratti
di cui all'articolo 110 del Tuel non richiederebbero la previa, necessaria,
valutazione circa l'esistenza di analoghe professionalità all'interno
dell'ente, è stata respinta. Il Tar spiega che detta tesi «si scontra con
la necessità di leggere la norma in discorso in connessione con gli artt. 19
comma 6, 7 comma 6 e 36 del dlgs 165/2001».
Proprio il comma 6 dell'art. 19 del dlgs 165/2001 impone di motivare gli
incarichi a contratto a partire proprio dalla rilevazione dell'assenza
irrimediabile di professionalità interne. Tale dimostrazione, spiega il Tar,
è necessaria perché sia rispettato il principio di «autosufficienza»
del personale, secondo il quale «ogni ente pubblico, dallo Stato all'ente
locale, deve provvedere ai propri compiti con la propria organizzazione ed
il proprio personale».
Il fondamento di tale principio, prosegue la sentenza, deriva non solo non
solo «dal canone costituzionale di buona amministrazione, di cui i
principi di efficacia ed economicità dell'azione amministrativa
costituiscono attuazione, ma anche nella considerazione che -atteso che ogni
ente pubblico ha una sua organizzazione e un suo personale- è con questa
organizzazione e con questo personale che l'ente deve attendere alle sue
funzioni».
Da qui la fondamentale statuizione: utilizzare personale esterno alla
dotazione organica è ammesso, ma entro limiti ristretti. Non solo occorre
che gli incarichi a contratto si attivino nei limiti ed alle condizioni in
cui la legge lo consenta, ma è necessario dimostrare che si tratti di un
rimedio straordinario ad una carenza temporanea di professionalità. Infatti,
afferma il Tar, «tutte le forme di esternalizzazione dell'attività
pubblica quali le consulenze, le collaborazioni esterne, i contratti a tempo
determinato, hanno la comune e generale funzione di acquisire
professionalità qualitativamente e quantitativamente assenti nella pubblica
amministrazione, oppure quella di sopperire ad esigenze eccezionali ed
impreviste, di natura transitoria».
Di conseguenza gli incarichi ai sensi dell'art. 110 non solo debbono essere
preceduti dalla dimostrata assenza di professionalità, non solo debbono
essere affidati a persone dotati di una competenza estremamente peculiare e
in possesso dei particolari requisiti imposti dall'art. 19, comma 6, dlgs
165/2001, ma debbono essere necessariamente connessi ad esigenze
transitorie, alle quali porre rimedio in via definitiva con l'adeguamento
della dotazione organica e, quindi, l'assunzione in ruolo delle
professionalità mancanti, così da rispettare il principio di autosufficienza
e non ripetere all'infinito il ricorso agli incarichi a contratto,
trasformandoli surrettiziamente in strumenti di ordinaria copertura dei
fabbisogni (articolo ItaliaOggi del 28.12.2019).
---------------
SENTENZA
... per l'annullamento:
- della deliberazione n. 4 del 27.06.2016, pubblicata all’Albo
Pretorio il 05.07.2016, con la quale è stata approvata la programmazione del
fabbisogno di personale a tempo determinato;
- del successivo Avviso pubblico del 12.07.2016 per l’assunzione di
un funzionario tecnico categoria D3 ai sensi dell’art. 110, comma 1, del
D.Lgs. 267/2000;
- della deliberazione n. 27 del 12.08.2016, avente ad oggetto il
conferimento dell’incarico di funzionario tecnico ai sensi dell’art. 110,
comma 1, del D.Lgs. 267/2000.
...
1. Con il ricorso in epigrafe l’Architetto Gi.Ma. e l’Ingegnere Al.Ca.,
entrambi dipendenti a tempo indeterminato del Comune di Rosarno, chiedono
l’annullamento della deliberazione n. 4 del 27.06.2016, con la quale è stata
approvata la programmazione del fabbisogno di personale a tempo determinato
dell’ente per l’anno 2016, del successivo avviso pubblico del 12.07.2016 per
l’assunzione di un funzionario tecnico categoria D3, ai sensi dell’art. 110,
comma 1, del d.lgs 267/2000, nonché della deliberazione n. 27 del 12.08.2016
avente ad oggetto il conferimento dell’incarico di funzionario tecnico ai
sensi dell’art. 110, comma 1, del d.lgs 267/2000.
2. Espongono in fatto i ricorrenti che, all’esito dell’approvazione (di cui
alla Delibera del Commissario Prefettizio n. 35 del 27.08.2015) del nuovo
organigramma dell’Ente, e dell’accorpamento (di cui alla successiva Delibera
del Commissario Prefettizio n. 51 del 14.04.2016) delle due aree tecniche –“Lavori
Pubblici” e “Urbanistica ed Edilizia”- in un’unica unità
operativa complessa, gli stessi venivano privati della responsabilità di
posizione organizzativa di cui godevano prima delle citate modifiche alla
struttura burocratica del comune e che, all’esito delle elezioni
amministrative del 2016, la nuova amministrazione insediatasi decideva di
procedere, con i provvedimenti gravati, a reperire all’esterno il
funzionario a cui affidare la direzione dell’area tecnica, con contratto a
tempo determinato ex art. 110, comma 1, del TUEL.
3. Contro la detta decisione e contro i conseguenti provvedimenti di
approvazione del bando di selezione e di conferimento dell’incarico al
controinteressato sono perciò insorti i ricorrenti con il ricorso in
epigrafe affidato, alle seguenti censure:
3.1. Violazione e falsa applicazione dell’art. 110, comma 1, del
D.Lgs. n. 267/2000.
L’amministrazione avrebbe omesso di considerare che, in seno alla struttura
burocratica del comune, erano già in servizio gli odierni ricorrenti, sicché
il provvedimento gravato sarebbe stato adottato in difetto della condizione
normativa che consente di attivare i contratti a tempo determinato solo in
assenza di analoghe professionalità, nei ruoli dell'Amministrazione.
Il provvedimento impugnato, per altro verso, violerebbe l’art. 9, comma 28,
del D.L. 78/2010, il quale stabilisce che, a decorrere dall'anno 2011, le
Amministrazioni dello Stato e degli altri enti pubblici anche ad ordinamento
autonomo, possono avvalersi di personale a tempo determinato o con
convenzioni ovvero con contratti di collaborazione coordinata e
continuativa, nel limite del 50% della spesa sostenuta per le stesse
finalità nell’anno 2009.
3.2. Violazione di legge e, in particolare, dell'art. 3 della legge
n. 241/1990 per omessa e/o insufficiente motivazione del provvedimento.
Sarebbe evidente il vizio di motivazione del provvedimento gravato, che, in
violazione anche dell’art. 19, comma 6, del dlgs 165/2001, non
rappresenterebbe né l’esigenza di una specifica qualificazione
professionale, non rinvenibile nei ruoli dell'Amministrazione, né le ragioni
del ricorso all’incarico a contratto, invece che al concorso pubblico.
3.3. Violazione del legittimo affidamento dei ricorrenti.
Si sostiene che i ricorrenti, in possesso dei requisiti professionali
richiesti per l’espletamento dell’incarico, hanno visto del tutto disattesa
la propria aspettativa di continuare a ricoprire la predetta posizione
lavorativa. L’Amministrazione intimata avrebbe, infatti, leso il loro
legittimo affidamento attraverso la decisione di assumere a tempo
determinato un nuovo funzionario tecnico nonostante la presenza di analoghi
profili professionali nei ruoli dell’Amministrazione.
...
5.1. Vanno preliminarmente scrutinate le eccezioni preliminari formulate
dalla resistente amministrazione, che il Collegio giudica infondate.
Quanto alla eccezione di inammissibilità del ricorso per mancata
partecipazione dei ricorrenti alla procedura selettiva, in disparte ogni
considerazione sul fatto che, seguendo la tesi della resistente
amministrazione, l’architetto Ma., avrebbe dovuto, per continuare a
coltivare il proprio interesse a ricorrere, partecipare ad una selezione per
una qualifica già posseduta, appare evidente che il vulnus alle
posizioni giuridiche di entrambi i ricorrenti si è perfezionato con la
scelta dell’amministrazione di procedere a reperire all’esterno la
professionalità a cui affidare la direzione dell’area tecnica.
In altri termini, la lesione della sfera giuridica dei ricorrenti era già
compiuta al momento dell’indizione della procedura selettiva ex art. 110,
co. 1, del TUEL e nessun rilievo può avere, ai fini del radicamento
dell’interesse a ricorrere, la loro mancata partecipazione alla ridetta
selezione, per altro evidentemente rivolta a selezionare all’esterno del
personale dell’ente il soggetto a cui conferire l’incarico.
Il Collegio reputa altresì prive di fondamento le eccezioni di
improcedibilità del ricorso legate ai successivi provvedimenti
amministrativi adottati dall’ente (la proroga del contratto del
controinteressato o addirittura i provvedimenti di riorganizzazione della
struttura). Le descritte circostanze, in uno con quella relativa allo
scadere del contratto di lavoro del controinteressato, anche se
determinassero la cessazione degli effetti dei provvedimenti gravati, non
potrebbero comunque considerarsi idonee a far venir meno l’interesse alla
decisione dei ricorrenti che potrebbero, nei termini prescritti dall’art.
30, comma 5, del codice del processo amministrativo, attivare la tutela
risarcitoria, come già ipotizzato in ricorso.
6. Nel merito, risultano, nei termini di cui si dirà, fondati ed assorbenti
i primi due motivi di ricorso.
La tesi della resistente amministrazione secondo la quale i
contratti ex 110, comma 1, del TUEL non richiedono la previa, necessaria,
valutazione circa l’esistenza di analoghe professionalità all’interno
dell’ente, si scontra con la necessità di leggere la norma in discorso in
connessione con gli artt. 19 comma 6, 7 comma 6 e 36 del dlgs 165/2001, che,
in disparte ogni altra considerazione, è resa ineludibile per tabulas
dalla mera lettura dell’art. 88 del dlgs 267/2000 a mente del quale “All'ordinamento
degli uffici e del personale degli enti locali, ivi compresi i dirigenti ed
i segretari comunali e provinciali, si applicano le disposizioni del decreto
legislativo 03.02.1993, n. 29 e successive modificazioni ed integrazioni, e
le altre disposizioni di legge in materia di organizzazione e lavoro nelle
pubbliche amministrazioni nonché quelle contenute nel presente testo unico.”
In altri termini, la procedura finalizzata alla copertura
dei posti di responsabili dei servizi o degli uffici, di qualifiche
dirigenziali o di alta specializzazione, mediante contratto a tempo
determinato, ai sensi dell’art. 110, comma 1, del TUEL, non può derogare dal
rispetto delle prescrizioni dell’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001,
il quale fornisce due fondamentali e correlate indicazioni:
- l’incarico può essere conferito a soggetti esterni a condizione
che la correlata professionalità sia “non rinvenibile nei ruoli
dell'Amministrazione”; occorre, quindi, preliminarmente dimostrare,
l’assenza totale nei ruoli dell’amministrazione di persone aventi la
professionalità necessaria;
- gli “incarichi sono conferiti, fornendone esplicita
motivazione”, la quale è funzionale alla verifica della particolare e
comprovata qualificazione professionale, richiesta ai funzionari da
sottoporre a selezione, e della insussistenza di professionalità equivalenti
all’interno dell’ente, anche ai fini del controllo della Corte dei Conti
sugli atti di conferimento dei predetti incarichi
(Cass. civ. Sez. lavoro,
sentenza 22.02.2017 n. 4621).
6.2. Tanto premesso, il Collegio non può esimersi dal
ricordare come sia un principio basilare del nostro ordinamento, da tempo
unanimemente riconosciuto dalla giurisprudenza contabile, quello in virtù
del quale ogni ente pubblico, dallo Stato all'ente locale, deve provvedere
ai propri compiti con la propria organizzazione ed il proprio personale.
Detto principio trova in realtà il suo fondamento non solo
nel canone costituzionale di buona amministrazione, di cui i principi di
efficacia ed economicità dell'azione amministrativa costituiscono
attuazione, ma anche nella considerazione che -atteso che ogni ente pubblico
ha una sua organizzazione e un suo personale- è con questa organizzazione e
con questo personale che l'ente deve attendere alle sue funzioni.
La possibilità di ricorrere a personale esterno è ammessa
nei limiti ed alle condizioni in cui la legge la preveda, stante che tutte
le forme di esternalizzazione dell'attività pubblica quali le consulenze, le
collaborazioni esterne, i contratti a tempo determinato, hanno la comune e
generale funzione di acquisire professionalità qualitativamente e
quantitativamente assenti nella pubblica amministrazione, oppure quella di
sopperire ad esigenze eccezionali ed impreviste, di natura transitoria.
6.3. Tanto premesso, nel caso di specie,
dall’esame della documentazione versata in atti, risulta
pacificamente, da un lato, che il Comune di Rosarno ha attivato la
procedura di cui all’art. 110, comma 1, del TUEL senza tenere in alcun modo
conto della circostanza relativa alla presenza nel proprio organico dei
ricorrenti, dipendenti a tempo indeterminato la cui idoneità professionale a
ricoprire l’incarico in discorso non è mai stata contestata e, dall’altro,
che non ha assolto minimamente all’onere di esplicitare le ragioni per cui
si è ritenuto di dover ricorrere alla procedura in discorso.
7. In conclusione, il ricorso deve essere accolto con conseguente
annullamento degli atti impugnati. |
CONSIGLIERI COMUNALI: Il
consigliere comunale può avere le credenziali di accesso a protocollo e
sistema contabile dell'ente.
Il diritto di accesso dei consiglieri comunali ex art.
43 cit. del TUEL va oggi necessariamente correlato al progressivo e radicale
processo di digitalizzazione dell’organizzazione e dell’attività
amministrativa, risultante dal Codice dell’Amministrazione digitale.
Tale disciplina, per quanto di rilievo, impone allo Stato, alle regioni e
alle autonomie locali di assicurare "la disponibilità, la gestione,
l'accesso, la trasmissione, la conservazione e la fruibilità
dell'informazione in modalità digitale", "utilizzando con le modalità più
appropriate le tecnologie dell'informazione e della comunicazione" (cfr.
art. 2, co. 1), precisando che "i dati delle pubbliche amministrazioni sono
formati, raccolti, conservati, resi disponibili e accessibili con l'uso
delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione che ne consentano
la fruizione e riutilizzazione, alle condizioni fissate dall'ordinamento, da
parte delle altre pubbliche amministrazioni e dei privati" (cfr. art. 50,
co. 1).
Partendo dalla lettura combinata di tali precisi riferimenti normativi, la
più recente giurisprudenza amministrativa è giunta alla condivisibile
conclusione per cui l'Amministrazione comunale ha il dovere di dotarsi di
una piattaforma integrata di gestione documentale, nell'ambito della quale è
inserito anche il protocollo informatico. Corrispondentemente, il
consigliere comunale ha il diritto di soddisfare le esigenze conoscitive
connesse all’espletamento del suo mandato anche attraverso la modalità
informatica, con accesso da remoto.
---------------
Al ricorrente va, dunque, riconosciuto il diritto ad accedere da remoto al
protocollo informatico e al sistema informatico contabile dell’Ente, con
corrispondente obbligo per il Comune di approntare le necessarie modalità
organizzative, sia pure con alcune necessarie limitazioni.
In particolare, al fine di evitare ogni accesso indiscriminato alla totalità
dei documenti protocollati, il Collegio è dell’avviso che l’accesso da
remoto vada consentito in relazione ai soli dati di sintesi ricavabili dalla
consultazione telematica del protocollo, non potendo essere esteso al
contenuto della documentazione, la cui acquisizione rimane soggetta alle
ordinarie regole in materia di accesso (tra le quali la necessità di
richiesta specifica).
---------------
... per l'annullamento della nota del Comune di Vietri di Potenza, prot. 467
del 16/01/2019, di diniego e rifiuto in ordine alla richiesta del 17/12/2018
di rilascio delle credenziali e della password di accesso da remoto al
protocollo informatico e al sistema informatico contabile dell'Ente.
...
1. Con il ricorso in epigrafe, spedito per la notificazione in data
09/02/2019, il sig. Ca.Gr., nella sua qualità di consigliere comunale di
minoranza del Comune di Vietri di Potenza, ha impugnato il provvedimento
comunale, prot. 467 del 16/01/2019, con cui non è stata accolta la sua
richiesta, formulata in data 17/12/2018, di rilascio delle credenziali per
accesso da remoto al protocollo informatico e al sistema informatico
contabile dell’Ente.
1.1. Il provvedimento comunale è motivato in quanto “l’applicativo
riferito al protocollo non è ancora funzionante al 100% e pertanto
vulnerabile ad eventuali azioni di hacheraggio”.
1.2. Il ricorso è affidato al seguente motivo:
- Interesse ad agire; Violazione e falsa applicazione degli artt.
3, 97 costituzione; Violazione e falsa applicazione dell’art. 43 del d.lgs.
267/2000 e degli artt. 22 e ss l. 241/1990; Violazione e falsa applicazione
del d.lgs. n. 82 del 07.03.2005; Violazione e falsa applicazione del
principio di economicità dell’azione amministrativa; Eccesso di potere per
contraddittorietà incongruità, illogicità ed irragionevolezza, carenza di
istruttoria e di motivazione-mancato esercizio dell’azione amministrativa.
Mancata valutazione degli interessi in gioco - sviamento-carenza assoluta di
istruttoria-omessa valutazione dei presupposti giuridici - violazione del
giusto procedimento e dell’agire amministrativo-ingiustizia manifesta.
Il provvedimento sarebbe illegittimo in quanto contrastante con l’art. 43
del d.lgs. n. 267/2000 (Testo unico enti locali), che riconosce ai
consiglieri comunali e provinciali il “diritto di ottenere dagli uffici,
rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed
enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili
all’espletamento del loro mandato”.
Tale diritto dovrebbe essere esercitabile anche con modalità elettroniche,
stante quanto disposto dall’art. 2 del d.lgs. n. 82/2005 (Codice
dell’Amministrazione digitale), secondo cui “le autonomie locali
assicurano la disponibilità, la gestione, l’accesso, la trasmissione, la
conservazione e la fruibilità dell’informazione in modalità digitale e si
organizzano ed agiscono a tal fine utilizzando con le modalità più
appropriate e nel modo più adeguato al soddisfacimento degli interessi degli
utenti le tecnologie dell’informazione e della comunicazione”.
In tal senso non sarebbe apprezzabile la giustificazione addotta dal Comune
a fondamento del mancato accoglimento della richiesta di accesso da remoto.
D’altra parte, la ritenuta esistenza di problemi nell’applicativo
sembrerebbe contraddetta dalla circostanza che il medesimo Comune, in data
04/07/2018, avrebbe acconsentito ad analoga richiesta proveniente da altro
consigliere comunale.
2. Si è costituito in giudizio il Comune di Vietri di Potenza che resiste
all’accoglimento del ricorso in quanto l’Amministrazione si sarebbe limitata
a rinviare l’accesso, ma non a negarlo. Inoltre, la richiesta modalità di
accesso non sarebbe ammissibile in quanto renderebbe possibile un accesso
generalizzato all’attività amministrativa, svincolato dall’esercizio del
mandato elettorale.
3. Alla camera di consiglio del 03/07/2019 il ricorso è stato trattenuto in
decisione.
4. Il ricorso è fondato nei sensi di seguito esposti.
Deve ritenersi che il diritto di accesso dei consiglieri comunali ex art. 43
cit. del TUEL, cui è funzionalmente connessa la richiesta del ricorrente, va
oggi necessariamente correlato al progressivo e radicale processo di
digitalizzazione dell’organizzazione e dell’attività amministrativa,
risultante dal Codice dell’Amministrazione digitale.
Tale disciplina, per quanto di rilievo, impone allo Stato, alle regioni e
alle autonomie locali di assicurare "la disponibilità, la gestione,
l'accesso, la trasmissione, la conservazione e la fruibilità
dell'informazione in modalità digitale", "utilizzando con le modalità
più appropriate le tecnologie dell'informazione e della comunicazione" (cfr.
art. 2, co. 1), precisando che "i dati delle pubbliche amministrazioni
sono formati, raccolti, conservati, resi disponibili e accessibili con l'uso
delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione che ne consentano
la fruizione e riutilizzazione, alle condizioni fissate dall'ordinamento, da
parte delle altre pubbliche amministrazioni e dei privati" (cfr. art.
50, co. 1).
Partendo dalla lettura combinata di tali precisi riferimenti normativi, la
più recente giurisprudenza amministrativa è giunta alla condivisibile
conclusione per cui l'Amministrazione comunale ha il dovere di dotarsi di
una piattaforma integrata di gestione documentale, nell'ambito della quale è
inserito anche il protocollo informatico. Corrispondentemente, il
consigliere comunale ha il diritto di soddisfare le esigenze conoscitive
connesse all’espletamento del suo mandato anche attraverso la modalità
informatica, con accesso da remoto (cfr. TAR Campania, Salerno, sez. II,
04.04.2019, n. 545; TAR Sardegna, 04.04.2019, n. 317).
Alla luce di tali assunti, va rilevata l’illegittimità della nota impugnata,
in quanto recante un sostanziale e ingiustificato diniego alla richiesta
ostensiva del ricorrente, in violazione dell’art. 43 TUEL. Invero,
l’esigenza conoscitiva del ricorrente è rimasta insoddisfatta sine die
e comunque sino al momento di assunzione in decisione del ricorso, malgrado
il decorso di diversi mesi dalla sua introduzione, nel corso dei quali
l’Amministrazione nulla ha fatto per rimuovere i presunti ostacoli di
sicurezza informatica opposti al ricorrente. Questi ultimi, peraltro,
soltanto asseriti ma non provati nella loro oggettività e, dunque, non
apprezzabili in questa sede.
Né può rilevare, secondo quanto ulteriormente esposto dal Comune, che il
provvedimento si è limitato a differire il rilascio delle credenziali, posto
che il ritardo nell’approntamento degli eventuali accorgimenti tecnologici
(che a tacer d’altro corrispondono all’adempimento di un preciso ed
inderogabile dovere legale) non può comunque andare a detrimento del pieno e
incondizionato esercizio delle prerogative connesse all’esercizio del
mandato elettorale.
D’altra parte, sotto tale profilo, va anche rilevato che, come
documentalmente dedotto dal ricorrente e non contestato dal Comune (cfr.
art. 64 cod. proc. amm.), il medesimo Ente, in data 04/07/2018, ha
acconsentito ad analoga richiesta proveniente da altro consigliere comunale,
senza addurre alcun elemento ostativo. Circostanza che depone nel senso
dell’inattendibilità della motivazione addotta a fondamento della nota
comunale.
Al ricorrente va, dunque, riconosciuto il diritto ad accedere da remoto al
protocollo informatico e al sistema informatico contabile dell’Ente, con
corrispondente obbligo per il Comune di approntare le necessarie modalità
organizzative, sia pure con alcune necessarie limitazioni.
In particolare, al fine di evitare ogni accesso indiscriminato alla totalità
dei documenti protocollati, il Collegio è dell’avviso che l’accesso da
remoto vada consentito in relazione ai soli dati di sintesi ricavabili dalla
consultazione telematica del protocollo, non potendo essere esteso al
contenuto della documentazione, la cui acquisizione rimane soggetta alle
ordinarie regole in materia di accesso (tra le quali la necessità di
richiesta specifica).
5. In conclusione, il ricorso deve essere accolto e, per l’effetto, va
annullata la nota comunale impugnata e va ordinato al Comune di Vietri di
Potenza di apprestare, entro il termine di sessanta giorni decorrente dalla
pubblicazione o dalla comunicazione in via amministrativa della presente
sentenza, le modalità organizzative per il rilascio in favore del
consigliere comunale ricorrente di credenziali per l'accesso da remoto al
protocollo informatico e al sistema informatico contabile dell’Ente, ferme
restando le limitazione dianzi esplicitate
(TAR Basilicata,
sentenza 10.07.2019 n. 599 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Presidente non revocabile. Decide la
maggioranza, non il capogruppo. Sulla disciplina
delle commissioni lo statuto rinvia al regolamento dell’ente
Può essere revocato il presidente di una delle commissioni permanenti in
virtù di una mera comunicazione effettuata dal proprio capogruppo al
presidente del consiglio comunale?
L'articolo 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000 demanda allo
statuto l'istituzione facoltativa delle commissioni consiliari, con il solo
vincolo del rispetto del criterio proporzionale nella loro composizione. I
poteri, l'organizzazione e le forme di pubblicità dei lavori sono demandati
al regolamento.
Lo statuto di un ente dispone che i presidenti delle commissioni consiliari
permanenti sono eletti fra i componenti di ciascuna commissione con il voto
della maggioranza dei suoi componenti e cessano dalla carica per dimissioni
o perché lo richiede almeno la maggioranza dei consiglieri componenti,
rinviando al regolamento la disciplina del numero delle commissioni, la loro
composizione, i poteri, l'organizzazione e tutto ciò che attiene al loro
funzionamento.
Il regolamento comunale prevede che le commissioni sono composte mediante
designazione da parte dei gruppi consiliari con proposta scritta di ciascun
presidente del gruppo al presidente del consiglio.
Con una espressione difforme dalla previsione statutaria, viene stabilito
che «il presidente del consiglio, preso atto della costituzione delle
commissioni procede alla elezione dei presidenti delle commissioni mediante
votazione palese scegliendoli, per ciascuna commissione tra i componenti
della stessa».
Il decreto legislativo n. 267/2000 non prevede espressamente la possibilità
di revocare il presidente del consiglio. Per quanto concerne la tematica
della ammissibilità della revoca del presidente del consiglio o del
presidente della commissione consiliare, entrambe figure di garanzia, in
carenza di una specifica previsione statutaria, si registrano posizioni
contrastanti in giurisprudenza. In alcune pronunce si tende ad affermarne
l'illegittimità, mentre, in altre, l'assenza nelle norme statutarie di una
specifica disciplina della revoca «non ne inibisce di per sé la
possibilità di ricorrervi» (Tar Lazio n. 8881/2008).
Lo statuto comunale, oltre a disciplinare le modalità di elezione dei
presidenti, fornisce anche chiare indicazioni in ordine alla loro cessazione
dalla carica, è a queste che, occorre attenersi.
Pertanto, fatte salve le dimissioni volontarie dell'interessato, solo la
maggioranza della commissione può deliberarne la sostituzione con altro
componente della medesima commissione, essendo invero limitata l'attività
dei capigruppo consiliari alla mera indicazione dei componenti delle
commissioni su designazione dei gruppi di appartenenza, i quali, tuttavia,
ai sensi del regolamento possono, comunque, sostituire i propri
rappresentanti all'interno delle commissioni
(articolo ItaliaOggi del 05.07.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
La pubblicazione della relazione di fine mandato.
Domanda
Siamo un ente di circa 10mila abitanti e, in prossimità
della scadenza del mandato, desideriamo conoscere
anticipatamente cosa prevede la legge in merito alla
redazione e pubblicazione della Relazione di fine mandato.
Potreste cortesemente sintetizzarci le disposizioni in
materia, comprese le eventuali sanzioni relative?
Risposta
La relazione di fine mandato è sottoposta a precisi vincoli
procedurali, previsti dall’articolo 4 del decreto
legislativo n. 149/2011. I soggetti interessati sono:
a) il responsabile del servizio finanziario, che si occupa del la
redazione o il segretario comunale in sua vece
b) il sindaco, che la deve sottoscrivere;
c) l’organo di revisione che la certifica.
Il termine per l’adempimento è fissato al sessantesimo
giorno antecedente la data di scadenza del mandato.
Entro e non oltre quindici giorni dalla sottoscrizione, la
relazione deve essere certificata dall’organo di revisione
dell’ente locale, che ha il compito di attestare la
veridicità dei contenuti e la loro corrispondenza con i
documenti contabili e di programmazione finanziaria
dell’ente.
Entro i tre giorni successivi, il sindaco, deve trasmettere
la relazione e la certificazione dell’organo di controllo,
alla sezione regionale di controllo della Corte dei Conti.
Entro i sette giorni successivi alla certificazione,
l’ultimo obbligo riguarda la pubblicazione sul sito
istituzionale –queste le precise indicazioni della norma–
con evidenza della data di trasmissione alla sezione
regionale di controllo della Corte dei Conti.
Non viene specificato dove la relazione debba essere
pubblicata. Non dice nulla al riguardo neppure il decreto
legislativo 14 marzo 2013, n. 33/2013, in materia di
obblighi di trasparenza e pubblicazione.
Nel silenzio della norma, si ritiene opportuno che la
relazione venga pubblicata all’interno della sezione ‘Amministrazione
trasparente’ del sito web istituzionale > sotto sezione
‘Organizzazione’ > ‘Organi di indirizzo
politico-amministrativo’.
È, inoltre, consigliabile prevedere la pubblicazione della
relazione di fine mandato anche all’interno della home page
del sito, con la finalità di garantire maggiormente
l’esercizio effettivo del controllo democratico del
cittadino, secondo le indicazioni dei giudici contabili.
La tempistica delle scadenze è rimarcato anche dalle
conseguenze sanzionatorie di carattere pecuniario, che
accompagnano il mancato rispetto dell’obbligo di redazione e
di pubblicazione nel sito dell’ente della relazione di fine
mandato.
Le sanzioni previste consistono nel dimezzamento, per i tre
mesi successivi, delle indennità del sindaco. La
decurtazione si estende, nel solo caso di mancata
predisposizione della relazione, al responsabile finanziario
o al segretario comunale, che non l’hanno predisposta.
La norma richiede, inoltre, che il sindaco dia notizia della
mancata pubblicazione della relazione, motivandone le
ragioni, nella pagina principale del sito istituzionale
dell’ente.
Sull’argomento può essere opportuno, consultare la
deliberazione n. 15/2019/VSG del 23.01.2019 (Corte dei Conti
– sezione regionale di controllo per la Campania), con la
quale sono stati trasmessi alla Procura contabile
competente, gli atti inerenti al mancato invio della
relazione di fine mandato, da parte di un ente coinvolto nel
rinnovo del consiglio comunale.
In particolare, si evidenzia che la Corte dei Conti, nel
disporre l’irrogazione delle conseguenti sanzioni, precisa
che esse sono, in ogni caso, di esclusiva spettanza
dell’ente locale, dovendo essere attuate dagli uffici
appositamente preposti alla liquidazione delle competenze (02.07.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
giugno 2019 |
|
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Il presidente non fa cambi.
Si può prevedere una norma regolamentare che conferisca al presidente del
consiglio comunale il potere di sostituire i consiglieri nell'ambito delle
commissioni consiliari?
La proposta di modifica di un comune del regolamento sulle commissioni
consiliari prevede che ogni consigliere dovrebbe essere rappresentato in
almeno due commissioni. Ove tale obiettivo non si realizzi, si prevede che
sia il presidente del consiglio comunale, sentita la conferenza dei
capigruppo e il gruppo interessato, ad effettuare le sostituzioni
rispettando il criterio della rappresentanza proporzionale tra minoranza e
maggioranza, privilegiando le sostituzioni nell'ambito del medesimo gruppo
o, in caso di impossibilità, operando le relative sostituzioni nell'ambito
dello stesso schieramento.
Al riguardo, si osserva che, come noto, le
commissioni consiliari previste dall'articolo 38, comma 6, del decreto
legislativo n. 267/2000, una volta istituite sulla base di una facoltativa
previsione statutaria, sono disciplinate dal regolamento comunale con
l'unico limite, posto dal legislatore, riguardante il rispetto del criterio
proporzionale nella composizione.
Ciò significa che le forze politiche
presenti in consiglio debbano essere il più possibile rispecchiate anche
nelle commissioni, in modo che in ciascuna di esse sia riprodotto il loro
peso numerico e di voto. Quanto al rispetto del criterio proporzionale
previsto dal citato articolo 38, comma 6, il legislatore non precisa come lo
stesso debba essere declinato in concreto. Il regolamento, a cui sono
demandate la determinazione dei poteri delle commissioni, nonché la
disciplina dell'organizzazione e delle forme di pubblicità dei lavori,
dovrebbe stabilire anche i meccanismi idonei a garantirne il rispetto.
Con
riferimento allo specifico caso, non si rinvengono criticità circa la
previsione concernente la partecipazione di ogni consigliere in almeno due
commissioni, mentre desta perplessità la parte della proposta di modifica
regolamentare che conferisce al presidente il potere di nominare i
commissari effettuando le relative sostituzioni. Tale modifica, infatti, non
sembra coerente con il principio elettivo che regola le commissioni
consiliari.
In virtù di tale modifica la stessa commissione potrebbe essere
partecipata da commissari eletti dal consiglio comunale e da commissari
designati quali sostituti in virtù di un atto adottato da un organo monocratico
(articolo ItaliaOggi del 28.06.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Incompatibilità di un amministratore comunale presidente di
un’associazione che riceve dal Comune un contributo sulla
base di una convenzione stipulata per la gestione di servizi
scolastici.
Sussiste la causa di incompatibilità di
cui all’art. 63, comma 1, punto 2), prima parte, del D. Lgs.
267/2000 per un consigliere comunale che riveste la carica
di presidente di una associazione di solidarietà familiare
che organizza servizi didattico/educativi nell’ambito di un
progetto al quale compartecipa finanziariamente il Comune
stesso.
Il Comune chiede di valutare se sussista la causa di
incompatibilità disciplinata dall’art. 63, comma 1, punto
2), del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 per un
consigliere comunale che riveste la carica di presidente di
una associazione di solidarietà familiare costituita per
favorire l’organizzazione di servizi a sostegno dei compiti
familiari educativi e di cura.
Tra il Comune e l’associazione esiste una convenzione che
disciplina lo svolgimento di attività integrative di
sostegno scolastico/educativo da parte di quest’ultima e
l’uso dei locali di proprietà comunale; il Comune
compartecipa finanziariamente al progetto
didattico-educativo presentato dall’associazione, a titolo
di rimborso spese e tenuto conto delle disponibilità di
bilancio dell’Ente, previa rendicontazione delle spese
sostenute. Il progetto viene gestito attraverso un accordo
di partenariato fra il Comune e l’associazione ed è inserito
nell’ambito degli interventi previsti dalla deliberazione
della Giunta regionale n. 2386 del 14.12.2018, la cui
attuazione è stata delegata all’Azienda per l’Assistenza
Sanitaria del territorio.
Per l’esame della fattispecie segnalata vengono in rilievo
sia l’ipotesi di incompatibilità statuita dall’art. 63,
comma 1, n. 1), seconda parte, sia quella di cui al
successivo n. 2), prima parte, del d.lgs. 267/2000.
La prima norma citata prevede che non possa ricoprire la
carica di consigliere comunale l’amministratore di ente,
istituto o azienda che riceva dal comune, in via
continuativa, una sovvenzione in tutto o in parte
facoltativa, quando la parte facoltativa superi nell’anno il
dieci per cento del totale delle entrate dell’ente.
Per quanto concerne il requisito soggettivo, affinché venga
in rilievo la causa di incompatibilità, il consigliere
comunale deve rivestire all’interno dell’associazione il
ruolo di amministratore, ovvero di persona che possiede
poteri di gestione e/o decisione all’interno dell’ente; nel
caso di specie, la qualità di amministratore del presidente
è indubbia, poiché lo stesso Statuto dell’associazione
prevede all’art. 21 che “Il Presidente agisce in nome e
per conto dell’Associazione e ha la firma sociale”. Per
quanto concerne poi il termine “ente”, esso va inteso
in senso lato e comprende anche gli organismi, come
l’associazione in argomento, privi di personalità giuridica.
[1]
Per quanto concerne il concetto di “sovvenzione”,
questa deve consistere in un’erogazione continuativa a
titolo gratuito, volta a consentire all’ente sovvenzionato
di raggiungere, con l’integrazione del proprio bilancio, le
finalità in vista delle quali è stato costituito. La legge
richiede che la sovvenzione debba possedere complessivamente
tre caratteri: la continuità, nel senso che la sua
erogazione non deve essere una tantum o occasionale, la
notevole consistenza, ovvero il suo apporto deve essere
superiore al dieci per cento delle entrate annuali dell’ente
e la facoltatività (in tutto o in parte), nel senso che non
deve derivare da un obbligo di legge o convenzionale.
[2]
Infine, la dottrina ha sottolineato come il concetto di
sovvenzione si diversifica dal concetto di “corrispettivo”,
per cui non si ha sovvenzione nel caso in cui la somma
corrisposta avvenga in relazione a prestazioni svolte in
favore dell’ente. [3]
Nel caso di specie, tenuto conto del fatto che le
sovvenzioni che l’associazione riceve dal Comune sono dovute
in forza della convenzione e dell’accordo di partenariato
sottoscritti fra i due soggetti nei termini indicati in
premessa e che le stesse sono frutto di un corrispettivo che
il Comune riconosce all’associazione per lo svolgimento di
una serie di attività di carattere didattico, educativo e di
aggregazione sociale, si ritiene che non sussistano gli
elementi richiesti per il concretizzarsi della fattispecie
di incompatibilità di cui all’art. 63, comma 1, n. 1),
seconda parte, del TUEL.
Come anticipato, potrebbe venire in rilievo anche la causa
di incompatibilità disciplinata dal successivo n. 2), prima
parte, del medesimo comma 1 dell’art. 63 del TUEL.
Ai sensi della citata norma, non può rivestire la carica di
consigliere comunale colui che, come amministratore, ha
parte, direttamente o indirettamente, in servizi,
somministrazioni o appalti, nell’interesse del comune. Sulla
presenza del requisito soggettivo nella fattispecie in esame
si è già detto in relazione alla precedente causa esaminata;
per completezza, si segnala ora che l’assenza di finalità di
lucro nell’associazione non è sufficiente ad escludere la
sussistenza dell’ipotesi di incompatibilità, atteso che il
comma 2 dell’art. 63 del TUEL ha escluso l’applicazione
della suddetta ipotesi solo per coloro che hanno parte in
cooperative o consorzi di cooperative iscritte regolarmente
nei pubblici registri. [4]
Nel merito, si rappresenta che la ratio della causa
di incompatibilità in esame (annoverabile tra le cosiddette
“incompatibilità di interessi”) consiste
nell'impedire che possano concorrere all'esercizio delle
funzioni dei consigli comunali soggetti portatori di
interessi confliggenti con quelli del comune o i quali
comunque si trovino in condizioni che ne possano
compromettere l'imparzialità. [5]
La formulazione assai ampia della disposizione in esame ("servizi
nell'interesse del comune") è giustificata proprio dalla
menzionata ratio: il legislatore, infatti, intende
comprendere in essa, nel modo più ampio possibile, tutte le
ipotesi, in cui la "partecipazione" in servizi
imputabili al comune e, per ciò stesso, di interesse
generale, possa dar luogo, nell'esercizio della carica del "partecipante",
eletto amministratore locale, ad un conflitto tra interesse
particolare di questo soggetto e quello generale dell'ente
locale. [6]
Ne discende che la nozione di partecipazione deve assumere
un significato il più possibile esteso e flessibile, al fine
di potervi ricomprendere forme di partecipazione eterogenee
e che è irrilevante la natura, pubblicistica o privatistica,
dello strumento prescelto dall’ente locale per la
realizzazione delle proprie finalità istituzionali.
[7]
Dalla lettura della convenzione e dell’accordo di
partenariato, si evince che le attività poste in essere
dall’associazione si concretizzano nell’organizzazione di
diversi servizi nell’ambito didattico ed educativo, quali
quello di doposcuola per gli alunni della scuola primaria e
secondaria di primo grado, la creazione e gestione della “sezione
primavera” della scuola dell’infanzia, la
predisposizione del servizio mensa per tutti gli alunni, dei
servizi di accompagnamento degli alunni sullo scuolabus e
dell’accoglienza/postaccoglienza scolastica, nonché
l’organizzazione e la gestione di centri estivi in favore di
bambini e ragazzi.
Occorre pertanto valutare in concreto se l’associazione,
attraverso le attività educative e ricreative sopra
elencate, svolga un servizio nell’interesse
dell’Amministrazione comunale, atteso che dottrina e
giurisprudenza concordano nel ritenere che qualsiasi
attività che venga svolta a favore dell’ente nell’ambito
delle competenze istituzionali attribuite a quest’ultimo e
mediante l’esercizio dei poteri normativi ed amministrativi
conferitigli, appare idonea a concretizzare
l’incompatibilità. [8]
A parere dello scrivente, non vi è dubbio che i servizi
educativi e ricreativi gestiti dall’associazione rientrino
tra i fini istituzionali del Comune e siano svolti
nell’interesse dello stesso; un tanto è anche sancito nella
convenzione quale presupposto per la partecipazione
finanziaria dell’Ente al progetto dell’associazione, laddove
si riconosce l’importanza e l’utilità sociale delle attività
erogate in favore della comunità ed in particolar modo dei
minori (art. 14 della convenzione).
Per i motivi sopraesposti, si ritiene che la posizione
dell’amministratore possa essere riconducibile alla causa di
incompatibilità di cui alla prima parte del punto 2) del
comma 1 dell’art. 63 del D.Lgs. 267/2000.
A tale proposito, si ricorda che la valutazione della
concreta sussistenza dell'incompatibilità è rimessa al
consiglio comunale, in conformità al generale principio per
cui ogni organo collegiale è competente a deliberare sulla
regolarità dei titoli di appartenenza dei propri componenti,
mediante l’attivazione della procedura prevista dall'art. 69
del TUEL, che garantisce il contraddittorio tra organo ed
amministratore, assicurando a quest'ultimo l'esercizio del
diritto di difesa e la possibilità di rimuovere entro un
congruo termine la causa di incompatibilità contestata.
[9]
---------------
[1] In tal senso si sono espresse sia la dottrina (cfr.,
tra gli altri, Maggiora, Ineleggibilità, incompatibilità,
incandidabilità nell’ente locale, Giuffrè, 2000) che la
giurisprudenza (cfr. Corte di Cassazione, sentenza n. 2068
del 22.06.1972).
[2] Si sottolinea che il carattere della facoltatività viene
interpretato dal Ministero dell’interno in modo più
restrittivo, per cui, a giudizio del dicastero, la
sovvenzione è facoltativa nel senso e nei limiti in cui non
trovi origine in un obbligo stabilito dalla legge. Per una
trattazione completa ed esaustiva del concetto di
sovvenzione ed, in generale, della causa di incompatibilità
in esame, si vedano i pareri dello scrivente Servizio prot.
n. 11420 del 27.07.2015 e n. 33168 del 31.12.2014.
[3] Cfr. Pinto – D’Alfonso, Incandidabilità, ineleggibilità,
incompatibilità e status degli amministratori locali,
Maggioli, 2003, pagg. 195 e seguenti.
[4] Cfr. parere Ministero dell’interno 11.01.2011,
consultabile
cliccando qui.
[5] Cfr. Corte Costituzionale, sentenze n. 44 del 1997, n.
450 del 2000 e n. 220 del 2003.
[6] Cfr. Cassazione Civile, Sez. I, sentenza n. 550 del
16.01.2004.
[7] Cfr. pareri Ministero dell’interno 11.11.2014 e
12.03.2010.
[8] Cfr. Pinto – D’Alfonso, opera citata nella nota 3 e
Cassazione civile, n. 550/2004.
[9] Cfr. Corte di Cassazione Civile, Sez. I, sentenza n.
12529 del 12.11.1999 e n. 12809 del 10.07.2004 (27.06.2019
- link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Incompatibilità
tra carica di assessore e consigliere per padre e figlio.
Domanda
A seguito delle elezioni comunali del 26.05.2019 è risultato
eletto un consigliere comunale. Il sindaco, costituendo la
Giunta, ha nominato assessore esterno il padre del
consigliere.
Si determina il caso di conflitto d’interesse tra
consigliere ed assessore? Chi dei due deve lasciare la
carica?
Risposta
Il caso in esame –a prescindere da ragioni di opportunità
che saranno state valutate, si immagina, dal sindaco prima
di procedere alle nomine– non comporta nessuna causa di
incompatibilità o situazione di conflitto d’interesse, né
per il consigliere comunale (figlio), né per il padre
(assessore esterno).
Le norme a cui occorre fare riferimento per l’esame della
situazione sono le seguenti:
• articoli da 63 a 67 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267,
recante: “Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli
enti locali";
• Capo IV (articoli da 10 a 12) del decreto legislativo 31.12.2012,
n. 235, recante “Testo unico delle disposizioni in
materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche
elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di
condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1,
comma 63, della legge 06.11.2012, n. 190”;
• articolo 1, comma 42, della legge 06.11.2012, n. 190;
• articoli 46, comma 2 e 47, del TUEL 267/2000;
• articolo 1, comma 137, della legge 07.04.2014, n. 56 (25.06.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Convocazioni, atti dovuti. Insindacabili
dal presidente del consiglio. Spetta all’assemblea decidere
sull’ammissibilità degli argomenti.
Può il presidente del consiglio negare la
convocazione dell'assemblea richiesta da un quinto dei consiglieri ai sensi
dell'art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 perché
l'argomento oggetto della richiesta era stato già esaminato in altra seduta
consiliare?
L'articolo 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 prevede
l'obbligo di convocazione del consiglio, con inserimento nell'ordine del
giorno delle questioni proposte, quando venga richiesto, tra gli altri, da
un quinto dei consiglieri.
La giurisprudenza prevalente in materia si è da tempo espressa affermando
che, in caso di richiesta di convocazione del consiglio da parte di un
quinto dei consiglieri, «al presidente del consiglio comunale spetta
soltanto la verifica formale che la richiesta provenga dal prescritto numero
di soggetti legittimati, mentre non può sindacarne l'oggetto, poiché spetta
allo stesso consiglio nella sua totalità la verifica circa la legalità della
convocazione e l'ammissibilità delle questioni da trattare, salvo che non si
tratti di oggetto che, in quanto illecito, impossibile o per legge
manifestamente estraneo alle competenze dell'assemblea in nessun caso
potrebbe essere posto all'ordine del giorno» (si veda, in particolare,
Tar Piemonte, sez. Il, 24.04.1996, n. 268).
Nel caso specifico, ai sensi dell'art. 39, comma 1, del regolamento sul
funzionamento del consiglio comunale è previsto che l'assemblea possa
pronunciarsi sull'eventuale richiesta di ritiro di un argomento all'ordine
del giorno (c.d. «questione pregiudiziale»).
Ciò posto, il presidente del consiglio è tenuto ad attenersi alla vigente
disciplina regolamentare, spettando al potere sovrano dell'assemblea
decidere, in via pregiudiziale, sull'ammissibilità della discussione degli
argomenti inseriti nell'ordine del giorno (articolo ItaliaOggi del 21.06.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Cause di inconferibilità per incarico ex art. 110, comma 1, del tuel
267/2000.
Domanda
Dopo le elezioni amministrative del 26.05.2019, il nostro sindaco
(confermato) intende avviare una procedura pubblica finalizzata alla
copertura di un posto di responsabile apicale di area –con posizione
organizzativa, in ente senza dirigenza– ai sensi dell’articolo 110, comma 1,
del TUEL. Tra i “papabili” figura un ex assessore che ha terminato il
proprio mandato il 26/05/2019. Il comune ha meno di 15.000 abitanti.
Come ci dobbiamo comportare se l’ex assessore partecipa alla procedura? Lo
dobbiamo ammettere?
Risposta
Il riferimento normativo in materia di inconferibilità e incompatibilità di
incarichi dirigenziali presso le pubbliche amministrazioni (compresi i
comuni), va rinvenuto nel decreto legislativo 08.04.2013, n. 39.
In particolare, va evidenziato che l’articolo 2, comma 2, del citato decreto
prevede che le norme si applicano, negli enti locali, anche al conferimento
di incarichi dirigenziali a personale non dirigenziale, come in effetti
accade nei comuni, nei comuni privi di figure dirigenziali, con i titolari
di posizione organizzativa, a cui il sindaco conferisce le funzioni
dirigenziali, ai sensi degli articoli 50, comma 10 e 109, comma 2, del Testo
Unico Enti Locali.
Venendo allo specifico quesito, si ritiene che le cause di inconferibilità,
non siano rinvenibili, nel caso segnalato, dal momento che il vostro comune
ha meno di 15.000 abitanti.
L’articolo 7, comma 2, lettera b) –che richiama la precedente lettera a)–
prevede, infatti, una causa di inconferibilità per i componenti dei consigli
o delle giunte (fissata in uno o due anni), ma solamente per gli incarichi
dirigenziali nei comuni sopra 15.000 abitanti.
In tali enti (ma solo in quelli) si deve rispettare quello che alcuni
commentatori hanno definito il “periodo di raffreddamento”,
intendendo per esso un lasso temporale che non comporta un’esclusione
permanente dal conferimento dell’incarico dirigenziale, ma solo di natura
temporanea.
La normativa, in pratica, vuol impedire che un soggetto che si trovi in una
posizione tale da compromettere l’imparzialità, acceda all’incarico senza
soluzione di continuità. È necessario un periodo di raffreddamento, utile a
garantire la condizione di imparzialità all’incarico (18.06.2019 -
tratto da e link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Gruppi, niente espulsioni. Non sono
configurabili come organi di partito. E per questo
non hanno potestà vincolante verso i componenti.
È ammessa l'espulsione di un consigliere da parte del gruppo consiliare di
appartenenza per insanabili divergenze politiche?
In linea generale si osserva che il rapporto tra il candidato eletto e il
partito di appartenenza «non esercita influenza giuridicamente
rilevabile, attesa la mancanza di rapporto di mandato e la assoluta
autonomia politica dei rappresentanti del consiglio comunale e degli organi
collegiali in generale rispetto alla lista o partito che li ha candidati»
(Tar Puglia, sez. di Bari sentenza n. 506 del 2005). Ne consegue che
all'interno del consiglio i gruppi non sono configurabili quali organi dei
partiti e, pertanto, non sembra sussistere in capo a questi ultimi una
potestà direttamente vincolante sia per un membro del gruppo di riferimento,
sia per gli organi assembleari dell'ente.
La sentenza n. 16240/2004 con la quale il Tar Lazio ha precisato che i
gruppi consiliari hanno una duplice natura; essi rappresentano, per un
verso, la proiezione dei partiti all'interno delle assemblee, e, per altro
verso, costituiscono parte dell'ordinamento assembleare, in quanto
articolazioni interne di un organo istituzionale.
Nella citata pronuncia, si legge che «è dunque possibile distinguere due
piani di attività dei gruppi: uno, più strettamente politico, che concerne
il rapporto del singolo gruppo con il partito politico di riferimento,
l'altro, gravitante nell'ambito pubblicistico, in relazione al quale i
gruppi costituiscono strumenti necessari per lo svolgimento delle funzioni
proprie degli organi assembleari, contribuendo ad assicurare l'elaborazione
di proposte e il confronto dialettico tra le diverse posizioni politiche e
programmatiche (cfr. Cass. civ, Sez. un., 19.02.2004, n. 3335; C.S., IV,
02.10.1992, n. 932; Corte cost. 12.04.1990, n. 187)».
Per quanto riguarda la questione rappresentata si evidenzia che il nostro
ordinamento «si preoccupa di assicurare un metodo di organizzazione
democratica dei gruppi (in linea con quanto previsto dall'art. 49 Cost.
relativamente ai partiti politici), ma non intende in alcun modo
condizionarne la vita e le dinamiche interne. In altre parole, il concreto
funzionamento e la gestione dei gruppi (parlamentari, regionali,
consiliari), diventano rilevanti per l'ordinamento solo quando questi ultimi
interferiscano con lo svolgimento delle funzioni proprie delle assemblee»
(Tar per il Lazio ul. cit). L'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n.
267/00 demanda al regolamento, «nel quadro dei principi stabiliti dallo
statuto», la disciplina del funzionamento dei consigli; pertanto, le
problematiche relative alla costituzione e al funzionamento dei gruppi
consiliari devono essere valutate alla stregua delle specifiche norme
statutarie e regolamentari di cui l'ente locale si è dotato.
Dalla lettura del regolamento sul funzionamento del consiglio comunale si
rileva una disciplina dettagliata per quanto riguarda il passaggio da un
gruppo ad un altro, con il presupposto indefettibile dell'accettazione da
parte del gruppo cui il consigliere chiede di aderire. Nell'ambito della
suddetta fonte regolamentare, invece, non sembra potersi rinvenire una
specifica normativa che preveda l'ipotesi della espulsione di un consigliere
dal proprio gruppo di appartenenza originario.
Nello stesso regolamento è previsto, altresì, che il gruppo monopersonale
sia ammesso unicamente nella ipotesi in cui sia risultato eletto un solo
consigliere nell'ambito della corrispondente lista elettorale. Attesa la
surriferita disposizione, è stato chiesto se sia consentito agli altri
consiglieri di formare un nuovo gruppo consiliare lasciando il consigliere
indesiderato quale unico componente del gruppo originariamente costituito.
Tale opzione sembrerebbe percorribile in quanto l'enunciato della
disposizione preclusiva della costituzione del gruppo monopersonale non
sembra impedire ad un consigliere la possibilità di permanere nel gruppo
che, pur originariamente costituito da più membri, si sia ridotto ad un
unico componente, nel corso della consiliatura.
Tanto premesso, nel ribadire che la materia dei «gruppi consiliari» è
interamente demandata allo statuto ed al regolamento sul funzionamento del
consiglio, è in tale ambito che dovrebbero trovare adeguata soluzione le
relative problematiche applicative.
Spetta, infatti, alle decisioni del consiglio comunale, oltre che trovare
soluzioni per le singole questioni, valutare l'opportunità di indicare, con
apposita modifica regolamentare, anche le ipotesi in argomento, al fine di
assicurare il regolare funzionamento dei gruppi e l'ordinato svolgimento
delle funzioni proprie dell'assemblea consiliare
(articolo ItaliaOggi del 14.06.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Il presidente è revocabile. Ma solo se
smette di agire in modo neutrale. Nel contrasto tra statuto e regolamento
prevale sempre il primo.
Si può prevedere nel regolamento sul funzionamento
del consiglio comunale la revoca del presidente del consiglio? Il presidente
del consiglio può essere revocato con una maggioranza diversa da quella
necessaria per la sua elezione? Quale disposizione deve essere applicata in
caso di contrasto tra una norma statutaria e una regolamentare con
riferimento alla disciplina delle commissioni consiliari?
Il presidente del consiglio, è previsto dall'art. 39 del decreto legislativo
n. 267/2000 che rende obbligatoria la figura in parola nei comuni con
popolazione superiore ai 15.000 abitanti, mentre per i comuni con
popolazione inferiore alla predetta soglia ne è demandata la facoltà alla
previsione statutaria.
Lo statuto di un comune in prima votazione richiede la maggioranza dei 2/3
dei consiglieri assegnati, computando anche il sindaco, al fine
dell'elezione del presidente del consiglio. In seconda votazione, da
effettuarsi nella stesa seduta, prevede la maggioranza assoluta dei voti dei
consiglieri assegnati, computando anche il sindaco.
Il regolamento modificato, prevede la revoca a seguito di mozione di
sfiducia che può essere presentata solo dopo l'accertamento di gravi
mancanze nella corretta conduzione del proprio ruolo istituzionale.
Ciò posto, come ritenuto, tra gli altri, dal Tar Puglia–Lecce, con sentenza
n. 528/2014, «la giurisprudenza ha chiarito che la figura del presidente
del consiglio è posta a garanzia del corretto funzionamento di detto organo
e della corretta dialettica tra maggioranza e minoranza, per cui la revoca
non può essere causata che dal cattivo esercizio della funzione, in quanto
ne sia viziata la neutralità e deve essere motivata perciò con esclusivo
riferimento a tale parametro e non a un rapporto di fiducia (conforme,
Consiglio di stato, sez. V, 26.11.2013, n. 5605)».
In merito alla specifica tematica sollevata, concordando sulla necessità
dell'osservanza del rispetto della gerarchia delle fonti, conformemente
anche all'articolo 7 del decreto legislativo n. 267/2000, che disciplina
l'adozione dei regolamenti comunali «nel rispetto dei principi fissati
dalla legge e dallo statuto» (cfr. sentenza Tar Lombardia, Brescia, n.
2625 del 28.12.2009) non sembra tuttavia evidente alcun contrasto della
citata disposizione regolamentare con il vigente statuto in ordine alle
maggioranze richieste.
In ogni caso, così come affermato dal Consiglio di stato con la sentenza n.
2678 del 05.06.2017 «è sufficiente osservare che è la stessa natura e
delicatezza delle funzioni di presidente del consiglio comunale, ad
escludere logicamente la configurabilità della irrevocabilità della
funzione, ciò anche a prescindere dalla considerazione che, secondo i
principi generali, il potere di adottare un atto implica di per sé il potere
di emettere anche il contrarius actus, salvo che ciò sia espressamente
escluso da una specifica disposizione normativa che nel caso di specie non
si riscontra».
Riguardo le commissioni consiliari si rileva che l'articolo 38, comma 6, del
decreto legislativo n. 267/2000 demanda allo statuto la loro istituzione
facoltativa con il solo vincolo del rispetto del criterio proporzionale
nella loro composizione. I poteri, l'organizzazione e le forme di pubblicità
dei lavori sono demandati al regolamento. Il citato art. 38, al comma 2, nel
quadro dei principi stabiliti dallo statuto, prevede, altresì, altri
contenuti obbligatori del citato regolamento (modalità per la convocazione e
per la presentazione e la discussione delle proposte, l'indicazione del
numero dei consiglieri necessari per la validità della seduta – con il
vincolo della presenza di almeno un terzo dei componenti assegnati).
Con norma regolamentare, ai sensi del comma 3 del citato art. 38, sono
fissate le modalità per fornire ai consigli, servizi, attrezzature e risorse
finanziare ed è disciplinata la gestione delle risorse attribuite per il
loro funzionamento e per quello dei gruppi consiliari, mentre per i comuni
con popolazione superiore ai 15.000 abitanti è data facoltà di previsione di
apposite strutture per il funzionamento del consiglio.
Ciò premesso, si ritiene che, qualora sussista un contrasto tra le norme
statutarie e le norme regolamentari è alle prime che occorre fare
riferimento, mentre l'eventuale assenza di una disciplina regolamentare
degli istituti sopra citati, potendo comportare delle disfunzioni nel
corretto funzionamento degli organi, dovrebbe comunque essere colmata
dall'ente (articolo ItaliaOggi del 07.06.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Incompatibilità
di un amministratore locale.
Non sussiste alcuna causa di
incompatibilità per un consigliere comunale che svolge la
propria attività di lavoratore dipendente presso altro
comune, qualora i due enti locali (unitamente ad altri
comuni) abbiano in essere diverse convenzioni per la
gestione in forma associata delle proprie funzioni e
servizi. Ciò anche qualora l’indicato consigliere comunale
venisse nominato assessore presso il medesimo comune.
Il Comune chiede un parere in merito all’esistenza di
eventuali cause di incompatibilità per un consigliere
comunale che svolge la propria attività di lavoratore
dipendente, non titolare di posizione organizzativa, presso
altro comune, considerato che i due enti locali (unitamente
ad altri Comuni) hanno in essere diverse convenzioni per la
gestione in forma associata delle proprie funzioni e
servizi. Ciò specie qualora l’indicato consigliere comunale
venisse nominato assessore presso il medesimo comune.
In via preliminare si ricorda che le cause di
incompatibilità degli amministratori locali, in quanto
limitative del diritto di elettorato passivo garantito
dall’articolo 51 della Costituzione, hanno carattere
tassativo e non possono quindi essere applicate a situazioni
non espressamente previste.
Ciò premesso si ritiene che la fattispecie prospettata non
integri alcuna causa di incompatibilità prevista dalla legge
[1].
In particolare, la norma che potrebbe in astratto venire in
rilievo è l’articolo 60, comma 1, num. 7), in combinato
disposto con l’articolo 63, comma 1, num. 7), del D.Lgs.
267/2000, la quale prevede una situazione di
ineleggibilità/incompatibilità tra l’essere dipendente di un
comune ed il rivestire la carica di consigliere comunale del
medesimo comune. Nel caso in esame l’amministratore locale è
dipendente giuridicamente di altro comune rispetto a quello
presso il quale svolge il proprio mandato elettivo.
Né ha rilievo per l’eventuale insorgenza della causa di
incompatibilità il fatto che tra i Comuni interessati
sussistano delle convenzioni per l’esercizio associato delle
funzioni comunali: si osserva, infatti, che ai fini della
sussistenza della indicata causa di incompatibilità ciò che
conta è esclusivamente il rapporto di dipendenza giuridica
non rilevando il fatto che l’effettiva attività svolta possa
essere resa anche nell’interesse del comune presso cui
svolge il proprio mandato elettivo.
Si ricorda, altresì, al riguardo, che la convenzione è una
forma collaborativa tra enti locali la quale è inidonea a
far sorgere entità distinte ed autonome rispetto ai comuni
che si associano. Ciò anche qualora il testo convenzionale
preveda l’istituzione di uffici comuni ai quali affidare
l’esercizio delle funzioni pubbliche in luogo degli enti
partecipanti all’accordo, i quali possono definirsi come
articolazioni interne, prive di personalità giuridica.
Tali conclusioni non mutano anche qualora l’indicato
consigliere comunale venisse nominato assessore dal proprio
sindaco. Non è dato, infatti, ravvisare, con riferimento
alla fattispecie in riferimento, l’esistenza di cause di
incompatibilità ulteriori valevoli per i soli assessori
comunali.
Per questi ultimi il legislatore statale ha, invece, dettato
una previsione specifica all’articolo 78, comma 3, TUEL il
quale recita: “I componenti la giunta comunale competenti
in materia di urbanistica, di edilizia e di lavori pubblici
devono astenersi dall’esercitare attività professionale in
materia di edilizia privata e pubblica nel territorio da
essi amministrato”.
La norma disciplina la particolare situazione in cui
potrebbe venire a trovarsi un assessore comunale al quale
venga conferita la delega in materia di edilizia,
urbanistica e lavori pubblici e che, al contempo, svolga la
propria attività professionale nel medesimo territorio da
esso amministrato e relativamente allo stesso ambito di
materia cui si riferisce la delega assessorile ricevuta.
Premesso che la norma non introduce alcuna causa di
incompatibilità né è prevista alcuna sanzione specifica in
caso di sua violazione [2],
si rileva che essa in ogni caso non verrebbe in rilevo nel
caso di specie atteso che l’amministratore locale svolge
attività di lavoro dipendente e non autonomo.
In particolare, anche qualora questi venisse nominato
assessore con delega in materia di urbanistica, di edilizia
e di lavori pubblici e, al contempo, svolgesse la propria
attività di lavoratore dipendente nello stesso ambito della
delega conferitagli dal sindaco[3] non risulterebbe
integrata la fattispecie sopra descritta: soltanto esigenze
di opportunità, da valutarsi in relazione all’effettiva
attività svolta e ad ogni altra circostanza del caso
concreto, potrebbero deporre a favore di soluzioni che siano
rispettose delle esigenze di imparzialità e di buona
amministrazione che sempre devono connotare l’agère della
pubblica amministrazione.
Per completezza espositiva si segnala, infine, anche il
disposto di cui all’articolo 78, comma 2, TUEL, applicabile
a tutti gli amministratori di cui all’articolo 77, comma 2,
secondo cui essi “devono astenersi dal prendere parte
alla discussione ed alla votazione di delibere riguardanti
interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto
grado. L'obbligo di astensione non si applica ai
provvedimenti normativi o di carattere generale, quali i
piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una
correlazione immediata e diretta fra il contenuto della
deliberazione e specifici interessi dell'amministratore o di
parenti o affini fino al quarto grado.”
Anche tale previsione non introduce alcuna causa di
incompatibilità ma individua alcune fattispecie generatrici
di conflitto di interesse la presenza delle quali impone un
obbligo di astensione in capo all’amministratore locale che
eventualmente si venga a trovare in una delle situazioni
indicate dalla norma citata.
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[1] Per completezza espositiva si segnala che non vengono
in rilievo nel caso in esame le cause di inconferibilità
previste dal decreto legislativo 08.04.2013, n. 39 recante
“Disposizioni in materia di inconferibilità e
incompatibilità di incarichi presso le pubbliche
amministrazioni e presso gli enti privati in controllo
pubblico, a norma dell’articolo 1, commi 49 e 50, della
legge 06.11.2012, n. 190” atteso che in tale sede non si
contemplano cause ostative al conferimento della carica di
assessore.
[2] Resta tuttavia per i soggetti coinvolti la personale
responsabilità politica nei confronti del corpo elettorale
ed eventualmente la responsabilità deontologica nei
confronti dell’ordine di appartenenza.
[3] Sul presupposto che, come riferito dall’Ente, tutte le
funzioni comunali sono svolte in convenzione tra i comuni in
riferimento di talché l’attività lavorativa svolta potrebbe
riguardare anche quella propria degli altri Comuni in
convenzione (06.06.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Il
consigliere comunale revocato non può essere risarcito per il danno
all'immagine.
Quando la percezione collettiva viene influenzata
dall’irrompere di eventi di natura penale ovvero dalla presenza di indagini
sfociate in arresti e processi in sede penale, in relazione a fatti di
notevole allarme sociale, oltre che rilevanti per la dimensione politica del
reo, il Consigliere comunale revocato per tali fatti non può accedere ad
alcun risarcimento per danno all’immagine.
Questa è la tesi emergente dalla
sentenza 03.06.2019 n. 3731
del Consiglio di Stato, Sez. III.
Il fatto
Con decreto del ministro dell’Interno veniva rimosso dalla carica un
Consigliere comunale in conseguenza di due ordinanze di custodia cautelare,
emesse dal Tribunale del luogo, per fatti di concussione.
Entrambe le misure cautelari venivano, poi, successivamente revocate dal
Tribunale del riesame, con due separate ordinanze.
Il provvedimento di revoca veniva impugnato dinanzi al Giudice
amministrativo che lo annullava e, successivamente, l’interessato proponeva
un nuovo ricorso dinanzi al Tar, per chiedere la condanna del ministero
dell’Interno al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali
subiti per l’effetto del provvedimento amministrativo dichiarato illegittimo
dal Tar.
La richiesta di risarcimento veniva respinta; il rigetto è stato confermato
con la sentenza in rassegna.
La decisione
Il Collegio giudicante non ha ravvisato la possibilità di stabilire un
risarcimento da danno non patrimoniale per atto amministrativo illegittimo.
In conformità alla decisione di primo grado, il Consiglio di Stato ravvisa
che deve tenersi conto del condivisibile orientamento giurisprudenziale
secondo cui, in casi analoghi, il risarcimento del danno derivante dalla
mancata percezione dell'indennità di carica è destituito di fondamento, in
quanto la corresponsione di tale emolumento è correlata all'effettivo
svolgimento delle funzioni di Consigliere comunale, allo scopo di compensare
le eventuali diminuzioni patrimoniali subite, con riferimento all'esercizio
dell'attività lavorativa propria del Consigliere, impegnato nelle sedute
assembleari.
In ogni caso, immediatamente dopo l’adozione del provvedimento lesivo nei
confronti del ricorrente, l’intero Consiglio comunale era stato sciolto, per
cui era evidente che, anche se non fosse mai stato adottato il provvedimento
individuale di revoca, il Consigliere non avrebbe potuto più percepire
l’indennità, essendo venuto meno l’organo collegiale di cui avrebbe dovuto
continuare a far parte.
Conclusioni
Quanto al danno all’immagine, il Consiglio di Stato ha rimarcato che il
pregiudizio all’immagine e alla carriera politica, più che dal provvedimento
ministeriale di rimozione dal Consiglio comunale, è derivato dai
procedimenti penali nei quali il revocato è stato coinvolto, oltre che dalle
ordinanze di custodia cautelare che l’hanno colpito in una fase storica
nella quale vicende simili hanno compromesso l’immagine e la carriera
politica della maggior parte degli esponenti politici dell’epoca, in
conseguenza di un sentimento ampiamente diffuso nell’opinione pubblica che,
comunque lo si voglia giudicare, ha provocato un profondo rivolgimento
politico e istituzionale
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 01.07.2019). |
maggio 2019 |
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CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Protocollo on-line aperto. Accesso
garantito ai consiglieri comunali. Ma il diritto va
esercitato in modo consapevole, selezionando gli atti.
Può il consigliere comunale accedere da remoto al protocollo informatico del
comune nel quale è stato eletto?
Il plenum della Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, del
16 marzo 2010, ha osservato che il diritto di accesso ed il diritto di
informazione dei consiglieri comunali nei confronti della p.a. trovano la
loro disciplina nell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000 che
riconosce a questi il diritto di ottenere dagli uffici comunali, nonché
dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in
loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato (confermato dal
successivo parere del 23.10.2012).
Il protocollo informatico è stato introdotto dall'art. 50 del dpr n.
445/2000, il quale, al comma 3, richiede la realizzazione o la revisione dei
sistemi informativi automatizzati in conformità anche alle disposizioni di
legge sulla riservatezza dei dati personali; gli artt. 53 e 55 del citato
dpr n. 445/00 prevedono, rispettivamente, la «registrazione di protocollo»
e la «segnatura di protocollo» che contengono una serie di dati che
consentono la rintracciabilità dei documenti.
La citata commissione per l'accesso, già con il richiamato parere del 2010
stabiliva che «l'accesso diretto tramite utilizzo di apposita password al
sistema informatico dell'ente, ove operante, è uno strumento di accesso
certamente consentito al consigliere comunale che favorirebbe la tempestiva
acquisizione delle informazioni richieste senza aggravare l'ordinaria
attività amministrativa. Ovviamente il consigliere comunale rimane
responsabile della segretezza della password di cui è stato messo a
conoscenza a tali fini (art. 43, comma 2, Tuel)».
Anche il Garante per la protezione dei dati personali (vedi relazione del
2004, pagg. 19 e 20) aveva specificato che «nell'ipotesi in cui l'accesso
da parte dei consiglieri comunali riguardi dati sensibili, l'esercizio di
tale diritto, ai sensi dell'art. 65, comma 4, lett. b), del Codice, è
consentito se indispensabile per lo svolgimento della funzione di controllo,
di indirizzo politico, di sindacato ispettivo e di altre forme di accesso a
documenti riconosciute dalla legge e dai regolamenti degli organi
interessati per consentire l'espletamento di un mandato elettivo. Resta
ferma la necessità, che i dati così acquisiti siano utilizzati per le sole
finalità connesse all'esercizio del mandato, rispettando in particolare il
divieto di divulgazione dei dati idonei a rivelare lo stato di salute.
Spetta quindi all'amministrazione destinataria della richiesta accertare
l'ampia e qualificata posizione di pretesa all'informazione ratione officii
del consigliere comunale».
Rilevando che la specifica materia dovrebbe trovare apposita disciplina di
dettaglio nel regolamento dell'ente, si osserva che anche la giurisprudenza
ha affermato il diritto del consigliere alla visione del protocollo
generale, senza alcuna esclusione di oggetti e notizie riservate e di
materie coperte da segreto, posto che i consiglieri comunali sono tenuti al
segreto - ai sensi del citato art. 43 del dlgs n. 267/2000.
Già il Tar Sardegna con la sentenza n. 29/2007 ha affermato, tra l'altro,
che è consentito prendere visione del protocollo generale senza alcuna
esclusione di oggetti e notizie riservate e di materie coperte da segreto,
posto che i consiglieri comunali sono comunque tenuti al segreto ai sensi
dell'art. 43 del dlgs n. 267/2000, mentre il Tar Lombardia, Brescia,
01.03.2004, n. 163, ha ritenuto non ammissibile imporre al consigliere
l'onere di specificare in anticipo l'oggetto degli atti che intendono
visionare giacché trattasi di informazioni di cui gli stessi possono
disporre solo in conseguenza dell'accesso.
Sempre il Tar Sardegna, approfondendo la tematica, con la sentenza n.
531/2018, ha specificato che il «possesso delle chiavi di accesso
telematico, rappresenta una condizione preliminare, ma nondimeno necessaria,
per l'esercizio consapevole del diritto di accesso, in modo che questo si
svolga non attraverso una apprensione generalizzata e indiscriminata degli
atti dell'amministrazione comunale, ma mediante una selezione degli oggetti
degli atti di cui si chiede l'esibizione. Peraltro, una delle modalità
essenziali per poter operare in tal senso è rappresentata proprio dalla
possibilità di accedere (non direttamente al contenuto della documentazione
in arrivo o in uscita dall'amministrazione, ma) ai dati di sintesi
ricavabili dalla consultazione telematica del protocollo».
Appare dirimente, infine, la recentissima decisione n. 545 del 04/04/2019
con la quale il Tar Campania (sezione staccata di Salerno), ha confermato il
diritto del consigliere comunale all'accesso anche da remoto al protocollo
informatico dell'ente.
Lo stesso Tar Campania, confermando sostanzialmente quanto stabilito dal Tar
Sardegna con la richiamata sentenza 531/2018, ha ribadito che tale esercizio
non dovrebbe tuttavia essere esteso al contenuto della documentazione in
arrivo o in uscita dall'amministrazione -soggetta, invece, alle ordinarie
regole in materia di accesso, tra le quali la necessità di richiesta
specifica- ma ai soli dati di sintesi ricavabili dalla consultazione
telematica del protocollo (numero di registrazione al protocollo, data,
mittente, destinatario, modalità di acquisizione, oggetto)
(articolo ItaliaOggi del 31.05.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Obblighi
di pubblicazione dati e documenti amministratori comunali,
dopo le elezioni.
Domanda
Il 26.05.2019 si è votato anche nel nostro comune per il
rinnovo del Consiglio comunale e per l’elezione diretta del
Sindaco. Quali obblighi e con quali tempistiche si deve
procedere alla pubblicazione dei dati dei nuovi
amministratori?
Risposta
Gli obblighi di pubblicazione per gli amministratori
comunali sono dettagliatamente riportati nell’articolo 14,
comma 1, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33,
cosiddetto Decreto Trasparenza.
Per il sindaco, i consiglieri comunali e gli assessori (se
esterni) gli obblighi riguardano i seguenti documenti ed
informazioni:
a) l’atto di nomina o di proclamazione, con l’indicazione della
durata dell’incarico o del mandato elettivo;
b) il curriculum;
c) i compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della
carica; gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati
con fondi pubblici;
d) i dati relativi all’assunzione di altre cariche, presso enti
pubblici o privati, ed i relativi compensi a qualsiasi
titolo corrisposti;
e) gli altri eventuali incarichi con oneri a carico della finanza
pubblica e l’indicazione dei compensi spettanti;
f) le dichiarazioni di cui all’art. 2, della legge 05.07.1982, n.
441, nonché le attestazioni e dichiarazioni di cui agli
articoli 3 e 4 della medesima legge, come modificata dal
presente decreto, limitatamente al soggetto, al coniuge non
separato e ai parenti entro il secondo grado, ove gli stessi
vi consentano. Viene in ogni caso data evidenza al mancato
consenso. Alle informazioni di cui alla presente lettera
concernenti soggetti diversi dal titolare dell’organo di
indirizzo politico non si applicano le disposizioni di cui
all’art. 7.
La delibera ANAC n. 241 del 08.03.2017, ha specificato che
relativamente alla situazione reddituale e patrimoniale
(articolo 14, comma 1, lettera f), l’obbligo riguarda
solamente gli amministratori dei comuni con popolazione
superiore ai 15.000 abitanti.
Tra gli atti e documenti da pubblicare occorre distinguere
tra quelli che gli uffici comunali hanno già a loro
disposizione e quelli che possono essere forniti
esclusivamente dagli amministratori.
Tra i documenti “detenuti” dall’ente rientrano quelli
della:
lettera a) – atto di nomina o di proclamazione;
lettera c) – compensi di qualsiasi natura connessi alla carica e i
rimborsi delle spese per missioni.
Dovranno essere richiesti agli amministratori e, da questi,
consegnati agli uffici, i documenti e le dichiarazioni
della:
lettera b) – curriculum;
lettera d) – dati relativi all’assunzione di altre cariche e i
relativi compensi;
lettera e) – altri eventuali incarichi a carico della finanza
pubblica;
lettera f) – dichiarazione dei redditi e situazione patrimoniale
propria e dei famigliari qualora vi consentano. Oppure
dichiarazione, dell’amministratore circa il mancato consenso
del proprio coniuge e famigliari (figli; fratelli; genitori;
nonni; nipoti, intesi come figli dei figli; eccetera).
I dati dovranno essere richiesti ai singoli amministratori,
dopo l’insediamento degli organi, con nota a cura del
Responsabile della Trasparenza che, di norma, nei comuni è
il segretario comunale. Per i componenti della giunta,
occorrerà attendere i decreti di nomina degli assessori da
parte del sindaco.
Per la tempistica di pubblicazione, il comma 2, del citato
art. 14, prevede che i documenti vengano pubblicati nel sito
web, entro tre mesi dalla elezione o dalla nomina e per i
tre anni successivi dalla cessazione del mandato, fatte
salve le informazioni concernenti la situazione patrimoniale
e, ove consentita, la dichiarazione del coniuge non separato
e dei parenti entro il secondo grado, che vengono
pubblicate, solamente, fino alla cessazione del mandato.
A seguito dell’elezioni, quindi, l’ente –e per la durata di
tre anni– dovrà organizzare due link. Uno con i dati
dell’amministrazione scaduta e uno con le informazioni
sull’amministrazione in carica, ricordandosi di eliminare il
link dell’amministrazione cessata, trascorso il mese di
maggio 2022.
Tutti i dati, come previsto nell’Allegato “1” della delibera
ANAC n. 1310 del 28/12/2016, dovranno essere pubblicati, nel
sito internet dell’ente nella sezione: Amministrazione
trasparente > Organizzazione > Titolari di incarichi
politici, di amministrazione, di direzione e di governo.
bene rammentare, infine, che ai sensi dell’articolo 47,
comma 1, del d.lgs. 33/2013, l’ANAC può irrogare una
sanzione amministrativa pecuniaria da 1.000 euro, a carico
del responsabile della mancata comunicazione dei dati, a
seguito della mancata o incompleta comunicazione delle
informazioni e dei dati di cui all’art. 14, concernenti:
a) la situazione patrimoniale complessiva del titolare
dell’incarico al momento dell’assunzione in carica;
b) la titolarità di imprese, le partecipazioni azionarie proprie,
del coniuge e dei parenti entro il secondo grado;
c) tutti i compensi cui da diritto l’assunzione della carica.
Il relativo provvedimento sanzionatorio dell’Autorità
Anticorruzione dovrà essere pubblicato sul sito internet
dell’amministrazione (28.05.2019 - tratto da e link a
www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Sul
danno erariale derivante dal riconoscimento ex post,
da parte del comune, di debiti a titolo di corrispettivi per
lo svolgimento di lavori saltuari e occasionali svolti da
privati cittadini e sulla portata dell'ex "parere di
legittimità", del "parere di regolarità
tecnica" e del "parere di regolarità contabile".
Le delibere di Giunta oggetto del presente giudizio non
hanno valore come riconoscimento di debiti fuori bilancio
per l’incompetenza assoluta dell’organo esecutivo del
Comune.
Infatti, solo il riconoscimento formale da parte del
Consiglio Comunale consente l’imputazione del debito assunto
irregolarmente al bilancio dell’ente.
---------------
Sussiste la piena responsabilità del sindaco
e degli assessori (Giunta
Comunale)
per aver posto in essere una condotta antigiuridica –connotata da
colpa grave- tesa al riconoscimento di debiti da parte di un
organo incompetente a riconoscere i debiti dell’Ente,
soprattutto in assenza dei presupposti normativi per
l’applicabilità dell’art. 191, 3 comma, e/o per il
riconoscimento di cui all’art. 194 del TUEL.
---------------
Parimenti responsabile il geometra responsabile dell’area
tecnica e del personale, per aver apposto il parere di
regolarità tecnica in calce alle delibere di cui è causa
senza verificare la legittimità e regolarità delle procedure
relative alla fase dell’impegno contabile e della spesa,
alla fase contrattuale e di assegnazione dei lavori e alla
fase di verifica della regolare esecuzione degli stessi.
---------------
Altrettanto responsabile il
segretario comunale, per il quale valgono le seguenti
considerazioni.
E’ indubbio che il segretario comunale svolge una specifica
funzione di garante della legalità e di correttezza
amministrativa dell’azione dell’ente locale, di assistenza e
di collaborazione giuridica ed amministrativa proprio in
virtù dell’art. 17, comma 68, della l. 127 del 1997, ma
ancor prima in virtù della l. 142 del 1990.
L’intervenuta soppressione, ai sensi dell’art. 17,
comma 85, della legge citata, del parere di legittimità su
ogni proposta di deliberazione giuntale o consiliare, non
costituisce commodus discessus da ogni responsabilità.
Al contrario, l’evoluzione normativa in
materia, ben lungi dall'evidenziare una sottrazione del
segretario in questione alla responsabilità amministrativa
per il parere eventualmente espresso su atti della Giunta o
del Consiglio, ne ha invece sottolineato le maggiori
responsabilità in ragione della rilevata estensione di
funzioni, di tal che non assume alcun rilievo esimente
l'art. 17, commi 85 e 86, l. n. 127/1997 che ha
espressamente abrogato l'istituto del parere preventivo di
legittimità del segretario comunale.
Sul punto il Collegio ritiene di condividere quanto
affermato da questa Corte, secondo cui
la soppressione del parere di legittimità del segretario su
ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta o al
Consiglio “non esclude che permangano in capo al segretario
tutta una serie di compiti ed adempimenti che, lungi dal
determinare un'area di deresponsabilizzazione del medesimo,
lo impegnano, invece, ad un corretto svolgimento degli
stessi, pena la sua soggezione, in ragione del rapporto di
servizio instaurato con l'Ente locale, all'azione di
responsabilità amministrativa, ove di questa ricorrano gli
specifici presupposti”.
Nel caso di specie, il segretario,
partecipando alla seduta di Giunta, avrebbe dovuto svolgere
la sua funzione di garante del diritto ponendo in evidenza
le gravi violazioni di legge che, con l’approvazione delle
delibere di riconoscimento, si stavano effettuando, e,
nell’ipotesi in cui gli assessori avessero comunque deciso
di deliberare il riconoscimento, avrebbe dovuto esigere la
verbalizzazione della sua opposizione.
---------------
Non appare revocabile in dubbio che nell’ambito del
controllo sulla regolarità e correttezza dell’azione
amministrativa, rientri a pieno titolo il controllo sulla
legittimità della proposta di deliberazione, ovverosia la
verifica del rispetto delle norme che presidiano l’attività
amministrativa nello specifico campo, nonché la legittimità
del fine pubblico perseguito e la correttezza sostanziale
delle soluzioni adottate.
Ne deriva che la lettura combinata
dall’art. 49 e 147-bis, comma 1, del TUEL permette di
individuare, innanzitutto, il contenuto del parere di
regolarità tecnica, che non si limita a verificare
l’attendibilità tecnica della soluzione proposta, ma involge
l’insieme del procedimento amministrativo, coprendo e
inglobando le regole sia tecniche, di un determinato
settore, che quelle generali in ordine alla legittimità
dell’azione amministrativa, ivi compresa la legittimità
della spesa, in considerazione del fatto che ciascun centro
di responsabilità, proponente un qualsiasi atto deliberativo
recante spesa, gestisce autonomamente il piano esecutivo di
gestione assegnato al proprio settore.
Invece, con il “parere di
regolarità contabile” il fine perseguito dal
legislatore è stato quello di assegnare al responsabile del
servizio di ragioneria un ruolo centrale nella tutela degli
equilibri di bilancio dell'ente e, a tal fine,
nell’esprimere tale parere egli dovrà tener conto, in
particolare, delle conseguenze rilevanti in termini di
mantenimento nel tempo degli equilibri finanziari ed
economico-patrimoniali, valutando:
a) la verifica della sussistenza del parere di regolarità
tecnica rilasciato dal soggetto competente;
b) il corretto riferimento (si sottolinea effettuato
dall’organo proponente) della spesa alla previsione di
bilancio annuale, ai programmi e progetti del bilancio
pluriennale e, ove adottato, al piano esecutivo di gestione.
Orbene, secondo il sistema delle
competenze assegnate dal TUEL e ridisegnate dalla riforma
operata con il d.l. n. 174/2012, la verifica della
legittimità delle deliberazioni, sia esse di giunta che di
consiglio, non rientra tra il controlli che il responsabile
del servizio di ragioneria deve effettuare prima
dell’emissione del proprio parere di regolarità contabile.
Da tutto quanto sopra, anche con riferimento a quanto
affermato in ordine alle funzioni e responsabilità del
segretario comunale, si ritiene che il
parere di regolarità contabile non possa che coprire la legittimità
della spesa in senso stretto del termine, cioè la corretta
imputazione al capitolo del bilancio dell’ente, la regolare
copertura finanziaria e il rispetto degli equilibri di
bilancio, esulando dai compiti del responsabile del servizio
di ragioneria ogni valutazione sulla legittimità dell’atto
deliberativo, perché di competenza di altri organi
istituzionali dell’ente.
---------------
La questione all’esame del Collegio riguarda una ipotesi di
danno erariale derivante dal riconoscimento ex post,
da parte del Comune di Santa Domenica Talao, di debiti a
titolo di corrispettivi per lo svolgimento di lavori
saltuari e occasionali svolti da privati cittadini.
Il Procuratore regionale contesta agli odierni convenuti
che, con l’adozione delle diciannove delibere di giunta
sopra citate, siano state violate le disposizioni di cui
agli artt. 191 e seguenti del TUEL che concernono
l’assunzione degli impegni di spesa negli enti locali,
nonché dell’art. 36 del D.Lgs. n. 165/2001 e dell’art. 92
del TUEL relativi all’utilizzo delle forme di lavoro
flessibile.
L’art. 191 del TUEL stabilisce che “Gli enti locali
possono effettuare spese solo se sussiste l'impegno
contabile registrato sul competente programma del bilancio
di previsione e l'attestazione della copertura finanziaria
di cui all’art. 153, comma 5”.
Il successivo comma 3 afferma che “Per i lavori pubblici
di somma urgenza, cagionati dal verificarsi di un evento
eccezionale o imprevedibile, la Giunta, entro venti giorni
dall'ordinazione fatta a terzi, su proposta del responsabile
del procedimento, sottopone al Consiglio il provvedimento di
riconoscimento della spesa con le modalità previste
dall'articolo 194, comma 1, lettera e), prevedendo la
relativa copertura finanziaria nei limiti delle accertate
necessità per la rimozione dello stato di pregiudizio alla
pubblica incolumità. Il provvedimento di riconoscimento è
adottato entro 30 giorni dalla data di deliberazione della
proposta da parte della Giunta, e comunque entro il 31
dicembre dell'anno in corso se a tale data non sia scaduto
il predetto termine. La comunicazione al terzo interessato è
data contestualmente all'adozione della deliberazione
consiliare”.
Orbene, dall’esame delle delibere di
riconoscimento indicate nell’atto di citazione non risulta
che le stesse siano state precedute dalla necessaria
delibera a contrarre con il relativo impegno di spesa sul
relativo capitolo di bilancio con l’attestazione di
copertura finanziaria da parte del responsabile del servizio
economico-finanziario.
Né dalle stesse è rinvenibile, al di là di un’apodittica
affermazione, la giustificazione di ragioni di urgenza o di
eccezionalità e imprevedibilità dell’evento che avrebbero
potuto giustificare il ricorso alla procedura disciplinata
dal terzo comma del medesimo articolo 191 suddetto.
Stante quanto sopra, si sarebbe, allora,
dovuto fare ricorso all’istituto del riconoscimento del
debito fuori bilancio di cui all’art. 194 del TUEL, la cui
competenza viene, però, ascritta al Consiglio comunale e non
all’organo esecutivo dell’ente locale.
Nel caso di specie, pertanto, il rapporto obbligatorio
intercorre tra il privato fornitore e il soggetto
amministratore o funzionario o dipendente dell’ente che ha
consentito la prestazione, ai sensi del già richiamato art.
191, comma 4.
Inoltre, gli artt. 36 del D.Lgs. n 165/2001 e 92 del TUEL,
richiamati dal Procuratore nel suo atto di citazione,
disciplinano la possibilità per le pubbliche amministrazioni
di ricorrere a forme contrattuali di lavoro flessibile con
rapporti di lavoro a tempo parziale e a tempo determinato,
pieno o parziale, sempre, però, nel rispetto della
disciplina vigente in materia e “per comprovate esigenze
di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale,
(sempre) nel rispetto delle condizioni e modalità di
reclutamento (del personale) assicurando la trasparenza ed
escludendo ogni forma di discriminazione".
Orbene, ai fini dell’accertamento della responsabilità dei
convenuti citati, ad avviso del Collegio, nessun rilievo
assume il diverso inquadramento giuridico dei fatti operato
dai difensori.
Infatti, sia che tali interventi vengano inquadrati tra le “borse
lavoro” o tra gli “appalti di servizi”, in
nessuno dei due casi vi è stato un atto propedeutico –quale
ad esempio un bando per l’assegnazione delle borse, o una
delibera di acquisizione dei servizi richiesti- che abbia
concorso a manifestare all’esterno una volontà in tal senso,
da parte dell’amministrazione del Comune di Santa Domenica
Talao.
In tutti i casi, sia l’eventuale assegnazione della borsa o
l’adozione di qualsivoglia forma di lavoro flessibile sia, a
maggior ragione, la stipulazione di un contratto d’appalto
di servizi, necessitano di una forma scritta “ad
substantiam”, nel pieno rispetto di uno dei principi
cardine dell’ordinamento giuridico, quando una delle parti
contrattuali è una Pubblica Amministrazione.
Tale principio è sancito dall’art. 17 della Legge di
contabilità generale dello Stato (R.D. n. 2440 del 1923)
che, ammettendo anche forme più semplificate di stipulazione
contrattuale, prevede per tutte la forma scritta (scrittura
privata; obbligazione stesa ai piedi del capitolato; atto
separato sottoscritto; lettera commerciale).
Tale principio trova la sua giustificazione non solo e non
tanto in ragioni di ordine generale attinenti l’interesse
pubblico perseguito dalla p.a., ma anche nella
considerazione che un’attività estremamente
procedimentalizzata, quale quella in esame, al di là del
nomen juris utilizzato ai fini del suo inquadramento,
non sarebbe concepibile che possa essere conclusa con una
stipulazione orale.
Ciò anche perché la forma scritta rappresenta uno strumento
indefettibile di garanzia del regolare svolgimento
dell'attività negoziale della p.a., nell'interesse sia del
cittadino sia della stessa amministrazione e,
conseguentemente, in assenza della forma scritta il
contratto è nullo (in terminis: Cass, sez. I civile,
sent. n. 5263/2015; n. 7297/2009; sez. III civile, ord. n.
16307/2018).
Per il principio su esposto, prive di pregio, ad avviso del
Collegio, sono le contestazioni che le difese muovono
all’atto di citazione secondo cui nel caso di specie si
verserebbe in una ipotesi di affidamento di un appalto di
servizi sotto soglia.
Infatti, il superamento o meno della “soglia” (art 29
del D.Lgs n. 163/2006 applicabile ratione temporis;
oggi art. 36 del D.Lgs. n. 50/2016) implica esclusivamente
un maggiore o minore rigore nella scelta del contraente, ma
nessuna incidenza può avere in ordine alla necessaria forma
scritta dei contratti della p.a.
Atteso quanto sopra, ritiene il Collegio che nessuna valida
obbligazione sia sorta in capo all’amministrazione del
Comune di Santa Domenica Talao e, pertanto, sussiste la
responsabilità amministrativo-contabile in capo ai
convenuti, in quanto con la loro condotta hanno causato un
indubbio danno erariale consistente nell’erogazione di
corrispettivi non dovuti in quanto conseguenti a
obbligazioni nulle.
A ciò si aggiunga che sono state violate
tutte le norme del TUEL
(prima citate) poste a presidio della
correttezza delle procedure di spesa degli enti locali e,
per quanto già detto,
le delibere di Giunta oggetto del presente giudizio non hanno
nemmeno valore come riconoscimento di debiti fuori bilancio
per l’incompetenza assoluta dell’organo esecutivo del
Comune.
Infatti, solo il riconoscimento formale da parte del
Consiglio Comunale consente l’imputazione del debito assunto
irregolarmente al bilancio dell’ente.
In ordine alle singole condotte il Collegio svolge le
seguenti considerazioni.
Sussiste la piena responsabilità del sindaco
Lu.Al.Gi.
e degli assessori
Es.Fu.Fr., La Gr.Ma.Gi., Fa.Gi., La.Ra.Ma., Le.Fr. e
Pa.An.Sa.
per aver posto in essere una condotta antigiuridica –connotata da
colpa grave- tesa al riconoscimento di debiti da parte di un
organo incompetente a riconoscere i debiti dell’Ente,
soprattutto in assenza dei presupposti normativi per
l’applicabilità dell’art. 191, 3 comma, e/o per il
riconoscimento di cui all’art. 194 del TUEL.
Inoltre, nessuna istruttoria è stata svolta dal sindaco o
dai componenti la giunta ma, soprattutto, nessuna prova
viene fornita in ordine all’eccezionalità e imprevedibilità
dei lavori e alla loro utilità per il Comune.
Parimenti responsabile il geom. Fa.Be., responsabile
dell’area tecnica e del personale, per aver apposto il
parere di regolarità tecnica in calce alle delibere di cui è
causa senza verificare la legittimità e regolarità delle
procedure relative alla fase dell’impegno contabile e della
spesa, alla fase contrattuale e di assegnazione dei lavori e
alla fase di verifica della regolare esecuzione degli
stessi.
In merito nessun valore esimente, ad avviso del Collegio,
può avere la perizia a firma del geom. To.Gr., datata
19.10.2016, in quanto riferentesi a delibere diverse
rispetto a quelle oggetto della citazione in questione.
Altrettanto responsabile il dott. Mo.Ca.An., segretario
comunale, per il quale valgono le seguenti considerazioni.
E’ indubbio che il segretario comunale svolge una specifica
funzione di garante della legalità e di correttezza
amministrativa dell’azione dell’ente locale, di assistenza e
di collaborazione giuridica ed amministrativa proprio in
virtù dell’art. 17, comma 68, della l. 127 del 1997, ma
ancor prima in virtù della l. 142 del 1990.
L’intervenuta soppressione, ai sensi dell’art. 17, comma
85, della legge citata, del parere di legittimità su ogni
proposta di deliberazione giuntale o consiliare, non
costituisce commodus discessus da ogni
responsabilità.
Al contrario, l’evoluzione normativa in
materia, ben lungi dall'evidenziare una sottrazione del
segretario in questione alla responsabilità amministrativa
per il parere eventualmente espresso su atti della Giunta o
del Consiglio, ne ha invece sottolineato le maggiori
responsabilità in ragione della rilevata estensione di
funzioni, di tal che non assume alcun rilievo esimente
l'art. 17, commi 85 e 86, l. n. 127/1997 che ha
espressamente abrogato l'istituto del parere preventivo di
legittimità del segretario comunale.
Sul punto il Collegio ritiene di condividere quanto
affermato da questa Corte, secondo cui la
soppressione del parere di legittimità del segretario su
ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta o al
Consiglio “non esclude che permangano in capo al
segretario tutta una serie di compiti ed adempimenti che,
lungi dal determinare un'area di deresponsabilizzazione del
medesimo, lo impegnano, invece, ad un corretto svolgimento
degli stessi, pena la sua soggezione, in ragione del
rapporto di servizio instaurato con l'Ente locale,
all'azione di responsabilità amministrativa, ove di questa
ricorrano gli specifici presupposti”
(Sez. giur. Toscana, sent. n. 217/2012).
Il segretario Mo., partecipando alla seduta di Giunta,
avrebbe dovuto svolgere la sua funzione di garante del
diritto ponendo in evidenza le gravi violazioni di legge
che, con l’approvazione delle delibere di riconoscimento, si
stavano effettuando, e, nell’ipotesi in cui gli assessori
avessero comunque deciso di deliberare il riconoscimento,
avrebbe dovuto esigere la verbalizzazione della sua
opposizione.
Niente di tutto questo è avvenuto, e pertanto deve
confermarsi la responsabilità del segretario comunale.
Considerazioni contrarie vanno svolte, invece, per la
convenuta De Lu.Ma.Ro., quale responsabile del servizio
economico-finanziario del Comune, che ha emesso i relativi
pareri di “regolarità contabile”.
Il responsabile del servizio economico-finanziario, ai sensi
dell’art. 49 del TUEL, come modificato dall’art. 3, comma 1,
lett. b), del d.l. n. 174/2012, convertito in l. n.
213/2012, su ogni proposta di deliberazione ha l’obbligo di
esprimere un parere di regolarità contabile, qualora la
stessa comporti riflessi diretti o indiretti sulla
situazione economico finanziaria o sul patrimonio dell’ente.
Tale parere, che rientra tra quelli preventivi, è previsto
dall’art. 147 del TUEL, a mente del quale “Gli enti
locali, nell'ambito della loro autonomia normativa e
organizzativa, individuano strumenti e metodologie per
garantire, attraverso il controllo di regolarità
amministrativa e contabile, la legittimità, la regolarità e
la correttezza dell'azione amministrativa”.
Il successivo art. 147-bis afferma che “Il controllo di
regolarità amministrativa e contabile è assicurato, nella
fase preventiva della formazione dell'atto, da ogni
responsabile di servizio ed è esercitato attraverso il
rilascio del parere di regolarità tecnica attestante la
regolarità e la correttezza dell'azione amministrativa. Il
controllo contabile è effettuato dal responsabile del
servizio finanziario ed è esercitato attraverso il rilascio
del parere di regolarità contabile e del visto attestante la
copertura finanziaria”.
Pertanto, il legislatore della novella del 2012, con la
suddetta norma ha inteso differenziare il contenuto del “controllo
di regolarità amministrativa e contabile” (di competenza
del responsabile del servizio o della funzione), che si
esprime attraverso il parere di regolarità tecnica e
riguarda la “regolarità e la correttezza dell’azione
amministrativa”, dal “controllo contabile” che,
esprimendosi attraverso il parere di regolarità contabile
(di competenza del responsabile di ragioneria), ha riguardo
all’aspetto meramente contabile e finanziario del
provvedimento, attraverso, anche, l’apposizione del visto
attestante la copertura finanziaria.
Pertanto, non appare revocabile in dubbio
che nell’ambito del controllo sulla regolarità e correttezza
dell’azione amministrativa, rientri a pieno titolo il
controllo sulla legittimità della proposta di deliberazione,
ovverosia la verifica del rispetto delle norme che
presidiano l’attività amministrativa nello specifico campo,
nonché la legittimità del fine pubblico perseguito e la
correttezza sostanziale delle soluzioni adottate.
Ne deriva che la lettura combinata
dall’art. 49 e 147-bis, comma 1, del TUEL permette di
individuare, innanzitutto, il contenuto del parere di
regolarità tecnica, che non si limita a verificare
l’attendibilità tecnica della soluzione proposta, ma involge
l’insieme del procedimento amministrativo, coprendo e
inglobando le regole sia tecniche, di un determinato
settore, che quelle generali in ordine alla legittimità
dell’azione amministrativa, ivi compresa la legittimità
della spesa, in considerazione del fatto che ciascun centro
di responsabilità, proponente un qualsiasi atto deliberativo
recante spesa, gestisce autonomamente il piano esecutivo di
gestione assegnato al proprio settore.
Invece, con il “parere di regolarità
contabile” il fine perseguito dal legislatore è stato
quello di assegnare al responsabile del servizio di
ragioneria un ruolo centrale nella tutela degli equilibri di
bilancio dell'ente e, a tal fine, nell’esprimere tale parere
egli dovrà tener conto, in particolare, delle conseguenze
rilevanti in termini di mantenimento nel tempo degli
equilibri finanziari ed economico-patrimoniali, valutando:
a) la verifica della sussistenza del parere di regolarità
tecnica rilasciato dal soggetto competente;
b) il corretto riferimento (si sottolinea effettuato
dall’organo proponente) della spesa alla previsione di
bilancio annuale, ai programmi e progetti del bilancio
pluriennale e, ove adottato, al piano esecutivo di gestione.
Orbene, secondo il sistema delle
competenze assegnate dal TUEL e ridisegnate dalla riforma
operata con il d.l. n. 174/2012, la verifica della
legittimità delle deliberazioni, sia esse di giunta che di
consiglio, non rientra tra il controlli che il responsabile
del servizio di ragioneria deve effettuare prima
dell’emissione del proprio parere di regolarità contabile.
Da tutto quanto sopra, anche con riferimento a quanto
affermato in ordine alle funzioni e responsabilità del
segretario comunale, si ritiene che il
parere di regolarità contabile non possa che coprire la
legittimità della spesa in senso stretto del termine, cioè
la corretta imputazione al capitolo del bilancio dell’ente,
la regolare copertura finanziaria e il rispetto degli
equilibri di bilancio, esulando dai compiti del responsabile
del servizio di ragioneria ogni valutazione sulla
legittimità dell’atto deliberativo, perché di competenza di
altri organi istituzionali dell’ente.
Conseguentemente, ritiene il Collegio, di rigettare l’azione
del Procuratore regionale nei confronti di De Lu.Ma.Ro..
Al proscioglimento segue il rimborso delle spese di lite,
poste a carico dell’Amministrazione comunale, che si
liquidano equitativamente in euro 1.500,00.
Riguardo alla quantificazione del danno e alla sua
ripartizione fra i rimanenti convenuti, si condivide
parzialmente quanto indicato in citazione e quindi:
...
P.Q.M.
La Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la regione
Calabria, definitivamente pronunciando, in accoglimento
parziale dell’atto di citazione:
assolve Ma.Ro. De Lu. da ogni addebito e liquida alla
medesima a titolo di spese del giudizio la somma di €
1.500,00 oltre IVA, CPA e spese generali come per legge,
posta a carico dell’Amministrazione di appartenenza;
condanna i sotto elencati convenuti al pagamento in favore
del Comune di Santa Domenica Talao delle somme:
1) Lu.Al.Gi., € 2.294,00 oltre alla rivalutazione monetaria e
agli interessi legali dalla data della presente sentenza e
sino all’effettivo soddisfo.
2) La Gr.Ma.Gi., € 679,00, oltre alla rivalutazione monetaria e
agli interessi legali dalla data della presente sentenza e
sino all’effettivo soddisfo.
3) Es.Fu.Fr., € 369,00, oltre alla rivalutazione monetaria e
agli interessi legali dalla data della presente sentenza e
sino all’effettivo soddisfo.
4) Fa.Gi., € 690,00, oltre alla rivalutazione monetaria e agli
interessi legali dalla data della presente sentenza e sino
all’effettivo soddisfo.
5) La Bo.Ra.Ma., € 1.425,00, oltre alla rivalutazione monetaria
e agli interessi legali dalla data della presente sentenza e
sino all’effettivo soddisfo.
6) Pa.An.Sa., € 25,00, oltre alla rivalutazione monetaria e
agli interessi legali dalla data della presente sentenza e
sino all’effettivo soddisfo.
7) Le.Fr., € 340,00, oltre alla rivalutazione monetaria e agli
interessi legali dalla data della presente sentenza e sino
all’effettivo soddisfo.
8) Mo.Ca.An., € 2.444,00, oltre alla rivalutazione monetaria e
agli interessi legali dalla data della presente sentenza e
sino all’effettivo soddisfo.
9) Fa.Be., € 2.444,00, oltre alla rivalutazione monetaria e
agli interessi legali dalla data della presente sentenza e
sino all’effettivo soddisfo (Corte dei Conti, sez. giurisdiz,
Calabria,
sentenza 27.05.2019 n. 185). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Rimborso permessi amministratori locali dipendenti di s.p.a.
a totale partecipazione pubblica.
Ai sensi dell’art. 80 del TUEL, gli
oneri relativi ai permessi retribuiti degli amministratori
locali per l’espletamento delle loro funzioni pubbliche sono
a carico dell’ente presso cui dette funzioni vengono svolte
ove si tratti di lavoratori dipendenti da privati o da enti
pubblici economici.
Per quanto concerne la natura delle società a totale
partecipazione pubblica, il Consiglio di Stato, sez. I, ha
da ultimo chiarito, con il parere 16.11.2011, n. 706, che ai
fini dell’applicazione dell’art. 80 del TUEL sono
considerate “privati” -e quindi hanno diritto al rimborso da
parte del Comune dei predetti oneri- tutte le società
pubbliche, ad esclusione di quelle inserite nel conto
economico consolidato individuate dall’ISTAT, ai sensi
dell’art. 1, commi 2 e 3, D.Lgs. n. 196/2009, e di quelle
che hanno per legge personalità giuridica di diritto
pubblico.
Il Comune chiede un parere in ordine alla possibilità di
rimborsare gli oneri relativi ai permessi retribuiti fruiti
da amministratori che sono dipendenti di azienda partecipata
dell’Ente, ai sensi dell’art. 80 del TUEL. Il Comune precisa
che l’azienda in questione è una SPA partecipata al 100% da
soci pubblici.
L’art. 80 del TUEL stabilisce che le assenze dal servizio
degli amministratori locali per partecipare alle riunioni
degli organi politici di cui fanno parte, nonché quelle
relative agli altri permessi previsti dalla legge per
l’espletamento del mandato, sono retribuite dal datore di
lavoro. La norma precisa altresì che, qualora detti
amministratori siano lavoratori dipendenti di privati o di
enti pubblici economici, gli oneri per i permessi retribuiti
sono a carico dell'ente presso il quale gli stessi
lavoratori esercitano le funzioni pubbliche di cui
all'articolo 79 [1].
Stante la formulazione testuale della norma, il rimborso
degli oneri relativi ai permessi di cui si tratta da parte
del Comune è correlato alla natura privata (o di ente
pubblico economico) del datore di lavoro degli
amministratore locali [2].
Con riferimento ad amministratori dipendenti di s.p.a. a
capitale interamente pubblico –nella specie, Poste Italiane S.p.a. e Ferrovie dello Stato S.p.a.– una prima posizione
del Ministero è stata quella di escludere il rimborso dei
permessi retribuiti a dette società da parte dell’ente
locale, argomentando dalla natura pubblica di dette società
affermata dal Consiglio di Stato [3].
Peraltro, il Ministero ha successivamente ritenuto di
richiedere un parere al Consiglio di Stato sulla natura
pubblica o privata delle s.p.a. a capitale interamente
pubblico, ai fini dell’applicazione dell’art. 80 del TUEL.
Ebbene, il Consiglio di Stato, nell’auspicare un intervento
chiarificatore del legislatore sull’effettiva natura delle
s.p.a. pubbliche, che prescinda dal contesto e
dall’applicazione di norme di settore, ha fornito un parere
in relazione alle specifiche esigenze applicative della
menzionata disposizione del D.Lgs. n. 267/2000.
In particolare, posto che l’art. 80 del TUEL fa riferimento
soprattutto al rapporto di dipendenza dei lavoratori, il
Consiglio di Stato ha preso in considerazione le normative
di carattere generale che lo connotano, in relazione alla
natura giuridica del datore di lavoro: in particolare, il
D.Lgs. n. 165/2001, recante “Norme generali
sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche”, all’art. 1, comma 2, prevede
analiticamente cosa si debba intendere per amministrazioni
pubbliche, escludendo gli enti pubblici economici (e a fortiori le società per azioni a capitale pubblico).
Inoltre, la L. n. 196/2009 (legge di contabilità e finanza
pubblica), altra normativa di carattere generale, all’art.
1, commi 2 e 3, considera, ai fini della legge medesima, per
amministrazioni pubbliche i soggetti espressamente indicati
dall’ISTAT con specifico provvedimento da pubblicarsi nella
G.U. entro il 30 settembre di ogni anno.
Alla luce di tali riferimenti normativi, il Consiglio di
Stato ha affermato che sono da ritenersi amministrazioni
pubbliche: a) tutte quelle elencate dall’art. 1, comma 2,
D.Lgs. n. 165/2001; b) gli enti e gli altri soggetti inseriti
nel conto economico consolidato individuati, ai sensi
dell’art. 1, commi 2 e 3, D.Lgs. n. 196/2009, dall’ISTAT
[4];
c) quelle società alle quali la legge attribuisce
espressamente “personalità giuridica di diritto pubblico”.
Conseguentemente –conclude il Consiglio di Stato– sono
considerate “privati”, ai sensi dell’art. 80, secondo
periodo, D.Lgs. n. 267/2000, e quindi non sono a loro carico
gli oneri per i permessi retribuiti dei propri dipendenti
correlati all’esercizio delle funzioni pubbliche, tutte le
società pubbliche, ad esclusione di quelle inserite nel
conto economico consolidato individuate dall’ISTAT in
applicazione della normativa di cui al D.Lgs. n. 196/2009
richiamata, e di quelle che hanno per legge “personalità
giuridica di diritto pubblico”.
Il Consiglio di Stato precisa come tale conclusione sia a
favore di una soluzione di certezza giuridica che regga su
dati normativi testuali e prescinda da interpretazioni
legate all’accertamento della natura delle singole
situazioni [5].
Alla luce di quanto esposto, si ritiene che l’Ente possa far
riferimento, per la soluzione del caso che lo riguarda, ai
criteri elaborati dal Consiglio di Stato per
l’individuazione della natura (privata o pubblica), ai fini
dell’applicazione dell’art. 80 del TUEL, della s.p.a.
interamente pubblica datore di lavoro dei dipendenti
amministratori,.
Un tanto anche avuto riguardo alla nota del Ministero
dell’Interno n. 47 del 13.01.2012, con cui il Ministero
trasmette ai Prefetti della Repubblica il parere del
Consiglio di Stato n. 706/2011, con preghiera di darne la
più ampia divulgazione presso le amministrazioni locali
[6].
---------------
[1] In tal caso, l'ente, su richiesta documentata del
datore di lavoro, è tenuto a rimborsare quanto dallo stesso
corrisposto, per retribuzioni ed assicurazioni, per le ore o
giornate di effettiva assenza del lavoratore. Il rimborso
viene effettuato dall'ente entro trenta giorni dalla
richiesta.
[2] La ratio della norma è infatti quella di salvaguardare
l’esercizio delle funzioni pubbliche svolte da lavoratori
dipendenti prevedendo il ristoro dei conseguenti oneri nei
confronti dei soggetti datori di lavoro privati (o aventi
natura di ente pubblico economico), ristoro escluso nei
confronti dei soggetti datori di lavoro pubblici.
[3] Ministero dell’Interno, Dipartimento per gli affari
interni e territoriali, parere del 10.06.2010, ove il
Ministero argomenta dalle considerazioni del Consiglio di
Stato sez. VI, 02.03.2001, n. 1206 secondo cui Poste
Italiane S.p.a. ha natura pubblica, sulla base del fatto che
la stessa sia ancora interamente posseduta dallo Stato, che
continui ad agire per il conseguimento di finalità
pubblicistiche e che lo Stato, nella sua veste di azionista
di maggioranza o totalitario, non possa che indirizzare le
attività societarie a fini di interesse pubblico generale.
Allo stesso modo, la giurisprudenza amministrativa aveva
affermato la natura pubblicistica di Ferrovie dello Stato
S.p.a., nonostante la veste formalmente privatistica
(Consiglio di Stato sez. VI, 16.12.1998, n. 1683; TAR Roma,
sez. III, 06.08.2002, n. 7010, richiamati dal Ministero
citato).
Per l’orientamento più recente, nel senso della natura
privata di dette società, ai fini dell’applicazione
dell’art. 80 del TUEL, si veda sub nota 4.
[4] In proposito, il Consiglio di Stato osserva che l’elenco
di cui al comunicato 24.07.2010 e a quello 30.09.2011 non
comprende Ferrovie dello Stato S.p.a., Trenitalia S.p.a. e
Poste Italiane S.p.a.
Lo stesso vale, da ultimo, per l’elenco di cui al comunicato
dell’ISTAT pubblicato nella G.U. del 28.09.2018, n.d.r.
[5] Nel senso della rimborsabilità dei permessi a datori di
lavoro aventi veste di s.p.a. a totale partecipazione
pubblica, v. anche Corte dei conti Lombardia 26.09.2017, n.
256, con specifico riferimento ad un assessore dipendente di
una s.p.a. a totale capitale pubblico che opera in
affidamento diretto in house per la gestione del servizio
idrico integrato.
La Corte dei conti Lombardia argomenta dal dato della
qualificazione formale, ossia la costituzione in forma
societaria con connessa distinzione soggettiva tra società e
soci così come la separazione dei rispettivi patrimoni (che
esclude che la provenienza pubblica delle risorse impiegate
nel capitale sociale determini automaticamente
l’acquisizione della natura pubblicistica delle
disponibilità finanziarie della società). Conforme anche
Corte dei conti Veneto 28.05.2014, n. 346, sulla
rimborsabilità dei permessi a dipendente di s.p.a. a totale
capitale pubblico, di cui il comune presso cui il lavoratore
esercita le funzioni pubbliche detiene alcune quote.
In senso parzialmente difforme sotto quest’ultimo profilo:
Corte dei conti Campania 18.09.2014, n 198 e Corte dei conti
Lazio 09.09.2013, n. 182, che sostengono l’inclusione delle
s.p.a. a totale partecipazione pubblica tra i soggetti
aventi diritto al rimborso degli oneri per permessi
retribuiti accordati a propri dipendenti per lo svolgimento
di funzioni pubbliche presso enti locali diversi da quelli
che ne detengono il capitale sociale”.
[6] Per completezza espositiva, si segnala la pronuncia del
Tribunale ordinario di Roma, sez. II, n. 16106 del
19.07.2014, che ha ritenuto di escludere la rimborsabilità
dei permessi ad una s.p.a. a capitale interamente pubblico,
ritenendo che la stessa, pur avendo natura giuridica formale
privata potesse essere parificata ai soggetti pubblici di
cui all’art. 80 del TUEL, avuto riguardo alla funzione
pubblica svolta di gestione tributaria.
Il Tribunale di Roma –a fronte della posizione del Consiglio
di Stato, che, per individuare i soggetti aventi natura
giuridica formale privata da parificarsi ai soggetti
pubblici di cui all’art. 80 del TUEL, ha optato per una
soluzione di certezza giuridica “che regga su dati normativi
testuali e prescinda da interpretazioni legate
all’accertamento della natura delle singole situazioni”– ha
comunque ritenuto potersi verificare in via interpretativa
se la s.p.a. a totale capitale pubblico di cui si trattava
potesse essere parificata ai soggetti pubblici di cui
all’art. 80 del TUEL.
Ed un tanto il Tribunale ha reputato possibile, sulla base
dello statuto della società in questione, da cui emergeva
che la stessa svolgeva esclusivamente attività istituzionali
proprie dell’ente proprietario (unico socio), non
compatibili con l’esercizio di attività di impresa in regime
di concorrenza (27.05.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Quorum, modifiche
doc. La materia è demandata al regolamento. Non spetta allo statuto
disciplinare il funzionamento dei consigli.
Può il presidente del consiglio rigettare una
proposta di modifica allo statuto proposta da un consigliere comunale?
Un consigliere ha
rappresentato di aver ricevuto una nota con la quale il presidente del
consiglio comunale comunicava di non poter recepire validamente la proposta
di modifica dello statuto in materia di quorum strutturale per le sedute di
seconda convocazione perché in contrasto con il dispositivo recato dall'art.
38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000.
Il citato art. 38, comma 2, come noto, ha demandato alla fonte
regolamentare, nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto, il
funzionamento dei consigli e, in particolare, la determinazione del numero
legale per la validità delle sedute, con il limite che detto numero non può,
in ogni caso, essere inferiore al «terzo dei consiglieri assegnati per
legge all'ente, senza computare a tal fine il sindaco».
Ai sensi dell'art. 8, comma 1, del regolamento sul funzionamento del
consiglio comunale è previsto che l'iniziativa per le deliberazioni
consiliari si esercita mediante la formulazione di un testo di deliberazione
e che la relativa iniziativa spetta alla giunta e a ciascun consigliere
comunale. Il comma 2 del medesimo articolo prevede che il presidente, sulla
scorta dei pareri delle competenti strutture comunali, può dichiarare
inammissibili quelle proposte e quegli emendamenti privi della copertura o i
cui testi contrastino con norme di legge, dello statuto o dei regolamenti
comunali. Ai sensi del successivo comma 3, si individua il consiglio di
presidenza, composto dal presidente e dai vicepresidenti, quale organo di
reclamo per testi dichiarati inammissibili al dibattito consiliare.
Atteso il delineato contesto normativo, la nota del presidente del consiglio
comunale avrebbe dovuto menzionare il contenuto dei pareri previsti
dall'art. 8, comma 2, del regolamento sul consiglio comunale anche al fine
di fornire elementi utili a rimodulare correttamente la proposta di modifica
del quorum strutturale di seconda convocazione. In tal modo si sarebbe
consentito il pieno svolgimento dello ius ad ufficium del consigliere
con specifico riferimento all'esercizio del diritto di iniziativa
deliberativa.
Nel merito, poiché ai sensi dell'art. 38, comma 2, del decreto legislativo
n. 267/2000, la materia concernente il quorum strutturale è demandata
non allo statuto, ma al regolamento del consiglio, la proposta di modifica
avrebbe dovuto riferirsi a tale fonte normativa (articolo ItaliaOggi del 24.05.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: REATI
CONTRO LA PA/ Abuso d’ufficio per il sindaco che punisce lo zelo. Punito il
comportamento ritorsivo contro un dipendente diligente.
Abuso d’ufficio
per il sindaco che non rinnova l’incarico e nega l’indennità al responsabile
di area come ritorsione per il suo zelo. E il reato -oltre alla valutabilità
del danno il danno economico e professionale- scatta a prescindere dal
diritto o meno del dipendente alla riconferma.
La colpa del funzionario era di aver agevolato l’accertamento della
responsabilità contabile, poi esclusa, del primo cittadino e della giunta in
merito ad alcune nomine, e nell’aver dato seguito, malgrado sconsigliato in
maniera “pressante”, ad iniziative per presunti illeciti della polizia
locale. Un comportamento virtuoso che gli era costato il rinnovo della
nomina a responsabile dell’area vigilanza e le indennità: in pratica un
demansionamento.
Per la Corte di Cassazione (Sez. VI penale,
sentenza 23.05.2019 n. 22871), che avalla la linea della Corte
d’Appello, il sindaco con le sue azioni ritorsive e discriminatorie, aveva
prima di tutto violato la Costituzione. E, in particolare l’articolo a
tutela del buon andamento e dell’imparzialità della Pa, e l’articolo ,
secondo il quale i cittadini a cui sono affidate funzioni pubbliche devono
adempierle con disciplina e onore.
Una lettura che non era piaciuta al ricorrente, secondo il quale, la Corte
di merito aveva valorizzato la Carta per il reato di abuso d’ufficio
(articolo del Codice penale) anziché norme specifiche. Ad avviso della
difesa, infatti, la Costituzione non ha un contenuto precettivo, mentre per
contestare il reato sarebbe stato necessario individuare la violazione di
una specifica disciplina.
La Cassazione condivide l’impostazione dei giudici di merito che, pur avendo
analizzato le norme sul conferimento degli incarichi e sull’impiego
pubblico, non le hanno messe al centro della loro decisione.
Chiarito che il demansionamento c’era stato perché non erano stati
assecondati i desiderata del sindaco, il reato, e la conseguente
valutabilità dei danni, ci sono, infatti, al di là del diritto al rinnovo
dell’incarico e all’indennità. La Cassazione spiega che l’abuso d’ufficio «fa
riferimento a una condotta che non è genericamente connotata da abuso, ma
deve essere caratterizzata da violazione di norme di legge o di regolamento
ovvero dall’omessa astensione».
Il legislatore ha voluto dunque delimitare con più precisione la sfera
dell’illecito «in modo che non consentisse indebite interferenze
nell’azione amministrativa e implicasse la chiara definizione dei canoni di
riferimento». E non si può affermare che il riferimento alla legge non
includa le fonti sovraordinate: prima fra tutte la Costituzione. In questo
quadro pesa l’articolo , da valutare in sinergia con l’articolo , che impone
di esercitare con disciplina e onore le funzioni pubbliche e ai pubblici
ufficiali di assicurare il buon andamento e l’imparzialità dell’
amministrazione.
Solo in apparenza la Carta introduce canoni di carattere generale, in realtà
le direttive hanno un immediato risvolto applicativo. È chiaro il rilievo
dato all’inosservanza del principio di imparzialità che mette “fuori
legge” ingiustificate preferenze, favoritismi e vessazioni intenzionali
e discriminatorie
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.05.2019).
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La condotta evidenzia discriminazioni e ritorsioni.
Risponde del reato di abuso di ufficio il sindaco che discrimina e fa
ritorsioni nei confronti del responsabile di un settore amministrativo
dell'ente locale, non rinnovandogli l'incarico perché non ha seguito le sue
indicazioni e procurandogli un danno connesso alla mancata corresponsione di
indennità associate alla posizione e a un sostanziale demansionamento.
Così la Corte di Cassazione, Sez.
VI penale, con la
sentenza 23.05.2019 n. 22871.
Il delitto di abuso d'ufficio nella formulazione che risulta dalle modifiche
introdotte dalla legge 234/1997, fa riferimento a una condotta che non è
genericamente connotata da abuso, ma deve essere caratterizzata da
violazione di norme di legge o di regolamento ovvero dall'omessa astensione.
Il legislatore ha voluto in questo modo delimitare con più precisione la
sfera dell'illecito, circoscrivendolo entro un ambito che non consentisse
indebite interferenze nell'azione amministrativa e implicasse la chiara
definizione dei canoni esterni di riferimento.
Nel caso in esame è stato ravvisato il delitto di abuso di ufficio quando «la
condotta del pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che
regolano l'esercizio del potere, ma anche quando la stessa risulti orientata
alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale
il potere è attribuito, realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello
sviamento di potere, che integra la violazione di legge, poiché lo stesso
non viene esercitato secondo lo schema normativo che ne legittima
l'attribuzione».
E nel contempo si comprende che sia stato dato rilievo all'inosservanza del
principio costituzionale dell'imparzialità, che preclude ingiustificate
preferenze o favoritismi ovvero intenzionali vessazioni o discriminazioni.
Ciò significa che l'articolo 323 del codice penale (reato di abuso di
ufficio), pur non essendo di per sé riferibile alla violazione di norme
poste da fonti diverse da quelle menzionate, tuttavia ricomprende la
violazione di quei canoni costituzionali, che assumono precisa valenza e
costituiscono la base stessa dell'esercizio dei pubblici uffici. Ne deriva,
affermano i giudici di legittimità, che il riscontro del carattere
discriminatorio e ritorsivo dell'azione amministrativa non vale solo a
qualificare ab extrinseco il movente, ma rileva sul piano oggettivo,
connotando il contenuto di tale azione e rendendo la condotta penalmente
tipica.
Per la Cassazione è corretto il ragionamento dei giudici di merito, che
hanno ravvisato l'illiceità della condotta del sindaco ricorrente proprio in
ragione del suo contenuto discriminatorio e ritorsivo, contrastante non con
evanescenti principi generali bensì con una precisa direttiva, sottostante
all'azione di qualsiasi pubblico ufficiale, che implica l'osservanza della
causa del potere assegnato e il rifiuto di qualsivoglia pregiudiziale
discriminazione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.05.2019).
---------------
MASSIMA
2. Il secondo motivo è infondato.
2.1. Va in effetti rimarcato che la contestazione di cui al capo B), per la
quale è stata pronunciata condanna, nel far riferimento al disposto
dell'art. 97 Cost. e dell'art. 1, comma 1, legge 241 del 1990, intendeva far
leva essenzialmente sul carattere discriminatorio e ritorsivo della condotta
del ricorrente in danno del Sa., indicando in tale quadro alcuni elementi
descrittivi, aventi lo scopo di corroborare tale assunto, costituiti
dall'utilizzo di una motivazione apparente, dalla nomina di altro soggetto
privo di diploma di laurea, in assenza di una procedura comparativa, dal
contributo che era stato fornito dal Sa. per l'accertamento della
responsabilità contabile del Sindaco e della Giunta per i fatti di cui
all'originario capo A), dal fatto che il Sa. aveva contravvenuto alle
espresse richieste del Sindaco di non dar corso ad iniziative per presunti
illeciti commessi da agenti della Polizia locale.
La Corte ha sul punto condiviso l'impostazione del primo Giudice, che
proprio sul carattere discriminatorio e ritorsivo della condotta in danno
del Sa. ha fondato il proprio giudizio, nel quale non ha assunto un rilievo
centrale il riferimento agli artt. 110 d.lgs. 267 del 2000 e 19 d.lgs. 165
del 2001, pur menzionati nel capo di imputazione.
2.2. Ciò posto, le doglianze del ricorrente non possono trovare
accoglimento.
L'art.
323 cod. pen. nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte
dalla legge 234 del 1997, fa riferimento ad una condotta che non è
genericamente connotata da abuso, ma deve essere caratterizzata da
violazione di norme di legge o di regolamento ovvero dall'omessa astensione.
Il legislatore ha voluto in tal modo delimitare con più precisione la sfera
dell'illecito, circoscrivendolo entro un ambito che non consentisse indebite
interferenze nell'azione amministrativa e implicasse la chiara definizione
dei canoni esterni di riferimento.
In tale prospettiva la violazione di legge o di regolamento non può che
essere intesa come rappresentativa del superamento di quei canoni esterni,
posti da fonti ben individuate.
D'altro canto non può in alcun modo affermarsi che il riferimento alla legge
non includa altresì quello a fonti sovraordinate, prima di tutto la Carta
fondamentale, cioè la Costituzione, ove parimenti in grado di definire in
modo preciso i limiti dell'azione amministrativa.
Ed anzi deve al riguardo rimarcarsi come l'intera disciplina di tale azione
debba essere collocata nell'ambito costituzionale, in relazione a precise
direttive che dalla Costituzione possano desumersi sia sul versante della
stretta correlazione tra il potere affidato e la fonte di esso sia su quello
dell'effettivo svolgimento dell'azione amministrativa.
In tale quadro viene in evidenza l'art.
97 Cost., da valutare in sinergia con l'art.
54 Cost.: ed invero si desume da tali norme che
le funzioni pubbliche devono essere esercitate con disciplina ed onore e che
i pubblici uffici devono essere organizzati secondo disposizioni di legge,
in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità
dell'amministrazione.
Solo in apparenza per tale via sono introdotti canoni di carattere generale,
in quanto in realtà siffatte direttive contengono un immediato risvolto
applicativo, imponendo da un lato il rispetto della causa di
attribuzione del potere, in modo che lo stesso non sia esercitato al di
fuori dei suoi presupposti, e dall'altro l'imparzialità dell'azione,
la quale non deve essere contrassegnata da profili di discriminazione e
ingiustizia manifesta, aspetti di per sé contrastanti con l'intero assetto
costituzionale dei poteri amministrativi, come in concreto poi disciplinati
dalla legge.
Ben si comprende su tali basi che sia stato ravvisato il
delitto di abuso di ufficio quando «la condotta del pubblico ufficiale
sia svolta in contrasto con le norme che regolano l'esercizio del potere, ma
anche quando la stessa risulti orientata alla sola realizzazione di un
interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito,
realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello sviamento di potere, che
integra la violazione di legge, poiché lo stesso non viene esercitato
secondo lo schema normativo che ne legittima l'attribuzione»
(Cass. Sez. U. n. 155 del 29/09/2011, dep. nel 2012, Rossi, rv. 251498;
Cass. Sez. 6, n. 27816 del 02/04/2015, Di Febo, rv. 263932).
E nel contempo si comprende che sia stato dato rilievo
all'inosservanza del principio costituzionale dell'imparzialità, che
preclude ingiustificate preferenze o favoritismi ovvero intenzionali
vessazioni o discriminazioni
(Cass. Sez. 6, n. 49549 del 12/06/2018, Laimer, rv. 274225; Cass. Sez. 2, n.
46096 del 27/10/2015, Giorgino, rv. 265464).
Ciò significa che l'art.
323 cod. pen., pur non essendo di per sé riferibile alla violazione di
norme poste da fonti diverse da quelle menzionate, tuttavia ricomprende la
violazione di quei canoni costituzionali, che assumono precisa valenza e
costituiscono la base stessa dell'esercizio dei pubblici uffici.
Ne deriva che il riscontro del carattere discriminatorio e
ritorsivo dell'azione amministrativa non vale solo a qualificare ab
extrinseco il movente, ma rileva sul piano oggettivo, connotando il
contenuto di tale azione e rendendo la condotta penalmente tipica.
2.3. Ed allora deve rilevarsi la correttezza del
ragionamento dei Giudici di merito, che hanno ravvisato l'illiceità della
condotta del ricorrente proprio in ragione del suo contenuto discriminatorio
e ritorsivo, contrastante non con evanescenti principi generali bensì con
una precisa direttiva, sottostante all'azione di qualsiasi pubblico
ufficiale, implicante l'osservanza della causa del potere assegnato e il
rifiuto di qualsivoglia pregiudiziale discriminazione.
In particolare, anche sulla scorta di quanto rilevato dal Giudice del lavoro
nel provvedimento del 15/10/2014, è stato osservato:
- che l'apertura del procedimento per il mancato
rinnovo al Sa. dell'incarico di Responsabile dell'Area Vigilanza era stato
caratterizzato da motivazioni (riferite alla necessità di rotazione per
ragioni di prevenzione della corruzione) del tutto pretestuose, prive di
qualsivoglia riscontro e intrinsecamente contraddittorie rispetto a quanto
in diversa occasione rilevato;
- che il Sa. si era per contro distinto nel
propiziare l'accertamento della responsabilità erariale del Sindaco e della
Giunta nella vicenda della nomina di Ci.Ro. (oggetto dell'originario capo A)
e nel contravvenire ai pressanti suggerimenti del Sindaco di non dar corso
ad iniziative riguardanti presunti illeciti addebitabili all'agente Ch.;
- che al momento di procedere alla nomina del
nuovo Responsabile dell'Area Sicurezza, il Sindaco aveva del tutto omesso di
procedere ad una valutazione comparativa, assegnando l'incarico a Qu.Lu.
appena transitato in mobilità nel ruolo del Comune, ma sprovvisto del
diploma di laurea, e ponendo il Sa. in posizione addirittura subordinata a
colui che era stato il suo vice;
- che la richiesta di assegnazione di un'indennità
di coordinamento o di maggiorazione dell'indennità di posizione, era stata
negata senza una sostanziale motivazione, dopo che nel luglio 2013 il
Sindaco, con una mail, aveva mostrato di correlare l'accoglimento della
richiesta al modo in cui il Sa. avrebbe gestito la questione riguardante gli
illeciti addebitati al Ch..
Tali elementi sono stati tutt'altro che arbitrariamente
posti a fondamento del carattere ritorsivo e discriminatorio del trattamento
riservato al Sa., non rilevando la circostanza che il predetto avesse o meno
uno specifico diritto al rinnovo ovvero al riconoscimento dell'indennità, a
fronte del contenuto assunto dall'azione amministrativa e del concreto
sviamento del potere, esercitato con modalità contrastanti con le ragioni
poste a fondamento di esso.
Prive di rilievo risultano in tale prospettiva anche le deduzioni, peraltro
largamente assertive, riguardanti l'interpretazione degli artt. 50, 107, 109
e 110 d.lgs. 267 del 2000, a fronte del carattere assorbente del rilevato
profilo di illiceità, qualificato anche dalla mancata adozione di
un'adeguata valutazione comparativa, tale da costituire specifica
giustificazione della determinazione assunta: va invero
rilevato come tale mancanza costituisca dato sintomaticamente idoneo a
rafforzare il giudizio in ordine al contenuto discriminatorio di tale
determinazione, così come la sostanziale assenza di una specifica
motivazione del mancato riconoscimento dell'indennità, a fronte di quanto
precedentemente prospettato in termini di correlazione con i desiderata del
Sindaco, suffraga la valenza ritorsiva del diniego, quand'anche legato a
valutazione discrezionale (per il
rilievo della motivazione deve del resto richiamarsi Cass. Sez. 6, n. 13341
del 27/10/1999, Stagno D'Alcontres, rv. 215278, nonché la più recente Cass.
Sez. 6, n. 21976 del 05/04/2013, Paiardini, rv. 256549).
E' del tutto inconferente infine la circostanza che la fonte dell'indennità
fosse costituita da una convenzione, non riconducibile né alla legge né al
regolamento: in realtà deve ribadirsi come la valutazione di illiceità
riposi anche in questo caso sulla valenza discriminatoria e ritorsiva del
diniego, nei termini già descritti.
3. E' parimenti infondato il terzo motivo.
3.1. Con riguardo al tema della c.d. doppia ingiustizia, si
rileva in generale che accanto al profilo della violazione di legge o di
regolamento (o della violazione dell'obbligo di astensione) che deve
connotare la condotta, deve individuarsi il profilo dell'ingiustizia del
vantaggio patrimoniale o del danno, che costituiscono, in alternativa,
l'evento consumativo del delitto di abuso di ufficio.
Tale ingiustizia può essere individuata sia in base a
profili autonomi rispetto a quelli che connotano la condotta sia quale
proiezione di quegli stessi profili, ove idonei a qualificare il risultato
prodotto (sul punto Cass. Sez. 6,
n. 48913 del 04/11/2015, Ricci, rv. 265473; Cass. Sez. 6, n. 11394 del
29/01/2015, Strassoldo, rv. 262793).
D'altro canto la nozione di danno ingiusto deve
essere intesa non solo con riguardo a situazioni patrimoniali e a diritti
soggettivi perfetti (Cass. Sez. 6,
n. 39452 del 07/07/2016, Brigandì, rv. 268222), dovendosi
aver riguardo ad ogni tipo di aggressione arrecata a situazioni soggettive
di pertinenza di un soggetto, nel presupposto che la stessa sia
giuridicamente ingiustificata e tale da produrre conseguenze lesive.
Assume infatti rilievo la fattispecie di danno ingiusto
evocata dall'art.
2043 cod. civ., riferibile anche alla lesione di interessi legittimi
(sul punto dopo l'analisi di Cass. Civ. Sez. U., n. 500 del 22/07/1999, rv.,
si rinvia per più recenti puntualizzazioni del tema a Cass. Civ., Sez. 1, n.
16196 del 20/06/2018, rv. 649479; Cass. Sez. L., n. 7043 del 13/04/2004, rv.
572035), ferma restando la concreta valutabilità della «chance»,
particolarmente rilevante nel caso di comparazione di poche posizioni.
3.2. In tale prospettiva è all'evidenza infondata la doglianza incentrata
sulla non configurabilità di un diritto soggettivo del Sa. a vedersi
confermato l'incarico ed a fruire dell'indennità richiesta.
Al contrario deve condividersi l'assunto dei Giudici di merito secondo i
quali la condotta discriminatoria e ritorsiva del
ricorrente, sostenuta altresì da quello specifico animus, si è
proiettata sul Sa., determinando l'intenzionale pregiudizio della sua
posizione, valutabile in termini professionali e patrimoniali, pur a
prescindere dalla sussistenza di un vero e proprio diritto soggettivo, in
quanto ha compromesso in quello specifico momento la possibilità del Sa. di
continuare a svolgere le medesime mansioni, ne ha per contro determinato il
sostanziale demansionamento, con sottoposizione a soggetto precedentemente a
lui sottoposto, ha significato il mancato riconoscimento dell'indennità, che
lo stesso Sindaco aveva mostrato di voler condizionare a comportamenti in
linea con i suoi desiderata.
Tali effetti lesivi della condotta sono stati dunque
correttamente qualificati come di per sé ingiusti, in quanto tali da
pregiudicare la posizione del Sa. e da non trovare alcuna giuridica
giustificazione, avuto riguardo alle illecite determinazioni assunte.
Non rileva in senso contrario che
in prosieguo di tempo, dopo l'annullamento disposto dal Giudice del lavoro,
fosse stato riattivato il procedimento con valutazione comparativa, cui il
Sa. aveva omesso di partecipare, e fosse stata assunta una nuova
determinazione in merito alla spettanza dell'indennità con esito negativo
per lo stesso Sa., avallato questa volta dal Giudice del lavoro, a fronte di
addotti persistenti profili di discriminatorietà.
Va infatti rimarcata in questa sede la lesione già
prodottasi, in conseguenza dell'illecito esercizio delle funzioni
amministrative e del contenuto discriminatorio delle relative
determinazioni, tali da arrecare di per sé, «hic et nunc», un
pregiudizio contra ius, peraltro assistito dall'intenzionalità,
insita nello stesso connotato di ritorsione sotteso all'agire
amministrativo. |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Commissioni inclusive.
Può considerarsi aderente al dettato legislativo un regolamento del
consiglio comunale in base al quale il rispetto del criterio della
rappresentanza proporzionale dei gruppi presenti in consiglio presso le
commissioni consiliari sia riferito al «numero complessivo dei componenti le
commissioni»?
In base a quanto disposto dall'art. 38, comma 6, del decreto legislativo n.
267/2000, le commissioni consiliari, una volta istituite sulla base di una
facoltativa previsione statutaria, sono disciplinate dall'apposito
regolamento comunale con l'inderogabile limite, posto dal legislatore,
riguardante il rispetto del criterio proporzionale nella composizione. Ciò
significa che le forze politiche presenti in consiglio devono essere il più
possibile rispecchiate anche nelle commissioni in modo che in ciascuna di
esse ne sia riprodotto il peso numerico e di voto.
Poiché il legislatore non precisa come debba essere applicato il surriferito
criterio di proporzionalità, spetta al regolamento, cui sono demandate la
determinazione dei poteri delle commissioni, nonché la disciplina
dell'organizzazione e delle forme di pubblicità dei lavori, stabilire i
meccanismi idonei a garantirne il rispetto.
Secondo l'univoco e consolidato indirizzo giurisprudenziale formatosi, il
criterio proporzionale può dirsi rispettato ove sia assicurata, in ogni
commissione, la presenza di ciascun gruppo presente in consiglio in modo
che, se una lista è rappresentata da un solo consigliere, questi deve essere
presente in tutte le commissioni costituite (si veda Tar Lombardia, Brescia,
04.07.1992, n. 796; Tar Lombardia Milano, 03.05.1996, n. 567), assicurando
una composizione delle commissioni proporzionata all'entità di ciascun
gruppo consiliare.
Pertanto il dettato legislativo, che prevede il rispetto del criterio
proporzionale nella composizione delle commissioni consiliare, dovrebbe
essere riferito ad ogni commissione costituita e non all'insieme delle
commissioni stesse (articolo ItaliaOggi del 17.05.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Diritto di accesso di un consigliere al sistema informatico
comunale.
L’accesso diretto tramite utilizzo di
apposita password al protocollo informatico dell’Ente è uno
strumento consentito ai consiglieri comunali, finalizzato a
favorire la tempestiva acquisizione delle informazioni
richieste senza aggravare l’ordinaria attività
amministrativa.
Peraltro, la determinazione delle modalità organizzative
attraverso le quali viene garantito l’accesso ai consiglieri
comunali rientra tra le prerogative di esclusiva competenza
dell’Amministrazione.
Il Comune chiede un parere in materia di diritto di accesso
spettante ai consiglieri comunali. Più in particolare,
premesso che un amministratore locale ha richiesto all’Ente
l’accesso, tramite apposita password, al sistema informatico
comunale “al fine di acquisire tempestivamente le
informazioni necessarie all’espletamento del proprio mandato
elettivo”, chiede se la consultazione del protocollo
generale comunale debba limitarsi ad una presa visione
generale dello stesso eventualmente seguita da una richiesta
specifica e mirata di determinati atti/documenti o se tale
consultazione già, ab origine, possa comprendere la
presa visione di tutti gli atti e documenti allegati,
ancorché relativi ad attività endoprocedimentali.
Il diritto di accesso dei consiglieri comunali è
disciplinato all’articolo 43 del decreto legislativo
18.08.2000, n. 267, il quale, al comma 2, riconosce a questi
il diritto di ottenere dagli uffici comunali, nonché dalle
loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le
informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del
loro mandato.
Si osserva, in via generale, che la giurisprudenza ha
costantemente sottolineato che le informazioni acquisibili
devono considerare l’esercizio, in tutte le sue potenziali
esplicazioni, del munus di cui ciascun consigliere
comunale è individualmente investito, in quanto membro del
consiglio. Ne deriva che tale munus comprende la
possibilità per ogni consigliere di compiere, attraverso la
visione dei provvedimenti adottati e l’acquisizione di
informazioni, una compiuta valutazione della correttezza e
dell’efficacia dell’operato dell’amministrazione comunale,
utile non solo per poter esprimere un voto maggiormente
consapevole sugli affari di competenza del consiglio, ma
anche per promuovere, nell’ambito del consiglio stesso, le
varie iniziative consentite dall’ordinamento ai membri di
quel collegio [1].
Il generale diritto di accesso del consigliere comunale è
quindi esercitato riguardo ai dati utili per l’esercizio del
mandato e fornisce una veste particolarmente qualificata
all’interesse all’accesso del titolare di tale funzione
pubblica, legittimandolo all’esame e all’estrazione di copia
dei documenti che contengono le predette notizie e
informazioni [2].
Sul consigliere comunale non può gravare alcun onere di
motivare le proprie richieste di informazione, né gli uffici
comunali hanno titolo a richiedere le specifiche ragioni
sottese all’istanza di accesso, né a compiere alcuna
valutazione circa l’effettiva utilità della documentazione
richiesta ai fini dell’esercizio del mandato. A tale
riguardo il Ministero dell’Interno ha evidenziato che “diversamente
opinando, la P.A. assumerebbe il ruolo di arbitro delle
forme di esercizio delle potestà pubblicistiche dell’organo
deputato all’individuazione ed al perseguimento dei fini
collettivi. Conseguentemente, gli uffici comunali non hanno
il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l’oggetto
delle richieste di informazioni avanzate da un Consigliere
comunale e le modalità di esercizio del munus da questi
espletato” [3].
Il diritto di accesso spettante agli amministratori locali,
pur essendo più ampio di quello riconosciuto alla generalità
dei cittadini ai sensi del Capo V della legge 07.08.1990, n.
241, incontra il divieto di usare i documenti per fini
privati o comunque diversi da quelli istituzionali, in
quanto i dati acquisiti in virtù della carica ricoperta
devono essere utilizzati esclusivamente per le finalità
collegate all’esercizio del mandato (presentazione di
mozioni, interpellanze, espletamento di attività di
controllo politico-amministrativo ecc.). Il diritto di
accesso, inoltre, non deve essere emulativo, in quanto
riferito ad atti palesemente inutili ai fini
dell’espletamento del mandato. [4]
Ancora è stato affermato che le richieste di accesso devono
essere esercitate con modalità e forme tali da evitare
intralci all’ordinario svolgimento dell’attività degli
Uffici. Su questa linea la giurisprudenza ha specificato
che: “Il consigliere comunale non può abusare del diritto
all’informazione riconosciutogli dall’ordinamento,
piegandone le alte finalità a scopi meramente emulativi od
aggravando eccessivamente, con richieste non contenute entro
gli immanenti limiti della proporzionalità e della
ragionevolezza, la corretta funzionalità amministrativa
dell’ente civico” [5].
Con riferimento specifico alla richiesta di accesso al
protocollo generale dell’Ente si è espresso il TAR Sardegna
[6]
affermando che “deve essere accolta la richiesta dei
consiglieri comunali di prendere visione del protocollo
generale […] senza alcuna esclusione di oggetti e notizie
riservate e di materie coperte da segreto, posto che i
Consiglieri comunali sono comunque tenuti al segreto, ai
sensi dell’art. 43, comma 2, del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267”.
Anche il Ministero dell’Interno, nell’affrontare questioni
analoghe a quella in esame, si è, anche di recente, espresso
in termini favorevoli all’accesso rilevando, in particolare,
che: “Anche la giurisprudenza ha affermato il diritto del
consigliere alla visione del protocollo generale, senza
alcuna esclusione di oggetti e notizie riservate e di
materie coperte da segreto, posto che i consiglieri comunali
sono tenuti al segreto – ai sensi del citato articolo 43 del
decreto legislativo n. 267/2000” [7].
Con specifico riferimento al protocollo informatico comunale
la Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi nel
parere del 22.02.2011 ha rilevato che “ai sensi della
vigente normativa […] ogni comune deve provvedere a
realizzare il protocollo informatico, al quale possono poi
liberamente accedere i consiglieri comunali, i quali
pertanto –tramite tale protocollo– possono prendere
visione di tutte le determinazioni e le delibere adottate
dall’ente; ciò in ottemperanza al principio generale di economicità dell’azione amministrativa, che riduce allo
stretto necessario la redazione in forma cartacea dei
documenti amministrativi” [8].
Le conclusioni di cui sopra sono state fatte proprie anche
dal Ministero dell’interno [9]
il quale, investito della questione del diritto di accesso
al sistema informativo comunale da parte dei consiglieri ha
richiamato le determinazioni della Commissione per l’accesso
ai documenti amministrativi tra cui quella secondo cui “l’accesso
diretto tramite utilizzo di apposita password al sistema
informatico dell’Ente, ove operante, è uno strumento di
accesso certamente consentito al consigliere comunale che
favorirebbe la tempestiva acquisizione delle informazioni
richieste senza aggravare l’ordinaria attività
amministrativa. Ovviamente il consigliere comunale rimane
responsabile della segretezza della password di cui è stato
messo a conoscenza a tali fini (art. 43, comma 2, T.UOEL)”
[10].
Preme, tuttavia, osservare che l’accesso come sopra
configurato consentirebbe ai consiglieri di conoscere una
moltitudine di dati personali e di informazioni anche aventi
natura riservata e/o relative a determinate situazioni che
esigono una dovuta tutela al fine di scongiurare una
diffusione incontrollata di dati sensibili o comunque, la
cui conoscenza, potrebbe essere fonte di disagio sociale
[11].
Come rilevato dall’Anci, “l’accesso diretto non può,
però, essere esteso alla consultazione dei singoli atti
anche per la presenza nei registri del protocollo di atti
soggetti al segreto istruttorio o di atti personali o
riservati la cui visione è un diritto del consigliere,
comunque soggetta a valutazione da parte
dell’amministrazione” [12].
In altri termini si potrebbe affermare che, ferme le
considerazioni sopra espresse circa l’ampiezza del diritto
di accesso spettante ai consiglieri comunali, occorrerebbe
altresì considerare che “la determinazione delle modalità
organizzative attraverso le quali viene garantito l’accesso
ai Consiglieri comunali rientra tra le prerogative di
esclusiva competenza dell’Amministrazione che dovranno
evitare sia surrettizie limitazioni del diritto di accesso
che aggravi ingiustificati al buon funzionamento
dell’amministrazione” [13].
In questa direzione pare muoversi la recente sentenza del
TAR Sardegna [14]
la quale, pur riconoscendo il diritto dei consiglieri
comunali all’ottenimento delle chiavi di accesso al
protocollo informatico dell’Ente, ha limitato tale diritto
alla visione dei soli dati di sintesi ricavabili dalla
consultazione telematica.
Afferma, in particolare, detto TAR che “la richiesta di
accedere al protocollo informatico, e quindi di essere in
possesso delle chiavi di accesso telematico rappresenta una
condizione preliminare, ma nondimeno necessaria, per
l’esercizio consapevole del diritto di accesso, in modo che
questo si svolga non attraverso una apprensione
generalizzata e indiscriminata degli atti
dell’amministrazione comunale […] ma mediante una selezione
degli oggetti degli atti di cui si chiede l’esibizione.
Peraltro, una delle modalità essenziali per poter operare in
tal senso è rappresentata proprio dalla possibilità di
accedere (non direttamente al contenuto della documentazione
in arrivo o in uscita dall'amministrazione, ma) ai dati di
sintesi ricavabili dalla consultazione telematica del
protocollo”.
Quanto, infine, all’accessibilità anche degli atti
endoprocedimentali il Ministero dell’Interno ha rilevato che
«salvo espressa eccezione di legge, ai consiglieri
comunali non può essere opposto alcun divieto,
determinandosi altrimenti un illegittimo ostacolo alla loro
funzione visto, peraltro che ai sensi dell’art. 22, c. 1,
lett. d), della legge n. 241/1990 anche gli atti interni
rientrano nel concetto di “documento amministrativo”,
indipendentemente dalla loro eventuale idoneità probatoria»
[15].
Riconosciuto, pertanto, il diritto di accesso dei
consiglieri comunali nell’accezione sopra descritta, il
Ministero dell’Interno ha ribadito, in varie occasioni, che
“Fatto salvo il diritto dei consiglieri, la materia,
comunque, dovrebbe trovare apposita disciplina regolamentare
di dettaglio per il suo esercizio” [16].
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[1] Si veda, tra le altre, Consiglio di Stato, sez. V,
sentenza del 29.08.2011, n. 4829.
[2] Cfr. Consiglio di Stato, sez. V, decisioni 21.02.1994,
n. 119, 08.09.1994, n. 976, 26.09.2000, n. 5109, che
precisano che la facoltà di esaminare ed estrarre copia dei
documenti spetta “a qualunque cittadino che vanti un proprio
interesse qualificato e sono, a maggior ragione, contenute
nella più ampia e qualificata posizione di pretesa
all’informazione spettante ratione officii al consigliere
comunale”. Tale principio è stato successivamente ripreso e
confermato dal TAR Piemonte, sezione II, nella sentenza del
31.07.2009, n. 5879.
[3] Ministero dell’Interno, parere del 18.05.2017.
[4] Tra le altre, TAR Lombardia, Milano, sez. III, sentenza
del 23.09.2014, n. 2363.
[5] TAR Campania, Salerno, sez. II, sentenza del 13.11.2012,
n. 2040.
[6] TAR Sardegna, sez. II, sentenza del 12.01.2007, n. 29.
[7] Ministero dell’Interno, parere del 28.06.2018. Nello
stesso senso si veda, anche, il parere del Ministero
dell’Interno del 21.08.2018.
[8] Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi,
plenum del 22.02.2011. La medesima Commissione in altra
occasione (plenum del 23.10.2012) ha affermato che: “Proprio
al fine di evitare che le continue richieste di accesso si
trasformino in un aggravio della ordinaria attività
amministrativa dell’ente locale, questa Commissione ha
riconosciuto la possibilità per il consigliere comunale di
avere accesso diretto al sistema informatico interno (anche
contabile) dell’ente attraverso l’uso di password di
servizio (fra gli ultimi, cfr. parere del 29.11.2009) e, più
recentemente, anche al protocollo informatico”.
Si veda, altresì, il parere espresso dalla medesima
Commissione del 03.02.2009 ove si afferma che: “Il
ricorso a supporti magnetici o l’accesso diretto al sistema
informatico interno dell’Ente, ove operante, sono strumenti
di accesso certamente consentiti al consigliere comunale che
favorirebbero la tempestiva acquisizione delle informazioni
richieste senza aggravare l’ordinaria attività
amministrativa”.
[9] Ministero dell’Interno, parere del 18.05.2017.
[10] Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi,
seduta plenaria del 16.03.2010.
[11] Osservazioni tratte da M. Lucca, “L’accesso al
protocollo da parte del consigliere comunale”, reperibile
sul seguente sito internet: www.mauriziolucca.com
[12] ANCI, parere del 19.06.2018.
[13] ANCI, parere del 19.06.2018, citato anche in nota 12.
[14] TAR Sardegna, Cagliari, sentenza del 31.05.2018, n.
531. Nello stesso senso si veda, anche, TAR Toscana,
Firenze, sentenza del 22.12.2016, n. 1844.
[15] Ministero dell’Interno, parere del 18.05.2017.
[16] Tra gli altri si veda Ministero dell’Interno parere del
28.06.2018 (15.05.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Il consiglio? È un
diritto. I motivi della convocazione sono insindacabili. Legittimo chiedere
la riunione per esaminare mozioni e interrogazioni.
Si può chiedere la convocazione del consiglio
comunale ai sensi dell'art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000
per poter esaminare atti di sindacato ispettivo?
Un quinto dei consiglieri comunali di minoranza di un ente ha depositato una
mozione ed una interrogazione contestualmente alla istanza di convocazione
ai sensi dell'art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000.
In base al regolamento sul funzionamento del consiglio comunale è previsto
che le interrogazioni e le mozioni presentate al protocollo dell'ente
dovranno essere iscritte all'ordine del giorno in occasione della
convocazione della prima adunanza del consiglio successiva alla loro
presentazione.
La medesima fonte normativa prevede che la convocazione richiesta ex citato
art. 39, comma 2, «deve contenere in allegato, per ciascun argomento
indicato da iscrivere all'ordine del giorno, il relativo schema di
deliberazione».
Ad avviso del sindaco, in base al combinato disposto delle norme
regolamentari su richiamate, sarebbe escluso che la richiesta di
convocazione formulata da un quinto dei consiglieri possa avere ad oggetto
atti di sindacato ispettivo, dovendo ciascuna richiesta essere,
indefettibilmente, corredata dal relativo «schema di deliberazione».
Il diritto ex art. 39, comma 2, «è tutelato in modo specifico dalla legge
con la previsione severa ed eccezionale della modificazione dell'ordine
delle competenze mediante intervento sostitutivo del prefetto in caso di
mancata convocazione del consiglio comunale in un termine emblematicamente
breve di venti giorni» (Tar Puglia, sez. 1, 25.07.2001, n. 4278).
L'orientamento che vede riconosciuto e definito «il potere dei
consiglieri di chiedere la convocazione del consiglio medesimo» come «diritto»
dal legislatore è, quindi, ormai ampiamente consolidato (sentenza Tar
Puglia, Lecce, sez. I del 04.02.2004, n. 124).
La questione sulla sindacabilità dei motivi che determinano i consiglieri a
chiedere la convocazione straordinaria dell'assemblea, si è orientata nel
senso che al presidente del consiglio spetti solo la verifica formale della
richiesta prescritto numero di consiglieri, non potendo comunque sindacarne
l'oggetto.
La giurisprudenza in materia si è da tempo espressa affermando che, in caso
di richiesta di convocazione del consiglio da parte di un quinto dei
consiglieri, «al presidente del consiglio comunale spetta soltanto la
verifica formale che la richiesta provenga dal prescritto numero di soggetti
legittimati, mentre non può sindacarne l'oggetto, poiché spetta allo stesso
consiglio nella sua totalità la verifica circa la legalità della
convocazione e l'ammissibilità delle questioni da trattare, salvo che non si
tratti di oggetto che, in quanto illecito, impossibile o per legge
manifestamente estraneo alle competenze dell'assemblea in nessun caso
potrebbe essere posto all'ordine del giorno» (Tar Piemonte, n. 268/1996,
Tar Sardegna, n. 718 del 2003 ).
Si soggiunge che il Tar Sardegna, con la sentenza n. 718 del 2003, ha
respinto un ricorso avverso un provvedimento prefettizio ex art. 39, comma
5, del citato decreto legislativo in quanto, ad avviso del giudice
amministrativo, il prefetto non poteva esimersi dal convocare d'autorità il
consiglio comunale, «essendosi verificata l'ipotesi di cui all'art. 39
del Tuel n. 267/2000».
Inoltre, si è sostenuto che appartiene ai poteri sovrani dell'assemblea
decidere in via pregiudiziale che un dato argomento inserito nell'ordine del
giorno non debba essere discusso (questione pregiudiziale) ovvero se ne
debba rinviare la discussione (questione sospensiva) (Tar Puglia, Lecce,
sez. 1, 25.07.2001, n. 4278 e sempre Tar Puglia, Lecce, sez. 1,
04.02.2004,n. 124).
Va peraltro rilevato che l'art. 43 del Tuel demanda alla potestà statutaria
e regolamentare dei comuni e delle province la disciplina delle modalità di
presentazione delle interrogazioni, delle mozioni e di ogni altra istanza di
sindacato ispettivo proposta dai consiglieri, nonché delle relative
risposte, che devono comunque essere fornite entro trenta giorni.
Con riguardo a quest'ultimo ambito, occorre osservare che, qualora
l'intenzione dei proponenti non sia diretta a provocare una delibera in
merito del consiglio comunale, bensì a porre in essere un atto di sindacato
ispettivo, si potrebbe ipotizzare, ai sensi dell'art. 42, comma 1, del
decreto legislativo n. 267/2000, che rientri nella competenza del Consiglio
comunale in qualità di «organo di indirizzo e di controllo
politico-amministrativo» anche la trattazione di «questioni» che,
pur non rientrando nell'elencazione del comma 2 del medesimo art. 42,
attengono comunque al suddetto ambito di controllo.
Del resto, la dizione legislativa che parla di «questioni» e non di
deliberazioni o di atti fondamentali, conforta nel ritenere che la
trattazione di argomenti non rientranti nella previsione del citato comma 2,
dell'art. 42, non debba necessariamente essere subordinata alla successiva
adozione di provvedimenti da parte del consiglio comunale.
Sulla base di tali argomentazioni, si ritiene, pertanto, che il prefetto sia
tenuto alla applicazione della normativa prevista dall'art. 39, comma 5, del
decreto legislativo n. 267/2000, invitando il sindaco a voler provvedere
alla convocazione del richiesto consiglio comunale (articolo ItaliaOggi del
10.05.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Spese
legali rimborsabili solo se il regolamento stabilisce i criteri.
Dopo le modifiche legislative sulla rimborsabilità delle spese legali agli
amministratori assolti in ambito di procedimenti penali, la questione di
maggior interesse si è spostata sull'invarianza della spesa. L'orientamento
maggioritario dei giudici contabili ha confermato che l'invarianza
finanziaria deve essere circoscritta alle sole spese della missione 1 con i
«Servizi istituzionali, generali e di gestione».
Questa indicazione è stata ribadita anche dalla Corte della Campania (parere
06.05.2019 n. 102) precisando, inoltre, la necessaria previa
regolamentazione per poter aderire ai canoni di legalità, imparzialità e
buon andamento dell'azione amministrativa ed evitare anche ogni possibile
conflitto di interesse.
La disposizione legislativa
A causa di una giurisprudenza di legittimità particolarmente restrittiva sul
rimborso delle spese legali sostenute dagli amministratori degli enti locali
per la propria difesa nei procedimenti penali, il Dl 78/2015 ha modificato
l'articolo 86 del Testo unico degli enti locali prevedendo che, qualora ne
ricorrano le condizioni, gli enti locali possono rimborsare le spese legali
agli amministratori assolti, solo qualora vi sia invarianza di spesa.
In altri termini, la normativa prevede che, senza nuovi o maggiori oneri per
la finanza pubblica, in caso di conclusione del procedimento con sentenza di
assoluzione o di emanazione di un provvedimento di archiviazione, in assenza
di conflitto di interessi con l'ente, in presenza di nesso causale tra
funzioni esercitate e fatti giuridicamente rilevanti e, infine, in assenza
di dolo o colpa grave, gli enti possono rimborsare le spese legali sostenute
dagli amministratori per la propria difesa in giudizio.
Le diverse posizioni della giurisprudenza contabile
Sulla questione della rimborsabilità delle spese legali e, in modo
particolare, sul concetto di invarianza di spesa, si sono formate due
diverse posizioni della magistratura contabile. Da una parte una
giurisprudenza minoritaria (Corte dei conti Basilicata) ha individuato l'invarianza
all'interno delle risorse ordinarie finanziarie, umane e materiali che a
legislazione vigente garantiscono l'equilibrio di bilancio, condizionando il
rimborso alla predeterminazione di criteri e modalità cui gli enti locali
devono attenersi per l'assegnazione o il riparto dello stanziamento.
Una corrente maggioritaria (Lombardia; Molise; Puglia; Piemonte, Umbria ed
Emilia Romagna) ha, invece, circoscritto l'invarianza alle sole spese della
Missione 1 per «Servizi istituzionali, generali e di gestione», come una
sorta di autofinanziamento all'interno delle spese a disposizione degli
stessi organi politici.
A questa corrente maggioritaria si affianca anche la Sezione della Campania
in considerazione del fatto che la locuzione «senza nuovi o maggiori oneri
per la finanza pubblica» rischierebbe di rimanere svuotata di qualsivoglia
significato restando assorbita, diversamente opinando, dal principio del
pareggio e degli equilibri di bilancio.
Le indicazioni del Collegio contabile campano
Un volta precisata la posta contabile cui fare riferimento per l'invarianza
della spesa, il Collegio contabile partenopeo impone ulteriori condizioni.
In particolare la materia del ristoro delle spese legali agli amministratori
comporta scelte discrezionali con «vantaggi economici per gli stessi
amministratori» che ne beneficiano, con la conseguenza che i criteri e le
modalità cui gli enti devono attenersi dovrebbero essere sanciti all'interno
di un regolamento che definisca ex ante l'assegnazione o il riparto
dello stanziamento.
Infatti, in mancanza della previa regolamentazione gli enti saranno
costretti a seguire le regole generali di legalità, imparzialità e buon
andamento dell'azione amministrativa, così da evitare anche ogni possibile
conflitto di interesse
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 28.05.2019). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
Inconferibilità di incarichi a componenti di organi politici di livello
locale.
Sussisterebbe la causa di inconferibilità di cui
all’art. 7, co. 2, lett. c), del D.Lgs. 39/2013 nei confronti di un
amministratore locale che venisse nominato dal sindaco quale componente del
consiglio di amministrazione di un’Azienda pubblica di servizi alla persona.
Tale inconferibilità riguarda non solo coloro che hanno ricoperto la carica
politica nei due anni precedenti l’eventuale conferimento dell’incarico, ma
altresì coloro che la ricoprono attualmente.
Il Comune chiede un parere in merito alla possibilità che il sindaco nomini
un proprio consigliere comunale quale componente del consiglio di
amministrazione di un’Azienda pubblica di servizi alla persona (ASP), avente
sede nel Comune medesimo, atteso che quest’ultimo concluderà a breve il
proprio mandato elettivo [1].
La normativa che si ritiene debba essere presa in considerazione è il
decreto legislativo 08.04.2013, n. 39 recante “Disposizioni in materia di
inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche
amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, a norma
dell'articolo 1, commi 49 e 50, della legge 06.11.2012, n. 190”, in
particolare, per quel che rileva in questa sede, l’articolo 7, comma 2,
lett. c), secondo cui: “A coloro che nei due anni precedenti siano stati
componenti della giunta o del consiglio della provincia, del comune o della
forma associativa tra comuni che conferisce l'incarico, […] non possono
essere conferiti:
a) omissis;
b) omissis;
c) gli incarichi di amministratore di ente pubblico di livello
provinciale o comunale;
d) omissis”.
In via preliminare si rileva che l’azienda pubblica di servizi alla persona
rientra tra gli “enti pubblici di livello provinciale o comunale”. A
sostegno di un tanto depongono le seguenti argomentazioni espresse in un
parere reso da questo Ufficio [2]
e che, di seguito, si riportano succintamente.
La definizione di «enti pubblici» è rinvenibile all’articolo 1, comma
1, lettera b), del D.Lgs. 39/2013 che li qualifica come «enti di diritto
pubblico non territoriali nazionali, regionali o locali, comunque
denominati, istituiti, vigilati, finanziati dalla pubblica amministrazione
che conferisce l’incarico, ovvero i cui amministratori siano da questa
nominati».
Si ritiene che l’Azienda pubblica di servizi alla persona rientri in tale
qualificazione in quanto ente dotato di personalità giuridica di diritto
pubblico ai sensi dell’articolo 3 della legge regionale 11.12.2003, n. 19,
il cui statuto disciplina modalità e criteri di elezione o nomina degli
organi di amministrazione da parte degli enti locali o di altri soggetti
(articolo 4, commi 1 e 2, della legge regionale 19/2003). Nel caso in esame,
in base allo statuto dell’ASP i componenti del consiglio di amministrazione
sono nominati dal sindaco del Comune in cui ha sede l’Azienda
[3]: ne deriva la
connotazione “locale” dell’ente.
Si consideri, altresì, che la norma citata si applica anche con riferimento
agli amministratori che attualmente ricoprono la carica politica, e non solo
a quelli che l’hanno ricoperta in passato (due anni prima)
[4].
Alla luce delle considerazioni sopra espresse, e nel ribadire che il
conferimento dell’incarico di amministratore dell’ASP compete al sindaco del
Comune in cui l’amministratore locale svolge il proprio mandato elettivo,
segue l’inconferibilità allo stesso dell’incarico di componente del
consiglio di amministrazione dell’Azienda pubblica di servizi alla persona
in riferimento.
Peraltro il fatto che l’attuale amministratore locale cesserà dalle proprie
funzioni il prossimo mese di maggio non altera le conclusioni cui sopra si è
addivenuti atteso che la causa di inconferibilità in argomento, come già
rilevato, riguarda non solo coloro che attualmente ricoprono la carica
politica ma altresì coloro che l’hanno ricoperta nei due anni precedenti
l’eventuale conferimento dell’incarico.
Per completezza espositiva si segnala, inoltre, la norma di cui all’articolo
7, comma 1, della legge regionale 19/2003 nella parte in cui prevede che: “La
carica di amministratore di un’azienda è incompatibile con la carica di: a)
amministratore di comune […] dove insiste l’azienda”.
Segue che per il periodo di tempo in cui l’amministratore dell’Azienda
pubblica di servizi alla persona fosse, altresì, amministratore locale
sussisterebbe nei suoi confronti anche la causa di incompatibilità prevista
dall’indicata legge regionale.
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[1] Il Comune sentito anche per le vie brevi specifica che il consigliere
comunale cesserà dalle sue funzioni il prossimo mese di maggio e non si è
ricandidato.
[2] Parere prot. n. 16597 del 28.05.2013.
[3] L’articolo 6 dello statuto dell’ASP recita: “Il consiglio di
amministrazione è formato da cinque componenti, ivi compreso il presidente,
nominati dal Sindaco del Comune di […], di cui uno in rappresentanza degli
eredi della donatrice […]”. Si precisa che l’articolo individua nel sindaco
del comune in cui l’Azienda ha la propria sede legale il soggetto deputato
alla nomina dei componenti del consiglio di amministrazione dell’Azienda.
[4] Si veda, al riguardo, l’orientamento n. 11/2015 espresso dall’ANAC
secondo cui: “Le situazioni di inconferibilità previste nell’art. 7 del
d.lgs. 39/2013, nei confronti di coloro che nell’anno o nei due anni
precedenti hanno ricoperto le cariche politiche e gli incarichi ivi
indicati, vanno equiparate, ai fini del d.lgs. 39/2013, a coloro che
attualmente ricoprono tali ruoli” (03.05.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Stop ai consiglieri politici. La figura
non è compatibile con il Tuel. Le norme sul riparto delle attribuzioni non
possono essere derogate
Il sindaco può nominare i cosiddetti consiglieri
politici?
L'ordinamento degli enti locali non prevede la figura del «consigliere
politico»; i consiglieri, gli assessori e il sindaco, quali organi di
governo degli enti locali, sono figure tipiche individuate dalla legge.
Si evidenzia che, nel sistema posto dal legislatore costituzionale, art.
117, lettera p), lo Stato ha legislazione esclusiva in materia di «organi
di governo e funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane»,
mentre all'ente locale è riconosciuta un'autonomia statutaria, normativa,
organizzativa ed amministrativa nel rispetto, però, dei principi fissati dal
decreto legislativo n. 267/2000.
Ai sensi dell'art. 6 del suddetto Tuel, lo statuto stabilisce le norme
fondamentali dell'organizzazione dell'ente e specifica le attribuzioni degli
organi.
È prevista, inoltre, la possibilità di istituire uffici di supporto agli
organi di direzione politica ai sensi dell'art. 90 del citato decreto
legislativo che al primo comma demanda al regolamento degli uffici e dei
servizi la possibilità di prevedere la costituzione di uffici posti alle
dirette dipendenze del sindaco, della giunta o degli assessori per
l'esercizio delle funzioni di indirizzo e controllo loro attribuite dalla
legge.
Con riferimento a tale istituto, va ricordato che la giurisprudenza
contabile ha evidenziato il carattere necessariamente oneroso del rapporto
con i soggetti incaricati di funzioni di staff (cfr. pronuncia Src Campania
n. 155/2014/Par).
Per quanto concerne la possibilità che il sindaco deleghi proprie funzioni
ai consiglieri, tali ipotesi possono ricorrere, ai sensi dell'art. 54, comma
10, per l'esercizio delle funzioni di ufficiale del governo nei quartieri e
nelle frazioni, e ai sensi dell'art. 31, comma 4, in caso di partecipazioni
alle assemblee consortili.
Tutto ciò premesso, considerato che, nell'ambito dei principi fissati con
legge dello Stato, l'ente può integrare, nei termini su indicati, le norme
che stabiliscono il riparto delle attribuzioni, ma non può derogarle,
l'individuazione della figura del «consigliere politico» non appare
compatibile con l'ordinamento degli enti locali (articolo ItaliaOggi del 03.05.2019). |
aprile 2019 |
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CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Ok ai consigli urgenti. Per gli atti
soggetti a termine perentorio. Quando è possibile
riunire l' assemblea dopo la convocazione dei comizi.
E' possibile, dopo la convocazione dei comizi elettorali, dare seguito alla
richiesta di convocazione del consiglio comunale ai sensi dell' art. 39,
comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000?
Ai sensi dell' art. 38, comma 5, i consigli comunali durano in carica per un
periodo di cinque anni sino all'elezione dei nuovi, limitandosi, dopo la
pubblicazione del decreto di indizione dei comizi elettorali, ad adottare
gli atti urgenti e improrogabili. La previsione legislativa in esame trae la
propria ratio ispiratrice nella necessità di evitare che il consiglio
comunale possa condizionare la formazione della volontà degli elettori
adottando atti aventi natura cosiddetta «propagandistica», tali da alterare
la par condicio tra le forze politiche che partecipano alle elezioni
amministrative.
È stato precisato in giurisprudenza che la preclusione disposta dalla citata
norma opera solamente con riguardo a quelle fattispecie in cui il consiglio
comunale è chiamato ad operare in pieno esercizio di discrezionalità e senza
interferenze con i diritti fondamentali dell' individuo riconosciuti e
protetti dalla fonte normativa superiore.
Quando invece l'organo consiliare è chiamato a pronunciarsi su questioni
vincolate nell'an, nel quando e nel quomodo e che, inoltre, coinvolgano
diritti primari dell'individuo, l'esercizio del potere non può essere
rinviato (Tar Puglia n. 382/2004).
È stato precisato, inoltre, che il carattere di atti urgenti e improrogabili
possa essere riconosciuto agli atti «per i quali è previsto un termine
perentorio e decadenziale, superato il quale viene meno il potere di
emetterli, ovvero essi divengono inutili, cioè inidonei a realizzare la
funzione per la quale devono essere formati o hanno un' utilità di gran
lunga inferiore» (Tar Veneto n. 1118 del 2012).
In ordine alla sussistenza del presupposto della urgenza e improrogabilità,
è stato osservato che lo stesso «costituisce apprezzamento di merito
insindacabile in sede di giurisdizione di legittimità, se non sotto il
limitato profilo della inesistenza del necessario apparato motivazionale,
ovvero della palese irrazionalità od illogicità della motivazione addotta»
(sentenza Tar Friuli-Venezia Giulia n. 585 del 2006, confermata in appello
dal Consiglio di stato con la sentenza n. 6543/2008).
Come indicato nella circolare di questo ministero n. 2 del 07.12.2006,
va rilevato che l'esistenza dei presupposti di urgenza ed improrogabilità
deve essere valutata caso per caso dallo stesso consiglio comunale che ne
assume la relativa responsabilità politica, tenendo presente il criterio
interpretativo di fondo che pone, quali elementi costitutivi della
fattispecie, scadenze fissate improrogabilmente dalla legge e/o il rilevante
danno per l'amministrazione comunale che deriverebbe da un ritardo nel
provvedere.
Pertanto, la richiesta di convocazione d'urgenza del consiglio comunale ai
sensi dell'art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, dovrà
essere valutata alla luce dei criteri ermeneutici sopraindicati (articolo ItaliaOggi del 26.04.2019). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Lo statuto vince sempre. In caso di
contrasto con il regolamento. Gli atti del consiglio comunale restano
efficaci fino all’annullamento.
Può produrre effetti un regolamento sul
funzionamento del consiglio adottato in contrasto con lo statuto comunale?
Che ne è degli atti adottati in coerenza con tale regolamento?
Il caso riguarda un regolamento comunale che, nel fissare il quorum
strutturale per la validità delle sedute a quattro componenti, avrebbe
contraddetto l'art. 21 dello statuto recante «deliberazione degli organi
collegiali». Ai sensi della citata disposizione è previsto, infatti, che
«gli organi collegiali deliberano validamente con l'intervento della metà
dei componenti assegnati».
Il contrasto tra le due fonti normative determinerebbe l'inidoneità della
fonte subordinata, il regolamento del consiglio, a produrre effetti
giuridici. Inoltre, l'illegittimità della norma regolamentare renderebbe
invalide le deliberazioni consiliari eventualmente approvate in contrasto
con la disciplina statutaria vigente.
Per quanto riguarda l'asserito contrasto tra la normativa statutaria e
quella regolamentare, si rileva che in base al principio di gerarchia delle
fonti e in conformità all'articolo 7 del decreto legislativo n. 267/2000 che
disciplina l'adozione dei regolamenti comunali «nel rispetto dei principi
fissati dalla legge e dallo statuto» (cfr. sentenza Tar Lombardia,
Brescia, n. 2625 del 28.18.2009) dovrebbe prevalere la normativa statutaria.
Nel caso in questione, tuttavia, da un'attenta lettura delle norme
sembrerebbe che l'art. 21 dello statuto detta la disciplina generale per le
deliberazioni «degli organi collegiali» tout court, mentre
l'art. 31 del regolamento sul funzionamento del consiglio comunale rechi la
specifica disciplina del quorum strutturale del consiglio.
In ordine alla validità degli atti adottati dal consiglio comunale in
difformità alle previsioni statutarie in materia di quorum strutturale e,
pertanto, potenzialmente annullabili, si osserva che tali atti conservano la
loro efficacia fino all'eventuale annullamento (articolo ItaliaOggi del 19.04.2019). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Elezioni, consigli limitati
Da quando decorre il termine previsto dall'art. 38, comma 5, del dlgs n.
267/2000 per la limitazione del potere dei consigli alla adozione dei soli
«atti urgenti e improrogabili»?
Ai sensi dell'art. 38, comma 5, del dlgs n. 267/2000, i consigli comunali
durano in carica per un periodo di cinque anni sino all'elezione dei nuovi,
limitandosi, dopo la pubblicazione del decreto di indizione dei comizi
elettorali, ad adottare gli atti urgenti e improrogabili.
L'art. 38 citato va coordinato in combinato disposto con l'art. 18, comma 1,
del dpr n. 570 del 1960, il quale prevede che il sindaco è tenuto, con la
pubblicazione di un manifesto da effettuarsi 45 giorni prima della data
delle elezioni, a comunicare agli elettori, in quanto soggetti destinatari,
il dispositivo del decreto prefettizio di indizione dei comizi elettorali
con la data fissata per le elezioni.
Al fine di individuare la decorrenza dell'operatività della disciplina
recata dall'art. 38, comma 5, del Tuel, dovrà farsi riferimento in via
esclusiva alla data di pubblicazione del manifesto elettorale previsto
dall'art. 18, comma 1, del dpr n. 570/1960 citato.
Da tale data, pertanto, i consigli comunali saranno tenuti a limitare la
propria attività alla adozione degli «atti urgenti e improrogabili»
(articolo ItaliaOggi del 12.04.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Incompatibilità
di un amministratore locale.
Non integra la causa di incompatibilità di cui all’art.
63, co. 1, num. 2), TUEL la stipulazione da parte di un amministratore
comunale di un contratto di locazione con l’Ente presso cui svolge il
proprio mandato elettivo, qualora le obbligazioni nascenti dal contratto
concluso siano stabilite sin dal momento del sorgere del rapporto ed
escludano da parte del Comune il controllo e la valutazione delle
prestazioni.
Il Comune chiede un parere in merito all’esistenza di una causa di
incompatibilità per un amministratore locale, titolare di un’impresa
individuale, che, in quanto risultante migliore offerente nella gara indetta
dall’Ente avente ad oggetto “la locazione dell’immobile, da adibire a
punto di ristoro […] e delle aree adiacenti attrezzate ad uso pic-nic”,
dovrebbe stipulare con l’Ente il relativo contratto.
Con riferimento alla questione posta si ritiene debba essere preso in
considerazione l’articolo 63, comma 1, num. 2), TUEL ai sensi del quale non
può ricoprire la carica di consigliere comunale “colui che, come […]
titolare […] ha parte, direttamente o indirettamente, in servizi, esazioni
di diritti, somministrazioni o appalti, nell’interesse del comune”.
In via preliminare si ricorda come un esame delle eventuali cause di
incompatibilità o ineleggibilità che possono investire gli amministratori
locali deve essere effettuato in chiave di stretta interpretazione,
rifuggendo da qualsiasi tipo di estensione analogica delle stesse, atteso
che le cause ostative all’espletamento del mandato elettivo incidono
direttamente sul diritto di elettorato passivo, alla luce della riserva di
legge in materia posta dall’articolo 51 della Costituzione.
Dal tenore letterale della disposizione sopra citata segue che la
sussistenza dell’incompatibilità in riferimento richiede, quanto al
requisito oggettivo, lo svolgimento di un servizio nell’interesse del
comune.
Nel termine servizi si comprende “qualsiasi rapporto intercorrente con
l’ente locale che a causa della sua durata e della costanza delle
prestazioni effettuate, sia in grado di determinare conflitto di interessi.
[…] Contenuto dei servizi è una prestazione di fare, senza elaborazione
della materia, diretta a produrre una utilità, sia essa ad esecuzione
prolungata, continuativa o periodica” [1].
La Cassazione [2]
ha osservato come «la circostanza che il legislatore abbia utilizzato il
termine “servizi” al plurale e senza ulteriori specificazioni e/o
qualificazioni, se non quella che deve trattarsi di “servizi nell’interesse
del comune”, legittima l’interprete a comprendere in esso qualsiasi tipo di
“servizio” svolto nell’interesse del comune». E, ancora
«l'espressione "servizi" non allude soltanto ai "servizi pubblici" locali,
ivi compresi i c.d. "servizi sociali", come sono tradizionalmente intesi
-gestiti in proprio dall'ente locale o affidati alla gestione di altri
soggetti, pubblici o privati, ad es., mediante concessione o convenzione;
relativamente ai quali ultimi, pertanto, non v'è dubbio che il soggetto
concessionario o affidatario dei servizi medesimi possa versare,
sussistendone le condizioni di legge, nella situazione di incompatibilità di
interessi de qua- ma comprende, appunto, qualsiasi tipo di servizio svolto
nell'interesse del comune».
Si è, altresì, affermato che «la formulazione assai ampia della
disposizione in esame (“servizi nell’interesse del comune”) è giustificata
dalla sua ratio: il legislatore, infatti, intende comprendere in essa –nel
modo più ampio possibile, appunto– tutte le ipotesi, in cui la
“partecipazione”, nel senso dianzi precisato, in servizi imputabili al
comune –e, per ciò stesso, di interesse generale– possa dar luogo,
nell’esercizio della carica del “partecipante”, eletto amministratore
locale, ad un conflitto tra interesse particolare di questo soggetto e
quello generale dell’ente locale».
Da ultimo, l’indicata sentenza afferma, anche, che «la “partecipazione”
soggettivamente qualificata ivi prevista, in tanto è rilevante, in quanto
dia luogo ad un conflitto di interessi, anche potenziale, che sia in
concreto ravvisabile, caso per caso, alla luce della disciplina particolare
che regola il servizio e la partecipazione ad esso».
Preme, al riguardo, sottolineare che la norma è, in generale, finalizzata ad
evitare che la medesima persona fisica rivesta contestualmente la carica di
amministratore di un comune e la qualità di titolare, amministratore,
dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento di un soggetto
che si trovi in rapporti giuridici con l’ente locale, caratterizzati da una
prestazione da effettuare all’ente o nel suo interesse, atteso che tale
situazione potrebbe determinare l’insorgere di una posizione di conflitto di
interessi.
La giurisprudenza, sottolineando che la ratio dell’incompatibilità
risiede nell’esigenza di evitare che il medesimo soggetto venga coinvolto in
due sfere di interessi potenzialmente in contrasto, ha evidenziato come tale
esigenza ricorra in tutte le ipotesi in cui, per effetto di tale rapporto e
dell’assunzione della carica elettiva, il soggetto venga a trovarsi,
contemporaneamente, nella posizione di controllore e in quella di
controllato.
[3]
Con riferimento alla fattispecie in essere risulta pertanto determinante
valutare se, analizzando le clausole contenute nel bando di gara,
l’effettiva consistenza dei beni dedotti in contratto ed ogni altra
circostanza del caso concreto anche in base alle intenzioni delle parti,
possa ritenersi integrata, anche solo potenzialmente, quella posizione di
conflitto di interessi in capo all’amministratore interessato che
giustificherebbe l’insorgenza dell’indicata causa di incompatibilità
[4].
Indipendentemente dal nomen iuris utilizzato per qualificare il
contratto, qualora lo stesso avesse natura sostanziale di affitto di
azienda[5] più facilmente potrebbe essere ricondotto alla nozione di “servizio
svolto nell’interesse del comune”; quanto alla locazione essa di regola
non integra la causa di incompatibilità in riferimento in quanto, come
affermato dalla giurisprudenza, “le relative obbligazioni [sono]
stabilite sin dal momento del sorgere del rapporto, [ed] escludono da parte
del Comune il controllo e la valutazione delle prestazioni”
[6].
Nel ricordare che compete al consiglio comunale la valutazione
dell’eventuale sussistenza della causa di incompatibilità del componente
l’organo elettivo [7],
segue che lo stesso dovrà operare un’attenta lettura delle clausole
contrattuali e delle ulteriori condizioni caratterizzanti il contratto al
fine di accertare se ricorrano o meno i presupposti per l’applicabilità
della causa di incompatibilità di cui all’articolo 63, comma 1, num. 2),
TUEL.
Ciò -si ribadisce- a prescindere dal nomen iuris utilizzato per
identificare la tipologia contrattuale oggetto di futura stipulazione e
tenuto conto altresì del fatto che nemmeno la natura di locazione (anziché
di affitto di azienda) del contratto può risultare di per se stessa decisiva
per la soluzione della questione che ci occupa. Infatti, anche qualora si
potesse ritenere di configurare la fattispecie come locazione commerciale
[8], ciò che sarebbe
determinante ai fini dell’esclusione della causa di incompatibilità è, alla
luce dell’orientamento giurisprudenziale succitato, che le relative
obbligazioni siano prestabilite sin dal momento del sorgere del rapporto ed
escludano il controllo e la valutazione delle prestazioni da parte del
Comune nonché potenziali conflitti [9].
In ultimo si rileva che, ai fini dell’accertamento della sussistenza
dell’indicata causa di incompatibilità, è compito del Comune interrogarsi
altresì circa lo scopo che intende perseguire con la conclusione del
contratto in riferimento: in particolare valutando se vi sia sottesa la
realizzazione di un interesse generale dell’Amministrazione comunale quale
la valorizzazione turistica dell’area.
Al riguardo si segnala la norma di cui all’articolo 2 del bando di gara
nella parte in cui dispone che “il locatario dovrà destinare l’immobile
esclusivamente per una attività di somministrazione di alimenti e bevande ed
i terreni (area pic-nic) per attività finalizzate alla fruizione turistica
dell’area delle Grotte di […]” nonché l’articolo 11 dello stesso nella
parte in cui individua una serie di criteri qualitativi di valutazione delle
offerte tra i quali si citano i seguenti: “C) impegno a svolgere attività
correlate all’offerta turistica (quali ad esempio: Organizzazione di eventi,
manifestazioni, ecc.) […]; E) Migliore esperienza in attività turistiche […]”.
L’eventuale riconoscimento di tale finalità potrebbe infatti sottendere che
l’affittuario/locatario “ha parte […] in servizi […] nell’interesse del
comune”; da ciò conseguirebbe una situazione di potenziale conflitto di
interesse con l’amministrazione comunale.
---------------
[1] E. Maggiora, “Ineleggibilità, incompatibilità, incandidabilità
nell’ente locale”, Giuffrè editore, 1999, pag. 146.
[2] Cassazione civile, sez. I, sentenza del 16.01.2004, n. 550.
[3] Corte d’Appello di Napoli, sentenza del 07.02.2003, n. 477.
[4] Non risultano, invece, vincolanti le espressioni terminologiche
utilizzate (locazione piuttosto che affitto) le quali recedono rispetto
all’effettiva consistenza delle prescrizioni contenute nel bando di gara e
degli altri elementi indicati.
[5] In generale, si parla di affitto quando il contratto ha per oggetto il
godimento di una cosa produttiva (art. 1615, cod. civ.), mentre la locazione
è il contratto col quale una parte (locatore) si obbliga a far godere
all’altra (conduttore) una cosa mobile o immobile per un dato tempo verso un
determinato corrispettivo (art. 1571, cod. civ.).
Secondo consolidata giurisprudenza (fra le altre, Cassazione civile,
sentenza dell’11.06.2007, n. 13683; più di recente, sempre nello stesso
senso, si veda Cassazione civile, sez. III, sentenza del 16.10.2017, n.
24276), “costituisce affitto di azienda e non locazione di immobile con
pertinenze un contratto in cui i beni ceduti siano considerati, non nella
loro individualità, ma nel loro complesso, in un rapporto, quindi, di
interdipendenza e complementarietà con gli altri elementi, in ragione del
fine economico perseguito dall'imprenditore. La differenza tra locazione di
immobile (eventualmente con pertinenze) e affitto di azienda, infatti,
consiste nel fatto che, nella prima ipotesi, l'immobile concesso in
godimento viene considerato specificamente, nella economia del contratto,
come l'oggetto principale della stipulazione, secondo la sua consistenza
effettiva e con funzione prevalente e assorbente rispetto agli altri
elementi i quali, siano essi legati materialmente o meno all'immobile,
assumono carattere di accessorietà e rimangono collegati all'immobile
funzionalmente. Diversamente, nell'affitto di azienda, l'immobile non viene
considerato nella sua individualità giuridica, ma come uno degli elementi
costitutivi del complesso dei beni mobili e immobili, legati tra di loro da
un vincolo di interdipendenza e di complementarietà per il conseguimento di
un determinato fine produttivo, sicché l'oggetto del contratto è costituito
dall'anzidetto complesso unitario”.
[6] Corte d’appello Reggio Calabria, 23.01.1958. Si cita anche la sentenza
della Cassazione civile, sez. I, dell’11.08.1972, n. 2674 che ha ritenuto
non concretare l’insorgenza della causa di incompatibilità la stipulazione
di un “contratto di concessione di affitto di una cava comunale, poiché le
obbligazioni nascenti dal contratto ed in esso prestabilite escludono
potenziali conflitti”. Entrambe le massime sono tratte da E. Maggiora,
“Ineleggibilità, incompatibilità, incandidabilità nell’ente locale”, pag.
151, citato in nota 3.
[7] È, infatti, principio di carattere generale del nostro ordinamento che
gli organi elettivi debbano esaminare i titoli di ammissione dei propri
componenti. Così come, in sede di esame della condizione degli eletti (art.
41 del D.Lgs. 267/2000), è attribuito al consiglio comunale il potere-dovere
di controllare se nei confronti dei propri membri esistano condizioni
ostative all’esercizio delle funzioni, qualora venga successivamente
attivato il procedimento di contestazione di una causa di incompatibilità, a
norma dell’art. 69 del D.Lgs. 267/2000, spetta al consiglio, al fine di
valutare la sussistenza di detta causa, esaminare le osservazioni difensive
formulate dall’amministratore e, di conseguenza, adottare gli atti che siano
ritenuti necessari.
[8] Si rileva che la prescrizione di cui all’articolo 5 del bando di gara
(rubricato “Durata dell’affidamento ed importo a base di gara”) fissa la
durata del contratto da stipularsi in tre anni, eventualmente rinnovabili
per un ulteriore triennio. Al riguardo, si segnala in via collaborativa che
un tale arco temporale risulta in contrasto con la norma di cui all’articolo
27 della legge 27.07.1978, n. 392 (“Disciplina delle locazioni di immobili
urbani”) la quale, al comma 1, recita: “La durata delle locazioni e
sublocazioni di immobili urbani non può essere inferiore a sei anni se gli
immobili sono adibiti ad una delle attività appresso indicate industriali,
commerciali e artigianali di interesse turistico, quali agenzie di viaggio e
turismo, impianti sportivi e ricreativi, aziende di soggiorno ed altri
organismi di promozione turistica e simili”.
[9] Particolare attenzione si ritiene debba essere posta all’articolo 11 del
bando di gara nella parte in cui dispone che: “L’aggiudicatario si impegna:
[…] a presentare annualmente al Comune un prospetto con l’indicazione delle
giornate di apertura, dichiarandosi consapevole che il Comune effettuerà dei
controlli e che dall’esito dei medesimi verrà valutato il rispetto delle
condizioni offerte. Qualora tali condizioni non risultassero garantite potrà
essere avviata la procedura per la risoluzione del contratto”. Il precedente
articolo 7 del bando, infatti, prevede che l’aggiudicazione avvenga a favore
dell’offerta complessiva finale più vantaggiosa sulla base di una serie di
elementi di cui alcuni aventi natura qualitativa, il rispetto dei quali è
rimesso al controllo dell’ente locale (11.04.2019
- link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Gli incarichi spettano al sindaco. Sua la competenza a reclutare
dirigenti a contratto. Corte conti Molise: è una
delle poche attribuzioni gestionali assegnate al primo cittadino.
Spetta in via esclusiva al sindaco la competenza ad incaricare i dirigenti a
contratto, mentre sull'apparato amministrativo incombe il dovere di
compiere l'istruttoria preventiva, la sottoscrizione del contratto e il
compimento degli adempimenti successivi.
La
sentenza 08.04.2019 n. 10
della Corte dei conti, sezione giurisdizionale Molise fornisce indicazioni
molto utili sul piano operativo sulla complessa procedura intesa al
reclutamento di dirigenti a contratto ai sensi dell' articolo 110 del dlgs
267/2000.
Competenze del sindaco.
La sentenza ha escluso l'illegittimità del
conferimento dell'incarico, e di conseguenza dell'illiceità dell'esborso
connesso al compenso erogato, derivante dalla circostanza che la nomina sia
stata disposta con decreto del sindaco.
I giudici della sezione Molise hanno avuto facilmente modo di dimostrare la
legittimità del decreto sindacale di nomina, richiamando la previsione
piuttosto chiara dell' articolo 50, comma 10, del dlgs 267/2000: «Il sindaco
e il presidente della provincia nominano i responsabili degli uffici e dei
servizi, attribuiscono e definiscono gli incarichi dirigenziali e quelli di
collaborazione esterna secondo le modalità ed i criteri stabiliti dagli
articoli 109 e 110, nonché dai rispettivi statuti e regolamenti comunali e
provinciali».
Si tratta, dunque, di una delle poche competenze in qualche misura
gestionali che l'ordinamento degli enti locali attribuisce direttamente al
sindaco, invece che a dirigenza giunta o consiglio.
La sentenza evidenzia piuttosto chiaramente che si tratta di una competenza
gestionale vera e propria: infatti, i giudici considerano possibile
assimilare in qualche misura il decreto sindacale ad una determinazione
dirigenziale, perché l' attribuzione di un incarico dirigenziale a contratto
comporta anche l'impegno di spesa.
Il sindaco, dunque, nell'adottare il decreto di incarico, non solo può, ma
anche deve impegnare contestualmente la spesa necessaria, per finanziare la
connessa retribuzione.
Competenze dell'apparato.
Se al sindaco, quindi, compete incaricare con
proprio decreto il dirigente a contratto, all'apparato amministrativo
spetta svolgere tutta l'attività istruttoria connessa, che va dall'elaborazione dell'avviso pubblico alla gestione della selezione, all'espressione di avvisi e pareri sulla legittima adozione dell' iniziativa.
Secondo la sentenza, non necessariamente occorrono i pareri di regolarità
amministrativa e contabile, previsti dall'articolo 49 del Tuel, il quale li
impone solo per le proposte di deliberazione di giunta e consiglio.
Tuttavia, la pronuncia della magistratura contabile ritiene che non sia un
vizio di legittimità nemmeno l'assenza del visto di regolarità contabile
attestante la copertura finanziaria: esso, infatti, si limita ad attestare
l'effettiva disponibilità in bilancio delle somme, senza potersi esprimere
in alcun modo sulla legittimità dell' atto.
Tocca ancora all'apparato (sulla base dell'organizzazione interna di
ciascun ente) adottare, poi, tutti gli atti attuativi dell'incarico.
In particolare, la Sezione Molise avverte che compete al dirigente o
responsabile preposto sottoscrivere il contratto che regola l'incarico
assegnato dal sindaco, così come compete ovviamente all'ufficio stipendi
erogare materialmente il compenso. Né il decreto sindacale di incarico può
considerarsi illegittimo se successivamente il contratto non venga
sottoscritto.
È, quindi, sia nella fase istruttoria preliminare, sia nella fase attuativa
successiva, che eventualmente l'apparato amministrativo può e deve
evidenziare vizi giuridico-contabili. Nel caso di specie, la Procura
regionale aveva attivato l'azione di responsabilità perché i dirigenti a
contratto erano stati assunti pur avendo il comune violato il patto di
stabilità: ma, di tale violazione il sindaco ebbe cognizione sei mesi dopo
l'adozione dei decreti, senza che mai prima né revisori dei conti, né
ragioniere o apparato amministrativo avessero mai espresso in atti problemi
connessi al rispetto del patto.
Per questa ragione, la sentenza ha assolto il sindaco, lasciando intendere
sullo sfondo che eventuali responsabilità erariali andrebbero ricercati non
in capo al primo cittadino, ma alla compagine amministrativa: era essa a
dover avvertire il sindaco della condizione finanziaria e comunque a tenerne
conto nel momento in cui dovesse stipulare il contratto o erogare lo
stipendio
(articolo ItaliaOggi del 19.04.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Niente
responsabilità erariale al sindaco per l’assunzione a contratto di un
funzionario.
Spetta al sindaco l'assunzione del funzionario apicale a contratto, mentre
spetta alla dirigenza l'istruttoria e la verifica delle condizioni di
conformità alla normativa. La mancanza dell'impegno contabile non rileva ai
fini della responsabilità del sindaco, trattandosi di un atto monocratico
(decreto) e non collegiale (giunta), come non rileva la successiva mancata
stipula del contratto rimesso dalla normativa alla sola competenza
dirigenziale.
Sono questi i principi enunciati dalla Corte dei conti del Molise (sentenza
08.04.2019
n. 10) che ha sollevato dalla responsabilità contabile il
sindaco per l'avvenuto conferimento dell'incarico apicale.
La vicenda
Su specifica segnalazione della Sezione di controllo della Corte dei conti,
la Procura ha rinviato a giudizio per danno erariale il sindaco di un
Comune, tra l'altro, per illegittimo e illecito conferimento di un incarico
a contratto effettuato in base all'articolo 110, comma 1, del Tuel.
Tra le
contestazioni avanzate dalla Procura, la presunta illegittimità dell'atto di
conferimento dell'incarico –e conseguente illiceità dell'esborso–
dipendeva da una presunta incompetenza del sindaco nell'adottare, con
iniziativa esclusiva, un provvedimento di amministrazione attiva o di
gestione, di competenza degli uffici amministrativi, privo di adeguata
istruttoria e dei prescritti pareri tecnici e visti favorevoli.
La diversa posizione del collegio contabile
Il Collegio contabile molisano ha confutato la tesi della Procura in merito
all'asserita illegittimità e illiceità del conferimento dell'incarico a
contratto da parte del sindaco. In via preliminare, rientra nell'esclusivo
potere del sindaco (articolo 50, comma 10, del Dlgs 267/2000) l'emissione
del decreto di nomina del responsabile dei servizi avvenuta a seguito di
apposita selezione, in base all'articolo 110, comma 1, del Tuel e poi
successivamente prorogata.
Si tratta, in altri termini, dell'ipotesi che riguarda la tipologia della
copertura dei posti previsti «in dotazione» organica di responsabili dei
servizi o degli uffici, cosiddetti responsabili di posizione organizzativa o
unità operative (come pure di qualifiche dirigenziali o di alta
specializzazione). Quindi, l'iniziativa e l'esercizio del potere di nomina
spetta al sindaco, mentre rientra nelle prerogative e competenze proprie del
dirigente o del responsabile amministrativo, diverso dall'organo di governo,
sulla base del tradizionale riparto o distinzione tra organi e funzioni di
indirizzo politico o di gestione, curare l'istruttoria, valutare la
fattibilità del provvedimento e riferire eventuali problematiche in ordine
alle scelte da effettuare.
Per queste ragioni, secondo il collegio contabile, non può certo ricadere
alcuna responsabilità amministrativa sul sindaco per fatto colpevole
omissivo di terzi. Pertanto, in primo luogo, non vi è alcuna responsabilità
del primo cittadino per la mancata apposizione del visto contabile sul
decreto di nomina, poiché nessun parere avrebbe dovuto essere
preventivamente rilasciato, non trattandosi di deliberazione di un organo
collegiale ma di un decreto sindacale.
Inoltre, va rilevato in ogni caso che la mancanza del visto contabile e
finanziario da parte del responsabile del servizio, si risolve nella mera
attestazione della copertura finanziaria del provvedimento su cui viene
apposto, ovvero sulla verifica dell'effettiva disponibilità delle risorse
impegnate. Infatti, il parere contabile non investendo la preventiva
valutazione di legittimità della presupposta decisione sindacale, una sua
eventuale omessa apposizione -sempre che obbligatoria- non sarebbe
comunque suscettibile di costituire, quanto meno ai fini dell'accertamento
della responsabilità amministrativa, un fatto eziologicamente addebitabile
al sindaco per fatto omissivo.
Né a miglior sorte può condurre a responsabilità sindacale la mancata
successiva stipula del contratto, in quanto sia la stipula del contratto,
sia l'adozione di ogni altro atto conseguenziale o esecutivo di detto
decreto rientra nella competenza propria dei dirigenti o dei responsabili
dei servizi (articolo 107, comma 3, del Tuel)
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 17.04.2019). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Trasparenza sulle liti. I consiglieri
possono accedere agli atti. Le vertenze che
riguardano l’ente non possono essere coperte da segreto.
Il consigliere comunale può accedere alla copia di una lettera inviata dal
servizio legale interno concernente una diffida ricevuta dall'ente?
L'esercizio del diritto di accesso, esercitabile dai consiglieri comunali ai
sensi dell'art. 43, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, è definito
dal Consiglio di stato (sentenza n. 4471/2005) «diritto soggettivo pubblico funzionalizzato», finalizzato al controllo politico-amministrativo
sull'ente, nell'interesse della collettività; si tratta, all'evidenza, di un
diritto dai confini più ampi del diritto di accesso riconosciuto al
cittadino nei confronti del comune di residenza (art. 10 Tuel) o, più in
generale, nei confronti della p.a., disciplinato dalla legge n. 241/1990 (cfr.
Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi del 28.10.2014).
Il diritto del consigliere comunale ad ottenere dall'ente tutte le
informazioni utili all'espletamento del mandato non incontra alcuna
limitazione derivante dalla loro eventuale natura riservata, in quanto il
consigliere è vincolato al segreto d'ufficio; gli unici limiti all'esercizio
del diritto di accesso dei consiglieri comunali possono rinvenirsi, per un
verso, nel fatto che esso deve avvenire in modo da comportare il minor
aggravio possibile per gli uffici comunali (attraverso modalità che
ragionevolmente sono fissate nel regolamento dell'ente) e, per altro verso,
che esso non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche ovvero
meramente emulative, fermo restando tuttavia che la sussistenza di tali
caratteri deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto
al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazione al
diritto stesso (Consiglio di stato, sez. V, n. 6963/2010).
Peraltro, in fattispecie analoga, il Consiglio di stato, sez. V, con
decisione 04/05/2004, n. 2716, riguardo alla normativa prevista dal dpcm n.
200 del 26.01.1996, recante il regolamento per la categoria di documenti
dell'Avvocatura dello stato sottratti al diritto di accesso, ha rilevato che
le limitazioni ivi previste «non possono applicarsi, in via analogica, ai
consiglieri comunali, i quali, nella loro veste di componenti del massimo
organo di governo del comune, hanno titolo ad accedere anche agli atti
concernenti le vertenze nelle quali il comune è coinvolto nonché ai pareri
legali richiesti dall'amministrazione comunale, onde prenderne conoscenza e
poter intervenire al riguardo».
Anche il Tar Lombardia–Milano – con
sentenza n. 2363 del 23.09.2014 ha riconosciuto un ampio diritto dei
consiglieri comunali ad accedere agli atti del comune in quanto «non è in
dubbio che possa essere ostensibile anche documentazione che, per ragioni di
riservatezza, non sarebbe ordinariamente ostensibile ad altri richiedenti,
essendo il consigliere tenuto al segreto d'ufficio (v. anche Cons. stato,
sez. V, 05.09.2014, n. 4525)».
Pertanto, anche in presenza di una norma regolamentare che limita l'accesso
agli atti amministrativi relativi a procedimenti «conclusi», la richiesta
appare ammissibile, stante, peraltro, l'obbligo di riservatezza a cui è
tenuto il consigliere comunale
(articolo ItaliaOggi del 05.04.2019). |
CONSIGLIERI
COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Danno
erariale al sindaco che dà la posizione organizzativa prima del
pensionamento.
Responsabilità contabile al sindaco che abbia nominato una posizione
organizzativa prima del suo pensionamento. In questo caso il danno erariale
è equivalente al totale delle somme maggiorate, pagate sulla pensione del
dipendente in quiescenza, fino alla data del rinvio a giudizio. Spetterà,
invece, all'Inps attivare le eventuali procedure per la riduzione della
pensione futura, data l'attribuzione della maggiorazione stipendiale
avvenuta in modo illegittimo e illecito.
Queste sono le conclusioni della Corte dei conti, sezione giurisdizionale,
dell'Umbria (sentenza 03.04.2019 n. 21).
La vicenda
In un ente privo di posizioni dirigenziali, il sindaco aveva conferito a una
dipendente la posizione organizzativa e, solo dopo quattro giorni dal
conferimento dell'incarico, aveva ricevuto dalla medesima la domanda di
collocamento a riposo. Il pensionamento veniva successivamente disposto,
grazie ai requisiti posseduti dalla richiedente, anche se a soli undici
giorni dalla sua nomina a responsabile del servizio.
La Procura contabile ha rinviato a giudizio il sindaco per il danno erariale
procurato alla pubblica amministrazione per aver attuato una scelta
arbitraria, mediante assegnazione della posizione organizzativa alla
dipendente, permettendo alla medesima di fruire di un maggior importo del
suo trattamento pensionistico.
L'importo della pensione della dipendente, infatti, è stato calcolato
comprendendo una indennità di posizione parametrata non al periodo di
esercizio effettivo della responsabilità del servizio ma su base annua. In
altri termini il Primo cittadino, con dolo o almeno colpa grave, non avrebbe
fatto gli interessi dell'ente ma esclusivamente procurato un vantaggio alla
dipendente per la maggiore pensione ricevuta.
Il vantaggio pensionistico della dipendente, pari a circa 3mila euro annui,
corrisponde al danno erariale che andrà pertanto moltiplicato per gli anni
di indebita fruizione. Inoltre, in considerazione della certezza dei
pagamenti per gli anni successivi, dalla data del rinvio a giudizio, la
Procura ha anche proceduto alla quantificazione del maggior danno stimato
sulla vita media della pensionata.
Il sindaco si è difeso da una lato in quanto a suo dire la nomina sarebbe
avvenuta a seguito della richiesta di esonero della precedente titolare di
posizione organizzativa per motivi personali, mentre dall'altro lato ha
stigmatizzato la posizione della Procura che non avrebbe tenuto conto delle
responsabilità specifiche del segretario comunale e del responsabile del
personale. Il primo per aver inoltrato al sindaco la richiesta di dimissioni
immediate della precedente titolare di posizione organizzativa, con obbligo
di procedere all'assegnazione della titolarità dell'ufficio ad altra
dipendente con i requisiti previsti dal contratto, essendo all'oscuro della
successiva sua decisione di essere collocata a riposo. Il secondo per aver
predisposto la determinazione di collocamento a riposo della dipendente
senza alcuna informazione preventiva sui requisiti pensionistici posseduti
dalla medesima.
La decisione del collegio contabile
Le eccezioni del sindaco non sono state considerate meritevoli di tutela da
parte del collegio contabile in quanto, negli enti privi di dirigenti, la
nomina dei responsabili dei servizi spetta in via esclusiva al sindaco, cui
è automaticamente associata, per disposizione contrattuale, la posizione
organizzativa con relativa retribuzione di posizione.
In merito alla richiesta di dimissioni presentate dalla precedente titolare
di posizione organizzativa, il sindaco non ha tenuto conto della sua
naturale scadenza che, non per caso, coincideva con la data della successiva
richiesta della dipendente nominata di essere collocata a riposo. In questo
caso, stante il breve periodo di vacanza del posto di responsabile del
servizio, il sindaco avrebbe ben potuto attribuire ad interim le funzioni ad
altra posizione organizzativa.
Sulla quantificazione del danno erariale, oltre al potere riduttivo
spettante alla Corte per la compartecipazione di altri soggetti che hanno
assunto un ruolo passivo nella vicenda, l'ulteriore danno richiesto dalla
Procura, sul calcolo del valore attuale degli esborsi futuri basati sulla
vita media della dipendente, non può trovare accoglimento, non essendosi il
danno ancora prodotto.
Tuttavia, al fine di evitare ulteriori danni alle finanze pubbliche,
l'illegittimità e l'illiceità dell'attribuzione della posizione
organizzativa sarà comunicata all'Inpc che opererà le dovute valutazioni
sulla pensione reale dovuta alla dipendente
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 07.05.2019).
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SENTENZA
3. Nel merito, la responsabilità del convenuto va affermata in relazione
all’adozione, realizzata a propria firma e nella sua qualità di vertice
dell’Amministrazione comunale, dei provvedimenti di sostituzione della
dott.ssa Ru. con la dott.ssa Vo., di cui ai decreti n. 5 e n. 6 del
20.12.2011 (rispettivamente aventi ad oggetto “revoca dell’incarico di
responsabile del servizio UMD 7 e conferimento incarico responsabile del
servizio UMD 7 anno 2011” e “pesatura posizione organizzativa UMD 7”), per
conferire a quest’ultima, per appena otto giorni, la posizione organizzativa
comprensiva della relativa indennità pensionabile da durare per l’intero
periodo di corresponsione del trattamento pensionistico.
La competenza all’adozione di questi atti, concernenti la nomina dei
responsabili dei servizi e degli uffici e all’attribuzione degli incarichi
dirigenziali, è chiaramente attribuita al Sindaco (art. 50, comma 10, del
decreto legislativo 18.08.2000, n. 267-TUEL) e tale disposizione di
legge risulta, peraltro, espressamente richiamata nei due decreti sindacali
(numero 5 e numero 6) citati.
Né possono valere, in contrario avviso, le giustificazioni addotte in ordine
ad una asserita “autorevolezza” e “solennità” della richiesta avanzata per
il tramite del segretario comunale che avrebbe preceduto la decisione finale
di competenza del sindaco Buschi, ovvero le analoghe giustificazioni in
ordine ai successivi passaggi amministrativi conseguenti alle decisioni da
costui assunte.
La questione della legittimità del conferimento avvenuto assume, dunque, un
rilievo del tutto particolare rispetto alla condotta gravemente colposa del
convenuto. Infatti, l’incarico originariamente conferito sarebbe scaduto
naturalmente il 31.12.2011 e non vi era pertanto alcuna reale urgenza
di provvedere alla sostituzione fino a tale data.
Inoltre, come sottolineato dalla Procura, nell’ipotesi dell’asserita urgenza
egli ben avrebbe potuto affidare l’incarico ad interim, per i pochi giorni
restanti fino al 31.12.2011, a uno degli altri soggetti che
ricoprivano posizioni organizzative, senza che si addivenisse all’esborso
dell’ulteriore indennità da parte del Comune di San Giustino.
Viceversa, la condotta del sindaco Bu. si è rivelata essere preordinata
alla costituzione di un trattamento stipendiale più favorevole nei confronti
della dott.ssa Vo., con conseguenze permanenti sul connesso trattamento
pensionistico e con la realizzazione di un danno reale e concreto a carico
dell’INPS, come quantificato nella parte dispositiva della presente
sentenza.
4. Il periodo per il quale calcolare il danno va dall’inizio dell’anno 2013
fino a tutto il novembre 2018, per un importo pari ad € 17.728,53 (2.996,54
moltiplicato per sei anni, meno un mese), che il Collegio ritiene congruo
abbattere del cinquanta per cento, considerando che l’azione del sindaco,
determinante l’attuale e concreto pregiudizio danno patrimoniale ai danni
dell’istituto di previdenza -tuttora protratto nel tempo- sia stata
agevolata nel percorso amministrativo anche dalla mancata attivazione di
altri soggetti facenti parte dell’apparato amministrativo comunale, in fase
di controllo, ovvero esterni ad esso, in fase di esecuzione dei
provvedimenti in questione.
In questi limiti può provvedere il Collegio, non potendo invero disporre
l’estensione del contraddittorio nel presente giudizio, come richiesto dal
convenuto (art. 83 CGC).
5. Con riguardo alla quantificazione del danno va altresì precisato che non
può trovare accoglimento la richiesta –avanzata da parte attrice– della
condanna per il danno relativo alle prestazioni economiche del trattamento
pensionistico che troveranno realizzazione successiva.
Tale richiesta, riguardando la previsione di un danno futuro, esula dalla
competenza di questa Sezione a conoscere della domanda relativa ad un danno
concreto ed attuale. Come risulta dalla giurisprudenza contabile e come
ricordato anche dalla Corte di Cassazione, questa Corte, in sede
giurisdizionale, non ha la titolarità di poteri di prevenzione del danno
erariale: “né d’altra parte alla Corte dei conti in sede giurisdizionale è
affidato il compito di prevenire danni erariali non ancora prodotti” (Cass.,
Sez. Un., 22.12.2009, n. 27092).
Nel respingere tale richiesta, tuttavia questo Collegio ritiene di rimettere
gli atti alla Amministrazione previdenziale interessata, che opererà le
dovute valutazioni.
6. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come
in dispositivo.
P.Q.M.
la Corte dei conti, Sezione giurisdizionale regionale per l’Umbria,
disattesa ogni contraria istanza, eccezione e deduzione, definitivamente
pronunciando, condanna Bu.Fa. al pagamento della somma di € 8.864,76
(euro ottomilaottocentosessantaquattro,76) in favore dell’INPS, più
rivalutazione monetaria con decorrenza dalle date di pagamento dei singoli
ratei di pensione e, sul totale risultante, interessi dalla data di
pubblicazione della sentenza.
Condanna altresì il convenuto al pagamento delle spese di giudizio, che si
liquidano in € 122,33 (centoventidue/33).
Manda alla Segreteria per la trasmissione della presente sentenza alla
competente sede INPS e per tutti gli ulteriori adempimenti. |
marzo 2019 |
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CONSIGLIERI COMUNALI: La
causa inutile arreca un danno erariale e nessuna utilità per l'Ente Locale.
Va condannato per danno erariale il sindaco di un comune che, anche nella
qualità di Presidente del Consiglio comunale, pone in essere una condotta
antigiuridica, consistente nel dichiarare nullo il voto di un consigliere
comunale, con ciò determinando l’impugnazione della delibera comunale,
annullata dal Tar con contestuale refusione delle spese processuali a carico
del comune stesso.
Così si esprime la Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Basilicata, con la
sentenza 11.03.2019 n. 10.
Il fatto
La Procura Regionale del capoluogo lucano ha convenuto in giudizio il
Presidente del consiglio comunale, per aver determinato l’impugnazione
dinanzi al giudice amministrativo, da parte di un consigliere comunale, di
due deliberazioni.
Le delibere consiliari sono state impugnate perché il Presidente del
Consiglio, ritenuto che il consigliere fosse in conflitto d’interesse, ha
dichiarato la nullità del voto da questo espresso.
All’esito del contenzioso amministrativo, il Comune è stato condannato al
pagamento delle spese processuali, cosa che poteva essere evitata, perché
non compete al Presidente del Consiglio Comunale dichiarare la nullità di un
voto espresso da un Consigliere Comunale. Il voto espresso dal Consigliere
Comunale in conflitto d’interessi, infatti, può essere annullato soltanto
dalla competente Autorità Giudiziaria.
Il pagamento delle spese processuali è stato considerato un inutile
dispendio di risorse pubbliche, circostanza che ha determinato la condanna
del Sindaco/Presidente del Consiglio Comunale.
La decisione
Per il collegio giudicante risulta evidente che il comune ha dovuto
sostenere un esborso del tutto inutile: allo stesso, infatti, non
corrisponde alcuna utilità né per l'ente né per la collettività
amministrata; tale esborso costituisce danno erariale determinato dalle
antigiuridiche e gravemente colpose condotte del Sindaco f.f., Presidente
del Consiglio e Vice Sindaco.
Le condotte attuate sono state considerate antigiuridiche perché
contrastanti con i compiti istituzionali e i doveri d'ufficio: - di
responsabile dell'amministrazione del comune, di rappresentanza dell'ente,
di direzione e coordinamento dell'attività politica amministrativa del
comune nonché dell'attività della giunta, di sovrintendenza al funzionamento
dei servizi e degli uffici e all'esecuzione degli atti, compiti e doveri
allo stesso intestati, in qualità di Vice sindaco e Sindaco f.f., - di
direzione delle sedute consiliari, di accertamento del relativo esito e di
proclamazione del risultato della votazione, compiti e doveri allo stesso
intestati in qualità di Presidente del Consiglio comunale.
Risulta, inoltre, dagli processuali, che le su indicate condotte del predetto
responsabile sono state adottate anche in contrasto con l'espresso parere
del segretario comunale e debbono considerarsi quanto meno gravemente
colpose, in quanto connotate da inescusabile negligenza nell'adempimento dei
doveri connessi all’ufficio pubblico (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
14.05.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Incarichi ai consiglieri. Ma senza poteri di
gestione o decisionali.
Affidabili studi e collaborazioni. Preclusi gli atti a rilevanza esterna.
Sono
legittimi gli atti di conferimento di incarichi di studio e approfondimento
ai consiglieri comunali?
Nell'ambito dell'autonomia statutaria dell'ente locale, sancita dall'art. 6
del decreto legislativo n. 267/2000, è ammissibile la disciplina di deleghe
interorganiche, purché il contenuto delle stesse sia coerente con la
funzione istituzionale dell'organo cui si riferisce.
Occorre considerare,
quale criterio generale, che il consigliere può essere incaricato di studi
su determinate materie, di compiti di collaborazione circoscritti all'esame
e alla cura di situazioni particolari, che non implichino la possibilità di
assumere atti a rilevanza esterna, né, infine, di adottare atti di gestione
spettanti agli organi burocratici.
Il consigliere, infatti, svolge la sua
attività istituzionale, in qualità di componente di un organo collegiale
quale il consiglio, che è destinatario dei compiti individuati e prescritti
dalle leggi e dallo statuto. Una ristrettissima serie delle funzioni
sindacali può essere delegabile ai consiglieri in virtù di specifiche
previsioni normative (in particolare, le funzioni svolte dal sindaco ex art.
54 nella sua attività di Ufficiale di governo).
Va osservato, ancora, che il Tar Toscana, con decisione n. 1248/2004, ha respinto il ricorso avverso una
norma statutaria concernente la delega ai consiglieri di funzioni sindacali
in quanto la stessa escludeva implicitamente che potessero essere delegati
compiti di amministrazione attiva, tali da comportare «l'inammissibile
confusione in capo al medesimo soggetto del ruolo di controllore e di
controllato». Il Consiglio di stato, con parere n. 4883/2011 (4992/2012) in
data 17.10.2012, ha ritenuto, invece, fondato un ricorso straordinario al
presidente della repubblica in quanto l'atto sindacale impugnato, nel
prevedere la delega ai consiglieri comunali di funzioni di amministrazione
attiva, determinava «una situazione, per lo meno potenziale, di conflitto di
interesse».
La normativa statutaria dell'ente locale, nel disciplinare la materia de
qua, potrebbe prevedere disposizioni che stabiliscano il riparto di
attribuzioni tra gli organi di governo dell'ente, integrando ma non
derogando alle vigenti norme di legge. I provvedimenti in questione non
devono comportare la possibilità di adozione di atti a rilevanza esterna o
di atti di gestione spettanti agli organi burocratici o agli assessori.
Parimenti, i consiglieri comunali incaricati non dovranno avere poteri
decisionali di alcun tipo diversi o ulteriori rispetto a quelli che derivano
dallo status di consigliere (articolo ItaliaOggi dell'08.03.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI:
Verbalizzazione delle sedute consiliari. Interventi di
singoli consiglieri.
1) L’interpretazione delle
norme sul funzionamento del consiglio comunale, tra cui
rientrano quelle in merito alla verbalizzazione delle sedute
del consiglio, compete unicamente all’organo che le ha
elaborate, quindi allo stesso organo consiliare.
2) Qualora il regolamento preveda che il verbale di deliberazione
contenga gli elementi principali dei singoli interventi
effettuati dagli amministratori locali, pare non coerente
con tale previsione che la delibera comunale, con
riferimento a tali interventi, si limiti ad un rinvio alla
registrazione audio allegata alla stessa.
Il Comune chiede un parere in merito alla verbalizzazione
delle sedute del consiglio e della giunta comunale. In
particolare, desidera sapere se sia legittimo che la
delibera comunale, con riferimento ai singoli interventi
effettuati dagli amministratori locali, si limiti ad un
rinvio alla registrazione audio allegata alla stessa e,
qualora venga richiesto di “procedere ad una
verbalizzazione scritta perfettamente conforme ad ogni
parola utilizzata” dal consigliere/assessore durante
l’intervento, possa considerarsi legittimo richiedere allo
stesso di “fornire copia del testo scritto del proprio
intervento in formato word”.
L’articolo 8 dello statuto comunale, rubricato “Deliberazioni
degli organi collegiali”, al comma 2, prevede che: “L’istruttoria
e la documentazione delle proposte di deliberazione
avvengono attraverso i responsabili degli uffici; la
verbalizzazione degli atti e delle sedute del consiglio e
della giunta è curata dal segretario comunale, secondo le
modalità e i termini stabiliti dal regolamento per il
funzionamento del consiglio”.
Stante la previsione statutaria dell’Ente segue che le norme
contenute nel regolamento per il funzionamento del consiglio
comunale nella parte relativa alla verbalizzazione delle
sedute consiliari si applicano anche alla verbalizzazione
delle sedute giuntali.
L’articolo 21 di tale regolamento, rubricato “Processi
verbali”, recita: “1. I verbali delle adunanze sono
compilati dal Segretario comunale, coadiuvato dalla
Segreteria e costituiscono prova autentica delle
deliberazioni adottate dal Consiglio, può avvalersi della
registrazione con mezzi elettronici. I consiglieri devono
chiedere espressamente al Segretario comunale l’inserimento
integrale dei propri interventi consegnandone copia del
testo scritto.
2. Per le deliberazioni concernenti persone, deve farsi
constare dal verbale che si è proceduto alla votazione per
scrutinio segreto.
3. Tutti i verbali di deliberazione devono indicare il testo
integrale della parte dispositiva costituente la proposta,
il numero dei voti resi pro e contro la proposta stessa e la
proclamazione fatta dal Sindaco, nonché l’indicazione dei
nominativi dei consiglieri che hanno effettuato interventi
durante la discussione riportandone per sintesi gli elementi
più significativi.
4. Dal verbale dovranno infine risultare: a) il giorno,
l’ora e il luogo dell’adunanza; b) il nome ed il cognome di
chi presiede il consiglio comunale, del Segretario e degli
eventuali scrutatori; c) se si tratta di sessione ordinaria
o sessione straordinaria; d) l’oggetto della proposta su cui
il Consiglio è chiamato a deliberare; e) il verbale delle
adunanze deve contenere il numero dei Consiglieri presenti
alla votazione sui singoli argomenti, con l’indicazione del
nome di quelli che si sono astenuti e di quelli contrari.
5. Non sono inserite nel verbale le dichiarazioni
ingiuriose, contrarie alle leggi, all’ordine pubblico e al
buon costume e di protesta contro i provvedimenti adottati.
6. Ogni consigliere può pretendere che nel verbale si
facciano constare le motivazioni del suo voto.
7. I verbali sono sottoscritti dal Presidente della seduta e
dal Segretario”.
Premesso che l’interpretazione delle norme sul funzionamento
del consiglio comunale compete unicamente all’organo che le
ha elaborate, quindi allo stesso organo consiliare, di
seguito si esprimono, in via meramente collaborativa, delle
considerazioni che possano essere di utilità all’Ente nella
soluzione della questione posta.
Con riferimento al primo quesito posto afferente alla
possibilità che il verbale di deliberazione rinvii, quanto
ai singoli interventi consiliari, alla registrazione che
verrebbe allegata allo stesso, si ritiene di fornire
risposta negativa. Ad un tanto sembra ostare la previsione
di cui all’articolo 21, comma 3, nella parte in cui dispone
che il verbale di deliberazione deve tra l’altro riportare “l’indicazione
dei nominativi dei consiglieri che hanno effettuato
interventi durante la discussione riportandone per sintesi
gli elementi più significativi”.
Dal tenore letterale della disposizione citata deriva,
infatti, che il verbale non può limitarsi ad un semplice
rinvio degli interventi effettuati dai consiglieri dovendo
contenere gli elementi principali dello stesso. Benché la
riproduzione degli interventi, ancorché in maniera succinta,
non rientri tra gli elementi essenziali che, in generale, il
verbale deve contenere
[1],
pur tuttavia tale essenzialità può essere imposta da una
specifica previsione regolamentare sul punto, come nel caso
in esame.
Con riferimento al secondo quesito posto relativo alle
modalità di riproduzione dell’intervento integrale di un
consigliere soccorre il disposto di cui al comma 1
dell’articolo 21 del regolamento sul funzionamento del
consiglio nella parte in cui prevede che: “I consiglieri
devono chiedere espressamente al Segretario comunale
l’inserimento integrale dei propri interventi consegnandone
copia del testo scritto.”
La previsione regolamentare richiede unicamente la consegna
di un testo scritto da parte del consigliere non
specificando che lo stesso debba essere presentato su
supporto informatico. Nel silenzio della previsione
regolamentare sul punto si ritiene rientri nella
discrezionalità del consigliere interessato aderire ad
un’eventuale richiesta di presentazione del proprio
intervento scritto anche mediante consegna di idoneo
dispositivo digitale.
---------------
[1] In tal senso si veda TAR Pescara, Abruzzo, sez. I,
sentenza del 14.01.2010, n. 56 la quale recita: “Il processo
verbale relativo agli interventi effettuati dai singoli
consiglieri non è essenziale ai fini della valida esistenza
di un atto deliberativo assunto dal Consiglio comunale,
essendo essenziali, ai sensi dei principi generali che
disciplinano la validità dell'atto amministrativo
collegiale, solo la data di adozione, l'indicazione dei
presenti e degli assenti, il contenuto dispositivo e l'esito
della votazione” (08.03.2019 -
link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Relazione
di fine mandato. Le scadenze per la sua predisposizione,
pubblicazione ed invio alla corte dei conti.
Domanda
L’amministrazione comunale del mio ente è in scadenza nei
prossimi mesi, essendo stata eletta nel 2014. Quali sono i
termini per la predisposizione, l’invio alla Corte dei conti
e la pubblicazione della relazione di fine mandato?
Risposta
Come noto l’obbligo di predisporre la relazione di fine
mandato è stato introdotto dall’art. 4 del d.lgs. 149/2011.
Il comma 2 stabilisce che essa venga redatta dal
responsabile del servizio finanziario o dal segretario
generale e sia poi sottoscritta dal presidente della
provincia o dal sindaco non oltre il sessantesimo giorno
antecedente la data di scadenza del mandato. Entro e non
oltre quindici giorni dopo la sottoscrizione della
relazione, essa dovrà risultare certificata dall’organo di
revisione dell’ente locale e, nei tre giorni successivi la
relazione e la certificazione devono essere trasmesse dal
presidente della provincia o dal sindaco alla competente
sezione regionale di controllo della Corte dei conti.
E’ poi previsto che la relazione e la certificazione siano
pubblicate sul sito istituzionale dell’ente entro i sette
giorni successivi alla data di certificazione da parte
dall’organo di revisione, con l’indicazione della data di
trasmissione alla sezione regionale di controllo della Corte
dei conti. Il dubbio che si pone per molti operatori degli
enti locali attiene alla modalità di conteggio dei sessanta
giorni dalla data di scadenza del mandato. Sul punto è
intervenuta la Corte dei conti con
deliberazione della Sezione Autonomie n. 15/2016.
In particolare la Corte, nell’interpretare la norma di
legge, afferma che debba ‘ritenersi che il mandato del
Sindaco o del Presidente della Provincia abbia inizio con la
proclamazione tanto è vero che tali organi, appena
proclamati eletti, hanno il potere di compiere atti ed
assumere provvedimenti immediatamente, senza attendere
alcuna legittimazione successiva da parte del Consiglio’.
Pertanto, alla luce di ciò i sessanta giorni vengono
conteggiati proprio con riferimento alla suddetta data di
proclamazione degli eletti da parte dell’adunanza dei
presidenti di seggio. Per gli enti che sono andati ad
elezione il 25/05/2014 e per i quali la proclamazione è
avvenuta il giorno successivo (26/05), la relazione dovrà
essere predisposta entro il 27 marzo prossimo. Analogamente
per gli enti che sono andati al ballottaggio il 08/06/2014,
per i quali la proclamazione è avvenuta il 09/06/2014, il
termine per la predisposizione della relazione è fissato per
il 10 aprile prossimo.
Il successivo comma 4 del medesimo articolo 4 del d.lgs.
149/2011 definisce il contenuto della relazione. Il modello
da utilizzare è stato poi approvato con d.m. Interno del
26/04/2013. In merito agli obblighi di pubblicazione sul
sito dell’ente si evidenzia come la legge si limiti a
fissarne la data: la pubblicazione dovrà infatti avvenire
entro i sette giorni successivi alla data di certificazione
effettuata dall’organo di revisione, con l’indicazione della
data di trasmissione alla sezione regionale di controllo
della Corte dei conti.
Non viene specificato dove la relazione debba essere
pubblicata. Non dice nulla al riguardo neppure il d.lgs.
33/2013 in materia di trasparenza degli enti locali. Nel
silenzio della norma si ritiene opportuno che la relazione
sia pubblicata all’interno della sezione ‘Amministrazione
trasparente’ del sito web istituzionale, nella
sottosezione ‘Organizzazione’ > ‘Organi di
indirizzo politico-amministrativo’. È inoltre opportuno
per una maggiore trasparenza e visibilità, prevederne la
pubblicazione anche all’interno della home page del sito.
Infine attenzione alle sanzioni: il comma 6 prevede infatti
che in caso di mancato adempimento dell’obbligo di redazione
e di pubblicazione nel sito dell’ente, della relazione di
fine mandato, al sindaco e, qualora non abbia predisposto la
relazione, al responsabile del servizio finanziario o al
segretario generale è ridotto della metà, con riferimento
alle tre successive mensilità, rispettivamente, l’importo
dell’indennità di mandato e degli emolumenti. Il sindaco è
inoltre tenuto a dare notizia della mancata pubblicazione
della relazione, motivandone le ragioni, nella home page del
sito medesimo (04.03.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
febbraio 2019 |
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CONSIGLIERI COMUNALI: Pubblicazione
situazione reddituale e patrimoniale di amministratori della Provincia.
Domanda
Siamo un Comune con popolazione inferiore ai 15mila abitanti e il nostro
Sindaco ci ha chiesto di chiarire se, in qualità di componente
dell’Assemblea dei Sindaci, è obbligato a pubblicare i suoi redditi nella
sezione di Amministrazione Trasparente del portale web della Provincia. Cosa
prevede la normativa in merito?
Risposta
La disposizione che regola la pubblicazione dei dati reddituali e
patrimoniali è contenuta nell’articolo 14, comma 1, lettera f), del decreto
legislativo 33/2013 che, in passato, è già stata oggetto di interpretazioni
da parte dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC).
L’ultima formulazione della norma, riveduta con la determinazione n.
241/2017, aveva chiarito che per i comuni con popolazione inferiore ai
15.000 abitanti, i titolari di incarichi politici, nonché i loro coniugi non
separati e parenti entro il secondo grado non sono tenuti alla pubblicazione
dei dati reddituali e patrimoniali, fermo restando l’obbligo di pubblicare
le altre informazioni previste: l’atto di nomina o di proclamazione; il
curriculum; i compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della
carica; gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi
pubblici; i dati relativi all’assunzione di altre cariche, presso enti
pubblici o privati, ed i relativi compensi; gli altri eventuali incarichi
con oneri a carico della finanza pubblica ed i compensi spettanti.
La disposizione sopra richiamata, rivolta prettamente ai titolari di
incarichi politici di Stato, Regioni ed Enti locali, si prestava a dubbi
interpretativi, soprattutto in relazione all’applicabilità o meno ai
titolari di incarichi politici, non di carattere elettivo.
L’ANAC è intervenuta in materia con la delibera n. 641, del 14.06.2017, di
modifica ed integrazione della delibera n. 241 dell’08.03.2017, precisando
che i destinatari degli obblighi di pubblicazione di cui sopra, sono tutti i
soggetti che partecipano –sia in via elettiva che di nomina– a organi
politici di livello statale, regionale e locale.
In particolare, l’Autorità ha previsto che per i sindaci dei comuni con
popolazione inferiore ai 15mila abitanti, in quanto componenti ex lege
dell’Assemblea dei Sindaci, non sussiste l’obbligo di pubblicazione nella
sezione di Amministrazione Trasparente del sito web della Provincia dei dati
reddituali e patrimoniali, previsti dall’art. 14, comma 1, lettera f) del
decreto legislativo 33/2013.
La risposta al quesito posto, quindi, è che il Sindaco non è obbligato a
pubblicare alcuna informazione sui suoi redditi e sul suo patrimonio, ma
potrebbe essere tenuto a farlo qualora l’amministrazione disponesse di
pubblicare “dati ulteriori” rispetto a quanto richiesto dalla legge,
individuando tali dati nell’ambito del Piano Triennale per la Prevenzione
della Corruzione e per la Trasparenza, in linea con il concetto di
trasparenza come accessibilità totale (FAQ ANAC in materia di trasparenza n.
1.9)
(12.02.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Accesso al rendiconto. Anche nei mini-enti niente paletti ai
consiglieri. Il Tuel non pone limiti al diritto di visionare gli atti ed
estrarne copia.
In materia di diritto di accesso dei consiglieri comunali, può essere
respinta, da parte dell'ufficio finanziario dell'ente, la richiesta di
«presa visione della documentazione relativa al bilancio di rendiconto», in
quanto il comune, che non ha approvato il Peg, ha una popolazione «inferiore
ai 5.000 abitanti»?
Il plenum della commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, del
16.03.2010, ha osservato che il «diritto di accesso» e il «diritto
di informazione» dei consiglieri comunali nei confronti della p.a.
trovano la loro disciplina nell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000
che riconosce a questi il diritto di ottenere dagli uffici comunali, nonché
dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in
loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato.
Premesso che l'ente dovrebbe comunque disporre di apposito regolamento per
la disciplina di dettaglio per l'esercizio di tale diritto, la maggiore
ampiezza di legittimazione all'accesso rispetto al cittadino (art. 10 del
decreto legislativo n. 267/2000) è riconosciuta in ragione del particolare
munus espletato dal consigliere comunale. Infatti, il consigliere
deve essere posto nelle condizioni di valutare, con piena cognizione di
causa, la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'amministrazione, onde
potere esprimere un giudizio consapevole sulle questioni di competenza della
p.a., opportunamente considerando il ruolo di garanzia democratica e la
funzione pubblicistica da questi esercitata.
Ciò in quanto «un pieno controllo sull'attività dell'ente spetta
certamente a ciascun consigliere comunale, espressione politica della
collettività locale di cui il comune è ente esponenziale» (parere della
Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi del 17/12/2015). A tal
fine, il consigliere comunale non deve motivare la propria richiesta di
informazioni, poiché, diversamente opinando, la p.a. si ergerebbe ad arbitro
delle forme di esercizio delle potestà pubblicistiche dell'organo deputato
all'individuazione ed al perseguimento dei fini collettivi.
Conseguentemente, gli Uffici comunali non hanno il potere di sindacare il
nesso intercorrente tra l'oggetto delle richieste di informazioni avanzate
da un consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da
questi espletato.
In merito al caso di specie, l'articolo 169 del decreto legislativo n.
267/2000 relativo al Piano esecutivo di gestione (Peg), al comma 3, prevede
la facoltatività dell'adozione di tale strumento per i comuni con
popolazione inferiore ai 5.000 abitanti. L'art. 227 del medesimo decreto
legislativo disciplina il rendiconto di gestione disponendo, al comma 3, una
deroga per tale tipologia di comuni in ordine alla predisposizione del conto
economico, dello stato patrimoniale e del bilancio consolidato per gli enti
che si avvalgono della facoltà di non tenere la contabilità
economico-patrimoniale prevista dall'art. 232.
Tali disposizioni non sembra che contengano limitazioni all'accesso nei
riguardi dei consiglieri comunali i quali, oltre ad avere diritto di
visionare ed eventualmente di estrarre copia di qualsiasi atto che sia in
possesso del comune, hanno un diritto a visionare proprio gli specifici atti
ai sensi dell'articolo 227 citato - che al comma 2, prevede testualmente che
«la proposta è messa a disposizione dei componenti dell'organo consiliare
prima dell'inizio della sessione consiliare in cui viene esaminato il
rendiconto entro un termine, non inferiore a 20 giorni, stabilito dal
regolamento di contabilità».
Pertanto, alla luce del quadro sopra delineato, non sembra che possa negarsi
l'accesso agli atti richiesti (articolo ItaliaOggi dell'01.02.2019). |
gennaio 2019 |
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CONSIGLIERI
COMUNALI: Il
consigliere comunale può impugnare una delibera solo se lede direttamente il
suo mandato.
Non sussiste legittimazione dei consiglieri comunali a impugnare atti che
non siano direttamente lesivi dell'ufficio ricoperto.
Un consigliere di minoranza di un Comune alle porte di Milano aveva
impugnato di fronte al Tar la delibera di adozione del Piano di governo del
territorio, chiedendone l'annullamento, in quanto alla seduta del consiglio
comunale aveva espresso il proprio voto favorevole anche un consigliere in
conflitto di interessi, che, se si fosse astenuto, avrebbe determinato il
venir meno del numero legale.
Si era costituito il Comune eccependo
l'inammissibilità del ricorso, in quanto il ricorrente, nella qualità di
consigliere comunale, non sarebbe stato legittimato a impugnare le
deliberazione dell'organo di cui faceva parte.
Con la
sentenza
25.01.2019 n. 153, il TAR Lombardia-Milano, Sez. II, ha rigettato il ricorso.
Il
collegio ha affermato che i consiglieri comunali non sono legittimati ad
agire contro l'Amministrazione di appartenenza, dato che il giudizio
amministrativo, di regola, non è aperto alle controversie tra organi o
componenti di organi dello stesso ente.
Si può ipotizzare il ricorso dei singoli consiglieri comunali solo quando
«vengano in rilievo atti incidenti in via diretta su un diritto spettante
alla persona investita della carica di consigliere, dovendosi escludere che
ogni violazione di forma o di sostanza nell’adozione di una deliberazione,
che di per sé può produrre un atto illegittimo impugnabile dai diretti
destinatari o direttamente lesi dal medesimo, si traduca in una automatica
lesione dello ius ad officium».
Infatti il consigliere comunale gode di legittimazione attiva contro
l'organo di cui fa parte solo quando eccepisce vizi che attengano:
1) a erronee modalità di convocazione dell'organo consiliare
2) alla violazione dell'ordine del giorno
3) all'inosservanza del deposito della documentazione necessaria
per poter consapevolmente deliberare
4) in generale, quando gli sia precluso, in tutto o in parte,
l'esercizio delle funzioni
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.02.2019).
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MASSIMA
2. A questo punto devono essere esaminate le eccezioni formulate dalla
difesa del Comune e, in particolare, quella che assume l’inammissibilità
dell’intero gravame sul presupposto che il ricorrente, agendo nella qualità
di consigliere comunale, non risulterebbe legittimato ad impugnare le
delibere assunte dall’organo consiliare di cui fa parte.
2.1. L’eccezione è fondata.
Il ricorrente ha agito nella veste di consigliere comunale di minoranza per
censurare la legittimità di alcune deliberazioni –relative all’adozione e
all’approvazione del P.G.T.– non deducendo tuttavia la lesione del proprio
munus, ma evidenziando un asserita violazione della normativa
contenuta nel Testo Unico degli Enti Locali (art. 78, comma 2, del D.Lgs. n.
267 del 2000) sulla prevenzione dei conflitti di interessi tra gli
amministratori e gli amministrati.
Tuttavia, secondo una consolidata giurisprudenza, non sussiste alcuna
legittimazione in capo ai consiglieri comunali ad impugnare atti che non
risultano direttamente lesivi del proprio munus. Difatti i
consiglieri comunali, in quanto tali, non sono legittimati ad agire contro
l’Amministrazione di appartenenza, dato che il giudizio amministrativo non è
di regola aperto alle controversie tra organi o componenti di organi dello
stesso ente, ma è rivolto a risolvere controversie intersoggettive.
Pertanto, l’impugnativa di singoli consiglieri può ipotizzarsi soltanto
quando vengano in rilievo atti incidenti in via diretta sul diritto
all’ufficio dei medesimi e, quindi, su un diritto spettante alla persona
investita della carica di consigliere, dovendosi escludere che ogni
violazione di forma o di sostanza nell’adozione di una deliberazione, che di
per sé può produrre un atto illegittimo impugnabile dai soggetti diretti
destinatari o direttamente lesi dal medesimo, si traduca in una automatica
lesione dello ius ad officium.
Ne deriva che la legittimazione al
ricorso può essere riconosciuta al consigliere solo quando i vizi dedotti
attengano (a) ad erronee modalità di convocazione dell’organo consiliare,
(b) alla violazione dell’ordine del giorno, (c) alla inosservanza del
deposito della documentazione necessaria per poter liberamente e
consapevolmente deliberare e (d) più in generale, laddove sia precluso in
tutto o in parte l’esercizio delle funzioni relative all’incarico rivestito
(ex multis, Consiglio di Stato, V, 07.07.2014, n. 3446; TAR Campania,
Napoli, I, 05.06.2018, n. 3710).
Nella fattispecie de qua, non si sono prodotte lesioni rientranti nelle
categorie in precedenza indicate e, quindi, sia il ricorso introduttivo che
il ricorso per motivi aggiunti devono essere dichiarati inammissibili per
difetto di legittimazione del ricorrente.
2.2. In senso contrario non rileva nemmeno la circostanza –addotta peraltro
soltanto in sede di memoria di replica dalla difesa attorea– che la coniuge
del ricorrente sarebbe proprietaria di un mappale confinante con quello del
sig. Sa., considerato che nessun ulteriore elemento è stato addotto per
procedere ad una verifica in ordine alla sussistenza di una qualsivoglia
lesione in capo al ricorrente, a prescindere dalla tempestività degli
eventuali rilievi e dalla legittimazione ad agire in giudizio di un soggetto
in sostituzione del proprio coniuge.
2.3. In conclusione, sia il ricorso introduttivo che il ricorso per motivi
aggiunti devono essere dichiarati inammissibili per difetto di
legittimazione del ricorrente. |
CONSIGLIERI COMUNALI: Conflitto
di interessi di un amministratore locale.
1) Le cause di incompatibilità o
ineleggibilità che possono investire gli amministratori
locali incidono direttamente sul diritto di elettorato
passivo, tutelato dall’art. 51 della Costituzione; segue che
le norme che introducono cause ostative all’espletamento del
mandato elettivo sono di stretta interpretazione, e non è
ammessa l’interpretazione analogica delle stesse.
2) La disposizione di cui all’articolo 78 TUEL, secondo la quale
l’amministratore locale non deve prendere parte alla
discussione e alla votazione delle deliberazioni in cui lo
stesso ha un interesse proprio (o di parenti o affini sino
al quarto grado), è espressione di un obbligo generale di
astensione dei membri di collegi amministrativi che vengano
a trovarsi in posizione di conflitto di interessi in quanto
portatori di interessi personali, diretti o indiretti, in
contrasto potenziale con quello pubblico. Con riferimento
specifico all’approvazione dei provvedimenti normativi o di
carattere generale la norma ha disciplinato l’obbligo di
astensione in modo tale che la sua violazione possa
verificarsi solo in presenza di un interesse immediato,
diretto e specifico dell’amministratore (o dei suoi parenti
o affini) e non di un interesse genericamente non definito.
Il Comune, sentito anche per le vie brevi, chiede un parere
in merito alla posizione rivestita da un assessore comunale,
che ha svolto l’attività di revisore dei conti presso un
consorzio partecipato dall’Ente medesimo, sotto il profilo
dell’esistenza di possibili cause di incompatibilità o di
conflitto di interessi per lo stesso.
In particolare, premesso che il soggetto in riferimento è
stato eletto consigliere comunale nel giugno 2017 e ha
cessato di essere revisore del consorzio a luglio 2018,
atteso che il Comune ha approvato nel mese di ottobre 2018
il bilancio consolidato con i bilanci dei propri organismi
ed enti strumentali e delle società controllate e
partecipate relativo all’esercizio 2017 [1],
nel cui novero è compreso il consorzio nel quale lo stesso
ha prestato l’attività di revisore, l’Ente desidera sapere
se, sul presupposto dell’eventuale esistenza di una qualche
forma di incompatibilità/conflitto di interessi in capo
all’amministratore locale, la delibera consiliare di cui
sopra (cfr. delibera di ottobre 2018) possa risultare
affetta da qualche vizio di legittimità.
Sentito il Servizio finanza locale, con riferimento alla
fattispecie in esame, si formulano le seguenti
considerazioni giuridiche generali.
In primis, pare che per il soggetto di cui si discute
non venga in rilevo alcuna causa di incompatibilità prevista
dalla legge: ciò sia dal punto di vista della carica di
amministratore locale sia sotto quello dell’aver svolto
l’attività di revisore dei conti per il consorzio.
In particolare, si ricorda come un esame delle eventuali
cause di incompatibilità o ineleggibilità che possono
investire gli amministratori locali deve essere effettuato
in chiave di stretta interpretazione, rifuggendo da
qualsiasi tipo di estensione analogica delle stesse, atteso
che le cause ostative all’espletamento del mandato elettivo
incidono direttamente sul diritto di elettorato passivo,
alla luce della riserva di legge in materia posta
dall’articolo 51 della Costituzione.
Premesso un tanto, sotto il primo profilo pare non ricorrano
i presupposti per l’applicazione di alcuna delle fattispecie
indicate all’articolo 63 del decreto legislativo 18.08.2000,
n. 267 [2].
Tra queste si cita, escludendosene l’applicazione, quella di
cui al comma 1, num. 3), secondo la quale non può ricoprire
la carica di consigliere comunale “il consulente legale,
amministrativo e tecnico che presta opera in modo
continuativo in favore delle imprese di cui ai numeri 1) e
2) del presente comma” (l’impresa nel caso di specie
sarebbe rappresentata dal consorzio).
Come rilevato dal Ministero dell’Interno in un proprio
parere [3]
che affrontava una questione analoga a quella in esame
[4], non
si può infatti qualificare l’organo di revisione quale
consulente amministrativo o tecnico del consorzio.
Ad analoghe conclusioni si perviene analizzando la posizione
del soggetto in riferimento sotto il profilo dell’incarico
di revisore dei conti del consorzio. Al riguardo la norma da
prendere astrattamente in esame è l’articolo 236 del TUEL
[5] ai
sensi del quale: “1. Valgono per i revisori le ipotesi di
incompatibilità di cui al primo comma dell'articolo 2399 del
codice civile [6],
intendendosi per amministratori i componenti dell'organo
esecutivo dell'ente locale.
2. L'incarico di revisione economico-finanziaria non può
essere esercitato dai componenti degli organi dell'ente
locale e da coloro che hanno ricoperto tale incarico nel
biennio precedente alla nomina, dal segretario e dai
dipendenti dell'ente locale presso cui deve essere nominato
l'organo di revisione economico-finanziaria e dai dipendenti
delle regioni, delle province, delle città metropolitane,
delle comunità montane e delle unioni di comuni
relativamente agli enti locali compresi nella circoscrizione
territoriale di competenza.
3. Omissis”.
In particolare non ricorrono i presupposti per
l’applicazione del comma 1 del citato articolo 236 TUEL
[7],
mancando il requisito del controllo tra consorzio e comune
richiesto dall’articolo 2399, primo comma, lett. b), cod.
civ. ivi richiamato [8].
Quanto all’ulteriore questione afferente la legittimità o
meno della delibera assunta dal consiglio comunale, con la
partecipazione del consigliere in argomento, avente ad
oggetto l’approvazione del bilancio consolidato dell’ente
con i bilanci dei propri organismi ed enti strumentali e
delle società controllate e partecipate, in via preliminare
si ricorda che non compete a questo Ufficio esprimersi in
merito alla legittimità degli atti degli enti locali, stante
l’avvenuta soppressione del regime dei controlli ad opera
della riforma costituzionale n. 3/2001.
Pur tuttavia, di seguito si effettuano una serie di
valutazioni giuridiche sulla tematica in riferimento che si
ritiene possano essere di utilità all’Ente che ha posto il
quesito.
In particolare la norma da prendere in considerazione è
l’articolo 78, comma 2, TUEL il quale recita: “Gli
amministratori di cui all'articolo 77, comma 2, devono
astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla
votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro
parenti o affini sino al quarto grado. L'obbligo di
astensione non si applica ai provvedimenti normativi o di
carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei
casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta
fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi
dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto
grado”.
Alla luce delle considerazioni in appresso indicate pare che
nel caso di specie manchino le condizioni per ritenere
sussistente l’obbligo di astensione del consigliere comunale
in relazione all’approvazione della predetta delibera.
In via generale si ricorda che la giurisprudenza
[9] ha più
volte affermato che la norma in commento è espressione di un
obbligo generale di astensione dei membri di collegi
amministrativi che vengano a trovarsi in posizione di
conflitto di interessi in quanto portatori di interessi
personali, diretti o indiretti, in contrasto potenziale con
quello pubblico.
Con riferimento specifico all’approvazione dei provvedimenti
normativi o di carattere generale, al cui interno deve
ricondursi anche la fattispecie in esame, la norma ha
disciplinato l’obbligo di astensione in modo tale che la sua
violazione possa verificarsi solo in presenza di un
interesse immediato, diretto e specifico dell’amministratore
(o dei suoi parenti o affini) e non di un interesse
genericamente non definito.
Quanto alla delibera di approvazione del bilancio
consolidato con i bilanci dei propri organismi ed enti
strumentali e delle società controllate e partecipate,
assunta dal consiglio comunale, si rileva che esso, ai sensi
del principio applicato n. 4/4 di cui al decreto legislativo
23.06.2011, n. 118, consiste in “un documento contabile a
carattere consuntivo che rappresenta il risultato economico,
patrimoniale e finanziario del «gruppo amministrazione
pubblica» […]. Il bilancio consolidato è quindi lo strumento
informativo primario di dati patrimoniali, economici e
finanziari del gruppo inteso come un’unica entità economica
distinta dalle singole società e/o enti componenti il
gruppo, che assolve a funzioni essenziali di informazione,
sia interna che esterna, funzioni che non possono essere
assolte dai bilanci separati degli enti e/o società
componenti il gruppo né da una loro semplice aggregazione”.
Il Servizio finanza locale sull’argomento ha precisato come
trattasi di un documento che consiste principalmente in un “assemblaggio”
tecnico di bilanci di esercizio singolarmente approvati ed
opportunamente adattati secondo regole tecniche precise per
permetterne il consolidamento.
Attesa la natura del bilancio consolidato in uno con le
funzioni ad esso proprie [10],
considerato il fatto che il bilancio consolidato viene
redatto sulla base dei documenti contabili trasmessi dagli
enti partecipati, i quali costituiscono documenti “perfetti”
nel senso che si tratta di atti già approvati nelle
rispettive sedi (per quel che rileva in questa sede,
approvati dagli organi competenti del consorzio), produttivi
di effetti e non impugnabili dagli amministratori dell’ente
capogruppo (il Comune), parrebbe seguire l’inesistenza di un
interesse immediato e diretto del consigliere comunale con
riferimento all’approvazione della delibera in argomento.
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[1] L’approvazione consiliare, pertanto, benché
intervenuta quando il consigliere comunale non era più
revisore dei conti del consorzio, afferiva, tuttavia, a
documenti contabili del consorzio sui quali lo stesso aveva
svolto la sua attività di revisore dei conti.
[2] Né di quelle contenute all’articolo 60 TUEL le quali
benché volte a individuare specifiche ipotesi di
ineleggibilità, qualora sopraggiungano nel corso del mandato
trovano applicazione in forza dell’estensione contenuta
all’articolo 63, comma 1, num. 7) TUEL.
[3] Ministero dell’Interno, parere del 25.05.2010.
[4] Si trattava di un componente dei revisori dei conti di
un consorzio tra comuni eletto consigliere comunale in uno
degli enti locali facenti parte del consorzio.
[5] Tale norma si applica al consorzio in forza del rinvio
contenuto all’articolo 2, comma 2, TUEL il quale recita: “Le
norme sugli enti locali previste dal presente testo unico si
applicano, altresì, salvo diverse disposizioni, ai consorzi
cui partecipano enti locali, con esclusione di quelli che
gestiscono attività aventi rilevanza economica ed
imprenditoriale e, ove previsto dallo statuto, dei consorzi
per la gestione dei servizi sociali”. Peraltro si ricorda
che l’articolo 24 (Disciplina in materia di revisione
economico-finanziaria degli enti locali) della legge
regionale 17.07.2015, n. 18 stabilisce che: “In materia di
revisione economico-finanziaria degli enti locali si applica
la normativa statale, salvo quanto previsto dalla legge
regionale”.
[6] L’articolo 2399, primo comma, del cod. civ. recita: “Non
possono essere eletti alla carica di sindaco e, se eletti,
decadono dall'ufficio:
a) omissis;
b) il coniuge, i parenti e gli affini entro il quarto grado degli
amministratori della società, gli amministratori, il
coniuge, i parenti e gli affini entro il quarto grado degli
amministratori delle società da questa controllate, delle
società che la controllano e di quelle sottoposte a comune
controllo;
c) omissis”.
[7] Non si prende, invece, in esame la fattispecie
contemplata al comma 2 dell’articolo 236 TUEL nella parte in
cui sancisce che l’incarico di revisione
economico-finanziaria non possa essere esercitato dai
componenti degli organi dell’ente locale atteso che essa
introduce una causa di incompatibilità per il revisore
contabile che sia amministratore nel medesimo ente
(consorzio) nel quale esercita il proprio mandato elettivo.
[8] La relazione di controllo tra Comune e consorzio
andrebbe, infatti, valutata alla luce dell’articolo 2359 del
cod. civ. il quale stabilisce che: “Sono considerate società
controllate:
1) le società in cui un'altra società dispone della maggioranza dei
voti esercitabili nell'assemblea ordinaria;
2) le società in cui un'altra società dispone di voti sufficienti
per esercitare un'influenza dominante nell'assemblea
ordinaria;
3) le società che sono sotto influenza dominante di un'altra
società in virtù di particolari vincoli contrattuali con
essa”.
[9] Tra le altre, TAR Piemonte, Torino, sez. I, sentenza del
24.10.2014, n. 1623; Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza
del 28.01.2011, n. 693.
[10] A tal riguardo, il punto 1 dell’Allegato 4/4 al D.Lgs.
118/2011 stabilisce che il bilancio consolidato deve
consentire di: “a) sopperire alle carenze informative e
valutative dei bilanci degli enti che perseguono le proprie
funzioni anche attraverso enti strumentali e detengono
rilevanti partecipazioni in società […]; b) attribuire alla
amministrazione capogruppo un nuovo strumento per
programmare, gestire e controllare con maggiore efficacia il
proprio gruppo comprensivo di enti e società; c) ottenere
una visione completa delle consistenze patrimoniali e
finanziarie di un gruppo di enti e società che fa capo ad
un'amministrazione pubblica, incluso il risultato economico”
(25.01.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Minoranze da tutelare. No
all’ostruzionismo della maggioranza. Illegittime le modifiche regolamentari
tese a far mancare il numero legale.
Qual è il quorum necessario affinché possano
considerarsi valide le sedute consiliari di seconda convocazione?
L'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 demanda al
regolamento comunale, «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto»,
la determinazione del «numero dei consiglieri necessario per la validità
delle sedute», con il limite che tale numero non può, in ogni caso,
scendere sotto la soglia del «terzo dei consiglieri assegnati per legge
all'ente, senza computare a tale fine il sindaco e il presidente della
provincia».
Nella fattispecie in esame, il consiglio comunale ha deliberato la modifica
della disposizione regolamentare sul funzionamento dell'organo consiliare
recante la disciplina relativa alla seduta di seconda convocazione
prevedendo, ai fini della validità della seduta stessa, la presenza di «almeno
quattro consiglieri». Poiché il consiglio comunale in questione è
composto solo da tre consiglieri di minoranza, emergerebbe la difficoltà,
per questi ultimi, di poter esercitare il proprio mandato elettivo a causa
del ripetersi delle assenze della maggioranza e alla conseguente mancanza
del numero legale previsto per la validità delle sedute del consiglio.
In merito, il Tar Sicilia, Catania, sez. I 18/07/2006, n. 1181,
pronunciandosi in tema di c.d. «ostruzionismo di maggioranza», ha
evidenziato che il comportamento preordinato al conseguimento della mancanza
del numero legale delle assemblee rappresentative costituisce una
inammissibile prevaricazione della maggioranza nei confronti delle
minoranze, alle quali viene impedito di esercitare il proprio ruolo di
opposizione e quindi l'esercizio di un diritto politico costituzionalmente
garantito. Secondo il Tar citato, l'art. 49 della Costituzione preclude ai
partiti politici e ai loro rappresentanti «qualunque opera non solo di
aperto sabotaggio ma anche di subdola, lenta e surrettizia erosione delle
istituzioni democratiche».
La modifica regolamentare proposta, pertanto, unitamente alla lamentata
assenza sistematica dei componenti di maggioranza potrebbero configurare un
inammissibile svilimento dei diritti e delle prerogative dei consiglieri di
minoranza. Premesso che il vigente ordinamento non prevede poteri di
controllo di legittimità sugli atti degli enti locali in capo al ministero
dell'interno, l'ente locale in questione dovrebbe valutare l'opportunità di
rivedere la propria normativa regolamentare (articolo ItaliaOggi dell'11.01.2019). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Nell'ambito
della manovra dell'approvazione del bilancio di previsione, nella seduta del
consiglio comunale, posto che prima dell'approvazione del bilancio, nella
sequenza dell'ordine del giorno, si intende approvare una modifica ad un
regolamento tributario, questa delibera di modifica di regolamento che va ad
incidere sul bilancio stesso, può essere dichiarata immediatamente
eseguibile o le modifiche dei regolamenti non lo possono essere?
Il quesito in esame riguarda la declaratoria di "immediata eseguibilità",
relativa alle deliberazioni degli organi collegiali: Giunta e Consiglio.
Precisamente, si chiede di sapere se le deliberazioni consiliari di
modificazione di regolamenti in materia tributaria possano essere oggetto
dell'indicata declaratoria.
In via preliminare, occorre chiarire il concetto di "eseguibilità" e
ben distinguerlo da quello di "esecutività". Orbene, per "esecutività",
si intende la formale idoneità di un provvedimento a produrre effetti.
Viceversa, per "eseguibilità", si intende la concreta idoneità di un
provvedimento a produrre effetti. In altri termini, il provvedimento, seppur
non esecutivo, può essere attuato (posto in esecuzione) mediante la
dichiarazione di eseguibilità, che impone una precisa assunzione di
responsabilità. L'eseguibilità costituisce, quindi, un'anticipazione
dell'esecuzione, sulla base di una dichiarazione di assunzione di
responsabilità.
Chiarito il concetto, procediamo alla lettura dell'art. 134, comma 4, D.Lgs
18.08.2000, n. 267, il quale stabilisce quanto segue: "Nel caso di
urgenza le deliberazioni del consiglio o della giunta possono essere
dichiarate immediatamente eseguibili con il voto espresso dalla maggioranza
dei componenti".
Il tenore letterale della disposizione normativa pone in essere un generico
riferimento alle deliberazioni del consiglio o della giunta, senza operare
alcuna limitazione. Dunque, in base ad un'interpretazione meramente
letterale appare facile desumere che, non sussistendo limitazioni espresse,
anche le deliberazioni modificative di regolamenti in materia tributaria
possono essere dichiarate immediatamente eseguibili.
Ed, infatti, la giurisprudenza, che si è più volte occupata dell'istituto,
non ha mai evidenziato limitazioni di "categorie" di provvedimenti
deliberativi o di "materia" eventualmente oggetto di declaratoria.
Precisamente, la giurisprudenza ha evidenziato quanto segue:
- La funzione della dichiarazione di immediata eseguibilità è
quella di garantire l'effettività delle decisioni assunte, nelle more della
pubblicazione dell'atto deliberativo: "Si tratta di una norma che tende a
salvaguardare l'effettività di quanto deciso dall'organo politico nelle more
della pubblicazione dell'atto, al fine di evitare uno spazio temporale (dal
giorno della deliberazione a quello dell'effettiva pubblicazione), che
potrebbe tradire l'obiettivo della delibera medesima in modo deleterio per
il pubblico interesse di volta in volta perseguito, così eliminando
l'"effetto annuncio" connaturato all'ordinaria regola di cui al terzo comma
dell'art. 134 (in base alla quale la delibera diventa ordinariamente
esecutiva solo trascorsi dieci giorni dalla sua pubblicazione)" (TAR
Piemonte Torino Sez. II, 14.03.2014, n. 460);
- Conseguentemente, la dichiarazione di immediata eseguibilità
accede alla deliberazione principale, ma non si identifica con essa, ed è
proprio la necessità di una votazione separata a rivelarne l'autonomia sotto
il profilo strutturale e funzionale (in tal senso: TAR Liguria Genova Sez.
II, 09.01.2007, n. 2);
- La dichiarazione di immediata eseguibilità costituendo una scelta
discrezionale dell'Amministrazione, deve essere ben motivata: "La
clausola di immediata eseguibilità dipende da una scelta discrezionale
dell'amministrazione, comunque pur sempre correlata al requisito
dell'urgenza, che deve ricevere adeguata motivazione nell'ambito dello
stesso atto" (TAR Liguria Genova Sez. II, 09.01.2007, n. 2).
- Non occorre la previa pubblicazione della deliberazione: "L'immediata
eseguibilità di una deliberazione consiliare o giuntale non presuppone la
previa pubblicazione dell'atto. In caso contrario il comma 4 dell'art. 134
avrebbe dovuto essere diversamente formulato, non potendosi lasciare nel
vago un profilo così rilevante" (TAR Marche Ancona Sez. I, 23.07.2014,
n. 713).
Orbene, in base ai riportati indirizzi giurisprudenziali, appare ben chiaro
che la dichiarazione di immediata eseguibilità non incontra alcun limite di
"categorie" o di "materia" e può anche trovare applicazione in
relazione alle deliberazioni consiliari di modifica di regolamenti
tributari. Ad ogni modo, occorre prestare la massima attenzione al profilo
motivazionale, corredando la dichiarazione di un'adeguata giustificazione,
esplicativa delle ragioni di urgenza. Ed, infatti, l'evidente necessità di
una congrua motivazione è ribadita anche da un parere reso dal Ministero
dell'interno: "La clausola di immediata eseguibilità dipende da una
scelta discrezionale dell'amministrazione, comunque pur sempre correlata al
requisito dell'urgenza, che deve ricevere adeguata motivazione nell'ambito
dello stesso atto" (parere 17.02.2017).
Ovviamente, la concreta ed effettiva produzione di effetti giuridici deve
essere coordinata con le vigenti disposizioni in materia di tributi locali,
tenendo conto, soprattutto, dell'art. 1, comma 169, L. 27.12.2006, n. 296,
il quale stabilisce che: "gli enti locali deliberano le tariffe e le
aliquote relative ai tributi di loro competenza entro la data fissata da
norme statali per la deliberazione del bilancio di previsione. Dette
deliberazioni, anche se approvate successivamente all'inizio dell'esercizio
purché entro il termine innanzi indicato, hanno effetto dal 1° gennaio
dell'anno di riferimento. In caso di mancata approvazione entro il suddetto
termine, le tariffe e le aliquote si intendono prorogate di anno in anno".
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs 18.08.2000, n. 267, art. 134
- L. 27.12.2006, n. 296, art. 1, comma 169
Riferimenti di giurisprudenza
TAR Liguria Sez. II, 09.01.2007, n. 2 - TAR Piemonte Sez. II, 14.03.2014, n.
460 - TAR Marche Sez. I, 23.07.2014, n. 713
Documenti allegati
Parere 17.02.2017 del Ministero dell'Interno
(10.01.2019 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Gestionale senza segreti. Accesso al sistema informatico contabile.
I consiglieri hanno diritto di visionare documenti senza limitazioni.
Ai
sensi della vigente normativa, è consentito al consigliere comunale di
accedere al sistema informatico gestionale, anche contabile, dell'ente
locale?
Il Tar Sardegna, con sentenza n. 29/2007, in merito alla questione
prospettata, ha affermato che è consentito prendere visione del protocollo
generale senza alcuna esclusione di oggetti e notizie riservate e di materie
coperte da segreto, posto che i consiglieri comunali sono tenuti al segreto
ai sensi dell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000. Il Tar Lombardia,
Brescia, inoltre, con sentenza n. 163/2004, ha ritenuto non ammissibile
imporre ai consiglieri l'onere di specificare in anticipo l'oggetto degli
atti che intendono visionare poiché trattasi di informazioni di cui gli
stessi possono disporre solo in conseguenza dell'accesso.
La previa visione dei vari protocolli, tra cui il protocollo informatico,
previsto dall'art. 17 del decreto legislativo n. 82/05 e successive
modificazioni (codice dell'amministrazione digitale), è pertanto necessaria
per poter individuare gli estremi degli atti sui quali si andrà ad
esercitare l'accesso vero e proprio.
In tal senso, anche la Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi, con parere del 22.02.2011, ha osservato che, ai sensi
della vigente normativa (dpr 20.10.1998, n. 428, dpcm 31.10.2000, dpr 28.12.2000 n. 445, dpcm 14.10.2003) ogni comune deve
provvedere a realizzare il protocollo informatico, a cui possono liberamente
accedere i consiglieri comunali che, quindi, possono prendere visione in via
informatica delle determinazioni e delle delibere adottate dall'ente; ciò,
in ottemperanza al principio generale di economicità dell'azione
amministrativa, che riduce allo stretto necessario la redazione in forma
cartacea dei documenti amministrativi. I precedenti pareri espressi dalla
commissione per l'accesso ai documenti amministrativi rafforzano, peraltro,
tale favorevole orientamento.
In particolare la Commissione, con il parere del 03.02.2009, ha
precisato che «il ricorso a supporti magnetici o l'accesso al sistema
informatico interno dell'ente, ove operante, sono strumenti di accesso
certamente consentiti al consigliere comunale, poiché favoriscono la
tempestiva acquisizione delle informazioni richieste senza aggravare
l'ordinaria attività amministrativa».
Inoltre, con il parere del 16.03.2010, ha ribadito l'accessibilità del
consigliere comunale al sistema informatico dell'ente tramite utilizzo di
apposita password, ove operante, ferma restando la responsabilità della
segretezza della password di cui il consigliere è stato messo a conoscenza a
tali fini (art. 43, comma 2, Tuel); infine, con il parere del 25.05.2010, ha
rimarcato il diritto del consigliere di accedere anche al protocollo
informatico (articolo ItaliaOggi del 04.01.2019). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: La
carica di consigliere comunale non dà diritto di accesso agli atti della
magistratura contabile.
Non è sufficiente rivestire la carica di Consigliere per essere legittimati
sic et simpliciter all’accesso documentale ad atti, pur rivolti all’Ente
rappresentato, delle Procure regionali della Corte dei conti, occorrendo
dare atto che l’istanza muova da un’effettiva esigenza collegata all’esame
di questioni proprie dell’assemblea consiliare. Invero, la finalizzazione
dell’accesso ai documenti in relazione all’espletamento del mandato
costituisce il presupposto legittimante ma anche il limite dello stesso,
configurandosi come funzionale allo svolgimento dei compiti del Consigliere.
È quanto afferma il Consiglio di Stato,
Sez. V, con la
sentenza
02.01.2019 n. 12.
Il caso
La vicenda trae origine dall’impugnazione dinnanzi al Tar, da parte di un
Consigliere comunale in carica presso un Comune veneto, di un provvedimento
del Comune con cui si negava l’accesso agli atti afferenti ad una richiesta
inoltrata al Comune dalla Procura della Corte dei conti regionale, nonché
alla successiva risposta dell’Amministrazione alla Procura.
L’istanza di accesso, spiegata nella sua qualità di Consigliere comunale,
era giustificata in quanto utile all’espletamento del proprio mandato,
poiché attinente a questioni che in ipotesi avrebbero potuto incidere, sotto
il profilo finanziario, sulla corretta tenuta del bilancio dell’Ente.
L’Amministrazione negava però l’accesso, eccependo tra l’altro
l’assoggettamento degli atti richiesti a segreto istruttorio.
Il Tar respingeva il ricorso, sul presupposto –da un lato– che non fosse
stato dimostrato l’effettivo interesse all’accesso, ossia un’esigenza
collegata all’esame di questioni di bilancio o altre questioni poste
all’ordine del giorno di una seduta del Consiglio e che comunque –dall’altro– la sussistenza dell’eccepito segreto istruttorio, atteso che la
documentazione della quale era stata chiesta l’ostensione non riguardava un
atto prodotto nell’esercizio delle competente proprie dell’Amministrazione
comunale, bensì una documentazione proveniente dalla Procura della Corte dei
conti afferente ad un’indagine promossa dalla stessa Procura.
Il Consiglio di Stato, adito in seconde cure, rigettava anch’esso il
ricorso, ha affermato che non sia sufficiente rivestire la carica di
consigliere per essere legittimati sic et simpliciter all’accesso,
occorrendo dare atto che l’istanza muova da un’effettiva esigenza collegata
all’esame di questioni proprie dell’assemblea consiliare.
In tal guisa, infatti, la finalizzazione dell’accesso ai documenti in
relazione all’espletamento del mandato costituisce il presupposto
legittimante ma anche il limite dello stesso, configurandosi come funzionale
allo svolgimento dei compiti del Consigliere.
La decisione
Come visto, il Consiglio di Stato parte dall’assunto per cui la carica di
Consigliere comunale non attribuisca al singolo Consigliere un generale
diritto di accesso agli atti, anche interni, formati dall’Amministrazione o
comunque utilizzati ai fini dell’attività amministrativa in ragione del sol
fatto di rivestire detta carica istituzionale; bensì, strumentalmente, lo
riconnette all’esercizio delle sue funzioni all’interno dell’assemblea di
cui fa parte.
Detto in altri termini, non appare sufficiente rivestire la carica di
Consigliere per essere legittimati sic et simpliciter all’accesso, ma
occorre dare atto che l’istanza muova da un’effettiva esigenza collegata
all’esame di questioni proprie dell’assemblea consiliare.
Il Collegio, infatti, fa notare come la finalizzazione dell'accesso ai
documenti in relazione all'espletamento del mandato costituisce il
presupposto legittimante ma anche il limite dello stesso, configurandosi
come funzionale allo svolgimento dei compiti del Consigliere.
Partendo da questi presupposti, la richiesta, nel caso di specie, non aveva
ad oggetto degli atti interni dell’Amministrazione comunale (ovvero da
questi utilizzati ai fini dello svolgimento della propria attività
istituzionale), bensì una nota della Procura regionale della Corte dei conti
con la quale venivano chiesti all’Amministrazione alcuni riscontri
nell’ambito di uno specifico procedimento istruttorio. Pertanto, la
documentazione richiesta atteneva ad un procedimento aperto dalla
magistratura contabile, ancorché tale indagine fosse collegata ad una
determinata attività dell’Ente territoriale.
Nella vicenda de qua, dunque, fuoriusciva dal perimetro di applicazione
dell’art. 43 Tuel (il cui secondo comma recita testualmente: «I Consiglieri
comunali e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici,
rispettivamente, del Comune e della Provincia, nonché dalle loro aziende ed
enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili
all'espletamento del proprio mandato. Essi sono tenuti al segreto nei casi
specificamente determinati dalla legge»). Di guisa che, nel caso di specie,
le eccezionali prerogative riconosciute da tale norma ai Consiglieri
comunali erano da considerarsi inapplicabili, tanto più a fronte di
previsioni di legge che prevedessero invece un regime speciale di segretezza
o riservatezza, nell’interesse generale o di terzi.
Conclusioni
Nel rigettare il ricorso, dunque, il Consiglio di Stato ha ritenuto che, nel
caso di specie, il regime speciale di segretezza, fosse rinvenibile nelle
disposizioni del Dlgs 26.08.2016, n. 174 (Codice della giustizia
contabile) che disciplina –nell’ambito delle attività di indagine della
Procura contabile– le ipotesi di accesso al fascicolo istruttorio (articolo
71), la riservatezza della fase istruttoria (articolo 57) e le comunicazioni
dell’archiviazione dei procedimenti istruttori (articolo 69).
Nel primo caso, in particolare, solamente il destinatario dell'invito a
dedurre ha diritto di visionare e di estrarre copia di tutti documenti
inseriti nel fascicolo istruttorio depositato presso la segreteria della
Procura regionale.
Alla luce di tali disposizioni, il Collegio ha concluso che la possibilità
dell’accesso alla documentazione istruttoria è riservata ai soli soggetti
interessati dall’attività inquirente (in particolare, quelli invitati a
dedurre), nel rispetto dei principi del Dlgs 30.06.2003, n. 196 (Codice
in materia di protezione dei dati personali) e ciò all’evidente fine di
evitare che la gestione della documentazione contenuta nel fascicolo
istruttorio possa in concreto comportare nocumento alla riservatezza dei
soggetti coinvolti negli accertamenti.
Alla luce di quanto precede il Consiglio di Stato ha ritenuto corretta la
conclusione del primo Giudice, secondo cui alla vicenda per cui è causa
doveva applicarsi la disciplina generale sull’accesso agli atti di cui alla
legge 07.08.1990, n. 241; in particolare, veniva in considerazione
l’articolo 24, comma 1, di tale legge, per cui gli atti in esame dovevano
rimanere riservati, non avendo l’istante addotto alcuna esigenza di
difendere i propri interessi giuridici, in forza del comma 7 dello stesso
articolo 24
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 12.02.2019).
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Ad un complessivo esame degli atti di causa, il Collegio ritiene che il
gravame non sia fondato.
Con il primo motivo viene eccepita la contraddizione, da parte della
sentenza impugnata, della ratio sottesa al diritto di accesso agli atti di
cui sono titolari i consiglieri comunali, ai sensi dell’art. 43 Tuel, ai
quali non potrebbe essere negato l’accesso utile all’esercizio del mandato,
durante il cui espletamento sarebbero peraltro vincolati al segreto
d’ufficio.
Per l’effetto, l’odierno appellante non sarebbe stato gravato da alcun onere
motivazionale in occasione della proposizione di istanza di accesso, anche
alla luce degli artt. 52 e 54 del Regolamento per la disciplina dei
procedimenti amministrativi e per il diritto di accesso ai documenti del
Comune di Cassola, vigente all’epoca dei fatti, in applicazione dei quali
era legittimamente consentito allo stesso richiedere la documentazione
ritenuta “utile” all’espletamento delle proprie funzioni.
L’art. 52, in particolare, prevedeva che “I consiglieri comunali hanno
diritto di ottenere dagli uffici e dagli enti e aziende dipendenti dal
Comune tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, nello stato in
cui sono disponibili, utili all'espletamento del mandato”, laddove il primo
comma dell’art. 54 (“Accesso agli atti riservati”) stabiliva che “Non può
essere inibito ai consiglieri l’esercizio del diritto di accesso agli atti
interni di cui all’art. 41, ai documenti dichiarati riservati e agli atti
preparatori di cui all’art. 45”.
Per contro, nessuna rilevanza poteva attribuirsi, nel caso di specie, alle
norme del nuovo Codice di giustizia contabile richiamate in sentenza (artt.
71, 57 e 69 del d.lgs. n. 174 del 2016), così come all’art. 24 della l. n.
241 del 1990, giacché –richiamando il precedente della Sezione 11 dicembre
2013, n. 5931– con riferimento all'esercizio del diritto di accesso dei
consiglieri comunali, tale esigenza sarebbe salvaguardata dall'art. 43 comma
2, d.lgs. 18.08.2000, n. 267, che impone ad essi il segreto ove accedano
ad atti che incidono sulla sfera giuridica e soggettiva di terzi.
Né sussistevano, nel caso di specie, esigenze di riservatezza istruttoria,
dal momento che il fascicolo della Corte dei Conti indicato dall’appellante
nella richiesta di accesso era già stato archiviato.
Il motivo non è fondato.
Va in primo luogo considerato, come del resto fatto dal primo giudice, che
il richiamato art. 52 del Regolamento per la disciplina dei procedimenti
amministrativi e per il diritto di accesso non attribuisce al singolo
consigliere comunale un generale diritto di accesso in ragione del sol fatto
di rivestire detta carica istituzionale, bensì, strumentalmente, lo
riconnette all’esercizio delle sue funzioni all’interno dell’assemblea di
cui fa parte.
Detto in altri termini, non appare sufficiente rivestire la carica di
consigliere per essere legittimati sic et simpliciter all’accesso, ma
occorre dare atto che l’istanza muova da un’effettiva esigenza collegata
all’esame di questioni proprie dell’assemblea consiliare.
Del resto, la finalizzazione dell'accesso ai documenti in relazione
all'espletamento del mandato costituisce il presupposto legittimante ma
anche il limite dello stesso, configurandosi come funzionale allo
svolgimento dei compiti del consigliere (Cons. Stato, V, 26.09.2000,
n. 5109).
Il diritto di accesso di cui trattasi, comunque, riguarda esclusivamente gli
“atti, anche interni, formati dall’amministrazione o comunque utilizzati ai
fini dell’attività amministrativa” (art. 31, comma 2, del Regolamento cit.),
non essendo previste specifiche deroghe per i consiglieri comunali (comma
4).
Ciò premesso, la richiesta a suo tempo inoltrata dall’odierno appellante non
aveva ad oggetto degli atti interni dell’amministrazione comunale (ovvero da
questi utilizzati ai fini dello svolgimento della propria attività
istituzionale), bensì, innanzitutto, una nota della Procura regionale della
Corte dei Conti con la quale venivano chiesti all’amministrazione alcuni
riscontri nell’ambito di uno specifico procedimento istruttorio. In breve,
la documentazione richiesta, come ben sintetizzato in sentenza, atteneva ad
un procedimento aperto dalla magistratura contabile, ancorché tale indagine
fosse collegata ad una determinata attività dell’Ente territoriale.
La vicenda per cui è causa, dunque, fuoriusciva dal perimetro di
applicazione dell’art. 52 del citato Regolamento comunale (e, più in
generale, dall’art. 43 Tuel), con l’effetto che le eccezionali prerogative
riconosciute da tale norma ai consiglieri comunali dovevano considerarsi
inapplicabili, tanto più a fronte di previsioni di legge che prevedessero
invece un regime speciale di segretezza o riservatezza, nell’interesse
generale o di terzi.
Ritiene il Collegio che, nel caso di specie, un regime di tale natura,
avente tra l’altro carattere speciale, sia rinvenibile nelle disposizioni
del d.lgs. 26.08.2016, n. 174 (Codice della giustizia contabile) che
disciplinano –nell’ambito delle attività di indagine della Procura
contabile– le ipotesi di accesso al fascicolo istruttorio (art. 71), la
riservatezza della fase istruttoria (art. 57) e le comunicazioni
dell’archiviazione dei procedimenti istruttori (art. 69).
Nel primo caso, in particolare, solamente il destinatario dell'invito a
dedurre ha diritto di visionare e di estrarre copia di tutti documenti
inseriti nel fascicolo istruttorio depositato presso la segreteria della
procura regionale, previa presentazione di domanda scritta, salva comunque
la tutela della riservatezza di cui all’articolo 52, comma 1 (relativa
all’obbligo di segretezza delle generalità del pubblico dipendente
denunziante).
Alla luce di tali disposizioni, come ben nota il giudice di prime cure, deve
concludersi che la possibilità dell’accesso alla documentazione istruttoria
è riservata ai soli soggetti interessati dall’attività inquirente (in
particolare, quelli invitati a dedurre), nel rispetto dei principi del
d.lgs. 30.06.2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati
personali) e ciò all’evidente fine di evitare che la gestione della
documentazione contenuta nel fascicolo istruttorio possa in concreto
comportare nocumento alla riservatezza dei soggetti coinvolti negli
accertamenti; del resto, ad ulteriormente ribadire tale esigenza, lo stesso
provvedimento di archiviazione viene inoltrato solamente a chi abbia assunto
formalmente la veste di “invitato a dedurre” (ex art. 69, comma 4, d.lgs. n.
174 del 2016), dovendo in linea di principio rimanere ignoto ai terzi.
Tale ultimo rilievo vale anche a smentire l’eccezione di parte appellante,
secondo cui nessuna esigenza di riservatezza avrebbe più potuto essere
opposta, dal momento che il fascicolo della Corte dei Conti indicato nella
richiesta di accesso era stato archiviato.
Alla luce di quanto precede appare dunque corretta la conclusione del primo
giudice, secondo cui alla vicenda per cui è causa doveva applicarsi la
disciplina generale sull’accesso agli atti di cui alla legge 07.08.1990,
n. 241; in particolare, veniva in considerazione l’art. 24, comma 1, di tale
legge, per cui gli atti in esame dovevano rimanere riservati, non avendo
l’istante addotto alcuna esigenza di difendere i propri interessi giuridici,
in forza del comma 7 dello stesso art. 24. |
dicembre 2018 |
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Accesso agli atti da parte di un consigliere comunale.
Ai sensi dell’art. 43, co. 2, TUEL, sussiste il diritto
del consigliere comunale di accedere a determinati atti relativi ad un
singolo contribuente.
Il diritto di accesso ai documenti esercitato dai consiglieri comunali,
infatti, in quanto espressione delle loro prerogative di controllo
democratico, non incontra alcuna limitazione in relazione all'eventuale
natura riservata degli atti, stante anche il vincolo del segreto d'ufficio
cui gli stessi sono tenuti in forza della citata norma di legge.
Il Comune chiede un parere in materia di diritto di accesso agli atti
spettante ai consiglieri comunali. Più in particolare, nel riferire di una
richiesta avanzata da un amministratore locale del seguente tenore: “situazione/accertamenti/tassazione
immobili di proprietà di… .omissis … siti in ……” chiede se l’istanza di
accesso debba essere accolta atteso che la stessa riguarda un singolo
contribuente.
In via preliminare si ricorda che il diritto di accesso agli atti
amministrativi da parte degli amministratori locali è disciplinato
dall’articolo 43, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 il
quale prevede che: “I consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di
ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché
dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in
loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato. Essi sono tenuti
al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge.”
La giurisprudenza, anche di recente, ha ribadito che “l'accesso ai
documenti esercitato dai consiglieri comunali e provinciali, e, per
estensione, anche regionali, espressione delle loro prerogative di controllo
democratico, non incontra alcuna limitazione in relazione all'eventuale
natura riservata degli atti, stante anche il vincolo del segreto d'ufficio
che lo astringe. Inoltre, tale accesso non deve essere motivato, atteso che,
diversamente, sarebbe consentito un controllo da parte degli uffici
dell'Amministrazione sull'esercizio delle funzioni del consigliere. La
locuzione aggettivale "utile", contenuta nell'art. 43 del t.u.e.l., non vale
ad escludere il carattere incondizionato del diritto (soggettivo pubblico)
di accesso del consigliere, ma piuttosto comporta l'estensione di tale
diritto a qualsiasi atto ravvisato "utile" per l'esercizio delle funzioni”
[1].
L’ampiezza di legittimazione all’accesso riconosciuta ai consiglieri
comunali si giustifica “in ragione del particolare munus espletato dal
consigliere comunale, affinché questi possa valutare con piena cognizione di
causa la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, al
fine di poter esprimere un giudizio consapevole sulle questioni di
competenza della P.A., opportunamente considerando il ruolo di garanzia
democratica e la funzione pubblicistica da questi esercitata”
[2].
In relazione all’esigenza di salvaguardia della riservatezza dei terzi, si
osserva ancora come la giurisprudenza [3]
abbia rilevato che la stessa è soddisfatta dall’articolo 43, comma 2, del
D.Lgs. 267/2000, laddove statuisce che i consiglieri stessi sono tenuti al
segreto nei casi specificamente determinati dalla legge: “Il diritto del
consigliere comunale o provinciale di avere accesso, ex art. 43 del D.Lgs.
18.08.2000, n. 267, a tutte le informazioni che siano utili all'espletamento
del mandato non incontra alcuna limitazione derivanti da esigenze di
riservatezza o privacy dei terzi, in quanto il consigliere è vincolato
all'osservanza del segreto. L'art. 43, comma 2 del D.Lgs. 18.08.2000, n.
267, prevede infatti che i consiglieri comunali sono tenuti al segreto nel
caso accedano ad atti che incidono sulla sfera giuridica e soggettiva di
terzi” [4].
Con riferimento ad una richiesta di un consigliere comunale “di accedere
ai fascicoli personali di 154 contribuenti fisici e giuridici -iscritti a
ruolo per il tributo sui rifiuti Tarsu/Tares– che hanno ricevuto l’avviso di
accertamento per omessa/infedele denuncia” il Ministero dell’Interno, in
un proprio parere [5],
nel richiamare i principi già sopra esposti ha ulteriormente ribadito che “gli
Uffici comunali non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra
l’oggetto delle richieste di informazione avanzate da un consigliere
comunale e le modalità di esercizio del munus da questi espletato. Ciò,
anche nel rispetto della separazione dei poteri (art. 4 e art. 14 del d.lgs.
n. 165/2001) sancita per gli enti locali dall’art. 107 del TUOEL n. 267/2000
che richiama il principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo
politico- amministrativo spettano agli organi di governo, essendo riservata
ai dirigenti la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica”
[6].
Da ultimo, sempre a favore dell’ostensibilità, nel caso di specie, della
documentazione richiesta dall’amministratore locale si segnala un parere
della Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi
[7] relativa ad una
istanza ex art. 43, comma 2, TUEL inerente il pagamento dei tributi per le
concessioni cimiteriali nel quale la stessa ha affermato che “deve essere
accolta la richiesta d’accesso formulata dal consigliere comunale, affinché
questi possa valutare con piena cognizione di causa la correttezza e
l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, ad atti inerenti il pagamento
dei tributi per le concessioni cimiteriali. Infatti, le informazioni
richieste attengono un settore particolarmente nevralgico come quello
dell’effettiva riscossione delle imposte comunali da parte
dell’amministrazione competente”.
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[1] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 02.03.2018, n. 1298. Si
veda, anche, TAR Sardegna, Cagliari sez. I sentenza del 28.11.2017, n. 740
ove si afferma che: “I consiglieri comunali vantano un non condizionato
diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d’utilità
all’espletamento delle loro funzioni; ciò anche al fine di permettere di
valutare con piena cognizione la correttezza e l’efficacia dell’operato
dell’Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle
questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell’ambito
del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti
del corpo elettorale locale”.
[2] Così, Ministero dell’Interno, parere del 23.05.2014.
[3] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 04.05.2004, n. 2716. Nello
stesso senso, tra le altre, TAR Veneto Venezia, sez. I, sentenza del
15.02.2008, n. 385 e TAR Lazio, Latina, sez. I, sentenza del 19.02.2013, n.
171.
[4] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza dell’11.12.2013, n. 5931. Nello
stesso senso si veda, anche, TAR Campania, Napoli, sez. VI, sentenza del
06.06.2014, n. 3161 la quale afferma: “In particolare, nessuna limitazione
può derivare al diritto d'accesso del consigliere comunale agli atti del
Comune, qualunque sia il loro destinatario, dalla natura riservata delle
informazioni richieste essendo per legge vincolato al segreto d'ufficio”.
[5] Ministero dell’Interno parere del 23.05.2014.
[6] Per completezza espositiva si segnala che il Ministero dell’Interno
nell’indicato parere ha, altresì, precisato che “in ogni caso, ad avviso di
questa Direzione Centrale, appare necessaria una regolamentazione della
materia da parte del Consiglio comunale nell’ambito anche degli strumenti di
autorganizzazione dello stesso Consiglio”. Nel medesimo parere si ricorda,
infatti l’orientamento espresso da un indirizzo giurisprudenziale
consolidato (cfr. C.d.S. Sez. V. n. 929/2007) secondo cui «il diritto di
accesso da parte del consigliere “non può subire compressioni per pretese
esigenze di natura burocratica dell’ente con l’unico limite di potere
esaudire la richiesta (qualora sia di una certa gravosità) secondo i tempi
necessari per non determinare interruzione delle attività di tipo corrente”
(limite della proporzionalità e ragionevolezza delle richieste), restando
ferma la “necessità di contemperare nel modo più ragionevole e adeguato
possibile dette richieste, finalizzate all’espletamento del mandato, con le
esigenze di funzionamento degli uffici” (C.d.S., Sezione V, del 17.09.2010,
n. 6963)».
[7] Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, parere del
14.12.2010 (28.12.2018 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Statuto, il sindaco vota. Deve essere
computato nel quorum funzionale. Il primo cittadino è a tutti gli effetti
componente del consiglio comunale.
Deve essere annullata la deliberazione consiliare
con la quale è stata approvata una modifica allo statuto dell'ente, nel caso
in cui sia stato computato nel quorum funzionale, previsto dall'art. 6,
comma 4, del decreto legislativo n. 267/2000, anche il voto del sindaco?
Premesso che sulla questione l'orientamento del giudice amministrativo non è
univoco (cfr. Tar Puglia sent. 1301/2004, Tar Lazio, sez. II-ter, sentenza
n. 497/2011 e Tar Lombardia sentenza n. 1604/2011), l'art. 6, comma 4, del
dlgs n. 267/2000 dispone che «gli statuti sono deliberati dai rispettivi
consigli con il voto favorevole dei due terzi dei consiglieri assegnati … le
disposizioni di cui al presente comma si applicano anche alle modifiche
statutarie».
La citata normativa prevede un «procedimento aggravato» per
l'approvazione delle norme statutarie, nonché delle relative modifiche; in
particolare prescrive che, in caso di mancata approvazione dei due terzi
dell'assemblea, si deve ripetere la votazione entro 30 giorni e, inoltre,
stabilisce che lo statuto si ritiene approvato se ottiene per due volte, in
sedute successive, il voto favorevole della maggioranza assoluta dei membri
assegnati al collegio.
L'approvazione dello statuto, pertanto, comporta -attesa la natura di atto
normativo «fondamentale» sua propria (comma 2, art. 6 cit.)- che su
di esso converga il più elevato numero di consensi attraverso un'ampia
discussione e comparazione d'interessi da parte della maggioranza e
dell'opposizione consiliare. Tale esigenza ha determinato, conseguentemente,
la previsione di maggioranze speciali disponendo che i quorum,
rispettivamente della prima e delle altre votazioni, siano ragguagliati ai
due terzi o alla maggioranza assoluta non dei votanti, ma dei consiglieri
assegnati.
Dunque, l'iter deliberativo di approvazione dello statuto e delle sue
modifiche implica che in sede di prima votazione la delibera sia approvata
con il voto favorevole dei due terzi dei consiglieri assegnati ivi compreso
il sindaco, che è componente del consiglio comunale ai sensi dell'art. 37
del citato testo unico.
Infatti, nelle ipotesi in cui l'ordinamento non ha inteso computare il
sindaco, o il presidente della provincia, nel quorum richiesto per la
validità di una seduta, lo ha indicato espressamente usando la formula «senza
computare a tal fine il sindaco e il presidente della provincia»
(articolo ItaliaOggi del 28.12.2018). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Quorum, vince lo statuto. Se c’è discrasia con le previsioni regolamentari.
Cosa succede quando c’è contrasto sul numero minimo di consiglieri.
Come deve essere determinato il quorum strutturale affinché possa essere
considerata valida una seduta del consiglio comunale, riunito in seconda
convocazione?
L'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, demanda al
regolamento comunale, «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto», la
determinazione del «numero dei consiglieri necessario per la validità delle
sedute» del consiglio riunito in seconda convocazione, con il limite che
tale numero non può, in ogni caso, scendere sotto la soglia del «terzo dei
consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a tale fine il
sindaco e il presidente della provincia»; intendendosi con ciò che,
limitatamente al computo del «terzo» dei consiglieri, il sindaco deve essere
escluso.
Nel caso in esame, il regolamento di organizzazione e funzionamento del
consiglio comunale prevede, per la validità delle sedute del consiglio
comunale convocate in seconda convocazione, la presenza di almeno 14
consiglieri. Lo statuto comunale, invece, dispone che le medesime sedute
siano valide con la presenza di almeno un terzo dei consiglieri assegnati,
escluso il sindaco.
La discrasia tra tali norme deve ricondursi alla modifica, introdotta dalla
legge n. 148/2011, che ha inciso sulla composizione dei consigli operando una
riduzione del numero dei consiglieri rientranti nella fascia demografica
dell'ente locale di cui trattasi.
Tuttavia, in ossequio al principio della gerarchia delle fonti, e
conformemente anche all'articolo 7 del citato decreto legislativo n. 267/2000,
che disciplina l'adozione dei regolamenti comunali «nel rispetto dei
principi fissati dalla legge e dallo statuto» (cfr. sentenza Tar Lombardia,
Brescia, n. 2625 del 28.12.2009, Tar Lazio, n. 497 del 2011), la
disposizione regolamentare deve essere disapplicata, in considerazione della
prevalenza della norma statutaria (articolo ItaliaOggi del 21.12.2018). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Inconferibilità di incarichi ai sensi dell'art. 8 del D.Lgs. 39/2013.
Incompatibilità sopravvenuta ai sensi delle disposizioni del D.Lgs. 267/2000.
1) Non sussiste la causa di inconferibilità
di cui all’art. 8, co. 5, del D.Lgs. 39/2013 per l’assessore di un Comune
con popolazione inferiore a 15.000 abitanti che sia nominato direttore
generale di un’azienda sanitaria nel cui ambito territoriale è compreso il
Comune presso cui l’amministratore locale svolge il proprio mandato
elettivo.
2) L’indicata causa di inconferibilità non sussiste nemmeno nel
caso in cui il Comune partecipi ad un’Unione territoriale intercomunale con
popolazione superiore a 15.000 abitanti, compresa nell'ambito territoriale
dell'azienda sanitaria, a condizione che l’amministratore locale non faccia
parte (o non abbia fatto parte nei due anni precedenti) dell’organo
consiliare o dell’organo con funzioni esecutive dell’Unione.
3) Nel caso in cui l’assessore comunale venisse nominato direttore
generale di un’azienda sanitaria si realizzerebbe, invece, la causa di
incompatibilità sopravvenuta di cui all’art. 66 TUEL, il quale prevede che
“La carica di direttore generale, di direttore amministrativo e di direttore
sanitario delle aziende sanitarie locali e ospedaliere è incompatibile con
quella di consigliere provinciale, di sindaco, di assessore comunale, di
presidente o di assessore della comunità montana.”
Il Comune, il quale ha una popolazione inferiore a 15.000 abitanti e
partecipa ad un’Unione territoriale intercomunale con popolazione superiore
alla soglia indicata, chiede un parere in merito alla possibilità che un
proprio assessore sia nominato direttore generale di azienda sanitaria, alla
luce della disposizione dettata in materia di inconferibilità di incarichi
dall’art. 8, comma 5, del decreto legislativo 08.04.2013, n. 39.
Tale norma stabilisce infatti che “Gli incarichi di direttore generale,
direttore sanitario e direttore amministrativo nelle aziende sanitarie
locali non possono essere conferiti a coloro che, nei due anni precedenti,
abbiano fatto parte della giunta o del consiglio di una provincia, di un
comune con popolazione superiore ai 15.000 o di una forma associativa tra
comuni avente la medesima popolazione, il cui territorio è compreso nel
territorio della ASL”.
Premesso che la consistenza demografica del Comune esclude di per sé il
sorgere della causa di inconferibilità in esame, per quanto riguarda la “forma
associativa tra comuni”, risulta necessario verificare che l’assessore
comunale non faccia parte (o non abbia fatto parte nei due anni precedenti)
dell’organo consiliare o dell’organo con funzioni esecutive dell’Unione.
Atteso che, secondo quanto precisato dal Comune, l’assessore non
partecipa/ha partecipato né all’Assemblea né all’Ufficio di Presidenza
dell’Unione, in coerenza con le previsioni statutarie relative alla
composizione degli organi della forma associativa, si ritiene che non si
configuri nei suoi confronti l’inconferibilità dell’incarico di direttore
generale dell’azienda sanitaria, di cui alla disposizione in argomento.
Qualora all’assessore sia conferito detto incarico, il Comune chiede inoltre
se nei suoi confronti venga in essere una causa di incompatibilità
sopravvenuta, ai sensi delle disposizioni contenute nel decreto legislativo
18.08.2000, n. 267.
Al riguardo rileva il disposto di cui all’articolo 66 TUEL il quale recita:
“La carica di direttore generale, di direttore amministrativo e di
direttore sanitario delle aziende sanitarie locali e ospedaliere è
incompatibile con quella di consigliere provinciale, di sindaco, di
assessore comunale, di presidente o di assessore della comunità montana.”.
Segue che, nel caso in cui l’assessore comunale venisse nominato direttore
generale di un’azienda sanitaria si realizzerebbe la causa di
incompatibilità sopravvenuta sopra descritta con necessità che il consiglio
comunale attivi nei suoi confronti il procedimento di cui all’articolo 69
TUEL (21.12.2018 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Commissioni, esterni out. Possono farne parte solo i
consiglieri comunali. Illegittimo il regolamento che apre a soggetti
estranei al consiglio.
È
legittimo, ai sensi dell'art. 38, comma 6, del dlgs n. 267/2000, il
regolamento del consiglio comunale di un ente locale in cui si prevede che
la composizione delle commissioni consiliari permanenti sia integrata con la
presenza di membri esterni al consiglio, nominati dalla giunta comunale?
Il citato art. 38, comma 6, stabilisce che lo statuto può prevedere la
costituzione di commissioni consiliari istituite dal consiglio «nel proprio
seno». Se istituite, tali commissioni sono disciplinate dal regolamento
comunale con l'unico limite, posto dal legislatore, del rispetto del
criterio proporzionale. Ciò significa che le forze politiche presenti in
consiglio debbono essere il più possibile rispecchiate anche nelle
commissioni, in modo che in ciascuna di esse sia riprodotto il loro peso
numerico e di voto.
Nel caso di specie, lo statuto comunale dispone che il consiglio possa
costituire, «nel proprio seno», le commissioni consiliari permanenti.
Il regolamento sul funzionamento del consiglio comunale prevede, invece, che
la composizione delle stesse commissioni consiliari possa essere integrata
dalla presenza di membri non consiglieri nominati dalla giunta.
La disposizione regolamentare, che sembrerebbe essere espressione
dell'intento della amministrazione di dare attuazione ai principi della
partecipazione popolare di cui all'art. 8 del Testo unico sugli enti locali
(dlgs n. 267/2000), non appare coerente con la disciplina dettata dal
legislatore, e ribadita dallo statuto dell'ente, riguardante la
indefettibilità dello status di consigliere comunale in capo ai componenti
delle commissioni consiliari ex art. 38, comma 6, del decreto legislativo n.
267/2000.
Ai sensi della norma statale citata, infatti, «il consiglio si avvale di
commissioni costituite nel proprio seno con criterio proporzionale» ed è,
quindi, preclusiva della possibilità che soggetti estranei al consiglio
possano farne parte a titolo di veri e propri componenti.
Tale impostazione risulta confermata anche dalla dottrina, secondo cui la
composizione delle commissioni deve rispecchiare, con criterio
proporzionale, le forze politiche presenti in consiglio, «con esclusione di
componenti non facenti parte del consiglio stesso».
L'ente, pertanto, dovrà valutare l'opportunità di pervenire a una modifica
della normativa regolamentare (articolo ItaliaOggi del 14.12.2018). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Diritto d’accesso ripetuto. Ai consiglieri
vanno riconosciuti poteri ampi. Il componente di
minoranza può presentare istanze reiterate.
È legittima la condotta di un consigliere di minoranza che presenta numerose
e reiterate istanze di accesso al protocollo del comune?
L'art. 22, comma 2, della legge n. 241/1990 stabilisce che l'accesso ai
documenti amministrativi, in virtù delle sue rilevanti finalità di pubblico
interesse, costituisce principio generale dell'attività amministrativa, in
quanto favorisce la partecipazione e assicura l'imparzialità' e la
trasparenza dell'azione amministrativa.
L'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000, invece, consente ai
consiglieri comunali di accedere a tutte le notizie e le informazioni in
possesso dell'ente, utili all'espletamento del proprio mandato.
Nel caso in esame, il sindaco ha sospeso le richieste di accesso del
consigliere di minoranza al protocollo, ritenendole «formalizzate in modo
abnorme, generico, indiscriminato e reiterato e finalizzate a strategie
ostruzionistiche comportanti aggravi dell'attività amministrativa dell'ente».
Tuttavia, al consigliere comunale, in relazione proprio al munus
rivestito, deve essere riconosciuto un diritto più ampio rispetto a quello
esercitabile dal semplice cittadino, che si estende oltre le competenze
attribuite al consiglio comunale, al fine della necessaria valutazione della
correttezza ed efficacia dell'operato dell'amministrazione comunale (cfr.:
Cds n. 4525 del 05.09.2014, Cds sez. V n. 5264/07 che richiama Cons. stato,
V sez. 21.02.1994 n. 119, Cons. stato, V sez. 26.09.2000 n. 5109, Cons.
stato, V sez. 02.04.2001 n. 1893). La giurisprudenza, fatta salva la
necessità di non aggravare la funzionalità amministrativa dell'ente con
richieste emulative, è infatti orientata a ritenere illegittimo il diniego
opposto dall'amministrazione di prendere visione del protocollo generale e
di quello riservato del sindaco, comprensivo sia della posta in arrivo che
di quella in uscita.
I giudici del Tar Sardegna, nella citata sentenza n. 29/2007, hanno,
peraltro, affermato che è consentito prendere visione del protocollo
generale senza alcuna esclusione di oggetti e notizie riservate e di materie
coperte da segreto, posto che i consiglieri comunali sono comunque tenuti al
segreto ai sensi dell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000, mentre il
Tar Lombardia, Brescia, 01.03.2004 n. 163, ha ritenuto non ammissibile
imporre al consigliere l'onere di specificare in anticipo l'oggetto degli
atti che intendono visionare giacché trattasi di informazioni di cui gli
stessi possono disporre solo in conseguenza dell'accesso.
Pertanto, la previa visione dei vari protocolli, tra cui il protocollo
informatico (il cui esame, ormai consolidato, era già previsto dall'art. 17,
del dlgs. n. 82/2005), è necessaria per poter individuare gli estremi degli
atti sui quali si andrà ad esercitare l'accesso vero e proprio, e potrà
trovare apposita disciplina di dettaglio nel regolamento dell'ente.
La Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, esprimendosi
sull'esercizio del diritto d'accesso, sulla base del principio di
economicità che incombe sia sugli uffici tenuti a provvedere, sia sui
soggetti che chiedono prestazioni amministrative, ha riconosciuto «la
possibilità per il consigliere di avere accesso diretto al sistema
informatico interno, anche contabile, dell'ente attraverso l'uso della
password di servizio»
(articolo ItaliaOggi del 07.12.2018). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: Quesito
sulla disciplina della parità di genere nelle giunte comunali dei Comuni con
popolazione inferiore ai 3.000 abitanti.
È legittima la composizione della giunta di un comune
con popolazione inferiore a 3.000 abitanti composta dal sindaco di genere
femminile e due assessori di genere maschile.
Per quanto riguarda il numero la composizione rispetta la legge regionale
29.12.2010, n. 22 (Legge finanziaria 2011) e il dettato dello Statuto
comunale, che prevede che “la Giunta è composta dal sindaco che la presiede
e fino a 4 assessori uno dei quali è investito della carica di vice
sindaco”, conferendo al Sindaco spazi di discrezionalità nella
determinazione del numero degli stessi, potendo lo stesso, entro il limite
massimo stabilito dallo statuto, nominarne il numero che reputa ottimale.
Sotto il profilo del rispetto delle quote di genere è conforme sia allo
statuto comunale, che prevede che la rappresentanza di ciascun genere sia
garantita in misura non inferiore ai 2/5, arrotondati per difetto, dei
componenti della Giunta sia al l’articolo 46, comma 2, del decreto
legislativo 267/2000, così come modificato dall’articolo 2, comma 1, lettera
b), della legge 23.11.2012, n. 215, il quale recita: “Il sindaco (…) nomina
(…), nel rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini,
garantendo la presenza di entrambi i sessi, i componenti della Giunta (…)”.
Il Sindaco del Comune, la cui popolazione all’ultimo censimento ufficiale è
pari a 1.715 abitanti, chiede un parere in merito al computo o meno del
sindaco fra i componenti della giunta comunale; un tanto al fine di
verificare la conformità dell’attuale organo esecutivo (composto dal sindaco
di genere femminile e da due assessori dell’altro genere) alla previsione
statutaria dell’Ente, che fissa la rappresentanza di genere in misura non
inferiore ai due quinti, arrotondati per difetto, dei componenti della
giunta.
Nei Comuni della Regione Friuli Venezia Giulia la composizione delle Giunte
comunali è disciplinata dalla legge regionale 29.12.2010, n. 22 (Legge
finanziaria 2011), che all’articolo 12, comma 39, dispone che il numero
massimo degli assessori comunali non possa essere superiore ad un quarto del
numero dei consiglieri comunali, con arrotondamento all’unità superiore e
computando nel calcolo anche il Sindaco. Per il Comune di cui trattasi, il
numero massimo degli assessori risulta essere quattro, ai quali va aggiunto
il sindaco, portando la composizione della Giunta comunale a complessivi
cinque componenti.
La previsione legislativa va letta però nell’ottica dell’autonomia
statutaria dell’Ente, che consente allo statuto comunale, nel rispetto della
soglia massima stabilita dalla legge, di fissare il numero degli assessori
ovvero il numero massimo degli stessi. Pertanto, nell’ipotesi in cui lo
statuto dell’Ente preveda la nomina di un numero di assessori inferiore al
massimo consentito dalla legge regionale, il sindaco dovrà attenersi al
numero massimo indicato dallo statuto in vigore, mentre nel diverso caso in
cui lo statuto preveda la nomina di un numero di assessori superiore al
massimo consentito dalla legge regionale, il Sindaco dovrà attenersi al
numero massimo indicato da quest’ultima.
Nel caso di specie, il numero massimo di assessori è fissato in quattro
anche nello Statuto che, all’articolo 26, comma 1, dispone che “la Giunta
è composta dal sindaco che la presiede e fino a 4 assessori uno dei quali è
investito della carica di vice sindaco”, conferendo al Sindaco spazi di
discrezionalità nella determinazione del numero degli stessi, potendo lo
stesso, entro il limite massimo stabilito dallo statuto, nominarne il numero
che reputa ottimale. [1]
Peraltro, come sottolineato anche dal Sindaco, dalla lettura sistematica
dell’articolo 28, comma 3, del medesimo Statuto, si evince che il numero
minimo di assessori nominabili coincide con il quorum costitutivo ivi
fissato, ovvero due. [2]
Per quanto concerne poi, il tema della rappresentanza di genere nelle giunte
comunali, la norma generale in vigore per i Comuni con popolazione inferiore
a 3.000 abitanti è l’articolo 46, comma 2, del decreto legislativo 267/2000,
così come modificato dall’articolo 2, comma 1, lettera b), della legge
23.11.2012, n. 215, il quale recita: “Il sindaco (…) nomina (…), nel
rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la
presenza di entrambi i sessi, i componenti della Giunta (…)”.
La disposizione non fissa delle vere e proprie quote da rispettare (che sono
invece pari al 40% per i comuni con popolazione superiore ai 3.000 abitanti
ai sensi della Legge 07.04.2014, n. 56, c.d. Legge Delrio), con la
conseguenza che il principio potrebbe ritenersi rispettato anche con la
presenza di un solo componente di genere diverso rispetto a quello
maggiormente rappresentato. [3]
In questo ambito, il Comune ha adeguato il proprio Statuto, prevedendo che
la rappresentanza di ciascun genere sia garantita in misura non inferiore ai
2/5, arrotondati per difetto, dei componenti della Giunta (articolo 26,
comma 2, dello Statuto), nell’esercizio dell’autonomia statutaria prevista
dall’articolo 12, comma 2, della legge regionale 1/2006 e in attuazione dei
principi contenuti nell’articolo 6, comma 3 e 46, comma 2, del TUEL.
Si precisa inoltre che il Ministero dell’interno, con la circolare del
09.06.2014, emanata all’indomani dell’entrata in vigore della Legge Delrio,
ha chiarito che nel calcolo degli assessori vada incluso anche il Sindaco, a
garanzia della rappresentanza di genere, osservando come il legislatore,
laddove ha voluto il contrario, lo ha previsto espressamente.
[4]
Da tutto quanto sopra esposto consegue che l’attuale composizione della
Giunta comunale risulta conforme al dettato normativo, sia sotto il profilo
numerico che in tema di rispetto delle quote di genere fissate dalla
disciplina statale e statutaria.
----------------
[1] Cfr., fra gli altri, il parere del Ministero dell’interno 16.07.2009,
consultabile al
seguente indirizzo. Si veda anche la pubblicazione “L’ordinamento
locale nel Friuli Venezia Giulia 2018” alle pagg. 26 e 27, reperibile sul
Portale delle autonomie locali nella sezione Pubblicazioni.
[2] L’articolo 28 (Funzionamento della giunta) al comma 3, dello Statuto
recita: “Le sedute sono valide se sono presenti 3 componenti e le
deliberazioni adottate a maggioranza dei presenti”.
[3] Un tanto è sempre specificato nelle circolari in materia di composizione
delle giunte comunali che annualmente lo scrivente Servizio redige per i
comuni interessati al rinnovo dei propri organi (si veda, per il 2018, la
circolare n. 04 EL/C dell’08.03.2018, reperibile al
seguente indirizzo.
[4] Peraltro la presenza di un solo componente di genere femminile rispetta
in ogni caso la quota di rappresentanza fissata dalla norma statutaria, che
prevede l’arrotondamento per difetto, in quanto sia che i 2/5 siano
calcolati su 3 (composizione attuale della Giunta) sia che lo siano su 4
(composizione della Giunta antecedente alle dimissioni del secondo assessore
di genere femminile), il risultato (1,6 nel primo caso e 1,2 nel secondo)
arrotondato è sempre 1
(05.12.2018 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
novembre 2018 |
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CONSIGLIERI
COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Parità nei piccoli
comuni. Uguaglianza uomo-donna anche nei mini-enti.
Principio applicabile pur in assenza di una espressa previsione statutaria.
In tema di parità di genere, nella composizione della giunta comunale, quale
normativa è applicabile ad un ente locale con popolazione inferiore a 3 mila
abitanti?
La materia è disciplinata dalla legge n. 56 del 07.04.2014 che, all'art. 1,
comma 137, per i soli comuni con popolazione superiore ai 3 mila abitanti,
ha stabilito un preciso quorum del 40%, affinché sia rispettato il principio
della parità di genere; per i comuni al di sotto di tale soglia demografica
la norma di riferimento è, invece, l'art. 6, comma 3, del decreto
legislativo n. 267/2000.
Secondo tale disposizione legislativa gli statuti comunali e provinciali
devono prevedere norme che assicurino condizioni di pari opportunità tra
uomo e donna e garantiscano la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e
negli organi collegiali non elettivi del comune e della provincia, nonché
degli enti, aziende ed istituzioni da essi dipendenti.
La citata disposizione è stata poi modificata della legge n. 215 del 2012
che ha sostituito il verbo «promuovere» con il verbo «garantire»
ed ha aggiunto alla espressione «organi collegiali» la dicitura «non
elettivi» (art. 1, comma 1); inoltre, ha previsto che gli enti locali, entro
sei mesi dall'entrata in vigore della legge stessa, dovessero adeguare i
propri statuti e regolamenti alle disposizioni dell'art. 6, comma 3, del
Tuel (art. 1, comma 2).
L'art. 2, comma 1, lett. b) della citata legge n. 215/2012 ha modificato
l'art. 46, comma 2, del decreto legislativo n. 267/00, disponendo che il
sindaco e il presidente della provincia nominino i componenti della giunta «nel
rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la
presenza di entrambi i sessi».
La citata normativa va letta alla luce dell'art. 51 della Costituzione, come
modificato dalla legge costituzionale n. 1/03, che ha riconosciuto dignità
costituzionale al principio della promozione delle pari opportunità tra
donne e uomini.
Nel caso dei comuni rientranti nella suddetta fascia demografica, pertanto,
devono trovare applicazione le disposizioni contenute nei citati articoli 6,
comma 3, e 46, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 e nella legge n.
215/2012.
Tali disposizioni, recependo i principi sulle pari opportunità dettati
dall'art. 51 della Costituzione, dall'art. 1 del decreto legislativo
dell'11.04.2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità) e dall'art. 23 della
Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, hanno carattere
precettivo e non meramente programmatico, e sono finalizzate a rendere
effettiva la partecipazione di entrambi i sessi alla vita istituzionale
degli enti territoriali, in condizioni di pari opportunità.
Ferma restando la necessità dell'adeguamento statutario da parte dell'ente,
le richiamate disposizioni normative sulla parità di genere risultano
immediatamente applicabili, anche in carenza di una espressa previsione
statutaria
(articolo ItaliaOggi del 30.11.2018). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Indennità
di funzione a rischio se il sindaco non comunica il collocamento in
aspettativa.
Per ottenere il versamento dei contributi assistenziali e previdenziali, è
onere del sindaco comunicare l'autorizzazione al collocamento in aspettativa
e verificarne l'effettiva ricezione da parte del Comune. Nel caso di
omissione, spetta all''amministrazione valutare se la sua condotta possa
integrare una tacita rinuncia alle pretese ovvero sia maturata la
prescrizione.
Lo sostiene la sezione regionale di controllo per l'Abruzzo della Corte dei
conti con il
parere 28.11.2018 n. 149.
Il fatto
Il consiglio delle autonomie locali ha avanzato richiesta di parere in
merito alla pretesa di un ex sindaco, dipendente di un consorzio di
bonifica, volta a ottenere il versamento dei contributi assistenziali e
previdenziali per il periodo di svolgimento del mandato. Periodo in cui era
stato e collocato in aspettativa non retribuita in base all'articolo 81 del
Tuel, che appunto riconosce agli amministratori locali, che siano lavoratori
dipendenti, la possibilità di essere collocati a richiesta in aspettativa
non retribuita per tutto il periodo di espletamento del mandato.
Il fatto è che l’uomo non ha mai comunicato il collocamento in aspettativa
«per mero errore», ma utilizzando come «pezza d'appoggio» le delibere con
cui il consorzio l'aveva autorizzato, ha chiesto il versamento dei
contributi legati al periodo in cui ha esercitato la funzione ovvero il
rimborso di una somma pari a quanto occorrente per procedere al riscatto
contributivo volontario.
L'amministrazione comunale, per la quale
l'eventuale accoglimento della richiesta si tramuta in un debito fuori
bilancio da riconoscere nelle forme stabilite dal Tuel, ha dubitato si possa
procedere in questo senso, per cui ha chiesto lumi ai magistrati contabili.
L'indennità
L'articolo 82 del Tuel riconosce una indennità di funzione per gli
amministratori locali, dimezzata per i lavoratori dipendenti che non abbiano
richiesto l'aspettativa, la cui misura è determinata con decreto del
Ministro dell'Interno. Secondo la sezione Abruzzo della Corte dei conti, è
obbligo dell'interessato comunicare l'autorizzazione all'eventuale
collocamento in aspettativa senza assegni e verificarne l'effettiva
ricezione da parte dell'amministrazione comunale. «Onere –si legge nel
parere– particolarmente rilevante e non sicuramente gravoso, considerando,
altresì, la mancanza di una specifica richiesta per attivare l'impegno di
spesa per il riconoscimento delle indennità di pertinenza degli
amministratori».
All’obbligo corrisponde quello dell'ente di assumere un formale atto di
impegno delle somme necessarie, in maniera che in linea generale non si può
sostenere l'eventuale richiesta intervenuta successivamente di coprire le
somme pari alle differenze di indennità e ai conseguenti contributi
assistenziali e previdenziali.
Sempre in via generale, ha evidenziato però
la sezione che la mancanza della registrazione della spesa sul competente
intervento o capitolo di bilancio e della relativa attestazione della
copertura finanziaria può determinare la sussistenza degli elementi
costitutivi per il riconoscimento di un debito fuori bilancio secondo
l'articolo 194, comma 1, lettera e), del Tuel, ma solo qualora l'ente si sia
giovato delle prestazioni del sindaco, seppure in violazione delle procedure
sancite nell'articolo 191, comma 1, relative agli impegni di spesa.
Che fare?
I magistrati contabili abruzzesi si fermano qui e non forniscono ulteriori
coordinate per operare la scelta idonea a rispettare i dettami di legge, non
rientrando nella loro funzione consultiva, lasciando agli apprezzamenti
dell'ente la valutazione del comportamento dell'ex sindaco colpevole di non
aver comunicato alcunché al Comune da egli stesso amministrato.
Offrono però in modo velato una doppia imbeccata: se l'omissione possa
integrare una tacita acquiescenza o rinuncia alle pretese, trattandosi di
indennità erogate al di fuori di schemi negoziali per l'esercizio di
pubbliche funzioni il cui pagamento deve essere effettuato periodicamente in
termini inferiori all'anno; ovvero se sia maturata, anche parzialmente, la
prescrizione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 07.12.2018). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Accesso agli atti fai-da-te. La consultazione on-line non incide
sull’attività. I consiglieri possono entrare negli applicativi in modalità
visualizzazione
È coerente con la disciplina recata dall'art. 43, comma 2, del dlgs.
n. 267/2000, in materia di diritto di accesso, consentire ai consiglieri
comunali di accedere a tutti i documenti in arrivo e in partenza, oggetto di
registrazione, scansionati otticamente, con possibilità di salvare i file o
stamparli? I consiglieri comunali possono visualizzare tutti gli applicativi
software gestionali utilizzati dal comune accedendo anche a tutti i dati,
agli iter, anche in corso, e alla documentazione collegata?
A norma dell'art. 43, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, in
relazione al munus rivestito, al consigliere comunale deve essere
riconosciuto un diritto più ampio rispetto a quello esercitabile dal
semplice cittadino, che si estende oltre le competenze attribuite al
consiglio comunale, al fine della necessaria valutazione della correttezza
ed efficacia dell'operato dell'amministrazione comunale (cfr., Cds n. 4525
del 05.09.2014, Cds sez. V n. 5264/2007 che richiama Cons. stato, V sez.
21.02.1994 n. 119, Cons. stato, V sez. 26.09.2000 n. 5109, Cons. stato, V
sez. 02.04.2001 n. 1893).
Il Tar Campania, Salerno, sez. II, con decisione 25.06.2010, n. 9584, ha
affermato che «la finalizzazione dell'accesso all'espletamento del
mandato costituisce, al tempo stesso, il presupposto legittimante l'accesso
e il fattore che ne delimita la portata. Le disposizioni richiamate,
infatti, collegano l'accesso a tutto ciò che può essere effettivamente
funzionale allo svolgimento dei compiti del singolo consigliere comunale e
provinciale e alla sua partecipazione alla vita politico-amministrativa
dell'ente; questo orientamento è confermato dalla giurisprudenza, che ha
avuto occasione di precisare che il consigliere può accedere non solo ai
«documenti» formati dalla pubblica amministrazione di appartenenza ma, in
genere, a qualsiasi «notizia» o «informazione» utili ai fini dell'esercizio
delle funzioni consiliari (cfr. Cass. civ. sez. III, sent. n. 8480 del
03.08.1995)».
Peraltro, lo stesso Tar della Campania, sezione staccata di Salerno (sezione
seconda), con la decisione n. 2040/2012 del 13/11/2012, pur riconoscendo
l'ampio diritto del consigliere comunale ad accedere agli atti comunali, ha
specificato che si afferma pure in giurisprudenza che «il consigliere
comunale non può abusare del diritto all'informazione riconosciutogli
dall'ordinamento, piegandone le alte finalità a scopi meramente emulativi o
aggravando eccessivamente, con richieste non contenute entro gli immanenti
limiti della proporzionalità e della ragionevolezza, la corretta
funzionalità amministrativa dell'ente civico».
Lo stesso Tar ha ritenuto, nel caso esaminato, che fossero stati varcati i
confini di proporzionalità e ragionevolezza tracciati dal Consiglio di stato
(sez. V, 02.09.2005, n. 4471), in quanto le istanze di accesso si riferivano
a una notevole congerie di atti e documenti, aventi peraltro natura
eterogenea, il cui reperimento non poteva che comportare un insopportabile
aggravio a carico dei compulsati uffici comunali.
Pertanto, il consigliere comunale, sebbene abbia la possibilità di avere
accesso diretto al sistema informatico interno dell'ente attraverso l'uso
della password di servizio, tuttavia, può esercitare tale diritto nei limiti
che consentano di evitare intralci all'ordinario svolgimento dei servizi
degli uffici.
Nel caso di specie, considerato che lo statuto dell'ente consente
l'acquisizione di informazioni mediante consultazione di atti e documenti
con modalità tali da non incidere negativamente sulla normale attività delle
strutture dell'amministrazione comunale, e che la gestione dei servizi
tramite l'informatizzazione costituisce ormai la regola nell'attività della
pubblica amministrazione, potrebbe consentirsi al consigliere comunale
l'accesso ai vari applicativi, in semplice visualizzazione, in modalità che
non incidano nelle procedure in corso e non provochino intralci nella
ordinaria trattazione delle pratiche da parte degli uffici, con la
possibilità di estrarre autonomamente copia degli atti di interesse,
acquisibili anche dal registro di protocollo informatico
(articolo ItaliaOggi del 23.11.2018). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Accesso senza motivazioni. I consiglieri non devono spiegare le
ragioni. Va rivisto il regolamento che affida al sindaco il potere di
verifica.
In materia di diritto di accesso dei consiglieri comunali, le norme del
regolamento comunale che impongono al consigliere comunale di motivare la
propria richiesta di accesso agli atti; ovvero che limitano il diritto di
visione degli atti quando ciò si traduca in «un potere di inchiesta, di
ispezione o di verifica»; oppure che affidano al sindaco il potere di
verificare che l'informazione richiesta attenga al mandato del consigliere,
possono considerarsi legittime ai sensi dell'art. 43 del dlgs n. 267/2000?
L'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000 disciplina il diritto di
accesso e il diritto di informazione dei consiglieri comunali circa gli atti
in possesso dell'amministrazione comunale, utili all'espletamento del
proprio mandato. Tale disciplina specifica si differenzia dal pur ampio
diritto di accesso riconosciuto al cittadino dall'articolo 10 del medesimo
decreto legislativo; infatti il termine «utili», contenuto nella
citata disposizione del Tuel, garantisce l'estensione di tale diritto di
accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per l'esercizio del mandato (cfr.
Cds n. 6963/2010) senza che alcuna limitazione possa derivare dall'eventuale
natura riservata delle informazioni richieste (vedi anche Consiglio di
stato, sentenza n. 4525 del 05.09.2014, che ha richiamato Cds, sez. V,
17.09.2010, n. 6963 e 09.10.2007, n. 5264).
Anche la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, con parere
reso in data 09.04.2014, ha specificato che l'accesso del Consigliere non
può essere soggetto ad alcun onere motivazionale, giacché altrimenti sarebbe
introdotta una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici,
sull'esercizio del mandato del consigliere comunale.
La Commissione, infatti, ha ritenuto, in considerazione del fatto che il
consigliere è comunque vincolato al segreto d'ufficio, che gli unici limiti
all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali si rinvengano,
per un verso, nel fatto che esso non deve sostanziarsi in richieste
assolutamente generiche, ovvero meramente emulative (fermo restando che la
sussistenza di tali caratteri necessita di attento e approfondito vaglio, al
fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto
stesso), nonché, per altro verso, nel fatto che esso debba avvenire in modo
da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali (vedi,
oltre al citato parere del 09.04.2014, anche il precedente plenum in data
06.04.2011, conforme a Cds, sez. V, 04.05.2004, n. 2716, Tar Trentino Alto
Adige, Trento, Sez. I, 07.05.2009, n. 143).
Pertanto, gli uffici comunali e il sindaco non hanno il potere di sindacare
il nesso intercorrente tra l'oggetto delle richieste di informazioni
avanzate da un consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus
da questi espletato.
Ciò, anche nel rispetto del principio di separazione dei poteri (art. 4 e
art. 14 del decreto legislativo n. 165/2001) sancito, per gli enti locali,
dall'art. 107 del decreto legislativo n. 267/2000 secondo cui i poteri di
indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di
governo, essendo riservata ai dirigenti la gestione amministrativa,
finanziaria e tecnica.
Del resto, ai sensi dell'art. 42, comma 1, del Tuel il consiglio è l'organo
di indirizzo e «di controllo politico-amministrativo»; sicché, il
controllo del sindaco sull'operato anche dei singoli consiglieri si porrebbe
in contrasto con tale normativa.
Pertanto, nel caso di specie, è opportuna la revisione delle disposizioni
regolamentari che impongono l'obbligo motivazionale a carico dei consiglieri
richiedenti l'accesso e che affidano al sindaco il potere di verifica. Del
resto l'ente, attraverso l'esercizio della propria potestà regolamentare,
può optare, tra le varie alternative possibili per la disciplina che, in
concreto, meglio contemperi esigenze concorrenti.
In particolare, quelle di garanzia delle condizioni più adeguate
all'espletamento del mandato da parte dei consiglieri comunali e quelle di
salvaguardia della funzionalità degli uffici e del normale espletamento del
servizio da parte del personale dipendente, nonché quella di tutela della
sicurezza degli uffici, del personale e del patrimonio
(articolo ItaliaOggi del 16.11.2018). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Amministratori
locali, «ok» all'aumento delle indennità ridotte dalla vecchia maggioranza.
La decurtazione volontaria delle indennità degli amministratori al di sotto
del limite imposto dalla legge non vincola le successive maggioranze
politiche, che possono procedere ad aumentarle fermo restando l'obbligo
della decurtazione del 10%.
Lo riconosce la sezione regionale di controllo per il Veneto della Corte dei
conti con il
parere 14.11.2018 n. 428.
Il quesito
È stato chiesto alla sezione se è possibile aumentare le indennità spettanti
al sindaco e alla giunta comunale nel massimo stabilito dal Dm 119/2000 e
dalla legge 266/2005, alla luce del comma 136 della legge Delrio 56/2014 che
ha preteso l'invarianza della spesa in rapporto alla legislazione vigente.
Indennità ridotte all'esito delle elezioni amministrative che hanno visto
rieletta l'amministrazione uscente.
Il comma 54 della legge finanziaria del
2006 ha imposto una riduzione del 10% delle indennità di funzione spettanti
agli amministratori locali rispetto all'ammontare risultante alla data del
30.09.2005. I commi 135 e 136 della Delrio hanno fissato il principio
della invarianza della spesa a legislazione vigente nel disporre modifiche
al numero dei consiglieri comunali e degli assessori.
I principi
La sezione del Veneto ribadisce che la decurtazione volontaria al di sotto
del limite comune tabellare imposto dall'ordinamento non vincola le
successive maggioranze politiche, fermo restando l'obbligo normativo della
decurtazione del 10% dei valori tabellari di spesa risalenti al 2015 che
definisce il quantum al quale rapportare l'invarianza della spesa voluta
dalla legge 56/2014.
L'orientamento si basa sui principi di diritto, sulla giurisprudenza e sulle
immutate le condizioni normative che ne costituiscono il presupposto, in
virtù dei quali le indennità di funzione non possono essere soggette ad un
“congelamento” rapportato ad un determinato momento storico e mantenuto
negli esercizi futuri per il solo fatto che circostanze di natura personale
–come una riduzione volontaria– abbiano potuto incidere sugli importi
spettanti. Non sarebbe, infatti, condivisibile che gli importi decurtati per
motivazioni soggettive vengano a costituire una base “storica” sulla quale
rapportare le medesime indennità anche per le successive tornate elettorali.
Ok all'aumento
Pertanto, l'indennità di funzione del sindaco da considerare è quella
massima prevista dalla tabella A allegata al Dm 119/2000, che sarebbe
spettata in relazione alla classe demografica del proprio ente,
indipendentemente da eventuali situazioni personali. A questo importo deve
essere applicata la decurtazione del 10% prevista dall'articolo 1, comma 54,
della legge 266/2005.
Le delibere contenenti eventuali riduzioni, superiori a quella fissate dalla
legge, vanno intese come rinunce volontarie, che non hanno alcuna influenza
sull'ammontare delle indennità per gli esercizi successivi
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 28.11.2018). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Consigli, parla lo statuto.
Presidenza al vicesindaco se è consigliere.
L’assessore esterno non può guidare l’assemblea non facendone parte.
È
possibile affidare la carica di vice presidente del Consiglio comunale al
vice sindaco, assessore esterno, in un comune con popolazione inferiore a
15.000 abitanti?
Il vice sindaco facente funzioni può assumere il ruolo di
presidente della commissione elettorale comunale e partecipare alle relative
operazioni?
In merito al primo quesito, l'art. 64, comma 3, del Tuel (dlgs n. 267/2000),
prevede che, nei comuni con popolazione inferiore ai 15 mila abitanti, non
vi è incompatibilità tra la carica di consigliere comunale ed assessore
nella rispettiva giunta, mentre la nomina di assessori esterni al consiglio
fa parte del contenuto facoltativo dello statuto ai sensi dell'art. 47,
comma 4, del medesimo decreto legislativo.
Per quanto riguarda le funzioni
di presidente del consiglio comunale, l'art. 39, comma 3, del citato dlgs
prevede che nei comuni sino a 15 mila abitanti le stesse siano svolte dal
sindaco, «salvo differente previsione statutaria», mentre il comma 1,
stabilisce che le funzioni vicarie del presidente del consiglio, quando lo
statuto non dispone diversamente, siano esercitate dal consigliere anziano.
La normativa statale, pertanto, anche in carenza di specifiche disposizioni
dell'ente, individua il vicario del presidente del consiglio.
Nel caso di
specie, lo statuto del comune attribuisce al sindaco il potere di presiedere
il consiglio comunale e stabilisce che, «qualora il consigliere anziano sia
assente o rinunci a presiedere l'assemblea, la presidenza è assunta dal
consigliere che, nella graduatoria di anzianità… occupa il posto
immediatamente successivo».
Anche il regolamento sul funzionamento del
consiglio comunale conferma la titolarità della presidenza in capo al
sindaco; la stessa disposizione, tuttavia, stabilisce che in caso di assenza
o di impedimento del sindaco, la presidenza è assunta dal vice sindaco e ove
questi sia assente o impedito, dall'assessore più anziano di età. La
disposizione regolamentare si pone, dunque, in contrasto con la norma
statutaria. Seguendo la gerarchia delle fonti, conformemente anche
all'articolo 7 del citato decreto legislativo n. 267/2000 che disciplina
l'adozione dei regolamenti comunali «nel rispetto dei principi fissati dalla
legge e dallo statuto» (cfr. sentenza Tar Lombardia, Brescia, n. 2625 del 28.12.2009 e Tar Lazio, n. 497 del 2011) la disposizione statutaria
dovrebbe essere prevalente sulla norma regolamentare.
Tuttavia, circa la
possibilità, nei comuni fino a 15 mila abitanti, di far presiedere il
consiglio comunale, in assenza del sindaco, al vice sindaco non consigliere
comunale, il Consiglio di stato, con il parere n. 94/96 del 21.02.1996
(richiamato dal successivo parere n. 501 del 14.06.2001) (con riferimento
all'estensione dei poteri del vice sindaco) ha affermato che il vice sindaco
può sostituire il sindaco nelle funzioni di presidente del consiglio
comunale soltanto nel caso in cui il vicario rivesta la carica di
consigliere comunale.
Nell'ipotesi in cui il vice sindaco, come nella
fattispecie in esame, sia un assessore esterno, questi non può presiedere il
consiglio, in quanto non può «fungere da presidente di un collegio un
soggetto che non ne faccia parte». La seconda questione prospettata trova
adeguata soluzione nell'orientamento del Consiglio di Stato, espresso con
pareri n. 94/96 del 21.02.1996 e n. 501/2001 del 04.06.2001, che,
nella sostanza, hanno avallato la linea interpretativa già seguita, in
materia, dal ministero dell'interno.
In particolare l'Alto Consesso, rilevando che le funzioni del sindaco
sospeso vengono svolte dal vice sindaco in virtù dell'art. 53, comma 2, del
decreto legislativo n. 267/2000, ha stabilito che in caso di vicarietà,
nessuna norma positiva identifica atti riservati al titolare della carica e
vietati a chi lo sostituisce.
Tale considerazione di ordine testuale risulta
confortata da riflessioni di carattere sistematico, poiché la preposizione
di un sostituto all'ufficio o carica in cui si è realizzata la vacanza
implica, di regola, l'attribuzione di tutti i poteri spettanti al titolare,
con la sola limitazione temporale connessa alla vacanza medesima. Se a ciò
si aggiunge che l'esigenza di continuità dell'azione amministrativa
dell'ente locale postula che in ogni momento vi sia un soggetto
giuridicamente legittimato ad adottare tutti i provvedimenti oggettivamente
necessari nell'interesse pubblico, è necessario riconoscere al vicesindaco
reggente pienezza di poteri.
Peraltro, in ordine alla specifica fattispecie,
il dpr 20.03.1967, n. 223, all'articolo 14, stabilisce che la commissione
elettorale comunale è presieduta dal sindaco e in caso di assenza,
impedimento o cessazione dalla carica, dall'assessore delegato o
dall'assessore anziano. Se il sindaco, infine, è sospeso dalle funzioni di
ufficiale del governo, la commissione è presieduta dal commissario
prefettizio incaricato di esercitare tali funzioni.
Nel caso di specie, alla luce delle disposizioni di cui al Tuel, dunque, il
vice sindaco assumerà anche le funzioni di presidente della commissione
elettorale in sostituzione del sindaco assente (articolo ItaliaOggi del 09.11.2018). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Mancata elezione Presidente Consiglio comunale.
Sintesi/Massima
Mancata elezione Presidente Consiglio comunale.
Atteso
il perdurare della mancata elezione della figura del presidente e dei suoi
vice, in relazione a quanto disposto nelle norme statutarie dell’ente, le
sedute del consiglio comunale successive alla prima debbono essere convocate
dal Consigliere Anziano che dovrà inserire l’elezione del presidente al
primo punto all’ordine del giorno.
Testo
Sono state chieste delucidazioni circa le funzioni esercitabili dal
consigliere anziano, atteso il protrarsi della situazione di stallo
determinata dalla mancata elezione del presidente del consiglio.
La prima seduta del consiglio comunale, eletto a seguito delle elezioni del
giugno scorso, si è tenuta in data 03.08.2018.
Come previsto dagli artt. 39 e 40 del decreto legislativo n. 267/2000, tale
adunanza è stata convocata dal sindaco e presieduta dal consigliere anziano.
Tuttavia la votazione per l’elezione del Presidente del consiglio non ha
dato esito positivo né nell’ambito della prima adunanza consiliare e neppure
nelle votazioni che si sono tenute successivamente ai sensi dell’art. 8 dello
statuto comunale.
Al riguardo, si rappresenta che la figura del presidente del consiglio è
stata introdotta nell’ordinamento dall’art. 1 della l. n. 81/1993 al fine di
assicurare, nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti, la
separazione delle funzioni tra l’Ufficio di sindaco e quello di presidente
del consiglio.
Ai sensi dell’art. 8 dello statuto comunale è previsto che "Il Presidente del
Consiglio comunale è eletto, nella seduta di insediamento subito dopo la
convalida degli eletti, con voto segreto a maggioranza dei due terzi dei
componenti il Consiglio nel primo scrutinio e con la maggioranza assoluta a
partire dal secondo scrutinio.
2. Qualora la maggioranza assoluta non venga conseguita entro il terzo
scrutinio, la seduta è sospesa, e riprenderà secondo le modalità di cui al
co. 3.
3. La votazione è ripetuta, fino ad un massimo di tre scrutini, in
successive sedute, senza necessità di previa convocazione, da tenersi ogni
48 (quarantotto) ore.
4. Alle predette votazioni si procede, sempre a scrutinio segreto, fino al
raggiungimento del voto favorevole della maggioranza assoluta dei
componenti.".
L’art. 9 della medesima fonte statutaria stabilisce che i Vice Presidenti,
con priorità al Vice Presidente Vicario, sostituiscono il Presidente in caso
di sua assenza, impedimento e vacanza. In caso di assenza, impedimento o
vacanza anche dei Vice Presidenti, le funzioni di Presidente vengono svolte
dal Consigliere anziano.
Dall’esame della normativa in commento emerge che lo stesso ente locale,
nell’ambito della propria autonomia, si è dotato di strumenti idonei a
consentire l’elezione di tale figura indefettibile nell’ambito
dell’ordinamento locale, prevedendo votazioni ripetute ad oltranza, ogni 48
ore. Emerge, altresì, che in caso di vacanza delle figure di Presidente e
dei Vice Presidenti sia il Consigliere Anziano a svolgere le funzioni
presidenziali. Tale figura assume la totalità delle funzioni spettanti al
Presidente. Circa l’eventualità che il consigliere anziano rinunci a
presiedere l’assemblea, ai sensi dell’art. 12, comma 2, dello statuto
comunale, tale rinuncia avrebbe effetto unicamente con riferimento ai poteri
di presidenza nell’ambito della medesima seduta non potendo il consigliere
anziano spogliarsi tout court di tutto il complesso dei poteri e delle
funzioni attribuiti al presidente del consiglio.
Ciò premesso, atteso il perdurare della mancata elezione della figura del
presidente e dei suoi vice, si rileva che, in relazione a quanto disposto
nelle norme statutarie dell’ente, le sedute del consiglio comunale
successive alla prima debbono essere convocate dal Consigliere Anziano che
dovrà inserire l’elezione del presidente al primo punto all’ordine del
giorno.
Le previsioni recate dall’art. 8, commi 2 e 3, dello statuto comunale si
intendono riferite anche alle sedute successive alla prima.
Si fa presente, peraltro, che gli atti adottati da un consiglio che non sia
riuscito ad eleggere il proprio presidente sono validi, tanto è vero che è
lo stesso ordinamento locale a prevedere, in ipotesi, il perdurare di
successive votazioni infruttuose da tenersi ogni 48 ore. Quanto al mancato
giuramento del sindaco, appare utile far riferimento alle osservazioni
diramate in materia da questa amministrazione con circolare n. 3 del 30.06.1999.
In tale atto fu precisato che, alla luce delle modifiche
legislative intervenute ai sensi della legge n. 127/1997, i sindaci neoletti
avrebbero assunto tutte le funzioni dopo la proclamazione, ivi comprese
quelle di ufficiale di governo. Il giuramento del sindaco dinanzi al
consiglio comunale, pur configurandosi quale adempimento solenne che
individua nel rispetto alla Costituzione il parametro fondamentale
dell’azione dell’organo di vertice dell’amministrazione "non può
condizionare l’esercizio delle funzioni inerenti alla carica, che possono
essere tutte legittimamente svolte sin dalla data della proclamazione".
Si osserva, altresì, che, nell’ambito dell’ordinamento degli enti locali,
non si rinviene alcuna disposizione che attribuisca al Prefetto uno
specifico potere di intervento in ordine alla problematica rappresentata (06.11.2018
- link a http://dait.interno.gov.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ CONSIGLI/ Presidenti non revocabili.
Sfiducia per motivi istituzionali, non politici. La
figura è allontanabile se non è più super-partes.
Il Consiglio comunale può presentare una mozione di sfiducia nei confronti
del proprio presidente?
Nella fattispecie in esame, la mozione di sfiducia nei confronti del
presidente del consiglio è disciplinata dallo statuto. Tuttavia, il
regolamento comunale limita la possibilità di un voto all'espressione di «un
giudizio su mozione presentata in merito ad atteggiamenti del sindaco o
della giunta comunale, ovvero un giudizio sull'intero indirizzo
dell'amministrazione».
Inoltre, la disposizione regolamentare, nel disciplinare le adunanze, affida
addirittura al sindaco la presidenza del consiglio e non contiene alcuna
norma specifica che disciplini la sfiducia al presidente del consiglio,
mentre è proprio lo statuto che prevede come meramente eventuale l'elezione
di un presidente del consiglio comunale tra i propri componenti. L'articolo
38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 rinvia il funzionamento del
consiglio comunale alla disciplina regolamentare «nel quadro dei principi
stabiliti dallo statuto». Il decreto legislativo n. 267/2000, in ogni
caso, non prevede espressamente la possibilità di revoca del presidente del
consiglio, tant'è che in carenza di una specifica previsione statutaria, la
giurisprudenza tende ad affermarne costantemente l'illegittimità (v., tra
l'altro, Tar Piemonte sez. I, 04.09.2009, n. 2248).
Nel caso di specie il Consiglio ha utilizzato, nonostante la mancanza di una
disciplina regolamentare di dettaglio, la normativa statutaria (ritenendola
sufficiente) per eleggere il presidente del consiglio; pertanto,
l'applicazione di ipotetiche norme regolamentari che dovrebbero
obbligatoriamente disciplinare anche la revoca, appare incoerente rispetto
alla pacifica accettazione della sola norma statutaria per l'elezione del
presidente del consiglio.
Ferma restando, dunque, l'applicabilità della citata disposizione statutaria
che disciplina la revoca del presidente, «la giurisprudenza ha chiarito
che la figura del Presidente del consiglio è posta a garanzia del corretto
funzionamento di detto organo e della corretta dialettica tra maggioranza e
minoranza, per cui la revoca non può essere causata che dal cattivo
esercizio della funzione, in quanto ne sia viziata la neutralità e deve
essere motivata, perciò, con esclusivo riferimento a tale parametro e non a
un rapporto di fiducia». Peraltro, il Tar Piemonte, con la citata sentenza,
ha statuito che «lo statuto comunale, tuttavia, può prevedere ipotesi e
procedure di revoca del presidente del consiglio comunale, con riferimento a
fattispecie che integrino comportamenti incompatibili con il ruolo
istituzionale super partes che esso deve costantemente disimpegnare
nell'Assemblea consiliare».
Inoltre, il Tar Campania–Napoli - sez. I, con decisione 03/05/2012 n. 2013,
ribadendo che il ruolo del presidente del consiglio comunale è strumentale
non già all'attuazione di un indirizzo politico di maggioranza, bensì al
corretto funzionamento dell'organo stesso e, come tale, non solo è neutrale,
ma non può restare soggetto al mutevole atteggiamento fiduciario della
maggioranza, ha precisato che la revoca di detta carica non può essere
attivata per motivazioni politiche, ma solo istituzionali, quali la ripetuta
e ingiustificata omissione della convocazione del Consiglio o le ripetute
violazioni dello statuto o dei regolamenti comunali (si veda anche,
Consiglio di stato, sez. V, 18.01.2006, n. 114)
(articolo ItaliaOggi del 02.11.2018). |
ottobre 2018 |
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CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Consiglieri politici? No.
L'ordinamento vigente consente al sindaco di un comune di nominare
«consiglieri politici», figure non previste dallo statuto comunale, deputate
a svolgere funzioni di supporto all'azione amministrativa, assicurando
maggiore incisività ed efficacia al governo della comunità locale, senza
alcun onere per il comune?
L'ordinamento degli enti locali non prevede la figura del «consigliere
politico»; i consiglieri, gli assessori e il sindaco, quali organi di
governo degli enti locali, sono figure tipiche individuate dalla legge.
L'art. 117, lettera p) della Costituzione attribuisce allo Stato la potestà
legislativa esclusiva in materia di «... organi di governo e funzioni
fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane»; all'ente
locale, invece, è riconosciuta un'autonomia statutaria, normativa,
organizzativa ed amministrativa, nel rispetto dei principi fissati dal
decreto legislativo n. 267/2000.
Ai sensi dell'art. 6 del T.U.O.E.L., lo statuto stabilisce le norme
fondamentali dell'organizzazione dell'ente e specifica le attribuzioni degli
organi. L'art. 90 del citato decreto legislativo prevede, inoltre, la
possibilità di istituire uffici di supporto agli organi di direzione
politica; in particolare, il comma 1, demanda al regolamento degli uffici e
dei servizi la possibilità di prevedere la costituzione di uffici posti alle
dirette dipendenze del sindaco, della giunta o degli assessori per
l'esercizio delle funzioni di indirizzo e controllo loro attribuite dalla
legge.
In merito a tale istituto, la giurisprudenza contabile ha evidenziato il
carattere necessariamente oneroso del rapporto con i soggetti incaricati di
funzioni di staff (cfr. pronuncia Src Campania n. 155/2014/PAR).
Circa la possibilità che il sindaco deleghi proprie funzioni ai consiglieri,
tali ipotesi possono ricorrere, ai sensi dell'art. 54, comma 10, per
l'esercizio delle funzioni di ufficiale del governo nei quartieri e nelle
frazioni e, ai sensi dell'art. 31, comma 4, in caso di partecipazioni alle
assemblee consortili
(articolo ItaliaOggi del 26.10.2018). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Fuori dalle commissioni. Chi si esclude
dai gruppi non può farne parte. La facoltà concessa
dallo Statuto desta comunque dubbi di legittimità.
Nell'ambito di una commissione consiliare consultiva, può essere sostituita,
con atto del presidente del consiglio comunale, una consigliera che ha
dichiarato la propria indipendenza dalla maggioranza che sostiene il
sindaco?
Nella fattispecie in esame la consigliera comunale, nel dichiarare la
propria indipendenza dalla maggioranza che sostiene il sindaco, si è
sostanzialmente avvalsa della facoltà, prevista dallo Statuto comunale, che
consente di «non appartenere ad alcun gruppo».
Il regolamento comunale, che disciplina la costituzione dei gruppi, non
ripropone la medesima possibilità contenuta nello statuto di autoescludersi
dai gruppi, prevedendo che, nel caso in cui una lista presentata alle
elezioni abbia avuto eletto un solo consigliere, a questi sono riconosciute
le prerogative e la rappresentanza spettanti a un gruppo consiliare.
In base alle norme statutarie e regolamentari dell'ente i gruppi autonomi
possono essere costituiti solo se formati da almeno tre consiglieri.
Inoltre, lo statuto rinvia al regolamento la disciplina del funzionamento e
della composizione delle commissioni consiliari, nel rispetto del criterio
proporzionale.
Il regolamento affida a «ciascun gruppo» il compito di designare i
propri rappresentanti nelle singole commissioni permanenti, stabilisce che i
consiglieri possono fare parte di più di una commissione e prevede che le
sostituzioni siano demandate al singolo capogruppo.
Ciò posto, occorre ricordare che le commissioni consiliari previste
dall'articolo 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000, una volta
istituite sulla base di una facoltativa previsione statutaria, sono
disciplinate dal regolamento comunale con l'unico limite, posto dal
legislatore, del rispetto del criterio proporzionale nella composizione. Ciò
significa che le forze politiche presenti in consiglio debbano essere il più
possibile rappresentate anche nelle commissioni, in modo che in ciascuna di
esse sia riprodotto il loro peso numerico e di voto.
Quanto al rispetto del criterio proporzionale previsto dal citato articolo
38, comma 6, il legislatore non precisa come lo stesso debba essere
declinato in concreto. Il regolamento, a cui sono demandate la
determinazione dei poteri delle commissioni, nonché la disciplina
dell'organizzazione e delle forme di pubblicità dei lavori, dovrebbe
stabilire anche i meccanismi idonei a garantirne il rispetto.
L'indirizzo giurisprudenziale prevalente in materia -con l'eccezione della
sentenza contraria del Tar Puglia-Lecce n. 516/2013- stabilisce che il
criterio proporzionale può dirsi rispettato solo ove sia assicurata, in ogni
commissione, la presenza di ciascun gruppo anche se formato da un solo
consigliere, presente in consiglio (Tar Lombardia Brescia 04.07.1992 n. 796;
Tar Lombardia, Milano, 03.05.1996, n. 567).
Tale principio, peraltro, è stato ribadito dal Consiglio di stato il quale
con parere n. 4323/2009 del 14.04.2010, ha osservato che «come da
consolidata giurisprudenza dalla quale la sezione non intende discostarsi,
il criterio di proporzionalità di rappresentanza della minoranza non può
prescindere dalla presenza in ciascuna commissione permanente di almeno un
rappresentante di ciascun gruppo consiliare. In tal caso il criterio di
proporzionalità si può esplicare attraverso il voto ponderato (v. anche Tar
Lombardia sez. II, 19.11.1996, n. 1661) o plurimo assegnato a ciascun
componente della commissione in ragione corrispondente a quello della forza
politica rappresentata nel consiglio comunale, vale a dire corrispondente al
numero di voti di cui dispone il gruppo di appartenenza in seno al
consiglio, diviso per il numero dei rappresentanti della stessa lista nella
commissione interessata».
Dal complesso della giurisprudenza citata, nonché dalle disposizioni
regolamentari dell'ente interessato, si evince che una volta ammessa la
costituzione dei gruppi, questi vanno a riflettere la loro composizione
all'interno delle commissioni consiliari in proporzione al loro peso
complessivo.
Premesso che teoricamente, nel caso di specie, la consigliera, qualora
facente parte di un gruppo unipersonale, avrebbe avuto diritto a partecipare
a tutte le commissioni, tuttavia, fermi restando dubbi di legittimità in
ordine alla facoltà concessa dallo Statuto comunale di escludersi da ogni
gruppo, il concreto esercizio del diritto di autoesclusione da parte del
consigliere comunale impedisce allo stesso, ai sensi del regolamento, di
essere designato all'interno delle commissioni; ciò in quanto il diritto di
designare rappresentanti all'interno delle commissioni, riservato
esclusivamente ai capigruppo, può essere esercitato solo nei confronti dei
consiglieri facenti parte di un «gruppo».
L'interessata, pertanto, proprio perché collocatasi all'esterno della
struttura dei gruppi, non potrebbe rivendicare alcuna lesione dei propri
diritti, non avendo assunto la titolarità di alcun gruppo.
Ciò, peraltro, è confermato dalle già richiamate norme che consentono la
costituzione dei gruppi unipersonali solo nel caso in cui una lista
presentata alle elezioni abbia avuto eletto un solo consigliere, e la
costituzione di nuovi gruppi solo se formati da almeno tre consiglieri,
condizioni che, dunque, non si verificano nei riguardi della fattispecie
esaminata
(articolo ItaliaOggi del 19.10.2018). |
ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Delibere
urgenti motivate. L’immediata eseguibilità deve essere approvata.
La dichiarazione deve ricevere l’ok della maggioranza dei
componenti.
È necessaria una specifica motivazione giustificativa della formula di
«immediata eseguibilità» per le deliberazioni del consiglio e della giunta
che, in caso di urgenza, vengono dichiarate immediatamente eseguibili con il
voto espresso dalla maggioranza dei componenti, ai sensi dell'art. 134,
comma 4, del decreto legislativo n. 267/2000?
In linea generale, la dichiarazione di immediata eseguibilità, come
disciplinata dal citato art. 134, comma 4, del decreto legislativo n.
267/2000, risponde all'esigenza di porre in essere le deliberazioni urgenti;
quindi, limitatamente a tali casi, deve scaturire da apposita separata
votazione che approvi tale dichiarazione con il voto favorevole della
maggioranza dei componenti del collegio, non essendo sufficiente il voto
della maggioranza semplice dei votanti o dei presenti.
La decisione di attribuire a una deliberazione la connotazione
dell'immediata eseguibilità assume, infatti, autonoma valenza rispetto
all'approvazione del provvedimento cui si riferisce, restandone logicamente
distinta.
In merito, il Tribunale amministrativo regionale della Liguria, sez. II, con
decisione n. 2/2007, ha affermato che in virtù dell'art. 134, comma 4, del
decreto legislativo n. 267/2000, la necessità che la dichiarazione di
immediata eseguibilità, per motivi di urgenza, di una delibera di consiglio
o di giunta, sia oggetto di un'autonoma votazione, fa sì che tale
dichiarazione, pur accedendo alla delibera, non si identifichi con essa.
Lo stesso Tribunale ha puntualizzato che il legislatore non ha ritenuto la
clausola di immediata eseguibilità quale attributo necessario di ogni
delibera, ma ha inteso farla dipendere da una scelta discrezionale
dell'amministrazione procedente, basata sul requisito dell'urgenza.
In merito al caso in esame, devono ritenersi condivisibili le osservazioni
formulate dal Tribunale Piemonte che, nella sentenza n. 460 del 2014, in
materia di indefettibilità di adeguata motivazione giustificativa della
dichiarazione di immediata eseguibilità, ha ritenuto che «la clausola di
immediata eseguibilità dipende da una scelta discrezionale
dell'amministrazione, comunque pur sempre correlata al requisito
dell'urgenza, che deve ricevere adeguata motivazione nell'ambito dello
stesso atto»
(articolo ItaliaOggi del 12.10.2018). |
CONSIGLIERI COMUNALI - SEGRETARI COMUNALI:
Verbalizzazione delle sedute del consiglio comunale.
Il verbale ha l’onere di attestare il compimento dei
fatti svoltisi al fine di verificare il corretto iter di formazione della
volontà collegiale e di permettere il controllo delle attività svolte, non
avendo al riguardo alcuna rilevanza l’eventuale difetto di una minuziosa
descrizione delle singole attività compiute o delle singole opinioni
espresse.
Il Comune chiede un parere in materia di verbalizzazione delle sedute del
consiglio comunale. Più in particolare, desidera sapere se un consigliere
possa pretendere la verbalizzazione di alcune dichiarazioni rese dal sindaco
nel corso di una seduta assembleare.
In via generale, si ricorda che il verbale, quale atto giuridico
annoverabile nella più ampia categoria degli atti certificativi, è un
documento finalizzato alla descrizione di atti e/o fatti rilevanti per il
diritto, compiuti alla presenza di un soggetto verbalizzante, al fine di
garantire la certezza della descrizione degli accadimenti constatati,
documentandone l’esistenza [1].
Il decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 recante “Testo unico
sull’ordinamento degli enti locali” non contiene norme specifiche sulle
modalità di redazione del verbale delle sedute degli organi collegiali
dell’ente locale o circa i suoi contenuti. Uniche norme di riferimento sono
l’articolo 97, comma 4, lett. a), che, nell’individuare le funzioni del
segretario comunale ne indica anche la partecipazione con funzioni
consultive, referenti e di assistenza alle riunioni del consiglio e della
giunta e prevede che egli curi la verbalizzazione delle stesse, nonché
l’articolo 38, comma 2, TUEL che rimanda al regolamento sul funzionamento
dei consigli, nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto, la disciplina
del funzionamento del consiglio nel cui alveo si ritiene debba
ricomprendersi anche la parte sulla verbalizzazione delle sedute consiliari.
Circa la funzione ed i contenuti del verbale assembleare certa dottrina
[2] ha affermato che il
verbale della seduta di un organo collegiale “rappresenta la «memoria» di
quanto è accaduto e documenta i fatti salienti della seduta”.
Anche la giurisprudenza, intervenuta sull’argomento, ha affermato che: “Il
verbale ha l’onere di attestare il compimento dei fatti svoltisi al fine di
verificare il corretto iter di formazione della volontà collegiale e di
permettere il controllo delle attività svolte, non avendo al riguardo alcuna
rilevanza l’eventuale difetto di una minuziosa descrizione delle singole
attività compiute o delle singole opinioni espresse”
[3].
Da quanto sopra, ed al fine di fornire una risposta al quesito posto, emerge
che per individuare i contenuti di un verbale è necessario, in primis,
analizzare le disposizioni, eventualmente esistenti sull’argomento, del
regolamento sul funzionamento del consiglio del Comune e, in subordine,
avvalersi dei principi elaborati in sede giurisprudenziale e dottrinale al
riguardo.
Il regolamento dell’Ente al Titolo VIII, “Verbali delle adunanze del
Consiglio Comunale”, articolo 41, rubricato “I verbali delle
deliberazioni: contenuto” prevede, al comma 1, che il verbale debba
contenere una serie di indicazioni. Tra queste, per quel che rileva in
questa sede, si riporta quella di cui alla lett. i) secondo cui il verbale
deve contenere “le principali argomentazioni emerse dal dibattito con una
verbalizzazione integrale dell’intervento, qualora richiesto esplicitamente
da un consigliere”.
La prima parte della disposizione citata pare essere esplicativa dei
principi espressi da dottrina e giurisprudenza sull’argomento ovverosia che,
tendenzialmente, non tutti gli atti o fatti devono essere necessariamente
documentati nel verbale, ma solo quelli che, secondo un criterio di
ragionevole individuazione, assumono rilevanza proprio in relazione alle
finalità cui l’attività di verbalizzazione è preposta.
Circa la seconda parte della disposizione citata, ove si prevede l’obbligo
della verbalizzazione integrale dell’intervento, qualora richiesto
esplicitamente da un consigliere, si evidenzia la necessità di procedere
all’interpretazione della disposizione suddetta, atteso che essa potrebbe
essere intesa nel senso che un consigliere può esplicitamente richiedere la
verbalizzazione integrale del proprio intervento oppure, in un senso più
ampio, richiedere, sempre esplicitamente, la verbalizzazione integrale anche
di interventi di altri consiglieri o del sindaco stesso.
Al riguardo, si ricorda che l’interpretazione delle norme sul funzionamento
del consiglio comunale compete unicamente all’organo che le ha elaborate,
quindi allo stesso organo consiliare.
Ciò premesso, a meri fini collaborativi, si rileva che, ad avviso di questo
Ufficio, tale disposizione sembrerebbe doversi intendere nel senso che un
consigliere possa esplicitamente richiedere la verbalizzazione integrale
soltanto del proprio intervento.
Ciò parrebbe porsi in linea con il principio che sembra desumersi da alcune
disposizioni normative, riguardanti l’ambito civilistico, e precisamente
afferenti il contenuto dei verbali, rispettivamente delle assemblee
condominiali [4]
e delle società per azioni [5],
le quali prevedono la possibilità di riproposizione nel verbale delle sole
dichiarazioni rese dal richiedente la stessa [6].
Fermo quanto sopra si ribadisce ad ogni modo che compete esclusivamente al
consiglio comunale interpretare la disposizione regolamentare in argomento,
eventualmente anche nel senso di ritenere possibile che la richiesta di
verbalizzazione integrale riguardi altresì interventi di altri consiglieri o
del sindaco stesso.
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[1] In questi termini, si veda Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del
18.07.2018, n. 4373.
[2] R. Chieppa, R. Giovagnoli, “Manuale di diritto amministrativo”, 2011,
Giuffré editore, pag. 453.
[3] Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 25.07.2001, n. 4074. Nello
stesso senso, Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza del 02.03.2001, n. 1189
e TAR Lazio–Roma, sez. I, sentenza del 12.03.2001, n. 1835. Si veda, anche,
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza del 14.04.2008, n. 1575 ove si afferma
che: “Si deve ritenere che nell’ambito dell’attività amministrativa, il
verbale non necessariamente debba contenere la descrizione minuta di ogni
singola modalità di svolgimento dell’azione (finendo ciò per appesantire
notevolmente la funzione verbalizzatrice senza una seria giustificazione),
ma debba riportarne solo gli aspetti salienti e significativi, dovendosi
configurare come tali, in particolare, quelli necessari per consentire la
verifica della correttezza delle operazioni eseguite dall’organo
collegiale”.
[4] In particolare, l’articolo 1130 c.c. (come sostituito dall’articolo 10,
comma 1, della legge 11.12.2012, n. 220), al primo comma, num. 7) prevede
che: “L’amministratore, oltre a quanto previsto dall’articolo 1129 e dalle
vigenti disposizioni di legge, deve: curare la tenuta del registro dei
verbali delle assemblee, del registro di nomina e revoca dell’amministratore
e del registro di contabilità. Nel registro dei verbali delle assemblee sono
altresì annotate: le eventuali mancate costituzioni dell’assemblea, le
deliberazioni nonché le brevi dichiarazioni rese dai condomini che ne hanno
fatto richiesta; […]”.
[5] L’articolo 2375, primo comma, del codice civile recita: “Le
deliberazioni dell'assemblea devono constare da verbale sottoscritto dal
presidente e dal segretario o dal notaio. Il verbale deve indicare la data
dell'assemblea e, anche in allegato, l'identità dei partecipanti e il
capitale rappresentato da ciascuno; deve altresì indicare le modalità e il
risultato delle votazioni e deve consentire, anche per allegato,
l'identificazione dei soci favorevoli, astenuti o dissenzienti. Nel verbale
devono essere riassunte, su richiesta dei soci, le loro dichiarazioni
pertinenti all'ordine del giorno.”.
[6] Benché riguardanti l’ambito civilistico, e non amministrativo, si tratta
pur sempre di norme pertinenti il contenuto del verbale la cui natura
giuridica non muta nei due ambiti del diritto (10.10.2018 - link
a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ La digitalizzazione della p.a. consente l’utilizzo
delle moderne tecnologie. Un diritto d’accesso 2.0. Ai
consiglieri documenti in formato elettronico.
In materia di diritto di accesso dei consiglieri comunali, è
legittima l'ostensione della documentazione amministrativa
richiesta su supporto digitale, o eventualmente indicando il
link a cui accedere nella sezione Amministrazione
trasparente, in luogo del rilascio delle copie cartacee?
Il diritto di accesso dei consiglieri comunali deve essere
esercitato in modo da comportare il minor aggravio possibile
per gli uffici comunali, attraverso modalità che, ai sensi
dell' art. 43 del dlgs n. 267/2000, sono disciplinate dal
regolamento dell'ente.
Inoltre, non deve sostanziarsi in richieste assolutamente
generiche ovvero meramente emulative, fermo restando
tuttavia che la sussistenza di tali condizioni deve essere
attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al
fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili
limitazioni al diritto stesso (Consiglio di stato, sez. V,
n. 6963/2010).
La Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, al
fine di evitare che le continue richieste di accesso si
traducessero in un aggravio dell'ordinaria attività
amministrativa dell'ente locale, ha riconosciuto la
possibilità, per il consigliere comunale, di avere accesso
diretto al sistema informatico interno, anche contabile, del
comune attraverso l'uso della password di servizio (cfr.
parere del 29/11/2009). Anche il Tar Sardegna, con sentenza
n. 29/2007, ha ritenuto che «la notevole mole della
documentazione da consegnare può, nel caso, giustificare la
distribuzione nel tempo del rilascio delle copie richieste».
Il Consiglio di stato ha, inoltre, affermato che, «qualora
si tratti di esibire documentazione complessa e voluminosa,
appare, altresì, legittimo il rilascio di supporti
informatici al consigliere, o la trasmissione mediante posta
elettronica, in luogo delle copie cartacee» (v. Cds n.
6742/2007 del 28/12/2007).
Tale modalità è, peraltro, conforme alla vigente normativa
in materia di digitalizzazione della pubblica
amministrazione (dlgs n. 82 del 07.03.2005)
(articolo ItaliaOggi del 05.10.2018). |
settembre 2018 |
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CONSIGLIERI COMUNALI: Delega
a Presidente del consigliere comunale.
Sintesi/Massima
Il consigliere può essere incaricato di studi su
determinate materie, di compiti di collaborazione circoscritti all'esame e
alla cura di situazioni particolari, che non implichino la possibilità di
assumere atti a rilevanza esterna, né, infine, di adottare atti di gestione
spettanti agli organi burocratici.
Il Presidente del Consiglio può essere
delegato dal Sindaco al pari degli altri consiglieri per la cura di affari
particolari, purché non gli si attribuiscano anche poteri di gestione
assimilabili a quelli degli Assessori e dei Dirigenti.
Testo
E' stato posto un quesito concernente la possibilità di conferire la delega
alla protezione civile al Presidente del consiglio comunale, che riveste la
qualifica di operatore di protezione civile nell'ambito del centro operativo
comunale.
Secondo quanto rappresentato dal Sindaco, il servizio di protezione civile è
gestito in forma associata in base ad apposite convenzioni. Lo statuto
comunale prevede che il Sindaco può delegare l'esercizio di funzioni ad esso
attribuite a singoli assessori ed a consiglieri nei casi previsti dalla
legge.
Al riguardo, si rappresenta che nell'ambito dell'autonomia statutaria
dell'ente locale, sancita dall'art. 6 del decreto legislativo n. 267/2000, è
ammissibile la disciplina di deleghe interorganiche, purché il contenuto
delle stesse sia coerente con la funzione istituzionale dell'organo cui si
riferisce.
Occorre considerare, quale criterio generale, che il consigliere può essere
incaricato di studi su determinate materie, di compiti di collaborazione
circoscritti all'esame e alla cura di situazioni particolari, che non
implichino la possibilità di assumere atti a rilevanza esterna, né, infine,
di adottare atti di gestione spettanti agli organi burocratici.
Il consigliere, infatti, svolge la sua attività istituzionale, in qualità di
componente di un organo collegiale quale il consiglio, che è destinatario
dei compiti individuati e prescritti dalle leggi e dallo statuto.
Una ristrettissima serie delle funzioni sindacali può essere delegabile in
virtù di specifiche previsioni normative (in particolare, le funzioni svolte
dal sindaco ex art. 54 nella sua attività di Ufficiale di Governo).
Va osservato che il TAR Toscana, con decisione n. 1248/2004, ha respinto
il ricorso avverso una norma statutaria concernente la delega ai consiglieri
di funzioni sindacali in quanto la stessa escludeva implicitamente che
potessero essere delegati compiti di amministrazione attiva, tali da
comportare "l'inammissibile confusione in capo al medesimo soggetto del
ruolo di controllore e di controllato".
Ciò posto per quanto concerne lo specifico quesito prospettato, si ritiene
che il Presidente del Consiglio può essere delegato dal Sindaco al pari
degli altri consiglieri per la cura di affari particolari, purché non gli si
attribuiscano anche poteri di gestione assimilabili a quelli degli Assessori
e dei Dirigenti (27.09.2018
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CONSIGLIERI COMUNALI: Diritto
di informazione ed accesso agli atti e documenti da parte dei consiglieri
comunali.
Sintesi/Massima
Art. 43 del d.lgs. n. 267/2000.
In materia di “diritto di
accesso” dei consiglieri comunali in ordine agli atti in possesso
dell'Amministrazione comunale, al fine di evitare che eventuali continue
richieste si trasformino in un aggravio dell'ordinaria attività
amministrativa dell'ente locale, la Commissione per l’accesso ai documenti
amministrativi ha riconosciuto la possibilità per il consigliere comunale di
avere accesso diretto al sistema informatico interno (anche contabile) del
Comune attraverso l'uso della password di servizio (cfr. parere del
29.11.2009).
Conformemente alla vigente normativa in materia di digitalizzazione della
pubblica amministrazione (in particolare, art. 2 del d.lgs. n. 82/2005),
qualora si tratti di esibire documentazione complessa e voluminosa, è
altresì legittimo il rilascio di supporti informatici al consigliere o la
trasmissione mediante posta elettronica, in luogo delle copie cartacee.
Testo
E' stato posto un quesito in materia di diritto di accesso esercitabile dai
consiglieri comunali. Al riguardo, si rappresenta che il "diritto di
accesso" ed il "diritto di informazione" dei consiglieri comunali in ordine
agli atti in possesso dell'Amministrazione comunale trovano la loro
disciplina specifica nell’art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000 il quale
riconosce il diritto di ottenere dagli uffici del comune, nonché dalle
proprie aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in
loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato.
Il diritto dei consiglieri ha una ratio diversa da quella che
contraddistingue il diritto di accesso ai documenti amministrativi
riconosciuto alla generalità dei cittadini (ex articolo 10 del richiamato
decreto legislativo n. 267/2000) ovvero a chiunque sia portatore di un
"interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione
giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto
l'accesso" (ex art. 22 e ss. della legge 07.08.1990, n. 241).
Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 4525 del 05.09.2014, ha
affermato che, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale (Cons.
Stato, Sez. V, 17.09.2010, n. 6963; 09.10.2007, n. 5264), i
consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti
gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento delle loro funzioni,
ciò anche al fine di permettere di valutare -con piena cognizione- la
correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per
esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio e
per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che
spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
Gli unici limiti all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri
comunali possono rinvenirsi nel fatto che esso deve avvenire in modo da
comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali, attraverso
modalità che ragionevolmente sono fissate nel regolamento dell'ente;
inoltre, non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche, ovvero
meramente emulative, fermo restando, tuttavia, che la sussistenza di tali
caratteri deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto
al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al
diritto stesso (C.d.S. Sez. V n. 6993/2010).
In merito alle segnalate fattispecie di rilascio di ingenti copie di atti,
si osserva che il diritto si esercita con l'unico limite di potere esaudire
la richiesta (qualora essa sia di una certa gravosità) secondo i tempi
necessari per non determinare interruzione delle altre attività di tipo
corrente (cfr. C.d.S. 4855/2006)… e ciò in ragione del fatto che il
consigliere comunale non può abusare del diritto all'informazione
riconosciutogli dall'ordinamento, pregiudicando la corretta funzionalità
amministrativa dell'ente civico con richieste non contenute entro i limiti
della proporzionalità e della ragionevolezza (v. C.d.S. n. 4471/05 del
02.09.2005).
Sempre secondo il Consiglio di Stato è necessario contemperare l'esigenza
dei consiglieri ad espletare il proprio mandato con quella
dell'amministrazione al regolare svolgimento della propria attività, con una
specifica disciplina in merito all'esercizio del diritto.
Anche la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi (Plenum
06.07.2010) ha più volte precisato che, per non impedire od ostacolare lo
svolgimento dell'azione amministrativa, fermo restando che il diritto di
accesso non può essere garantito nell'immediatezza in tutti i casi, o con
mezzi estranei all'organizzazione attuale dell'ente, "…rientrerà nelle
facoltà del responsabile del procedimento dilazionare opportunamente nel
tempo il rilascio delle copie richieste, al fine di contemperare tale
adempimento straordinario con l'esigenza di assicurare l'adempimento
dell'attività ordinaria, mentre il consigliere avrà facoltà di prendere
visione, nel frattempo, di quanto richiesto negli orari stabiliti presso gli
uffici comunali competenti".
Infatti, è stata segnalata la necessità che la formulazione di richieste da
parte dei consiglieri sia il più possibile precisa, riportando l'indicazione
degli oggetti di interesse ed evitando adempimenti gravosi o intralci
all'attività ed al regolare funzionamento degli uffici (C.d.S. sent. n. 4471/2005;
n. 5109/2000; n. 6293/2002).
Pertanto, proprio al fine di evitare che le continue richieste di accesso si
trasformino in un aggravio dell'ordinaria attività amministrativa dell'ente
locale, la citata Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi ha
riconosciuto la possibilità per il consigliere comunale di avere accesso
diretto al sistema informatico interno (anche contabile) del Comune
attraverso l'Uso della password di servizio (cfr. parere del 29.11.2009).
Qualora si tratti di esibire documentazione complessa e voluminosa, appare,
altresì, legittimo il rilascio di supporti informatici al consigliere, o la
trasmissione mediante posta elettronica, in luogo delle copie cartacee. Tale
modalità, peraltro, è conforme alla vigente normativa in materia di
digitalizzazione della pubblica amministrazione (decreto legislativo n. 82
del 07.03.2005), che all’articolo 2 prevede che anche "le autonomie
locali assicurano la disponibilità, la gestione, l'accesso, la trasmissione,
la conservazione e la fruibilità dell'informazione in modalità digitale e si
organizzano ed agiscono a tale fine utilizzando con le modalità più
appropriate le tecnologie dell'informazione e della comunicazione" (27.09.2018
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CONSIGLIERI COMUNALI: Commissioni
consiliari permanenti.
Sintesi/Massima
L’articolo 38, comma 6, del decreto legislativo n.
267/2000 prevedendo con disposizione statutaria la facoltatività
dell’istituzione delle commissioni, richiede il rispetto del criterio
proporzionale nella loro composizione.
Sono comunque escluse artificiose creazioni di gruppi minoritari che
impediscano la piena partecipazione a tutte le commissioni da parte
dell’autentica minoranza.
Tuttavia, la collocazione dinamica dei consiglieri alla maggioranza o alla
minoranza, ammessa in virtù del mancato vincolo relativo al mandato
imperativo -anche alla luce della decisione del C.d.S. n. 4600/2003- passa
attraverso i movimenti tra i gruppi.
Infatti, sono possibili i mutamenti che possono sopravvenire all’interno
delle forze politiche presenti in consiglio comunale per effetto di
dissociazioni dall’originario gruppo di appartenenza, comportanti la
costituzione di nuovi gruppi consiliari ovvero l’adesione a diversi gruppi
esistenti, con diretta influenza sulla composizione delle commissioni
consiliari che deve, pertanto, adeguarsi ai nuovi assetti.
Testo
E’ stato posto un quesito in ordine alla corretta composizione delle
commissioni consiliari permanenti. In particolare, è stato chiesto se, a
fronte del mutamento politico intervenuto recentemente in un gruppo
consiliare costituito da due consiglieri che sostenevano la maggioranza, sia
necessario un riequilibrio generale delle commissioni consiliari permanenti,
originariamente costituite, che consenta anche al consigliere capogruppo
dissenziente di essere rappresentato nella minoranza.
Al riguardo, si
richiama l’articolo 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000, che
ribadisce la necessità del rispetto del criterio proporzionale nella
composizione delle commissioni. Si osserva che la predetta norma, prevedendo
con disposizione statutaria la facoltatività dell’istituzione delle
commissioni, rinvia al regolamento consiliare la determinazione dei relativi
poteri e la disciplina della loro organizzazione.
Pertanto, è anche alle disposizioni interne all'Ente che bisogna fare
riferimento per la risoluzione della problematica, tenendo presente che la
composizione delle commissioni non può prescindere dai gruppi consiliari al
fine della distinzione tra maggioranza e minoranza.
Lo statuto del Comune in oggetto, all’art. 14 prevede l’istituzione di
commissioni permanenti, ribadendo il principio della proporzionalità con la
presenza di due rappresentanti della minoranza nell’ambito di ogni
commissione e la garanzia della partecipazione di ogni consigliere ad almeno
una commissione e demanda al regolamento, tra l’altro, la disciplina del
funzionamento delle commissioni.
Il regolamento consiliare, all’art. 10, costituisce le quattro commissioni
permanenti che sono nominate dal consiglio con votazione palese, prevedendo,
al comma 2, che i consiglieri comunali rappresentino, con criterio
proporzionale, complessivamente, tutti i gruppi.
In materia di gruppi, l’articolo 8 del regolamento comunale prevede
preliminarmente che "i consiglieri eletti nella medesima lista formano di
regola, un gruppo consiliare".
Il comma 2 consente i gruppi unipersonali così come eventualmente scaturiti
a seguito del risultato elettorale, e prevede, comunque, la formazione di
gruppi costituiti da almeno due consiglieri.
Il successivo comma 4 lascia facoltà al singolo consigliere di transitare da
un gruppo ad altro (nel rispetto del requisito minimo di due consiglieri),
mentre il comma 5, ferma restando la possibilità di costituire un gruppo
misto ove confluiscono i consiglieri che si distacchino da gruppi
precedenti, non consente al singolo consigliere, che dopo il distacco non
aderisca ad altri gruppi, di acquisire le prerogative dei gruppi consiliari.
Ciò posto, alla luce proprio delle norme interne all’Ente, non è possibile
la costituzione di gruppi unipersonali; pertanto i consiglieri facenti parte
del gruppo in questione, qualora mantengano le divergenze politiche e
sostengano tale esigenza, dovrebbero trovare collocazione in altri gruppi
già esistenti.
Si osserva, inoltre, che la legge non fornisce una definizione di
maggioranza o di minoranza.
In proposito, il Consiglio di Stato (sentenza n. 4600/2003) ha rilevato che
"la nozione di minoranza … va definita con esclusivo riferimento alle liste
collegate ad un candidato sindaco non eletto e che, quindi, nel confronto
elettorale sono risultate sconfitte, risultando tale parametro preferibile a
quello che ammette una qualificazione della "minoranza" con riguardo ad
eventi politici successivi alle elezioni", ma è anche vero che lo stesso
Giudice ammette implicitamente la possibilità di "decifrare in senso
dinamico e propriamente politico la nozione di minoranza".
Il Giudice
giunge, poi, alla conclusione che "si deve negare che la collaborazione con
la giunta di un solo consigliere eletto in una lista inizialmente
contrapposta a quella collegata al candidato sindaco risultato eletto
implichi automaticamente, ed in difetto della comprovata adesione politica
al governo del comune di tutti i membri della lista originariamente di
opposizione, il transito di questi ultimi nella maggioranza e, quindi, la
necessità della loro partecipazione in quella quota alle elezioni dei
rappresentati del consiglio comunale (nel caso di specie) alla comunità
montana, con voto separato".
Sono comunque escluse artificiose creazioni di gruppi minoritari che
impediscano la piena partecipazione a tutte le commissioni da parte
dell'autentica minoranza. Tuttavia, la collocazione dinamica dei consiglieri
alla maggioranza o alla minoranza, ammessa in virtù del mancato vincolo
relativo al mandato imperativo -anche alla luce della lettura della citata
decisione del C.d.S. n. 4600/2003- passa attraverso i movimenti tra i
gruppi.
Infatti, il caso prospettato si inquadra nell’ambito dei possibili mutamenti
che possono sopravvenire all’interno delle forze politiche presenti in
consiglio comunale per effetto di dissociazioni dall’originario gruppo di
appartenenza, comportanti la costituzione di nuovi gruppi consiliari ovvero
l'adesione a diversi gruppi esistenti con diretta influenza sulle
composizione delle commissioni consiliari che deve, pertanto, adeguarsi ai
nuovi assetti (26.09.2018
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CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Danno
erariale al sindaco per la revoca anticipata della posizione organizzativa.
La revoca anticipata dell'incarico di posizione organizzativa di un
dipendente, al di fuori delle regole legislative e contrattuali, la cui
illegittimità sia stata accertata dal Tribunale del lavoro, comporta la
responsabilità in capo al sindaco che l’ha adottata, con conseguente danno
erariale pari alla retribuzione di posizione e di risultato riconosciuta dal
giudice al dipendente estromesso.
Queste le indicazioni della
sentenza 24.09.2018 n.
59 della Corte dei conti, Sez. giurisdiz. regionale per il
Molise.
Il caso
Il sindaco di un Comune ha estromesso il responsabile dell'ufficio tecnico
per una serie di inadempimenti. Data la mancanza di altri professionisti,
prima che si svolgesse il concorso per la categoria giuridica D3 non
posseduta dal dipendente, gli incarichi apicali erano stati conferiti per
diversi anni a professionisti esterni mediante specifica convenzione.
Il
giudice del lavoro adito dal dipendente ha riconosciuto l'illegittimità
della revoca anticipata, effettuata in violazione di legge e del contratto
collettivo nazionale che scandiscono procedure tipizzate, come in caso di
intervenuti mutamenti organizzativi o in conseguenza di specifico
accertamento di risultati negativi soggetti a valutazione annuale in base a
criteri e procedure predeterminati dall'ente. Il primo cittadino è stato,
pertanto, rinviato a giudizio dalla Procura per il danno erariale causato
dall'illegittima estromissione del dipendente al di fuori delle procedure
tipizzate previste dalla normativa.
Il sindaco si è difeso sostenendo di aver correttamente agito per il
superiore pubblico interesse al fine di una gestione efficiente che avrebbe
potuto essere assicurata dall'apporto di professionisti esterni
convenzionati e, successivamente, mediante assunzione di uno specialista
attraverso un concorso pubblico. Il sindaco ha precisato, inoltre, che lo
stesso Tar ha dato ragione al Comune sull'indizione del concorso per la
categoria giuridica D3, dove era richiesta la laurea non posseduta dal
dipendente, e rigettato l'impugnazione da parte del dipendente che non ha
potuto partecipare per mancanza del titolo di studio richiesto.
Le conclusioni del collegio contabile
Secondo i giudici contabili molisani non può non essere evidenziata la colpa
grave da parte del sindaco che non ha seguito le indicazioni contrattuali,
in merito alla revoca anticipata della posizione organizzativa, tanto da
essere l'amministrazione condannata dal giudice del lavoro al pagamento
della retribuzione di posizione e di risultato per un periodo di circa tre
anni, ossia fino alla conclusione della nomina del vincitore del concorso
pubblico. L'illegittimità discende, inoltre, dalla non corretta applicazione
della normativa del testo unico che prevede la possibilità di conferire
incarichi all'esterno solo in mancanza di professionalità interne che, nel
caso di specie, vi erano.
Pertanto, conclude il collegio contabile, ferma rimanendo la contrarietà
alla legge della revoca anticipata dell'incarico di posizione organizzativa,
anche la sequenza di incarichi esterni affidati dall'ente risulta in
contrasto con le disposizioni normative. Il danno erariale causato all'ente
corrisponde alla condotta contra legem da parte del sindaco, infatti ove
queste condotte non fossero state poste in essere (procedimento di
cosiddetta eliminazione mentale) evidentemente non si sarebbe avuta una
sentenza di condanna del Comune e dunque gli esborsi inutili non si
sarebbero realizzati.
Rispetto a questi inutili esborsi il collegio
contabile riconosce, tuttavia, una riduzione essendo la decisione stata
presa pur sempre in ambito collegiale dalla giunta comunale pur essendo il
solo sindaco l'effettivo proponente e colui che ne ha dato attuazione con i
successivi provvedimenti monocratici
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.10.2018).
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DIRITTO
[1] In via pregiudiziale, occorre innanzitutto esaminare l'eccezione di
difetto di giurisdizione di questa Corte (ex art. 1, comma 1, della legge n.
20/1994), rilevabile d'ufficio sebbene tardivamente avanzata dal convenuto
avuto riguardo in particolare alla rivendicata natura discrezionale della
determinazione di revoca dell'incarico in danno del geom. To..
In proposito, giova innanzitutto premettere che nella specie l'Organo
requirente contesta l'illecito esercizio del potere di revoca di incarico
dirigenziale e successivo conferimento ad esterni, per il quale appare
probabilmente più corretta una qualificazione in termini di manifestazione
negoziale (determinazione datoriale) di autonomia privata ex art. 1322 c.c.
(pur con gli adattamenti dogmatici conseguenti alla natura pubblica
dell'Ente conferente), piuttosto che quale manifestazione di discrezionalità
amministrativa, insindacabile nel merito ai sensi dell'art. 1, comma 1,
della legge n. 20/1994 .
Ad ogni modo, con riguardo a quest'ultimo principio normativo, il Collegio
non può che richiamare l'ormai consolidato orientamento giurisprudenziale
secondo cui "la Corte dei Conti, nella sua qualità di giudice contabile, può
e deve verificare la compatibilità delle scelte amministrative con i fini
pubblici dell'ente pubblico. Infatti, se da un lato, in base all'art. 1,
comma 1, della legge n. 20 del 1994, l'esercizio in concreto del potere
discrezionale dei pubblici amministratori costituisce espressione di una
sfera di autonomia che il legislatore ha inteso salvaguardare dal sindacato
della Corte dei Conti, dall'altro lato, l'art. 1, comma 1, della legge n.
241 del 1990, stabilisce che l'esercizio dell'attività amministrativa deve
ispirarsi ai criteri di economicità e di efficacia, che costituiscono
specificazione del più generale principio sancito dall'art. 97 Cost., e
assumono rilevanza sul piano della legittimità (non della mera opportunità)
dell'azione amministrativa. Pertanto, la verifica della legittimità
dell'attività amministrativa non può prescindere dalla valutazione del
rapporto tra gli obbiettivi conseguiti e i costi sostenuti. Inoltre l'insindacabilità
nel merito delle scelte discrezionali compiute dai soggetti sottoposti alla
giurisdizione della Corte dei Conti non comporta la sottrazione di tali
scelte ad ogni possibilità di controllo della conformità alla legge
dell'attività amministrativa anche sotto l'aspetto funzionale, vale a dire
in relazione alla congruenza dei singoli atti compiuti rispetto ai fini
imposti, in via generale o in modo specifico, dal legislatore. Più in
generale è stato altresì precisato che il comportamento contra legem del
pubblico amministratore non è mai al riparo dal sindacato giurisdizionale
non potendo esso costituire esercizio di scelta discrezionale insindacabile”
(Cass. SS.UU. sent. n. 1979 del 2012; cfr: Cass. SS.UU., sent. n.
4283/2013).
Il Collegio ritiene dunque di dover dichiarare la sussistenza della
giurisdizione di questa Corte in ordine al sindacato sulla illiceità delle
menzionate determinazioni datoriali, in ordine alle quali, peraltro,
l'Organo requirente ha contestato, come meglio si dirà nel prosieguo,
specifiche violazioni della vigente normativa.
[2] In via preliminare, occorre esaminare l'eccezione di nullità dell'atto
di citazione per ritenuta violazione dell'art. 17, comma 30-ter, del D.L. n.
78 del 2009, avanzata dal convenuto in quanto non vi sarebbe stata, in tesi,
una previa specifica e concreta notizia di danno erariale.
In proposito, il Collegio rileva l'inammissibilità dell'eccezione ex art.
90, comma 3, del d.lgs. n. 174/2016 (codice di giustizia contabile), in
quanto proposta soltanto nella memoria di costituzione tardivamente
depositata.
Ad ogni modo, pare utile rammentare che le SS.RR. (sent n. 12/QM/2011) di
questa Corte hanno chiarito che ““Il significato da attribuire
all’espressione “specifica e concreta notizia di danno”, recata dall’art.
17, comma 30-ter, in esame, è così precisato: il termine notizia, comunque
non equiparabile a quello di denunzia, è da intendersi, secondo la comune
accezione, come dato cognitivo derivante da apposita comunicazione, oppure
percepibile da strumenti di informazione di pubblico dominio; l’aggettivo
specifica è da intendersi come informazione che abbia una sua peculiarità e
individualità e che non sia riferibile ad una pluralità indifferenziata di
fatti, tale da non apparire generica, bensì ragionevolmente circostanziata;
l’aggettivo concreta è da intendersi come obiettivamente attinente alla
realtà e non a mere ipotesi o supposizioni. L’espressione nel suo complesso
deve, pertanto, intendersi riferita non già ad una pluralità indifferenziata
di fatti, ma ad uno o più fatti, ragionevolmente individuati nei loro tratti
essenziali e non meramente ipotetici, con verosimile pregiudizio per gli
interessi finanziari pubblici, onde evitare che l’indagine del PM contabile
sia assolutamente libera nel suo oggetto, assurgendo ad un non consentito
controllo generalizzato””.
Inoltre, le SS.RR. hanno specificato che “per “fattispecie direttamente
sanzionate dalla legge” devono intendersi quelle in cui non soltanto è
prevista una sanzione pecuniaria come conseguenza dell’accertamento di
responsabilità amministrativa, ma in cui la norma definisce altresì
l’automatica determinazione del danno, mentre va escluso che possano
rientrarvi le ipotesi in cui la legge si limiti a prevedere che una certa
fattispecie “determina responsabilità erariale”, o espressioni simili. In
ipotesi di fattispecie direttamente sanzionate dalla legge, di cui sopra,
pur escludendosi la sanzione di nullità ex art. 17, cit., in quanto
l’attività istruttoria è legittimata direttamente dalla legge, restano fermi
i principi fissati dalla Corte costituzionale.
Ulteriore corollario di tale criterio interpretativo è che nell’ipotesi in
cui è la legge stessa a imporre un obbligo di comunicazione al PM contabile,
quest’ultimo resta abilitato a compiere accertamenti istruttori, tale
essendo la ratio di simili prescrizioni legislative, non superate dall’art.
17 medesimo””.
Orbene, con riguardo al caso di specie, la notitia damni è consistita nella
trasmissione alla Procura contabile, da parte della Sezione regionale di
Controllo per il Molise (destinataria per errore di comunicazione
proveniente dal Comune), della delibera consiliare n. 19 del 28/11/2013, con
la quale l'Ente ha riconosciuto un debito fuori bilancio a vantaggio del
suddetto dipendente, ai sensi dell'art. 194 del d.lgs. n. 167/2000.
Peraltro, il Comune ha trasmesso detta delibera di riconoscimento di debito
fuori bilancio in adempimento dell'obbligo previsto dall'art. 23, comma 5,
della legge n. 289/2002, ai sensi del quale "I provvedimenti di
riconoscimento di debito posti in essere dalle amministrazioni pubbliche di
cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165,
sono trasmessi agli organi di controllo ed alla competente Procura della
Corte dei conti" (e non già alla Sezione regionale di Controllo, n.d.r.).
Pertanto, trattandosi di ipotesi di adempimento di obbligo di comunicazione
specificamente previsto dalla legge, la Procura contabile deve ritenersi
legittimata, tanto più alla luce del menzionato orientamento del giudice
della nomofilachia contabile, a compiere accertamenti istruttori e quindi ad
esercitare, ove ne ricorrano i presupposti, l'azione di responsabilità
amministrativa per danno all'erario.
[3] Nel merito, ai fini della ricostruzione dell’elemento oggettivo
dell’illecito amministrativo-contabile contestato, occorre preliminarmente
riepilogare la successione dei fatti maggiormente rilevanti ai fini del
giudizio.
Innanzitutto, occorre evidenziare che il sig. Ma.To., assunto con
concorso pubblico come geometra part-time dall'01/01/1991 nella VI qualifica
funzionale, è stato individuato come responsabile del servizio “area tecnica
e gestione R.S.U. e tosap” già con delibera di Giunta comunale n. 129 del
30/10/1997.
Con successiva delibera di Giunta Comunale n. 79 del 24.09.1998, il geom.
To.Ma. è stato poi inquadrato, ai sensi di legge, nel VII livello
(oggi cat. D), con successivo riconoscimento della progressione cat. D3
dall'01/01/2001.
Dopo aver approvato il regolamento di organizzazione e funzionamento degli
Uffici e dei Servizi (Delibera di G.M. n. 12 del 02.02.1999), il Comune, con
delibera consiliare n. 23 del 18.07.1999, ha approvato uno schema di
convenzione per l'eventuale conferimento a personale esterno dell'incarico,
di durata annuale, di Responsabile dell'Ufficio Tecnico comunale, motivata
con la asserita situazione deficitaria dell'Ufficio (ritardi nei tempi di
risposta, anche in ragione del rapporto a tempo parziale del responsabile).
Quanto al ruolo svolto dal Sindaco A.P., nella delibera si legge
innanzitutto che questi “ha predisposto con l’esecutivo uno schema […]” di
deliberazione.
Inoltre, nell’ambito del dibattito consiliare, il consigliere Ro. faceva
“rilevare che il contenuto della convenzione è illegittimo perché privo dei
requisiti di legge che consentono l'eventuale attuazione della convenzione.
Si precisa inoltre che le motivazioni previste in detta convenzione sono
inadeguate ed insufficienti. Il servizio riguardante l'ufficio tecnico
comunale è svolto da un dipendente che ha i requisiti per svolgere in
maniera adeguata i compiti dell'ufficio stesso, avendone capacità
professionale e l'inquadramento del relativo livello.
Non risulta agli atti presenti in questo Consiglio Comunale, che ci sia
stata una adeguata ed efficace indagine da far apparire conveniente
l'attribuzione dell'incarico a persone esterne, né risulta agli atti
l'esserci stato un contatto con l'attuale responsabile dell'ufficio tecnico
finalizzato a risolvere eventualmente quello che si intende risolvere con
l'affidamento di che trattasi.
Precisa che a suo parere che le motivazioni addotte dal presidente non
giustificano l'irragionevole esborso di risorse per attuare la convenzione
medesima.
Preannuncia ed invita anche la minoranza a prendere tale posizione ad un
eventuale ricorso alle vie legali e presso gli organi tutori per far sì
l'eventuale provvedimento positivo non abbia seguito.
Fa rilevare che trattandosi di problemi che interessano il personale
proporrà in prima istanza opposizione al CO.RE.CO. Sez. di Isernia per poi
adire eventualmente anche gli uffici della Corte dei Conti”.
La delibera riporta altresì che, a fronte di dette perplessità (e di quelle
di un ulteriore consigliere comunale), il Sindaco ha preso la parola
sostenendo l’insussistenza di aggravi di spesa e la necessità di migliorare
l’andamento dell’ufficio tecnico.
A seguito di detta delibera consiliare, il CORECO di Isernia, con ordinanza
n. 648 adottata nella seduta del 26/08/1999, ha invitato il Consiglio
comunale di Pettoranello a procedere ad un riesame del deliberato ex art.
17, comma 39, della legge n. 127/1997, avendo rilevato i seguenti vizi di
legittimità:
- “manca il parere tecnico di cui all’art. 53 della legge n. 142/1990;
- la funzione che si intende affidare al tecnico esterno, come rilevasi
dallo schema di convenzione approvato, rientra tra i compiti istituzionali
del tecnico comunale il cui posto è presente e coperto in pianta organica”.
Tuttavia, il Consiglio comunale, con delibera n. 34 del 28/09/1999, ha
riapprovato la delibera n. 23/1999, senza apportare alcuna modifica.
Ancora una volta, dal testo della delibera si evince il ruolo dominante
assunto dal Sindaco A.P. (si parla di delibera assunta su “sua proposta”),
che, dinanzi all'assemblea e pur a fronte di un intervento di un consigliere
che evidenziava la mancata eliminazione dei vizi di legittimità evidenziati
dal Co.re.co, ha giustificato la mancanza del parere del responsabile
tecnico e ha ribadito la ritenuta assenza di aggravi economici per l’ente
(non sarebbe stato necessario, in tesi, neppure il parere di regolarità
contabile, essendo un mero atto di indirizzo).
Ad ogni modo, questa vicenda dell’adozione dello schema di delibera di
approvazione di convenzione di affidamento di incarico esterno, pur essendo
significativa al fine di ricostruire l’elemento soggettivo dell’illecito
contestato, non risulta aver avuto seguito concreto nell’immediato (sarà
solo successivamente presa a riferimento per gli incarichi esterni), in
quanto parecchi mesi dopo, a seguito della delibera di Giunta n. 25 del
31/03/2000 di individuazione delle aree e dei servizi, il Sindaco A. P. ha
adottato il decreto n. 930 del 03.04.2000, di nomina del geom. To.Ma. a responsabile dell'area tecnico-manutentiva.
Detto provvedimento sindacale di nomina, con efficacia “per tutta la durata
del mandato amministrativo, salvo revoca”, ha espressamente provveduto ad
assegnare al geom. To.Ma., quale dipendente di categoria D, la
responsabilità dell’area tecnica Tosap, opere pubbliche, urbanistica,
gestione del territorio, servizi tecnico-manutentivi del patrimonio e degli
impianti di pubblica illuminazione, rete idrica, fognante-depurazione, P.r.g. e strumenti attuativi, protezione civile, rifiuti urbani
(limitatamente al servizio di raccolta, smaltimento e predisposizione dei
ruoli) e responsabile unico dei LL.PP., assegnandogli le conseguenti risorse
umane, e riconoscendogli altresì la correlata retribuzione di posizione e di
risultato.
Tuttavia, a soli circa due mesi e mezzo dal conferimento, il Sindaco A.P.,
dopo aver contestato per iscritto in data 10/06/2000 al geom. To. ritenute
carenze dell'ufficio tecnico invitandolo a fornire risposta scritta in
merito entro giorni 15 (dette contestazioni sono state puntualmente e documentatamente confutate dall'interessato con comunicazione prot. n. 1825
del 27/06/2000), ha adottato (addirittura prima della scadenza dei 15 giorni
assegnati per la difesa dalle contestazioni) un ulteriore decreto sindacale
ma di revoca, il n. 1792 del 23.06.2000, in quanto il nominato "non
svolge con puntualità gli incarichi che la Giunta comunale e lo scrivente
gli conferiscono".
In proposito, pare appena il caso di evidenziare la patente contrarietà alla
normativa pro tempore vigente del menzionato provvedimento di revoca, come
peraltro già incidentalmente accertato dalla menzionata sentenza del
Tribunale di Isernia.
In particolare, l’art. 51 comma 6, della legge n. 142/1990, espressamente
delimitava il potere sindacale di revoca nei seguenti termini: gli incarichi
“sono revocati in caso di inosservanza delle direttive del Sindaco o del
Presidente della Provincia, della Giunta o dell'assessore di riferimento, o
in caso di mancato raggiungimento al termine di ciascun anno finanziario
degli obiettivi loro assegnati nel piano esecutivo di gestione previsto
dall'articolo 11 del decreto legislativo 25.02.1995, n. 77, e
successive modificazioni, o per responsabilità particolarmente grave o
reiterata e negli altri casi disciplinati dall'articolo 20 del decreto
legislativo 03.02.1993, n. 29, e dai contratti collettivi di lavoro”.
Ancora più puntualmente, il CCNL pro tempore vigente, all’articolo 9, commi
3 e seguenti, delimitava il potere di revoca degli incarichi nei seguenti
termini: “3. Gli incarichi possono essere revocati prima della scadenza con
atto scritto e motivato, in relazione a intervenuti mutamenti organizzativi
o in conseguenza di specifico accertamento di risultati negativi. 4. I
risultati delle attività svolte dai dipendenti cui siano stati attribuiti
gli incarichi di cui al presente articolo sono soggetti a valutazione
annuale in base a criteri e procedure predeterminati dall’ente. La
valutazione positiva dà anche titolo alla corresponsione della retribuzione
di risultato di cui all’art. 10, comma 3. Gli enti, prima di procedere alla
definitiva formalizzazione di una valutazione non positiva, acquisiscono in
contraddittorio, le valutazioni del dipendente interessato anche assistito
dalla organizzazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da
persona di sua fiducia; la stessa procedura di contraddittorio vale anche
per la revoca anticipata dell’incarico di cui al comma 3”.
Peraltro, successivamente a detta revoca, evidentemente adottata in difetto
degli stringenti presupposti previsti dalla disciplina pro tempore vigente,
la Giunta comunale ha provveduto, pur avendo l’Ente a disposizione le
competenze del geom. Ma.To., a conferire i seguenti incarichi
esterni per la copertura del posto di responsabile dell’area tecnica
(dapprima affidato per breve tempo al Segretario comunale, fatto estraneo
alle contestazioni attoree):
1) Ing. Ma. De Vi.: d.g.m. n. 64 del 30.06.2000 per il periodo 01.07.2000-30.6.2001 e n. 90 del 29.06.2001 per il periodo
01.07.2001-30.6.2002,
per un compenso complessivo erogato pari a € 10.006,82;
2) Ing. Ar.Mi.: d.g.m. n. 20 del 15.02.2002 per il periodo
15.02.2002-15.05.2002, d.g.m. n. 72 del 10.05.2002 per il periodo
16.05.2002-15.06.2002, d.g.m. n. 97 del 21.06.2002 per il periodo
16.06.2002-30.08.2002, d.g.m. n. 125 del 27.08.2002 per il periodo 01.09.2002-31.10.2002, d.g.m. n. 168 del 31.10.2002 per il periodo
01.11.2002-31.12.2002, d.g.m. n. 195 del 21.12.2002 per il periodo
01.01.2003-30.06.2003, d.g.m. n. 85 del 17.06.2003 per il periodo
01.07.2003-31.12.2003 per un
compenso complessivo erogato pari a € 8.330,32;
3) Arch. Mi.D'Am.: d.g.m. n. 112 del 31.07.2003 per il periodo
01.08.2003-30.11.2003 per un compenso complessivo erogato pari a € 2.633,93;
4) Ing. Fr.La.: d.g.m. n. 163 dell'11.11.2003 per il periodo
13.11.2003-13.02.2004, d.g.m. n. 67 del 29.04.2004 per il periodo
13.03.2004-13.05.2004 per un compenso complessivo erogato pari a € 8.901,46.
In particolare, si osserva che nella prima delibera giuntale di conferimento
di incarico esterno, poi reiterata, si motiva l’adozione del provvedimento
con l’urgenza determinatasi “a causa della revoca” disposta dal Sindaco, non
si riscontra il parere di regolarità tecnica (viene riportato esclusivamente
il parere di regolarità contabile) e si prende a modello di conferimento lo
schema di convenzione già approvato con delibera consiliare n. 23/1999.
Come evidenziato dalla menzionata sentenza del Tribunale di Isernia, il
Testo Unico per gli Enti Locali (d.lgs. n. 267/2000; per il primo incarichi
si veda l’art. 51 della legge n. 142/1990 nel testo pro tempore vigente, poi
confluito nel T.U.) consente l’affidamento all’esterno di incarichi
dirigenziali (art. 110, comma 1), solo previa previsione statutaria, ed
inoltre condiziona in ogni caso l’affidamento di incarichi di responsabilità
fuori dotazione organica alla “assenza di professionalità analoghe presenti
nell’ente”.
Peraltro, detto limite della “assenza di professionalità analoghe presenti
all’interno dell’Ente” è stato ribadito dall’art. 39 dello Statuto dell’ente
approvato con deliberazione C.C. n. 16 del 05/04/2001 ed anche successivamente
dall’art. 35 del regolamento uffici e servizi (senza distinzione tra
incarichi ricompresi e non ricompresi nella dotazione organica) approvato
con delibera di Giunta n. 138/2012, provvedimento che ha altresì determinato
la nuova dotazione organica prevedendo, accanto ad un posto di istruttore
direttivo D/1, un posto di responsabile del servizio D/3 (qualifica peraltro
posseduta anche dal geom. To. a decorrere dal 01.01.2001; sulla
unitarietà/inscindibilità, economica e giuridica, delle diverse posizioni
nell’ambito della categoria D, si veda, ex pluribus, Cass. sent. n.
24356/2017).
Pertanto, ferma rimanendo la contrarietà a legge della suddetta revoca di
incarico, anche la sequenza di incarichi esterni affidati dall’ente risulta
in contrasto con le riferite disposizioni normative.
A seguito delle suddette condotte contra ius, il Tribunale di Isernia, con
la richiamata sentenza n. 285/2012, in parziale accoglimento della domanda
del geom. To., ha condannato il Comune di Pettoranello del Molise a
corrispondere al dipendente l’indennità di retribuzione e l’indennità di
risultato nella misura indicata nel decreto del Sindaco n. 930 del 03/04/2000,
dalla data dell’01/02/2001 all’01/06/2004, oltre interessi legali.
L’importo è stato poi rideterminato a seguito di transazione stipulata tra
le parti in data 20/11/2013 (conclusa nonostante il Comune avesse già
proposto appello, in contrasto con la valutazione del suo stesso difensore,
avverso detta sentenza del Tribunale di Isernia), concordando l'importo da
riconoscere al sig. To. in euro 35.350,00 omnicomprensivi, da rateizzare in
tre esercizi finanziari.
In particolare, la Procura ha documentato l’effettivo pagamento di detto
importo, costituente danno erariale, secondo le modalità di seguito
riportate e per un totale di euro 34.624,13:
- per la annualità 2013 a € 11.333,15, pagati il 19.12.2013 su mandati n. 829
(€ 7.030,00), n. 830 (€ 1.865,60), n. 831 (€ 597,55) e n. 832 (€ 1.840,00) del
12.12.2013;
- per la annualità 2014 a € 11.490,98, pagati su mandati n. 703 (€ 1.673,03
pagato il 22.12.2014), n. 705 (€ 597,51 pagato il 22.12.2014), n. 706
(€ 2.190,88 pagato il 17.12.2014 del 2.12.2014, n. 787 del 17.12.2014 (€
7.029,56 pagato il 18.12.2014);
- per la annualità 2015 a € 11.800,00 (acconto di € 8.939,70, come da cedolino di febbraio 2016).
A detto ammontare corrisposto dal Comune al sig. To., la Procura ha
ritenuto di dover assommare, ai fini della quantificazione del danno
erariale, l’importo di euro 3.000,00 liquidato dal Comune con determina del
responsabile del settore finanziario (mandati del 15/02/2013 n. 96 di
€ 2.000,00 e n. 97 € 1.000,00) a vantaggio dell’avv. Co. per la difesa
dinanzi al Tribunale di Isernia, nonché l’importo di euro 345,50 a titolo di
contributo unificato per il deposito del ricorso di appello avverso la più
volte menzionata sentenza del Tribunale di Isernia, per un importo totale
del danno contestato di euro 37.969,63 (euro 34.624,13 + euro 3.000,00 +
euro 345,50).
In proposito, sul terreno della ricostruzione del nesso di causalità, non
può che osservarsi, innanzitutto, che il richiamato danno all'erario risulta
causalmente collegato alla riferita condotta contra ius posta in essere dal
convenuto; infatti ove dette condotte non fossero state poste in essere
(procedimento di c.d. eliminazione mentale) evidentemente non si sarebbe
avuta una sentenza di condanna del Comune (e la transazione, pure posta in
essere successivamente alla scadenza del mandato sindacale del convenuto) e
dunque gli esborsi in questione (in assenza delle specifiche prestazioni
direttive del geom. To.) non si sarebbero realizzati.
Nel contempo, richiamando nozioni generali relative all'illecito colposo,
non può che convenirsi che l'evento dannoso si presenta ictu oculi come
conseguenza prevedibile della lesione del bene giuridico tutelato dalla
norma violata, essendo ovviamente preventivabile l'instaurazione di un
contenzioso (e la probabile condanna dell'Ente) a seguito di provvedimento
illegittimo di revoca di assegnazione di funzioni di responsabile di un
servizio.
Né tanto meno può fondatamente sostenersi che l'intervenuta successiva
transazione (o anche la delibera di riconoscimento di debito fuori
bilancio), in quando adottate da soggetti diversi dal convenuto, abbiano
prodotto l'interruzione del nesso di causalità, tenuto conto che dette
condotte non costituiscono affatto comportamento da solo sufficiente a
determinare l'evento (cfr. art. 41 c.p.) ed anzi non hanno neppure
comportato un mero incremento del danno all'erario conseguente alla condotta
contra ius dell'Ente (e alla correlata condanna patita dal Comune dinanzi al
G.O.).
Tuttavia, ritiene il Collegio che non possa esser ascritto alla condotta del
convenuto l’esborso relativo al contributo unificato per il ricorso in
appello, considerato (non tanto che la decisione di esperire il gravame è
stata assunta da soggetti diversi dal convenuto, ma) che questa è stata
presa nonostante parere contrario del legale incaricato, il quale, con
comunicazione datata 18.03.2013, ha fatto presente all’amministrazione pro tempore in carica che “stante l'accoglimento parziale della domanda attorea, adeguatamente motivata in sentenza, allo stato è opportuno valutare
la ipotesi di non proporre appello principale avverso la predetta Sentenza”.
Pertanto, il danno eziologicamente riconducibile alla condotta del
convenuto, ammonta, ad avviso del Collegio, ad euro 37.624,13.
[4] Quanto all’elemento soggettivo dell’illecito, dall’esame degli atti
emerge, ictu oculi, la gravità della colpa ascrivibile al convenuto.
Invero, l’evidenza del dato normativo relativo al conferimento e alla revoca
di incarichi dirigenziali, insieme con la descritta successione di atti,
evidenzia la grave colpa del Sindaco innanzitutto nell’adozione del decreto
di revoca n. 1792 del 23/06/2000, assunto in carenza dei presupposti di
legge, dopo soli due mesi e mezzo dal provvedimento di conferimento delle
medesime funzioni, adottato dallo stesso Sindaco, nonché addirittura prima
della scadenza del termine assegnato dallo stesso primo cittadino al geom.
To. per la difesa dalle suddette contestazioni.
Peraltro, la gravità del comportamento colposo del convenuto riceve conferma
e rafforzamento anche alla luce della coordinata vicenda relativa
all’intervento del CORECO, e, comunque, al ruolo svolto dal Sindaco nei
consigli comunali in questione, vicenda che evidenzia la piena
consapevolezza (c.d. colpa cosciente) del sig. A.P. in ordine alla
illegittimità dell’affidamento all’esterno degli incarichi in questione,
avendo l’ente a disposizione la professionalità del geom. To..
[5] Quanto alla richiesta applicazione del potere riduttivo, ritiene il
Collegio di potere addivenire ad una sostanziale decurtazione dell'importo
di condanna ex art. 1, comma 1-bis, della legge n. 20/1994 (e già ex art. 52
del T.U. approvato con R.D. n. 1214/1934, art. 83 del R.D. n. 2440/1923 e
art. 19 del D.P.R. n. 3/1957), tenuto conto della circostanza che, ferma
rimanendo la centralità eziologica della determinazione di revoca, la
convenzione tipo per l'attribuzione dei futuri possibili incarichi esterni è
stata adottata dal consiglio comunale (pur con il ruolo dominante del
Sindaco A.P.) e che gli incarichi esterni sono stati attribuiti dalla
Giunta comunale (pur presieduta dal Sindaco A.P.).
Pertanto, alla luce del complesso delle riferite argomentazioni
giuridico-fattuali, il Collegio, seppure in parziale difformità rispetto al
quantum del danno risarcendo richiesto dall'Organo requirente, ritiene di
dover accogliere la domanda attorea con conseguente condanna del convenuto a
risarcire, a beneficio del Comune di Pettoranello di Molise (IS), il danno
all'erario prodotto nella misura complessiva di euro 25.000,00 (comprensiva
di rivalutazione monetaria sino alla data del deposito della presente
sentenza), oltre interessi come per legge.
[6] Il regime giuridico delle spese di giudizio resta influenzato dal
principio della soccombenza (art. 31 c.g.c.). Esse vengono liquidate, in
favore dello Stato, con nota a margine del funzionario di segreteria.
P.Q.M.
La Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale per il Molise, disattesa ogni
contraria istanza, deduzione od eccezione, definitivamente pronunciando,
accoglie parzialmente la domanda attorea e per l'effetto condanna il sig.
Pa.An. al risarcimento, a vantaggio del Comune di Pettoranello di Molise,
del danno di euro 25.000,00 comprensivi di rivalutazione monetaria, oltre
interessi dalla data di deposito della sentenza e sino all'effettivo
pagamento (Corte dei Conti, Sez.
giurisdiz. Molise,
sentenza 24.09.2018 n.
59). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Deleghe
ai consiglieri.
Sintesi/Massima
E’ ammissibile la disciplina di deleghe interorganiche
ai consiglieri comunali da parte del Sindaco, purché il contenuto delle
stesse sia coerente con la funzione istituzionale dell'organo cui si
riferisce.
Occorre considerare, quale criterio generale, che il consigliere può essere
incaricato di studi su determinate materie, di compiti di collaborazione
circoscritti all'esame e alla cura di situazioni particolari, che non
implichino la possibilità di assumere atti a rilevanza esterna, né, infine,
di adottare atti di gestione spettanti agli organi burocratici.
Resta ferma l'inderogabilità sostanziale del limite numerico di componenti
della Giunta imposto dall’art. 1, comma 135, della legge n. 56/2014 e
dell’art. 1, comma 185, della legge 23.12.2009, n. 191, modificato dall’art.
1 comma 1-bis del d.l. n. 2/2010, convertito in legge n. 42/2010.
Testo
Un consigliere comunale ha segnalato l’attribuzione di deleghe, con potere
di firma su atti a rilevanza esterna, ad alcuni consiglieri comunali da
parte del Sindaco.
Al riguardo, fatte salve le iniziative che verranno assunte da codesta
Prefettura al fine di verificare la natura delle deleghe in parola (alla
luce anche dell’art. 57 dello Statuto comunale che consente invece
l’affidamento di incarichi ai consiglieri da parte del sindaco) si osserva
che nell'ambito dell'autonomia statutaria dell'ente locale, sancita
dall'art. 6 del decreto legislativo n. 267/2000, è ammissibile la disciplina di
deleghe interorganiche, purché il contenuto delle stesse sia coerente con la
funzione istituzionale dell'organo cui si riferisce.
Occorre considerare, quale criterio generale, che il consigliere può essere
incaricato di studi su determinate materie, di compiti di collaborazione
circoscritti all'esame e alla cura di situazioni particolari, che non
implichino la possibilità di assumere atti a rilevanza esterna, né, infine,
di adottare atti di gestione spettanti agli organi burocratici.
Il consigliere, infatti, svolge la sua attività istituzionale in qualità di
componente di un organo collegiale quale il consiglio che è destinatario dei
compiti individuati e prescritti dalle leggi e dallo statuto.
Nella specie, peraltro, le funzioni del sindaco sono quelle dettate dall’art. 50
e dall’art. 54 del citato decreto legislativo n. 267/2000.
Alcune di tali funzioni possono essere delegabili in virtù delle stesse
previsioni normative (in particolare, le funzioni svolte dal sindaco ex art. 54
nella sua attività di Ufficiale di Governo e quelle di cui all'art. 31 del
citato Testo Unico, che consente al sindaco di trasferire proprie
attribuzioni in caso di partecipazione alle assemblee consortili).
In ogni caso, occorre prestare particolare attenzione alla inderogabilità
sostanziale del limite numerico di componenti della Giunta imposto dall’art. 1,
comma 135, della legge n. 56/2014 e dell’art. 1, comma 185, della legge
23.12.2009, n. 191, modificato dall’art. 1, comma 1-bis, del d.l. n. 2/2010,
convertito in legge n. 42/2010 (24.09.2018
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CONSIGLIERI COMUNALI: Commissioni
consiliari permanenti.
Sintesi/Massima
Le commissioni consiliari permanenti devono rispecchiare
in modo proporzionale i gruppi presenti in consiglio, pertanto, in caso di
intervenuti mutamenti nella composizione dei gruppi, il consiglio dovrà
procedere, con propria deliberazione, ad un riequilibrio complessivo delle
commissioni consiliari permanenti al fine di garantire il rispetto del
criterio proporzionale previsto dall’art. 38, comma 6, del decreto
legislativo n. 267/2000.
Testo
E' stato posto un quesito in materia di commissioni consiliari permanenti.
In particolare è stato rappresentato che cinque consiglieri di maggioranza
sono passati all’opposizione e quattro consiglieri di minoranza sono
transitati nel gruppo di maggioranza. Ciò posto, si chiede se sia necessario
provvedere ad un riequilibrio generale delle commissioni consiliari
permanenti originariamente costituite al fine di rispettare il criterio
proporzionale previsto ai sensi dell’art. 38, comma 6, del decreto
legislativo n. 267/2000.
Il caso prospettato si inquadra nell’ambito dei possibili mutamenti che
possono sopravvenire all’interno delle forze politiche presenti in consiglio
comunale per effetto di dissociazioni dall’originario gruppo di
appartenenza, comportanti la costituzione di nuovi gruppi consiliari ovvero
l’adesione a diversi gruppi esistenti.
Va da sé che i mutamenti in parola modificano i rapporti tra le forze
politiche presenti in consiglio, incidendo sul numero dei gruppi ovvero
sulla consistenza numerica degli stessi, e ciò non può non influire sulla
composizione delle commissioni consiliari che deve, pertanto, adeguarsi ai
nuovi assetti.
Lo statuto del comune in oggetto prevede all’art. 16 la costituzione delle
commissioni consiliari permanenti demandandone la composizione al
regolamento del consiglio comunale, nel rispetto del criterio proporzionale
fra maggioranza e minoranze. Ai sensi dell’art. 11, comma 2, del regolamento
è previsto che ciascuna commissione sia composta da cinque consiglieri
comunali, eletti con voto limitato dal consiglio comunale, di cui due
appartenenti al gruppo di minoranza.
Pertanto si condividono le osservazioni con le quali codesta Prefettura ha
rappresentato la necessità che il comune proceda, con deliberazione di
consiglio, ad un riequilibrio complessivo delle commissioni consiliari
permanenti al fine di garantire il rispetto del criterio proporzionale
previsto dall’art. 38, comma 6, citato (24.09.2018
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CONSIGLIERI COMUNALI: Diritto
dei consiglieri comunali ex art. 43, comma 2, TUOEL ad accedere agli atti
relativi ai servizi erogati dal Piano Sociale di Zona.
Sintesi/Massima
Nell’ipotesi in cui gli Uffici comunali non dispongano
degli atti richiesti dal consigliere comunale nell'esercizio del diritto di
accesso che riguardano, nella specie, una associazione in ambiti
territoriali tra comuni come prevista, tra l’altro, dalla legge regionale -a
cui il Comune contribuisce mediante finanziamenti a valere sui propri
bilanci- che si avvale dell'Ufficio di Piano individuato quale struttura
tecnica di supporto per la realizzazione del piano di zona, in carenza di
specifiche disposizioni in merito che deleghino la struttura affidataria del
servizio, sarà tale ultimo soggetto a corrispondere al consigliere comunale
gli atti richiesti, nei tempi previsti.
Testo
E’ stato formulato un quesito in materia di accesso agli atti da parte dei
consiglieri comunali. In particolare, è stato chiesto quale sia la corretta
modalità di esercizio del diritto di accesso nell’ipotesi i cui gli Uffici
comunali non dispongano degli atti richiesti e che, dunque, abbiano
necessità di reperire i dati e le informazioni presso altro soggetto
competente per la gestione del servizio.
Al riguardo, come anche osservato da codesta Prefettura, al consigliere
comunale è riconosciuto dalle vigenti disposizioni (art. 43, comma 2, del
decreto legislativo n. 267/2000) il diritto di ottenere dagli uffici del
comune, nonché dalle proprie aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e
le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio
mandato.
Il comune con l’articolo 38 dello Statuto ha ribadito sostanzialmente il
diritto in parola, "nel rispetto delle modalità prefissate dall’art. 43 del
TUEL".
Il regolamento per il diritto di accesso adottato dal Comune contiene
disposizioni di dettaglio nella materia, prevedendo all’articolo 8, comma 2,
che il diritto in parola si esercita presso gli uffici dell’amministrazione
comunale, nonché presso enti, istituzioni e altri enti gestori di servizi
pubblici locali. "Per notizie e informazioni si intendono dati già formati
ancorché non tradotti in atti o documenti amministrativi per i quali non sia
richiesta alcuna elaborazione fatta salva quella di mera raccolta".
L’articolo 9 del regolamento precisa, inoltre, che l'accesso agli atti e
documenti è effettuato presso il responsabile di servizio titolare o
individuato su richiesta formale.
Nel caso in esame il Piano Sociale di zona a cui la documentazione richiesta
farebbe riferimento, sembrerebbe corrispondere, sulla base delle indicazioni
rintracciabili nel portale internet, all'Ufficio di Piano individuato quale
struttura tecnica di supporto per la realizzazione del piano di zona
previsto dall’art. 23, comma 1, della legge regionale n. 11/2007.
La struttura in parola è in sostanza una associazione in ambiti territoriali
tra comuni come prevista, tra l’altro, dall’articolo 10 della citata legge
regionale n. 11/2007.
Premesso che il Comune in parola contribuisce al funzionamento
dell’Associazione mediante finanziamenti a valere sui propri bilanci, è
acclarato il diritto del consigliere comunale ad accedere agli atti del
Piano sociale di Zona.
Nella fattispecie, valendo l'esercizio sostanziale del diritto, qualora il
Comune non sia in possesso immediato degli atti richiesti, in carenza di
specifiche disposizioni in merito che deleghino la struttura affidataria del
servizio, sarà il Piano Sociale di Zona a corrispondere al consigliere
comunale gli atti richiesti, nei tempi previsti (24.09.2018
- link a http://dait.interno.gov.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Irregolarità
della convocazione del consiglio comunale.
Sintesi/Massima
Convocazione del consiglio. Eventuali vizi di
legittimità attinenti alla convocazione del consiglio. Il vigente
ordinamento, come noto, non prevede poteri di controllo di legittimità sugli
atti degli enti locali in capo a questa Amministrazione.
Gli eventuali vizi di legittimità degli atti adottati possono essere fatti
valere solo nelle competenti sedi amministrative ovvero giurisdizionali,
secondo le consuete regole vigenti in materia.
Testo
E' stata segnalata una problematica in ordine all’applicazione della
normativa sulla convocazione del consiglio comunale.
In particolare, un consigliere di opposizione ha lamentato vizi di
legittimità nella procedura seguita dall’ente per l’inoltro della notifica
dell’avviso di convocazione di una seduta consiliare, eccependone la
tardività.
Secondo l'esponente non sarebbe stata rispettata la disposizione recata
dall'art. 40, comma 2, del regolamento sul funzionamento del consiglio
comunale ai sensi del quale "per le adunanze straordinarie la consegna
dell’avviso deve avvenire almeno tre giorni liberi prima di quello stabilito
per la riunione".
Dall’esame della nota emerge che nel contesto della seduta tenutasi in data
31.12.2017, il gruppo di minoranza, dopo aver contestato il mancato rispetto
del citato art. 40, comma 2, ed aver posto la questione pregiudiziale, ha
abbandonato la seduta.
Ciò posto il consigliere ha chiesto a codesta prefettura di procedere
all'attivazione dei poteri sostitutivi e di provvedere, altresì,
all’annullamento della seduta consiliare tenutasi in data 31.12.2017.
Al riguardo si rappresenta che è lo stesso regolamento sul funzionamento del
consiglio comunale a chiarire che "l’eventuale omessa o ritardata consegna
dell’avviso di convocazione è sanata quando il consigliere interessato
partecipa all’adunanza del Consiglio alla quale era stato invitato" (cfr.
art. 40, comma 8).
In ogni caso, si rappresenta che il vigente ordinamento, come noto, non
prevede poteri di controllo di legittimità sugli atti degli enti locali in
capo a questa Amministrazione.
Gli eventuali vizi di legittimità degli atti adottati, pertanto, possono
essere fatti valere solo nelle competenti sedi amministrative ovvero
giurisdizionali, secondo le consuete regole vigenti in materia (24.09.2018
- link a http://dait.interno.gov.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - INCARICHI PROFESSIONALI - SEGRETARI COMUNALI: Non
sussiste la responsabilità erariale circa l'affidamento all'esterno
dell'ente dell'incarico di frazionamento catastale di una strada allorché
detto incarico risulti effettivamente non affidabile all’interno
dell’amministrazione per ragioni puntualmente esposte.
E’ opinione condivisa che la ratio dell’art. 7 del
D.L.gs. n. 165/2001 -il quale, al comma 4, prevede che le Amministrazioni
pubbliche curino la formazione e l’aggiornamento del personale e, al
successivo comma 6, regolamenta i limiti entro i quali le Amministrazioni
possono conferire incarichi esterni– sia quella di favorire l’efficienza
degli Enti pubblici, realizzando la migliore utilizzazione delle risorse
umane disponibili negli apparati amministrativi.
Giova, altresì, ricordare come la richiamata disciplina statale sia stata
oggetto, nel tempo, di numerosi interventi di modifica che hanno reso sempre
più stringenti tali limiti, al fine di prevenire danni all’Erario per spese
improduttive o per ingiustificate erogazioni di denaro pubblico.
Pertanto, in virtù di tale normativa, le Amministrazioni
pubbliche devono avvalersi, per lo svolgimento delle proprie funzioni, delle
risorse dell’apparato istituzionale, potendo derogare a tale regola
solamente nei casi di assoluta impossibilità di provvedere con il personale
dipendente ed a condizione che tale impossibilità risulti oggettivamente
accertata con procedure formali che ne diano motivatamente conto.
Tali prescrizioni, da rispettare obbligatoriamente
al fine di una corretta gestione del capitale umano all’interno della P.A.,
costituiscono altrettante regole di legittimità dell’azione amministrativa,
la cui inosservanza può essere oggetto di sindacato giurisdizionale da parte
del Giudice contabile sotto il profilo della ragionevolezza della scelta,
non configurandosi, al riguardo, il lamentato travalicamento del
limite al sindacato delle scelte discrezionali previsto dall’art. 1, comma
1, della L. n. 20/1994.
---------------
Reputa il Collegio, sulla base di una lettura letterale, logica e
sistematica, nonché costituzionalmente orientata (art. 97 Cost.) della
disciplina contenuta nella L.P. n. 26/1993, che le Amministrazioni Trentine,
nell’espletamento delle funzioni che loro competono, debbano avvalersi, in
via prioritaria, del personale tecnico al proprio servizio.
Infatti, l’art. 20 della L.P. n. 23/1996,
concernente l’affidamento degli incarichi di progettazione e di “altre
attività tecniche” (tra le quali rientra il frazionamento), nella
formulazione applicabile vigente ratione temporis, dispone che tali attività
devono essere svolte, anche parzialmente, dal personale dipendente
“compatibilmente con la quantità e la qualità di risorse professionali e
tecnologiche effettivamente disponibili presso ciascuna struttura”.
Inoltre la citata norma prevede (art. 20, comma 3)
che solo nel caso di interventi tecnici comportanti la “soluzione di
complesse questioni tecniche” o di “carenze anche temporanee di organico o
di competenze specifiche”, che devono essere “attestate motivatamente dai
dirigenti dei servizi”, gli Enti possono avvalersi di professionisti
esterni.
Tanto premesso con riguardo al quadro normativo di riferimento,
appare evidente come la richiamata disciplina preveda precisi limiti
all’esternalizzazione delle attività tecniche ed obblighi l’Amministrazione
a motivare congruamente gli affidamenti esterni, supportando la scelta con
una previa istruttoria, compiuta dal settore competente, in ordine alle
oggettive carenze di organico, strumentali o alle altre specifiche ragioni
che, per legge, possono giustificare la scelta di gravare l’Amministrazione
di un costo aggiuntivo per svolgere un’attività rientrante nei compiti di
ufficio.
Deve, altresì, rilevarsi come la giurisprudenza contabile
abbia, in più occasioni, rimarcato che le lacune procedurali che inficiano
gli atti di conferimento di funzioni dell’Ente a soggetti esterni alla P.A.,
rilevabili per il tramite della motivazione del provvedimento -allorché il
Legislatore ponga agli amministratori pubblici determinati vincoli di spesa,
ritenendo implicitamente non utili tutte quelle spese che non rispettino i
limiti da esso posti- non rappresentano meri vizi con incidenza circoscritta
alla sfera di legittimità del provvedimento, ma rendono ingiustificata e,
perciò, tendenzialmente dannosa la stessa erogazione di denaro pubblico.
Ciò posto, osserva il Collegio come la delibera di giunta
municipale n. 44/2016 abbia motivato l’affidamento dell’incarico esterno di
frazionamento, in ciò confortata dal parere favorevole di regolarità
tecnico-amministrativa del responsabile del Settore, con riguardo ad una
carenza tecnologica dell’Ufficio Tecnico Comunale (sprovvisto della stazione
GPS satellitare) in base, quindi, ad una delle ipotesi astrattamente
consentite dalla citata normativa provinciale per l’esternalizzazione del
servizio tecnico.
In relazione alle esposte circostanze non può, pertanto,
ravvedersi in capo ai convenuti una condotta posta in essere in violazione
degli obblighi di servizio o gravemente colpevole.
---------------
2.1 La fattispecie di responsabilità amministrativa sottoposta
all’attenzione del Collegio riguarda un incarico tecnico esterno affidato,
secondo la tesi attorea, in violazione dei principi di cui all’art. 7, c. 6,
del D.lgs. n. 165/2001.
In particolare il Requirente, nella domanda formulata in via principale, ha
contestato ai convenuti –nelle qualità di componenti della Giunta comunale
che ha adottato la delibera di conferimento dell’incarico (n. 44/2016) e di
Segretario che ne ha avallato la legittimità– di aver cagionato il danno
erariale di euro 2.325,71, pari alla spesa sostenuta dal Comune di Cavalese
in relazione all’affidamento in favore di un geometra esterno dell’attività
di frazionamento (inerente una strada) che avrebbe dovuto essere svolta dal
personale assegnato all’U.T.C..
Parte attrice, “solo in via meramente secondaria”, ha riferito il
contestato danno anche alla violazione delle regole sulla concorrenza,
essendo stato l’incarico affidato a trattativa privata senza un previo
confronto concorrenziale.
Avuto riguardo alla contestazione attorea principale, i difensori dei
convenuti hanno affermato la conformità della delibera di Giunta comunale
alla disciplina provinciale, in quanto al momento dell’adozione del
provvedimento sussisteva un oggettivo deficit strumentale nell’ambito
dell’Ufficio Tecnico Comunale, tale da giustificare la ragionevole scelta di
esternalizzare il servizio, a fronte anche di un ingente spesa, all’incirca
di 20.000,00 euro, necessaria per acquistare la particolare apparecchiatura
GPS satellitare.
In relazione alla domanda risarcitoria subordinata, le stesse difese hanno
poi osservato che la modalità di affidamento senza gara non contrasta con la
disciplina provinciale e che la Procura, in ogni caso, non ha provato la
sussistenza di un effettivo danno da concorrenza, in un contesto nel quale
il professionista incaricato risulta aver operato una riduzione dei compensi
rispetto alle previsioni della Tariffa professionale.
2.2 Così sintetizzate le posizioni delle parti, giova ricordare che la
normativa di cui al decreto legislativo n. 165/2001 (recante “Norme
generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni
pubbliche”), nel quale è inserita la disposizione di cui all’art. 7,
comma 6, richiamata dalla Procura Regionale, rappresenta per le Regioni a
Statuto speciale e per le Province Autonome di Trento e di Bolzano una
disciplina con “valenza di norme fondamentali di riforma economico
sociale” (art. 1, comma 3, D.Lgs. n. 165/2001), con la quale il
Legislatore statale ha inteso regolamentare l’organizzazione degli uffici e
i rapporti di lavoro e di impiego alle dipendenze delle amministrazioni
pubbliche “tenuto conto delle Autonomie locali e di quelle delle Regioni
e delle Province Autonome, nel rispetto dell’art. 97 comma primo della
Costituzione”.
E’ opinione condivisa che la ratio dell’art. 7 del
D.L.gs. n. 165/2001 -il quale, al comma 4, prevede che le Amministrazioni
pubbliche curino la formazione e l’aggiornamento del personale e, al
successivo comma 6, regolamenta i limiti entro i quali le Amministrazioni
possono conferire incarichi esterni– sia quella di favorire l’efficienza
degli Enti pubblici, realizzando la migliore utilizzazione delle risorse
umane disponibili negli apparati amministrativi.
Giova, altresì, ricordare come la richiamata disciplina statale sia stata
oggetto, nel tempo, di numerosi interventi di modifica che hanno reso sempre
più stringenti tali limiti, al fine di prevenire danni all’Erario per spese
improduttive o per ingiustificate erogazioni di denaro pubblico. Pertanto,
in virtù di tale normativa, le Amministrazioni pubbliche
devono avvalersi, per lo svolgimento delle proprie funzioni, delle risorse
dell’apparato istituzionale, potendo derogare a tale regola solamente nei
casi di assoluta impossibilità di provvedere con il personale dipendente ed
a condizione che tale impossibilità risulti oggettivamente accertata con
procedure formali che ne diano motivatamente conto
(cfr. ex multis, Corte conti, Sezione Seconda Giurisdizionale
Centrale d’Appello n. 291/2012, id. n. 333/2014).
Tali prescrizioni, da rispettare obbligatoriamente al fine
di una corretta gestione del capitale umano all’interno della P.A.,
costituiscono altrettante regole di legittimità dell’azione amministrativa,
la cui inosservanza può essere oggetto di sindacato giurisdizionale da parte
del Giudice contabile sotto il profilo della ragionevolezza della scelta
(cfr. Cass., Sez. un., n. 1378/2006; id. n. 7924/2006; id. n. 4283/2013; id.
n. 22228/2016; Corte conti, Sezione di Appello per la Sicilia n. 198/2015;
id. Sezione Terza Centrale d’Appello n. 430/2017), non
configurandosi, al riguardo, il lamentato travalicamento del limite al
sindacato delle scelte discrezionali previsto dall’art. 1, comma 1, della L.
n. 20/1994.
2.3 Per quanto riguarda la Provincia Autonoma di Trento va, innanzitutto,
rilevato che la generale materia degli incarichi di studio, ricerca,
consulenza e collaborazione è disciplinata dal Capo I-bis, della L.P. n.
23/1990 (recante “Disciplina dell’attività contrattuale e
dell’amministrazione dei beni della Provincia”).
In particolare, l’art. 39-quater della citata legge dopo aver disposto, al
primo comma, che le disposizioni del Capo I-bis disciplinano l’affidamento
di incarichi retribuiti a soggetti esterni, finalizzati all’acquisizione di
apporti professionali per il miglior perseguimento dei fini istituzionali
dell’Amministrazione, ne esclude espressamente l’applicazione per taluni
incarichi –quali, ad esempio, quelli della rappresentanza in giudizio e del
patrocinio dell’Amministrazione– con la previsione, al quinto comma, che “rimane
fermo quanto previsto dalle leggi provinciali per l’affidamento di incarichi
per l’esercizio di pubbliche funzioni o per incarichi di pubblico servizio,
per l’esecuzione dei lavori pubblici (…)”.
Con riferimento alla specifica materia dei lavori pubblici viene, pertanto,
in rilievo anche la disciplina di settore, richiamata dalle difese dei
convenuti, di cui alla legge provinciale n. 26/1993, recante “Norme in
materia di lavori pubblici di interesse provinciale e per la trasparenza
negli appalti”, come modificata dalla L.P. n. 10/2008.
Sotto il profilo ordinamentale, appare di interesse osservare come la citata
normativa provinciale sia stata oggetto di vaglio da parte della Corte
Costituzionale.
In particolare, la Consulta, nella sentenza n. 45/2010 (dal contenuto
parzialmente caducatorio), ha ricordato che l’art. 8, primo comma, n. 17 del
D.P.R. n. 670/1972 (Statuto speciale) attribuisce alla Provincia autonoma di
Trento una competenza legislativa primaria in alcune materie specificamente
enumerate, tra le quali rientra quella dei lavori pubblici di interesse
provinciale.
Nell’ambito di tale decisione, il Giudice delle leggi ha osservato che tale
potestà legislativa primaria si esplica nei limiti previsti dall’art. 4
dello Statuto e, quindi, in armonia con la Costituzione ed i principi
dell’Ordinamento giuridico della Repubblica, con il rispetto degli obblighi
internazionali, degli interessi nazionali nonché delle norme fondamentali
delle riforme economico-sociali della Repubblica (i ricordati limiti sono
stati richiamati anche nella sentenza n. 187/2013 riguardante la L.P. n.
26/1993 e nella recente decisione n. 191/2017 concernente la materia delle
misure di contenimento della spesa pubblica).
Ciò premesso, reputa il Collegio, sulla base di una lettura
letterale, logica e sistematica, nonché costituzionalmente orientata (art.
97 Cost.) della disciplina contenuta nella L.P. n. 26/1993, che le
Amministrazioni Trentine, nell’espletamento delle funzioni che loro
competono, debbano avvalersi, in via prioritaria, del personale tecnico al
proprio servizio.
Infatti, l’art. 20 della L.P. n. 23/1996, concernente
l’affidamento degli incarichi di progettazione e di “altre attività
tecniche” (tra le quali rientra il frazionamento), nella formulazione
applicabile vigente ratione temporis, dispone che tali attività
devono essere svolte, anche parzialmente, dal personale dipendente “compatibilmente
con la quantità e la qualità di risorse professionali e tecnologiche
effettivamente disponibili presso ciascuna struttura”.
Inoltre la citata norma prevede (art. 20, comma 3) che solo
nel caso di interventi tecnici comportanti la “soluzione di complesse
questioni tecniche” o di “carenze anche temporanee di organico o di
competenze specifiche”, che devono essere “attestate motivatamente
dai dirigenti dei servizi”, gli Enti possono avvalersi di professionisti
esterni.
2.4 Tanto premesso con riguardo al quadro normativo di riferimento,
appare evidente come la richiamata disciplina preveda precisi limiti
all’esternalizzazione delle attività tecniche ed obblighi l’Amministrazione
a motivare congruamente gli affidamenti esterni, supportando la scelta con
una previa istruttoria, compiuta dal settore competente, in ordine alle
oggettive carenze di organico, strumentali o alle altre specifiche ragioni
che, per legge, possono giustificare la scelta di gravare l’Amministrazione
di un costo aggiuntivo per svolgere un’attività rientrante nei compiti di
ufficio.
Deve, altresì, rilevarsi come la giurisprudenza contabile
abbia, in più occasioni, rimarcato che le lacune procedurali che inficiano
gli atti di conferimento di funzioni dell’Ente a soggetti esterni alla P.A.,
rilevabili per il tramite della motivazione del provvedimento -allorché il
Legislatore ponga agli amministratori pubblici determinati vincoli di spesa,
ritenendo implicitamente non utili tutte quelle spese che non rispettino i
limiti da esso posti- non rappresentano meri vizi con incidenza circoscritta
alla sfera di legittimità del provvedimento, ma rendono ingiustificata e,
perciò, tendenzialmente dannosa la stessa erogazione di denaro pubblico
(Corte conti, Sezione Prima Centrale di Appello n. 224/2017; id. Sezione
Appello Sicilia n. 48/2017).
Ciò posto, osserva il Collegio come la delibera di giunta
municipale n. 44/2016 abbia motivato l’affidamento dell’incarico esterno di
frazionamento, in ciò confortata dal parere favorevole di regolarità
tecnico-amministrativa del responsabile del Settore, con riguardo ad una
carenza tecnologica dell’Ufficio Tecnico Comunale (sprovvisto della stazione
GPS satellitare) in base, quindi, ad una delle ipotesi astrattamente
consentite dalla citata normativa provinciale per l’esternalizzazione del
servizio tecnico.
In relazione alle esposte circostanze non può, pertanto,
ravvedersi in capo ai convenuti una condotta posta in essere in violazione
degli obblighi di servizio o gravemente colpevole.
Né ritiene il Collegio che le evidenze processuali dimostrino che i
componenti della Giunta comunale ed il Segretario abbiano mantenuto in un
voluto stato di inefficienza organizzativa l’Ufficio Tecnico comunale,
secondo quanto affermato dal Pubblico Ministero, non provvedendo
all’ordinaria strumentazione di un Ufficio Tecnico di rilevanti dimensioni “in
concorso con il responsabile dell’Ufficio Tecnico” al fine di “compiacere
la volontà di favorire professionisti esterni”.
Si osserva, in proposito, come la reiterazione degli incarichi nel biennio
2015/2016, enfatizzata dal Requirente, non sia di per sé sufficiente a
provare il prospettato “concorso” illecito per favorire soggetti
terzi.
Per quanto già evidenziato, deve ritenersi che all’atto dell’assunzione
della delibera n. 44/2016, l’Ufficio Tecnico del Comune di Cavalese non
fosse, oggettivamente, nelle condizioni di effettuare l’attività di
frazionamento della strada non possedendo la necessaria strumentazione.
Inoltre, le difese hanno provato –depositando il preventivo di una ditta
specializzata– che tale strumentazione aveva un costo particolarmente
elevato, di molto superiore a quanto corrisposto al professionista esterno
per effettuare il necessario singolo frazionamento e tanto consente di
escludere, in assenza di prova contraria da parte della Procura, che la
scelta di esternalizzare l’incarico possa configurarsi come irragionevole e,
in definitiva, dannosa per l’Ente.
Ciò posto, deve essere respinta la domanda risarcitoria formulata in via
principale da parte attrice, con riguardo alla violazione della normativa in
materia di incarichi esterni, non sussistendo i presupposti della
responsabilità amministrativa dei convenuti.
Né può trovare accoglimento la domanda risarcitoria formulata dal P.M. “in
via meramente secondaria”, in relazione al mancato rispetto delle regole
della concorrenza, non risultando in alcun modo provata, anche con riguardo
a tale prospettazione subordinata, la sussistenza dell’esistenza di un danno
erariale.
Conclusivamente, sulla base delle esposte considerazioni, assorbita ogni
altra questione e disattesa ogni contraria istanza, deduzione ed eccezione,
i convenuti vanno mandati assolti dagli addebiti di responsabilità
contestati nell’atto di citazione.
Avuto riguardo al proscioglimento nel merito, il Collegio deve provvedere
alla liquidazione delle spese di difesa, ai sensi dell’art. 31, comma 2, del
Codice di Giustizia Contabile (D.Lgs. n. 174/2016).
Ai sensi di tale disposizione, con la sentenza che esclude definitivamente
la responsabilità amministrativa per accertata insussistenza del danno,
ovvero della violazione degli obblighi di servizio, del nesso di causalità,
del dolo o della colpa grave, il Giudice non può disporre la compensazione
delle spese del giudizio e deve liquidare, a carico dell’Amministrazione di
appartenenza, l’ammontare degli onorari e dei diritti spettanti alla difesa.
Sulla base della citata norma, esaminati gli atti di causa e facendo
applicazione dei parametri contenuti nel D.M. n. 55/2014 (“Regolamento
recante la determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per
la professione forense”) si quantificano le spese legali, da porre a
carico del Comune di Cavalese, in favore della difesa del convenuto Gi.Ma.
nell’importo di euro 270,00 per compensi oltre spese generali (15%),
c.n.p.a. e I.V.A nonché in favore della difesa, unitariamente considerata,
degli altri convenuti We.Si., Gi.Pa., Va.Gi., Va.Ma. e Va.Or., nell’importo
complessivo di euro 486,00 per compensi oltre spese generali (15%), c.n.p.a.
e I.V.A .
PER QUESTI MOTIVI
la Corte dei Conti,
Sezione Giurisdizionale per il Trentino Alto Adige/Südtirol - sede di
Trento, definitivamente pronunciando, assolve i convenuti
We.Si., Gi.Pa., Va.Gi., Va.Or., Va.Ma. e Gi.Ma.
(Corte dei Conti, Sez. giursidiz. Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 21.09.2018 n. 35). |
CONSIGLIERI COMUNALI - INCARICHI PROFESSIONALI - SEGRETARI COMUNALI: Sussiste
la responsabilità per danno erariale nel caso di affidamento, a
professionista esterno all’amministrazione, di un incarico di direzione
lavori e di coordinamento della
sicurezza in fase esecutiva n
assenza di adeguata e congrua motivazione che esponga in termini puntuali le
ragioni per le quali risulta l’impossibilità di utilizzo del personale
interno o dell’attrezzatura necessaria.
E’ opinione condivisa che la ratio dell’art. 7 del
D.L.gs. n. 165/2001 -il quale, al comma 4, prevede che le Amministrazioni
pubbliche curino la formazione e l’aggiornamento del personale e, al
successivo comma 6, regolamenta i limiti entro i quali le Amministrazioni
possono conferire incarichi esterni– sia quella di favorire l’efficienza
degli Enti pubblici, realizzando la migliore utilizzazione delle risorse
umane disponibili negli apparati amministrativi.
Giova, altresì, ricordare come la richiamata disciplina statale sia stata
oggetto, nel tempo, di numerosi interventi di modifica che hanno reso sempre
più stringenti tali limiti, al fine di prevenire danni all’Erario per spese
improduttive o per ingiustificate erogazioni di denaro pubblico.
Pertanto, in virtù di tale normativa, le Amministrazioni
pubbliche devono avvalersi, per lo svolgimento delle proprie funzioni, delle
risorse dell’apparato istituzionale, potendo derogare a tale regola
solamente nei casi di assoluta impossibilità di provvedere con il personale
dipendente ed a condizione che tale circostanza risulti oggettivamente
accertata con procedure formali che ne diano motivatamente conto.
Tali prescrizioni, da rispettare obbligatoriamente
al fine di una corretta gestione del capitale umano all’interno della P.A.,
costituiscono altrettante regole di legittimità dell’azione amministrativa,
la cui inosservanza può essere oggetto di sindacato giurisdizionale da parte
del Giudice contabile sotto il profilo della ragionevolezza della scelta,
non configurandosi, al riguardo, il lamentato travalicamento del
limite al sindacato delle scelte discrezionali previsto dall’art. 1, comma
1, della L. n. 20/1994.
---------------
Reputa il Collegio, sulla base di una lettura letterale, logica e
sistematica, nonché costituzionalmente orientata (art. 97 Cost.) della
disciplina contenuta nella L.P. n. 26/1993, che le Amministrazioni Trentine,
nell’espletamento delle funzioni che loro competono, debbano avvalersi, in
via prioritaria, del personale tecnico al proprio servizio.
Infatti, l’art. 22 della L.P. n. 26/1993 (recante
“incarichi di direzione lavori”), nella formulazione applicabile e vigente
ratione temporis, dispone(comma 2) che “la direzione lavori è di norma
affidata ai competenti servizi tecnici delle Amministrazioni aggiudicatrici
in possesso delle necessarie professionalità”, soggiungendo (comma 5) che
“la direzione dei lavori può essere costituita anche nella forma del gruppo
misto di direzione formato da dipendenti dell’Amministrazione e da
professionisti esterni”.
Deve aggiungersi che la normativa in riferimento
prevede, in forza del richiamo contenuto nel citato art. 22 (terzo comma)
alla disposizione di cui all’art. 20 (terzo comma) della medesima L.P. n.
23/1996, solo nel caso “di interventi comportanti la soluzione di complesse
questioni tecniche” ovvero “in caso di esigenze organizzative delle
Amministrazioni aggiudicatrici determinate da carenze anche temporanee di
organico o di competenze specifiche, attestate motivatamente dai dirigenti
dei servizi competenti d’intesa con il dirigente generale” la possibilità di
avvalersi, anche parzialmente, di soggetti di riconosciuta e specifica
competenza.
In definitiva, solamente in presenza di comprovate carenze
organizzative, da attestarsi, motivatamente, dai dirigenti dei servizi,
l’Amministrazione può avvalersi di professionisti esterni, eventualmente
costituendo una direzione lavori nella forma del gruppo misto di direzione,
di cui all’art. 22 cit., o, nell’ipotesi non sussistano i presupposti per
tale soluzione intermedia, esternalizzando totalmente l’incarico.
---------------
Tanto premesso con
riguardo al quadro normativo di riferimento, appare
evidente come la richiamata disciplina preveda precisi limiti all’esternalizzazione
delle attività tecniche ed obblighi l’Amministrazione a motivare
congruamente gli affidamenti esterni, supportando la scelta con una previa
istruttoria, compiuta dal settore competente, in ordine alle oggettive
carenze di organico, strumentali o alle altre specifiche ragioni che, per
legge, possono giustificare la scelta di gravare l’Amministrazione di un
costo aggiuntivo per svolgere un’attività rientrante nei compiti di ufficio.
Deve, altresì, rilevarsi come la giurisprudenza contabile
abbia, in più occasioni, rimarcato che le lacune procedurali che inficiano
gli atti di conferimento di funzioni dell’Ente a soggetti esterni alla P.A.,
rilevabili per il tramite della carenza della motivazione del provvedimento
-allorché il Legislatore ponga agli amministratori pubblici determinati
vincoli di spesa, ritenendo implicitamente non utili tutte quelle spese che
non rispettino i limiti da esso posti- non rappresentano meri vizi, con
incidenza circoscritta alla sfera di legittimità del provvedimento, ma
rendono ingiustificata e, perciò, tendenzialmente dannosa la stessa
erogazione di denaro pubblico.
---------------
Sul punto giova
ricordare la diversità dei compiti assegnati alle figure del direttore
dei lavori e del coordinatore della sicurezza, considerato che
il primo è preposto alla direzione ed al controllo tecnico, contabile e
amministrativo dell’esecuzione dell’intervento mentre il secondo è
tenuto a verificare durante la realizzazione dell’opera, ex art. 92, comma
1, del D.lgs. n. 81/2008, l’idoneità del Piano di Sicurezza e la corretta
applicazione delle relative procedure di lavoro, a controllare che le
imprese esecutrici adeguino i rispettivi piani operativi, segnalando al
committente ed al responsabile dei lavori le eventuali
inosservanze nonché sospendendo i lavori in caso di pericolo grave ed
imminente.
---------------
La questione dedotta in giudizio integra la fattispecie esaminata dalla
citata giurisprudenza, ovvero il caso di una delibera assunta in assenza di
qualsiasi congrua motivazione rispetto ai vincoli espressamente previsti dal
Legislatore per il conferimento di incarichi esterni.
Oltre all’indiscutibile illegittimità della delibera, e
conseguente antigiuridicità della condotta dei convenuti, risulta altresì
provata in atti la concreta dannosità della scelta di gravare
l’Amministrazione di costi indebiti, rinunciando ad avvalersi, anche
parzialmente, come consentito dalla L.P. n. 26/1993, delle prestazioni
lavorative dei numerosi e qualificati dipendenti in servizio presso
l’Ufficio Tecnico.
Sicché, devono ritenersi integrati i presupposti della
responsabilità amministrativa dei convenuti.
In primo luogo, non appare revocabile in dubbio che la
condotta dei componenti della Giunta comunale e dal Segretario comunale sia
stata gravemente lesiva degli obblighi di servizio, contrastando non solo
con la chiara normativa in materia di conferimento di incarichi esterni
nell’ambito dei lavori pubblici, ma anche con il generale criterio
dell’autosufficienza dell’organizzazione amministrativa e, in definitiva,
con i principi di efficienza, efficacia ed economicità nonché di legalità e
buon andamento dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.).
La violazione di tali basilari principi, sotto il profilo dell’elemento
soggettivo, costituisce indice sintomatico di grave trascuratezza,
negligenza ed imperizia nell’esercizio delle funzioni demandate agli
amministratori comunali oltre che al segretario comunale, cui spetta il
compito di vigilare sulla legittimità dell’azione amministrativa.
La totale mancanza di una motivazione che potesse
giustificare l’affidamento dell’incarico esterno consente,
invece, di ritenere provato l’elemento psicologico della
colpa grave in capo ai convenuti, reso evidente dalla superficialità con la
quale è stata disposta, in palese violazione degli obblighi di servizio e
della normativa di riferimento, una rilevante spesa gravante sul bilancio
comunale senza il preventivo accertamento dell’impossibilità oggettiva di
utilizzare le risorse umane interne.
---------------
2.1 La fattispecie di responsabilità amministrativa sottoposta
all’attenzione del Collegio riguarda un incarico tecnico esterno affidato,
secondo la tesi attorea, in violazione dell’art. 7, comma 6, del D.lgs. n.
165/2001.
In particolare il Requirente, nella domanda formulata in via principale, ha
contestato ai convenuti -nelle qualità di componenti della Giunta comunale
che ha adottato la delibera di conferimento dell’incarico (n. 19/2016) e di
Segretario che ne ha avallato la legittimità- di aver cagionato il danno
erariale di euro 17.472,02, pari alla spesa sostenuta dal Comune di Cavalese
in relazione all’affidamento in favore di un geometra esterno della
direzione lavori e del coordinamento della sicurezza in fase esecutiva delle
opere concernenti la realizzazione di un nuovo tratto di fognatura comunale
(in località Salanzada), che avrebbe dovuto essere svolto dal personale
assegnato all’U.T.C..
Parte attrice, solo in “via meramente secondaria”, ha riferito il
contestato danno alla violazione delle regole sulla concorrenza, essendo
stato l’incarico affidato a trattativa privata senza previo confronto
concorrenziale.
Avuto riguardo alla contestazione attorea principale, i difensori dei
convenuti hanno affermato la conformità della delibera di Giunta comunale
alla disciplina provinciale, in quanto al momento dell’adozione della stessa
sussisteva un deficit organizzativo e strumentale, nell’ambito
dell’Ufficio Tecnico Comunale, tale da giustificare la scelta di
esternalizzare il servizio.
In relazione alla domanda risarcitoria subordinata, le stesse difese hanno
poi osservato che la modalità di affidamento senza gara non contrasta con la
disciplina provinciale e che la Procura, in ogni caso, non ha provato la
sussistenza di un effettivo danno da concorrenza, in un contesto nel quale
il professionista incaricato risulta aver operato una riduzione dei compensi
rispetto alle previsioni della Tariffa professionale.
2.2 Così sintetizzate le posizioni delle parti, giova ricordare che la
normativa di cui al decreto legislativo n. 165/2001 (recante “Norme
generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni
pubbliche”), nel quale è inserita la disposizione di cui all’art. 7,
comma 6, richiamata dalla Procura Regionale, rappresenta per le Regioni a
Statuto speciale e per le Province Autonome di Trento e di Bolzano una
disciplina con “valenza di norme fondamentali di riforma economico
sociale” (art. 1, comma 3, D.Lgs. n. 165/2001), con la quale il
Legislatore statale ha inteso regolamentare l’organizzazione degli uffici e
i rapporti di lavoro e di impiego alle dipendenze delle amministrazioni
pubbliche “tenuto conto delle Autonomie locali e di quelle delle Regioni
e delle Province Autonome, nel rispetto dell’art. 97 comma primo della
Costituzione”.
E’ opinione condivisa che la ratio dell’art. 7 del
D.L.gs. n. 165/2001 -il quale, al comma 4, prevede che le Amministrazioni
pubbliche curino la formazione e l’aggiornamento del personale e, al
successivo comma 6, regolamenta i limiti entro i quali le Amministrazioni
possono conferire incarichi esterni– sia quella di favorire l’efficienza
degli Enti pubblici, realizzando la migliore utilizzazione delle risorse
umane disponibili negli apparati amministrativi.
Giova, altresì, ricordare come la richiamata disciplina statale sia stata
oggetto, nel tempo, di numerosi interventi di modifica che hanno reso sempre
più stringenti tali limiti, al fine di prevenire danni all’Erario per spese
improduttive o per ingiustificate erogazioni di denaro pubblico. Pertanto,
in virtù di tale normativa, le Amministrazioni pubbliche
devono avvalersi, per lo svolgimento delle proprie funzioni, delle risorse
dell’apparato istituzionale, potendo derogare a tale regola solamente nei
casi di assoluta impossibilità di provvedere con il personale dipendente ed
a condizione che tale circostanza risulti oggettivamente accertata con
procedure formali che ne diano motivatamente conto
(cfr. ex multis, Corte conti, Sezione Seconda Giurisdizionale
Centrale d’Appello n. 291/2012, id. n. 333/2014).
Tali prescrizioni, da rispettare obbligatoriamente al fine
di una corretta gestione del capitale umano all’interno della P.A.,
costituiscono altrettante regole di legittimità dell’azione amministrativa,
la cui inosservanza può essere oggetto di sindacato giurisdizionale da parte
del Giudice contabile sotto il profilo della ragionevolezza della scelta
(cfr. Cass., Sez. un., n. 1378/2006; id. n. 7924/2006; id. n. 4283/2013; id.
n. 22228/2016; Corte conti, Sezione di Appello per la Sicilia n. 198/2015;
id. Sezione Terza Centrale d’Appello n. 430/2017), non
configurandosi, al riguardo, il lamentato travalicamento del limite al
sindacato delle scelte discrezionali previsto dall’art. 1, comma 1, della L.
n. 20/1994.
2.3 Per quanto riguarda la Provincia Autonoma di Trento va, innanzi tutto,
rilevato che la generale materia degli incarichi di studio, ricerca,
consulenza e collaborazione è disciplinata dal Capo I-bis, della L.P. n.
23/1990 (recante “Disciplina dell’attività contrattuale e
dell’amministrazione dei beni della Provincia”).
In particolare, l’art. 39-quater della citata legge dopo aver disposto, al
primo comma, che le disposizioni del Capo I-bis disciplinano l’affidamento
di incarichi retribuiti a soggetti esterni, finalizzati all’acquisizione di
apporti professionali per il miglior perseguimento dei fini istituzionali
dell’Amministrazione, ne esclude espressamente l’applicazione per taluni
incarichi –quali, ad esempio, quelli della rappresentanza in giudizio e del
patrocinio dell’Amministrazione– con la previsione, al quinto comma, che “rimane
fermo quanto previsto dalle leggi provinciali per l’affidamento di incarichi
per l’esercizio di pubbliche funzioni o per incarichi di pubblico servizio,
per l’esecuzione dei lavori pubblici (…)”.
Con riferimento alla specifica materia dei lavori pubblici viene, pertanto,
in rilievo anche la disciplina di settore, richiamata dalle difese dei
convenuti, di cui alla legge provinciale n. 26/1993, recante “Norme in
materia di lavori pubblici di interesse provinciale e per la trasparenza
negli appalti”, come modificata dalla L.P. n. 10/2008.
Sotto il profilo ordinamentale, appare di interesse osservare come la citata
normativa provinciale sia stata oggetto di vaglio da parte della Corte
Costituzionale.
In particolare, la Consulta, nella sentenza n. 45/2010 (dal contenuto
parzialmente caducatorio), ha ricordato che l’art. 8, primo comma, n. 17 del
D.P.R. n. 670/1972 (Statuto speciale) attribuisce alla Provincia autonoma di
Trento una competenza legislativa primaria in alcune materie specificamente
enumerate, tra le quali rientra quella dei lavori pubblici di interesse
provinciale.
Nell’ambito di tale decisione, il Giudice delle leggi ha osservato che tale
potestà legislativa primaria si esplica nei limiti previsti dall’art. 4
dello Statuto e, quindi, in armonia con la Costituzione ed i principi
dell’Ordinamento giuridico della Repubblica, con il rispetto degli obblighi
internazionali, degli interessi nazionali nonché delle norme fondamentali
delle riforme economico-sociali della Repubblica (i ricordati limiti sono
stati richiamati anche nella sentenza n. 187/2013 riguardante la L.P. n.
26/1993 e nella recente decisione n. 191/2017 concernente la materia delle
misure di contenimento della spesa pubblica).
Ciò premesso, reputa il Collegio, sulla base di una lettura
letterale, logica e sistematica, nonché costituzionalmente orientata (art.
97 Cost.) della disciplina contenuta nella L.P. n. 26/1993, che le
Amministrazioni Trentine, nell’espletamento delle funzioni che loro
competono, debbano avvalersi, in via prioritaria, del personale tecnico al
proprio servizio.
Infatti, l’art. 22 della L.P. n. 26/1993 (recante “incarichi
di direzione lavori”), nella formulazione applicabile e vigente
ratione temporis, dispone(comma 2) che “la direzione lavori è di
norma affidata ai competenti servizi tecnici delle Amministrazioni
aggiudicatrici in possesso delle necessarie professionalità”,
soggiungendo (comma 5) che “la direzione dei lavori può essere costituita
anche nella forma del gruppo misto di direzione formato da dipendenti
dell’Amministrazione e da professionisti esterni”.
Deve aggiungersi che la normativa in riferimento prevede,
in forza del richiamo contenuto nel citato art. 22 (terzo comma) alla
disposizione di cui all’art. 20 (terzo comma) della medesima L.P. n.
23/1996, solo nel caso “di interventi comportanti la soluzione di
complesse questioni tecniche” ovvero “in caso di esigenze
organizzative delle Amministrazioni aggiudicatrici determinate da carenze
anche temporanee di organico o di competenze specifiche, attestate
motivatamente dai dirigenti dei servizi competenti d’intesa con il dirigente
generale” la possibilità di avvalersi, anche parzialmente, di soggetti
di riconosciuta e specifica competenza.
In definitiva, solamente in presenza di comprovate carenze
organizzative, da attestarsi, motivatamente, dai dirigenti dei servizi,
l’Amministrazione può avvalersi di professionisti esterni, eventualmente
costituendo una direzione lavori nella forma del gruppo misto di direzione,
di cui all’art. 22 cit., o, nell’ipotesi non sussistano i presupposti per
tale soluzione intermedia, esternalizzando totalmente l’incarico.
Va, poi, evidenziato come la normativa provinciale di cui alla L.P. n.
26/1993 all’art. 22, comma 6, preveda la possibilità sia di tenere unite che
di separare le funzioni di direzione lavori e di coordinamento della
sicurezza (mentre la successiva L.P. n. 2 del 09.03.2016, all’art. 10,
recante “disposizioni per la progettazione e gli incarichi relativi
all’architettura e all’ingegneria”, opta per una tendenziale separazione
prevedendo che “gli incarichi di coordinatore per la sicurezza sono
affidati ad un soggetto diverso dal progettista e dal direttore dei lavori,
a meno che il responsabile del procedimento non ritenga opportuna la
coincidenza tra queste due figure”).
Sul punto giova ricordare la diversità dei compiti
assegnati alle figure del direttore dei lavori e del coordinatore
della sicurezza, considerato che il primo è preposto alla
direzione ed al controllo tecnico, contabile e amministrativo
dell’esecuzione dell’intervento mentre il secondo è tenuto a
verificare durante la realizzazione dell’opera, ex art. 92, comma 1, del
D.lgs. n. 81/2008, l’idoneità del Piano di Sicurezza e la corretta
applicazione delle relative procedure di lavoro, a controllare che le
imprese esecutrici adeguino i rispettivi piani operativi, segnalando al
committente ed al responsabile dei lavori le eventuali
inosservanze nonché sospendendo i lavori in caso di pericolo grave ed
imminente.
2.4 Tanto premesso con riguardo al quadro normativo di riferimento,
appare evidente come la richiamata disciplina preveda precisi limiti
all’esternalizzazione delle attività tecniche ed obblighi l’Amministrazione
a motivare congruamente gli affidamenti esterni, supportando la scelta con
una previa istruttoria, compiuta dal settore competente, in ordine alle
oggettive carenze di organico, strumentali o alle altre specifiche ragioni
che, per legge, possono giustificare la scelta di gravare l’Amministrazione
di un costo aggiuntivo per svolgere un’attività rientrante nei compiti di
ufficio.
Deve, altresì, rilevarsi come la giurisprudenza contabile
abbia, in più occasioni, rimarcato che le lacune procedurali che inficiano
gli atti di conferimento di funzioni dell’Ente a soggetti esterni alla P.A.,
rilevabili per il tramite della carenza della motivazione del provvedimento
-allorché il Legislatore ponga agli amministratori pubblici determinati
vincoli di spesa, ritenendo implicitamente non utili tutte quelle spese che
non rispettino i limiti da esso posti- non rappresentano meri vizi, con
incidenza circoscritta alla sfera di legittimità del provvedimento, ma
rendono ingiustificata e, perciò, tendenzialmente dannosa la stessa
erogazione di denaro pubblico
(Corte conti, Sezione Prima Centrale di Appello n. 224/2017; id. Sezione
Appello Sicilia n. 48/2017).
Ciò posto, osserva il Collegio come la delibera di Giunta municipale n.
19/2016 -votata dai convenuti We.Si., Se.Si., Gi.Pa., Va.Gi., Va.Or., Va.Ma.
e la cui legittimità è stata avallata dal Segretario comunale dott. Gi.- non
rechi alcuna motivazione, così come invece previsto dalla stessa L.P. n.
26/1993, in ordine all’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse
interne dell’Ufficio Tecnico Comunale, risultando del tutto inconferente la
circostanza, evidenziata nella parte motiva del provvedimento, che il
geometra cui veniva affidato la direzione lavori ed il coordinamento della
sicurezza avesse già redatto la progettazione esecutiva dell’opera in base
ad un precedente incarico.
Pertanto, la questione dedotta in giudizio integra la
fattispecie esaminata dalla citata giurisprudenza, ovvero il caso di una
delibera assunta in assenza di qualsiasi congrua motivazione rispetto ai
vincoli espressamente previsti dal Legislatore per il conferimento di
incarichi esterni.
Oltre all’indiscutibile illegittimità della delibera, e
conseguente antigiuridicità della condotta dei convenuti, risulta altresì
provata in atti la concreta dannosità della scelta di gravare
l’Amministrazione di costi indebiti, rinunciando ad avvalersi, anche
parzialmente, come consentito dalla L.P. n. 26/1993, delle prestazioni
lavorative dei numerosi e qualificati dipendenti in servizio presso
l’Ufficio Tecnico.
Giova, in proposito, ricordare come nei compiti ordinari di tali dipendenti
rientrasse, in base alle stesse indicazioni contenute nel P.E.G. (cfr. punto
E.1/Adempimenti amministrativi e tecnici) l’attività relativa al “progettare/dirigere
e controllare sotto il profilo della sicurezza le opere di competenza
dell’Ufficio secondo le indicazioni dell’Amministrazione”.
Al fine di provare, in giudizio, la pretesa impossibilità del personale
interno di svolgere le ricordate funzioni ordinarie, i convenuti hanno
prodotto le dichiarazioni rese, in data 27/09/2017, dai dipendenti
dell’Ufficio Tecnico.
Questi ultimi hanno riferito, in particolare, di non disporre
dell’apparecchiatura necessaria per verificare l’inclinazione delle tubature
e di non aver avuto il “tempo necessario” per occuparsi della
prestazione esternalizzata, in quanto tale attività li avrebbe distolti “dalle
incombenze ordinarie”. Inoltre, hanno dichiarato di non aver mai
acquisito le certificazioni in materia di sicurezza.
Rileva il Collegio come in tali dichiarazioni non siano state indicate
dettagliatamente né le altre incombenze asseritamente preclusive
dell’espletamento delle mansioni rientranti negli ordinari compiti
dell’Ufficio Tecnico, né il costo dell’attrezzatura mancante, né tanto meno
l’incidenza dell’utilizzo di tale strumentazione nell’ambito dell’attività
esternalizzata.
Con riguardo, poi, alla dichiarazione dei dipendenti concernente la
mancanza, all’atto dell’assunzione della delibera n. 19/2016, dei requisiti
per svolgere il ruolo di Coordinatore della sicurezza, di cui all’art. 98
del Dlgs n. 81/2008 -non avendo i dipendenti dell’U.T.C. mai frequentato i
previsti corsi e, quindi, acquisito la necessaria certificazione- deve
rilevarsi come tale carenza non precludesse, vista la possibilità di
separare le funzioni di D.L. e di Coordinatore della sicurezza, di affidare
ad almeno uno dei numerosi professionisti interni (tre geometri ed un
architetto), l’attività di direzione lavori.
In ragione di quanto innanzi esposto, devono ritenersi
integrati i presupposti della responsabilità amministrativa dei convenuti.
In primo luogo, non appare revocabile in dubbio che la
condotta dei componenti della Giunta comunale e dal Segretario comunale sia
stata gravemente lesiva degli obblighi di servizio, contrastando non solo
con la chiara normativa in materia di conferimento di incarichi esterni
nell’ambito dei lavori pubblici, ma anche con il generale criterio
dell’autosufficienza dell’organizzazione amministrativa e, in definitiva,
con i principi di efficienza, efficacia ed economicità nonché di legalità e
buon andamento dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.).
La violazione di tali basilari principi, sotto il profilo dell’elemento
soggettivo, costituisce indice sintomatico di grave trascuratezza,
negligenza ed imperizia nell’esercizio delle funzioni demandate agli
amministratori comunali oltre che al segretario comunale, cui spetta il
compito di vigilare sulla legittimità dell’azione amministrativa.
Non ritiene, invece, il Collegio che le evidenze processuali dimostrino che
i componenti della Giunta comunale ed il Segretario abbiano mantenuto in un
voluto stato di inefficienza organizzativa l’Ufficio Tecnico comunale e che,
in particolare, secondo quanto affermato dal Pubblico Ministero, “la
mancata acquisizione (…) dell’attestato inerente al coordinamento sicurezza
(benché normale bagaglio del geometra professionista) risponda alla precisa
volontà dell’Amministrazione di favorire professionisti esterni (con la
connivenza delle risorse interne dell’Ufficio Tecnico Comunale)”.
Si osserva, in proposito, come la reiterazione degli incarichi nel biennio
2015/2016, enfatizzata dal Requirente, non sia di per sé sufficiente a
provare il prospettato “concorso” illecito volto a favorire soggetti
terzi.
La totale mancanza di una motivazione che potesse
giustificare l’affidamento dell’incarico esterno consente,
invece, di ritenere provato l’elemento psicologico della
colpa grave in capo ai convenuti, reso evidente dalla superficialità con la
quale è stata disposta, in palese violazione degli obblighi di servizio e
della normativa di riferimento, una rilevante spesa gravante sul bilancio
comunale senza il preventivo accertamento dell’impossibilità oggettiva di
utilizzare le risorse umane interne.
Tale circostanza risulta evidenziata nella stessa relazione del dirigente
del Servizio Autonomie Locali della Provincia Autonoma di Trento ed è
accennata anche nelle dichiarazioni rese innanzi al P.M, in data 24/10/2017,
dal consigliere comunale che ha dato avvio, con il proprio esposto,
all’indagine della Procura contabile.
Reputa il Collegio che quest’ultima acquisizione istruttoria, contrariamente
a quanto sostenuto dalle parti convenute, sia stata ritualmente assunta
dalla Procura Regionale in piena osservanza dell’art. 67, settimo comma, del
Codice di Giustizia Contabile. Disposizione, quest’ultima, che consente
all’Inquirente di svolgere attività istruttoria anche successivamente
all’invito a dedurre nel caso in cui, come nella fattispecie in esame, vi
sia stata la necessità di compiere accertamenti su ulteriori elementi di
fatto emersi a seguito delle controdeduzioni.
Vanno pertanto respinte le eccezioni delle difese in ordine
all’inutilizzabilità di tale atto istruttorio, dovendo altresì rilevarsi
come il contenuto di tali dichiarazioni non risulti, peraltro, determinante
al fine del decidere, emergendo per tabulas l’illegittimità della
delibera di Giunta.
2.5 Non è poi revocabile in dubbio il danno subito dal Comune di Cavalese
che, in esecuzione dell’illegittima delibera n. 19/2016, ha sostenuto, per
remunerare il professionista esterno, la complessiva spesa di euro
17.472,02, di cui euro 13.057,98 per la direzione lavori ed euro 4.414,04
per l’attività di coordinamento della sicurezza.
Ai fini della misura del risarcimento eziologicamente imputabile alla
condotta dei convenuti ritiene poi il Collegio, per le considerazioni che si
andranno di seguito ad esporre, di addivenire ad una minore quantificazione
rispetto al petitum richiesto da parte attrice.
Giova, al riguardo, premettere che nel giudizio di
responsabilità amministrativa, ove si tratti di responsabilità per colpa
grave, la natura personale e parziaria dell’obbligazione risarcitoria
consente al Giudice di tener conto di eventuali comportamenti concorrenti di
soggetti estranei al giudizio che costituendo, anche in parte, il motivo
dell’insorgenza del nocumento lamentato dall’Amministrazione riducano la
responsabilità del convenuto
(Corte conti, Sezione Prima Centrale d’Appello n. 435/2015; id. Sezione
Seconda Centrale d’Appello n. 156/2013; id. Sezione Terza Centrale d’Appello
n. 156/2010).
Sostanzialmente ricognitiva di tale orientamento giurisprudenziale risulta
la disposizione di cui all’art. 83 del Codice di Giustizia Contabile (D.L.gs.
n. 174/2016) che, pur vietando la chiamata in giudizio su ordine del
Giudice, gli consente di eseguire un accertamento incidentale su eventuali
condotte concausali, ai soli fini dell’esatta determinazione delle quote di
danno da porre a carico dei soggetti evocati in giudizio, con l’ulteriore
previsione, nei casi in cui emergano fatti nuovi rispetto a quelli posti a
base dell’atto introduttivo -circostanza, quest’ultima non concretatasi nel
caso di specie- della trasmissione degli atti al P.M.
Nello specifico, il danno azionato in via principale da parte attrice appare
il frutto del concorso di diverse responsabilità imputabili ai vari organi
dell’Ente, tra le quali vanno considerate anche quelle riferibili alle
evidenti disfunzioni organizzative presenti nell’Ufficio Tecnico Comunale.
A tal proposito è significativo rilevare come nessuno dei dipendenti in
servizio presso tale Ufficio, in possesso dei prescritti requisiti (diploma
di geometra o di laurea in architettura), abbia mai partecipato ai corsi
necessari a conseguire le certificazioni in materia di coordinamento della
sicurezza dei lavori pubblici, nonostante nei compiti ordinari degli stessi
rientrasse quello di “controllare sotto il profilo della sicurezza le
opere di competenza dell’Ufficio secondo le indicazioni dell’Amministrazione”
(cfr. PEG 2015 e 2016).
A tale carenza della formazione del personale, con riguardo
al delicato e rilevante settore della sicurezza delle opere comunali, così
come con riferimento alla generale efficienza del Settore, avrebbero dovuto
porre cura e rimedio, in primo luogo, i responsabili dell’Ufficio Tecnico.
Oltre che del cennato contributo causale da parte di soggetti estranei al
giudizio, ai fini della corretta imputazione del danno ai convenuti, reputa
il Collegio di considerare anche la parziale utilitas conseguita
dall’Amministrazione danneggiata in relazione allo svolgimento dell’attività
concernente il coordinamento della sicurezza dei lavori, remunerata al
geometra incaricato con l’importo di euro 4.414,04, che i dipendenti
dell’Ufficio Tecnico, oggettivamente, non potevano svolgere in relazione al
provato mancato conseguimento delle necessarie certificazioni previste
dall’art. 98 del D.Lgs. n. 81/2008.
Come evidenziato da recente giurisprudenza del Giudice di appello, con la
norma di cui all’art. 1, comma 1-bis. della legge n. 20/1994 –secondo la
quale “nel giudizio di responsabilità, fermo restando il
potere di riduzione, deve tenersi conto dei vantaggi comunque conseguiti
dall’amministrazione di appartenenza o da altra amministrazione, o dalla
comunità amministrata, in relazione al comportamento degli amministratori o
dei dipendenti pubblici soggetti al giudizio di responsabilità”-
il Legislatore ha inteso affermare la natura sostanziale, e non meramente
formale, della responsabilità amministrativa, sicché il
Giudice contabile non può “denegare l’ingresso alla valutazione dei
vantaggi conseguiti dall’Amministrazione sul presupposto dell’illegittimità
delle condotte, poiché trattasi di un ragionamento tautologico, che esclude
l’inequivoca applicazione dell’art. 1-1-bis della legge n. 20 del 1994”
(cfr. Sezione Prima Centrale d’Appello n. 508/2017).
Ciò posto, in accoglimento della domanda risarcitoria formulata in via
principale dal Pubblico Ministero -e ritenuta assorbita la domanda
subordinata prospettata dal Requirente “solo in via meramente secondaria”
con riferimento al danno alla concorrenza (da ritenersi, quest’ultimo, non
provato)- reputa il Collegio che il danno imputabile alle condotte
gravemente colpevoli dei convenuti, con riguardo al nocumento derivato al
bilancio del Comune di Cavalese per la violazione della normativa in materia
di incarichi esterni, debba limitarsi, per le ragioni innanzi esposte
(concorso causale nel danno da parte di soggetti estranei al giudizio e
parziale utilitas conseguita dal Comune) alla quota del 50% del
richiesto importo di condanna.
Non sussistono, invece, i presupposti per l’applicazione del generale potere
riduttivo, in relazione all’evidente gravità delle condotte, per la
macroscopica violazione delle procedure di legge concernenti l’esternalizzazione
degli incarichi.
Conclusivamente, disattesa ogni contraria istanza, deduzione ed eccezione,
deve disporsi la condanna dei convenuti al pagamento, in favore del Comune
di Cavalese, del complessivo importo di euro 8.736,00
(ottomilasettecentotrentasei/00), da suddividersi in parti uguali fra gli
stessi (per un settimo ciascuno, ovvero euro 1248,00 a carico di ogni
convenuto). Tale importo va maggiorato della rivalutazione monetaria dalla
data dell’indebito esborso (di cui al mandato di pagamento n. 1051 del
06/04/2017) sino alla pubblicazione della sentenza e degli interessi legali,
sulla sorte capitale rivalutata, da quest’ultima data all’effettivo
soddisfo.
In ragione della soccombenza in giudizio, i convenuti sono condannati al
pagamento, in solido, delle spese di giudizio in favore dello Stato nella
misura determinata in dispositivo.
In ordine alle statuizioni di condanna nei confronti dei convenuti si
ordina, a cura della Segreteria, la spedizione di copia della presente
sentenza in forma esecutiva all’ufficio del P.M., ai sensi dell’art. 212 del
Codice di Giustizia Contabile (D.Lgs. n. 174/2016), per gli ulteriori
incombenti di sua competenza di cui agli artt. 213 e seguenti C.G.C.
PER QUESTI MOTIVI
la Corte dei Conti,
Sezione Giurisdizionale per il Trentino Alto Adige/Südtirol - sede di
Trento, definitivamente pronunciando, condanna i convenuti
We.Si., Se.Si., Gi.Pa., Va.Gi., Va.Or., Va.Ma. e Gi.Ma. al pagamento, da
suddividersi in parti uguali fra gli stessi, della complessiva somma di euro
8.736,00 (ottomilasettecentotrentasei/00) in favore del Comune di Cavalese,
oltre rivalutazione monetaria, per come in motivazione, ed interessi legali
dalla pubblicazione della sentenza all’effettivo soddisfo e, per l’effetto,
li condanna in solido al pagamento delle spese di giudizio in favore dello
Stato, che sono liquidate in euro 1.083,36
(euro milleottantatre/36)
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 21.09.2018 n. 34). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Gruppi, decidono gli enti. Se possano
essere costituiti da un consigliere. La materia è interamente demandata
all’autonomia comunale.
La disciplina prevista dal regolamento sul
funzionamento del consiglio comunale può condizionare la possibilità di
costituire il gruppo misto alla circostanza che lo stesso sia composto da
almeno due consiglieri, con ciò impedendo la formazione del gruppo misto
monopersonale?
L'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente prevista dalla legge e
la relativa materia è regolata dalle norme statutarie e regolamentari dei
singoli enti locali.
In materia, il ministero dell'interno ha già avuto modo
di esprimere l'orientamento, peraltro confermato, secondo cui, «in assenza
di disposizioni che escludano espressamente la possibilità di istituire il
gruppo misto anche con la partecipazione di un unico componente, si potrebbe
accedere a un'interpretazione delle fonti di autonomia locale orientata alla
valorizzazione dei diritti dei singoli di poter aderire a un gruppo
consiliare».
Nel caso di specie, però, il regolamento del consiglio comunale
vieta espressamente la possibilità di costituire il gruppo misto unipersonale e, pertanto, va da sé che l'avviso espresso in altra
circostanza non può essere adattato al diverso contesto normativo in vigore
nel comune in oggetto.
In merito, appare utile richiamare le osservazioni
formulate dal Consiglio di stato con sentenza n. 3357 del 2010, in base alle
quali, una volta adottato il regolamento recante le norme sul funzionamento
del consiglio comunale, queste ultime non possono essere disapplicate se non
previo ritiro.
Pertanto, poiché la materia dei gruppi consiliari è
interamente demandata alla competenza delle fonti di autonomia locale, è in
tale ambito che potrà essere valutata l'opportunità di adottare apposite
modifiche alla normativa in questione
(articolo ItaliaOggi del 21.09.2018). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Il tricolore è del sindaco. Il consigliere
non può indossare la fascia. Non è prevista l’istituzione di un distintivo
per i componenti dell’assemblea.
I consiglieri comunali possono dotarsi di una fascia
tricolore da indossare in occasione di cerimonie ed eventi civili e
religiosi, quale titolo del ruolo politico e amministrativo ricoperto?
La legge non prevede nulla, per quanto riguarda i simboli da indossare, nei
riguardi degli altri amministratori degli enti locali.
Il decreto legislativo n. 267/2000 all'art. 50, comma 12, infatti, dispone
espressamente che «distintivo del sindaco è la fascia tricolore con lo
stemma della Repubblica e lo stemma del comune, da portarsi a tracolla».
La stessa disposizione prevede, altresì, che «distintivo del presidente
della provincia è una fascia di colore azzurro con lo stemma della
repubblica e lo stemma della provincia da portare a tracolla».
Il sistema delle autonomie ha, peraltro, un limite connaturato alla stessa
essenza dell'autonomia: quello di dare luogo a ordinamenti liberi di
autodeterminarsi entro la cornice ben definita di un ordinamento generale
che, originario e sovrano, determina i caratteri peculiari ed il modo di
tutti i soggetti che in esso si trovano a coesistere e ad operare (cfr.
circolare Ministero dell'interno 04.11.1998 n. 5/98 – fascia tricolore –
pubbl. G.U. n. 270/1998).
La finalità della previsione di un distintivo è quella di rendere
immediatamente individuabili i titolari di determinate cariche pubbliche
attraverso la prescrizione di una medesima tipologia formale per ciascuna
categoria di ente.
In assenza di specifiche previsioni normative, pertanto, l'istituzione di un
distintivo anche per i consiglieri comunali non può essere contemplata.
Alla luce della legge costituzionale n. 3 del 18.10.2001, esiste, tuttavia,
un'ampia possibilità, per le autonomie locali, di disciplinare, con
normativa regolamentare, l'utilizzo dei propri segni distintivi, anche a
scopo di rappresentanza, senza così ricorrere all'impiego di un simbolo,
quale la fascia tricolore, attinente nello specifico al capo
dell'amministrazione ed allo svolgimento delle proprie funzioni in
conformità alle indicazioni di legge (articolo ItaliaOggi del 14.09.2018). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Relazione
inizio mandato.
Domanda
Sono l’assessore al bilancio di un’amministrazione comunale insediatasi
nello scorso mese di giugno. Il mio ragioniere mi ha parlato dell’obbligo di
predisporre una relazione di inizio mandato.
In che cosa consiste? C’è un termine entro cui debba essere approvata?
Risposta
La relazione di cui si parla nel quesito è prevista e disciplinata dall’art.
4-bis del DLgs. n. 149 del 06/09/2011 approvato dall’allora ‘governo
Monti’. La norma stabilisce che le province e i comuni sono tenuti a
redigere una relazione di inizio mandato, volta a verificare la propria
situazione finanziaria e patrimoniale e la misura dell’indebitamento.
Essa è finalizzata a garantire il coordinamento della finanza pubblica, il
rispetto dell’unità economica e giuridica della Repubblica ed il principio
di trasparenza delle decisioni di entrata e di spesa. La relazione è
predisposta dal responsabile del servizio finanziario o dal segretario
generale ed è sottoscritta dal presidente della provincia o dal sindaco
entro il novantesimo giorno dall’inizio del mandato. Qualora ne sussistano i
presupposti, e sulla base delle risultanze della relazione medesima, il
presidente della provincia o il sindaco neo eletti, possono ricorrere alle
procedure di riequilibrio finanziario previste dalla normativa vigente.
A differenza di quanto fatto per l’analoga relazione di fine mandato, il
Legislatore non ha previsto uno schema obbligatorio per gli enti chiamati ad
adottarla, ma ne ha definito soltanto gli elementi essenziali. Ogni ente è
pertanto libero di decidere quali dati e informazioni riportare e quali
schemi, tabelle e prospetti inserire.
E’ sicuramente opportuno produrre uno strumento snello ed essenziale, ma al
tempo stesso concreto, che faccia una sorta di fotografia della situazione
dell’ente ad inizio mandato, con riguardo ai seguenti aspetti della sua
gestione: la struttura organizzativa; la situazione finanziaria e le
politiche fiscali e tariffarie; gli equilibri di bilancio; l’ammontare e
l’anzianità dei residui attivi e passivi di bilancio; i saldi di finanza
pubblica; l’indebitamento, con analisi prospettica; la situazione
patrimoniale; le società ed enti partecipati e il loro stato di salute.
I dati e le tabelle da inserire nella relazione possono essere mutuati dai
certificati al bilancio preventivo ed al rendiconto già redatti ai sensi
dell’art. 161 del Tuel e dai questionari periodicamente inviati dall’organo
di revisione economico finanziario alla competente sezione regionale di
controllo della Corte dei Conti, ai sensi dell’articolo 1, comma 166 e
seguenti, della legge n. 266/2005.
Tali dati troveranno pertanto riscontro anche in questi documenti, oltre che
nella contabilità dell’ente. Il Legislatore non ha previsto neppure alcun
obbligo di invio della relazione alla sezione regionale di controllo della
Corte dei conti. In caso di mancata o tardiva predisposizione non sono
previste sanzioni. La magistratura contabile, tuttavia, vigilerà sul
corretto adempimento dell’obbligo, anche attraverso i consueti questionari
che i revisori degli enti locali sono tenuti a compilare e ad inviare.
Il DLgs. 149/2011, così come anche il più recente DLgs. 33/2013, che
disciplina la trasparenza e la diffusione di informazioni da parte delle
pubbliche amministrazioni, non prevedono nulla circa la sua diffusione verso
l’esterno. Tuttavia è sicuramente opportuno provvedervi mediante la sua
pubblicazione nella sezione ‘Amministrazione trasparente’ del sito
web dell’ente, nella sotto-sezione denominata ‘Provvedimenti degli organi
di indirizzo politico’ o nella sotto-sezione residuale denominata ‘Altri
contenuti’.
Quanto ai termini, il Legislatore –come detto– ha invece stabilito un
termine preciso per la sua adozione: esso è fissato in novanta giorni dalla
data di inizio del mandato amministrativo. Pertanto per le amministrazioni
elette al primo turno nelle elezioni del 10 giugno scorso il termine è
fissato all’8 settembre prossimo; per quelle elette al secondo turno il
termine è invece fissato al 22 settembre. Resta pertanto poco tempo per
adempiere a questo importante obbligo di legge (03.09.2018 - tratto
da e link a www.publika.it). |
agosto 2018 |
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CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ I gruppi cambiano nome. Anche se statuto
e regolamento tacciono. La chance rientra nelle scelte proprie delle
formazioni politiche.
Se le norme statutarie e regolamentari vigenti in un
comune prevedono solo la modifica della composizione dei gruppi consiliari,
è possibile modificarne anche la denominazione?
L'esistenza dei gruppi
consiliari non è espressamente prevista dalla legge, ma si desume
implicitamente dalle disposizioni normative che contemplano diritti e
prerogative in capo ai gruppi o ai capigruppo (art. 38, comma 3, art. 39,
comma 4, e art. 125 del decreto legislativo n. 267/2000).
La materia deve, comunque, essere disciplinata da apposite norme statutarie
e regolamentari, adottate dai singoli enti locali nell'ambito dell'autonomia
organizzativa riconosciuta ai consigli comunali dall'art. 38 del citato
Testo unico degli enti locali.
È da ritenersi consentita la costituzione di nuovi gruppi consiliari, ovvero
l'adesione a diversi gruppi esistenti, a seguito dei mutamenti che possono
sopravvenire all'interno delle forze politiche presenti in consiglio
comunale per effetto di dissociazioni dall'originario gruppo di
appartenenza. Tuttavia, sono i singoli enti locali, nell'ambito della
propria potestà di organizzazione, a dover dettare, in materia, norme
statutarie e regolamentari.
Nel caso di specie, il mutamento di denominazione del gruppo consiliare,
anche se in assenza di una specifica disposizione statutaria o
regolamentare, sembra rientrare nelle scelte proprie delle formazioni
politiche presenti nel consiglio che sono, in genere, da ritenersi
ammissibili.
Peraltro, sebbene sia lo statuto che il regolamento dell'ente locale
presentino una certa rigidità nella formazione dei gruppi, ancorandola alla
denominazione della corrispondente lista di elezione, lo stesso statuto
comunale consente la costituzione di gruppi non corrispondenti alle liste
elettorali, purché siano composti da almeno tre membri.
Pertanto, può ritenersi che tale valore numerico costituisca il limite per
la costituzione di gruppi con denominazioni diverse da quelle originarie
(articolo
ItaliaOggi del 31.08.2018). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Informative in consiglio.
Legittime le comunicazioni del presidente. Il loro contenuto va verbalizzato
a tutela dei diritti dei consiglieri.
In
materia di funzionamento del consiglio comunale, è legittima la norma
regolamentare che affida al presidente del consiglio comunale la facoltà di
eventuali comunicazioni proprie o della giunta sull'attività del comune e su
fatti ed avvenimenti di particolare interesse per la comunità, lasciando ai
singoli gruppi solo il diritto di replica, senza possibilità, per i
consiglieri, di introdurre questioni nuove? Tale disposizione, consentendo
al presidente di allargare l'ordine del giorno senza verificare la presenza
e l'accettazione dell'unanimità degli altri componenti del consiglio,
potrebbe presentare profili di illegittimità?
L'art. 38 del decreto legislativo n. 267/2000, al comma 2, stabilisce che il
funzionamento dei consigli è disciplinato dal regolamento, nel quadro dei
principi stabiliti dallo statuto; il regolamento, in particolare, secondo la
citata disposizione, deve prevedere le modalità per la presentazione e la
discussione delle proposte.
L'art. 39 del citato decreto legislativo assegna al presidente del
consiglio, tra gli altri, i poteri di convocazione e direzione dei lavori e
delle attività del consiglio e, al comma 4, dispone l'obbligo di assicurare
una adeguata e preventiva informazione ai gruppi consiliari ed ai singoli
consiglieri sulle questioni sottoposte al consiglio. Su tali questioni,
soggette alla deliberazione del consiglio, i consiglieri, ai sensi dell'art.
43 del citato Tuel, hanno diritto di iniziativa e possono, altresì,
presentare interrogazioni e mozioni.
Nel caso di specie, la norma
regolamentare affida al presidente, nella fattispecie il sindaco, la facoltà
di informare il consiglio, in apertura di seduta, in merito a questioni che
interessano l'operato del sindaco o della giunta o a questioni di
particolare interesse per la comunità non iscritte all'ordine del giorno a
cui, dunque, non dovrebbe seguire alcuna deliberazione. Ferma restando la
riconosciuta potestà, in capo al presidente, di dirigere i lavori e le
attività del consiglio, la norma contenuta nel regolamento non appare
limitativa del diritto dei singoli consiglieri a partecipare alle decisioni
nelle materie di stretta competenza del consiglio medesimo, ai sensi
dell'art. 42 del richiamato decreto legislativo n. 267/2000, che si
concretizzano nell'ordine del giorno formalizzato.
Il contenuto delle comunicazioni del presidente e le repliche affidate ai
rappresentanti dei gruppi devono, comunque, essere riprodotti nel verbale di
seduta, di libero accesso ai singoli consiglieri, ivi compresi gli assenti
alla seduta.
Qualora, dalla lettura di tali verbali, emergano aspetti ritenuti di
interesse, i singoli consiglieri, possono sempre utilizzare gli strumenti
offerti dall'ordinamento, inducendo una eventuale deliberazione, in presenza
dei relativi presupposti di competenza, con la richiesta di inserimento
della questione in un successivo ordine del giorno, secondo le normali
procedure regolamentari, oppure presentare mozioni o interrogazioni (articolo
ItaliaOggi del 24.08.2018). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Accesso
al protocollo informatico da parte dei consiglieri comunali.
Sintesi/Massima
Il “diritto di accesso” ed il “diritto di informazione”
dei consiglieri comunali nei confronti della P.A. trovano la loro disciplina
nell’art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000 che riconosce a questi il
diritto di ottenere dagli uffici comunali, nonché dalle loro aziende ed enti
dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili
all’espletamento del proprio mandato.
Testo
E’ stato posto un quesito circa la legittimità di una regolamentazione da
parte dell’Ente dell’attività consultiva del protocollo informatico da parte
dei consiglieri comunali che hanno avanzato istanza di accesso.
In merito, come osservato dal Plenum della Commissione per l’accesso ai
documenti amministrativi, del 16.03.2010, il “diritto di accesso” ed
il “diritto di informazione” dei consiglieri comunali nei confronti
della P.A. trovano la loro disciplina nell’art. 43 del decreto legislativo
n. 267/2000 che riconosce a questi il diritto di ottenere dagli uffici
comunali, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e
le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato
(Confermato dal successivo parere del 23.10.2012)
Sempre secondo quanto sostenuto dalla Commissione per l’accesso con il
citato parere “l’accesso diretto tramite utilizzo di apposita password al
sistema informatico dell’Ente, ove operante, è uno strumento di accesso
certamente consentito al consigliere comunale che favorirebbe la tempestiva
acquisizione delle informazioni richieste senza aggravare l’ordinaria
attività amministrativa. Ovviamente il consigliere comunale rimane
responsabile della segretezza della password di cui è stato messo a
conoscenza a tali fini (art. 43, comma 2, T.U.O.E.L.)”.
Anche il Garante per la protezione dei dati personali (v. relazione del
2004, pag. 19 e 20) ha specificato che “nell’ipotesi in cui l’accesso da
parte dei consiglieri comunali riguardi dati sensibili, l’esercizio di tale
diritto, ai sensi dell’art. 65, comma 4, lett. b), del Codice, è consentito
se indispensabile per lo svolgimento della funzione di controllo, di
indirizzo politico, di sindacato ispettivo e di altre forme di accesso a
documenti riconosciute dalla legge e dai regolamenti degli organi
interessati per consentire l’espletamento di un mandato elettivo. Resta
ferma la necessità, … che i dati così acquisiti siano utilizzati per le sole
finalità connesse all’esercizio del mandato, rispettando in particolare il
divieto di divulgazione dei dati idonei a rivelare lo stato di salute.
Spetta quindi all’amministrazione destinataria della richiesta accertare
l’ampia e qualificata posizione di pretesa all’informazione ratione officii
del consigliere comunale”.
Peraltro, anche la giurisprudenza ha affermato il diritto del consigliere
alla visione del protocollo generale, senza alcuna esclusione di oggetti e
notizie riservate e di materie coperte da segreto, posto che i consiglieri
comunali sono tenuti al segreto - ai sensi del citato articolo 43 del
decreto legislativo n. 267/2000.
La materia, comunque, così come richiesto, deve trovare apposita disciplina
regolamentare di dettaglio per il suo esercizio nel rispetto delle
prescrizioni e dei limiti sopra indicati a salvaguardia del diritto dei
consiglieri (21.08.2018 - link a http://dait.interno.gov.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Modifica
regolamento consiglio comunale in materia di mozioni.
Sintesi/Massima
Mozioni.
Il diritto di presentare mozioni è previsto
dall’art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000, che al comma 3, demanda allo
statuto ed al regolamento la disciplina concernente le modalità di
presentazione degli atti di sindacato ispettivo e le relative risposte.
Ad
avviso della scrivente, il consiglio comunale potrebbe adottare disposizioni
regolamentari limitative del diritto di proporre emendamenti alle mozioni,
tali da stravolgerne surrettiziamente il significato originario.
Testo
E’ stato chiesto un parere circa la possibilità di modificare la normativa
recata dal regolamento del consiglio comunale in materia di mozioni.
In particolare si chiede se sia coerente con l’ordinamento degli enti locali
una normativa regolamentare che limiti la possibilità di emendare le
proposte di mozioni. La finalità di un siffatto intervento normativo sarebbe
individuabile nella necessità di tutelare il diritto del consigliere
firmatario della mozione a non consentire eventuali emendamenti che ne
stravolgano il senso.
Al riguardo si osserva che il predetto diritto è previsto dall’art. 43 del
decreto legislativo n. 267/2000, che al comma 3, demanda allo statuto ed al
regolamento la disciplina concernente le modalità di presentazione degli
atti di sindacato ispettivo e le relative risposte.
La dottrina definisce “mozioni” gli atti approvati dal consiglio per
esercitare un’azione di indirizzo, esprimere posizioni e giudizi su
determinate questioni, organizzare la propria attività, disciplinare
procedure e stabilire adempimenti dell’amministrazione nei confronti del
Consiglio.
Il TAR Puglia –Sezione di Lecce– I Sez., sentenza n. 1022/2004, individua la
mozione quale “istituto a contenuto non specificato … , trattandosi di un
potere a tutela della minoranza per situazioni non predefinibili, a
differenza di altri strumenti più a valenza di mera conoscenza (quali
l’interrogazione o la interpellanza), essendo strumento di “introduzione ad
un dibattito” che si conclude con un voto che è ragione ed effetto proprio
della mozione”.
Tanto premesso, il consiglio comunale potrebbe adottare disposizioni
regolamentari limitative del diritto di proporre emendamenti alle mozioni,
tali da stravolgerne surrettiziamente il significato originario.
Tuttavia, rientrando la materia in esame nella competenze delle fonti di
autonomia locale, spetterà alla valutazione del singolo ente determinarsi in
tal senso (21.08.2018 - link a http://dait.interno.gov.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Accesso senza paletti. Al riscontro
fornito dal comune alla Corte conti. La conoscenza
di tali atti non viola alcun segreto istruttorio.
In materia di diritto di accesso, da parte dei
consiglieri comunali, è legittimo, ai sensi dell'art. 43 del decreto
legislativo n. 267/2000, il diniego espresso da un comune nei confronti di
un consigliere che ha chiesto all'ente di potere acquisire «il riscontro
fornito dal comune ad una nota della Corte dei conti»?
Nella fattispecie in esame il comune, che avrebbe parzialmente riscontrato
la richiesta della Corte dei conti ha, precisato che trattasi di «chiarimenti
e valutazioni sulle criticità emerse dall'esame delle relazioni ai
rendiconti relativi ad annualità pregresse, redatte dall'organo di revisione
contabile».
In particolare, i funzionari comunali che hanno negato l'accesso al
consigliere, che ha diffidato il responsabile del settore ai sensi dell'art.
328, comma II, del codice penale, hanno rilevato che le richieste della
Corte dei conti sono state effettuate ai sensi dell'art. 1, comma 166 e
segg. della legge 23/12/2005, n. 266 e dell'art. 148-bis del dlgs
18/08/2000, n. 267 e che dunque, «il rilascio della nota di riscontro
richiesta potrebbe essere di pregiudizio per l'ente e per l'attività della
stessa Corte».
Invero, le citate disposizioni non disciplinano i procedimenti di natura
giudiziale (rispetto ai quali la commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi, con talune pronunce –v. plenum del 25/01/2005– ha optato per
il rinvio dell'accesso alla conclusione delle controversie), ma affidano,
invece, alla Corte dei conti il controllo sui bilanci e sui rendiconti degli
enti locali, al fine della verifica del rispetto del patto di stabilità
interno, dell'osservanza dei vincoli in materia di indebitamento e di ogni
grave irregolarità contabile e finanziaria.
La conoscenza di tali atti non violerebbe, dunque, alcun segreto
istruttorio, fermo restando, in tale ipotetico caso, l'assoggettamento del
consigliere al vincolo della riservatezza.
Il plenum della commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, del
16.03.2010, ha affermato che il «diritto di accesso» ed il «diritto
di informazione» dei consiglieri comunali nei confronti della p.a.
trovano la loro disciplina nell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000
che riconosce a questi il diritto di ottenere dagli uffici comunali, nonché
dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in
loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato.
La maggiore ampiezza di legittimazione all'accesso rispetto al cittadino
(art. 10 del decreto legislativo n. 267/2000) è riconosciuta in ragione del
particolare munus espletato dal consigliere comunale.
Lo stesso, infatti, deve essere posto nelle condizioni di valutare, con
piena cognizione di causa, la correttezza e l'efficacia dell'operato
dell'amministrazione, al fine di poter esprimere un giudizio consapevole
sulle questioni di competenza della p.a., opportunamente considerando il
ruolo di garanzia democratica e la funzione pubblicistica esercitata.
Pertanto, il consigliere comunale non deve motivare la propria richiesta di
informazioni, poiché, diversamente opinando, la p.a. si ergerebbe ad arbitro
delle forme di esercizio delle potestà pubblicistiche dell'organo deputato
all'individuazione e al perseguimento dei fini collettivi.
Conseguentemente, gli uffici comunali non hanno il potere di sindacare il
nesso intercorrente tra l'oggetto delle richieste di informazioni avanzate
da un consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da
questi espletato. Peraltro, in fattispecie analoga alla presente, il
Consiglio di stato, Sez. IV con decisione 4829/2011 del 29/08/2011 ha
confermato l'accessibilità, da parte del consigliere, al documento richiesto
«sul fondamento della precisa quanto generale previsione di rango
legislativo recata dall'art. 43 decreto legislativo n. 267 del 2000».
Il Consiglio di stato ha, altresì, specificato che «in assenza di precisi
dati in senso contrario non può che prevalere, pertanto, il principio della
libera accessibilità da parte del consigliere comunale, regola generale alla
quale non risultano essere state apportate deroghe neppure in subiecta
materia».
Pertanto, come affermato dalla stessa commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi (plenum del 03.10.2013), «ai sensi dell'art. 5 del decreto
legislativo n. 33 del 14/03/2013, chiunque, e dunque anche i consiglieri
comunali, ha diritto di ottenere l'accesso ai dati relativi ai controlli
sull'organizzazione e sull'attività dell'amministrazione che la p.a. ha
l'obbligo di pubblicare».
Alla luce del quadro sopra delineato, e ferma restando l'opportunità, per
l'ente, di dotarsi di apposito regolamento per la disciplina di dettaglio
dell'esercizio di tale diritto, non appare, dunque, che possa negarsi
l'accesso agli atti richiesti
(articolo ItaliaOggi del 17.08.2018). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Sì ai gruppi unipersonali. Se statuto e
regolamento non li vietano. La materia è affidata all’autonomia
organizzativa dei consigli.
Un consigliere fuoriuscito da altro gruppo
preesistente può costituire un gruppo unipersonale, nel caso in cui l'ente
non abbia disciplinato la fattispecie con specifiche norme regolamentari?
L'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente prevista dalla legge,
ma si desume implicitamente da quelle disposizioni normative che contemplano
diritti e prerogative in capo ai gruppi o ai capigruppo (art. 38, comma 3,
art. 39, comma 4, e art. 125 del decreto legislativo n. 267/2000).
Nel caso di specie, lo statuto del comune si limita a stabilire che i
consiglieri eletti nella medesima lista formano un gruppo consiliare,
specificando, altresì, che anche nel caso in cui nella lista sia eletto un
solo consigliere, questi costituisce un gruppo autonomo.
Il regolamento sul funzionamento del consiglio comunale ribadisce il
contenuto dello statuto in materia di costituzione dei gruppi, ma non
disciplina l'eventuale formazione di nuovi gruppi scaturenti da movimenti
successivi.
Tuttavia, le disposizioni regolamentari prevedono che il consiglio comunale
prenda atto, nella prima seduta utile, «della costituzione, designazione
ed ogni successiva variazione dei gruppi consiliari», ammettendo, così,
implicitamente, la possibilità di modifiche nei gruppi come discendenti
dall'esito delle elezioni, senza però declinarne le modalità.
Considerato che la materia deve, comunque, essere regolata da apposite norme
statutarie e regolamentari, adottate dai singoli enti locali nell'ambito
dell'autonomia organizzativa dei consigli riconosciuta dal citato art. 38
del Testo unico sugli enti locali (dlgs n. 267/2000), la soluzione alle
relative problematiche dovrebbe essere trovata dallo stesso consiglio, anche
valutando l'opportunità di adottare apposite modifiche regolamentari.
Appare, comunque, corretta nella fattispecie in esame, la posizione
dell'amministrazione locale che la ritiene invece possibile, a seguito
dell'esercizio dell'attività di interpretazione delle proprie norme
nell'ambito dell'autonomia che le viene riconosciuta dall'ordinamento, non
sussistendo una esplicita disposizione statutaria o regolamentare che
impedisca la formazione di nuovi gruppi (articolo
ItaliaOggi del 10.08.2018). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Consigli, prefetti in campo. Se il
presidente non convoca l’assemblea. Anche la
trattazione di semplici questioni attiene ai poteri dell’organo
Ai sensi dell'art. 39, comma 5, del decreto legislativo n. 267/2000, in quali
casi viene attivato il potere sostitutivo del prefetto?
Nella fattispecie in esame, alcuni consiglieri comunali di minoranza hanno
depositato presso il comune una mozione e una interrogazione contestualmente
alla istanza di convocazione del consiglio, ai sensi dell'art. 39, comma 2,
del decreto legislativo n. 267/2000 e, a causa del mancato riscontro della
richiesta nei termini indicati dalla legge, hanno chiesto l'attivazione del
potere sostitutivo del prefetto ex art. 39, comma 5, del citato Tuel.
Il regolamento sul funzionamento del consiglio comunale prevede che le
interrogazioni e le mozioni presentate al protocollo dell'ente devono essere
iscritte all'ordine del giorno in occasione della convocazione della prima
adunanza del consiglio successiva alla loro presentazione.
Inoltre, la medesima fonte normativa stabilisce che la convocazione
richiesta ex art. 39, comma 2, «deve contenere in allegato, per ciascun
argomento indicato da iscrivere all'ordine del giorno, il relativo schema di
deliberazione».
Il sindaco, in base al combinato disposto delle citate norme regolamentari,
sostiene che la richiesta di convocazione formulata da un quinto dei
consiglieri non possa avere ad oggetto atti di sindacato ispettivo, dovendo
ciascuna richiesta essere, indefettibilmente, corredata dal relativo «schema
di deliberazione».
Ciò stante, l'orientamento che vede riconosciuto e definito dal legislatore
«il potere dei consiglieri di chiedere la convocazione del Consiglio
medesimo» come «diritto» è ormai ampiamente consolidato (sentenza
Tar Puglia, Lecce, sez. I del 04.02.2004, n. 124). Peraltro, il diritto ex
art. 39, comma 2, «è tutelato in modo specifico dalla legge con la
previsione severa ed eccezionale della modificazione dell'ordine delle
competenze mediante intervento sostitutorio del prefetto in caso di mancata
convocazione del consiglio comunale in un termine emblematicamente breve di
venti giorni» (Tar Puglia, sez. 1, 25.07.2001, n. 4278).
Il Tar Sardegna, con sentenza n. 718 del 2003, ha respinto un ricorso
avverso un provvedimento prefettizio ex art. 39, comma 5, del citato decreto
legislativo in quanto, ad avviso del giudice amministrativo, il prefetto non
poteva esimersi dal convocare d'autorità il consiglio comunale, «essendosi
verificata l'ipotesi di cui all'art. 39 del Tuel n. 267/2000».
Circa la questione della sindacabilità dei motivi che determinano i
consiglieri a chiedere la convocazione straordinaria dell'assemblea, secondo
l'indirizzo prevalente, al presidente del consiglio spetta solo la verifica
formale della richiesta e il prescritto numero di consiglieri, non potendo
comunque sindacarne l'oggetto.
La giurisprudenza in materia si è, infatti, da tempo espressa affermando
che, in caso di richiesta di convocazione del consiglio da parte di un
quinto dei consiglieri, «al presidente del consiglio comunale spetta
soltanto la verifica formale che la richiesta provenga dal prescritto numero
di soggetti legittimati, mentre non può sindacarne l'oggetto, poiché spetta
allo stesso consiglio nella sua totalità la verifica circa la legalità della
convocazione e l'ammissibilità delle questioni da trattare, salvo che non si
tratti di oggetto che, in quanto illecito, impossibile o per legge
manifestamente estraneo alle competenze dell'assemblea in nessun caso
potrebbe essere posto all'ordine del giorno» (Tar Piemonte, n. 268/1996
).
Inoltre, si è sostenuto che appartiene ai poteri sovrani dell'assemblea
decidere in via pregiudiziale che un dato argomento inserito nell'ordine del
giorno non debba essere discusso (questione pregiudiziale) ovvero se ne
debba rinviare la discussione (questione sospensiva) (Tar Puglia, Lecce,
sez. 1, 25.07.2001, n. 4278 e sempre Tar Puglia, Lecce, sez. 1, 04.02.2004,
n. 124).
Nondimeno, l'art. 43 del Tuel demanda alla potestà statutaria e
regolamentare dei comuni e delle province la disciplina delle modalità di
presentazione delle interrogazioni, delle mozioni e di ogni altra istanza di
sindacato ispettivo proposta dai consiglieri, nonché delle relative
risposte, che devono comunque essere fornite entro 30 giorni.
Al riguardo, qualora l'intenzione dei proponenti non fosse diretta a
provocare una delibera in merito del consiglio comunale, bensì a porre in
essere un atto di sindacato ispettivo, si potrebbe ipotizzare, ai sensi
dell'art. 42, comma 1, del decreto legislativo n. 267/2000, che rientri
nella competenza del consiglio comunale in qualità di «organo di
indirizzo e di controllo politico-amministrativo» anche la trattazione
di «questioni» che, pur non rientrando nell'elencazione del comma 2
del medesimo art. 42, attengono comunque al suddetto ambito di controllo.
Del resto, la dizione legislativa che parla di «questioni» e non di
deliberazioni o di atti fondamentali, conforta nel ritenere che la
trattazione di argomenti non rientranti nella previsione del citato comma 2,
dell'art. 42, non debba necessariamente essere subordinata alla successiva
adozione di provvedimenti da parte del consiglio comunale.
Sulla base di tali argomentazioni, pertanto, il prefetto è tenuto alla
applicazione della normativa prevista dall'art. 39, comma 5, del decreto
legislativo n. 267/2000, invitando il sindaco a voler provvedere alla
convocazione del richiesto consiglio comunale.
Con specifico riferimento al caso in esame, l'ente potrebbe valutare
l'opportunità di modificare la normativa regolamentare dal momento che la
stessa, limitando all'esame delle «deliberazioni» la possibilità di accedere
all'istituto previsto dall'art. 39, comma 2, citato, restringe il perimetro
dei diritti riconosciuti ai consiglieri comunali dalla legge statale (articolo
ItaliaOggi del 03.08.2018). |
luglio 2018 |
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CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Commissioni di garanzia. Per verifiche e controlli sull'attività
di governo. La presidenza deve essere attribuita a un consigliere di
opposizione.
È legittima la convocazione della Commissione garanzia e controllo comunale,
richiesta da un comitato di cittadini, per verificare l'eventuale violazione
delle norme sulla sicurezza nella costruzione di un distributore di
carburanti nel territorio comunale?
La questione deve essere risolta facendo riferimento alle disposizioni di
legge o di regolamento, ovvero agli statuti locali.
In linea generale, nei comuni sono operanti commissioni obbligatorie
(previste per legge come, per esempio, la commissione elettorale comunale) e
commissioni facoltative (come le commissioni consiliari permanenti ex art.
38 del dlgs n. 267/2000); in entrambi i casi, la rispettiva composizione e
il funzionamento si riconducono generalmente alla fonte normativa che le
istituisce e, quindi, alle previsioni statutarie e regolamentari.
Nella fattispecie in esame, lo Statuto comunale stabilisce solo che i
presidenti delle commissioni permanenti istituite con finalità di controllo
sono eletti tra i rappresentanti dei gruppi consiliari di opposizione;
inoltre prevede la possibilità di istituire commissioni di inchiesta e
consente di istituire commissioni speciali per l'esame di problemi
particolari, demandando al consiglio la composizione, l'organizzazione, le
competenze, i poteri e la durata delle stesse.
Il regolamento consiliare, invece, disciplina le commissioni speciali e le
commissioni di inchiesta e dispone che le commissioni con funzioni di
garanzia e di controllo «effettuino verifiche sull'attività di governo,
sulla programmazione e sulla pianificazione delle attività, sui risultati e
sugli obiettivi raggiunti».
Le commissioni aventi funzioni di controllo e di garanzia potrebbero
considerarsi, come ha sostenuto parte della dottrina, una specie del
medesimo genere delle commissioni di indagine. Tale assunto è confermato
dalla circostanza che la materia è trattata nello stesso art. 44 del dlgs.
n. 267/2000.
Tuttavia, ferma restando la tutela della minoranza che si concretizza
nell'affidamento della presidenza della commissione permanente a un
consigliere dell'opposizione, una volta costituita, l'attività istituzionale
di tale commissione segue la dinamica delle altre commissioni permanenti,
nel rispetto comunque delle competenze amministrative demandate previamente
agli uffici comunali.
Considerato che lo Statuto e il regolamento hanno previsto la possibilità di
istituire anche commissioni speciali con il compito di approfondire
«particolari questioni o problemi che interessino il comune», la fattispecie
relativa alla presunta violazione delle norme sulla sicurezza nella
costruzione di un impianto sul territorio comunale sembra incidere, in
particolare, sulla competenza di tali organismi, poiché l'attività della
commissione garanzia e controllo dovrà limitarsi alle verifiche
sull'attività di governo (articolo
ItaliaOggi del 27.07.2018). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Composizione
delle Commissioni consiliari permanenti. Impossibilità di insediamento.
Sintesi/Massima
Composizione delle Commissioni consiliari permanenti.
Impossibilità di insediamento.
In base a quanto disposto dall’articolo 38, comma 6, del decreto legislativo
n. 267/2000, le commissioni consiliari, una volta istituite sulla base di
una facoltativa previsione statutaria, sono disciplinate dall’apposito
regolamento comunale con l’inderogabile limite, posto dal legislatore,
riguardante il rispetto del criterio proporzionale nella composizione.
Le forze politiche presenti in consiglio devono, pertanto, essere il più
possibile rappresentate anche nelle commissioni.
A fronte delIa oggettiva impossibilità di insediare validamente le
commissioni a causa della indisponibilità manifestata da alcuni consiglieri
di minoranza, la situazione di fatto verificatasi è tale da giustificare, in
ragione del principio della continuità amministrativa, il riespandersi della
competenza piena del consiglio comunale.
Testo
E’ stato formulato un quesito in materia di commissioni consiliari
consultive permanenti.
L’art. 37 dello statuto comunale prevede l’istituzione delle commissioni
consultive, distinte in permanenti e temporanee, “…formate da consiglieri o
cittadini iscritti nelle liste elettorali del comune con esperienza e
competenza utili all’espletamento dei compiti”.
Ai sensi del regolamento del funzionamento del consiglio sono previste sei
commissioni consiliari permanenti composte da un massimo di cinque membri,
di cui tre consiglieri in rappresentanza della maggioranza e due della
minoranza.
Tuttavia nessun consigliere di minoranza ha accettato l’incarico di
componente delle commissioni e, pertanto, le stesse risultano composte
solamente dai tre membri di maggioranza.
Attesa la mancata designazione dei rappresentanti della minoranza, si chiede
un parere in merito all’operatività delle Commissioni consiliari permanenti.
Al riguardo si osserva, in via preliminare, che in base a quanto disposto
dall’articolo 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000, le commissioni
consiliari, una volta istituite sulla base di una facoltativa previsione
statutaria, sono disciplinate dall’apposito regolamento comunale con
l’inderogabile limite, posto dal legislatore, riguardante il rispetto del
criterio proporzionale nella composizione. Le forze politiche presenti in
consiglio devono, pertanto, essere il più possibile rappresentate anche
nelle commissioni.
In base al principio consolidato in materia di organi collegiali, secondo il
quale all’atto del primo insediamento l’organo deve essere completo in tutte
le sue componenti per potersi dire legittimamente costituito e poter
validamente operare, si ritiene che la mancata designazione dei
rappresentanti di minoranza abbia impedito, di fatto, la costituzione delle
commissione in argomento.
Al riguardo, va rilevato anzitutto la natura delle commissioni consiliari.
Esse non sono organi necessari dell’ente locale, cioè non sono componenti
indispensabili della sua struttura organizzative, bensì organi strumentali
dei consigli ed, in quanto tali, costituiscono componenti interne
dell’organo assembleare, prive di una competenza autonoma e distinta da
quella ad esso attribuita. In altri termini, le commissioni consiliari
operano sempre e comunque nell’ambito della competenza dei consigli.
A fronte della oggettiva impossibilità di insediare validamente le
commissioni a causa della indisponibilità manifestata da alcuni consiglieri
di minoranza, la situazione di fatto verificatasi è tale da giustificare, in
ragione del principio della continuità amministrativa, il riespandersi della
competenza piena del consiglio comunale.
Ovviamente ciò non esclude che l’argomento della ricostituzione delle
commissioni comunali possa essere iscritto all’ordine del giorno delle
sedute consiliari fino alla sua positiva trattazione.
Per quanto concerne la previsione dello statuto comunale circa la
possibilità di eleggere, quali componenti delle commissioni, anche cittadini
esterni al consiglio comunale, si rappresenta che, ai sensi del citato art.
38, comma 6, lo statuto può prevedere la costituzione di commissioni
consiliari, istituite dal consiglio «nel proprio seno». Pertanto, la
formulazione della norma statutaria non appare coerente con la disciplina
dettata dal legislatore circa la indefettibilità dello status di consigliere
comunale in capo ai componenti delle commissioni consiliari ex art. 38,
comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000 (19.07.2018
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CONSIGLIERI COMUNALI: Utilizzo
fascia tricolore.
Sintesi/Massima
Utilizzo fascia tricolore.
Con circolare di questo
Ministero n. 5/1998, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 270 del
18.11.1998, è stato evidenziato il carattere sostanziale dell’intervento
normativo (art. 36, comma 7 della legge n. 142/1990 come sostituito
dall’art. 4, comma 2, della legge 15.05.1997, n. 127 - ora art. 50, comma 12
del decreto legislativo n. 267/2000), con il quale è stato espressamente
disposto che «distintivo del sindaco è la fascia tricolore con lo stemma
della Repubblica e lo stemma del comune» e che “nell’uso corrente si è
affermata la consuetudine che il sindaco indossi la fascia in tutte le
occasioni ufficiali, in qualunque veste intervenga”.
Testo
E’ stato posto un quesito in ordine al corretto uso della fascia tricolore.
In particolare, è stato chiesto se l’utilizzo della predetta fascia
tricolore, previa autorizzazione del Sindaco, per la partecipazione alla
commemorazione dei caduti di Salò da parte di un consigliere comunale sia
corretto.
Al riguardo si osserva che, con circolare di questo Ministero n. 5/98,
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 270 del 18.11.1998, si sono fornite
indicazioni in ordine all’utilizzo della fascia tricolore da parte del
sindaci.
Nella predetta circolare viene evidenziato il carattere sostanziale
dell’intervento normativo (art. 36, comma 7, della legge n. 142/1990 come
sostituito dall’art. 4, comma 2, della legge 15.05.1997, n. 127 - ora art.
50, comma 12 del decreto legislativo n. 267/2000), con il quale è stato
espressamente disposto che «distintivo del sindaco è la fascia tricolore con
lo stemma della Repubblica e lo stemma del comune» e che “nell’uso corrente
si è affermata la consuetudine che il sindaco indossi la fascia in tutte le
occasioni ufficiali, in qualunque veste intervenga”.
Va da sé che, allorquando il sindaco sia assente o impedito temporaneamente
ai sensi dell’art. 53, comma 2, del T.U.O.E.L., spetta solo al vice sindaco
fregiarsene.
Restano validi gli utilizzi stabiliti da esplicite previsioni normative,
come quella di cui all’articolo 70 del d.P.R. n. 396, del 3 novembre 2000,
ove, in ragione della particolarità delle funzioni espletate, si prevede che
“l’ufficiale dello stato civile, nel celebrare il matrimonio e nel
costituire l’unione civile, deve indossare la fascia tricolore…”.
Pertanto, l’uso della fascia tricolore, anche per delega dello stesso
sindaco, da parte di altri soggetti, seppur eventualmente incardinati
nell’Amministrazione comunale o facenti parte di Organismi o Enti a cui
partecipino gli Enti locali con propri rappresentanti, è ammesso solo nelle
ipotesi sopra indicate.
In ogni caso, ribadendo sempre il contenuto della richiamata circolare
ministeriale, ove viene precisato che “viene attribuito ad un elemento
simbolico una specifica funzione che è distintiva, siccome finalizzata a
rendere palese la differenza tra il sindaco e gli altri titolari di
pubbliche cariche”, si ritiene che l’uso della fascia tricolore sia
legato proprio alla natura delle funzioni sindacali che sono di capo
dell’Amministrazione comunale e di ufficiale di Governo e che, dunque, anche
il sindaco sia vincolato al suo utilizzo nei limiti previsti dalla normativa
(19.07.2018
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CONSIGLIERI COMUNALI: Procedimento
di formazione dei gruppi consiliari.
Sintesi/Massima
Ipotesi inclusione del sindaco in un gruppo consiliare.
Il sindaco, pur se membro del consiglio comunale ai sensi dell'art. 46 del
T.U.O.E.L., ha, in effetti, una posizione differenziata rispetto ai singoli
consiglieri comunali.
Tale disposizione lascia emergere la configurazione della posizione di
terzietà del sindaco nel rapporto con i gruppi medesimi.
Ne deriva che l’iscrizione del sindaco ad un gruppo o addirittura la
costituzione di un gruppo unipersonale nel corso della consiliatura da parte
dello stesso sindaco può incidere sul corretto e bilanciato esercizio delle
funzioni di governo dell’ente.
Testo
E’ stato trasmesso il quesito del Segretario generale del Comune di Trecate,
in materia di formazione dei gruppi consiliari.
In particolare, è stato chiesto se, alla luce della vigente normativa anche
regolamentare e statutaria dell’Ente, sia legittimo mantenere l’inclusione
del sindaco in un gruppo consiliare e se lo stesso debba considerarsi
“terzo” in tutti gli organismi consiliari e, in coerenza con tale posizione
di terzietà, se il criterio di determinazione del quorum strutturale debba
prescindere dal sindaco consigliere.
Al riguardo, come noto, la disciplina della materia relativa alla
costituzione dei gruppi consiliari è demandata allo statuto e al regolamento
del consiglio nell'esercizio della propria autonomia funzionale ed
organizzativa riconosciuta in particolare dall'art. 38, comma 3, del decreto
legislativo n. 267/2000.
Ne deriva che le problematiche relative alla costituzione e al funzionamento
dei gruppi consiliari dovrebbero essere valutate alla stregua delle
specifiche norme statutarie e regolamentari di cui l'ente locale si è
dotato, competendo al consiglio comunale l'eventuale interpretazione
autentica delle predette norme.
Tuttavia, si ricorda che con una serie di pareri di questa Direzione
Centrale emessi nel corso degli anni alla luce della sentenza della Corte
Costituzionale n. 44/1997 (la quale afferma che il Sindaco viene computato
ad ogni fine tra i componenti del Consiglio stesso) ed alla luce della
decisione del C.d.S. n. 476/1998 (da cui emerge che il sindaco, essendo
componente del consiglio a tutti gli effetti può astrattamente essere
componente delle commissioni consiliari), si è affermata la tesi di una
possibile partecipazione del sindaco sia alle commissioni consiliari e sia
ai gruppi dai quali proporzionalmente scaturiscono tali commissioni.
L’attività interpretativa, nondimeno, non può essere disgiunta
dall'osservanza dei principi di buona amministrazione, né possono essere
utilizzate a sostegno di tale attività, massime giurisprudenziali o
dottrinarie che non si adattino perfettamente alla fattispecie esaminata.
Il sindaco, pur se membro del consiglio comunale ai sensi dell'art. 46 del
T.U.O.E.L., ha, in effetti, una posizione differenziata rispetto ai singoli
consiglieri comunali.
Tale disposizione lascia emergere la configurazione della posizione di
terzietà del sindaco nel rapporto con i gruppi medesimi.
Ne deriva che l’iscrizione del sindaco ad un gruppo o addirittura la
costituzione di un gruppo unipersonale nel corso della consiliatura da parte
dello stesso sindaco può incidere sul corretto e bilanciato esercizio delle
funzioni di governo dell’ente.
Riguardo al quorum strutturale per la validità delle sedute, l’art. 38,
comma 2, del T.U.O.E.L. demanda al regolamento l’individuazione del numero
dei consiglieri necessario per la validità delle sedute, prevedendo che in
ogni caso debba esservi la presenza di almeno un terzo dei consiglieri
assegnati per legge all'ente, senza computare a tale fine il sindaco e il
presidente della provincia.
Fermo restando il principio generale che, nelle ipotesi in cui l'ordinamento
non ha inteso annoverare il sindaco o il presidente della provincia, nel
quorum richiesto per la validità delle sedute, lo ha indicato espressamente
usando la formula “senza computare a tal fine il sindaco ed il presidente
della provincia”, si ritiene legittimo, al di fuori del caso
prospettato, includere nel calcolo dei consiglieri anche il sindaco, fatte
salve le eventuali previsioni statutarie o regolamentari difformi adottate
dall’ente locale nell’ambito della propria discrezionalità (19.07.2018
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CONSIGLIERI COMUNALI: Atti
urgenti e improrogabili. Applicazione artt. 38, comma 5, e 39 comma 2, del
decreto legislativo n. 267/2000.
Sintesi/Massima
Ai sensi dell’art. 38, comma 5, i consigli comunali
durano in carica per un periodo di cinque anni sino all’elezione dei nuovi,
limitandosi, dopo la pubblicazione del decreto di indizione dei comizi
elettorali, ad adottare gli atti urgenti e improrogabili.
La previsione legislativa in esame trae la propria ratio ispiratrice dalla
necessità di evitare che il consiglio comunale possa condizionare la
formazione della volontà degli elettori adottando atti aventi natura
cosiddetta “propagandistica”, tali da alterare la par condicio tra le forze
politiche che partecipano alle elezioni amministrative.
Testo
E’ stato formulato un quesito in ordine alla portata applicativa dell’art.
38, comma 5, del decreto legislativo n. 267/2000.
In particolare, alcuni consiglieri del comune in oggetto hanno prospettato
doglianze circa la prosecuzione dell’esame delle osservazioni e delle
controdeduzioni al regolamento urbanistico, da parte del consiglio comunale,
successivamente alla pubblicazione del decreto di convocazione dei comizi
elettorali.
Secondo quanto osservato dagli esponenti, l’esame di tali atti da parte del
consiglio comunale sarebbe impedito proprio dal disposto dell’art 38, comma
5, citato, stante l’assenza di un termine perentorio per l’adozione del
regolamento urbanistico ed in considerazione della natura tipicamente
discrezionale delle deliberazioni in parola destinate ad incidere sul futuro
del territorio.
Come noto, ai sensi del richiamato art. 38, comma 5, i consigli comunali
durano in carica per un periodo di cinque anni sino all’elezione dei nuovi,
limitandosi, dopo la pubblicazione del decreto di indizione dei comizi
elettorali, ad adottare gli atti urgenti e improrogabili. La previsione
legislativa in esame trae la propria ratio ispiratrice dalla necessità di
evitare che il consiglio comunale possa condizionare la formazione della
volontà degli elettori adottando atti aventi natura cosiddetta
“propagandistica”, tali da alterare la par condicio tra le forze politiche
che partecipano alle elezioni amministrative.
La prevalente giurisprudenza precisa che la preclusione disposta dalla
citata norma opera solamente con riguardo a quelle fattispecie in cui il
consiglio comunale è chiamato ad operare in pieno esercizio di
discrezionalità e senza interferenze con i diritti fondamentali
dell’individuo riconosciuti e protetti dalla fonte normativa superiore.
Quando invece l’organo consiliare è chiamato a pronunciarsi su questioni
vincolate nell’an, nel quando e nel quomodo e che, inoltre, coinvolgano
diritti primari dell’individuo, l’esercizio del potere non può essere
rinviato (TAR Puglia n. 382/2004).
E’ stato precisato, inoltre, che il carattere di atti urgenti e
improrogabili possa essere riconosciuto agli atti “… per i quali è previsto
un termine perentorio e decadenziale, superato il quale viene meno il potere
di emetterli, ovvero essi divengono inutili, cioè inidonei a realizzare la
funzione per la quale devono essere formati … o hanno un’utilità di gran
lunga inferiore” (TAR Veneto 1118 del 2012).
In ordine alla sussistenza del presupposto della urgenza ed improrogabilità,
è stato osservato che lo stesso …“costituisce apprezzamento di merito
insindacabile in sede di giurisdizione di legittimità, se non sotto il
limitato profilo della inesistenza del necessario apparato motivazionale,
ovvero della palese irrazionalità od illogicità della motivazione addotta”
(sentenza Tar Friuli Venezia Giulia n. 585 del 2006, confermata in appello
dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 6543/2008).
Come indicato nella circolare di questo Ministero n. 2 del 07.12.2006,
va rilevato che l’esistenza dei presupposti di urgenza ed improrogabilità
deve essere valutata caso per caso dallo stesso consiglio comunale che ne
assume la relativa responsabilità politica, tenendo presente il criterio
interpretativo di fondo che pone, quali elementi costitutivi della
fattispecie, scadenze fissate improrogabilmente dalla legge e/o il rilevante
danno per l’amministrazione comunale che deriverebbe da un ritardo nel
provvedere.
Per quanto concerne la specifica problematica evidenziata, si prende atto
che l’organo assembleare ha motivato la necessità di proseguire i lavori
propedeutici all’approvazione del regolamento urbanistico, aderendo alle
osservazioni tecniche espresse dal dirigente competente circa la necessità
di pervenire all’approvazione di tale regolamento entro il 24.07.2018.
Pertanto si ritengono sussistenti le ragioni giustificative della
prosecuzione dei lavori assembleari successivamente alla pubblicazione del
decreto di convocazione dei comizi elettorali (19.07.2018
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CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Par condicio in comune. Uguali opportunità per entrambi i sessi.
Il principio vale anche per i municipi con meno di 3.000 abitanti.
In tema di parità di genere, quale disciplina deve essere applicata, nella
composizione della giunta comunale, ad un ente locale con popolazione
inferiore a 3.000 abitanti?
Affinché sia rispettato il principio dell'equilibrio di genere, la legge n.
56 del 07.04.2014, all'art. 1, comma 137, ha previsto, per i soli comuni con
popolazione superiore ai 3.000 abitanti, il quorum del 40%. Per i
comuni al di sotto di tale soglia demografica resta vigente, invece, l'art.
6, comma 3, del decreto legislativo n. 267/2000.
Tale disposizione prevede che gli statuti comunali e provinciali
stabiliscano norme per assicurare condizioni di pari opportunità tra uomo e
donna e per garantire la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli
organi collegiali non elettivi del comune e della provincia, nonché degli
enti, aziende ed istituzioni da essi dipendenti.
Nella specie, la legge n. 215 del 2012 ha modificato la norma citata
sostituendo il verbo «promuovere» con il verbo «garantire» ed ha
aggiunto alla espressione «organi collegiali» la dicitura «non
elettivi» (art. 1, comma 1); l'art. 1, comma 2, di tale legge, inoltre,
ha previsto l'obbligo, per gli enti locali, di adeguare i propri statuti e
regolamenti alle disposizioni recate dell'art. 6, comma 3, del Tuoel. entro
sei mesi dall'entrata in vigore della stessa legge.
Peraltro, l'art. 2, comma 1, lett. b), della citata legge n. 215/2012 ha
modificato l'art. 46, comma 2, del decreto legislativo n. 267/00, disponendo
che il sindaco ed il presidente nella provincia nominano i componenti della
giunta «nel rispetto del principio di pari opportunità tra donne e
uomini, garantendo la presenza di entrambi i sessi». Tale normativa va
letta alla luce dell'art. 51 della Costituzione, come modificato dalla legge
costituzionale n. 1/2003, che ha riconosciuto dignità costituzionale al
principio della promozione delle pari opportunità tra donne e uomini.
Nel caso dei comuni rientranti nella sopraindicata fascia demografica,
pertanto, devono trovare applicazione le disposizioni contenute nei citati
articoli 6, comma 3, e 46, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 e
nella legge n. 215/2012. Tali disposizioni, recependo i principi sulle pari
opportunità dettati dall'art. 51 della Costituzione, dall'art. 1 del decreto
legislativo dell'11.04.2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità) e
dall'art. 23 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, non
hanno un mero valore programmatico, ma carattere precettivo, finalizzato a
rendere effettiva la partecipazione di entrambi i sessi in condizioni di
pari opportunità, alla vita istituzionale degli enti territoriali (articolo
ItaliaOggi del 13.07.2018). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Seduta entro 20 giorni.
Ai sensi dell' articolo 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000,
entro il previsto termine di 20 giorni deve effettuarsi la materiale seduta
del consiglio comunale o deve solo procedersi alla convocazione
dell'assemblea?
L'articolo 39, comma 2, citato stabilisce che il presidente del consiglio
comunale è tenuto a riunire il consiglio in un termine non superiore ai
venti giorni, quando lo richiedano un quinto dei consiglieri o il sindaco,
inserendo all'ordine del giorno le questioni richieste.
Il successivo art. 43 che enuncia i «diritti dei consiglieri», al comma 1,
ribadisce, tra l'altro, che i consiglieri hanno il diritto di chiedere la
convocazione del consiglio secondo le modalità dettate dal richiamato art.
39, comma 2.
Il Tar per la Puglia–Lecce, prima sezione, ha precisato che «il termine di
20 giorni deve intendersi istituito quale termine minimo oltre il quale gli
interessati possono attivarsi per provocare l'intervento sostitutivo del
prefetto», posto a presidio dell'effettivo diritto dei consiglieri.
Nella fattispecie esaminata dal Tribunale, la riunione del Consiglio si era
tenuta dopo 23 giorni dalla presentazione della richiesta di convocazione,
pertanto, secondo il Tar, si era comunque realizzato il diritto dei
consiglieri alla riunione del Consiglio per la discussione di una
determinata questione da essi chiesta ai sensi dell'art. 43 comma 1, del
decreto legislativo n. 267/2000.
Conclusivamente è da ritenere che nell'arco temporale di venti giorni,
decorrenti dalla presentazione della richiesta, debbano svolgersi tanto la
convocazione che la materiale seduta consiliare finalizzata alla discussione
degli argomenti proposti dal quinto dei consiglieri (articolo
ItaliaOggi del 06.07.2018). |
giugno 2018 |
|
CONSIGLIERI COMUNALI: Richiesta
di convocazione da parte di un quinto dei consiglieri.
Sintesi/Massima
Richiesta di convocazione da parte di un quinto dei
consiglieri. Art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000.
Al Presidente del Consiglio spetta solo la verifica formale della richiesta
(prescritto numero di consiglieri), mentre non potrebbe essere sindacata nel
merito, salvo che non si tratti di oggetto che, in quanto illecito,
impossibile o per legge manifestamente estraneo alle competenze
dell’assemblea.
Il Tar Puglia nella sentenza n. 1022/2004 ha precisato che appartiene ai
poteri "sovrani" dell'assemblea decidere in via pregiudiziale che un dato
argomento inserito nell'ordine del giorno non debba essere discusso
("questione pregiudiziale"), ovvero se ne debba rinviare la discussione
("questione sospensiva").
Il citato Tar Puglia ha sottolineato, inoltre, che "…l’ordinamento ritiene
un valore essenziale del sistema democratico che alla minoranza sia
assicurata effettività del diritto di iniziativa, e cioè del diritto di
discussione in assemblea sull’argomento richiesto.
Ove, così non fosse, grave ed evidente sarebbe la contraddizione fra tutela
rafforzata del diritto di iniziativa e mancanza di limiti per la maggioranza
di metterlo nel nulla con la proposizione di una qualunque questione
pregiudiziale.”.
Testo
Sono stati chiesti chiarimenti in ordine alla normativa recata dall’art. 39,
comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000.
Al riguardo, com'é noto, il citato art. 39 prescrive che il presidente del
consiglio comunale è tenuto a riunire il consiglio, in un termine non
superiore ai venti giorni, quando lo richiedano un quinto dei consiglieri o
il sindaco, inserendo all’ordine del giorno le questioni richieste. La
disposizione configura un obbligo del Presidente del consiglio comunale di
procedere alla convocazione dell'organo assembleare senza alcun riferimento
alla necessaria adozione di determinazioni, da parte del consiglio stesso.
In caso di inosservanza degli obblighi di convocazione, in base al comma 5,
previa diffida, provvede il prefetto.
La dibattuta questione sulla sindacabilità, da parte del Presidente del
Consiglio (o del Sindaco), dei motivi che determinano i consiglieri a
chiedere la convocazione straordinaria dell’assemblea, si è orientata,
sempre in base alla giurisprudenza, nel senso che allo stesso spetti solo la
verifica formale della richiesta (prescritto numero di consiglieri), mentre
non potrebbe essere sindacata nel merito, salvo che non si tratti di oggetto
che, in quanto illecito, impossibile o per legge manifestamente estraneo
alle competenze dell’assemblea in nessun caso potrebbe essere posto
all’ordine del giorno (v. TAR Piemonte, Sez. II, 24.04.1996, n. 268).
Alla luce del richiamato orientamento giurisprudenziale e dottrinario, le
uniche ipotesi per le quali l'organo che presiede il consiglio comunale può
omettere la convocazione dell'assemblea sembrano la carenza del prescritto
numero di consiglieri oppure la verificata illiceità, impossibilità o
manifesta estraneità dell'oggetto alle competenze del Consiglio.
Nello stabilire se una determinata questione sia o meno di competenza del
Consiglio comunale occorre aver riguardo non solo agli atti fondamentali
espressamente elencati dal comma 2 dell'art. 42 del citato testo unico, ma
anche alle funzioni di indirizzo e di controllo politico-amministrativo di
cui al comma 1 del medesimo art. 42, con la possibilità, quindi, che la
trattazione da parte del collegio non debba necessariamente sfociare
nell'adozione di un provvedimento finale.
Il Consiglio comunale ha, infatti, un potere generale di indirizzo e di
controllo politico-amministrativo sull'attività del Comune, nel cui ambito
rientra pure quello di indirizzo, coordinamento e controllo sull'operato
della Giunta (conforme, Tribunale di Giustizia Amministrativa di Trento n. 20/2010
del 14.01.2010).
L’amministrazione locale in oggetto, nel ritenere non obbligatoria la
convocazione dell'assemblea per esaminare questioni considerate "estranee"
alla competenza consiliare, ha richiamato le osservazioni formulate dal Tar
Puglia nella sentenza n. 1022/2004. Nella citata pronuncia il giudice
amministrativo ha precisato che appartiene ai poteri "sovrani"
dell’assemblea decidere in via pregiudiziale che un dato argomento inserito
nell'ordine del giorno non debba essere discusso ("questione
pregiudiziale"), ovvero se ne debba rinviare la discussione ("questione
sospensiva").
La sentenza offre, altresì, un'interessante riflessione circa il necessario
bilanciamento del potere assembleare di esaminare le questioni pregiudiziali
con il diritto riconosciuto alle minoranze di attivare l’istituto della
convocazione dell’assemblea su richiesta di un quinto dei consiglieri.
A
tale proposito, il citato Tar Puglia ha ritenuto di dover sottolineare che
"…tale diritto di iniziativa è tutelato in modo specifico dalla legge con la
previsione severa ed eccezionale della modificazione dell'ordine delle
competenze mediante intervento sostitutorio del Prefetto in caso di mancata
convocazione del consiglio comunale in un termine emblematicamente breve
(venti giorni). Il significato giuridicamente utile di tale procedura
rafforzata di tutela va individuato nel fatto che l'ordinamento ritiene un
valore essenziale del sistema democratico che alla minoranza sia assicurata
effettività del diritto di iniziativa, e cioè del diritto di discussione in
assemblea sull'argomento richiesto. Ove, così non fosse, grave ed evidente
sarebbe la contraddizione fra tutela rafforzata del diritto di iniziativa e
mancanza di limiti per la maggioranza di metterlo nel nulla con la
proposizione di una qualunque questione pregiudiziale.”.
Pertanto è nell'ambito delle descritte coordinate giurisprudenziali che il
Presidente del consiglio dovrà conformare il proprio operato (28.06.2018
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Gruppi consiliari.
Sintesi/Massima
Ai sensi dell’art. 3 dello statuto speciale della
Regione Sardegna, l’ordinamento degli enti locali rientra nella competenza
della legislazione regionale nel rispetto della Costituzione, dei principi
dell’ordinamento giuridico della Repubblica, degli obblighi internazionali e
degli interessi nazionali, nonché delle norme fondamentali delle riforme
economico-sociali della Repubblica.
Testo
E’ stato formulato un quesito in materia di gruppi consiliari.
In particolare, è stato chiesto se, alla luce della normativa recata dalle
fonti di autonomia locale del Comune in oggetto, due consiglieri,
originariamente inseriti nel gruppo corrispondente alla lista di
maggioranza, possano costituire un nuovo gruppo diverso dal gruppo misto e
se, nell’ambito di un eventuale gruppo misto, possa essere designato un
capogruppo.
Si osserva preliminarmente che, ai sensi dell’art. 3 dello statuto speciale
della Regione Sardegna, l’ordinamento degli enti locali rientra nella
competenza della legislazione regionale nel rispetto della Costituzione, dei
principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica, degli obblighi
internazionali e degli interessi nazionali, nonché delle norme fondamentali
delle riforme economico-sociali della Repubblica.
La normativa in materia di gruppi consiliari è prevista dall’art. 14 dello
statuto comunale e dall’art. 7 del regolamento sul funzionamento del
consiglio comunale.
A termini della disciplina statutaria, i consiglieri possono costituire
gruppi anche non corrispondenti alle liste elettorali nelle quali sono stati
eletti “purché tali gruppi risultino composti da almeno 2 membri”.
Ai sensi dell’art. 7, comma 5, del regolamento del consiglio comunale è
riconosciuta la possibilità ai consiglieri che si siano distaccati dal
proprio gruppo originario e che non abbiano aderito ad altro gruppo di
costituire il “gruppo misto”. Il gruppo misto elegge al suo interno un
capogruppo.
Dall’esame del quadro normativo delineato i due consiglieri comunali
fuoriusciti dal gruppo corrispondente alla lista nella quale sono risultati
eletti ben potrebbero formare un nuovo gruppo diverso dal gruppo misto. Ciò
in quanto l’unico limite posto dalle fonti di autonomia locale per la
formazione di un nuovo gruppo è che lo stesso sia costituito da “almeno 2
membri”.
Nell’eventualità che alcuni consiglieri decidano di formare il gruppo misto
saranno tenuti ad eleggere al proprio interno il Capogruppo (28.06.2018
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CONSIGLIERI COMUNALI: Uso
della fascia tricolore.
Sintesi/Massima
Uso della fascia tricolore.
La disciplina del suo uso è legata, dunque, alla natura delle funzioni
sindacali che sono di capo dell’Amministrazione comunale e di ufficiale di
Governo.
Allorquando il sindaco sia assente o impedito temporaneamente ai sensi
dell’art. 53, c. 2, del T.U.O.E.L., spetta solo al vice sindaco fregiarsene.
Testo
E’ stato posto un quesito in ordine al corretto uso della fascia tricolore.
In particolare, è stato rappresentato che un consigliere comunale, delegato
alla cultura, ma non membro della giunta, dovrebbe utilizzare la fascia per
partecipare ad iniziative popolari in altro Paese della Regione e a un
ricevimento organizzato da concittadini emigrati all’estero, mentre un
assessore dovrebbe utilizzarla per rappresentare il comune in una
commemorazione dei caduti in un Paese limitrofo.
Al riguardo, si osserva che con circolare di questo Ministero n. 5/98
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 270 del 18.11.1998 si sono fornite
indicazioni in ordine al corretto utilizzo della fascia tricolore da parte
del sindaco.
Nella circolare viene evidenziato il carattere sostanziale dell’intervento
normativo (ora, art. 50, comma 12, del decreto legislativo n. 267/2000), con
il quale è stato espressamente disposto che «distintivo del sindaco è la
fascia tricolore con lo stemma della Repubblica e lo stemma del comune» e
che “nell’uso corrente si è affermata la consuetudine che il sindaco indossi
la fascia in tutte le occasioni ufficiali, in qualunque veste intervenga”.
La disciplina del suo uso è legata, dunque, alla natura delle funzioni
sindacali che sono di capo dell’Amministrazione comunale e di ufficiale di
Governo.
Allorquando il sindaco sia assente o impedito temporaneamente ai sensi
dell’art. 53, c. 2, del T.U.O.E.L., spetta solo al vice sindaco fregiarsene.
Restano validi gli utilizzi stabiliti da esplicite previsioni normative,
come quella di cui all’articolo 70 del d.P.R. n. 396, del 03.11.2000
ove, in ragione della particolarità delle funzioni espletate, si prevede che
“l’ufficiale dello stato civile, nel celebrare il matrimonio, deve indossare
la fascia tricolore…”.
Pertanto l’uso della fascia tricolore, anche per delega dello stesso
sindaco, da parte di altri soggetti, seppur incardinati nell’Amministrazione
comunale o facenti parte di Organismi o Enti a cui partecipino gli Enti
locali con propri rappresentanti, non appare in linea con il dettato
normativo.
Va comunque evidenziato che, alla luce della legge costituzionale n. 3 del
18.10.2001, sussiste oggi ampia possibilità per le autonomie locali di
disciplinare, con normazione regolamentare, l’utilizzo dei propri segni
distintivi, anche a scopo di rappresentanza, senza così ricorrere
all’impiego di un simbolo, quale la fascia tricolore, attinente nello
specifico al capo dell’amministrazione ed allo svolgimento delle proprie
funzioni in conformità alle indicazioni di legge (28.06.2018
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CONSIGLIERI COMUNALI: Accesso
al sistema informativo comunale da parte di consiglieri.
Sintesi/Massima
Accesso al sistema informativo comunale da parte di
consiglieri tramite password.
Come osservato dal Plenum della Commissione per l’accesso ai documenti
amministrativi, del 16.03.2010, il “diritto di accesso” ed il “diritto di
informazione” dei consiglieri comunali nei confronti della P.A. trovano la
loro disciplina nell’art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000 che
riconosce a questi il diritto di ottenere dagli uffici comunali, nonché
dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in
loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato. (Confermato dal
successivo parere del 23.10.2012).
“L’accesso diretto tramite utilizzo di apposita password al sistema
informatico dell’Ente, ove operante, è uno strumento di accesso certamente
consentito al consigliere comunale che favorirebbe la tempestiva
acquisizione delle informazioni richieste senza aggravare l’ordinaria
attività amministrativa. Ovviamente il consigliere comunale rimane
responsabile della segretezza della password di cui è stato messo a
conoscenza a tali fini (art. 43, comma 2, T.U.O.E.L.)”.
Testo
E’ stato chiesto un parere in materia di diritto di accesso al sistema
informativo comunale.
In particolare, i consiglieri hanno avanzato al Sindaco richiesta di rendere
disponibile la password al fine “di accedere anche al Protocollo
informatico”.
Il Sindaco ha chiesto a codesta Prefettura se, in mancanza di un programma
informatico in grado di oscurare, anche solo temporaneamente, oggetti e
contenuti per i quali sia necessario il differimento, sia possibile
consentire l’accesso al solo elenco del protocollo.
I medesimi consiglieri hanno chiesto anche a questo Ministero le motivazioni
in ordine alla mancata autorizzazione ad accedere al “solo elenco del
protocollo” per le finalità indicate dal Comune.
In merito, come osservato dal Plenum della Commissione per l’accesso ai
documenti amministrativi, del 16.03.2010, il “diritto di accesso” ed il
“diritto di informazione” dei consiglieri comunali nei confronti della P.A.
trovano la loro disciplina nell’art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000
che riconosce a questi il diritto di ottenere dagli uffici comunali, nonché
dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in
loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato (confermato dal
successivo parere del 23.10.2012)
Sempre secondo quanto sostenuto dalla Commissione per l’accesso con il
citato parere “l’accesso diretto tramite utilizzo di apposita password al
sistema informatico dell’Ente, ove operante, è uno strumento di accesso
certamente consentito al consigliere comunale che favorirebbe la tempestiva
acquisizione delle informazioni richieste senza aggravare l’ordinaria
attività amministrativa. Ovviamente il consigliere comunale rimane
responsabile della segretezza della password di cui è stato messo a
conoscenza a tali fini (art. 43, comma 2, T.U.O.E.L.)”.
Anche il Garante per la protezione dei dati personali (v. relazione del
2004, pag. 19 e 20) ha specificato che “nell’ipotesi in cui l’accesso da
parte dei consiglieri comunali riguardi dati sensibili, l’esercizio di tale
diritto, ai sensi dell’art. 65, comma 4, lett. b), del Codice, è consentito
se indispensabile per lo svolgimento della funzione di controllo, di
indirizzo politico, di sindacato ispettivo e di altre forme di accesso a
documenti riconosciute dalla legge e dai regolamenti degli organi
interessati per consentire l’espletamento di un mandato elettivo. Resta
ferma la necessità, … che i dati così acquisiti siano utilizzati per le sole
finalità connesse all’esercizio del mandato, rispettando in particolare il
divieto di divulgazione dei dati idonei a rivelare lo stato di salute.
Spetta quindi all’amministrazione destinataria della richiesta accertare
l’ampia e qualificata posizione di pretesa all’informazione ratione officii
del consigliere comunale”.
Peraltro, anche la giurisprudenza ha affermato il diritto del consigliere
alla visione del protocollo generale, senza alcuna esclusione di oggetti e
notizie riservate e di materie coperte da segreto, posto che i consiglieri
comunali sono tenuti al segreto - ai sensi del citato articolo 43 del
decreto legislativo n. 267/2000.
Fatto salvo il diritto dei consiglieri, la materia, comunque, dovrebbe
trovare apposita disciplina regolamentare di dettaglio per il suo esercizio
(28.06.2018
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CONSIGLIERI COMUNALI: Riprese
audiovisive delle sedute del consiglio comunale. Richiesta di annullamento.
Sintesi/Massima
Riprese audiovisive delle sedute del consiglio comunale.
Nell'ambito dell'attribuzione al consiglio comunale dell'autonomia
funzionale ed organizzativa si riconduce quella potestà di regolare
opportunamente, con apposite norme, ogni aspetto attinente al funzionamento
dell'assemblea, tra cui anche quello della registrazione del dibattito e
delle votazioni con mezzi audiovisivi, sia da parte degli uffici di supporto
all'attività di verbalizzazione del segretario comunale, che da parte dei
consiglieri, degli organi di informazione e dei cittadini che assistono alla
sedute pubbliche.
Testo
E’ stato chiesto l’annullamento di una deliberazione con cui era stato
approvato il regolamento sulle riprese audiovisive delle sedute del
consiglio comunale.
Al riguardo, premesso che questo Ministero, com’è noto, non dispone di
poteri di controllo sugli atti degli enti locali, si osserva che le
eventuali illegittimità possono farsi rilevare in sede di giudizio da parte
di chi ne abbia interesse.
Riguardo alla specifica fattispecie, si evidenzia come nell'ambito
dell'attribuzione al consiglio comunale dell'autonomia funzionale ed
organizzativa (art. 38, comma 3, T.U.O.E.L.) si riconduce quella potestà di
regolare opportunamente, con apposite norme, ogni aspetto attinente al
funzionamento dell'assemblea, tra cui anche quello della registrazione del
dibattito e delle votazioni con mezzi audiovisivi, sia da parte degli uffici
di supporto all'attività di verbalizzazione del segretario comunale, che da
parte dei consiglieri, degli organi di informazione e dei cittadini che
assistono alla sedute pubbliche.
Sulla materia è intervenuta la sentenza n. 826 del 16.03.2010 con la quale il
TAR per il Veneto ha respinto un ricorso avverso il diniego opposto da un
sindaco ad una richiesta di registrazione audio-video delle sedute del
consiglio comunale, nella considerazione che, in assenza di un'apposita
disciplina regolamentare adottata dall'ente, non possano essere garantiti i
diritti previsti dal codice sul trattamento dei dati personali di cui al d.lgs. 196 del 2003 e successive modifiche.
Secondo quanto osservato nella citata pronuncia, infatti, gli adempimenti
previsti dal suddetto codice “non possono per certo conseguire da
estemporanei assensi alla videoregistrazione emanati dal sindaco-Presidente
del consiglio comunale nel corso delle sedute del Consiglio medesimo, ma
necessitano di essere disciplinati da un'apposita fonte regolamentare di
competenza consiliare”.
Il citato giudice amministrativo ha ritenuto, peraltro, immediatamente
concedibile da parte del Presidente del Consiglio Comunale, nei confronti di
emittenti televisive nazionali e locali l'autorizzazione a riprendere, in
via non sistematica, gratuitamente e senza diritti di esclusiva, talune
brevi fasi delle sedute del Consiglio Comunale in quanto da tale
autorizzazione non conseguono obblighi di sorta per l'Amministrazione
Comunale quale 'titolare' o 'responsabile' del trattamento dei
personali (28.06.2018
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Richiesta di convocazione da parte di un quinto dei consiglieri.
Sintesi/Massima
Richiesta di convocazione da parte di un quinto dei
consiglieri. Art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000.
Al Presidente del Consiglio spetta solo la verifica formale della richiesta
(prescritto numero di consiglieri), mentre non potrebbe essere sindacata nel
merito, salvo che non si tratti di oggetto che, in quanto illecito,
impossibile o per legge manifestamente estraneo alle competenze
dell’assemblea.
Il Tar Puglia nella sentenza n. 1022/2004 ha precisato che appartiene ai
poteri “sovrani” dell’assemblea decidere in via pregiudiziale che un dato
argomento inserito nell’ordine del giorno non debba essere discusso
(“questione pregiudiziale”), ovvero se ne debba rinviare la discussione
(“questione sospensiva”).
Il citato Tar Puglia ha sottolineato, inoltre, che “…l’ordinamento ritiene
un valore essenziale del sistema democratico che alla minoranza sia
assicurata effettività del diritto di iniziativa, e cioè del diritto di
discussione in assemblea sull’argomento richiesto. Ove, così non fosse,
grave ed evidente sarebbe la contraddizione fra tutela rafforzata del
diritto di iniziativa e mancanza di limiti per la maggioranza di metterlo
nel nulla con la proposizione di una qualunque questione pregiudiziale.”.
Testo
Sono stati chiesti chiarimenti in ordine alla normativa recata dall’art. 39,
comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000.
Al riguardo, com’è noto, il citato art. 39 prescrive che il presidente del
consiglio comunale è tenuto a riunire il consiglio, in un termine non
superiore ai venti giorni, quando lo richiedano un quinto dei consiglieri o
il sindaco, inserendo all’ordine del giorno le questioni richieste. La
disposizione configura un obbligo del Presidente del consiglio comunale di
procedere alla convocazione dell’organo assembleare senza alcun riferimento
alla necessaria adozione di determinazioni, da parte del consiglio stesso.
In caso di inosservanza degli obblighi di convocazione, in base al comma 5,
previa diffida, provvede il prefetto.
La dibattuta questione sulla sindacabilità, da parte del Presidente del
Consiglio (o del Sindaco), dei motivi che determinano i consiglieri a
chiedere la convocazione straordinaria dell’assemblea, si è orientata,
sempre in base alla giurisprudenza, nel senso che allo stesso spetti solo la
verifica formale della richiesta (prescritto numero di consiglieri), mentre
non potrebbe essere sindacata nel merito, salvo che non si tratti di oggetto
che, in quanto illecito, impossibile o per legge manifestamente estraneo
alle competenze dell’assemblea in nessun caso potrebbe essere posto
all’ordine del giorno (v. TAR Piemonte, Sez. II, 24.04.1996, n. 268).
Alla luce del richiamato orientamento giurisprudenziale e dottrinario, le
uniche ipotesi per le quali l’organo che presiede il consiglio comunale può
omettere la convocazione dell’assemblea sembrano la carenza del prescritto
numero di consiglieri oppure la verificata illiceità, impossibilità o
manifesta estraneità dell’oggetto alle competenze del Consiglio.
Nello stabilire se una determinata questione sia o meno di competenza del
Consiglio comunale occorre aver riguardo non solo agli atti fondamentali
espressamente elencati dal comma 2 dell’art. 42 del citato testo unico, ma
anche alle funzioni di indirizzo e di controllo politico-amministrativo di
cui al comma 1 del medesimo art. 42, con la possibilità, quindi, che la
trattazione da parte del collegio non debba necessariamente sfociare
nell’adozione di un provvedimento finale.
Il Consiglio comunale ha, infatti, un potere generale di indirizzo e di
controllo politico - amministrativo sull’attività del Comune, nel cui ambito
rientra pure quello di indirizzo, coordinamento e controllo sull'operato
della Giunta (conforme, Tribunale di Giustizia Amministrativa di Trento n.
20/2010 del 14.01.2010).
L’amministrazione locale in oggetto, nel ritenere non obbligatoria la
convocazione dell’assemblea per esaminare questioni considerate “estranee”
alla competenza consiliare, ha richiamato le osservazioni formulate dal Tar
Puglia nella sentenza n. 1022/2004. Nella citata pronuncia il giudice
amministrativo ha precisato che appartiene ai poteri “sovrani”
dell’assemblea decidere in via pregiudiziale che un dato argomento inserito
nell’ordine del giorno non debba essere discusso (“questione
pregiudiziale”), ovvero se ne debba rinviare la discussione (“questione
sospensiva”).
La sentenza offre, altresì, un’interessante riflessione circa il necessario
bilanciamento del potere assembleare di esaminare le questioni pregiudiziali
con il diritto riconosciuto alle minoranze di attivare l’istituto della
convocazione dell’assemblea su richiesta di un quinto dei consiglieri.
A tale proposito, il citato Tar Puglia ha ritenuto di dover sottolineare che
“…tale diritto di iniziativa è tutelato in modo specifico dalla legge con la
previsione severa ed eccezionale della modificazione dell’ordine delle
competenze mediante intervento sostitutorio del Prefetto in caso di mancata
convocazione del consiglio comunale in un termine emblematicamente breve
(venti giorni). Il significato giuridicamente utile di tale procedura
rafforzata di tutela va individuato nel fatto che l’ordinamento ritiene un
valore essenziale del sistema democratico che alla minoranza sia assicurata
effettività del diritto di iniziativa, e cioè del diritto di discussione in
assemblea sull’argomento richiesto. Ove, così non fosse, grave ed evidente
sarebbe la contraddizione fra tutela rafforzata del diritto di iniziativa e
mancanza di limiti per la maggioranza di metterlo nel nulla con la
proposizione di una qualunque questione pregiudiziale.”.
Pertanto è nell’ambito delle descritte coordinate giurisprudenziali che il
Presidente del consiglio dovrà conformare il proprio operato (28.06.2018
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ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI - CONSIGLIERI COMUNALI: Per
il Comune, soggetto legittimato a stare in giudizio, ai sensi dell'art. 75
c.p.c., è soltanto il Sindaco (art. 50 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267) e non
la giunta comunale, cosicché tale ultimo organo, anche laddove abbia, per
statuto, il potere di autorizzare il Sindaco alla proposizione di azioni in
giudizio, è privo del potere di nomina del difensore, il quale, seppure
designato mediante delibera di giunta, deve nuovamente essere nominato, con
conferimento di apposita procura alle liti, dal Sindaco.
La delibera della Giunta, siccome priva di valenza esterna, ha natura
meramente gestionale e tecnica.
---------------
Costituisce orientamento consolidato di questo giudice di legittimità quello
secondo il quale, alla luce dei principi generali in tema di procura alle
liti (artt. 83 e 365 c.p.c.) e di mandato (art. 1716 c.c., disciplinante
l'ipotesi di pluralità di mandatari), ove il mandato alle liti venga
conferito a più difensori, si presume che esso sia conferito disgiuntamente
a ciascuno di essi, salvo inequivoca manifestazione di volontà della parte
in favore del carattere congiuntivo del mandato, con la conseguenza che
ciascuno dei difensori, in difetto di un'espressa ed inequivoca volontà
della parte circa il carattere congiuntivo, e non disgiuntivo, del mandato
medesimo, ha pieni poteri di rappresentanza processuale (Cass. 1168/2004;
Cass. 13252/2006).
Ne deriva che non integra gli estremi della fattispecie normativa di cui
all'art. 301 cod. proc. civ. (interruzione del processo per morte del
procuratore) il decesso di uno solo dei due difensori muniti di mandato dal
quale non risulti, espressamente, l'obbligo di agire congiuntamente, tanto
che è stata ritenuta (Cass. 8189/1997; Cass. 8931/2000; Cass. 15293/2002)
irrilevante la mancanza, nell'atto predetto, della espressione "anche
disgiuntamente", la cui assenza non consente di ritenere escluso il
potere di rappresentanza disgiunta in capo a ciascuno dei procuratori della
parte.
Nella specie, nella procura alle liti allegata a margine dell'atto di
appello era pacificamente apposta la clausola "con poteri anche disgiunti".
Ora, a fronte di ciò, il ricorrente invoca una deliberazione della Giunta
comunale, con la quale, sulla base di specifica disposizione statutaria,
sarebbe stato autorizzato il Sindaco a resistere in giudizio ed a proporre
appello, conferendo mandato congiunto ai difensori.
Tuttavia, questa Corte ha chiarito che, per il Comune, soggetto legittimato
a stare in giudizio, ai sensi dell'art. 75 c.p.c., è soltanto il Sindaco
(art. 50 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267) e non la giunta comunale, cosicché
tale ultimo organo, anche laddove abbia, per statuto, il potere di
autorizzare il Sindaco alla proposizione di azioni in giudizio, è privo del
potere di nomina del difensore, il quale, seppure designato mediante
delibera di giunta, deve nuovamente essere nominato, con conferimento di
apposita procura alle liti, dal Sindaco (Cass. 18062/2010).
La delibera della Giunta, siccome priva di valenza esterna, ha natura
meramente gestionale e tecnica (Cass. 11516/2007; Cass. 5802/2016).
Ne consegue che assume rilievo la sola procura alle liti conferita dal
Sindaco, a margine dell'atto di appello, con poteri disgiunti ai due
difensori, Avv.ti Ma. ed As., non anche la delibera della Giunta del 2001,
con la quale, secondo quanto ritrascritto in ricorso, venivano incaricati "in
maniera congiunta" i due avvocati ad "opporsi alla sentenza" di
primo grado
(Corte di Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 21.06.2018 n. 16459). |
ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: Il
protocollo d’intesa con cui il Comune assume impegni con un privato ha
natura contrattuale.
Il protocollo d’intesa tra Comune e privato anche se
origina dal perseguimento di una finalità pubblica non esclude il carattere
iure privatorum degli impegni assunti tra le parti. E non si può lamentare
alcuna illegittimità dell’intesa se firmata dal capo staff del sindaco e non
dal dirigente competente.
La Corte di Cassazione, Sez. III civile, con la
sentenza 21.06.2018 n. 16327 ha, infatti, cassato la decisione di
merito che aveva ritenuto mero atto politico d’indirizzo il protocollo e
privo di stringenti impegni contrattuali, che possano, in particolare
determinare l’inadempimento della Pa con le normali conseguenze risarcitorie.
Il Comune di Roma aveva concluso un protocollo d’intesa con la Siae per lo
sgombero di un immobile su cui la società intendeva svolgere operazioni
redditizie ma che invece ne era impedita in quanto lo stabile era occupato
in parte da famiglie e in parte da realtà associative. Il Comune aveva
assunto la custodia del bene e soprattutto, ciò che qui rileva, l’impegno a
riconsegnare entro tre mesi l’immobile «liberato» dagli occupanti
senza titolo.
L’emergenza abitativa aveva posto il Comune in una posizione di tolleranza
per provvedere allo sgombero delle parti dell’immobile fruite come residenze
familiari solo successivamente all’aver individuato altri alloggi idonei.
Impegno rispettato a metà dall’ente locale che, sebbene, fosse riuscito a
sgomberare le famiglie non aveva invece restituito il pieno diritto di
godimento al proprietario per quanto riguardava la realtà associativa
presente al piano terra e seminterrato. Per tale inadempimento la Siae
chiedeva al giudice civile il risarcimento del danno patito per non aver
potuto ancora procedere a effettuare operazioni redditizie come l’affitto o
la vendita sul bene.
Il giudice di secondo grado aveva negato alla Siae -che richiedeva il
risarcimento dei danni al Comune- che il protocollo su cui si fondava la sua
domanda fosse un negozio giuridico perfetto di diritto privato. Prima di
tutto sostenevano i giudici che un protocollo d’intesa non potesse mai
essere uno di quei contratti di natura privata che conclude la pubblica
amministrazione, poiché per sua natura è un atto di indirizzo politico e non
può determinare obbligazioni a carico della parte pubblica. E che inoltre
l’atto non sarebbe perfezionato in quanto non reca la firma dell’organo
gestionale, e non rappresentativo, competente per materia del Comune. La
sentenza con una lunga disamina contraddice entrambe le censure della Corte
di merito che aveva respinto -ribaltando il giudizio di primo grado- la
domanda risarcitoria della Siae.
Prima di tutto la Cassazione affronta il tema del perfezionamento
dell’impegno contrattuale del Comune verso la società e chiarisce che nei
negozi giuridici di diritto privato conclusi dalla Pa va comunque apposta la
firma di chi riveste il ruolo apicale di governo non bastando l’impegno
sottoscritto dal solo dirigente amministrativo di settore. Non si poteva
quindi negare la natura di impegno contrattuale alla determinazione presa
dal Comune col Protocollo d’intesa, firmata dal capo staff del sindaco, ad
assumersi la responsabilità di custode del bene al fine di provvedere allo
sgombero e senza prevedere alcun compenso per la proprietà.
Il ruolo pubblico e politico del Comune nel farsi carico della vicenda nasce
da una di quelle vicende che sono oggetto dell’azione di governo di un ente
locale, cioè l’emergenza abitativa, cui non sapeva come far fronte se non
dandosi un termine congruo per provvedervi. E qui sta la vera precisazione
della Cassazione che fa notare che la natura puramente contrattuale di un
rapporto giuridico in cui la pubblica amministrazione sia in una posizione
di fondamentale parità col privato discenda dal fatto che il contratto non
mira allo svolgimento di un’azione pubblica o al raggiungimento di un fine
pubblico, come esempio nelle convenzioni o concessioni.
Che all’origine della scelta del Comune di farsi custode e carico di un
impegno verso la Siae ci fosse la finalità pubblica di fronteggiare
l’emergenza abitativa tenendo ferma l’occupazione per almeno altri 90 giorni
dalla firma dell’intesa, nulla toglie alla natura contrattuale di quanto
promesso dalla Pa. Quindi nei rapporti tra società e Comune ciò che rileva è
l’adempimento o meno delle obbligazioni previste
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 22.06.2018).
---------------
MASSIMA
2. Con il secondo motivo di impugnazione si deduce la violazione
e/o falsa applicazione dell'articolo 4 D.lgs. n. 165 del 2001 ex articolo
360, numero 3, cod. proc. civ..
Ritiene la parte ricorrente che il protocollo in questione non debba essere
inquadrato nella categoria dell'atto politico o di indirizzo politico
poiché, per definizione, tale attività è svolta dagli organi costituzionali
dello Stato e consiste nella formulazione di scelte con le quali si
individuano i fini che lo Stato intende perseguire in un determinato momento
storico attraverso l'attività amministrativa; inoltre, secondo la dottrina
prevalente, l'attività di indirizzo politico non costituisce una quarta
funzione dello Stato rispetto alle tre tradizionali (normativa,
giurisdizionale, amministrativa); in più detta attività, sotto il profilo
formale, si esprime attraverso una ben determinata tipologia di atti come
leggi oppure risoluzioni, direttive, mozioni interrogazioni e interpellanze.
2.1.
La norma di riferimento è l'art. 4 del D.lgs. n. 165 del 2001
-contenente le norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze
delle amministrazioni pubbliche-,
la quale, nel qualificare le attività di
indirizzo politico-amministrativo, e in particolare le funzioni e
responsabilità al suo interno
(ex art. 3 del d.lgs. n. 29 del 1993, come
sostituito prima dall'art. 2 del d.lgs n. 470 del 1993 poi dall'art. 3 del
d.lgs n. 80 del 1998 e successivamente modificato dall'art. 1 del d.lgs. n.
387 del 1998)
indica che gli organi di governo esercitano le funzioni di
indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi ed i programmi da
attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento di tali
funzioni, e verificano la rispondenza dei risultati dell'attività
amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti. Ad essi spettano,
in particolare:
a) le decisioni in materia di atti normativi e l'adozione dei
relativi atti di indirizzo interpretativo ed applicativo;
b) la definizione di obiettivi, priorità, piani, programmi e
direttive generali per l'azione amministrativa e per la gestione;
c) la individuazione delle risorse umane, materiali ed
economico-finanziarie da destinare alle diverse finalità e la loro
ripartizione tra gli uffici di livello dirigenziale generale;
d) la definizione dei criteri generali in materia di ausili
finanziari a terzi e di determinazione di tariffe, canoni e analoghi oneri a
carico di terzi;
e) le nomine, designazioni ed atti analoghi ad essi attribuiti da
specifiche disposizioni;
f) le richieste di pareri alle autorità amministrative indipendenti
ed al Consiglio di Stato;
g) gli altri atti indicati dal presente decreto.
Nel secondo comma si stabilisce che «ai dirigenti spetta l'adozione degli
atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano
l'amministrazione verso l'esterno, nonché la gestione finanziaria, tecnica e
amministrativa mediante autonomi poteri di spesa di organizzazione delle
risorse umane, strumentali e di controllo. Essi sono responsabili in via
esclusiva dell'attività amministrativa , della gestione e dei relativi
risultati».
Al terzo comma indica inoltre che «le attribuzioni dei dirigenti indicate
dal comma 2 possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di
specifiche disposizioni legislative», mentre al quarto comma sancisce
che «le amministrazioni pubbliche i cui organi di vertice non siano
direttamente o indirettamente espressione di rappresentanza politica,
adeguano i propri ordinamenti al principio della distinzione tra indirizzo e
controllo, da un lato, e attuazione e gestione dall'altro».
Alla luce di questa norma,
la Corte di merito ha desunto che il protocollo d'intesa in esame,
qualificandosi come atto di contenuto politico, non potesse generare un
impegno negoziale nei confronti dell'ente proprietario del bene occupato
preso in custodia, sull'assunto che l'atto è stato emesso dall'organo di
vertice che era in grado di esprimere un'azione di indirizzo e controllo, e
non di attuare e gestire i relativi risultati, mancando l'assenso
dell'organo interno preposto.
2.2. La norma in esame non può valere per affermare che l'atto in questione
non costituisca una valida fonte di obbligazione a carico del Comune solo
perché non è stato seguito dal perfezionamento di un negozio sottoscritto
dal dirigente provvisto delle necessarie competenze e funzioni:
è principio generale del diritto amministrativo
(di cui si rinviene conferma nell'art. 4 del d.lgs. 30.03.2001, n. 165)
che, nell'ambito delle pubbliche amministrazioni, le cui strutture
siano connotate da organizzazione gerarchica, la delegabilità delle
funzioni, da parte dell'organo posto al vertice, ai collaboratori dotati di
adeguate qualifiche e cognizioni, costituisce la regola, salvo che la legge
non disponga diversamente, prevedendo una competenza funzionale ed
inderogabile dell'organo apicale
(v. Cass. n. 10202/2010), evenienza, questa, non riscontrabile nella specie
(v. anche Cass. 9441/2001).
Gli enti territoriali sono certamente organismi strutturati
gerarchicamente al loro interno, ma non devono ritenersi sottratti alla
regola di cui all'art. 4 D.Lgs. 30.03.2001, n. 165 che dopo avere, al comma
1, riservato agli organi di Governo, le «funzioni di indirizzo
politico-amministrativo», successivamente elencando una serie di atti di
tal genere, al successivo comma 2 attribuisce una competenza generale
residuale ai "dirigenti" per l'adozione degli «atti e
provvedimenti amministrativi», comprensiva, segnatamente, di quelli che
impegnano l'«amministrazione verso l'esterno», precisando poi, al
comma 3, che le attribuzioni dei dirigenti possono essere «derogate
soltanto espressamente ed opera di specifiche disposizioni legislative».
Pertanto, la norma in esame non può certamente intendersi
nel senso di escludere, pur in presenza di un potere di delega interna di
funzioni, la sussistenza del relativo potere in capo agli organi apicali
della pubblica amministrazione, essendo tale norma intesa a sancire il
principio di ripartizione di competenze e di «normale delegabilità e
attribuzione delle funzioni non politiche» alla base della piramide
gerarchica, salvo diversa disposizione di legge.
2.3. Posta questa premessa in linea di diritto, si rileva
come il documento sottoscritto,
innanzitutto, non possa sussumersi nella categoria di puro
atto programmatico o politico solo perché denominato come Protocollo
d'intesa e proveniente dall'organo di vertice designato ad attuare
l'attività di indirizzo e controllo politico sul territorio del Comune
di Roma in una situazione di emergenza abitativa.
Il documento in esame,
oltre all'intento di trovare una soluzione politica e amministrativa alla
situazione di tensione abitativa correlata all'occupazione abusiva da parte
di terzi della proprietà immobiliare della società ricorrente,
contiene una chiara e inequivocabile assunzione di puntuali e
specifici impegni nei confronti della società ricorrente da parte del Comune
che ha regolarmente sottoscritto l'atto;
e, quanto al contenuto, è dato leggere che il Comune si è reso garante,
assumendone la custodia con ogni relativa responsabilità, della liberazione
dell'immobile, facendosi carico delle spese di gestione e impegnandosi entro
90 giorni a individuare spazi alternativi per le predette associazioni e a
effettuare la riconsegna dei locali alla SIAE.
2.4. Sulla nozione di atto politico si deve fare
riferimento alla giurisprudenza del Consiglio di Stato secondo la quale «alla
nozione legislativa di atto politico concorrono due requisiti, l'uno
soggettivo e l'altro oggettivo: occorre da un lato che si tratti di
atto-provvedimento emanato dal governo, e cioè dall'autorità amministrativa
cui compete la funzione di indirizzo politico e di direzione al massimo
livello della cosa pubblica; dall'altro, che si tratti di atto
provvedimento emanato nell'esercizio del potere politico, anziché
nell'esercizio di attività meramente amministrativa
(Consiglio di Stato, sez. IV, 04.05.2012, n. 2588),
ovverosia debba riguardare la costituzione, la salvaguardia e il
funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro
coordinata applicazione»
(v. Consiglio di Stato, sez. IV, 18.11.2011 n. 6083; Consiglio di Stato,
sez. IV, 12.03.2001 n. 1397; Consiglio di Stato, 08.07.2013 n. 3609).
2.5. Alla luce di quanto sopra, il Protocollo di intesa in oggetto,
sottoscritto dalla società proprietaria del bene, per la parte che inerisce
agli obblighi assunti dalla PA verso quest'ultima, non si pone certamente
nell'alveo dell'atto di indirizzo politico, di mero contenuto programmatico,
non avendo esso alcuna attinenza con la costituzione, la salvaguardia e il
funzionamento dei pubblici poteri.
All'opposto, detto documento contiene un impegno preciso dell'ente
territoriale nei confronti del proprietario dei beni occupati a fronte della
necessità del Comune, questa sì di rilievo pubblico, di risolvere
un'emergenza abitativa che gli compete.
I due diversi piani di vincolo giuridico assunto nei confronti del
proprietario del bene, da un lato, e di motivo «politico»
dall'altro alla propria autodeterminazione, tuttavia, non possono
confondersi, trovandosi in tale documento un contenuto inequivocabilmente
negoziale e generatore di obblighi nei confronti di un soggetto privato, con
specifica previsione, da parte della PA, di assumere la custodia del bene e
di garantire la restituzione del bene a fronte di una rinunzia temporanea,
da parte del proprietario del bene, a esercitare i propri diritti di
autotutela, all'epoca già avviati mediante denunce penali e richieste
d'intervento da parte della forza pubblica.
2.6. Quanto sopra considerato
permette di rilevare come sia del tutto
riduttivo qualificare l'atto in questione come atto politico di contenuto
programmatico solo in virtù della posizione apicale dell'organo della
Pubblica Amministrazione che lo ha sottoscritto, senza tenere conto del
contenuto, in esso racchiuso, di impegno formale nei confronti del soggetto
proprietario del bene che, confidando nell'adempimento delle obbligazioni
ivi portate, ha rinunziato ad esercitare i propri diritti, in tal modo
venendo incontro all'esigenza del Comune di risolvere in via
politico-amministrativa l'emergenza abitativa da cui originava l'occupazione
del bene da parte di terzi.
Il Comune, invero, si è reso garante del rilascio al legittimo proprietario
del bene immobile entro un determinato termine, assumendone la custodia, i
relativi oneri e la responsabilità nei confronti proprietario. A p. 29 del
negozio in questione si parla di impegno negoziale e, quindi, considerando
la causa sottostante e gli interessi in gioco, le circostanze del caso e la
natura degli obblighi assunti depongono a favore dell' inquadramento del
rapporto nell'alveo del negozio costituente fonte di obbligazioni iure
privatorum.
2.7. Peraltro, la presenza di obbligazioni di matrice
contrattuale mette in rilievo anche la sussistenza della giurisdizione
dell'AGO, considerato che, ai fini del suo riparto tra giudice ordinario e
amministrativo, rileva non già la prospettazione delle parti, bensì il
cosiddetto «petitum» sostanziale che ne è l'oggetto
(cfr. Cass. S.U., sentenza n. 8227 del 03.04.2007).
Difatti, la domanda proposta concerne in via diretta e immediata non tanto
l'esercizio del potere dell'autorità amministrativa di provvedere alla
organizzazione e alla modalità di prestazione di un servizio pubblico, bensì
la mancata osservanza entro i tempi previsti degli specifici obblighi
assunti nei confronti del privato, fonte di danno per il privato.
Nell'ambito di un negozio concluso dalla pubblica
amministrazione iure privatorum, con indicazione delle modalità e dei
termini di adempimento tipiche di una negoziazione tra privati, non è
difatti configurabile un potere discrezionale dell'amministrazione in
termini di scelta sul se, come e quando adempiere l'obbligazione assunta, il
cui comportamento va, quindi, valutato alla stregua di un qualsiasi privato
contraente, senza alcuna limitazione, per il giudice ordinario, nella
indagine diretta ad accettarne l'eventuale responsabilità per inadempimento
(v. Cass., SS.UU., Sentenza n. 2618 del 22/07/1968).
2.8. Il negozio in questione, per come è strutturato, non rientra
neanche nella speciale categoria delle convenzioni tra pubblica
amministrazione e privati, che ricomprende i «contratti ad oggetto
pubblico» e i contratti «ad evidenza pubblica», ove in
quest'ultima ipotesi non è presente una regolazione degli aspetti
patrimoniali dell'esercizio della potestà, ma sono presenti solo
procedimenti antecedenti al contratto, volti a individuare il soggetto
contraente con la pubblica amministrazione. In questi casi, una volta
scelto il contraente, il negozio stipulato successivamente alla fase di
evidenza pubblica non rifluisce immediatamente nella più generale
disciplina del codice civile e delle ulteriori disposizioni che
eventualmente regolano il rapporto patrimoniale consensualmente
instaurato tra privati.
Così infatti dispone l'art. 11 della l. n. 241/1990
che prevede un regime di tipo amministrativo per tali convenzioni. Il
Consiglio di Stato, difatti, ha già avuto modo di osservare (Sez. IV, 03.12.2015 n. 5510), con considerazioni riconfermate
successivamente (Consiglio di Stato, sez. IV, 19/08/2016), che il
rapporto amministrazione/concessionario, fondato sulle (usualmente
definite) «concessioni/contratto», proprio in ragione delle sue
peculiarità originate dall'inerenza all'esercizio di pubblici poteri, non
ricade in modo immediato, e tanto meno integrale, nell'ambito di
applicazione delle disposizioni del codice civile, le quali, se possono
certamente trovare applicazione in quanto compatibili ovvero se
espressamente richiamate, tuttavia non costituiscono la disciplina
ordinaria di tali convenzioni, né ciò è indicato dalla l. n. 241/1990, ed
in particolare dall'art. 11.
Nell'ambito dell'art. 11, sotto la comune
dizione di accordi, coesistono sia contratti propriamente detti, sia
accordi procedimentali, e l'applicazione dei principi in tema
di obbligazioni e contratti agli accordi dell'amministrazione
(riconducibili o meno alla generale figura del contratto) trova in ogni
caso un limite, e dunque una conseguente necessità di adattamento,
nella immanente presenza dell'esercizio di potestà pubbliche, e nelle
finalità di pubblico interesse cui le stesse sono teleologicamente
orientate.
Come la giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di
osservare (Cons. Stato, sez. V, 05.12.2013 n. 5786; 14.10.2013 n. 5000), fermi i casi di contratti integralmente di diritto privato
(per i quali trovano certamente applicazione le disposizioni del codice
civile), nei casi invece di contratto ad oggetto pubblico
l'amministrazione mantiene comunque la sua tradizionale posizione di
supremazia; tali contratti non sono disciplinati dalle regole proprie del
diritto privato, ma meramente dai principi del codice civile in materia
di obbligazioni e contratti, sempre in quanto compatibili con essi e
salvo che non sia diversamente previsto.
Ciò, ovviamente, non esclude
-sussistendone i presupposti sopra delineati- che il giudice possa fare
applicazione anche della disciplina dell'inadempimento del contratto,
allorché una parte del rapporto contesti un inadempimento degli
obblighi di fare (Cons. Stato, sez. IV, 24.04.2012 n. 2433).
2.9. Nel caso delle convenzioni che accedono all'esercizio di potestà
amministrativa concessoria -dove è chiara la natura latamente
contrattuale dell'atto bilaterale, stante la regolazione di aspetti
patrimoniali- ben possono trovare applicazione le disposizioni in tema (di obbligazioni e contratti, nei limiti sopra descritti.
Difatti, tale applicazione non può esservi, se non considerando la
persistenza (ed immanenza) del potere pubblico, dato che l'atto fondativo
del rapporto
tra amministrazione e concessionario non è la convenzione, bensì il
provvedimento concessorio, rispetto al quale la prima rappresenta solo
uno strumento ausiliario, idoneo alla regolazione (subalterna al
provvedimento) di aspetti patrimoniali del rapporto. Le considerazioni
espresse con riferimento particolare ai cd. «contratti ad oggetto
pubblico», ben possono essere ribadite, sia pure con i necessari
adattamenti di specie, alle ipotesi di contratti cd. «ad evidenza
pubblica», laddove non è presente una regolazione degli aspetti
patrimoniali dell'esercizio della potestà, ma sono presenti solo
procedimenti antecedenti al contratto, volti a individuare il soggetto
contraente con la pubblica amministrazione.
Tuttavia, anche in questi
casi, una volta scelto il contraente, il contratto stipulato
successivamente alla fase di evidenza pubblica non rifluisce
immediatamente nella più generale disciplina del codice civile e delle
ulteriori disposizioni che eventualmente regolano il rapporto patrimoniale
consensualmente instaurato tra privati. Ciò è a tutta
evidenza negato dalla stessa presenza di una (copiosa) disciplina
speciale che normalmente assiste il momento genetico e quello
funzionale del contratto, e che non può che giustificarsi se non in
ragione della particolare natura dello stesso.
Anche in tale caso, tale
particolare natura non è costituita dall'essere la pubblica
amministrazione quale soggetto contraente, bensì dall'essere la causa
e l'oggetto del contratto differentemente conformati, in ragione delle
finalità di interesse pubblico perseguite con il contratto, e dunque con
l'adempimento delle obbligazioni assunte per il tramite delle rispettive
prestazioni (a seconda dei casi, l'opus o il servizio). In primo luogo,
dunque, vi è una disciplina speciale, che giustifica la propria
ragionevolezza sulla altrettanto speciale natura del contratto; in
secondo luogo, vi è una possibile applicazione delle norme del codice
civile in tema di obbligazioni e contratti, che "sconta" la differente
natura della causa e dell'oggetto dei medesimi contratti pubblici
(Consiglio di Stato, sez. IV, 19/08/2016).
2.10. Tutto quanto sopra osservato risulta utile per tracciare la
distinzione tra contratto pubblico e negozio privato alla luce dei
variegati rapporti che la Pubblica Amministrazione può oggi
intrattenere con i privati. La definizione del contratto quale
«contratto pubblico», difatti, non indica esclusivamente (e
semplicisticamente) la presenza di un soggetto pubblico quale parte
contraente, bensì una oggettiva finalità di pubblico interesse
perseguita per il tramite del contratto e del suo adempimento.
Tale
finalità non costituisce (né lo potrebbe) una «immanenza» esterna
al contratto, ma essa conforma il contratto medesimo, ed in
particolare -proprio in ragione delle definizioni che il diritto privato ne
offre- gli elementi essenziali della causa e dell'oggetto. Per un verso,
infatti, la finalità di pubblico interesse entra nella definizione di causa,
sia ove intesa quale funzione obiettiva economico- sociale del negozio, sia
ove intesa quale funzione obiettiva giuridico-individuale dell'atto; per
altro verso, essa conforma l'oggetto del contratto, ossia il contenuto
del medesimo. Ciò comporta che, laddove l'interprete debba giudicare
della illiceità o meno della causa di un contratto pubblico, ovvero della
impossibilità (materiale o giuridica) o della illiceità dell'oggetto di tale
contratto, non può non ricordare che tali elementi essenziali sono
diversamente conformati, e dunque richiedono una verifica che tenga
conto di tale loro specificità.
Allo stesso modo, quanto sin qui descritto
si riflette anche sul rapporto contrattuale, sull'adempimento del
contratto e sulle ipotesi di risoluzione del medesimo, così come
contemplate dal codice civile. D'altra parte, è sempre la particolarità
del contratto pubblico a giustificare una tutela anche penale dei
contratti della Pubblica Amministrazione (art. 355, inadempimento di
contratti di pubbliche forniture; art. 356, frode nelle pubbliche
forniture), dove l'interesse pubblico -che, come si è detto, conforma
causa ed oggetto del contratto- acquista rango di bene giuridico
tutelato dalla norma penale (Cass. pen., sez. VI, 27.02.2013 n.
23819; 05.12.2007 n. 16428; 11.11.2004 n. 47194).
2.11. In definitiva,
è solo in ragione di una analisi dettagliata e
specifica, che tenga conto delle considerazioni sin qui espresse, che può
concludersi per la applicabilità o meno di norme ed istituti del codice
civile ai contratti della pubblica amministrazione, ridenti soprattutto a
quelle particolari ipotesi (contratti ad oggetto pubblico, contratti ad
evidenza pubblica), in cui il contratto, dotato di «tipicità» propria
conferita da norme di diritto pubblico, non risulta, fin dal suo momento
genetico, regolato dal diritto privato.
2.12. Ragionando alla luce di quanto sopra detto, si rileva che il
contenuto dell' atto stipulato, in quanto regolatore di un diritto di
godimento di un bene privato, non presenta il contenuto di negozio ad
evidenza pubblica o ad oggetto pubblico. Sotto il profilo del rapporto tra
contenuto e forma, l'atto presenta la firma in calce del capo "staff" del
sindaco. In aggiunta a ciò, all'atto della consegna al proprietario
dell'immobile di parte dei locali sgomberati, avvenuta in data 23.02.2009, il contenuto degli impegni verso il proprietario è stato
confermato sempre dallo stesso Comune in persona del dottor Cl.Co.
(documento 12, pagina 2, riga 6), ove si legge che il Comune,
nel riconfermare l'impegno assunto il 26.01.2009 alla restituzione
del bene immobile occupato da terzi al proprietario entro 90 giorni al
massimo, assume la custodia dei suddetti locali e le parti concordano
con le associazioni che ne manterranno la disponibilità sino al termine
pattuito scadente il 09.05.2009, sotto la responsabilità del Comune.
E' altrettanto indiscusso che il Comune ha volontariamente e
tempestivamente dato esecuzione alla prima parte dell'impegno
assunto, relativa al trasferimento dei nuclei familiari occupanti abusivi,
provvedendo allo sgombero di gran parte dell'immobile e alla riconsegna
dello stesso al ricorrente, fatta eccezione per i locali per cui è
controversia, posti al piano terra e al piano interrato. Con la condotta di
parziale adempimento degli obblighi assunti, gli organi gestionali del
Comune hanno manifestato la volontà di tener fede agli impegni assunti
«in forma di protocollo di intesa» nei confronti del privato. Il tenore
del documento sottoscritto e il comportamento successivo tenuto dalla
parte pubblica contraente, pertanto, sono tutti elementi incompatibili
con un'attività di mero indirizzo politico o con un'attività partecipativa
del privato alla realizzazione di un interesse pubblico nei termini sopra
meglio specificati.
2.13. Quanto alla forma dell'atto stipulato dal privato con la pubblica
amministrazione, deve osservarsi che vale il principio in base al quale
«in tema di contratti degli enti pubblici territoriali e con particolare
riferimento al conferimento di incarichi professionali, la regola generale
secondo la quale gli eventuali vizi della deliberazione di autorizzazione a
contrarre hanno rilievo esclusivamente nell'ambito interno
all'organizzazione dell'ente, ma non incidono sulla validità ed efficacia
del contratto privatistico di prestazione d'opera professionale, non
esclude che il legislatore possa dettare, anche in questo campo, norme
imperative, le quali trovano applicazione nei rapporti intersoggettivi, e
condizionano pertanto la stessa validità dei contratti di diritto privato
stipulati dalla Pubblica Amministrazione.
Tale è il caso dell'art. 23 del
d.l.
24.04.1989, n. 66, convertito in legge 03.02.1989, n. 144, il
quale, subordinando l'effettuazione di qualsiasi spesa ad una
deliberazione autorizzativa adottata nelle forme di legge e divenuta o
dichiarata esecutiva, nonché all'impegno contabile registrato sul
competente capitolo del bilancio di previsione, da comunicare ai terzi
interessati, detta una disposizione che incide anche sui rapporti tra
l'Amministrazione ed i terzi» (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 2814 del
08/02/2006).
Nell'ipotesi in esame, tuttavia, il Comune non si è
impegnato al versamento di alcun corrispettivo a favore dell'ente
proprietario, essendosi limitato ad assumere la custodia e la gestione del
bene del proprietario occupato da terzi e a garantirne il rilascio entro un
determinato tempo, impegnandosi a individuare entro 90 giorni spazi
alternativi per le associazioni occupanti e per effettuare la riconsegna dei
locali al proprietario del bene, previo espletamento delle eventuali
formalità connesse al sequestro.
Si tratta, da una parte, di una
dichiarazione di pubblici intenti della pubblica amministrazione,
nell'ambito dell'attività di gestione di un'emergenza che coinvolgeva le
associazioni occupanti, rientrante nella competenza politico-amministrativa
del territorio che gli è propria (non in grado di rilevare
per il contraente, costituendo semmai un motivo interno al negozio) e,
dall'altra, di una corrispondente obbligazione di presa in custodia e
gestione in autonomia del bene privato, senza previsione di impegni di
spesa a favore del proprietario che si è limitato ad accettare la proposta
del Comune e a rinunciare alla disponibilità del bene a fronte
dell'impegno assunto dal Comune.
2.14. Quanto alla necessità della sottoscrizione dell'atto da parte
funzionario titolare si rammenta il precedente di questa Corte, Sez. 1,
Sentenza n. 5642 del 24/06/1997, in cui è stato affermato che «per il
perfezionamento dei contratti stipulati dalle amministrazioni comunali è
necessaria una manifestazione documentale della volontà negoziale da parte
del sindaco, organo rappresentativo abilitato a concludere, in
nome e per conto dell'ente territoriale, negozi giuridici, mentre devono
ritenersi, all'uopo, inidonee le deliberazioni adottate dalla giunta o dal
consiglio municipale, attesane la caratteristica di atti interni, di natura
meramente preparatoria della successiva manifestazione esterna di
volontà negoziale. Ne consegue che un contratto non potrà dirsi
legittimamente perfezionato ove la volontà di addivenire alla sua stipula
non sia, nei confronti della controparte, esternata, in nome e per conto
dell'ente pubblico, da quell'unico organo autorizzato a
rappresentarlo».
Nel caso di specie l'impegno assunto il 26.01.2009 nei confronti del proprietario proviene dal «capo staff del
Sindaco» ed è stato riconfermato successivamente da un funzionario
qualificatosi quale incaricato del Comune di Roma.
Pertanto, anche sotto
il profilo funzionale, l'atto è riconducibile all'organo che rappresenta
l'ente territoriale, sicché alla controparte privata non potrebbe
legittimamente opporsi il mancato perfezionamento di un procedimento
interno e amministrativo ai fini della sua efficacia, posto che -per i
motivi anzidetti- la circostanza che il Protocollo d'intesa in questione
non sia stato convalidato da un organo interno a ciò preposto non può
influire sulla natura ed efficacia dell'atto, ove sussista un requisito di
neutralità in termini di oneri di bilancio per l'amministrazione, come nel
caso in questione.
2.15. In definitiva,
l'ipotesi de qua si configura in termini di una
negoziazione e disposizione di diritti soggettivi attinenti alla proprietà
di un bene con relativa assunzione di obblighi di gestione e custodia da
parte del consegnatario del bene (pubblica amministrazione), e con
corrispondente rinuncia del proprietario titolare all'esercizio dei diritti
entro un termine pattiziamente convenuto; sul piano negoziale, e nel
rispetto delle forme previste nel negozio sottoscritto, vi è dunque la
stipula da parte dell'ente territoriale di un vero e proprio impegno nei
confronti del proprietario, sottoscritto da soggetti formalmente abilitati a
impegnare il Comune; se l'intesa convenuta appare atto programmatico e
politico, lo è solo con riguardo all'organo e alle finalità pubbliche
perseguite dall'ente territoriale nel volere assumere la gestione del bene
privato per risolvere una questione di rilievo sociale; tuttavia tale ultimo
aspetto, attinente al motivo sottostante al negozio, non vale certamente a
mutare la natura degli obblighi specificamente assunti nei confronti del
privato, a fronte del sacrificio imposto sui suoi diritti inerenti alla
proprietà.
Il tenore del documento sottoscritto e il comportamento successivo tenuto
dalla parte pubblica contraente sono tutti elementi incompatibili con un'attività
di mero indirizzo politico, la quale per sua natura ha contenuti meramente
programmatici, volti ad indicare le scelte da adottare e le finalità da
perseguire in relazione a questioni di carattere generale, o comunque
destinate ad intere categorie o settori di interesse, rimettendo ad atti
successivi la concreta attuazione in relazione alle singole fattispecie.
2.16. Tutto quanto sopra osservato conduce a ritenere che
la Corte d'appello
ha erroneamente qualificato l'atto in questione come atto politico e
programmatico, anziché come negozio giuridico regolato dalla disciplina
generale del negozio giuridico di diritto privato (iure privatorum)
con assunzioni di obblighi da parte della Pubblica Amministrazione.
Né la convenzione stipulata, come sopra visto, può rientrare nella
particolare categoria dei negozi ad evidenza pubblica o ad oggetto pubblico.
Ne consegue che, stante la natura contrattuale del negozio in questione,
deve dichiararsi la nullità della sentenza che ha escluso l'applicazione e
l'interpretazione della disciplina del contratto, in accoglimento del
secondo motivo. |
CONSIGLIERI COMUNALI: Pubblicazione
dati spese rappresentanza.
Domanda
In quale sotto-sezione di Amministrazione trasparente vanno
pubblicate le spese di rappresentanza sostenute dagli organi
di governo, del comune?
Risposta
Nel decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, anche nella
versione ampiamente modificata e integrata dal d.gs. 25.05.2016, n. 97, non compare mai la locuzione “spese di
rappresentanza”, né la medesima voce è presente nel
cosiddetto Albero della trasparenza, approvato, da ultimo,
dall’ANAC, come allegato 1, alla deliberazione n. 1310 del
28.12.2016.
L’obbligo di pubblicare le spese di rappresentanza,
sostenute dagli organi di governo degli enti locali, è
previsto all’articolo 16, comma 26, del decreto legge 13.08.2011, convertito, con modificazioni ed integrazioni,
dalla legge 14.09.2011, n. 148.
Il testo della disposizione recita: "26. Le spese di rappresentanza sostenute dagli organi di
governo degli enti locali sono elencate, per ciascun anno,
in apposito prospetto allegato al rendiconto di cui
all’articolo 227 del citato testo unico di cui al decreto
legislativo n. 267 del 2000. Tale prospetto è trasmesso alla
sezione regionale di controllo della Corte dei conti ed è
pubblicato, entro dieci giorni dall’approvazione del
rendiconto, nel sito internet dell’ente locale. Con atto di
natura non regolamentare, adottato d’intesa con la
Conferenza Stato-città ed autonomie locali ai sensi
dell’articolo 3 del decreto legislativo 28.08.1997, n.
281, il Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro
dell’economia e delle finanze, entro novanta giorni dalla
data di entrata in vigore del presente decreto, adotta uno
schema tipo del prospetto di cui al primo periodo.".
In pratica, il prospetto delle spese sostenute deve
risultare nel rendiconto di gestione, approvato entro il 30
aprile dell’anno successivo, dal Consiglio comunale. Il
prospetto deve essere trasmesso alla Sezione regionale della
Corte dei conti e pubblicato entro dieci giorni
dall’approvazione, su: Amministrazione trasparente > Bilanci >
Bilancio preventivo e consuntivo.
Il già citato allegato 1,
alla delibera ANAC n. 130/2016, per tale sezione prevede
l’obbligo di pubblicare “Documenti e allegati del bilancio
consuntivo, nonché dati relativi al bilancio consuntivo di
ciascun anno in forma sintetica, aggregata e semplificata,
anche con il ricorso a rappresentazioni grafiche” (art. 29,
comma 1, d.lgs. 33/2013) ed anche “Dati relativi alle
entrate e alla spesa dei bilanci consuntivi in formato
tabellare aperto in modo da consentire l’esportazione, il
trattamento e l’utilizzo” (art. 29, comma 1-bis, d.lgs.
33/2013).
Per completezza di informazione, si fa presente che in
attuazione dell’art. 29, comma 1-bis, del d.lgs. 33/2013, è
stato adottato il DPCM 22.09.2014, successivamente
modificato dal DPCM 29.04.2016, recante “Definizione
degli schemi e delle modalità per la pubblicazione su
internet dei dati relativi alle entrate e alla spesa dei
bilanci preventivi e consuntivi e dell’indicatore annuale di
tempestività dei pagamenti delle pubbliche amministrazioni”.
In ultimo, si evidenzia che alcuni enti, oltre all’obbligo
sopra meglio ricordato, hanno previsto la pubblicazione del
prospetto delle spese di rappresentanza anche nella sezione
Amministrazione trasparente > Altri contenuti > Dati
ulteriori. L’obbligo è sempre relativo ai dati degli ultimi
cinque anni
(12.06.2018 - tratto da e link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Consiglieri,
accessi on-line. LO STATO DELLA GIURISPRUDENZA.
Il diritto all'accesso e all'informazione del consigliere comunale può
spingersi fino al possesso delle credenziali informatiche del protocollo
dell'Ente e del programma di contabilità, per una accessibilità persino da
postazioni non interne (e certificate) alla casa comunale?
Segnatamente, ai
sensi dell'art. 43, co. 2, Tuel, i consiglieri comunali e provinciali hanno
diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della
provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e
le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio
mandato.
A tal fine, ai sensi dell'art. 2, co. 1, del Codice della
amministrazione digitale, le amministrazioni devono assicurare la
disponibilità, la gestione, l'accesso, la trasmissione, la conservazione e
la fruibilità dell'informazione in digitale e si organizzano e agiscono
utilizzando le modalità più appropriate e adeguate al soddisfacimento degli
interessi degli utenti, mediante le tecnologie dell'informazione e della
comunicazione.
A giudizio del Consiglio di Stato -Sez. V-
sentenza
08.06.2018 n. 3486,
da tali presupposti normativi deriva che la fruibilità dei dati e delle
informazioni in digitale deve essere garantita con procedure appropriate
alla specifica finalità informativa e consone alla tecnologia disponibile.
Grava sull'amministrazione l'approntamento e la valorizzazione di idonee
risorse tecnologiche, che appaiano in grado di ottimizzare, in una logica di
bilanciamento, le esigenze della trasparenza amministrativa.
Nella medesima ottica interpretativa, a giudizio del TAR Sardegna, Sez. I,
sentenza
31.05.2018 n.
531, la richiesta del consigliere comunale di accedere al protocollo
informatico, mediante il possesso delle chiavi di accesso telematico,
rappresenta condizione per l'esercizio consapevole del diritto di accesso,
in modo che questo si svolga non attraverso una apprensione generalizzata e
indiscriminata degli atti dell'amministrazione comunale, ma mediante una
selezione degli oggetti degli atti di cui si chiede l'esibizione.
Per poter operare in tal senso la possibilità di accedere non direttamente
al contenuto della documentazione, ma ai dati di sintesi ricavabili dalla
consultazione telematica del protocollo è appropriata e proporzionata e, per
ciò stesso, legittima (articolo
ItaliaOggi del 27.07.2018).
---------------
MASSIMA
1.- L’appello è fondato e merita di essere accolto.
2.- Il Comune di Castellabate, con delibera di giunta comunale n. 99 del
04.06.2015, ha disciplinato le modalità di accesso ai documenti
amministrativi ed al sistema informatico di contabilità comunale da parte
dei consiglieri comunali, segnatamente prevedendo –al dichiarato fine di
massimizzare la facilità dell’accesso secondo modalità tecniche compatibili
con le risorse dell’ente– l’istituzione, all’interno della casa comunale, di
una postazione telematica certificata per l’accesso ai dati contabili, come
tale agevolmente consultabile da tutti i consiglieri.
3.- L’appellante assume, peraltro, l’insufficienza delle ridette modalità
organizzative, rivendicando la concessione della facoltà di accesso anche da
autonome postazioni remote, mediante rilascio di apposite credenziali (user
id e password) e, per tal via, senza la limitazione riconnessa al
necessario ricorso alla postazione fisica predisposta nei locali comunali.
A fondamento della pretesa (che –con ogni evidenza– non concerne l’an,
ma esclusivamente il quomodo della ostensione) valorizza la direttiva
emergente dalla complessiva digitalizzazione dei dati amministrativi (ex
d.lgs. n. 82/2005) e la correlativa logica della massima semplificazione ed
agevolazione delle modalità del relativo accesso, alla luce della miglior
tecnologia disponibile.
4.- Per parte sua, l’Amministrazione premette, in fatto, di non disporre,
allo stato, di un sistema in grado di garantire l’accesso da remoto (ciò che
sarebbe confermato da apposita dichiarazione resa dalla società incaricata
della gestione dei propri software) e ritiene, in ogni caso, adeguata,
sufficiente e proporzionata, in diritto, la messa a disposizione in loco di
postazioni dedicate.
5.- Ciò posto, in via preliminare va disattesa l’eccezione di
inammissibilità, proposta ed argomentata dal Comune appellato, correlata
alla mancata impugnazione della delibera di Giunta Comunale n. 99 del
04.06.2015, con cui era stato disciplinato e regolamentato il diritto di
accesso agli atti.
Sul punto, giova puntualizzare che, per comune
intendimento, il giudizio in materia di accesso, anche se si atteggia come
impugnatorio nella fase della proposizione del ricorso, in quanto rivolto
contro l'atto di diniego o avverso il silenzio-diniego formatosi sulla
relativa istanza ed il ricorso è da esperire nel termine perentorio di
trenta giorni, è sostanzialmente rivolto all’accertamento la sussistenza o
meno del titolo all'accesso nella specifica situazione alla luce dei
parametri normativi, indipendentemente dalla maggiore o minore correttezza
delle ragioni addotte dall'amministrazione per giustificarne il diniego
(cfr., ex permultis, Cons. Stato, V, 07.11.2008, n. 5573).
Se ne desume che la mancata impugnazione delle disposizioni
regolamentari (per giunta,
suscettibili, in quanto tali di disapplicazione: cfr. Cons. Stato, IV,
23.02.2009, n. 1074), non costituisce per definizione
ragione di inammissibilità del ricorso.
6.- Tanto premesso, osserva il Collegio che, ai sensi
dell’art. 43, comma 2, del d.lgs. n. 267 (recante il Testo unico degli enti
locali), “i consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere
dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle
loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro
possesso, utili all'espletamento del proprio mandato”.
A tal fine, le amministrazioni “assicurano la disponibilità, la gestione,
l'accesso, la trasmissione, la conservazione e la fruibilità
dell'informazione in modalità digitale e si organizzano ed agiscono a tale
fine utilizzando con le modalità più appropriate e nel modo più adeguato al
soddisfacimento degli interessi degli utenti le tecnologie dell'informazione
e della comunicazione” (cfr. art. 2, comma 1, d.lgs. n. 82/2005, recante
il c.d. Codice dell’amministrazione digitale).
La direttiva emergente dalle richiamate disposizioni è senz’altro nel senso:
a) che la fruibilità dei dati e delle informazioni in modalità
digitale debba essere garantita con modalità adeguate (alla precipua
finalità informativa) ed appropriate (alla tecnologia disponibile);
b) che –secondo un corrispondente e sotteso canone di
proporzionalità– grava sull’amministrazione l’approntamento e la
valorizzazione di idonee risorse tecnologiche, che –senza gravare
eccessivamente sulle risorse pubbliche– appaiano in grado di ottimizzare, in
una logica di bilanciamento, le esigenze della trasparenza amministrativa.
In siffatta prospettiva, l’Amministrazione non ha dimostrato, neanche nella
presente sede, che il costo della predisposizione di un software adeguato a
consentire (mediante il rilascio di credenziali certificate e
personalizzate) l’accesso da postazioni remote sia concretamente
sproporzionato (a fronte dei costi comunque necessari all’approntamento ed
alla conservazione di una postazione fisica dedicata, all’interno dei locali
dell’ente) ed economicamente esorbitante rispetto alla rivendicata finalità
informativa.
All’incontro, dovrà considerarsi che –nel complessivo quadro delle risorse
finanziarie destinate ai mezzi informatici– il costo imputabile alla
acquisizione ed alla implementazione di idoneo software si palesa,
notoriamente, non irragionevolmente superiore ai costi delle dotazioni
informatiche.
Deve, per tal via, opinarsi, in difformità della valutazione sul punto
espressa dai primi giudici, che la emergente e duplice direttiva del
doveroso approntamento e del costante adeguamento delle tecnologie
disponibili, ai fini di un migliore, efficace e funzionale accesso ai dati,
milita per il riconoscimento del carattere indebitamente compressivo della
limitazione di fatto frapposta alla pretesa ostensiva della ricorrente.
In riforma della impugnata statuizione, il ricorso merita, in definitiva, di
essere accolto, con consequenziale ordine alla intimata Amministrazione di
apprestare, entro il termine ragionevole di sessanta giorni decorrenti dalla
comunicazione della presente statuizione, le modalità organizzative per il
rilascio di password per l’accesso da remoto al sistema informatico (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza
08.06.2018 n. 3486 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Quorum, vince lo statuto. Se il regolamento è in contrasto va
disapplicato. Cosa fare quando le due fonti normative dicono cose diverse.
Affinché possa essere considerata valida una seduta del consiglio comunale,
convocata in seconda convocazione, come deve essere determinato il quorum
strutturale?
L'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/00, demanda al
regolamento comunale, «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto», la
determinazione del «numero dei consiglieri necessario per la validità delle
sedute» del consiglio riunito in seconda convocazione, con il limite che
tale numero non può, in ogni caso, scendere sotto la soglia del «terzo dei
consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a tale fine il
sindaco e il presidente della provincia»; intendendosi con ciò che,
limitatamente al computo del «terzo» dei consiglieri, il sindaco deve essere
escluso.
Nel caso di specie, il regolamento di organizzazione e funzionamento del
consiglio comunale prevede, per la validità delle sedute del consiglio
comunale convocate in seconda convocazione, la presenza di almeno 14
consiglieri. Lo statuto comunale, invece, dispone che le medesime sedute
siano valide con la presenza di almeno un terzo dei consiglieri assegnati,
escluso il sindaco.
La discrasia tra tali norme deve ricondursi alla
modifica, introdotta dalla legge n. 148/2011, che ha inciso sulla composizione
dei consigli operando una riduzione del numero dei consiglieri rientranti
nella fascia demografica dell'ente locale di cui trattasi.
Tuttavia, in
ossequio al principio della gerarchia delle fonti, e conformemente anche
all'articolo 7 del citato decreto legislativo n. 267/2000, che disciplina
l'adozione dei regolamenti comunali «nel rispetto dei principi fissati dalla
legge e dallo statuto» (cfr. sentenza Tar Lombardia, Brescia, n. 2625 del 28.12.2009, Tar Lazio, n. 497 del 2011), prevalendo la norma statutaria,
la disposizione regolamentare deve essere disapplicata.
Al fine di comporre l'evidenziata discrasia, deve considerarsi, pertanto,
opportuno un intervento correttivo volto ad armonizzare le previsioni recate
dalle citate fonti di autonomia locale (articolo
ItaliaOggi dell'01.06.2018). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Mancata
convocazione consiglio comunale straordinario. Applicazione
dell’art. 39 del decreto legislativo n. 267/2000.
Sintesi/Massima
Convocazione consiglio comunale ex art.
39 del decreto legislativo n. 267/2000.
Il diritto ex art. 39, comma 2, " ... è tutelato in modo specifico dalla
legge con la previsione severa ed eccezionale della
modificazione dell'ordine delle competenze mediante
intervento sostitutorio del Prefetto in caso di mancata
convocazione del consiglio comunale in un termine
emblematicamente breve di venti giorni” (TAR Puglia, Sez. 1,
25.07.2001, n. 4278).
Qualora l’intenzione dei proponenti non sia diretta a
provocare una delibera in merito del Consiglio comunale,
bensì a porre in essere un atto di sindacato ispettivo, si
potrebbe ipotizzare, ai sensi dell’art. 42, comma 1, del
decreto legislativo n. 267/2000, che rientri nella
competenza del Consiglio comunale in qualità di “ … organo
di indirizzo e di controllo politico-amministrativo” anche
la trattazione di “questioni” che, pur non rientrando
nell’elencazione del comma 2 del medesimo art. 42, attengono
comunque al suddetto ambito di controllo.
Del resto, la dizione legislativa che parla di “questioni” e
non di deliberazioni o di atti fondamentali, conforta nel
ritenere che la trattazione di argomenti non rientranti
nella previsione del citato comma 2, dell’art. 42, non debba
necessariamente essere subordinata alla successiva adozione
di provvedimenti da parte del consiglio comunale.
Testo
E’ stato chiesto un parere in ordine all’applicazione
dell’art. 39 del decreto legislativo n. 267/2000.
Alcuni consiglieri del comune in oggetto, in numero
superiore a un quinto, hanno segnalato la mancata
convocazione del consiglio da parte del vicesindaco, nella
veste di Presidente del consiglio comunale, malgrado fosse
stata presentata apposita istanza ai sensi del citato art.
39, comma 2.
Il presidente del consiglio ha riferito di non aver
provveduto alla convocazione dell’assemblea in quanto la
relativa istanza non risultava essere corredata da una
proposta di delibera, come richiesto dall’art. 24 del
regolamento per il funzionamento del consiglio comunale.
Al riguardo va rilevato che il diritto ex art. 39, comma 2,
"... è tutelato in modo specifico dalla legge con la
previsione severa ed eccezionale della modificazione
dell'ordine delle competenze mediante intervento
sostitutorio del Prefetto in caso di mancata convocazione
del consiglio comunale in un termine emblematicamente breve
di venti giorni” (TAR Puglia, Sez. 1, 25.07.2001, n.
4278).
L'orientamento che vede riconosciuto e definito “... il
potere dei consiglieri di chiedere la convocazione del
Consiglio medesimo” come “diritto” dal
legislatore è, quindi, ormai ampiamente consolidato
(sentenza TAR Puglia, Lecce, Sez. I del 04.02.2004, n. 124).
La questione sulla sindacabilità dei motivi che determinano
i consiglieri a chiedere la convocazione straordinaria
dell'assemblea, si è orientata nel senso che al Presidente
del Consiglio spetti solo la verifica formale della
richiesta prescritto numero di consiglieri, non potendo
comunque sindacarne l'oggetto.
La giurisprudenza in materia si è da tempo espressa
affermando che, in caso di richiesta di convocazione del
consiglio da parte di un quinto dei consiglieri, “al
presidente del consiglio comunale spetta soltanto la
verifica formale che la richiesta provenga dal prescritto
numero di soggetti legittimati, mentre non può sindacarne
l'oggetto, poiché spetta allo stesso consiglio nella sua
totalità la verifica circa la legalità della convocazione e
l'ammissibilità delle questioni da trattare, salvo che non
si tratti di oggetto che, in quanto illecito, impossibile o
per legge manifestamente estraneo alle competenze
dell'assemblea in nessun caso potrebbe essere posto
all'ordine del giorno” (TAR Piemonte, n. 268/1996, Tar
Sardegna, n. 718 del 2003 ).
Si soggiunge che il TAR Sardegna, con la sentenza n. 718 del
2003, ha respinto un ricorso avverso un provvedimento
prefettizio ex art. 39, comma 5, del citato decreto
legislativo in quanto, ad avviso del giudice amministrativo,
il Prefetto non poteva esimersi dal convocare d’autorità il
Consiglio Comunale, “essendosi verificata l’ipotesi di
cui all’art. 39 del T.U.O.E.L. n. 267/2000”.
Inoltre, si è sostenuto che appartiene ai poteri sovrani
dell'assemblea decidere in via pregiudiziale che un dato
argomento inserito nell'ordine del giorno non debba essere
discusso (questione pregiudiziale) ovvero se ne debba
rinviare la discussione (questione sospensiva) (TAR Puglia,
Lecce, Sez. 1, 25.07.2001, n. 4278 e sempre TAR Puglia,
Lecce, Sez. 1, 04.02.2004,n.124).
Va peraltro rilevato che l’art. 43 del T.U.O.E.L. demanda
alla potestà statutaria e regolamentare dei Comuni e delle
province la disciplina delle modalità di presentazione delle
interrogazioni, delle mozioni e di ogni altra istanza di
sindacato ispettivo proposta dai consiglieri, nonché delle
relative risposte, che devono comunque essere fornite entro
trenta giorni.
Con riguardo a quest’ultimo ambito, occorre osservare che,
qualora l’intenzione dei proponenti non sia diretta a
provocare una delibera in merito del Consiglio comunale,
bensì a porre in essere un atto di sindacato ispettivo, si
potrebbe ipotizzare, ai sensi dell’art. 42, comma 1, del
decreto legislativo n. 267/2000, che rientri nella
competenza del Consiglio comunale in qualità di “…
organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo”
anche la trattazione di “questioni” che, pur non
rientrando nell’elencazione del comma 2 del medesimo art.
42, attengono comunque al suddetto ambito di controllo. Del
resto, la dizione legislativa che parla di “questioni”
e non di deliberazioni o di atti fondamentali, conforta nel
ritenere che la trattazione di argomenti non rientranti
nella previsione del citato comma 2, dell’art. 42, non debba
necessariamente essere subordinata alla successiva adozione
di provvedimenti da parte del consiglio comunale.
Sulla base di tali argomentazioni, si ritiene, pertanto, che
il Prefetto sia tenuto alla applicazione della normativa
prevista dall’art. 39, comma 5, del decreto legislativo n.
267/2000, invitando il presidente del consiglio comunale a
voler provvedere alla convocazione dell’assemblea.
Si soggiunge, per completezza, che l’ente potrebbe valutare
l’opportunità di modificare l’art. 24 del regolamento sul
funzionamento del consiglio comunale nella parte in cui
prevede che la richiesta di convocazione sia corredata da
uno “schema di deliberazione”. Ciò in quanto la
normativa in parola, limitando all’esame delle “deliberazioni”
la possibilità di accedere all’istituto previsto dall’art.
39, comma 2, citato, restringe il perimetro dei diritti
riconosciuti ai consiglieri comunali dalla legge statale.
Infine, si precisa che l’adozione da parte dell’ente locale
di una specifica normativa regolamentare in materia di atti
di sindacato ispettivo non impatta in alcun modo sul diverso
istituto disciplinato dall’art. 39 citato dal momento che
quest’ultimo riguarda atti esercitabili da un quinto dei
consiglieri mentre il diritto di presentare interrogazioni,
mozioni o ordini del giorno è riconosciuto al consigliere
comunale anche singolarmente
(01.06.2018 - link a http://dait.interno.gov.it). |
maggio 2018 |
|
CONSIGLIERI COMUNALI: Diritto
di accesso dei consiglieri comunali.
Sintesi/Massima
Al consigliere comunale che abbia
difficoltà di accesso alla strumentazione informatica non
potrebbe negarsi il rilascio anche di copie cartacee
(conforme, parere C.d.S. 02183/2014 del 27/06/2014) di atti
che non siano complessi e voluminosi.
E’ legittima l’eventuale previsione di disposizioni che
consentono l’utilizzo da parte dei consiglieri di
apparecchiature di proprietà dell’Ente, al fine proprio di
agevolare il corretto svolgimento delle funzioni
istituzionali.
Testo
Due consiglieri del Comune di …, lamentando la presunta
illegittimità delle modifiche introdotte nel nuovo
regolamento del Consiglio comunale in materia di diritto al
rilascio di copie di atti e documenti in favore dei
consiglieri, hanno chiesto un parere da parte di questa
Direzione Centrale sia in ordine alla legittimità del
rifiuto dell’Amministrazione di consegnare i documenti in
formato cartaceo e sia all’obbligo per l’Ente di fornire la
strumentazione informatica al consigliere che ne faccia
richiesta.
Al riguardo, si evidenzia che il “diritto di accesso”
dei consiglieri comunali riconosciuto dall’art. 43 del
decreto legislativo n. 267/2000, deve avvenire in modo da
comportare il minor aggravio possibile per gli uffici
comunali (attraverso modalità che ragionevolmente sono
fissate nel regolamento dell’ente) e non deve sostanziarsi
in richieste assolutamente generiche ovvero meramente
emulative, fermo restando tuttavia che la sussistenza di
tali caratteri deve essere attentamente e approfonditamente
vagliata in concreto al fine di non introdurre
surrettiziamente inammissibili limitazione al diritto stesso
(Consiglio di Stato, sez. V, n. 6963/2010).
Proprio al fine di evitare che le continue richieste di
accesso si trasformino in un aggravio dell'ordinaria
attività amministrativa dell'ente locale, la Commissione per
l’accesso ai documenti amministrativi ha riconosciuto la
possibilità per il consigliere comunale di avere accesso
diretto al sistema informatico interno (anche contabile) del
Comune attraverso l'uso della password di servizio (cfr.
parere del 29.11.2009). Inoltre, appare utile segnalare che
il Tribunale Amministrativo Regionale della Sardegna con la
sentenza n. 29/2007 ha ritenuto che “la notevole mole
della documentazione da consegnare può, nel caso,
giustificare la distribuzione nel tempo del rilascio delle
copie richieste”.
Qualora si tratti di esibire documentazione complessa e
voluminosa, appare, altresì, legittimo il rilascio di
supporti informatici al consigliere, o la trasmissione
mediante posta elettronica, in luogo delle copie cartacee
(v. C.d.S. n. 6742/07 del 28/12/2007).
Tale modalità è conforme alla vigente normativa in materia
di digitalizzazione della pubblica amministrazione (decreto
legislativo n. 82 del 07.03.2005), che all'art. 2, prevede
che anche “le autonomie locali assicurano la
disponibilità, la gestione, l'accesso, la trasmissione, la
conservazione e la fruibilità dell'informazione in modalità
digitale e si organizzano ed agiscono a tale fine
utilizzando con le modalità più appropriate e nel modo più
adeguato al soddisfacimento degli interessi degli utenti le
tecnologie dell'informazione e della comunicazione”.
Rilevata, dunque, la legittimità delle norme regolamentari
che dispongono il rilascio di copie degli atti in formato
digitale, parimenti, dovendosi garantire il diritto ad
esercitare la propria funzione, al consigliere comunale che
abbia difficoltà di accesso alla strumentazione informatica
non potrebbe negarsi il rilascio anche di copie cartacee
(conforme, parere C.d.S. 2183/2014 del 27/06/2014) di atti
che, comunque, ad avviso di questa Direzione Centrale, non
siano complessi e voluminosi.
Parimenti, in virtù dell’art. 38, comma 2 del d.lgs. n.
267/2000 che, tra l’altro, riconosce autonomia funzionale e
organizzativa ai consigli, i quali con norme regolamentari
fissano le modalità per acquisire servizi, attrezzature e
risorse finanziarie, anche in favore dei gruppi consiliari
regolarmente costituiti, appare legittima l’eventuale
previsione di disposizioni che consentono l’utilizzo da
parte dei consiglieri di apparecchiature di proprietà
dell’Ente, al fine proprio di agevolare il corretto
svolgimento delle funzioni istituzionali
(30.05.2018 - link a http://dait.interno.gov.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Modalità di applicazione della sospensione di diritto
dalla carica elettiva ex art. 11, d.lgs 31.12.2012 n. 235
(parere
11.05.2018-253361-253362, AL 24089/2017 -
Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 4/2018).
---------------
Con le note alle quali si fa riscontro codesto Ministero
ha chiesto un parere in merito all'interpretazione dell'art.
11 del D.Lgs. n. 235 del 31.12.2012 (Testo unico delle
disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di
ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a
sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a
norma dell'articolo 1, comma 63, della legge 06.11.2012, n.
190), rappresentando che il dr. (...), allorché rivestiva la
carica di Assessore e Vicesindaco del Comune di (...), era
stato condannato per il reato di abuso d'ufficio di cui
all'art. 323 del codice penale, con sentenza non definitiva
del 10.11.2016; conseguentemente il Prefetto di Reggio
Calabria, con decreto del 12.11.2016, aveva accertato nei
suoi confronti l'esistenza di una causa di sospensione di
diritto dalla carica, ai sensi dei commi 1 e 5 del predetto
art. 11.
La consiliatura nel corso della quale la sospensione aveva
operato si era, però, interrotta, a seguito della
sospensione del Consiglio comunale, con provvedimento
prefettizio del 23.12.2016, e del suo successivo
scioglimento, disposto con d.P.R. 03.02.2017, adottato ai
sensi dell'art. 141, comma 1, lettera b), n. 4), del D.Lgs.
235/2012.
Poiché l'interessato si era candidato alla carica di Sindaco
dell'ente nelle successive consultazioni amministrative
dell'11.06.2017, codesto Ministero, rilevando che,
nell'eventualità in cui egli fosse risultato eletto, il
Prefetto avrebbe dovuto adottare un nuovo provvedimento
accertativo dell'esistenza di una temporanea causa ostativa
all'espletamento del mandato, ha formulato, nella richiesta
di parere, i seguenti due quesiti: ... (...continua). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Sindaco rieletto. Aspettativa.
Il sindaco rieletto è tenuto a
presentare una rinnovata istanza per il collocamento in
aspettativa ex art. 81 del d.lgs. 267/2000, attesa la
stretta connessione tra espletamento del singolo mandato
elettivo e la facoltà, per il lavoratore dipendente, di
richiedere detta aspettativa.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine all’aspettativa
spettante al Sindaco ai sensi dell’art. 81 del d.lgs.
267/2000.
In particolare, l’Ente pone la questione se la domanda di
collocamento in aspettativa per l’espletamento del mandato,
da parte del Sindaco, lavoratore dipendente presso
un’azienda privata, debba essere ripresentata in caso di
rielezione al secondo mandato. L’Amministrazione istante
ritiene che la disposizione legislativa in argomento, nello
specifico la locuzione “per tutto il periodo di
espletamento del mandato” debba essere interpretata con
riferimento al singolo mandato. Conseguentemente è
dell’avviso che l’interessato, Sindaco rieletto, debba
presentare una nuova istanza per il collocamento in
aspettativa per il secondo mandato elettivo.
Nel ritenere condivisibile l’orientamento esposto dal
Comune, si esprimono le seguenti considerazioni.
Com’è noto, l’art. 81, comma 1, del d.lgs. 267/2000 dispone
che i sindaci, i presidenti delle province, i presidenti dei
consigli comunali e provinciali, i presidenti dei consigli
circoscrizionali, i presidenti delle comunità montane e
delle unioni di comuni, nonché i membri delle giunte di
comuni e province, che siano lavoratori dipendenti, possono
essere collocati a richiesta in aspettativa non retribuita
per tutto il periodo di espletamento del mandato.
La ratio della citata norma consiste nella tutela
espressamente riconosciuta dal legislatore
all’amministratore locale, finalizzata a rendere concreto il
precetto di cui all’art. 51, terzo comma, della
Costituzione, che fa salvo il diritto di chi è chiamato a
svolgere funzioni pubbliche elettive di disporre del tempo
necessario al loro ottimale adempimento, conservando al
contempo il posto di lavoro.
La giurisprudenza civilistica ha affermato che l’aspettativa
in argomento ha lo scopo di rendere compatibile, per i
lavoratori chiamati a funzioni pubbliche, l’espletamento di
tali funzioni con la condizione di prestatore di lavoro
subordinato [1].
Premesso un tanto, con specifico riferimento alla durata del
mandato, si rappresenta che l’art. 4, comma 1, della l.r.
19/2013 prevede che il Sindaco duri in carica per un periodo
di cinque anni [2].
La giustizia amministrativa [3]
ha affermato in proposito che, sebbene il TUEL non contenga
un’espressa previsione in ordine al momento in cui entra in
carica il Sindaco, non è contestabile che l’organo
monocratico di vertice dell’ente locale si insedi
immediatamente, per effetto della proclamazione
dell’avvenuta elezione consacrata nell’apposito verbale
dell’ufficio elettorale centrale e che, nel medesimo
istante, cessi il mandato del predecessore
[4].
E’ da considerare parimenti che il Sindaco è abilitato a
compiere tutti gli atti di competenza e assume tutte le
funzioni fino dal momento della proclamazione.
Pertanto, la circostanza che ad essere rieletto Sindaco sia
la medesima persona [5]
appare ininfluente ai fini della fissazione dei termini di
cessazione del mandato precedente e ai fini della
determinazione dell’inizio del mandato elettivo successivo,
in quanto è determinante l’intervenuto rinnovo degli organi
amministrativi comunali.
Si noti inoltre come il legislatore, sia statale che
regionale [6],
nel disciplinare la rieleggibilità alla medesima carica
nello stesso ente, abbia introdotto delle particolari
limitazioni riferite all’aver ricoperto, per due mandati
consecutivi, la carica di sindaco. La formulazione della
norma richiama espressamente la fattispecie del “secondo
mandato”, a rafforzare il convincimento secondo cui ogni
singolo mandato è distinto dal precedente e dal successivo,
a prescindere dal soggetto che ricopre la carica elettiva
[7].
Si ravvisa, pertanto una stretta connessione tra
espletamento del singolo mandato elettivo e la facoltà, per
il lavoratore dipendente eletto, di richiedere il
collocamento in aspettativa per l’espletamento di dette
funzioni.
A tal fine, quindi, il Sindaco rieletto è tenuto a
presentare una rinnovata istanza, correlata al mandato
conseguente alla nuova tornata elettorale.
---------------
[1] Cfr. Cass. Civile, sentenza n. 21396 del 05.10.2006.
[2] Tale durata si riferisce alla scadenza naturale del
mandato e può essere ridotta nelle ipotesi di cessazione
anticipata dalla carica contemplate nella legislazione
vigente. Si fa infatti riferimento, nelle due diverse
fattispecie, a ipotesi di “mandato pieno” o a “mandato con
durata ridotta”.
[3] Cfr. Consiglio di Stato, sez. V, sentenza n. 4694 del
2006.
[4] Cfr. anche L’ordinamento locale nel Friuli Venezia
Giulia, Vademecum sui principali aspetti di interesse per
gli amministratori locali, pag. 21 e circolare n. 14/EL del
06.06.2016 del Servizio Consiglio autonomie locali ed
elettorale della Direzione centrale autonomie locali e
coordinamento delle riforme, in cui si sottolinea che con la
proclamazione degli eletti cessano dalla carica i
consiglieri uscenti, il Sindaco uscente e la Giunta nominata
dallo stesso.
[5] Il Sindaco uscente potrebbe anche non ricandidarsi.
[6] Cfr. art. 4, comma 2, della l.r. 19/2013.
[7] Si pensi inoltre anche ai vari adempimenti previsti dal
legislatore e connessi alla durata dei singoli mandati: la
relazione di inizio e fine mandato, l’indennità di fine
mandato, prevista al temine dell’incarico amministrativo
(04.05.2018 - link a
http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Agli
amministratori spese legali rimborsate solo se non colpiscono l’equilibrio
di bilancio.
La locuzione «senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica»
contenuta nell'articolo 86, comma 5, del testo unico degli enti locali a
proposito del rimborso delle spese legali agli amministratori, deve essere
riferita all'aggregato delle spese di funzionamento, per cui sono possibili
compensazioni interne tramite le quali garantirne la copertura qualora non
previste o siano maggiori rispetto agli esercizi precedenti.
Lo afferma la Sez. regionale di controllo per il Molise della Corte dei
conti con il
parere 03.05.2018 n. 55.
Il tema
Diversi amministratori comunali, sottoposti a indagini penali e per i quali
è poi stato dichiarato il non luogo a procedere perché il fatto non
sussiste, hanno chiesto il rimborso delle spese legali. Un sindaco ha
chiesto se, alla luce della locuzione «senza nuovi o maggiori oneri per la
finanza pubblica» contenuta nell'articolo 86, comma 5, del Tuel, sia
possibile utilizzare come parametro il complessivo equilibrio finanziario
dell'ente e non l'invarianza della singola voce di spesa, non avendo mai
posto in essere stanziamenti per spese legali. E se è corretto intendere la
clausola di invarianza finanziaria nel senso che l'amministrazione provvede
attingendo alle ordinarie risorse di cui può disporre a legislazione
vigente, senza precludere spese nuove solo perché non precedentemente
sostenute o maggiori rispetto alla precedente previsione.
L'articolo 86 vincola il rimborso delle spese legali per gli amministratori
locali al limite massimo dei parametri stabiliti dal decreto previsto
dall'articolo 13, comma 6, della legge 247/2012, nel caso di conclusione del
procedimento con sentenza di assoluzione o di emanazione di un provvedimento
di archiviazione, in presenza dei seguenti requisiti: assenza di conflitto
di interessi con l'ente amministrato, presenza di nesso causale tra funzioni
esercitate e fatti giuridicamente rilevanti e assenza di dolo o colpa grave.
Le coperture
A fronte di un diverso avviso espresso dalla sezione Basilicata, secondo cui
la facoltà riconosciuta agli enti locali di rimborsare le spese legali deve
trovare copertura nelle entrate attese, i magistrati contabili molisani
scelgono l'opzione interpretativa secondo cui la locuzione «senza nuovi o
maggiori oneri per la finanza pubblica» deve essere riferita all'aggregato
delle spese di funzionamento, che nel bilancio armonizzato è identificato
nelle spese della Missione 1 per «Servizi istituzionali, generali e di
gestione».
L'introduzione o l'aumento della spesa per la voce in esame sono, dunque,
preclusi solo qualora determinano un innalzamento delle spese relative
all'organizzazione e al funzionamento complessivamente sostenute dall'ente
locale rispetto a quanto appostato nel rendiconto del precedente esercizio.
Sono conseguentemente possibili compensazioni interne, tramite le quali
l'ente può garantire la copertura delle spese per il rimborso agli
amministratori a patto che venga rispettato il complessivo aggregato di
spesa.
Il fondo rischi
La sezione, poi, ricorda che nel caso in cui abbia una obbligazione passiva
condizionata all'esito di un giudizio o di un ricorso, l'ente è tenuto ad
accantonare le risorse necessarie per il pagamento degli oneri attraverso la
costituzione di un apposito fondo rischi. Spetta alla singola
amministrazione valutare se il contenzioso che potrebbe insorgere con gli
amministratori aventi diritto al rimborso sia già attualizzato al momento
dello stanziamento del fondo, evitando che accantonamenti stanziati per
assicurarsi dal rischio di ulteriori eventi sfavorevoli possano essere
utilizzati per le segnalate finalità onde evitare di depotenziare l'utilità
del fondo stesso a discapito degli equilibri di bilancio
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 21.05.2018).
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MASSIMA
La Sezione -ammessa la richiesta sotto il profilo
soggettivo e i primi quattro quesiti sotto il profilo oggettivo– ritiene
oggettivamente i restanti quesiti estranei alla materia della contabilità
pubblica e richiedenti una risposta puntuale in relazione ad aspetti
operativi riconducibili esclusivamente alla sfera amministrativo-gestionale
dell’Ente.
Tra le interpretazioni intervenute in ordine all’art. 86, comma 5, TUEL, il
Collegio ritiene preferibile l’opzione interpretativa secondo la quale il
significato della locuzione “senza nuovi o maggiori oneri per la finanza
pubblica”, debba essere riferito all’aggregato di spesa delle spese di
funzionamento, in quanto, da un lato, comprensivo delle spese afferenti al
mandato degli amministratori ma, dall’altro non così ampio da ricomprendere
anche le uscite destinate a soddisfare le finalità pubbliche il cui
perseguimento è demandato all’Amministrazione.
Tale aggregato interessa in particolare “tutte le voci di spesa destinate a
garantire l’esistenza dell’apparato comunale e il suo funzionamento ed
esclude invece quelle voci di spesa per loro natura destinate
all’espletamento dei compiti di cui l’ente è intestatario, preordinati ad
assicurare e contemperare gli interessi dei soggetti a cui l’azione pubblica
è rivolta”. Nel bilancio armonizzato pertanto l’aggregato in questione non
può che essere identificato nelle spese della Missione 1 recante “Servizi
istituzionali, generali e di gestione”
(cfr. Sez. controllo Lombardia nn. 452 e 470/2015/PAR).
Non intravede ostacoli a che l’Amministrazione, nel
rispetto del complessivo aggregato di spesa del precedente esercizio,
provveda alle variazioni di bilancio necessarie a garantire la copertura
delle spese in questione.
In ultimo, è possibile utilizzare gli importi previsti nel fondo
rischi/passività future esclusivamente a fronte di sentenze sfavorevoli non
definitive o non esecutive e/o di un contenzioso che si sia già manifestato
nell’”an” senza tuttavia essere stato ancora definito tanto nell’esito che
nel “quantum”.
L’Amministrazione valuterà pertanto se il contenzioso si fosse già
attualizzato al momento dello stanziamento del Fondo in questione e,
soprattutto, eviterà che accantonamenti stanziati per assicurarsi dal
rischio di ulteriori eventi sfavorevoli (altri contenziosi e/o sentenze non
definitive o non esecutive) possano essere utilizzati per le segnalate
finalità onde evitare di depotenziare l’utilità del fondo stesso a discapito
degli equilibri di bilancio. |
aprile 2018 |
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ATTI
AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI
COMUNALI: Per
l’omissione di atti d’ufficio bastano 30 giorni di ritardo.
Perché possa dirsi consumato il delitto di omissione di atti d'ufficio
disciplinato dall’articolo 328, comma 2, del codice penale, è sufficiente
che siano trascorsi 30 giorni dalla diffida rivolta dal privato alla Pa
affinché adotti l'atto richiesto, senza che il pubblico ufficiale competente
gli abbia almeno esplicitato le ragioni del ritardo.
Non rileva, invece, che siano già scaduti i termini per la conclusione del
procedimento amministrativo dal momento che l'illecito penale prescinde
dalla consumazione di un illecito amministrativo.
È questo il principio di diritto enunciato dalla sesta sezione penale della
Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la
sentenza
18.04.2018 n. 17536.
La vicenda
Il caso riguardava un cittadino di un Comune della provincia di Roma che
aveva formalmente «messo in mora» la municipalità intimandola entro
30 giorni dalla propria richiesta a porre in essere quanto necessario per
realizzare le opere di urbanizzazione (una strada).
L'ente locale non forniva nel termine indicato alcun riscontro, e il
cittadino inviava al Comune un atto «di significazione e diffida».
Veniva pertanto aperto un procedimento penale a carico del sindaco e del
responsabile dell'ufficio tecnico.
Il Gup del Tribunale di Tivoli faceva però cadere l'accusa con la
motivazione che non vi fossero gli estremi per ritenere integrato il delitto
di omissione di atti d'ufficio in quanto all'attivazione del privato non
poteva riconoscersi la natura di «diffida ad adempiere» ma quella di
«originaria richiesta» inviata a un ente pubblico, sulla quale l'ente
avrebbe dovuto provvedere nel termine previsto dall'articolo 2 della legge
241/1990 per la definizione dei procedimenti amministrativi, pari a 30
giorni salvo diverse disposizioni. Sempre ad avviso del Tribunale, decorso
inutilmente il termine amministrativo, perché si perfezionasse il reato
occorrevano poi l'ulteriore messa in mora della Pa e il suo persistente
silenzio all'esito del decorso del termine supplementare di altri trenta
giorni stabilito dalla legge penale.
La decisione
Tesi tuttavia sconfessata dai Giudici di Piazza Cavour secondo i quali i due
termini (amministrativo e penale) sono pienamente sovrapponibili, sicché la
mancata adozione del provvedimento da parte del funzionario pubblico entro
il lasso temporale ordinario di 30 giorni sancito dalla legge 241/1990
implica sia il prodursi del silenzio-inadempimento della Pa, denunciabile al
Tar, sia la consumazione della condotta omissiva penalmente rilevante
secondo l’articolo 328, comma 2, del codice penale, laddove la Pa oltre a
non adottare l'atto richiesto, neppure formuli una risposta negativa per
spiegare le ragioni del ritardo.
Va detto che la ricostruzione della Cassazione può determinare effetti
paradossali ove si consideri che la Pa, nella stragrande maggioranza dei
casi, ha facoltà di concludere il procedimento in un termine superiore a
trenta giorni, che a norma dell'articolo 2 della legge 241/1990 trova
applicazione solo nei casi in cui l'Amministrazione interessata non abbia
provveduto con regolamento a determinarne uno diverso, che normalmente è più
lungo (di regola, in base alla stesso articolo 2, può raggiungere i 180
giorni).
Aderendo alla tesi della Corte di legittimità, potrebbe allora capitare che
il funzionario responsabile rimasto silente a fronte di una richiesta del
privato, trascorsi 30 giorni, possa essere chiamato a rispondere del reato
di omissione di atti d'ufficio pur versando in una situazione assolutamente
lecita sul piano amministrativo, disponendo di altro tempo per provvedere
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.04.2018).
---------------
RITENUTO IN FATTO
1. Lu.Ch., persona offesa costituita parte civile, ricorre avverso la
sentenza di cui in epigrafe emessa dal G.u.p. di Tivoli con cui, all'esito
dell'udienza preliminare, ha dichiarato non doversi procedere perché il
fatto non sussiste nei confronti degli imputati Ri.Ma. e Ca.Lu.,
rispettivamente sindaco e responsabile dell'ufficio tecnico del comune di
Riano, per non aver dato seguito, nel termine di trenta giorni, all'atto di
«significazione e diffida» per la realizzazione di opere di
urbanizzazione primaria e secondaria, nonché per l'adozione di misure ex
art. 53 d.lgs. n. 267/2000, nella zona della via della Valle del Fiume di
Ponte Sodo, in Riano nel novembre del 2013.
2. Il ricorrente, per il tramite del difensore, deduce vizi di motivazione e
violazione dell'art. 328, secondo comma, cod. pen. a mente dell'art. 606,
comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen., in ordine alla ritenuta
insussistenza del reato di omissione di atti d'ufficio, in presenza di un
obbligo di provvedere in capo all'amministrazione su cui si sia formato il
silenzio-inadempimento, nonché in relazione alla portata del requisito
strutturale della diffida ad adempiere. Si cesura quanto rilevato dalla
motivazione della sentenza secondo cui, dopo la richiesta di adempiere,
formatosi il silenzio-inadempimento al decorso dei 30 giorni, sarebbe dovuta
seguire, ai fini dell'integrazione della fattispecie contestata, una
ulteriore diffida, consumandosi il reato al decorrere di ulteriori 30 giorni
senza che l'amministrazione avesse provveduto o fornito al privato i motivi
del ritardo.
La decisione connessa alla formazione del silenzio-inadempimento conseguente
all'omessa evasione della diffida, si osserva, è situazione affatto simile
all'integrazione del reato che prescinde dalla tutela amministrativa, che
nel caso di specie ha condotto alla declaratoria di annullamento del
silenzio-inadempimento.
Sussistendo l'obbligo da parte dell'amministrazione di provvedere in quanto
direttamente derivante dalla legge, obbligo anche enunciato in diffida con
pedissequa riproduzione dei profili normativi di riferimento, non era
neppure necessaria la previa apertura del procedimento, con conseguente
immediata consumazione del reato al decorso dei 30 giorni, senza che
l'amministrazione avesse provveduto sull'stanza o comunicato le ragioni del
ritardo.
Né poteva porsi un problema connesso alla qualificazione dell'atto inviato
che indicava la esplicita dizione di «atto di significazione e diffida
alla realizzazione di opere di urbanizzazione», atto a cui
l'amministrazione non ha fornito alcun riscontro.
La sentenza è anche illogica poiché tende a differenziare la richiesta di
adozione di un atto indirizzata alla P.A. dalla diffida necessaria ai fini
della integrazione, facendo espresso richiamo ad un precedente di questa
Corte (Sez. 6, n. 40008 del 27/10/2010) che in realtà aveva escluso che
l'atto potesse essere valutato come diffida, situazione non conforme a
quella decisa.
...
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato e la sentenza deve essere
annullata.
2. Preliminarmente deve evidenziarsi, in ordine a quanto argomentato nella
memoria dai due imputati, che l'art. 428, comma 2, cod. proc. pen., nella
formulazione antecedente alla riforma intervenuta con la legge 23.06.2017,
n. 103, che ha espunto la possibilità di ricorrere per cassazione avverso la
sentenza di non luogo a procedere del giudice delle udienza preliminare,
prevede che la persona offesa possa ricorrere (a condizione che sia anche
costituita parte civile), sussistendo il suo interesse ad impugnare,
trattandosi di impugnazione riguardante gli effetti penali (Sez. 5, n. 41350
del 10/07/2013, P.O. in proc. Cappellato e altro, Rv. 257934).
2.1. Da tanto discende che, per il tenore dell'art. 428, comma 2, cod. proc.
pen., non pertinente è il riferimento all'art. 572 cod. proc. pen. che
riguarda la richiesta rivolta al P.M. affinché impugni la sentenza, mentre
l'art. 577 cod. proc. pen. concerne i capi della sentenza che riguardano i
soli aspetti civili.
2.2. Quanto alla dedotta carenza di interesse anche prospettata nella
memoria, si osserva come irrilevante sia in questa sede stabilire se,
all'esito dei vari giudizi amministrativi ed alle azioni legali intraprese
dal ricorrente, sia stato soddisfatto o meno quanto oggetto dell'atto
inviato all'amministrazione comunale di Riano, dovendosi unicamente valutare
il motivo di ricorso che contesta l'erronea applicazione e omessa
motivazione in ordine all'elemento oggettivo dell'art. 328, secondo comma,
cod. pen.
2.3. Così come non rileva se il ricorrente avesse o meno diritto a
conseguire «il bene della vita» che ha formato oggetto dell'istanza,
poiché, incontestata la riferibilità al medesimo di una posizione soggettiva
qualificata al cospetto della pubblica amministrazione, deve unicamente
provvedersi ad accertare se, all'esito dell'istanza, inviata agli uffici
competenti dell'amministrazione comunale, sussistesse quantomeno un suo
diritto a ricevere una risposta in merito alle ragioni del ritardo.
In tal senso è erroneo ritenere che l'"obbligo di
informazione" dovuto all'interessato sia ipotizzabile solo in caso di
accertata sussistenza dell'obbligo principale di compiere l'atto, poiché ciò
che viene in rilievo non è tanto l'omissione dell'atto, ma l'inerzia del
soggetto attivo sia nel compiere l'atto richiesto sia nello esporre le
ragioni del ritardo (Sez. 6, n.
7761 del 07/07/1997, Sabatino, Rv. 209749).
3. Deve rinviarsi al principio costantemente seguito da questa Corte, che il
Collegio condivide, secondo cui l'azione tipica del delitto
di cui all'art. 328, comma secondo, cod. pen., è integrata dal mancato
compimento di un atto dell'ufficio da parte del pubblico ufficiale o
dell'incaricato di pubblico servizio, ovvero dalla mancata esposizione delle
ragioni del ritardo, entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi ha
interesse; ne consegue che il reato, omissivo proprio e a consumazione
istantanea, deve intendersi perfezionato con la scadenza del predetto
termine (Sez. 6, n. 27044 del
19/02/2008, Mascia, Rv. 240979).
Ai fini dell'integrazione del delitto di omissione di atti
d'ufficio, è infatti irrilevante il formarsi del silenzio-inadempimento
entro la scadenza del termine di trenta giorni dalla richiesta del privato
che, in quanto inadempimento, integra la condotta omissiva richiesta per la
configurazione della fattispecie incriminatrice
(Sez. 6, n. 45629 del 17/10/2013, P.G. in proc. Giuffrida, Rv. 257706; Cass.
Sez. 6, n. 7348 del 24/11/2009, dep. 2010, Di Venere, Rv. 246025; Sez. 6, n.
5691 del 06/04/2000, Scorsone, Rv. 217339).
3.1. Il contrario precedente cui ha fatto riferimento il giudice di merito,
in realtà non esprime un difforme principio in quanto, come rilevato dal
ricorrente, avendo avuto ad oggetto un atto non qualificato quale diffida,
sulla base di tanto ha potuto ritenere non sufficiente lo stesso che, mera
richiesta di sollecito, avrebbe necessitato di una autonoma diffida o messa
in mora, in quel caso inesistente.
3.2. Per rinvenire un precedente di segno opposto al pacifico orientamento
cui sopra si è fatto cenno, occorre risalire alla decisione di questa
sezione del 06/10/1998 Rv. 212311, secondo cui, attraverso la disciplina
della legge sul procedimento amministrativo, sia pure per una presunzione
legale, l'atto è da considerare compiuto, in tal modo realizzandosi una
situazione "concettualmente incompatibile con la inerzia della pubblica
amministrazione".
3.3. In realtà è ormai costante l'orientamento opposto
secondo cui l'integrazione della fattispecie penale non interferisce con i
rimedi che l'ordinamento appresta avverso l'inerzia o l'inadempimento della
pubblica amministrazione che seguono canoni ed intenti di tutela distinti,
certamente non esaustivi degli strumenti a disposizione del privato che
potrebbe, in ipotesi, non conseguire un'adeguata tutela sol che si pensi ai
limiti posti all'impugnazione degli atti, alla deducibilità dei soli vizi di
legittimità (escludendosi il merito), osservandosi inoltre che, nonostante
gli sforzi in tal senso operati dalla giurisdizione amministrativa, la
declaratoria di annullamento non sempre soddisfa il raggiungimento degli
obbiettivi che il privato intende perseguire.
3.4. La ratio della norma che prevede l'integrazione
della fattispecie nell'ipotesi di inadempimento o omessa risposta decorsi i
trenta giorni dalla richiesta di chi vi ha interesse, non può fondatamente
essere ulteriormente compressa attraverso una duplicazione defaticante degli
adempimenti necessari per conseguire (quantomeno) una risposta formulata per
iscritto sulle ragioni del ritardo; circostanza che, qualora avallata,
subirebbe poi le ulteriori implicazioni direttamente connesse alla
disciplina amministrativa del procedimento, tanto da determinare
interferenze tra le vicende penali e quelle amministrative; situazione che,
attraverso la previsione del termine di trenta giorni contemporaneamente
previsto dall'art. 2 L. 241/1990 e dal secondo comma dell'art. 328 cod. pen.,
il legislatore ha inteso chiaramente evitare.
4. Si rileva, quindi, che la richiesta scritta di cui
all'art. 328, comma secondo, cod. pen., rilevante ai fini dell'integrazione
della fattispecie, deve assumere la natura e la funzione tipica della
diffida ad adempiere, dovendo la stessa essere rivolta a sollecitare il
compimento dell'atto o l'esposizione delle ragioni che lo impediscono
(Sez. 6, n. 40008 del 27/10/2010, brio, Rv. 248531; Sez. 6, n. 10002 del
08/06/2000, Spanò B, Rv. 218339; Sez. 6, n. 8263 del 17/05/2000, Visco, Rv.
216717).
4.1. Ciò implica che la richiesta rivolta nei confronti
della pubblica amministrazione deve atteggiarsi, seppure senza l'osservanza
di particolari formalità, come una diffida o intimazione tale da costituire
una messa in mora nei confronti della P.A. e del soggetto preposto al
relativo procedimento in quanto responsabile.
4.2. Ne deriva che il reato non è configurabile quando la
richiesta non è qualificabile quale diffida ad adempiere, diretta alla messa
in mora del destinatario e da quest'ultimo in tali termini valutabile, per
il suo tenore letterale e per il suo contenuto.
Seppure, quindi, non siano necessarie frasi che riproducano
pedissequamente la formulazione della legge in termini di «diffida» e
«messa in mora», il contenuto della richiesta deve essere tesa a
rappresentare quantomeno la cogenza delle richiesta e la sua necessità di un
adempimento direttamente ricondotto alla disciplina del procedimento
amministrativo, circa le conseguenze in ipotesi di non evasione o mancata
risposta nei termini.
4.3. Solo a tali condizioni può ritenersi immediatamente e
chiaramente percepibile, quale diffida; atto che già a livello lessicale
implica la necessità di rappresentare le conseguenze cui si incorre in caso
di inadempimento, secondo la conformazione del reato, introdotto dall'art.
16 L. 26.04.1990, n. 86, che ha inteso rafforzare la tutela del cittadino
nei confronti della pubblica amministrazione, con la previsione di un
paradigma legale che, attraverso la attivazione del diritto potestativo
della istanza, conseguisse una più significativa tutela delle posizioni
soggettive, la cui salvaguardia era in precedenza demandata ai soli
strumenti procedimentali o giurisdizionali dinanzi al giudice
amministrativo.
5. Nella sentenza impugnata si afferma che la richiesta del Ch. del
29.10.2013, non costituiva una diffida ad adempiere, ma fosse l'originaria
richiesta inviata da un privato ad un ente pubblico, sulla quale l'ente
avrebbe dovuto provvedere nel termine di cui all'art. 2 L. 241/1990 avverso
la cui inerzia, in caso di decorso infruttuoso del termine di 30 giorni, è
ammesso il ricorso al TAR, non integrando tale inadempimento gli estremi
dell'art. 328, secondo comma, cod. pen., per la cui esistenza il privato
avrebbe dovuto inviare una vera diffida ad adempiere con il decorso di 30
giorni senza che intervenisse l'atto richiesto o fosse stato esposto le
ragioni del ritardo.
In tal modo si contesta la qualifica di diffida dell'atto ricevuto non
perché non ne contenga i requisiti, quanto, piuttosto, poiché si reputa il
primo atto quale meramente amministrativo utile ai soli fini della
proposizione del ricorso in sede giurisdizionale per mezzo dell'impugnazione
del silenzio-inadempimento, demandando al secondo atto, in tal caso
qualificabile diffida, il successivo compito, al decorso degli infruttuosi
30 giorni, di integrare la fattispecie di cui all'art. 328, secondo comma,
cod. pen. in caso di omessa risposta.
Da quanto sopra accennato circa i principi di diritto a cui
questa Corte si riporta, in uno a
quanto emerge dal provvedimento impugnato, se ne deduce la
erronea applicazione della fattispecie dell'art. 328, secondo comma, cod.
pen..
5.1. Il ricorrente aveva presentato in data 29.10.2013 la
diffida ad adempire con cui aveva richiesto all'amministrazione comunale di
Riano di porre in essere quanto necessario al fine di realizzare le opere di
urbanizzazione utili all'immobile dell'istante.
5.2. Tale atto deve qualificarsi quale diffida in quanto
contenente tutti gli elementi per ritenere cogente la richiesta sia perché
si indicano le norme di legge che imponevano all'amministrazione di
provvedere, sia poiché si fa riferimento al termine di trenta giorni entro
il quale si sarebbe dovuta attivare la procedura, con specifica enunciazione
delle conseguenze cui l'amministrazione ed i funzionari preposti sarebbero
andati incontro in caso di inadempimento.
Allo scadere del termine di trenta giorni assegnato,
l'amministrazione avrebbe dovuto quantomeno rispondere specificando le
ragione del ritardo, risposta mai fornita neppure a seguito di impugnazione
del silenzio-inadempimento in tal modo formatosi, con conseguente astratta
integrazione della fattispecie prevista dall'art. 328, secondo comma, cod.
pen., sotto il profilo meramente oggettivo.
6. Da quanto sopra consegue l'annullamento della sentenza
con rinvio al Tribunale di Tivoli, ufficio G.u.p. che, attenendosi ai
principi di diritto sopra enunciati quanto a valenza di diffida dell'atto
del 29.10.2013 e non necessità di ulteriori atti ai fini dell'integrazione
del reato, valuterà se, nei limiti propri del giudizio in sede di udienza
preliminare, sussistano elementi che consentano di imputare l'omissione,
specie sotto il profilo del necessario elemento soggettivo, agli imputati. |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Sindaco dipendente a tempo parziale. Collocamento in
aspettativa ed esercizio attività professionale.
La Sezione di controllo della Corte dei
conti della regione Friuli Venezia Giulia (cfr.
deliberazione n. 21 del 2016) ha evidenziato che il
legislatore regionale ha inteso prevedere in generale una
applicazione della maggiorazione dell'indennità di funzione
a tutti gli amministratori locali, ad eccezione dei casi in
cui i beneficiari dell'indennità dispongano anche di redditi
da lavoro dipendente o siano titolari di trattamento di
quiescenza.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla possibilità,
per un sindaco dipendente a tempo parziale al 50% di una
pubblica amministrazione e libero professionista, di
richiedere il collocamento in aspettativa presso l’ente di
appartenenza, continuando in seguito a svolgere attività
libero professionale (quesito sub 1.).
In caso di risposta affermativa, si è chiesto inoltre di
conoscere se il sindaco libero professionista, che sia stato
collocato in aspettativa come lavoratore dipendente a tempo
parziale, ha diritto alla maggiorazione dell’indennità di
funzione (quesito sub 2.).
Infine, si è posta la questione relativa al diritto alla
predetta maggiorazione nel caso in cui l’interessato non
opti per il collocamento in aspettativa e continui quindi a
lavorare sia come dipendente pubblico a tempo parziale, che
come libero professionista (quesito sub 3.).
In via preliminare, in relazione al collocamento in
aspettativa, è doveroso sottolineare che la questione
attiene a normativa statale, sulla cui applicazione ha
esclusiva competenza ad esprimersi il Ministero
dell’Interno, al quale si suggerisce eventualmente di
rivolgersi, al fine di acquisire l’orientamento dello
stesso. Pertanto, lo scrivente Ufficio ritiene di formulare
le seguenti considerazioni in via meramente collaborativa.
Com’è noto, l’art. 81, comma 1, del d.lgs. 267/2000 dispone
che i sindaci, i presidenti delle province, i presidenti dei
consigli comunali e provinciali, i presidenti dei consigli
circoscrizionali, i presidenti delle comunità montane e
delle unioni di comuni, nonché i membri delle giunte di
comuni e province, che siano lavoratori dipendenti, possono
essere collocati a richiesta in aspettativa non retribuita
per tutto il periodo di espletamento del mandato.
La ratio della citata norma consiste nella tutela
espressamente riconosciuta dal legislatore
all’amministratore locale, finalizzata a rendere concreto il
precetto di cui all’art. 51, terzo comma della Costituzione,
che fa salvo il diritto di chi è chiamato a svolgere
funzioni pubbliche elettive di disporre del tempo necessario
al loro ottimale adempimento, conservando al contempo il
posto di lavoro.
La giurisprudenza civilistica ha affermato che l’aspettativa
in argomento ha lo scopo di rendere compatibile, per i
lavoratori chiamati a funzioni pubbliche, l’espletamento di
tali funzioni con la condizione di prestatore di lavoro
subordinato [1].
A tal proposito si rappresenta che l’art. 86, comma 1, del
d.lgs. 267/2000 dispone che l’amministrazione locale assuma
a proprio carico il versamento degli oneri assistenziali,
previdenziali e assicurativi per i sindaci lavoratori
dipendenti che siano collocati in aspettativa.
Premesso un tanto, si osserva che il vigente ordinamento
consente al lavoratore dipendente a tempo parziale al 50% di
esercitare attività professionale.
Parimenti la disciplina attualmente in vigore riconosce al
lavoratore dipendente/amministratore locale il diritto di
richiedere il collocamento in aspettativa per tutta la
durata del mandato elettivo.
Non si rinviene invece alcuna norma che vieti, in tal caso,
lo svolgimento di attività professionale, né sono stati
reperiti orientamenti giurisprudenziali che abbiano
interpretato in maniera restrittiva la vigente disciplina.
Si segnala al riguardo un parere, pur risalente nel tempo
[2], nel
quale il Ministero dell’Interno ha esaminato la situazione
di un amministratore locale che, oltre ad essere pubblico
dipendente in aspettativa, svolgeva anche attività autonoma,
senza rilevare alcun profilo di criticità in relazione al
contestuale collocamento in aspettativa e al permanere
dell’esercizio dell’attività professionale.
Per quanto concerne infine i quesiti prospettati sub) 2. e
3., relativi alla spettanza della maggiorazione
dell’indennità di funzione nelle diverse fattispecie,
sentito il Servizio finanza locale di questa Direzione
centrale, si espone quanto segue.
Al riguardo si ricorda che il punto 15 della deliberazione
della Giunta regionale 24.06.2011 n. 1193, la quale
determina la misura delle indennità degli amministratori
locali ai sensi –per quanto qui rileva- dell’art. 3, comma
13, della legge regionale 13/2002, stabilisce che “per
gli amministratori, ad eccezione dei lavoratori dipendenti
non collocati in aspettativa, le indennità di funzione
previste ai punti 1, 2, 3, 4, 5, 6, 11 - 1° alinea, 12, 13 e
14 sono aumentate in base” a determinate percentuali
[3].
Si rappresenta, a tal proposito, che la Sezione di controllo
della Corte dei conti della regione Friuli Venezia Giulia,
con deliberazione n. 21 del 2016, ha espressamente
esaminato, alla luce della disciplina vigente, la
problematica riguardante la compatibilità della
maggiorazione dell’indennità di funzione per gli
amministratori locali che dispongano anche di reddito da
lavoro autonomo congiunto a reddito da lavoro dipendente.
I giudici contabili hanno evidenziato che la normativa
vigente in Friuli Venezia Giulia delinea in maniera puntuale
e completa l’ambito di operatività delle maggiorazioni
previste per le indennità di funzione degli amministratori
locali.
In tale contesto si sono richiamate nello specifico le
disposizioni contenute nella deliberazione di Giunta
regionale n. 1193/2011 e nella legge regionale n. 15/2014,
[4] che
definiscono importi e maggiorazioni delle indennità
spettanti agli amministratori degli enti locali della
Regione Friuli Venezia Giulia.
In particolare –osservano i giudici contabili– l’intenzione
del legislatore regionale è stata quella di prevedere in
generale una applicazione della maggiorazione dell’indennità
di funzione a tutti gli amministratori, ad eccezione dei
casi in cui i beneficiari dell’indennità dispongano anche di
redditi da lavoro dipendente [5]
o che siano titolari di trattamento di quiescenza.
In conclusione si è affermata un’interpretazione volta a
limitare la maggiorazione dell’indennità di funzione a tutti
gli amministratori che risultino privi di altre entrate
mensili fisse, consentendo la percezione della sola
indennità base agli amministratori che dispongano anche di
redditi da lavoro dipendente (o da pensione)
[6].
Alla luce delle considerazioni suesposte, si ritiene
pertanto che la maggiorazione dell’indennità in argomento
competa soltanto nella fattispecie prospettata sub 2. di
collocamento in aspettativa senza assegni.
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[1] Cfr. Cass. Civile, sentenza n. 21396 del 05.10.2006.
[2] 25.05.2005.
[3] Tale disciplina continua a trovare applicazione in via
transitoria fino all’adozione della deliberazione di cui
all’art. 41, comma 2, della l.r. 18/2015, come previsto
dall’art. 53, comma 1, della richiamata legge regionale.
[4] L’art. 14, comma 9, della l.r. 15/2014 dispone che “non
si applica agli amministratori locali, dalla data di entrata
in vigore della presente legge, la maggiorazione prevista al
punto 15 della deliberazione della Giunta regionale
1193/2011, qualora risultino titolari di trattamento di
quiescenza”.
[5] Condizione che viene meno nel caso in cui il lavoratore
dipendente abbia esercitato l’opzione per il collocamento in
aspettativa senza assegni.
[6] Per completezza, si osserva che precedentemente alla
pronuncia della Corte dei conti, sez. reg. di controllo per
il FVG, si era delineato un orientamento interpretativo che,
ai fini del diritto o meno alla maggiorazione dell’indennità
per l’amministratore contemporaneamente libero
professionista e lavoratore dipendente, si basava sul
concetto della prevalenza, in termini di redditività e di
impegno, delle due attività svolte (cfr. pareri ANCI del
24.11.2008 e dell’08.01.2009) (10.04.2018 - link
a
www.regione.fvg.it). |
marzo 2018 |
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CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Consiglieri senza gruppo. Chi si autoesclude resta fuori dalle
commissioni.
È corretta la sostituzione, all'interno di una commissione consiliare
consultiva, di una consigliera comunale che ha dichiarato la propria
indipendenza dalla maggioranza che sostiene il sindaco, disposta con atto
del presidente del consiglio comunale?
Nel caso di specie la consigliera comunale, dichiarando la propria
indipendenza dalla maggioranza che sostiene il sindaco, si è sostanzialmente
avvalsa della facoltà, prevista dallo statuto comunale, che consente di «non
appartenere ad alcun gruppo».
Il regolamento comunale, che disciplina la costituzione dei gruppi, non
ripropone la medesima possibilità contenuta nello statuto di autoescludersi
dai gruppi, prevedendo che, nel caso in cui una lista presentata alle
elezioni abbia avuto eletto un solo consigliere, a questi sono riconosciute
le prerogative e la rappresentanza spettanti a un gruppo consiliare.
In base alle norme statutarie e regolamentari dell'ente, i gruppi autonomi,
invece, possono essere costituiti, solo se formati da almeno tre
consiglieri.
Inoltre lo statuto rinvia al regolamento la disciplina del funzionamento e
della composizione delle commissioni consiliari, nel rispetto del criterio
proporzionale, e il regolamento affida a «ciascun gruppo» il compito di
designare i propri rappresentanti nelle singole commissioni permanenti; per
di più stabilisce che i consiglieri possono fare parte di più di una
commissione e prevede che le sostituzioni siano demandate al singolo
capogruppo.
Ciò posto, occorre ricordare che le commissioni consiliari previste
dall'articolo 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000, una volta
istituite sulla base di una facoltativa previsione statutaria, sono
disciplinate dal regolamento comunale con l'unico limite, posto dal
legislatore, del rispetto del criterio proporzionale nella composizione.
Ciò significa che le forze politiche presenti in consiglio debbano essere il
più possibile rispecchiate anche nelle commissioni, in modo che in ciascuna
di esse sia riprodotto il loro peso numerico e di voto. Quanto al rispetto
del criterio proporzionale previsto dal citato articolo 38, comma 6, il
legislatore non precisa come lo stesso debba essere declinato in concreto.
Il regolamento, a cui sono demandate la determinazione dei poteri delle
commissioni, nonché la disciplina dell'organizzazione e delle forme di
pubblicità dei lavori, dovrebbe stabilire anche i meccanismi idonei a
garantirne il rispetto.
L'indirizzo giurisprudenziale prevalente in materia (con l'eccezione della
sentenza contraria del Tar Puglia Lecce n. 516/2013) stabilisce che il
criterio proporzionale può dirsi rispettato solo ove sia assicurata, in ogni
commissione, la presenza di ciascun gruppo, anche se formato da un solo
consigliere, presente in consiglio (si veda Tar Lombardia Brescia 04.07.1992
n. 796; Tar Lombardia, Milano, 03.05.1996, n. 567).
Tale principio, peraltro, è stato ribadito dal consiglio di stato il quale
con parere n. 4323/2009 del 14.04.2010, ha osservato che «come da
consolidata giurisprudenza dalla quale la sezione non intende discostarsi,
il criterio di proporzionalità di rappresentanza della minoranza non può
prescindere dalla presenza in ciascuna commissione permanente di almeno un
rappresentante di ciascun gruppo consiliare. In tal caso il criterio di
proporzionalità si può esplicare attraverso il voto ponderato (v. anche Tar
Lombardia sez. II, 19.11.1996, n. 1661) o plurimo assegnato a ciascun
componente della commissione in ragione corrispondente a quello della forza
politica rappresentata nel consiglio comunale, vale a dire corrispondente al
numero di voti di cui dispone il gruppo di appartenenza in seno al
consiglio, diviso per il numero dei rappresentanti della stessa lista nella
commissione interessata».
Premesso che teoricamente la consigliera, qualora facente parte di un gruppo
unipersonale, avrebbe avuto diritto a partecipare a tutte le commissioni,
dal complesso della giurisprudenza citata, nonché dalle disposizioni
regolamentari dell'ente interessato, si evince che una volta ammessa la
costituzione dei gruppi, questi vanno a riflettere la loro composizione
all'interno delle commissioni consiliari in proporzione al loro peso
complessivo.
Tuttavia, fermi restando dubbi di legittimità in ordine alla facoltà
concessa dallo statuto comunale di escludersi da ogni gruppo, il concreto
esercizio del diritto di autoesclusione da parte del consigliere comunale
impedisce allo stesso, ai sensi del regolamento, di essere designato
all'interno delle commissioni; ciò in quanto il diritto di designare
rappresentanti all'interno delle commissioni, riservato esclusivamente ai
capigruppo, può essere esercitato solo nei confronti dei consiglieri facenti
parte di un gruppo.
L'interessata, pertanto, proprio perché collocatasi all'esterno della
struttura dei gruppi, non potrebbe rivendicare alcuna lesione dei propri
diritti, non avendo assunto la titolarità di alcun gruppo.
Ciò, peraltro, è confermato dalle già richiamate norme che consentono la
costituzione dei gruppi unipersonali solo nel caso in cui una lista
presentata alle elezioni abbia avuto eletto un solo consigliere, e la
costituzione di nuovi gruppi solo se formati da almeno tre consiglieri,
condizioni che, dunque, non si verificano nei riguardi della fattispecie
esaminata (articolo
ItaliaOggi del 30.03.2018). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ L’urgenza va motivata. Per giustificare le
delibere subito eseguibili. Si
tratta comunque di una scelta discrezionale
dell’amministrazione.
Per le deliberazioni del consiglio e
della giunta che, in caso di urgenza, vengono dichiarate
immediatamente eseguibili con il voto espresso dalla
maggioranza dei componenti, ai sensi dell'art. 134, comma 4,
del decreto legislativo n. 267/2000, è necessaria una
specifica motivazione giustificativa della formula di
«immediata eseguibilità»?
In linea
generale, la dichiarazione di immediata eseguibilità, come
disciplinata dal citato art. 134, comma 4, del decreto
legislativo n. 267/2000, risponde all'esigenza di porre in
essere le deliberazioni urgenti; quindi, limitatamente a
tali casi, deve scaturire da apposita separata votazione che
approvi tale dichiarazione con il voto favorevole della
maggioranza dei componenti del collegio, non essendo
sufficiente il voto della maggioranza semplice dei votanti o
dei presenti.
La decisione di attribuire a una deliberazione la
connotazione dell'immediata eseguibilità assume, infatti,
autonoma valenza rispetto all'approvazione del provvedimento
cui si riferisce, restandone logicamente distinta.
In merito, il Tar Liguria, sez. II, con decisione n. 2/2007,
ha affermato che in virtù dell'art. 134, comma 4, del
decreto legislativo n. 267/2000, la necessità che la
dichiarazione di immediata eseguibilità (per motivi di
urgenza) di una delibera di consiglio o di giunta, sia
oggetto di un'autonoma votazione, fa sì che tale
dichiarazione, pur accedendo alla delibera, non si
identifichi con essa. Lo stesso Tribunale ha puntualizzato
che il legislatore non ha ritenuto la clausola di immediata
eseguibilità quale attributo necessario di ogni delibera, ma
ha inteso farla dipendere da una scelta discrezionale
(basata sul requisito dell'urgenza) dell'amministrazione
procedente.
Circa la fattispecie in esame, devono ritenersi, pertanto,
condivisibili le osservazioni formulate dal Tar Piemonte
che, nella sentenza n. 460 del 2014, in materia di
indefettibilità di adeguata motivazione giustificativa della
dichiarazione di immediata eseguibilità, ha ritenuto che «la
clausola di immediata eseguibilità dipende da una scelta
discrezionale dell'amministrazione, comunque pur sempre
correlata al requisito dell'urgenza, che deve ricevere
adeguata motivazione nell'ambito dello stesso atto» (articolo
ItaliaOggi del 23.03.2018). |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Nei
piccoli Comuni tre strade per la gestione delle funzioni fondamentali.
Se mancano le professionalità interne, i piccoli Comuni hanno ancora la
facoltà di scegliere tra la forma associata delle funzioni, il conferimento
delle competenze gestionali a uno dei membri della giunta ovvero
l'affidamento al segretario comunale. La scelta deve, comunque, avere a
riferimento due «stelle polari»: il criterio della competenza professionale
del nominato e il contenimento della spesa.
Lo asserisce la sezione
regionale di controllo per il Lazio della Corte dei conti con il
parere 16.03.2018 n. 5.
I quesiti
Un Comune di 551 abitanti formula alla sezione tre quesiti specifici:
1) se nei piccoli Comuni le funzioni relative al servizio finanziario
possano essere affidate a un assessore o al sindaco;
2) se alcuni adempimenti contabili rilevanti possano essere illegittimi se
effettuati dal capo dell'amministrazione in assoluta carenza di
professionalità interne;
3) se il segretario comunale, su specifico incarico del sindaco, possa
assumere le funzioni gestionali in modo permanente, supplendo alle carenze
di dotazione organica.
Amministratori vs gestione associata
In relazione al quesito 1), la sezione ricorda che nei Comuni con
popolazione inferiore a cinquemila abitanti, la responsabilità degli uffici
e dei servizi e il potere di adottare atti gestionali possono essere
affidati, in deroga al generale principio di separazione di competenze tra
organi politici e dirigenti, a un assessore o allo stesso sindaco, essendo
ancora in vigore l'articolo 53, comma 23, della legge 388/2000 che lo
consente, a condizione che l'ente abbia adottato apposite disposizioni
regolamentari organizzative. Strada che può essere, dunque, percorsa anche a
prescindere dalla carenza di professionalità interne, in quanto la norma non
subordina la possibilità a questa condizione, che invece è richiesta per il
conferimento di incarichi a soggetti esterni. Regola che, quindi, può essere
applicata anche nel caso di gestione delle funzioni relative al servizio
finanziario.
Ricorda però la sezione –quasi a voler proporre un consiglio– che prima di
arrivare a «sacrificare» il principio di distinzione delle funzioni di
indirizzo da quelle gestionali è possibile percorrere la via della gestione
associata, obbligatoria per quelle fondamentali ai sensi dell'articolo 14
del Dl 78/2010.
Siccome l’obbligo è ancora condizionato dalla
individuazione degli ambiti ottimali, i magistrati rimettono al singolo ente
la scelta tra le due alternative «del pari giuridicamente legittime», ossia
lo strumento associativo e il conferimento delle funzioni a uno dei membri
della giunta, cercando comunque la soluzione che consenta di contenere
maggiormente la spesa del personale e tenendo conto delle necessarie
competenze richieste dall'elevato grado di tecnicità del servizio.
Il ruolo del segretario
La sezione non fornisce risposta al quesito n. 2), viziato da genericità,
mentre si esprime sul n. 3), che coinvolge la figura del segretario comunale
il quale, ai sensi dell'articolo 97, comma 4, lettera d), del Tuel può
esercitare ogni altra funzione attribuitagli dallo statuto o dai regolamenti
o conferitagli dal sindaco.
Tra queste rientra la possibilità di essere nominato responsabile degli
uffici e dei servizi, evidenza che i giudici traggono dall'articolo 109,
comma 2, che fa salva l'applicazione della lettera d) per l'attribuzione di
questi incarichi nei Comuni privi di personale di qualifica dirigenziale; e
dall'articolo 49 che, avendo abolito il parere di legittimità del
segretario, valorizza il parere preventivo di regolarità dei singoli
responsabili dei servizi, anch'esso affidato al segretario in via residuale
nel caso l'ente non ne abbia.
Certo, avvertono i giudici, questa funzione
del segretario deve essere esercitata «in relazione alle sue competenze»
che, tuttavia, ritengono ampie alla luce dell'articolo 97, comma 4, del Tuel,
richiamato espressamente dall'articolo 53, comma 23, della legge 388/2000,
che non distingue tra funzioni assegnate in via provvisoria o permanente.
Il
combinato disposto consente alla sezione di negare la sussistenza di ragioni
ostative all'attribuzione al segretario di funzioni gestionali protratte,
anche se ritiene «auspicabile una periodica revisione di tale incarico
aggiuntivo, sia sotto il profilo dell'efficiente organizzazione interna
degli uffici, anche in rapporto alla consistenza dimensionale dell'Ente, sia
soprattutto in modo teso a vagliarne ciclicamente in concreto la proficuità
sotto il profilo economico finanziario»
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 30.03.2018).
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MASSIMA
Nei Comuni con popolazione inferiore a 5mila
abitanti, in ragione delle ridotte dimensioni demografiche dell'Ente, resta
oggi ancora rimessa alla scelta discrezionale dei medesimi la scelta:
1) tra forma associata di esercizio delle funzioni fondamentali,
tra cui certo rientra il servizio finanziario e di contabilità seguendo lo
schema normativo della convenzione/unione di comuni (non essendo ancora
operativa la obbligatorietà dello strumento associativo, nelle more della
concreta attuazione dell’art. 14, comma 28, del D.L. n. 78/2010, convertito
dalla L. n. 122/2010 e s.m.i.)
2) o il conferimento ex art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000, di
esse, ad uno dei membri della Giunta (Assessori o Sindaco), in deroga al
generale principio di separazione di competenze tra organi politici ed
organi amministrativi, con un regolamento motivato che ridisegni l’assetto
organizzativo interno dell’Ente e senza che sia neppure necessario
dimostrare l’assoluta carenza, all’interno dell’Ente, di professionalità
adeguate, nonché fatta salva la verifica annuale del contenimento della
spesa in sede di approvazione del bilancio
3) o l’affidamento delle medesime ex art. 97, comma 4, lett. d) del
Tuel al Segretario comunale che, nei comuni privi di personale di qualifica
dirigenziale, può essere nominato responsabile degli uffici e dei servizi
(art. 109, comma 2, T.U.E.L), mediante previsioni statutarie, regolamentari
o tramite un provvedimento del Sindaco.
Tra questa rosa di possibilità andrà prescelta, da un canto quella
che consente di contenere maggiormente la spesa del personale e,
dall’altro, tenendo conto delle necessarie competenze richieste
dall’elevato grado di tecnicità del servizio finanziario e di contabilità,
la cui carenza potrebbe comportare potenziali ricadute in termini di
responsabilità amministrativo-contabile.
Scelta da sottoporre a revisione periodica, sia sotto il profilo
dell’efficiente organizzazione interna degli uffici, anche in rapporto alla
consistenza dimensionale dell’Ente, sia onde vagliarne ciclicamente in
concreto la proficuità economico-finanziaria, anche alla luce del criterio
della competenza professionale del nominato per individuare il punto di
equilibrio più funzionale alla soddisfazione delle necessità correlate alla
peculiare struttura organizzativa interna dell’Ente.
---------------
... il Sindaco pro tempore del Comune di Salisano-RI (551 abitanti,
secondo rilevazione Istat all’01/01/2017) formula richiesta di parere,
ai sensi dell’art. 7, comma 8, della L. n. 131 del 2003, con riferimento
all’art. 53, comma 23, del D.Lgs. 23.12.2000, n. 388, sui seguenti
quesiti:
1. se nei Comuni aventi popolazione inferiore a 5mila abitanti
le funzioni relative al servizio finanziario e contabile possano essere
affidate ad un Assessore membro della Giunta o al Sindaco pro-tempore, con
regolamento motivato, da cui si evincano le esigenze straordinarie di
contenimento della spesa pubblica e, in particolare della spesa del
personale, “anche in considerazione dell’attivazione della procedura
obbligatoria del trasferimento di funzioni fondamentali di cui all’art. 14
del D.L. n. 78/2010, convertito nella legge n. 122/2010 e successive
modifiche ed integrazioni” e se ciò sia “compatibile con le esigenze
connesse alle sopravvenute recenti disposizioni in materia di ordinamento
finanziario e contabile degli Enti locali, in attuazione dei principi di
armonizzazione contabile introdotti dal D.Lgs. 118/2009 se ed in quanto
presupponenti una «specifica» professionalità al riguardo”;
2. “se taluni rilevanti adempimenti contabili aventi
carattere ricorrente per l’Ente possano essere inficiati di non conformità
alle disposizioni vigenti in quanto effettuati dal capo dell’amministrazione
in assoluta carenza di professionalità all’interno dell’Ente”;
3. “Se il Segretario Comunale, su specifico incarico del
sindaco, possa assumere dette funzioni gestionali in modo permanente,
supplendo ad ordinarie carenze di dotazione organica, carenze sia pure per
motivate ragioni di contenimento della spesa pubblica”.
...
In relazione al primo quesito, si osserva che, nei
Comuni, quali Salisano,
aventi popolazione inferiore a cinquemila abitanti, la
responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti,
anche di natura tecnica gestionale, ben possono essere affidati, in deroga
al generale principio di separazione di competenze tra organi politici
(Giunta) ed organi amministrativi (Dirigenti), ad un Assessore o al Sindaco
pro-tempore, purché ciò avvenga con un regolamento motivato dell’Ente che
ridisegni l’assetto organizzativo interno dell’Ente, al fine di operare un
contenimento della spesa, contenimento che deve essere verificato e
documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione
del bilancio. In tal senso si è
pronunziata anche la giurisprudenza amministrativa, oltre a diverse sezioni
di questa Corte (TAR Toscana Firenze Sez. III, 07.01.2014, n. 3, Sez.
regionale controllo per il Molise, delib. n. 167/2016/PAR).
E ciò senza che sia neppure necessario dimostrare la
assoluta carenza, all’interno dell’Ente, di professionalità adeguate, in
quanto la norma non subordina tale possibilità a siffatta condizione, che
invece è richiesta per il conferimento di incarichi ad esterni.
A favore di ciò depone, con chiarezza il disposto dell’art. 53, comma 23,
della L. n. 388/2000, che recita: “Gli enti locali con popolazione
inferiore a cinquemila abitanti, fatta salva l'ipotesi di cui all'articolo
97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli
enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al
fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni
regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto
all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e
successive modificazioni, e all'articolo 107 del predetto testo unico delle
leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti
dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il
potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento
della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione,
in sede di approvazione del bilancio”.
E tra tali uffici e servizi sono ricomprese, certamente,
anche le funzioni relative al servizio finanziario e contabile, attribuibili
ai componenti dell'organo esecutivo (Assessore e Sindaco pro-tempore)
mediante disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in
deroga a quanto disposto all'art. 3, commi 2, 3 e 4, del D.Lgs. 03.02.1993,
n. 29 e successive modificazioni, e all'articolo 107 del testo unico delle
leggi sull'ordinamento degli enti locali (TUEL).
Orbene, è vero che dal combinato disposto degli artt. 50 e 107 del D.Lgs. n.
267 del 2000 e dell’art. 4 del D.Lgs. 30/03/2001, n. 165 (recante “Norme
generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni
pubbliche”) si evince in modo inequivoco che, nel vigente ordinamento, è
in auge, anche a livello locale, la netta distinzione fra atti di indirizzo
politico-amministrativo (spettanti agli organi politici) ed atti di gestione
(spettanti agli organi burocratici).
In altri termini, il TUEL ha devoluto, rispettivamente, agli organi politici
(Consiglio Comunale, Giunta Comunale e Sindaco) la competenza ad emanare gli
atti di indirizzo e, ai dirigenti amministrativi comunali, la competenza ad
adottare atti di gestione.
L’art. 107, comma 4, in particolare, pone una riserva di legge a garanzia
della indipendenza -sotto il profilo gestionale- dei dirigenti, dotati anche
di autonomo potere di spesa, rispetto agli organi politici, laddove prevede
che “4. Le attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di
cui all'articolo 1, comma 4, possono essere derogate soltanto espressamente
e ad opera di specifiche disposizioni legislative”.
Tuttavia l’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000 (finanziaria 2001) è
proprio una specifica disposizione derogatoria, pacificamente compatibile
col sistema normativo vigente (in tal senso anche Consiglio di Stato sent.
n. 5296/2015, che ha ritenuto inammissibile la questione di costituzionalità
sulla disposizione). La deroga è ammessa in ragione delle
ridotte dimensioni demografiche dell'Ente locale, ma va interpretata
restrittivamente e non è estensibile oltre i casi e i modi espressamente
regolati (Corte dei conti, sez.
reg. controllo Lombardia, delib. n. 513/2012/PAR del 10.12.2012).
A latere della possibilità di attribuire a componenti della Giunta lo
svolgimento di funzioni gestionali amministrative, l’ordinamento disciplina,
al contempo, la possibilità -ed in taluni casi l’obbligo- di svolgere in
forma associata, le medesime funzioni fondamentali: articoli 30 e 32 del
Tuel e art. 14, comma 28, del D.L. n. 78/2010, convertito dalla L. n.
122/2010 e successive modifiche ed integrazioni.
Tramite il TUEL, sin dal 2000 sono state introdotte, come facoltative, forme
associative, quali la stipula di apposite convenzioni onerose tra Enti
locali, “al fine di svolgere in modo coordinato funzioni e servizi
determinati” (art. 30) o l'Unione di Comuni, con la creazione di un Ente
locale ex novo, costituito -di norma- da due o più Comuni contermini
e “finalizzato all'esercizio associato di funzioni e servizi” (art.
32).
L’art. 14 del D.L. n. 78/2010, convertito dalla L. n. 122/2010 e successive
modifiche ed integrazioni, ha prescritto che i Comuni con popolazione fino a
5000 abitanti “esercitano obbligatoriamente in forma associata, mediante
unione di Comuni o convenzione, le funzioni fondamentali di cui al comma 27”,
tra le quali rientra, certamente, la gestione finanziaria e contabile.
Senza entrare in questa sede sulla portata della regolamentazione in ordine
alle dimensioni territoriali ottimali, (come previsto dall’art. 14, comma
30, del D.L. n. 78/2010), permane un indiscusso favor
legislativo per la forma associata di esercizio delle funzioni, ancorché
intesa come rimessa alla mera facoltà di scelta discrezionale dell’Ente
locale (Sez. Aut. Audizione alla
Camera dei deputati del 01.12.2015).
Nell’attesa della concreta operatività della disposizione tesa a rendere ciò
obbligatorio in risposta al primo quesito, si osserva che
al Comune è demandata oggi la scelta tra due alternative del pari
giuridicamente legittime, ossia tra lo strumento associativo
(convenzione/unione di comuni) o il conferimento delle funzioni del servizio
finanziario e di contabilità ad uno dei membri della Giunta (Assessori o
Sindaco).
L’Ente sarà tenuto ad operarla discrezionalmente ma
seguendo, da un canto, la soluzione che consente di contenere
maggiormente la spesa del personale e, dall’altro, tenendo conto
delle necessarie competenze richieste dall’elevato grado di tecnicità del
servizio finanziario e di contabilità, la cui carenza potrebbe comportare
potenziali ricadute in termini di responsabilità amministrativo-contabile.
Il secondo quesito pare, invero, viziato da genericità, nella parte
in cui si riferisce a “taluni rilevanti adempimenti contabili aventi
carattere ricorrente”, senza specificarli ed è ritenuto dal Collegio
inammissibile, anche per carenza di indicazione del riferimento normativo da
interpretare in sede consultiva, ancor prima della specificazione del dubbio
ermeneutico che la Sezione di controllo è chiamata a dirimere in questa
sede.
Quanto al terzo quesito si richiama, in funzione di mero ausilio
dell’Ente, l’articolo 97, comma 4, lett. d) del Testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli Enti locali, approvato con D.Lgs. 18.08.2000, n. 267
che stabilisce che il Segretario comunale “d) esercita ogni altra
funzione attribuitagli dallo statuto o dai regolamenti, o conferitagli dal
sindaco”.
Tra le quali rientra, come esplicitamente contemplato all’art. 109, comma 2,
del T.U.E.L., la possibilità di essere nominato responsabile degli uffici e
dei servizi, in quanto tale comma recita: “2. Nei comuni privi di
personale di qualifica dirigenziale le funzioni di cui all'articolo 107,
commi 2 e 3, fatta salva l'applicazione dell'articolo 97, comma 4, lettera
d), possono essere attribuite, a seguito di provvedimento motivato del
sindaco, ai responsabili degli uffici o dei servizi, indipendentemente dalla
loro qualifica funzionale, anche in deroga a ogni diversa disposizione”.
Applicazione che potrà avvenire mediante previsioni statutarie,
regolamentari o tramite un provvedimento del Sindaco (Tar Piemonte, sent. n.
4094/2006).
Occorre anche considerare che, visto il disposto dell’art. 49 del Tuel, che
ha abolito il parere di legittimità del Segretario, risulta valorizzato
-ancor più nel testo complessivamente modificato a decorrere
dall’11.10.2012- il parere preventivo di regolarità, obbligatorio ma non
vincolante, dei singoli Responsabili dei servizi (tra cui anche quello di
contabilità, chiamato a rendere un parere di regolarità -non tecnica ma
contabile- su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta e al
Consiglio).
La disposizione, in via residuale, individua nel Segretario comunale il
soggetto titolato ad esprimere il parere “nel caso in cui l’ente non
abbia i responsabili dei servizi”, con la limitazione individuata “in
relazione alle sue competenze” (cit. art. 49, comma 2), che tuttavia
possono ritenersi in senso ampio ex art. 97, comma 4, TUEL.
La vigenza di tale disposizione è espressamente fatta salva dall’art. 53,
comma 23, della L. n. 388/2000, invero, senza distinguere tra funzioni
assegnate in via provvisoria o permanente, per cui, pur non sembrando in
astratto sussistere ragioni ostative all’attribuzione al medesimo di
funzioni gestionali contabili protratte (attribuzione tanto più giustificata
ove il nominato sia in possesso di specifica professionalità contabile),
pare comunque auspicabile una periodica revisione di tale incarico
aggiuntivo, sia sotto il profilo dell’efficiente organizzazione interna
degli uffici, anche in rapporto alla consistenza dimensionale dell’Ente, sia
soprattutto in modo teso a vagliarne ciclicamente in concreto la proficuità
sotto il profilo economico-finanziario.
In conclusione, quale che sia la soluzione, tra quelle
astrattamente possibili, scelta dell’Ente, essa dovrà avere come stelle
polari, da un canto, il criterio della competenza professionale del
nominato e, dall’altro, il criterio del contenimento della spesa, con
l’esigenza di individuare, nella applicazione congiunta dei due criteri, il
punto di equilibrio più funzionale alla soddisfazione delle necessità
correlate alla peculiare struttura organizzativa interna dell’Ente. |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Accesso digitale agli atti.
Documenti richiedibili in formato elettronico. Se la documentazione è
voluminosa, le copie online sono preferibili.
Può essere esercitato, da parte dei consiglieri
comunali, il diritto di accesso agli atti dell'ente locale, richiedendo che
l'ostensione della documentazione amministrativa sia effettuata su supporto
digitale, o eventualmente indicando il relativo link a cui accedere nella
sezione «Amministrazione trasparente», in luogo del rilascio delle copie
cartacee?
Il diritto di accesso dei consiglieri comunali deve essere esercitato in
modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali,
attraverso modalità che ragionevolmente sono fissate nel regolamento
dell'ente (art. 43 del Testo unico enti locali, dlgs n. 267/2000).
Inoltre non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche ovvero
meramente emulative, fermo restando tuttavia che la sussistenza di tali
condizioni deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto
al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al
diritto stesso (Consiglio di stato, sez. V, n. 6963/2010).
Al fine di evitare che le continue richieste di accesso si traducessero in
un aggravio dell'ordinaria attività amministrativa dell'ente locale, la
Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi ha riconosciuto la
possibilità, per il consigliere comunale, di avere accesso diretto al
sistema informatico interno, anche contabile, del comune attraverso l'uso
della password di servizio (si veda parere del 29/11/2009).
Anche il Tribunale amministrativo regionale della Sardegna, con la sentenza
n. 29/2007, ha ritenuto che «la notevole mole della documentazione da
consegnare può, nel caso, giustificare la distribuzione nel tempo del
rilascio delle copie richieste».
Il Consiglio di stato ha, inoltre, affermato che, «qualora si tratti di
esibire documentazione complessa e voluminosa, appare, altresì, legittimo il
rilascio di supporti informatici al consigliere, o la trasmissione mediante
posta elettronica, in luogo delle copie cartacee» (si veda Consiglio di
stato, sentenza n. 6742/07 del 28/12/2007).
Tale modalità è, peraltro, conforme alla vigente normativa in materia di
digitalizzazione della pubblica amministrazione (decreto legislativo n. 82
del 07.03.2005) che, all'art. 2, prevede che anche «le autonomie locali
assicurano la disponibilità, la gestione, l'accesso, la trasmissione, la
conservazione e la fruibilità dell'informazione in modalità digitale e si
organizzano ed agiscono a tale fine utilizzando con le modalità più
appropriate le tecnologie dell'informazione e della comunicazione» (articolo
ItaliaOggi del 16.03.2018). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/
Consiglieri senza fascia.
In
occasione di cerimonie ed eventi civili e religiosi, i consiglieri comunali
possono indossare una fascia tricolore quale titolo del ruolo politico e
amministrativo ricoperto?
Il decreto legislativo n. 267/2000 all'art. 50, comma 12, dispone
espressamente che «distintivo del sindaco è la fascia tricolore con lo
stemma della Repubblica e lo stemma del comune, da portarsi a tracolla». La
stessa disposizione prevede, altresì, che «distintivo del presidente della
provincia è una fascia di colore azzurro con lo stemma della repubblica e lo
stemma della provincia da portare a tracolla».
La legge, pertanto, non prevede nulla, per quanto riguarda i simboli da
indossare, nei riguardi degli altri amministratori degli enti locali.
Il sistema delle autonomie ha, peraltro, un limite connaturato alla stessa
essenza dell'autonomia che è quello di dare luogo ad ordinamenti liberi di
autodeterminarsi entro la cornice ben definita di un ordinamento generale
che, originario e sovrano, determina i caratteri peculiari ed il modo di
tutti i soggetti che in esso si trovano a coesistere e ad operare (cfr.
circolare Ministero dell'interno 04.11.1998 n. 5/98 – fascia tricolore –
pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 270/1998).
La finalità della
previsione di un distintivo è quella di rendere immediatamente individuabili
i titolari di determinate cariche pubbliche attraverso la prescrizione di
una medesima tipologia formale per ciascuna categoria di ente. In assenza di
specifiche previsioni normative, quindi, l'istituzione di un distintivo
anche per i consiglieri comunali non può essere contemplata.
Alla luce della legge costituzionale n. 3 del 18.10.2001, sussiste,
tuttavia, ampia possibilità per le autonomie locali di disciplinare, con
normativa regolamentare, l'utilizzo dei propri segni distintivi, anche a
scopo di rappresentanza, senza così ricorrere all'impiego di un simbolo,
quale la fascia tricolore, attinente nello specifico al capo
dell'amministrazione e allo svolgimento delle proprie funzioni in conformità
alle indicazioni di legge (articolo
ItaliaOggi del 09.03.2018). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Sindaci negli uffici tecnici. Possono
presiedere la commissione edilizia. Nei piccoli
comuni è ammessa la deroga alla separazione dei poteri.
Un ente locale con popolazione inferiore ai 5 mila abitanti può affidare al
sindaco la presidenza della commissione edilizia comunale, e nominare il
responsabile dell'ufficio tecnico quale componente della stessa, avvalendosi
della facoltà di derogare al principio della separazione di poteri e previa
modifica del regolamento edilizio?
L'art. 33 della legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150, secondo cui la
costituzione della Commissione edilizia costituiva parte del contenuto
obbligatorio del regolamento edilizio comunale, è stato abrogato dall'art.
136 del dpr 06.06.2001, n. 380 e successive modificazioni, che ha,
peraltro, dettato una nuova disciplina dei regolamenti; l'art. 4, comma 2,
del citato dpr ha, inoltre, reso facoltativa l'istituzione della commissione
edilizia, confermandone il ruolo di organo consultivo.
La facoltatività dell'istituzione della commissione edilizia è coerente con
l'art. 41 della legge 27.12.1997, n. 449 che, imponendo all'organo di
direzione politica di individuare ogni organo collegiale con funzioni
amministrative ritenuto indispensabile per la realizzazione dei fini
istituzionali dell'amministrazione, prevede la relativa soppressione di
quelli non identificati come indispensabili.
La Commissione speciale del Consiglio di stato, con parere n. 492/99 in data
21.05.2003, diramato con la circolare ministeriale n. 1/2005, ha
precisato che «la presenza di organi politici nella Commissione edilizia,
deputata a pronunciarsi su richieste di autorizzazioni e concessioni, non è
più consentita dall'assetto normativo attuale» e che «qualora tale presenza
sia espressamente prevista da regolamenti comunali, gli enti locali dovranno
provvedere alle necessarie modifiche» (in conformità alla previsione del
comma 4, dell'art. 4 del dlgs n. 165/2001).
Sebbene in tale enunciato si esponga un principio generale applicabile in
materia, va parimenti osservato che l'art. 53, comma 23, della legge n.
388/2000, come modificato dall'art. 29, comma 4 della legge 448/2001, ha
previsto una deroga all'applicazione del principio di netta separazione
delle funzioni di indirizzo politico-amministrativo da quelle di gestione,
sul quale è basato il richiamato orientamento del Consiglio di Stato.
Tale norma, infatti, dispone che «gli enti locali con popolazione inferiore
a cinquemila abitanti, fatta salva l'ipotesi di cui all'art. 97, comma 4,
lettera d), del Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali,
anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare
disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a
quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3, 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni e all'art. 107 del citato
testo unico, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la
responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti
anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere
documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione
del bilancio».
In tal senso, il richiamato art. 107 prevede, al comma 4, che «le
attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui
all'articolo 1, comma 4, possono essere derogate soltanto espressamente e ad
opera di specifiche disposizioni legislative» ed è indubbio che la citata
norma della legge finanziaria 2001 ha esplicitamente inteso introdurre una
deroga alle attribuzioni degli organi burocratici.
Nella specie, il Consiglio di stato in sede giurisdizionale (sezione Terza)
con sentenza n. 3490 del 26/06/2013 ha ritenuto che «il sindaco potesse
legittimamente presiedere la Commissione edilizia integrata, in virtù della
specifica previsione in tal senso posta nel regolamento edilizio comunale e
che trova il supporto normativo anche nel citato articolo 53, comma 23,
della legge 388/2000, indirizzato proprio ai comuni con popolazione
inferiore a 5 mila abitanti, e nella stessa legge costituzionale n. 3/2001,
recante la riforma del titolo V della Costituzione, che attribuisce potestà
regolamentare ai comuni circa la disciplina della organizzazione e delle
funzioni proprie».
Del resto, lo stesso Consiglio di stato, con la medesima sentenza,
richiamando la decisione della IV sezione n. 1070/2009, che si è pronunciata
su analoga questione, ha ritenuto che «è proprio la complessità della
normativa, in materia urbanistica ed edilizia nonché in quella di impianti
radioelettrici, a consentire a quei comuni, nell'ambito dell'autonomia
statutaria e regolamentare loro attribuita, l'adozione di disposizioni che
deroghino ai principi generali della separazione di cui al Tuel (dlgs n.
267/2000)».
Nel caso di specie, pertanto, trattandosi di un comune con popolazione
inferiore a 5 mila abitanti, è applicabile la richiamata disciplina
derogatoria qualora l'ente in questione abbia preventivamente adottato
disposizioni regolamentari che affidano espressamente ad un componente della
giunta (nella specie, il sindaco) la responsabilità dell'ufficio tecnico
preposto alla gestione del settore edilizio (articolo
ItaliaOggi del 02.03.2018 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
febbraio 2018 |
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CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Informative in consiglio. Ammesse le
comunicazioni del presidente. Il loro
contenuto, e quello delle repliche dei
consiglieri, va verbalizzato.
È legittima la norma regolamentare che, in
materia di funzionamento del consiglio
comunale, affida al presidente del consiglio
comunale (sindaco) la facoltà di eventuali
comunicazioni proprie o della giunta
sull'attività del comune e su fatti e
avvenimenti di particolare interesse per la
comunità, lasciando ai singoli gruppi solo
il diritto di replica, senza possibilità,
per i consiglieri, di introdurre questioni
nuove? Tale disposizione, consentendo al
sindaco di allargare l'ordine del giorno
senza verificare la presenza e
l'accettazione dell'unanimità degli altri
componenti del consiglio, potrebbe
presentare profili di illegittimità?
L'art. 38 del decreto legislativo n.
267/2000, al comma 2, stabilisce che il
funzionamento dei consigli è disciplinato
dal regolamento, nel quadro dei principi
stabiliti dallo statuto; il regolamento, in
particolare, secondo la citata disposizione,
deve prevedere le modalità per la
presentazione e la discussione delle
proposte.
L'art. 39 del citato decreto legislativo
assegna al presidente del consiglio, tra gli
altri, i poteri di convocazione e direzione
dei lavori e delle attività del consiglio e,
al comma 4, dispone l'obbligo di assicurare
una adeguata e preventiva informazione ai
gruppi consiliari e ai singoli consiglieri
sulle questioni sottoposte al consiglio.
u tali questioni, soggette alla
deliberazione del consiglio, i consiglieri,
ai sensi dell'art. 43 del citato Tuel, hanno
diritto di iniziativa; gli stessi hanno,
altresì, diritto di presentare
interrogazioni e mozioni. Nel caso di
specie, la norma regolamentare affida al
presidente la facoltà di informare il
consiglio, in apertura di seduta, in merito
a questioni che interessano l'operato del
sindaco o della giunta o a questioni di
particolare interesse per la comunità non
iscritte all'ordine del giorno a cui,
dunque, non dovrebbe seguire alcuna
deliberazione.
Ferma restando la riconosciuta potestà, in
capo al presidente, di dirigere i lavori e
le attività del consiglio, la norma
contenuta nel regolamento non appare
limitativa del diritto dei singoli
consiglieri a partecipare alle decisioni
nelle materie di stretta competenza del
consiglio medesimo, ai sensi dell'art. 42
del richiamato decreto legislativo n.
267/2000, che si concretizzano nell'ordine
del giorno formalizzato.
Il contenuto delle comunicazioni del
presidente e le repliche affidate ai
rappresentanti dei gruppi devono, comunque,
essere riprodotti nel verbale di seduta, di
libero accesso ai singoli consiglieri, ivi
compresi gli assenti alla seduta.
Dalla lettura di tali verbali, qualora
emergano aspetti ritenuti di interesse, i
singoli consiglieri, possono sempre
utilizzare gli strumenti offerti
dall'ordinamento, stimolando una eventuale
deliberazione (in presenza dei relativi
presupposti di competenza), con la richiesta
di inserimento della questione in un
successivo ordine del giorno, secondo le
normali procedure regolamentari, oppure
presentare mozioni o interrogazioni (articolo
ItaliaOggi del 16.02.2018). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Versamento degli oneri previdenziali a favore degli
amministratori locali.
L'art. 86, comma 1, del TUEL accolla
all'ente locale l'onere di effettuare, ai rispettivi
istituti, il versamento degli oneri assistenziali,
previdenziali e assicurativi a favore degli amministratori
locali, ivi indicati, lavoratori dipendenti (pubblici o
privati) collocati in aspettativa per lo svolgimento del
mandato, sulla base della retribuzione virtuale che
spetterebbe loro se fossero effettivamente in servizio.
Pertanto, di tale retribuzione non dovrebbe logicamente far
parte il trattamento correlato ad un incarico di posizione
organizzativa, nel periodo successivo alla scadenza dello
stesso.
Il Comune [1]
ha chiesto un parere in ordine ad una problematica
concernente il versamento degli oneri
previdenziali/contributivi relativi ad un assessore,
dipendente di altro Comune della Regione Friuli Venezia
Giulia, collocato in aspettativa non retribuita per
l’espletamento del mandato politico, ai sensi dell’art. 81
del d.lgs. 267/2000.
In particolare, considerato che presso l’Ente di
appartenenza l’interessato risultava titolare di un incarico
di posizione organizzativa in scadenza al 31.12.2017, si è
posta la questione sul riconoscimento, o meno, della
retribuzione dovuta per il suddetto incarico nell’imponibile
previdenziale, anche a decorrere dal 01.01.2018.
Com’è noto, l’art. 86, comma 1, del TUEL accolla all’ente
locale l’onere di effettuare, ai rispettivi istituti, il
versamento degli oneri assistenziali, previdenziali e
assicurativi a favore degli amministratori locali lavoratori
dipendenti (pubblici o privati), collocati in aspettativa
per lo svolgimento del mandato [2].
Si osserva a tal proposito che l’INPDAP, a suo tempo, ha
ritenuto utile rammentare che “la quantificazione degli
oneri contributivi [3]
deve essere effettuata sulla retribuzione virtuale
corrispondente a quella che il dipendente avrebbe percepito
se fosse stato in servizio attivo” [4].
Secondo quanto prospettato, a partire dal 01.01.2018
l’amministratore/dipendente non è più titolare dell’incarico
di posizione organizzativa che, in virtù di specifiche
previsioni contrattuali [5],
gli avrebbe in precedenza dato diritto, qualora non
collocato a richiesta in aspettativa, alla corresponsione
del relativo trattamento economico (retribuzione di
posizione).
Fermo che la soluzione delle questioni relative al
versamento degli oneri in argomento spetta all’Istituto
previdenziale competente, si esprimono, in via meramente
collaborativa, le seguenti considerazioni.
Atteso che, come sopra precisato, la determinazione degli
oneri da versare dovrebbe essere effettuata sulla base della
retribuzione che spetterebbe al dipendente se fosse
effettivamente in servizio (retribuzione virtuale), si
osserva che di tale retribuzione non dovrebbe logicamente
far parte il trattamento correlato all’incarico scaduto il
31.12.2017: se il dipendente fosse in servizio attivo, non
avrebbe infatti diritto al trattamento economico relativo ad
un incarico di cui non risulta più titolare.
---------------
[1] Si tratta di Comune con popolazione superiore a
10.000 abitanti.
[2] La giurisprudenza contabile (cfr. Corte dei conti, sez.
reg. di controllo per la Lombardia, deliberazione n.
274/2014) ha evidenziato come la ratio del collocamento in
aspettativa consista nel concedere all’amministratore la
possibilità di dedicarsi a tempo pieno allo svolgimento del
mandato istituzionale, garantendogli al contempo il
mantenimento dei propri diritti di lavoratore.
[3] Ai fini che ci interessano.
[4] Cfr. Nota operativa 18.07.2008, n. 6.
[5] Cfr. art. 41, comma 6, e art. 44 del CCRL del 07.12.2006
(13.02.2018 - link a
www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ La risposta è trasparente.
Accessibile il riscontro alla Corte dei
conti. Errato il diniego opposto dal comune
alla richiesta del consigliere.
È legittimo, ai sensi dell'art. 43 del
decreto legislativo n. 267/2000, in materia
di diritto di accesso da parte dei
consiglieri comunali, il diniego espresso da
un Comune nei confronti di un consigliere
che ha chiesto all'Ente di potere acquisire
«il riscontro fornito dal Comune ad una nota
della Corte dei conti»?
Nel caso di specie, a seguito del diniego
all'accesso, l'interessato ha diffidato il
responsabile del Settore ai sensi dell'art.
328, comma II, del codice penale. Il Comune,
che avrebbe parzialmente riscontrato la
richiesta della Corte dei conti, ha, per
converso, precisato che trattasi di «chiarimenti
e valutazioni sulle criticità emerse
dall'esame delle relazioni ai rendiconti
relativi ad annualità pregresse, redatte
dall'Organo di revisione contabile».
In merito, il Plenum della Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi, del
16.03.2010, ha affermato che il «diritto di
accesso» e il «diritto di informazione» dei
consiglieri comunali nei confronti della
p.a. trovano la loro disciplina nell'art. 43
del decreto legislativo n. 267/2000 che
riconosce a questi il diritto di ottenere
dagli uffici comunali, nonché dalle loro
aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie
e le informazioni in loro possesso, utili
all'espletamento del proprio mandato.
La maggiore ampiezza di legittimazione
all'accesso rispetto al cittadino (art. 10
del decreto legislativo n. 267/2000) è
riconosciuta in ragione del particolare munus espletato dal consigliere comunale. Lo
stesso, infatti, deve essere posto nelle
condizioni di valutare, con piena cognizione
di causa, la correttezza e l'efficacia
dell'operato dell'Amministrazione, al fine
di poter esprimere un giudizio consapevole
sulle questioni di competenza della p.a.,
opportunamente considerando il ruolo di
garanzia democratica e la funzione
pubblicistica esercitata.
Pertanto, il consigliere comunale non deve
motivare la propria richiesta di
informazioni, poiché, diversamente opinando,
la p.a. si ergerebbe ad arbitro delle forme
di esercizio delle potestà pubblicistiche
dell'organo deputato all'individuazione e al
perseguimento dei fini collettivi.
Conseguentemente, gli Uffici comunali non
hanno il potere di sindacare il nesso
intercorrente tra l'oggetto delle richieste
di informazioni avanzate da un consigliere
comunale e le modalità di esercizio del
munus da questi espletato.
Nella fattispecie, i funzionari comunali che
hanno negato l'accesso hanno rilevato che le
richieste della Corte dei conti sono state
effettuate ai sensi dell'art. 1, commi 166 e
segg., della legge 23/12/2005, n. 266 e
dell'art. 148-bis del dlgs 18/08/2000, n. 267
e che dunque, «il rilascio della nota di
riscontro richiesta potrebbe essere di
pregiudizio per l'Ente e per l'attività
della stessa Corte».
Invero, le citate disposizioni non
disciplinano i procedimenti di natura
giudiziale (rispetto ai quali la Commissione
per l'accesso ai documenti amministrativi,
con talune pronunce –v. plenum del
25/01/2005– ha optato per il rinvio
dell'accesso alla conclusione delle
controversie), ma affidano, invece, alla
Corte dei conti il controllo sui bilanci e
sui rendiconti degli enti locali, al fine
della verifica del rispetto del patto di
stabilità interno, dell'osservanza dei
vincoli in materia di indebitamento e di
ogni grave irregolarità contabile e
finanziaria.
La conoscenza di tali atti non violerebbe,
dunque, alcun segreto istruttorio, fermo
restando, in tale ipotetico caso,
l'assoggettamento del consigliere al vincolo
della riservatezza.
Peraltro, in fattispecie analoga alla
presente, il Consiglio di stato, sez. IV con
decisione 4829/2011 del 29/08/2011 ha
confermato l'accessibilità, da parte del
consigliere, al documento richiesto «sul
fondamento della precisa quanto generale
previsione di rango legislativo recata
dall'art. 43 decreto legislativo n. 267 del
2000». Il Consiglio di stato ha, altresì,
specificato che «in assenza di precisi dati
in senso contrario non può che prevalere,
pertanto, il principio della libera
accessibilità da parte del consigliere
comunale, regola generale alla quale non
risultano essere state apportate deroghe
neppure in subiecta materia».
Talché, come affermato sempre dalla
Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi (plenum del 03.10.2013), «ai sensi dell'art. 5 del decreto
legislativo n. 33 del 14/03/2013, chiunque -e dunque anche i consiglieri comunali- ha
diritto di ottenere l'accesso ai dati
relativi ai controlli sull'organizzazione e
sull'attività dell'amministrazione che la
p.a. ha l'obbligo di pubblicare».
Pertanto, alla luce del quadro sopra
delineato, e ferma restando l'opportunità,
per l'Ente, di dotarsi di apposito
regolamento per la disciplina di dettaglio
dell'esercizio di tale diritto, non appare
che possa negarsi l'accesso agli atti
richiesti
(articolo ItaliaOggi del
09.02.2018). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Gruppi unipersonali ok. Se statuto
e regolamento non li vietano. La materia è
affidata all'autonomia delle amministrazioni
locali.
È ammissibile la costituzione di un gruppo
unipersonale, da parte di un consigliere
fuoruscito da altro gruppo preesistente, nel
caso in cui l'ente non abbia disciplinato la
fattispecie con specifiche norme
regolamentari?
L'esistenza dei gruppi consiliari non è
espressamente prevista dalla legge, ma si
desume implicitamente da quelle disposizioni
normative che contemplano diritti e
prerogative in capo ai gruppi o ai
capigruppo (art. 38, comma 3, art. 39, comma
4 e art. 125 del decreto legislativo n.
267/2000).
Nella fattispecie in esame lo statuto del
comune si limita a stabilire che i
consiglieri eletti nella medesima lista
formano un gruppo consiliare, specificando,
altresì, che anche nel caso in cui nella
lista sia eletto un solo consigliere, questi
costituisce un gruppo autonomo.
Il regolamento sul funzionamento del
consiglio comunale ribadisce il contenuto
dello statuto in materia di costituzione dei
gruppi, ma non disciplina l'eventuale
formazione di nuovi gruppi scaturenti da
movimenti successivi.
Tuttavia, le disposizioni regolamentari
prevedono che il Consiglio comunale prenda
atto, nella prima seduta utile, «della
costituzione, designazione e ogni successiva
variazione dei gruppi consiliari»,
ammettendo, così, implicitamente, la
possibilità di modifiche nei gruppi come
discendenti dall'esito delle elezioni, senza
però declinarne le modalità.
Posto che la materia deve, comunque, essere
regolata da apposite norme statutarie e
regolamentari, adottate dai singoli enti
locali nell'ambito dell'autonomia
organizzativa dei consigli riconosciuta dal
citato art. 38 del Tuel, la soluzione alle
relative problematiche dovrebbe essere
trovata dallo stesso consiglio, anche
valutando l'opportunità di adottare apposite
modifiche regolamentari.
Nel caso specifico, comunque, non
sussistendo una esplicita disposizione
statutaria o regolamentare che impedisca la
formazione di nuovi gruppi, appare corretta
la posizione dell'amministrazione locale che
la ritiene invece possibile a seguito
dell'esercizio dell'attività di
interpretazione delle proprie norme
nell'ambito dell'autonomia che le viene
riconosciuta dall'ordinamento
(articolo ItaliaOggi del 02.02.2018). |
gennaio 2018 |
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CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Gestione associata. Sindaco/dipendente. Oneri assenza per
mandato.
Nel caso in cui un dipendente di un ente
locale sia sindaco di altro ente locale, e risulti assegnato
alla gestione associata in essere fra le due
amministrazioni, l'onere retributivo relativo all'assenza
dal servizio per l'espletamento del mandato, che costituisce
spesa di personale, è soggetto alla ripartizione
proporzionale, tra gli enti interessati, in base ai criteri
definiti nella convenzione stipulata.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla problematica
di seguito riassunta.
Preliminarmente si precisa che, nell’ambito di una gestione
associata di servizi tra i comuni A e B, le spese del
personale assegnato vengono ripartite tra gli enti
interessati in base al criterio proporzionale stabilito
nella convenzione. Il Sindaco del comune A è dipendente del
comune B e risulta assegnato alla gestione associata.
Pertanto, si è posto il dubbio se il costo corrispondente
alle ore di assenza dal servizio dell’amministratore, per
motivi connessi al mandato, debba rimanere in carico
esclusivamente al comune B e quindi scorporato dalle spese
di personale che fanno carico alla gestione associata, o
vada comunque ripartito tra i due enti.
Sentito il Servizio finanza locale, si espongono le seguenti
osservazioni.
La norma di riferimento è rappresentata dall’art. 80, comma
1, del d.lgs. 267/2000, che dispone che le assenze dal
servizio di cui ai commi 1, 2 3 e 4, dell’articolo 79 del
medesimo decreto [1]
sono retribuite al lavoratore dal datore di lavoro. Gli
oneri per i permessi retribuiti dei lavoratori dipendenti da
privati o da enti pubblici economici sono invece a carico
dell’ente presso il quale gli stessi lavoratori esercitano
le funzioni pubbliche di cui all’articolo 79 citato.
Il lavoratore che si assenti dal lavoro per partecipare alle
attività istituzionali in forza di incarichi
politico-elettivi ha diritto comunque ad essere retribuito.
L’onere relativo, anticipato dal datore di lavoro, è poi
rimborsato dall’ente locale solo ove si tratti di lavoratori
dipendenti da privati o da enti pubblici economici.
Si è rilevato [2]
come la ratio della disposizione in esame sia quella
di porre a carico delle finanze pubbliche i costi derivanti
dall’esercizio dei diritti politici costituzionalmente
tutelati, senza che gli stessi gravino sugli enti di diritto
privato e sugli enti pubblici economici (che agiscono in
regime di diritto privato). La finalità della norma è
infatti quella di evitare che l’esercizio di funzioni
pubbliche elettive presso gli enti locali vada a gravare sui
datori di lavoro “privati”, anziché a carico delle
risorse pubbliche e segnatamente del bilancio dell’ente che
beneficia di tali funzioni, in ossequio al generale
principio del divieto di indebito arricchimento.
Premesso quanto sopra, si osserva che, in relazione alla
fattispecie, quale quella in esame, in cui il datore di
lavoro è un ente locale, i giudici contabili, nello
specifico, hanno rimarcato il particolare rilievo che assume
la problematica dell’imputazione soggettiva degli oneri per
i permessi retribuiti in argomento, non essendo ininfluente
che essi “rimangano a carico, quali spese di personale
assoggettate a contenimento, del bilancio dell’ente datore
di lavoro [3]
ovvero vengano addossate, quali spese per il funzionamento
degli organi politici, all’ente [4]
presso il quale il dipendente è chiamato a svolgere funzioni
politiche”.
Preme sottolineare che la magistratura contabile
[5], pur
rilevando l’opportunità di considerare la norma in esame
alla luce di un’interpretazione evolutiva
[6], in ragione
del reciproco grado di autonomia finanziaria riconosciuto
agli enti pubblici istituzionali dall’ordinamento, ha
tuttavia concluso che l’attuale quadro normativo –il dato
testuale dell’art. 80 del TUEL– osta in concreto alla
riconoscibilità di un diritto al rimborso –relativo agli
oneri sostenuti per i permessi retribuiti in esame– in
favore del comune il cui dipendente svolga una delle
attività previste dai commi 1-4 dell’articolo 79 del TUEL
presso altro ente locale.
Pertanto, nel caso di specie, trattandosi di due enti
locali, rileva il fatto che gli oneri derivanti dai permessi
retribuiti del lavoratore/sindaco non sono a carico
dell’ente presso cui è svolto il mandato elettivo ma, quali
spese di personale, restano a carico del datore di lavoro,
che provvede a retribuire le relative assenze.
Considerato poi che il dipendente in questione risulta
assegnato alla gestione associata, l’onere retributivo, che
costituisce spesa di personale, è soggetto alla ripartizione
proporzionale, tra i Comuni interessati, in base ai criteri
definiti nella convenzione in essere.
---------------
[1] Permessi concessi agli amministratori locali,
lavoratori pubblici e privati, per partecipare alle sedute
degli organi e per esercitare il loro mandato.
[2] Cfr. Corte dei conti, sez. reg. di controllo per la
Campania, n. 198/2014/PAR e sez. reg. di controllo per la
Lombardia, n. 297/2016/PAR.
[3] Qualora si tratti di dipendente di un ente pubblico.
[4] Comunque ente pubblico, nel caso si tratti di dipendente
di privati o enti pubblici economici.
[5] Cfr. Corte dei conti, sez. reg. di controllo per la
Lombardia, n. 297/2016/PAR e sez. reg. di controllo per il
Lazio, n. 182/2013/PAR.
[6] Interpretazione che sarebbe volta a garantirne la
compatibilità con l’attuale sistema policentrico di finanza
pubblica (31.01.2018 - link a
www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Incompatibilità di un consigliere comunale per lite pendente.
1) Affinché possa
ravvisarsi la causa di incompatibilità di cui all’art. 63,
co. 2, n. 4, TUEL per lite pendente, l’amministratore locale
deve essere parte, in senso processuale, in un procedimento
civile o amministrativo con il comune, con la conseguenza
che l’intervenuta rinuncia alla lite, non oggetto di
opposizione da parte del comune, fa venir meno la
sussistenza dell’indicata causa di incompatibilità.
2) Affinché possa ravvisarsi la causa di incompatibilità di cui
all’art. 63, co. 2, n. 6, TUEL l’amministratore locale deve
avere un debito liquido ed esigibile verso il comune e da
questi deve essere stato messo legalmente in mora per la
medesima fattispecie debitoria.
Il Comune chiede un parere in materia di incompatibilità
degli amministratori locali per lite pendente. Più in
particolare, desidera sapere se possa essere contestata la
sussistenza dell’indicata causa di incompatibilità ad un
consigliere comunale in relazione ad una articolata vicenda
che lo vede coinvolto nei confronti dell’amministrazione
comunale.
Di seguito, si riportano alcuni elementi della fattispecie
in essere, descritti nel quesito, che pare possano fornire
indicazioni utili ai fini della disamina della questione
posta.
La vicenda trae origine dall’emissione, nei confronti
dell’attuale consigliere comunale [1],
di una ordinanza sindacale di rimozione di rifiuti e
ripristino dello stato dei luoghi per deposito incontrollato
di rifiuti, da questi impugnata nelle competenti sedi
giurisdizionali. A seguito di rinuncia al ricorso, alla
quale il Comune non ha fatto opposizione, il giudice ha
dichiarato estinto il giudizio.
L’Ente, attesa la sussistenza di “spese rinvenienti dai
giudizi ed alle quali è stato fornito solo parziale ristoro”
ha provveduto a mettere in mora il soggetto in riferimento
per la somma ancora da rifondere all’Ente.
Successivamente alla chiusura del procedimento giudiziario,
all’ordinanza del sindaco non risulta essere stata data
attuazione nonostante i diversi solleciti ed istanze in tal
senso promossi dall’Ente, gli ultimi dei quali contenenti
l’avviso che il Comune avrebbe proceduto alle opere di
rimozione e di ripristino dello stato dei luoghi, in danno
del soggetto obbligato, in conformità alle disposizioni di
legge vigenti in materia.
Nelle more dell’indizione della gara volta
all’individuazione della ditta cui affidare i predetti
lavori si sono tenute le elezioni amministrative comunali,
all’esito delle quali il soggetto in riferimento ha assunto
la qualità di consigliere comunale.
Tutto ciò premesso si osserva quanto segue.
L’articolo 63, comma 1, num. 4) del decreto legislativo
18.08.2000, n. 267 stabilisce che non può ricoprire la
carica di consigliere comunale colui che ha lite pendente,
in quanto parte di un procedimento civile od amministrativo
con il comune.
La giurisprudenza [2]
ha chiarito che “la ratio dell'incompatibilità risiede
nell'esigenza che il consigliere dell'ente territoriale
eserciti sempre le funzioni pubbliche in modo trasparente ed
imparziale, senza prestare il fianco al sospetto che la sua
condotta possa essere, in qualche modo, orientata
dall'intento di tutelare il suo interesse contrapposto a
quello dell'ente che è stato chiamato ad amministrare”.
Nello stesso senso, il Ministero dell’Interno, ha rilevato
che: “In siffatte ipotesi, l'incompatibilità trova
fondamento e giustificazione nel pericolo che il conflitto
di interessi determinativo della lite medesima possa
orientare le scelte dell'eletto in pregiudizio dell'ente
amministrato, o comunque possa ingenerare, all'esterno,
sospetti al riguardo; donde risponde ad una scelta del
legislatore di sacrificio del diritto alla carica a fronte
di detta eventualità.” [3].
L’articolo 63, comma 1, num. 4), TUEL esplicita il concetto
di “lite pendente” che consiste nell’essere “parte
in un procedimento civile o amministrativo con la regione,
la provincia o il comune”, con la conseguenza che per
potersi ravvisare l'incompatibilità di che trattasi occorre
che i soggetti in conflitto di interessi siano divenuti
parti contrapposte in un procedimento, e cioè abbiano
assunto la qualità di parti in senso processuale
[4].
Con riferimento alla questione in esame, la lite insorta tra
le parti (che indubbiamente rientra nella nozione di lite
fatta propria dal legislatore) è stata oggetto di rinuncia
[5] e il
giudizio è stato dichiarato estinto dal giudice, ai sensi
dell’articolo 35, comma 2, lett. c) del decreto legislativo
02.07.2010, n. 104 [6],
tra l’altro, prima ancora che il soggetto in questione
assumesse la carica di amministratore locale.
Segue che nessuna lite può dirsi pendente tra
l’amministrazione comunale e il consigliere, con conseguente
insussistenza della causa di incompatibilità di cui
all’articolo 63, comma 1, num. 4), TUEL.
Per completezza espositiva si segnala, altresì, la norma di
cui all’articolo 63, comma 1, num. 6, del D.Lgs. 267/2000 ai
sensi della quale non può ricoprire la carica di consigliere
comunale colui che, avendo un debito liquido ed esigibile
verso il comune è stato legalmente messo in mora.
Come rilevato anche dal Ministero dell’Interno, la liquidità
esprime “la certezza del debito e del suo ammontare”,
l’esigibilità “che lo stesso debito non sia soggetto a
termini o condizioni e, quindi, la disponibilità immediata
del denaro” [7].
Circa, invece, la definizione di “legale messa in mora”
si rileva che l’articolo 1219 del c.c. stabilisce che: “Il
debitore è costituito in mora mediante intimazione o
richiesta fatta per iscritto” [8].
Con riferimento alla fattispecie in essere, se la
sussistenza del debito relativamente ai lavori che dovessero
essere eseguiti dalla ditta assegnataria degli stessi verrà
ad esistenza solo all’esito del loro compimento, nel momento
in cui il Comune si rivarrà sul soggetto obbligato mediante
messa in mora, a diverse conclusioni potrebbe addivenirsi
circa le somme di cui il consigliere risulti eventualmente
debitore nei confronti del Comune per “spese rinvenienti
dai giudizi”.
A tale ultimo riguardo il consiglio comunale
[9],
qualora ricorrano tutti i requisiti richiesti dall’articolo
63, comma 2, num. 6) TUEL per l’insorgenza della causa di
incompatibilità e consistenti nella certezza, liquidità del
debito e nell’avvenuta legale messa in mora del debitore
relativamente alle somme dovute, dovrà procedere alla
relativa contestazione, ai sensi dell’articolo 69 TUEL.
---------------
[1] Si precisa che al tempo dell’instaurazione del
procedimento amministrativo a suo carico il soggetto in
riferimento non rivestiva alcuna carica politica all’interno
del comune.
[2] Corte di Cassazione, sez. I, sentenza del 04.05.2002, n.
6426.
[3] Ministero dell’Interno, parere del 09.10.2009.
[4] In questo senso si veda Ministero dell’Interno, parere
del 24.04.2015.
[5] L’articolo 84 del D.Lgs. 104/2010 al comma 1 recita: “La
parte può rinunciare al ricorso in ogni stato e grado della
controversia, mediante dichiarazione sottoscritta da essa
stessa o dall’avvocato munito di mandato speciale e
depositata presso la segreteria, o mediante dichiarazione
resa in udienza e documentata nel relativo verbale”. Il
successivo comma 3 prevede, poi, che: “La rinuncia deve
essere notificata alle altre parti almeno dieci giorni prima
dell’udienza. Se le parti che hanno interesse alla
prosecuzione non si oppongono, il processo si estingue”.
[6] L’articolo 35, comma 2, lett. c), del D.Lgs. 104/2010
recita: “Il giudice dichiara estinto il giudizio: omissis;
c) per rinuncia”.
[7] Ministero dell’Interno, parere del 16.03.2007.
[8] Il secondo comma dell’articolo 1219 c.c. stabilisce,
poi, che: “Non è necessaria la costituzione in mora: 1)
quando il debito deriva da fatto illecito; 2) quando il
debitore ha dichiarato per iscritto di non volere eseguire
l’obbligazione; 3) quando è scaduto il termine, se la
prestazione deve essere eseguita al domicilio del creditore.
[…]”.
[9] Si ricorda, al riguardo, che la valutazione della
sussistenza delle cause di ineleggibilità o di
incompatibilità dei componenti di un organo elettivo
amministrativo è attribuita dalla legge all’organo medesimo.
È, infatti, principio di carattere generale del nostro
ordinamento che gli organi elettivi debbano esaminare i
titoli di ammissione dei propri componenti. Così come, in
sede di esame della condizione degli eletti (art. 41 del
D.Lgs. 267/2000), è attribuito al consiglio comunale il
potere-dovere di controllare se nei confronti dei propri
membri esistano condizioni ostative all’esercizio delle
funzioni, qualora venga successivamente attivato il
procedimento di contestazione di una causa di
incompatibilità, a norma dell’art. 69 del D.Lgs. 267/2000,
spetta al consiglio, al fine di valutare la sussistenza di
detta causa, esaminare le osservazioni difensive formulate
dall’amministratore e, di conseguenza, adottare gli atti che
siano ritenuti necessari (26.01.2018 - link a
www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Prefetti in campo.
In quali casi viene attivato il potere
sostitutivo del prefetto previsto dall'art.
39, comma 5, del decreto legislativo n.
267/2000?
Nel caso di specie, alcuni consiglieri
comunali di minoranza hanno depositato
presso il comune una mozione ed una
interrogazione contestualmente alla istanza
di convocazione, ai sensi dell'art. 39,
comma 2, del Tuel e, a causa del mancato
riscontro della richiesta nei termini
indicati dalla legge, hanno chiesto
l'attivazione del potere sostitutivo del
prefetto ex art. 39, comma 5, del citato
Tuel.
Il regolamento sul funzionamento del
consiglio comunale prevede che le
interrogazioni e le mozioni presentate al
protocollo dell'ente devono essere iscritte
all'ordine del giorno in occasione della
convocazione della prima adunanza del
consiglio successiva alla loro
presentazione. Inoltre, la medesima fonte
normativa stabilisce che la convocazione
richiesta ex art. 39, comma 2, «deve
contenere in allegato, per ciascun argomento
indicato da iscrivere all'ordine del giorno,
il relativo schema di deliberazione».
Il
sindaco, in base al combinato disposto delle
citate norme regolamentari, sostiene che la
richiesta di convocazione formulata da un
quinto dei consiglieri non possa avere ad
oggetto atti di sindacato ispettivo, dovendo
ciascuna richiesta essere, indefettibilmente,
corredata dal relativo «schema di
deliberazione». Ciò stante, l'orientamento
che vede riconosciuto e definito «il potere
dei consiglieri di chiedere la convocazione
del consiglio medesimo» come «diritto» dal
legislatore è ormai ampiamente consolidato
(sentenza Tar Puglia, Lecce, sez. 1 del 04.02.2004, n. 124).
Peraltro, il diritto
ex art. 39, comma 2, «è tutelato in modo
specifico dalla legge con la previsione
severa ed eccezionale della modificazione
dell'ordine delle competenze mediante
intervento sostitutorio del prefetto in caso
di mancata convocazione del consiglio
comunale in un termine emblematicamente
breve di venti giorni» (Tar Puglia, sez. 1,
25.07.2001, n. 4278). Circa la questione
della sindacabilità dei motivi che
determinano i consiglieri a chiedere la
convocazione straordinaria dell'assemblea,
secondo l'indirizzo prevalente, al
presidente del consiglio spetta solo la
verifica formale della richiesta e il
prescritto numero di consiglieri, non
potendo comunque sindacarne l'oggetto.
La giurisprudenza in materia si è, infatti,
da tempo espressa affermando che, in caso di
richiesta di convocazione del consiglio da
parte di un quinto dei consiglieri, «al
presidente del consiglio comunale spetta
soltanto la verifica formale che la
richiesta provenga dal prescritto numero di
soggetti legittimati, mentre non può
sindacarne l'oggetto, poiché spetta allo
stesso consiglio nella sua totalità la
verifica circa la legalità della
convocazione e l'ammissibilità delle
questioni da trattare, salvo che non si
tratti di oggetto che, in quanto illecito,
impossibile o per legge manifestamente
estraneo alle competenze dell'assemblea in
nessun caso potrebbe essere posto all'ordine
del giorno» (Tar Piemonte, n. 268/1996, Tar
Sardegna, n. 718 del 2003).
Il Tar Sardegna,
con la citata sentenza n. 718 del 2003, ha
respinto un ricorso avverso un provvedimento
prefettizio ex art. 39, comma 5, del citato
decreto legislativo in quanto, ad avviso del
giudice amministrativo, il prefetto non
poteva esimersi dal convocare d'autorità il
consiglio comunale, «essendosi verificata
l'ipotesi di cui all'art. 39 del Tuel n.
267/2000».
Inoltre, si è sostenuto che
appartiene ai poteri sovrani dell'assemblea
decidere in via pregiudiziale che un dato
argomento inserito nell'ordine del giorno
non debba essere discusso (questione
pregiudiziale) ovvero se ne debba rinviare
la discussione (questione sospensiva).
Nondimeno, l'art. 43 del Tuel demanda alla
potestà statutaria e regolamentare dei
comuni e delle province la disciplina delle
modalità di presentazione delle
interrogazioni, delle mozioni e di ogni
altra istanza di sindacato ispettivo
proposta dai consiglieri, nonché delle
relative risposte, che devono comunque
essere fornite entro trenta giorni.
Al riguardo, qualora l'intenzione dei
proponenti non fosse diretta a provocare una
delibera in merito del consiglio comunale,
bensì a porre in essere un atto di sindacato
ispettivo, si potrebbe ipotizzare, ai sensi
dell'art. 42, comma 1, del decreto
legislativo n. 267/00, che rientri nella
competenza del consiglio comunale in qualità
di «organo di indirizzo e di controllo
politico-amministrativo» anche la
trattazione di «questioni» che, pur
non rientrando nell'elencazione del comma 2
del medesimo art. 42, attengono comunque al
suddetto ambito di controllo.
Del resto, la dizione legislativa che parla
di «questioni» e non di deliberazioni
o di atti fondamentali, conforta nel
ritenere che la trattazione di argomenti non
rientranti nella previsione del citato comma
2, dell'art. 42, non debba necessariamente
essere subordinata alla successiva adozione
di provvedimenti da parte del consiglio
comunale. Sulla base di tali argomentazioni,
pertanto, il prefetto è tenuto alla
applicazione della normativa prevista
dall'art. 39, comma 5, del decreto
legislativo n. 267/2000, invitando il
sindaco a voler provvedere alla convocazione
del richiesto consiglio comunale
(articolo ItaliaOggi del
26.01.2018). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sussistenza
di una situazione di incompatibilità, ai sensi dell’articolo
12, co. 4, del d.lgs. 39/2013 tra l’incarico di responsabile
di area in un ente locale, ex articolo 109, co. 2, d.lgs.
267/2000 e quello di assessore in un comune con popolazione
superiore ai 15.000 abitanti (delibera
24.01.2018 n. 68 - link a
www.anticorruzione.it).
---------------
Il Consiglio dell’Autorità nazionale anticorruzione ...
DELIBERA
• nel caso esaminato sussiste una situazione di incompatibilità, ai
sensi dell’art. 12, comma 4, lett. b), del D.lgs. n.
39/2013, tra l’incarico di responsabile di area nel Comune
di Camposampiero (Padova) e la nomina di assessore nel
Comune di Castelfranco Veneto (Treviso);
• il RPCT del Comune di Camposampiero (Padova), preso atto della
rilevata situazione di incompatibilità, diffida, senza
indugio, l’interessato ad optare tra i due incarichi
incompatibili entro i 15 giorni successivi alla sua
comunicazione;
• ove l’opzione non sia effettuata entro il termine perentorio di
quindici giorni, ai sensi dell’art. 19 del d.lgs. n.
39/2013, il RPCT dichiara la decadenza dall’incarico di
responsabile di area e la risoluzione del relativo
contratto;
• di dare comunicazione della presente al RPCT ed al sindaco del
Comune di Castelfranco Veneto (Treviso), nonché al RPCT ed
al sindaco del Comune di Camposampiero (Padova), con
richiesta di dare comunicazione a questa Autorità degli
esiti del procedimento. |
CONSIGLIERI COMUNALI: Composizione
delle Commissioni consiliari permanenti. Impossibilità
insediamento.
Sintesi/Massima
Commissioni consiliari permanenti.
E’ stato chiesto un parere in merito alla impossibilità di
insediamento delle commissioni consiliari a causa della
mancata designazione dei rappresentanti di uno dei due
gruppi di minoranza presenti in consiglio.
Al riguardo, si fa presente che le commissioni consiliari
non sono organi necessari dell’ente locale, bensì organi
strumentali dei consigli ed, in quanto tali, costituiscono
componenti interne dell’organo assembleare, prive di una
competenza autonoma e distinta da quella ad esso attribuita.
A fronte della oggettiva impossibilità di insediare
validamente le commissioni a causa della indisponibilità
manifestata da alcuni consiglieri di minoranza, la
situazione di fatto verificatasi è tale da giustificare, in
ragione del principio della continuità amministrativa, il
riespandersi della competenza piena del consiglio comunale.
Testo
E’ stato prospettato un quesito in materia di commissioni
consiliari permanenti.
A seguito delle elezioni amministrative dello scorso giugno,
il consiglio comunale risulta composto da un gruppo di
maggioranza formato da 11 consiglieri, da un gruppo di
minoranza di 4 consiglieri e da un secondo gruppo di
minoranza a cui appartiene un solo consigliere.
Ai sensi del regolamento del funzionamento del consiglio del
Comune in oggetto sono previste tre commissioni consiliari
permanenti a cui sono assegnate funzioni consultive. Il
Consiglio ha fissato il numero complessivo dei componenti
delle tre commissioni permanenti e indicato il numero di
rappresentanti da designarsi da parte di ciascun gruppo
presente in consiglio.
Tuttavia il gruppo di minoranza composto da 4 consiglieri
non ha provveduto a nominare i propri rappresentanti in seno
alle citate commissioni adducendo presunte illegittimità
nell’iter amministrativo seguito dal comune.
Nella seduta di insediamento delle commissioni si è
proceduto alla nomina dei rispettivi Presidenti e Vice
Presidenti ma gli organi in parola non hanno ancora iniziato
a svolgere le attività di competenza loro assegnate dalle
fonti di autonomia locale.
Attesa la mancata designazione dei rappresentanti di uno dei
due gruppi di minoranza presenti in consiglio, si chiede un
parere in merito all’operatività delle Commissioni
consiliari permanenti.
Al riguardo si osserva, in via preliminare, che in base a
quanto disposto dall’articolo 38, comma 6, del decreto
legislativo n. 267/2000, le commissioni consiliari, una
volta istituite sulla base di una facoltativa previsione
statutaria, sono disciplinate dall’apposito regolamento
comunale con l’inderogabile limite, posto dal legislatore,
riguardante il rispetto del criterio proporzionale nella
composizione. Le forze politiche presenti in consiglio
devono, pertanto, essere il più possibile rappresentate
anche nelle commissioni.
Ai sensi dell’art. 22, comma 2, lett. c), del regolamento
sul funzionamento del consiglio del comune in oggetto è
previsto che “ogni gruppo, in linea di principio,
partecipa alla composizione delle commissioni in proporzione
alla sua rappresentanza consiliare. Deve essere comunque
garantita la presenza di tutti i gruppi in ciascuna
commissione….”.
In base al principio consolidato in materia di organi
collegiali, secondo il quale all’atto del primo insediamento
l’organo deve essere completo in tutte le sue componenti per
potersi dire legittimamente costituito e poter validamente
operare, e alla luce di quanto riferito dal sindaco, si
ritiene che la mancata designazione dei rappresentanti di
uno dei due gruppi di minoranza abbia impedito, di fatto, la
costituzione delle commissione in argomento.
In assenza di specifiche previsioni recate dalle fonti di
autonomia locale la questione deve essere esaminata alla
luce di quei principi generali dai quali trarre utili
orientamenti nel caso di specie.
Al riguardo, rileva anzitutto la natura delle commissioni
consiliari. Esse non sono organi necessari dell’ente locale,
cioè non sono componenti indispensabili della sua struttura
organizzative, bensì organi strumentali dei consigli ed, in
quanto tali, costituiscono componenti interne dell’organo
assembleare, prive di una competenza autonoma e distinta da
quella ad esso attribuita. In altri termini, le commissioni
consiliari operano sempre e comunque nell’ambito della
competenza dei consigli.
A fronte della oggettiva impossibilità di insediare
validamente le commissioni a causa della indisponibilità
manifestata da alcuni consiglieri di minoranza, la
situazione di fatto verificatasi è tale da giustificare, in
ragione del principio della continuità amministrativa, il
riespandersi della competenza piena del consiglio comunale.
Ovviamente ciò non esclude che l’argomento della
ricostituzione delle commissioni comunali possa essere
iscritto all’ordine del giorno delle sedute consiliari fino
alla sua positiva trattazione
(24.01.2018 - link a http://dait.interno.gov.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Sì ai gruppi unipersonali. Se il
regolamento non lo vieta espressamente. La
materia è interamente demandata alle fonti
di autonomia locale.
Il regolamento sul funzionamento del
consiglio comunale può, di fatto, impedire
la formazione del gruppo misto monopersonale,
disciplinando la costituzione del gruppo
misto nel senso di prevedere che lo stesso
sia composto da almeno due consiglieri?
L'esistenza dei gruppi consiliari non è
espressamente prevista dalla legge e la
relativa materia è regolata dalle norme
statutarie e regolamentari dei singoli enti
locali.
Il ministero dell'interno ha già in
precedenza espresso il proprio orientamento
in materia, evidenziando che, in assenza di
disposizioni che escludano espressamente la
possibilità di istituire il gruppo misto
anche con la partecipazione di un unico
componente, si potrebbe accedere ad
un'interpretazione delle fonti di autonomia
locale orientata alla valorizzazione dei
diritti dei singoli di poter aderire a un
gruppo consiliare.
Nel caso di specie, il regolamento del
consiglio comunale vieta espressamente la
possibilità di costituire il gruppo misto
uni personale; è, pertanto, evidente che
tale avviso non possa essere adattato al
diverso contesto normativo in vigore nel
comune in esame.
A tal proposito il Consiglio di stato, con
sentenza n. 3357 del 2010, ha affermato che,
una volta adottato il regolamento recante le
norme sul funzionamento del consiglio
comunale, queste ultime non possono essere
disapplicate se non previo ritiro.
Di conseguenza, poiché la materia dei «gruppi
consiliari» è interamente demandata alla
competenza delle fonti di autonomia locale,
è in tale ambito che potrà essere valutata
l'opportunità di adottare apposite modifiche
alla normativa in questione
(articolo ItaliaOggi del
19.01.2018). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Taglio 10 per cento indennità amministratori e gettoni
presenza.
Domanda
La mancata proroga per il 2018 del taglio del 10% di cui
all’art. 6, comma 3, del d.l. 78/2010 riguarda anche le
indennità degli amministratori (sindaco e assessori) ed i
gettoni dei consiglieri comunali?
Risposta
No, l’art. 6, comma 3, del d.l. 78/2010 non riguarda le
indennità di funzione di sindaco e assessori.
Il d.l. 78/2010 disciplinava la riduzione dei compensi di
questa tipologia all’art. 5, comma 7, demandandone
l’attuazione all’adozione di un successivo decreto del
Ministro dell’interno, ai sensi dell’art. 82, comma 8, del
TUEL 267/2000.
Dunque, la materia delle indennità di funzione e dei gettoni
di presenza degli amministratori degli enti locali trova la
sua disciplina nell’art. 82 del TUEL che rinvia ad apposito
decreto ministeriale la determinazione degli emolumenti in
questione sulla base di criteri predeterminati.
Il decreto ministeriale avrebbe dovuto essere rinnovato ogni
tre anni, tuttavia, quello vigente è tutt’ora il d.m.
04.04.2000, n. 119, che rappresenta ancora oggi la fonte che
disciplina la misura dell’indennità in quanto, non solo non
è stato aggiornato ai sensi del comma 10 dell’art. 82, ma
neppure è stato sostituito da un nuovo decreto del Ministro
dell’interno, previsto dal comma 7 dell’art. 5 del d.l.
78/2010.
Oltre a ciò permane ovviamente la riduzione strutturale
delle indennità di funzione imposta dall’art. 1, comma 54,
della l. 266/2005 (e non il comma 58 come riportato nella
norma citata che, invece, si riferisce ad altra tipologia di
organi collegiali), cioè la riduzione del 10 per cento
rispetto all’ammontare delle indennità in godimento alla
data del 31.12.2005.
Infine, occorre fare riferimento alle disposizioni
introdotte dalla successiva legge “Delrio” n. 56/2014, che
con i commi 135 e 136, è intervenuta sulla composizione
numerica di consigli e giunte e ha introdotto misure di
invarianza della spesa rispetto al sistema previgente (18.01.2018
- link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Ballottaggi senza quorum. Per
eleggere il presidente del consiglio. Spetta
al regolamento disciplinare il funzionamento
dell'assemblea.
Quale normativa deve essere applicata, in
materia di elezione del presidente del
consiglio comunale, qualora emergano
differenze tra la disciplina statutaria e
quella regolamentare dell'ente locale?
Nel caso di specie, lo statuto comunale
prevede che il presidente sia eletto a
maggioranza dei due terzi dei componenti
l'assemblea. Se, dopo due scrutini, da
tenersi in due distinte sedute, nessun
candidato ottiene la maggioranza prevista,
nella terza votazione si effettua il
ballottaggio a maggioranza semplice fra i
due candidati che hanno riportato il maggior
numero di voti nella seconda votazione.
Il regolamento del consiglio comunale
prevede, invece, un'ulteriore votazione
successiva alla terza risultata infruttuosa,
in quanto stabilisce che, qualora nessun
candidato ottenga, dopo due scrutini, la
maggioranza qualificata prevista dallo
statuto, si debba procedere, nella terza
votazione, al ballottaggio a maggioranza
semplice fra i due candidati che hanno
riportato il maggior numero di voti nella
seconda votazione e che le votazioni vengano
ripetute nella seduta successiva.
Considerato che, ai sensi dell'art. 38,
comma 2, del decreto legislativo n.
267/2000, il funzionamento dei consigli, nel
quadro dei principi stabiliti dallo statuto,
è disciplinato dal regolamento, pertanto la
disciplina del numero legale per la validità
delle adunanze (cosiddetto «quorum
strutturale») e delle votazioni
(cosiddetto «quorum funzionale o
deliberativo») è stata delegificata,
nella fattispecie in esame non si ravvisa la
discrasia tra le due fonti di autonomia
locale. Ciò in quanto la normativa
regolamentare si limita a disciplinare
un'ulteriore votazione di cui non si fa
menzione nello statuto.
In altri termini, il regolamento del
consiglio comunale non contrasta con nessuna
norma statutaria poiché, in quanto fonte
abilitata a porre norme sul funzionamento
del consiglio, aggiunge un ulteriore
passaggio alla procedura prevista dallo
statuto per l'elezione del presidente del
consiglio comunale.
Pertanto, le disposizioni normative recate
dalle citate fonti di autonomia locale, con
riferimento al ballottaggio da tenersi nella
terza votazione, ancorché formulate in
maniera piuttosto confusa, dovrebbero essere
interpretate in coerenza con la ratio
che, normalmente, ispira il sistema di
ballottaggio, e cioè quella di considerare
eletto colui tra i candidati che abbia
ottenuto il più alto numero di voti, a
prescindere dal numero dei votanti
(articolo ItaliaOggi del
12.01.2018). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Commissioni di garanzia. Niente
regole speciali sull'attività istituzionale.
La presidenza deve essere attribuita a un
consigliere di opposizione.
Un comitato di cittadini può chiedere la
convocazione della Commissione garanzia e
controllo comunale, al fine di verificare
l'eventuale violazione delle norme sulla
sicurezza nella costruzione di un
distributore di carburanti nel territorio
comunale?
La questione deve essere risolta facendo
riferimento alle disposizioni di legge o di
regolamento, ovvero agli statuti locali. In
linea generale, nei comuni sono operanti
commissioni obbligatorie (previste per legge
come, per esempio, la commissione elettorale
comunale) e commissioni facoltative (come,
le cosiddette commissioni consiliari
permanenti ex art. 38 del Tuel, dlgs n.
267/2000); in entrambi i casi, la rispettiva
composizione e il funzionamento si
riconducono generalmente alla fonte
normativa che le istituisce e, quindi, alle
previsioni statutarie e regolamentari.
Nel caso di specie, lo Statuto comunale
stabilisce solo che i presidenti delle
commissioni permanenti istituite con
finalità di controllo sono eletti tra i
rappresentanti dei gruppi consiliari di
opposizione; inoltre prevede la possibilità
di istituire commissioni di inchiesta e
consente di istituire commissioni speciali
per l'esame di problemi particolari,
demandando al Consiglio la composizione,
l'organizzazione, le competenze, i poteri e
la durata. Il regolamento consiliare,
invece, disciplina le commissioni speciali e
le commissioni di inchiesta e dispone che le
commissioni con funzioni di garanzia e di
controllo «effettuano verifiche
sull'attività di governo, sulla
programmazione e sulla pianificazione delle
attività, sui risultati e sugli obiettivi
raggiunti».
Ebbene, le commissioni aventi funzioni di
controllo e di garanzia potrebbero
considerarsi, come ha sostenuto parte della
dottrina, una specie del medesimo genere
delle commissioni di indagine. Tale assunto
è confermato dalla circostanza che la
materia è trattata nello stesso art. 44 del
dlgs. n. 267/2000.
Tuttavia, ferma restando la tutela della
minoranza che si concretizza
nell'affidamento della presidenza della
commissione permanente ad un consigliere
dell'opposizione, una volta costituita,
l'attività istituzionale di tale commissione
segue la dinamica delle altre commissioni
permanenti, nel rispetto comunque delle
competenze amministrative demandate
previamente agli uffici comunali.
Considerato che lo Statuto e il regolamento
hanno previsto la possibilità di istituire
anche commissioni speciali con il compito di
approfondire «particolari questioni o
problemi che interessino il comune», la
fattispecie relativa alla presunta
violazione delle norme sulla sicurezza nella
costruzione di un impianto sul territorio
comunale sembra incidere, in particolare,
sulla competenza di tali organismi, poiché
l'attività della commissione garanzia e
controllo deve limitarsi alle verifiche
sull'attività di governo
(articolo ItaliaOggi del
05.01.2018). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Deleghe
ai consiglieri.
Sintesi/Massima
Il conferimento di deleghe ai
consiglieri comunali ed al Presidente del Consiglio comunale
da parte del sindaco, fatta salva una ristrettissima serie
di funzioni sindacali delegabile in virtù di specifiche
previsioni normative (in particolare, le funzioni svolte dal
sindaco ex art. 54 nella sua attività di Ufficiale di
Governo), sono ammissibili sulla base di norme statutarie
dell'ente locale, che stabiliscano il riparto di
attribuzioni tra gli organi di governo dell'ente, integrando
ma non derogando alle vigenti norme di legge.
Pertanto, potrebbe essere configurabile la mancata
conformità dell’atto di delega alle disposizioni specifiche
dettate in materia dagli articoli 42 e 48 del T.U.O.E.L. n.
267/2000 solo in carenza di una espressa indicazione dei
limiti in ordine all’esercizio delle predette deleghe che
escludano compiti di amministrazione attiva.
Testo
E’ stato chiesto un parere in ordine alla legittimità dei
decreti con cui il Sindaco ha conferito deleghe ai
consiglieri comunali ed al Presidente del Consiglio
comunale.
In merito, ribadendo quanto sostenuto dall’esponente nelle
premesse della propria nota –il quale ha fatto proprie
alcune considerazioni già espresse da questo Ufficio in
ordine alla disciplina delle deleghe interorganiche- va
detto, altresì, che una ristrettissima serie di funzioni
sindacali può essere delegabile in virtù di specifiche
previsioni normative (in particolare, le funzioni svolte dal
sindaco ex art. 54 nella sua attività di Ufficiale di
Governo).
Va osservato, ancora, che il TAR Toscana, con decisione n.
1248/2004, ha respinto il ricorso avverso una norma
statutaria concernente la delega ai consiglieri di funzioni
sindacali in quanto la stessa escludeva implicitamente che
potessero essere delegati compiti di amministrazione attiva,
tali da comportare “l'inammissibile confusione in capo al
medesimo soggetto del ruolo di controllore e di controllato”.
Il Consiglio di Stato, con parere n. 4883/2011 (4992/2012)
in data 17.10.2012, ha ritenuto fondato un ricorso
straordinario al Presidente della Repubblica in quanto
l'atto sindacale impugnato, nel prevedere la delega ai
consiglieri comunali di funzioni di amministrazione attiva,
determinava “una situazione, per lo meno potenziale, di
conflitto di interesse”.
Pertanto, la normativa statutaria dell'ente locale, nel
disciplinare la materia de qua, potrebbe prevedere
disposizioni che stabiliscano il riparto di attribuzioni tra
gli organi di governo dell'ente, integrando ma non derogando
alle vigenti norme di legge.
Nel caso specifico, anche secondo quanto riferito
dall’esponente, il vigente statuto del comune di … prevede
la possibilità di conferire anche ai consiglieri incarichi
per attività di istruzione e di studio per determinati
problemi e progetti… che non costituiscono delega di
competenza ... e che non siano conclusi con un atto
amministrativo ad efficacia esterna.
Al riguardo, premesso che il decreto n. 2453/2017 è stato
revocato dal decreto n. 2627/2017, si osserva che con il
successivo decreto n. 2629 il sindaco ha puntualizzato che
l’incarico non costituisce delega di funzioni e deve
intendersi esclusa l’adozione di atti a rilevanza (esterna)
o atti di gestione spettanti agli organi burocratici e che
il consigliere comunale incaricato non ha poteri decisionali
di alcun tipo diversi o ulteriori rispetto a quelli che
derivano dallo status di consigliere.
Ciò posto, ad avviso di questa Direzione Centrale, potrebbe
essere configurabile la mancata conformità dell’atto alle
disposizioni specifiche dettate in materia dagli articoli 42
e 48 del TUEL n. 267/2000 solo in carenza di una espressa
indicazione dei limiti in ordine all’esercizio delle
predette deleghe.
Tali limiti, nel caso specifico sembrano invece esplicitati
chiaramente nell’ambito del decreto sindacale n. 2629 del
17.07.2017 di conferimento delle deleghe ai consiglieri
comunali
(05.01.2018 - link a http://dait.interno.gov.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Deleghe
ai consiglieri.
Sintesi/Massima
Deleghe ai consiglieri.
Nell'ambito dell'autonomia statutaria dell'ente locale,
sancita dall'art. 6 del citato decreto legislativo n.
267/2000, è ammissibile la disciplina di deleghe
interorganiche, purché il contenuto delle stesse sia
coerente con la funzione istituzionale dell'organo cui si
riferisce.
Occorre considerare che il consigliere può essere incaricato
di studi su determinate materie e di compiti di
collaborazione circoscritti all'esame e alla cura di
situazioni particolari, che non implichino la possibilità di
assumere atti a rilevanza esterna, né di adottare atti di
gestione spettanti agli organi burocratici.
Testo
E’ stato formulato un quesito in ordine alla attuazione
dell’art. 22, comma 10, dello statuto del comune di ….
recante il potere del Sindaco di attribuire ai singoli
consiglieri “incarichi temporanei per affari determinati”.
In particolare è stato rappresentato che il sindaco, ai
sensi della citata normativa, ha assegnato a diversi
consiglieri incarichi di collaborazione in ordine a
specifiche materie. Nel decreto è precisato che gli
incarichi in questione non costituiscono delega di funzione,
non attribuiscono alcun potere a rilevanza esterna né
comportano incarichi gestionali. Ciò posto, si chiede di
conoscere se siffatto decreto sia compatibile con la
disciplina dettata in materia dal decreto legislativo n.
267/2000.
Al riguardo si rappresenta che nell'ambito dell'autonomia
statutaria dell'ente locale, sancita dall'art. 6 del citato
decreto legislativo n. 267/2000, è ammissibile la disciplina
di deleghe interorganiche, purché il contenuto delle stesse
sia coerente con la funzione istituzionale dell'organo cui
si riferisce. Occorre considerare che il consigliere può
essere incaricato di studi su determinate materie e di
compiti di collaborazione circoscritti all'esame e alla cura
di situazioni particolari, che non implichino la possibilità
di assumere atti a rilevanza esterna, né di adottare atti di
gestione spettanti agli organi burocratici.
Il consigliere, infatti, svolge la sua attività
istituzionale, in qualità di componente di un organo
collegiale quale il consiglio, che è destinatario dei
compiti individuati e prescritti dalle leggi e dallo
statuto.
Atteso che il consiglio svolge attività di indirizzo e
controllo politico-amministrativo, partecipando "…alla
verifica periodica dell'attuazione delle linee
programmatiche da parte del Sindaco … e dei singoli
assessori" (art. 42, comma 3, del T.U.O.E.L.), ne
scaturisce l'esigenza di evitare una incongrua commistione
nell'ambito dell'attività di controllo.
In proposito, va osservato che il TAR Toscana, con decisione
n. 1284/2004, ha respinto il ricorso avverso una norma
statutaria concernente la delega ai consiglieri di funzioni
sindacali in quanto la stessa escludeva implicitamente che
potessero essere delegati compiti di amministrazione attiva,
tali da comportare “…l’inammissibile confusione in capo
al medesimo soggetto del ruolo di controllore e di
controllato…”.
Si aggiunge, altresì, che il Consiglio di Stato, con parere
n. 4883/2011 reso in data 17.10.2012, ha ritenuto fondato un
ricorso straordinario al Presidente della Repubblica in
quanto l’atto sindacale impugnato, nel prevedere la delega
ai consiglieri comunali di funzioni di amministrazione
attiva, determinava “…una situazione, per lo meno
potenziale, di conflitto di interesse.”.
Tanto premesso, il decreto sindacale in questione
sembrerebbe essere stato adottato in coerenza con la
normativa vigente nonché con le elaborazioni
giurisprudenziali in materia
(05.01.2018 - link a http://dait.interno.gov.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Mancata
attuazione normativa in tema di parità di genere nelle
giunte comunali.
Sintesi/Massima
Parità di genere nelle giunte comunali.
Il comma 137, dell’art. 1 della legge n. 56/2014 dispone che
“nelle giunte dei comuni con popolazione superiore a 3000
abitanti, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in
misura inferiore al 40%, con arrotondamento aritmetico”.
Al riguardo, si osserva che il Consiglio di Stato, sez. V,
n. 4626 del 05/10/2015, ha precisato che tutti gli atti
adottati nella vigenza dell’art. 1, comma 137, citato
trovano in esso “un ineludibile parametro di legittimità” e,
pertanto, un’interpretazione che riferisse l’applicazione
della norma alle sole nomine assessorili effettuate
all’indomani delle elezioni e non anche a quelle adottate in
corso di consiliatura consentirebbe un facile aggiramento
della suddetta normativa.
Circa l’adeguatezza dell’istruttoria effettuata dal sindaco
e del corredo motivazionale addotto quale giustificazione
del mancato rispetto della normativa in questione, appare
utile richiamare la sentenza n. 1 del 2015 con la quale il
Tar Calabria, Sez. Catanzaro, nel pronunciarsi per
l’annullamento del decreto di nomina della giunta, ha
ritenuto che l’atto impugnato fosse sprovvisto di adeguata
istruttoria finalizzata al reperimento di “… idonee
personalità di sesso femminile nella società civile,
nell’ambito del bacino territoriale di riferimento,
limitandosi a comprovare soltanto la rinuncia di due
consigliere.”. (cfr Tar Calabria sentenze nn. 2, 3 e 4 del
2015).
Testo
E’ stato chiesto l’intervento della scrivente
amministrazione in merito alla mancata attuazione della
vigente normativa in tema di parità di genere nella
composizione delle giunte.
In particolare, è stato segnalato che il sindaco del Comune
in oggetto, nel prendere atto delle dimissioni di un
assessore di genere femminile, ha provveduto alla nomina di
un assessore uomo. Tale sostituzione, non corredata da
alcuna motivazione in ordine alla difficoltà riscontrata
nell’attuazione della normativa in parola, ha alterato
l’equilibrio di genere della compagine giuntale, riducendo
la rappresentanza del genere femminile ad un solo
componente.
Come noto, il comma 137, dell’art. 1 della legge n. 56/2014
dispone che “nelle giunte dei comuni con popolazione
superiore a 3000 abitanti, nessuno dei due sessi può essere
rappresentato in misura inferiore al 40%, con arrotondamento
aritmetico”.
Al riguardo, si osserva che il Consiglio di Stato, sez. V,
n. 4626 del 5/10/2015, ha precisato che tutti gli atti
adottati nella vigenza dell’art. 1, comma 137, citato
trovano in esso “un ineludibile parametro di legittimità”
e, pertanto, un’interpretazione che riferisse l’applicazione
della norma alle sole nomine assessorili effettuate
all’indomani delle elezioni e non anche a quelle adottate in
corso di consiliatura consentirebbe un facile aggiramento
della suddetta normativa.
Circa l’adeguatezza dell’istruttoria effettuata dal sindaco
e del corredo motivazionale addotto quale giustificazione
del mancato rispetto della normativa in questione, appare
utile richiamare la sentenza n. 1 del 2015 con la quale il
Tar Calabria, Sez. Catanzaro, nel pronunciarsi per
l’annullamento del decreto di nomina della giunta, ha
ritenuto che l’atto impugnato fosse sprovvisto di adeguata
istruttoria finalizzata al reperimento di “… idonee
personalità di sesso femminile nella società civile,
nell’ambito del bacino territoriale di riferimento,
limitandosi a comprovare soltanto la rinuncia di due
consigliere.”. (cfr Tar Calabria sentenze nn. 2, 3 e 4
del 2015).
Da ultimo, il Consiglio di Stato, con sentenza n. 406/2016,
ha osservato che l’effettiva impossibilità di assicurare
nella composizione della giunta comunale la presenza dei due
generi nella misura stabilita dalla legge deve essere “adeguatamente
provata”.
Nella citata pronuncia, il Supremo Consesso Amministrativo
ha, inoltre, dato conto della ragionevolezza delle
indicazioni fornite dalla scrivente amministrazione nella
circolare n. 6508 del 24.04.2014 laddove si fa presente che
occorre lo svolgimento di una preventiva e necessaria
attività istruttoria preordinata ad acquisire la
disponibilità dello svolgimento delle funzioni assessorili
da parte di persone di entrambi i generi e di fornire
un’adeguata motivazione sulle ragioni della mancata
applicabilità del principio di pari opportunità.
Tanto premesso, si osserva che, come noto, il vigente
ordinamento non prevede poteri di controllo di legittimità
sugli atti degli enti locali in capo a questa
Amministrazione e, pertanto, gli eventuali vizi di
legittimità degli atti adottati potranno essere fatti valere
nelle competenti sedi
(05.01.2018 - link a http://dait.interno.gov.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Richiesta
di parere sui locali di seduta del Consiglio comunale.
Sintesi/Massima
Previa disciplina regolamentare di
dettaglio, nell’ambito delle previsioni statutarie, non
sussiste un impedimento in ordine allo svolgimento delle
adunanze del consiglio comunale anche in locali diversi
rispetto alla ordinaria aula sita presso la sede comunale.
Tuttavia, ferma restando la verifica dell’opportunità di
sostenere i relativi costi aggiuntivi, è necessario non
arrecare disagi ai consiglieri partecipanti e che anche la
non ordinaria sala sia fornita della dotazione
tecnico-logistica occorrente per il corretto svolgimento
delle riunioni consiliari.
Testo
E’ stato posto un quesito in ordine alla legittimità dello
svolgimento delle sedute consiliari all’interno di una
villa, di proprietà di un consorzio di cui l’Ente fa parte
con quota non di maggioranza, ubicata nel territorio del
Comune ma distante dalla sede comunale.
Al riguardo, si osserva che secondo quanto stabilito
dall’articolo 3, comma 4, del d.lgs. n. 267/2000, “i
comuni hanno autonomia statutaria, normativa, organizzativa
e amministrativa”.
Secondo la previsione dell’articolo 6 del citato d.lgs. n.
267/2000, lo statuto stabilisce anche “i criteri generali
in materia di organizzazione dell’Ente”.
L’articolo 7, infine, conferisce al comune, nel rispetto dei
principi fissati dalla legge e dallo statuto, la potestà
regolamentare “in particolare per l’organizzazione e il
funzionamento delle istituzioni… per il funzionamento degli
organi…”.
La materia è, dunque soggetta all’autorganizzazione
dell’ente.
Lo statuto comunale prevede all’articolo 3, comma 4, che le
adunanze degli organi collegiali si svolgono normalmente
nella sede del Comune di …, lasciando altresì la possibilità
di riunione in luoghi diversi in caso di necessità o per
particolare esigenze.
Ciò posto, ferma restando l’opportunità dell’adozione di una
disciplina regolamentare di dettaglio, alla luce del
disposto statutario non sembra che vi sia un impedimento
assoluto in ordine allo svolgimento delle adunanze del
consiglio comunale anche in locali diversi rispetto alla
ordinaria aula sita presso la sede comunale.
Tuttavia, resta ferma la necessità di non arrecare disagi ai
consiglieri partecipanti e che anche la non ordinaria sala
sia fornita della dotazione tecnico-logistica occorrente per
il corretto svolgimento delle riunioni consiliari.
Ritenendo, altresì che debbano osservarsi anche i principi
generali relativi al contenimento della spesa pubblica, si
demanda alla valutazione diretta del Comune –che andrà a
verificare i relativi costi aggiuntivi- l’opportunità del
mantenimento della duplicazione della sede consiliare
(05.01.2018 - link a http://dait.interno.gov.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI: Procedura
approvazione modifiche statutarie.
Sintesi/Massima
Procedura approvazione modifiche
statutarie.
L'approvazione dello statuto, attesa la natura di atto
normativo "fondamentale" sua propria, comporta che su di
esso converga il più elevato numero di consensi attraverso
un'ampia discussione e comparazione d'interessi da parte
della maggioranza e dell'opposizione consiliare. Tale
particolare esigenza ha determinato, conseguentemente, la
previsione di maggioranze speciali disponendo che i quorum,
rispettivamente della prima e delle altre votazioni, siano
ragguagliati ai due terzi o alla maggioranza assoluta dei
consiglieri assegnati.
Pertanto, l'iter deliberativo di approvazione dello statuto
e delle sue modifiche comporta che in sede di prima
votazione la delibera sia approvata con il voto favorevole
dei due terzi dei consiglieri assegnati ivi compreso il
sindaco, che è componente del consiglio comunale ai sensi
dell'art. 37 del citato testo unico. Si osserva, infatti,
che nelle ipotesi in cui l'ordinamento non ha inteso
computare il sindaco, o il presidente della provincia, nel
quorum richiesto per la validità di una seduta, lo ha
indicato espressamente usando la formula “senza computare a
tal fine il sindaco ed il presidente della provincia".
Ove tale quorum non venga raggiunto, si apre un’ulteriore
fase procedimentale per la quale lo statuto è approvato “se
ottiene per due volte il voto favorevole dalla maggioranza
assoluta dei consiglieri assegnati”. Si precisa che,
nell’ipotesi in cui lo statuto non sia approvato alla prima
votazione con il voto favorevole dei due terzi dei
consiglieri assegnati, è sempre necessario procedere alle
previste ulteriori due votazioni a “maggioranza assoluta”,
con la conseguenza che, complessivamente, le votazioni
assommeranno al numero di tre.
Circa il rispetto del termine di trenta giorni previsto dal
citato art. 6, comma 4, giova richiamare il contenuto del
parere n. 291 del 2010 reso dal Consiglio di Stato su
ricorso Straordinario al Capo dello Stato, laddove è stato
osservato che “…la non perentorietà del termine sopra detto
vanificherebbe la finalità della norma che è diretta a
prevedere un tempo determinato entro il quale deve
concludersi la procedura di approvazione dello statuto”.
Testo
Un consigliere comunale ha lamentato asserite irregolarità
concernenti la procedura di approvazione delle modifiche
dello statuto del comune in oggetto.
In particolare, l’esponente ha rappresentato che il
consiglio comunale, con deliberazione n. 56 del 28.07.2017,
ha approvato, con il voto favorevole di 11 consiglieri su 15
presenti, una modifica allo statuto comunale. Tale
deliberazione è stata considerata quale approvazione delle
modifiche statutarie, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del
decreto legislativo n. 267/2000, in base al criterio
dell’arrotondamento per difetto della cifra decimale.
Il consiglio, con deliberazione n. 67 del 30.09.2017,
ritenendo il criterio dell’arrotondamento per difetto non
aderente al dettato legislativo, ha approvato l’annullamento
parziale della precedente deliberazione nella parte in cui
aveva proclamato l’avvenuta modifica statutaria. Con la
medesima delibera ha inoltre convalidato la votazione
tenutasi in data 28.07.2017 avente ad oggetto “approvazione
modifica allo statuto comunale” per mancato
raggiungimento del quorum richiesto in prima votazione.
Sempre in data 30.9.2017, durante la medesima seduta
consiliare, è stata adottata la seconda delibera di
approvazione della modifica statutaria mentre in data
31.10.2017, è stata adottata la terza ed ultima delibera.
Entrambe le deliberazioni, identificate rispettivamente con
i numeri 68 e 79, risultano adottate a maggioranza assoluta
dei componenti, avendo ottenuto il voto favorevole di 10
consiglieri.
Ad avviso del consigliere esponente, la procedura seguita
per l’approvazione delle modifiche statutarie sarebbe
viziata atteso che la delibera n. 68 del 2017 sarebbe
intervenuta il 30.09.2017, ovvero nello stesso giorno della
delibera n. 67, violando il consolidato indirizzo
giurisprudenziale in base al quale le eventuali ulteriori
votazioni successive alla prima devono intervenire in sedute
diverse. Inoltre, la deliberazione n. 79 del 31.10.2017
sarebbe stata adottata oltre il termine di trenta giorni
previsto dall’art 6, comma 4, del decreto legislativo n.
267/2000.
Al riguardo, si rappresenta che la normativa in esame ha
previsto un “procedimento aggravato" per
l'approvazione delle norme statutarie, nonché delle relative
modifiche, sia disponendo che, in caso di mancata
approvazione dei due terzi dell'assemblea si debba ripetere
la votazione entro 30 giorni, che prescrivendo che lo
statuto sia approvato se ottiene per due volte - in sedute
successive - il voto favorevole della maggioranza assoluta
dei membri assegnati al collegio.
L'approvazione dello statuto, pertanto, attesa la natura di
atto normativo "fondamentale" sua propria, comporta
che su di esso converga il più elevato numero di consensi
attraverso un'ampia discussione e comparazione d'interessi
da parte della maggioranza e dell'opposizione consiliare.
Tale particolare esigenza ha determinato, conseguentemente,
la previsione di maggioranze speciali disponendo che i
quorum, rispettivamente della prima e delle altre
votazioni, siano ragguagliati ai due terzi o alla
maggioranza assoluta dei consiglieri assegnati.
Pertanto, l'iter deliberativo di approvazione dello statuto
e delle sue modifiche comporta che in sede di prima
votazione la delibera sia approvata con il voto favorevole
dei due terzi dei consiglieri assegnati ivi compreso il
sindaco, che è componente del consiglio comunale ai sensi
dell'art. 37 del citato testo unico.
Si osserva, infatti, che nelle ipotesi in cui l'ordinamento
non ha inteso computare il sindaco, o il presidente della
provincia, nel quorum richiesto per la validità di una
seduta, lo ha indicato espressamente usando la formula “senza
computare a tal fine il sindaco ed il presidente della
provincia". Ove tale quorum non venga raggiunto,
si apre un’ulteriore fase procedimentale per la quale lo
statuto è approvato “se ottiene per due volte il voto
favorevole dalla maggioranza assoluta dei consiglieri
assegnati”. Si precisa che, nell’ipotesi in cui lo
statuto non sia approvato alla prima votazione con il voto
favorevole dei due terzi dei consiglieri assegnati, è sempre
necessario procedere alle previste ulteriori due votazioni a
“maggioranza assoluta”, con la conseguenza che,
complessivamente, le votazioni assommeranno al numero di
tre.
Con riferimento alla doglianza concernente la contestualità
dell’approvazione delle deliberazioni n. 67 e n. 68,
entrambe adottate il 30.9.2017, si osserva che la data a cui
occorre fare riferimento per computare il termine di inizio
della procedura di approvazione delle modifiche statutarie è
il 28.07.2017 e non il 30.09.2017. Ciò in quanto la
convalida operata con la deliberazione n. 67 dell’atto
consiliare n. 56 del 28.07.2017 configura un provvedimento
nuovo ma che si collega all’atto convalidato al fine di
mantenerne fermi gli effetti fin dal momento in cui questo
venne emanato (efficacia ex tunc).
Circa il rispetto del termine di trenta giorni previsto dal
citato art. 6, comma 4, giova richiamare il contenuto del
parere n. 291 del 2010 reso dal Consiglio di Stato su
ricorso Straordinario al Capo dello Stato, laddove è stato
osservato che “…la non perentorietà del termine sopra
detto vanificherebbe la finalità della norma che è diretta a
prevedere un tempo determinato entro il quale deve
concludersi la procedura di approvazione dello statuto”
(05.01.2018 - link a http://dait.interno.gov.it). |
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