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56-DURC
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58-EDIFICIO UNIFAMILIARE
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60-GESTIONE ASSOCIATA FUNZIONI COMUNALI
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62-INCARICHI PROFESSIONALI E PROGETTUALI
63-INCENTIVO PROGETTAZIONE (ora INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE)
64-INDUSTRIA INSALUBRE
65-L.R. 12/2005
66-L.R. 23/1997
67-L.R. 31/2014
68-LEGGE CASA LOMBARDIA
69-LICENZA EDILIZIA (necessità)
70-LOTTO EDIFICABILE - ASSERVIMENTO AREA - CESSIONE CUBATURA
71-LOTTO INTERCLUSO
72-MAPPE e/o SCHEDE CATASTALI (valore probatorio o meno)
73-MOBBING
74-MURO DI CINTA/RECINZIONE, DI CONTENIMENTO/SOSTEGNO, ECC.
75-OPERE PRECARIE
76-PARERE DI REGOLARITA' TECNICA, CONTABILE E DI LEGITTIMITA'
77-PATRIMONIO
78-PERGOLATO e/o GAZEBO e/o BERCEAU e/o DEHORS e/o POMPEIANA e/o PERGOTENDA e/o TETTOIA
79-PERMESSO DI COSTRUIRE (annullamento e/o impugnazione)
80-PERMESSO DI COSTRUIRE (decadenza)
81-PERMESSO DI COSTRUIRE (deroga)
82-PERMESSO DI COSTRUIRE (legittimazione richiesta titolo)
83-PERMESSO DI COSTRUIRE (parere commissione edilizia)
84-PERMESSO DI COSTRUIRE (prescrizioni)
85-PERMESSO DI COSTRUIRE (proroga)
86-PERMESSO DI COSTRUIRE (verifica in istruttoria dei limiti privatistici al rilascio)
87
-
PERMESSO DI COSTRUIRE (volturazione)
88-
PERTINENZE EDILIZIE ED URBANISTICHE
89-PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI
90-PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI (aree a standard)
91-PIF (Piano Indirizzo Forestale)
92-PISCINE
93-PUBBLICO IMPIEGO
94-PUBBLICO IMPIEGO (quota annuale iscrizione ordine professionale)
95-RIFIUTI E BONIFICHE
96-
RINNOVO/PROROGA CONTRATTI
97-RUDERI
98-
RUMORE
99-SAGOMA EDIFICIO
100-SANATORIA GIURISPRUDENZIALE E NON (abusi edilizi)
101-SCOMPUTO OO.UU.
102-SEGRETARI COMUNALI
103-SEMINTERRATI
104-SIC-ZSC-ZPS - VAS - VIA
105-SICUREZZA SUL LAVORO
106
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107-SINDACATI & ARAN
108-SOPPALCO
109-SOTTOTETTI
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114-TENDE DA SOLE
115-TINTEGGIATURA FACCIATE ESTERNE
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dossier CONSIGLIERI COMUNALI
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---> per il dossier CONSIGLIERI COMUNALI sino al 2017 cliccare qui
ottobre 2023

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI: Non ci sono controlli sui sindaci. Le minoranze sono private dei dati per poter giudicare. L'abolizione dell'art. 130 della Costituzione rende irresponsabili i conti degli enti locali.
L'articolo 130 della Costituzione Italiana prevedeva il controllo di legittimità sugli atti degli Enti Locali. Infatti, esso così recitava: «Un organo della Regione, costituito nei modi stabiliti dalla legge della Repubblica, esercita, anche in forma decentrata, il controllo di legittimità sugli atti delle Province, dei Comuni e degli altri enti locali».
Quando nel 1970 furono istituite, le Regioni con proprie leggi diedero vita ai Comitati Regionali di Controllo (Co.Re.Co.) in ogni Provincia, a cui i Comuni erano obbligati a inviare i propri atti deliberativi per il controllo di legittimità. L'articolo 9, comma secondo, della legge costituzionale n. 3 del 18.10.2001 ha abrogato l'articolo 130 della Costituzione italiana, eliminando il controllo di legittimità sugli atti degli Enti Locali.
Nel corso dell'anno successivo tutte le Regioni italiane hanno provveduto a sciogliere i Co.Re.Co, per cui da quel momento in poi il controllo di legittimità sugli atti è stato esercitato internamente dai singoli dirigenti delle Province e dei Comuni nelle materie di propria competenza,
con l'assurda coincidenza di controllore e controllato.
L'abrogazione dell'articolo 130 della Costituzione e la cancellazione delle leggi regionali istitutive dei Co.Re.Co. hanno determinato una situazione paradossale nella vita degli Enti Locali con gravissime conseguenze di ordine politico e istituzionale.
In primo luogo, è stato davvero poco rispettoso dei principi della democrazia alterare nella vita degli Enti Locali la dialettica tra le forze politiche di maggioranza e quelle di minoranza, privando queste ultime della possibilità di richiedere ad un organo esterno il controllo di legittimità sugli atti deliberativi assunti dalla maggioranza.
La funzione di controllo delle forze di minoranza è stata del tutto azzerata, in quanto esse sono state private della facoltà del controllo amministrativo e hanno avuto e tuttora hanno a disposizione soltanto due strade: il ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale e/o la denuncia all'Autorità Giudiziaria.
La prima strada non è affatto percorribile, in quanto richiede cospicue risorse finanziarie, di cui non dispongono i gruppi consiliari degli Enti Locali. La seconda strada distorce gravemente la dialettica democratica, dirottando le relazioni politiche tra maggioranza e opposizione sul piano giudiziario. Il che ammorba il clima politico complessivo locale con forte pregiudizio per il bene della Comunità.
In secondo luogo, è stato davvero irresponsabile privare gli atti degli Enti Locali del controllo esterno di legittimità, in quanto
il condizionamento delle mafie e della criminalità organizzata costituisce una costante in quasi tutto il territorio nazionale e, massimamente, nel Mezzogiorno d'Italia. Gli amministratori locali, i dirigenti e i responsabili di servizio sono stati lasciati soli di fronte alle forti pressioni di gruppi criminali, a cui spesso non si sottraggono per paura o, in alcuni casi, per scelta.
In terzo luogo,
è stato del tutto deplorevole aver reso più semplice la violazione di una serie di norme di regolamenti per una gestione poco trasparente degli Enti Locali anche con gravi risvolti corruttivi.
Noi Liberaldemocratici Italiani, per tutte queste ragioni, proponiamo che nella prossima riforma faccia ritorno l'articolo 130 della Costituzione Italiana (articolo ItaliaOggi del 28.10.2023).

dicembre 2022

CONSIGLIERI COMUNALIIl consigliere comunale che vuole copia delle carte deve fornire Pec personale e contratto. Va fornita la prova da cui risulti l'esclusiva intestazione a suo nome della casella di posta certificata.
Con la sentenza 30.12.2022 n. 1221, il TAR Piemonte, Sez. II, ha fornito importanti chiarimenti sulla corretta gestione operativa dello speciale diritto d'accesso del consigliere comunale.
Quest'ultimo non può limitarsi a indicare agli uffici un indirizzo di Pec per la trasmissione della documentazione, ma deve trasmettere loro anche i documenti contrattuali provenienti dal gestore del servizio da cui risulti l'esclusiva intestazione a suo nome della casella di posta certificata. Ciò indipendentemente dal nominativo 'leggibile' nell'indirizzo e salvo che l'amministrazione intenda attivare una casella di posta appositamente dedicata all'accesso del consigliere.
Secondo il giudice solo in questo modo può essere garantita l'effettiva riconducibilità dell'indirizzo di spedizione al consigliere interessato; con ogni correlata responsabilità anche in merito al corretto uso di tale strumento informatico. L'eventuale successiva condivisione abusiva di informazioni riservate o qualsiasi altra forma di uso non autorizzato di tali dati ovvero esorbitante dalle finalità istituzionali rientra nell'ambito delle condotte contrarie a legge di cui risponde il singolo autore e che l'amministrazione può far valere nelle sedi competenti.
In merito alla posizione dell'amministrazione e agli oneri che sulla stessa incombono per garantire il pieno diritto d'accesso del consigliere, le informazioni riservate di cui quest'ultimo può venire a conoscenza devono essere utilizzate solo per finalità pertinenti all'esercizio del mandato conferito; e nel rigoroso rispetto del segreto d'ufficio e dei principi in materia di privacy.
Con la conseguenza che il consigliere risponde sul piano penale civile ed amministrativo di qualsiasi uso esorbitante da detti limiti e di ogni forma di diffusione di dati non autorizzata; anche non volontaria o dovuta a carente custodia degli stessi. In sede di accesso agli atti la trasmissione di dati sensibili o informazioni riservate comporta in ogni caso a carico dell'amministrazione specialmente se è implicato l'uso di strumenti telematici l'onere di adottare corrispondenti misure per garantire la legittimità del flusso di detti dati nell'ambito degli uffici e i soggetti interessati tra i quali rientra anche il consigliere comunale.
Individuato il presupposto di ammissibilità il titolare del trattamento dei dati di regola il Sindaco negli enti locali deve mettere in atto misure tecniche ma anche organizzative adeguate a garantire, ed essere in grado di dimostrare, che lo stesso viene effettuato conformemente alla normativa sulla privacy; tenuto conto della natura, dell'ambito di applicazione, del contesto e delle finalità del trattamento; nonché dei rischi per i diritti e le libertà delle persone.
L'amministrazione dovrà quindi, per parte sua, implementare tutti gli strumenti di tutela della riservatezza di cui è già dotata ma anche adottarne nuovi per garantire il corretto trattamento delle informazioni riservate da parte del consigliere comunale
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 28.02.2023).
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SENTENZA
1. Con il presente ricorso la signora Si.Zi., eletta alla carica di consigliere di minoranza del Comune di San Martino Canavese, agisce per l’ottemperanza della sentenza 01.03.2021 n. 215 di questo Tribunale, passata in giudicato, nella parte in cui il predetto ente è stato condannato a consentire l’accesso integrale ai dati di sintesi del protocollo informatico dell’ente (ossia numero di registrazione al protocollo, data, mittente, destinatario, modalità di acquisizione, oggetto), chiedendo la condanna dell’amministrazione a dare corretta esecuzione alla pronuncia con piena ostensione dei suddetti dati, nonché la nomina di un commissario ad acta e la fissazione di una somma di denaro per ogni eventuale violazione o inosservanza successiva, ai sensi dell’art. 114, comma 4-ter, lett. e), cod. proc. amm.
2. Lamenta la ricorrente che l’amministrazione, invece di consentire l’accesso integrale ai dati di sintesi, si sarebbe limitata a fornire solo quelli riguardanti il periodo 20.10.2020–22.03.2021 e avrebbe oscurato numerosi protocolli a far data dall’08.03.2021, in quanto dichiarati riservati.
In particolare, l’ente ha precisato che gli oscuramenti sarebbero stati finalizzati a garantire il corretto trattamento dei dati personali e il rispetto della normativa in materia, avendo ad oggetto “annotazioni su atti di Anagrafe, Stato Civile, comunicazioni provenienti da altre P.A. relative ad indagini in corso od altro, sulle istanze e/o gli atti relativi alla fruizione degli istituti previsti e disciplinati dalla Legge 104/1992”, cioè dati “che non possono considerarsi in alcun modo attratti nella sfera di necessaria conoscenza e/o conoscibilità che deve essere assicurata ai Consiglieri Comunali” (cfr. doc. 8 della ricorrente).
3. A sostegno della domanda, la signora Zi. deduce la “violazione ed elusione del giudicato derivante dalla sentenza TAR Piemonte n. 215/2021”, nonché la “nullità ex art 21-septies legge 241/1990 di ogni atto con essa contrastante”, contestando sia la decisione dell’amministrazione di limitare l’accesso ai dati di sintesi riguardanti il solo periodo successivo al 20.10.2020, stante la mancanza di alcuna plausibile giustificazione, sia la sussistenza di motivi di riservatezza tali da poter limitare l’accesso del consigliere comunale ai dati di sintesi, essendo questi vincolato al segreto.
4. Si è costituito in giudizio il Comune di San Martino Canavese per resistere al gravame, precisando, in sintesi, quanto segue:
   - ottemperando alla sentenza de qua, l’amministrazione ha consegnato alla ricorrente copia dei dati di sintesi del protocollo informatico relativi al periodo dal 20.10.2020 al 22.03.2021 e da allora in avanti, con cadenza settimanale, inoltrandoli all’indirizzo PEC dalla stessa all’uopo comunicato (...@pec.it);
   - alcuni dati riguardanti minori, procedimenti penali, separazioni/divorzi e documenti pervenuti al Comune ma non riguardanti l’amministrazione della cosa pubblica, sono stati oscurati al momento della registrazione al protocollo, nel rispetto di quanto previsto dal Manuale di gestione protocollo dell’ente, che impone di adottare misure atte a garantire la riservatezza dei dati sensibili o la cui conoscenza possa arrecare danni a terzi o al buon andamento dell’attività amministrativa;
   - la ricorrente non avrebbe fornito alcuna garanzia che l’indirizzo pec comunicato per la trasmissione dei dati fosse ad uso personale e non condiviso con altri soggetti, in particolare con il marito di cui riporta anche il cognome, nonostante le richieste formulate dal Comune;
   - l’oscuramento di informazioni riservate si sarebbe reso necessario per evitare, in assenza di una chiara dimostrazione dell’uso esclusivo e riservato del suddetto indirizzo pec, l’eventuale responsabilità, in caso di arbitraria divulgazione, del soggetto che ha effettuato la trasmissione senza le adeguate garanzie, in violazione della normativa vigente in materia;
   - le informazioni che l’amministrazione non ha reso conoscibili non rientrerebbero tra quelle cui il consigliere comunale ha diritto o necessità di accedere per l’esercizio del mandato politico-amministrativo ricevuto;
   - l’amministrazione avrebbe trasmesso i dati a partire dal 20.10.2020 poiché così era stato indicato nell’istanza della ricorrente, sulla quale si è pronunciata la sentenza da ottemperare e, dunque, in conformità a quest’ultima.
5. Le parti hanno scambiato scritti difensivi e, alla camera di consiglio del 12.10.2022, la causa è stata trattenuta in decisione.
6. Il ricorso è fondato nei termini di seguito chiariti.
7. La questione centrale dibattuta nel presente giudizio attiene all’estensione del diritto di accesso della signora Zi., nella sua qualità di consigliere comunale, ai dati di sintesi del protocollo del Comune di San Martino Canavese, dovendosi stabilire se sia legittimo che, a tutela della riservatezza di dati sensibili e di diritti dei terzi, l’amministrazione oscuri l’intera registrazione di protocollo trasmessa alla ricorrente o parte di essa.
8. Rileva il Collegio come la questione sopra delineata sia stata già esaminata nella sentenza n. 215/2021 di questo Tribunale, nella quale è dato leggere quanto segue: “la difesa dell’amministrazione comunale ha contestato che aderire alla richiesta della ricorrente significherebbe consentire un accesso generalizzato e non controllato che travalicherebbe i confini della proporzionalità e della ragionevolezza, che avrebbe ad oggetto anche dati sensibili e soggetti a privacy, in assenza delle necessarie garanzie sul trattamento dei dati personali, e notizie e documenti sottratti all’ambito di esercizio delle funzioni del consigliere, in quanto afferenti ad attività svolte dall’amministrazione per conto dello Stato e di altri soggetti istituzionali.
Il Collegio non condivide queste obiezioni.
L’art. 43, c. 2, TUEL consente al consigliere comunale di accedere a tutte le notizie e informazioni in possesso dell’amministrazione comunale, ritenute utili all’espletamento del mandato. La richiesta presentata dalla ricorrente ha ad oggetto non il contenuto della documentazione registrata al protocollo ma i soli dati di sintesi: ciò è sufficiente ad escludere che porti ad un accesso generalizzato e a un travalicamento dei limiti della ragionevolezza e proporzionalità. Né costituisce ostacolo l’eventuale natura riservata dei dati poiché il consigliere è vincolato al segreto d'ufficio.
Questa conclusione si pone in linea con la giurisprudenza maggioritaria che, in più occasioni, ha affermato il diritto del consigliere ad accedere al protocollo informatico dell’ente mediante password (Tar Sardegna, sent. n. 531/2018, n. 317/2019; Tar Campania, Salerno, sent. n. 545/2019, Tar Basilicata, sent. n. 599/2019) o comunque mediante esibizione di copia cartacea dei dati di sintesi del protocollo informatico (Tar Sicilia, Catania, sent. n. 926/2020)
”.
9. La pronuncia da ottemperare ha espressamente stabilito che il diritto di accesso del consigliere comunale non è ostacolato, né limitato, dal carattere “sensibile” delle informazioni oggetto dell’istanza ostensiva, in considerazione del vincolo di segretezza –con le conseguenti responsabilità civili, penali e amministrative– qualora egli prenda visione di atti e documenti riservati che incidono sulla sfera giuridica e soggettiva di terzi.
Una volta verificato che la sentenza in questione ha riconosciuto alla ricorrente il diritto di accesso ai dati di sintesi del protocollo anche se contenenti dati riservati, l’amministrazione è tenuta a consentirne l’esercizio in termini integrali e senza oscuramenti.
La questione controversa diviene, allora, l’individuazione di modalità di accesso o di trasmissione della documentazione che consentano il necessario bilanciamento tra il diritto del consigliere comunale e il rispetto delle disposizioni in materia di tutela della privacy contenute nel Regolamento (UE) 2016/679 “relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati” e nel D.Lgs. n. 196/2003, come novellato dal D.Lgs. n. 101/2018.
Ritiene il Collegio che, ferma restando la decisione dell’amministrazione in ordine alle concrete modalità di attuazione dell’accesso della consigliera Zi. in base alle esigenze organizzative dell’ente (purché satisfattive di tale diritto), possano in linea di principio ritenersi compatibili sia la consegna brevi manu, sia la trasmissione della documentazione in via telematica.
9.1. Nel primo caso, la richiedente ha l’onere di ritirare la documentazione presso gli uffici comunali, nell’orario e nel giorno che, con cadenza periodica, verrà indicato dall’amministrazione, tenuto conto del tempo necessario all’estrazione delle copie e delle esigenze organizzative in rapporto allo svolgimento delle normali attività comunali. Difatti, come evidenziato nella sentenza n. 215/2021, l’esercizio del diritto di accesso del consigliere non può avvenire a discapito della funzione pubblica, ma deve “comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali”, secondo un principio di bilanciamento che è volto a garantire il soddisfacimento dell’esigenze conoscitive della ricorrente e il dovere di adempiere correttamente alle funzioni proprie dell’ente.
9.2. Nel secondo caso, l’amministrazione può individuare a propria discrezione modalità di invio dematerializzato della documentazione (tramite pec, su supporto informatico da consegnare al richiedente, tramite condivisione di files o utilizzando il cloud) conformemente a quanto previsto dall’art. 2 del D.Lgs. n. 82/2005, secondo cui “(…) le autonomie locali assicurano la disponibilità, la gestione, l'accesso, la trasmissione, la conservazione e la fruibilità dell'informazione in modalità digitale e si organizzano ed agiscono a tale fine utilizzando con le modalità più appropriate le tecnologie dell'informazione e della comunicazione”.
Analogamente, l’amministrazione può provvedere –sempre, ripetesi, nell’ambito delle proprie valutazioni discrezionali, purché satisfattive del diritto di accesso della ricorrente– anche alla consegna alla signora Zi. di apposita password che le consenta di effettuare l’accesso ai dati di sintesi del protocollo tramite le dotazioni informatiche di pertinenza dei consiglieri, se presenti, o da altra postazione in uso presso gli uffici, oppure può disporre l’attivazione di un accesso da remoto tramite Vpn (Virtual Private Network) o con altra modalità protetta.
10. La trasmissione alla ricorrente di dati sensibili o informazioni riservate in sede di accesso agli atti comporta in ogni caso a carico dell’amministrazione –specialmente se implica l’uso di strumenti telematici– l’onere di adottare adeguate misure per garantire la legittimità del flusso di detti dati nell’ambito degli uffici e tra i soggetti interessati –tra i quali rientra, pertanto, anche il consigliere comunali che acceda a contenuti riservati– in osservanza delle vigenti previsioni in materia di tutela della privacy.
In questa prospettiva, ritiene il Collegio che l’art. 43 del D.Lgs. n. 267/2000, nel porre l’obbligo per il comune di rendere accessibili i dati in proprio possesso ai consiglieri comunali, rappresenti una delle norme di legge che permettono di trattare dati e informazioni personali per il perseguimento di finalità istituzionali ovvero, come oggi afferma l’art. 2 sexies del D.Lgs. n. 196/2003, per finalità “di interesse pubblico rilevante”.
11. Individuato il presupposto di ammissibilità del trattamento dei dati, il titolare del trattamento ai sensi del Regolamento (UE) 2016/679 –di regola il Sindaco negli enti locali– “mette in atto misure tecniche e organizzative adeguate per garantire, ed essere in grado di dimostrare, che il trattamento è effettuato conformemente al presente regolamento”, tenuto conto “della natura, dell'ambito di applicazione, del contesto e delle finalità del trattamento, nonché dei rischi aventi probabilità e gravità diverse per i diritti e le libertà delle persone fisiche” (cfr. art. 24 del citato Regolamento).
L’amministrazione dovrà quindi, per parte sua, implementare gli strumenti di tutela della privacy di cui è già dotata o adottarne dei nuovi, al fine di garantire il corretto trattamento delle informazioni riservate nell’ambito dell’esercizio del diritto di accesso della signora Zi. nella sua qualità di consigliere comunale, anche eventualmente nominandola quale soggetto “autorizzato” al trattamento dei dati personali delle persone fisiche per l’esercizio di specifiche funzioni riconducili all’art. 43 citato, figura prevista dall’art. 2-quaterdecies del D.Lgs. n. 196/2003, con le correlate responsabilità.
12. Tanto chiarito in merito alla posizione dell’amministrazione e agli oneri che sulla stessa incombono per garantire il pieno accesso della ricorrente ai dati di sintesi del protocollo dell’ente, va rammentato che le informazioni riservate di cui la signora Zi. possa venire a conoscenza devono essere utilizzate solo per finalità pertinenti all’esercizio del mandato conferito, nel rigoroso rispetto del segreto d’ufficio e dei principi in materia di privacy, con la conseguenza che questa risponde, sul piano penale, civile e amministrativo, di qualsiasi uso esorbitante da detti limiti o di ogni forma di diffusione non autorizzata di dati sensibili, anche non volontaria e dovuta a omessa o carente custodia degli stessi.
12.1. Ciò comporta che l’indicazione, da parte della ricorrente, di un indirizzo di posta elettronica certificata per la trasmissione della documentazione, unitamente all’allegazione dei documenti contrattuali provenienti dal gestore del servizio da cui risulti l’esclusiva intestazione a suo nome della casella di posta (indipendentemente dal nome riportato nell’indirizzo e salvo che l’amministrazione intenda attivare una casella di posta appositamente dedicata all’accesso della signora Zi.), è sufficiente a garantire la riconducibilità di quest’ultima alla ricorrente medesima, con ogni correlata responsabilità, di cui si è già detto, anche in merito al corretto uso di tale strumento informatico.
12.2. L’eventuale successiva condivisione abusiva di informazioni riservate o qualsiasi altra forma di uso non autorizzato di tali dati ed esorbitante dalle finalità istituzionali rientra, pertanto, nell’ambito delle condotte contrarie a legge, di cui risponde il singolo autore e che l’amministrazione potrà far valere, ove lo ritenesse, presso le competenti sedi.
13. Passando all’esame della seconda questione sollevata in ricorso, ritiene il Collegio che l’amministrazione debba consentire alla ricorrente l’accesso ai dati di sintesi del protocollo senza limiti temporali, non a partire dalla data del 20.10.2020 di presentazione dell’istanza di cui si controverteva nel giudizio concluso con l’ottemperanda sentenza n. 215/2021. L’art. 43 del D.Lgs. n. 267/2000, infatti, consente l’estensione di tale diritto a qualsiasi atto ravvisato utile per l'esercizio delle funzioni consiliari e, dunque, anche a quelli anteriori all’assunzione del mandato elettivo.
14. In conclusione, il ricorso deve essere accolto nei termini sopra chiariti, con obbligo dell’amministrazione di consentire alla consigliera Zi. l’accesso integrale e senza oscuramenti ai dati di sintesi del protocollo informatico del Comune di San Martino Canavese, come stabilito dalla sentenza di questo Tribunale n. 215/2021, adottando ogni misura organizzativa e tecnica che risulti possibile per consentire l’esercizio di tale diritto nel rispetto degli obblighi di tutela della riservatezza e di protezione dei dati sensibili di cui al D.Lgs. n. 196/2003 e al Regolamento (UE) 2016/679.
15. Non si rinvengono, allo stato, i presupposti per la nomina di un commissario ad acta e per la condanna al pagamento della ulteriore penalità di mora di cui all’art. 114, comma 4, lett. e), cod. proc. amm., considerata la peculiarità della materia, nonché la condotta dell’amministrazione e la volontà della stessa manifestata, anche negli scritti difensivi, di dare esecuzione con le adeguate garanzie al giudicato formatosi sulla sentenza di cui è stata chiesta l’ottemperanza (TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 30.12.2022 n. 1221).

settembre 2021

CONSIGLIERI COMUNALI: Le assenze da consigliere comunale devono avere valide giustificazioni.
Rimane precluso al lavoratore dipendente e consigliere, al quale ai fini per cui è causa è assimilabile anche un appartenente all'Arma dei Carabinieri sia pure posto in una posizione di elevato rango nella gerarchia militare, compiere una sorta di autovalutazione sulla prevalenza dell'interesse a prestare la propria ordinaria attività lavorativa su quello a prendere parte alle sedute consiliari, atteso che l'ordinamento rimette tale decisione al datore di lavoro e non al dipendente direttamente.
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Con il ricorso introduttivo del presente giudizio il Tenente Colonnello dell’Arma dei Carabinieri sig. Mi.Ru. ha impugnato, chiedendone l’annullamento previa sospensione degli effetti, le delibere, unitamente ai verbali, con cui il Consiglio comunale di Caiazzo ha disposto la sua decadenza dalla carica di consigliere del Comune di Caiazzo e la surroga con altro esponente per non aver preso parte alle sedute del consiglio del 28 e 30.12.2020 e del 03.03.2021;
Con nota dell’08.03.2021 il Sindaco del Comune di Caiazzo, preso atto delle suddette assenze, ha comunicato al ricorrente l’avvio del procedimento di decadenza dalla carica di consigliere.
Con nota del giorno successivo il Ten. Col Ru. ha rappresentato “che nelle date del 28 e 30.12.2020 e 03.03.2021, è stato impossibilitato a partecipare alle riunioni del Consiglio comunale in quanto, in qualità di Tenente Colonnello dei Carabinieri, Capo Ufficio OAIO (Operazioni, Informazioni, Addestramento e Ordinamento) della Divisione Unità Specializzate Carabinieri in Roma, non ha potuto usufruire del permesso di cui all’art. 79 del Decreto Legislativo n. 267/2000 a causa di primarie esigenze di servizio”, aggiungendo, inoltre, “che la distanza intercorrente tra i Comuni di Roma e Caiazzo, a causa dei considerevoli tempi di percorrenza di andata/ritorno con autovettura/mezzo pubblico, non consente di assentarsi dal Comando di appartenenza nella giornata lavorativa limitatamente alla durata della riunione consiliare”.
Il ricorrente allegava alle proprie deduzioni la nota del 16.03.2021 con cui il proprio superiore attestava che “nelle date del 28 e 30.12.2020, nonché del 03.03.2021 il Tenente Colonnello Mi.Ru., Capo Ufficio OAIO di questa Divisione Unità Specializzate Carabinieri è stato impegnato in servizio”.
Nonostante le deduzioni prodotte, in data 02.04.2021 il Consiglio comunale deliberava la decadenza del ricorrente dalla carica di consigliere comunale, ritenendo non fondate le deduzioni prodotte dall’interessato.
Al fine di ricostituire la composizione dell’organo consiliare nei termini e nei numeri stabiliti dalla Legge, nella seduta del 16/04/2021, ha deliberato di procedere alla surroga del consigliere ricorrente con il dott. An.Co..
Avverso i provvedimenti sopra menzionati parte ricorrente ha dedotto: ...
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Oggetto dell’odierno giudizio sono i provvedimenti con i quali il Consiglio comunale di Caiazzo ha dichiarato la decadenza del ricorrente dalla carica di consigliere, per non aver preso parte a tre sedute consecutive del consiglio e, poi, ha disposto la surroga del ricorrente con altro esponente.
Avverso tali atti parte ricorrente eccepisce il difetto di motivazione della delibera di decadenza e l’infondatezza della stessa perché non avrebbe tenuto conto che il sig. Ru. era chiamato ad espletare importanti impegni di servizio per l’Arma dei Carabinieri, come da attestazioni proprie e del proprio superiore che il Comune convenuto avrebbe giudicato insufficienti senza motivazione. Il sig. Ru. lamenta poi l’illegittimità derivata della delibera di surroga e l’eccesso di potere per una pretesa discriminazione che essa determinerebbe ai propri danni.
I rilievi, che per la loro connessione possono essere esaminati congiuntamente, sono complessivamente infondati.
L’art. 79 del d.Lgs. 267/2000 stabilisce che «i lavoratori dipendenti, pubblici e privati, componenti dei consigli comunali, provinciali, metropolitani, delle comunità montane e delle unioni di comuni, nonché dei consigli circoscrizionali dei comuni con popolazione superiore a 500.000 abitanti, hanno diritto di assentarsi dal servizio per il tempo strettamente necessario per la partecipazione a ciascuna seduta dei rispettivi consigli e per il raggiungimento del luogo di suo svolgimento».
Ai sensi dell’art. 43, co. 4, del d.lgs. n. 267/2000 “Lo statuto stabilisce i casi di decadenza per la mancata partecipazione alle sedute e le relative procedure, garantendo il diritto del consigliere a far valere le cause giustificative”.
L’art. 32 dello Statuto comunale stabilisce che una volta avviato il procedimento «il Consigliere ha la facoltà di far rilevare le cause giustificative delle assenze, nonché a fornire al Sindaco eventuali documenti probatori, entro il termine indicato nella comunicazione scritta, che comunque non può essere inferiore a giorni 20 decorrenti dalla data del ricevimento. Scaduto quest’ultimo termine, il Consiglio esamina ed infine delibera tenuto adeguata-mente conto delle cause giustificative presentate da parte del Consigliere interessato».
In questo quadro normativo la gravata delibera approvata dal Consiglio comunale risulta puntualmente motivata, atteso che reca in allegato la proposta sulla quale il Consiglio si è espresso a maggioranza e che indica specificamente le ragioni per le quali ha ravvisato i presupposti per dichiarare la decadenza del ricorrente.
Ed infatti, si legge nella proposta approvata che la motivazione addotta dal ricorrente è stata ritenuta non sufficiente per la “genericità delle cause giustificative delle assenze, perché legate ad attività “ordinarie” e non eccezionali di lavoro, rispetto alle quali il TUEL prevede specifici permessi idonei proprio ad assicurare la presenza assidua ai lavori del Consesso ed a garantire, quindi, lo svolgimento del mandato elettorale nel rispetto della fiducia attribuita ad ogni singolo Consigliere dai cittadini; ad abundantiam, ulteriore motivazione è altresì la fondamentale importanza degli argomenti agli o.d.g. delle tre sedute consiliari in cui il Consigliere è risultato assente, laddove quindi la presenza era richiesta come necessario ed indispensabile momento di esercizio del munus publicum”.
Sul punto la giurisprudenza ha affermato che «non può ritenersi giustificata l'assenza alle sedute consiliari per motivi di lavoro, in quanto la ricorrente, essendo una lavoratrice subordinata, ai sensi degli artt. 79 e 80 D.Lgs. n. 267 del 2000 ha diritto ad assentarsi dal lavoro con permesso retribuito per la partecipazione a ciascuna seduta del Consiglio Comunale» (TAR Basilicata, sez. I, n. 236/2021).
Nel caso di specie dall’attestazione rilasciata dal superiore gerarchico del ricorrente risulta esclusivamente che il sig. Ru. era presente a lavoro, senza, tuttavia, indicare alcuna specifica esigenza di servizio che avrebbe motivato il diniego del permesso alla partecipazione; anzi non risulta che il ricorrente abbia effettivamente richiesto all’Arma la possibilità di assentarsi dal lavoro per prendere parte alla seduta del Consiglio comunale di Caiazzo.
Ne consegue che è stato il ricorrente in via autonoma a ritenere prevalenti le esigenze di servizio rispetto a quelle di prendere parte alle sedute del Consiglio comunale, per cui seppure non possa concludersi nel senso che egli abbia manifestato disinteresse rispetto alla partecipazione all’attività dell’organo, può comunque affermarsi che egli abbia ritenuto prevalente l’interesse a prestare la propria attività lavorativa ordinaria rispetto alla partecipazione alle sedute del Consiglio, laddove il sistema prevede che il dipendente (pubblico o privato), eletto alla carica di consigliere comunale, abbia diritto ad assentarsi dal lavoro fruendo dei relativi permessi ex lege e sia, anzi tenuto a richiedere al proprio datore di assentarsi, salvo che sussistano prevalenti esigenze di servizio che siano attestate dal proprio ente datoriale.
Ciò che quindi rimane precluso al lavoratore dipendente, al quale ai fini per cui è causa è assimilabile anche un appartenente all’Arma dei Carabinieri sia pure posto in una posizione di elevato rango nella gerarchia militare, è compiere una sorta di autovalutazione sulla prevalenza dell’interesse a prestare la propria ordinaria attività lavorativa su quello a prendere parte alle sedute consiliari, atteso che l’ordinamento rimette tale decisione al datore di lavoro e non al dipendente direttamente, il quale, partecipando alla competizione elettorale e avendo acquisito la carica di consigliere, deve ritenersi, comunque, tenuto a richiedere i permessi necessari a svolgere il proprio incarico rappresentativo.
Deve quindi ritenersi che la valutazione in ordine alla decadenza del ricorrente operata dal Consiglio comunale di Caiazzo sia immune dai vizi denunciati, in quanto dotata di una motivazione congrua individuata nell’assenza dei presupposti legali per assentarsi dalle sedute consiliari, in linea con il quadro dei principi normativi e giurisprudenziali sopra brevemente illustrato.
Ne consegue che anche la delibera di surroga sia legittima, atteso che il Consiglio era tenuto a procedere alla sostituzione del ricorrente dichiarato decaduto con altro esponente, senza che in tale attività sia ravvisabile alcuna discriminazione ai danni del ricorrente, trattandosi, anzi di un atto dovuto e volto a garantire la continuità di funzionamento dell’organo.
In definitiva tutte le censure si appalesano infondate e il ricorso deve conseguentemente essere respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 14.09.2021 n. 5884 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

giugno 2021

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALILa giurisprudenza amministrativa è unanime nell’affermare che i consiglieri comunali vantano un incondizionato diritto di accesso –prevalente anche sull’eventuale diritto alla riservatezza dei terzi coinvolti dalle istanze ostensive, tenuto conto del segreto d’ufficio cui gli stessi sono tenuti- a tutti gli atti che possono essere utili all'espletamento delle loro funzioni.
Ciò anche al fine di valutare la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio oltre che per promuovere, nell'ambito di quest’ultimo, tutte le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
Il diritto di cui all’art. 43 citato T.U.E.L. presenta, dunque, una ratio diversa da quella che contraddistingue l’accesso ai documenti amministrativi di cui agli artt. 22 e ss. L. n. 241/1990 -riconosciuto a chiunque sia portatore di un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso- in quanto strettamente funzionale all'esercizio del munus pubblico di consigliere comunale e, quindi, alla verifica ed al controllo dell’operato degli organi decisionali dell'ente locale, quale espressione del principio democratico dell'autonomia locale e della rappresentanza esponenziale della collettività.
Siffatto diritto, quindi, al fine di «evitare che sia la stessa Amministrazione a diventare arbitro dell'ambito del controllo sul proprio operato […] non incontra alcuna limitazione in relazione alla eventuale natura riservata degli atti, stante il vincolo al segreto d'ufficio ex art. 622 cod. pen., e alla necessità di fornire la motivazione della richiesta. In definitiva gli unici limiti all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali possono rinvenirsi, per un verso, nel fatto che esso deve avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali e, per altro verso, che esso non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche ovvero meramente emulative, fermo restando tuttavia che la sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto stesso».
Ancor più di recente è stato ribadito che: «La giurisprudenza, con un sufficiente grado di stabilità, ha ritenuto che i consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento del loro mandato, ciò anche al fine di permettere di valutare, con piena cognizione, la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
Di conseguenza sul consigliere comunale non può gravare alcun particolare onere di motivare le proprie richieste di accesso, atteso che, diversamente opinando, sarebbe introdotto una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio del mandato del consigliere comunale; dal termine "utili" contenuto nel prima ricordato art. 43 non può conseguire alcuna limitazione al diritto di accesso dei consiglieri comunali, detto aggettivo servendo in realtà a garantire l'estensione di tale diritto di accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per l'esercizio del mandato.
Ciò in quanto il diritto di accesso del consigliere comunale non riguarda solamente le competenze attribuite al Consiglio comunale, ma, essendo riferito all'espletamento del mandato, investe l'esercizio del munus in tutte le sue potenziali implicazioni, al fine di consentire la valutazione della correttezza ed efficacia dell'operato dell'amministrazione comunale.
Corollario di tale impostazione è che non può essere legittimamente opposto un diniego sull'istanza di accesso dei consiglieri motivato con riferimento alla esigenza di assicurare la riservatezza dei dati contenuti nei documenti richiesti e dunque il diritto alla privacy di soggetti terzi, in quanto, con riguardo all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali, tale esigenza è salvaguardata dall'art. 43, comma 2, dello stesso d.lgs. n. 267 del 2000, che impone ad essi il segreto ove accedano ad atti che incidono sulla sfera giuridica e soggettiva di terzi.
La natura del diritto (soggettivo pubblico) di accesso dei consiglieri comunali e le prerogative allo stesso connesse comporta, per un'esigenza di coerenza dell'ordinamento, riflessi anche sul piano processuale, invero in poche occasioni approfonditi in sede applicativa, ma che inducono a condividere l'assunto dell'appellante, secondo cui nella materia dell'accesso dei consiglieri comunali non è configurabile una posizione di controinteresse in capo al soggetto portatore dell'interesse alla riservatezza.
Si intende cioè osservare che, non contemplando il diritto di accesso del consigliere comunale i vincoli e le limitazioni previsti dalla disciplina generale di cui alla legge n. 241 del 1990 (ed in particolare quelli relativi alla riservatezza dei terzi), neppure in sede processuale assume rilievo la posizione del terzo che potrebbe opporsi all'accesso, e pertanto non è configurabile alcun controinteressato».
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L’applicazione dei principi testé esposti al caso in esame conduce all’accertamento giurisdizionale del diritto degli odierni ricorrenti ad avere accesso, per come dagli stessi richiesto, a tutti gli atti e documenti di cui ai fascicoli edilizi, di condono edilizio e di vigilanza edilizia relativi al complesso immobiliare di proprietà -OMISSIS-, in Catasto al -OMISSIS-, -OMISSIS-, in quanto oggetto di una segnalazione in ordine a possibili abusi e ciò allo scopo di vigilare in ordine alla correttezza dell’attività amministrativa fin qui posta in essere.
L’istanza ostensiva in parola, oltre a soddisfare la ratio legis sottesa all’art. 43, comma 2, citato T.U.E.L. è, inoltre, assentibile anche in quanto precisa, puntuale e, come tale, non comportante alcun aggravio per gli uffici comunali i quali ben possono –rectius devono- evaderla senza alcun differimento di sorta.
Il sostanziale rifiuto di evadere la richiesta ostensiva in questione non può, peraltro, trovare giustificazione nell’asserita esistenza -peraltro evidenziata soltanto in giudizio dalla difesa dell’ente– del segreto istruttorio di cui all’art. art. 329, comma 1, c.p.p.
Ed invero, innanzitutto, dalla produzione documentale agli atti del giudizio si evince la mera pendenza, avuto riguardo al compendio immobiliare -OMISSIS-, di un procedimento di vigilanza urbanistico-edilizia, azionato dall’Ufficio Tecnico comunale in sinergia con la Polizia Municipale, rientrante nell’ordinaria sfera di competenza dell’ente locale, secondo quanto disposto dall’art. 27, comma 1, D.P.R. n. 380/2001, a norma del quale: «Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale esercita, anche secondo le modalità stabilite dallo statuto o dai regolamenti dell'ente, la vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi».
Risulta, inoltre, che l’amministrazione stia valutando le risultanze di siffatta attività di vigilanza a valle della quale redigerà una relazione finale in cui darà conto degli eventuali abusi riscontrati e dell’eventuale rilevanza penale degli stessi, con i connessi obblighi di informazione nei confronti dell’Autorità Giudiziaria penale.
L’attività di vigilanza in parola, non essendo qualificabile in termini di attività di indagine penale, tale dovendosi ritenere, a mente dell’art. 329 c.p.p., esclusivamente quella compiuta dal “pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria”, è doverosamente ostensibile, per le ragioni sopra esposte, nei confronti dei consiglieri comunali istanti.
A tale conclusione si dovrebbe giungere anche nel caso in cui, a valle della chiusura di siffatto procedimento amministrativo di vigilanza, l’ente dovesse determinarsi a trasmettere all’Autorità Giudiziaria Penale i relativi atti istruttori e provvedimentali, successivamente adottati.
Ed invero, l’eventuale migrazione di tali atti nel fascicolo del procedimento penale che dovesse essere, conseguentemente, avviato non sarebbe idonea a modificare la natura “amministrativa” degli accertamenti compiuti dall’ente i quali, non essendo stati realizzati né dal pubblico ministero né dalla polizia giudiziaria, continuerebbero a rimanere ostensibili dal Comune anche in pendenza di siffatto procedimento penale, giacché non “coperti” dal cd. segreto istruttorio di cui all’art. 329 c.p.p.
Quanto sopra trova riscontro in quel condivisibile orientamento anche di questo Tribunale, secondo cui «L'esistenza di un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso. Infatti, soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da una pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque, restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto che non intervenga uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso garantito all'interessato dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di cui all'art. 24, 1. n. 241 del 1990"».
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... per l’annullamento:
   - della nota prot. n. 9372 del 22.02.2021, a firma del Dirigente Arch. Ma. Di St., di diniego dell'istanza di accesso agli atti;
   - della nota prot. n. 10003 del 24.02.2021 a firma del Dirigente Arch. Ma. Di St., di diniego dell'istanza di accesso agli atti e di conclusione del procedimento.
per l'accertamento:
   - dell’illegittimità del diniego di accesso agli atti;
e per la condanna:
   - dell'Amministrazione intimata a consentire l'accesso mediante visione ed estrazione di copie di atti e documenti relativi alla richiesta formulata in data 18.11.2020, prot. n. 52706.
...
1. Con ricorso tempestivamente notificato e depositato in data 24.03.2021, i ricorrenti, nella espressa qualità di consiglieri comunali del Comune di Cerveteri, mercé l’impugnazione delle note comunali in epigrafe indicate, di contenuto sostanzialmente reiettivo, hanno chiesto l’accertamento giurisdizionale del proprio diritto ad avere accesso, ai sensi dell’art. 43, comma 2, D.lgs. n. 267/2002, ai documenti amministrativi appresso indicati, relativi a taluni interventi edilizi, residenziali e non, insistenti nel territorio comunale di Cerveteri, in area contraddistinta al -OMISSIS-, -OMISSIS-(località -OMISSIS- di -OMISSIS-) di proprietà della famiglia -OMISSIS-, in quanto oggetto di segnalazioni anonime che ne denunciano il carattere abusivo:
   1) Visura e copia conforme originale della regolare licenza di costruzione degli immobili realizzati sulla -OMISSIS--OMISSIS- in località -OMISSIS- di -OMISSIS- nella via di -OMISSIS- del Comune di Cerveteri (come da piantina allegata alla segnalazione denuncia);
   2) Visura e copia conforme originale di eventuale condono o condoni inerenti gli immobili realizzati sulla -OMISSIS--OMISSIS- in località -OMISSIS- di -OMISSIS- nella via di -OMISSIS- del Comune di Cerveteri (come da piantina allegata alla segnalazione denuncia);
   3) Visura e copia conforme originale di eventuali verbali di sopralluogo della polizia edilizia (Polizia locale), avvenuto accertamento, sanzioni e ordinanze con relativa trasmissione alle Autorità di competenza inerenti ai presunti abusi edilizi, riguardanti varie costruzioni residenziali e non presenti su -OMISSIS--OMISSIS- in località -OMISSIS- di -OMISSIS- nella via di -OMISSIS- del Comune di Cerveteri (come da piantina allegata alla segnalazione denuncia);
   4) Visura e copia conforme originale di eventuali procedure e azioni finalizzate alla demolizione e/o all’acquisizione al Patrimonio Pubblico, messe in atto dal competente Ufficio Urbanistica e dalla Polizia Locale di Cerveteri, inerenti i presunti abusi edilizi riguardanti varie costruzioni residenziali e non presenti su -OMISSIS--OMISSIS- in località -OMISSIS- di -OMISSIS- nella via di -OMISSIS- del Comune di Cerveteri (come da piantina in allegato presente nella pervenuta segnalazione denuncia);
   5) Visura e copia conforme originale, se esistenti, di eventuali ordinanze, procedure, denunce, atti e/o azioni con i quali, a fronte della eventuale constatazione di presunti abusi edilizi, riguardanti varie costruzioni residenziali e non presenti su -OMISSIS--OMISSIS- in località -OMISSIS- di -OMISSIS- nella via di -OMISSIS- del Comune di Cerveteri, sono stati perseguiti gli eventuali responsabili debitamente individuati dai soggetti coinvolti e dalle competenti Autorità.
2. A fronte dell’istanza in parola, l’amministrazione comunale forniva ai ricorrenti dati ed informazioni ritenuti parziali rispetto all’oggetto di ostensione.
Più precisamente, a mezzo pec del 24.02.2021, il Responsabile della Polizia Municipale informava i ricorrenti che gli accertamenti in ordine a possibili violazioni della vigente disciplina urbanistico-edilizia nell’area del territorio comunale attenzionata erano ancora in corso e che si era in attesa che l’Ufficio Tecnico, a valle dell’attività di vigilanza, redigesse una relazione finale ricognitiva dell’esistenza di eventuali abusi che, ove esistenti, sarebbero stati perseguiti, mediante l’adozione delle correlate misure di cui gli istanti sarebbero stati informati.
3. Il gravame risulta affidato a plurimi motivi di diritto, tutti sostanzialmente tendenti all’affermazione del proprio diritto, nella qualità di consiglieri comunali, ad avere accesso incondizionato a tutti gli atti richiesti, attinenti la realizzazione di possibili abusi edilizi, in quanto utili all’espletamento del loro mandato, anche al fine di vigilare sulla correttezza, trasparenza ed efficienza dell’agere dell’ente locale, secondo quanto previsto dall’art. 43, comma 2, D.lgs. n. 267/2000 (T.U.E.L.).
4. Il Comune di Cerveteri ha resistito al gravame mediante articolate deduzioni difensive, tendenti a contestare il diritto dei ricorrenti ad avere accesso agli atti dei fascicoli edilizi relativi agli interventi attenzionati dall’amministrazione, all’uopo opponendo, per un verso, l’inesistenza di parte della documentazione richiesta, avuto specifico riguardo alle misure sanzionatorie eventualmente già adottate, e, per l’altro, il segreto istruttorio cui sarebbero tenuti la Polizia Municipale e l’Ufficio Urbanistica in relazione agli accertamenti in corso.
5. In data 21.05.2021, la difesa dell’ente ha depositato nota prot. n. 25063 del 20.05.2021, con cui il Comandante della Polizia Municipale ha notiziato i ricorrenti in ordine alle date dei sopralluoghi effettuati, congiuntamente a personale dell’Ufficio Tecnico, presso il complesso edilizio di proprietà -OMISSIS-, tra i -OMISSIS-, ribandendo il differimento dell’accesso all’esito dell’elaborazione delle relative risultanze che sarebbero state compendiate nella “specifica relazione tecnica” finale.
6. In occasione della camera di consiglio dell’01.06.2021, in vista della quale i ricorrenti hanno insistito nelle proprie richieste ostensive, ritenendole non soddisfatte dalle comunicazioni interlocutorie inoltrate dall’amministrazione, la causa è stata trattenuta in decisione.
7. Il ricorso è fondato.
8. L’accertamento del diritto dei consiglieri comunali, odierni ricorrenti, ad avere accesso a tutti gli atti e documenti amministrativi richiesti, di fatto coincidenti con tutti quelli inerenti i fascicoli edilizi, di condono edilizio nonché di vigilanza edilizia relativi agli edifici di proprietà -OMISSIS-, insistenti sull’area contraddistinta in Catasto al -OMISSIS-, -OMISSIS- del territorio comunale di Cerveteri, passa dalla preliminare ricognizione della ratio sottesa alla disposizione normativa di cui all’art. 43, comma 2, D.lgs. n. 267/2000, a norma della quale «I consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato. Essi sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge».
Sul punto, la giurisprudenza amministrativa, condivisa dal Collegio, è unanime nell’affermare che i consiglieri comunali vantano un incondizionato diritto di accesso –prevalente anche sull’eventuale diritto alla riservatezza dei terzi coinvolti dalle istanze ostensive, tenuto conto del segreto d’ufficio cui gli stessi sono tenuti- a tutti gli atti che possono essere utili all'espletamento delle loro funzioni.
Ciò anche al fine di valutare la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio oltre che per promuovere, nell'ambito di quest’ultimo, tutte le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
8.1 Il diritto di cui all’art. 43 citato T.U.E.L. presenta, dunque, una ratio diversa da quella che contraddistingue l’accesso ai documenti amministrativi di cui agli artt. 22 e ss. L. n. 241/1990 -riconosciuto a chiunque sia portatore di un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso- in quanto strettamente funzionale all'esercizio del munus pubblico di consigliere comunale e, quindi, alla verifica ed al controllo dell’operato degli organi decisionali dell'ente locale, quale espressione del principio democratico dell'autonomia locale e della rappresentanza esponenziale della collettività.
Siffatto diritto, quindi, al fine di «evitare che sia la stessa Amministrazione a diventare arbitro dell'ambito del controllo sul proprio operato […] non incontra alcuna limitazione in relazione alla eventuale natura riservata degli atti, stante il vincolo al segreto d'ufficio ex art. 622 cod. pen., e alla necessità di fornire la motivazione della richiesta. In definitiva gli unici limiti all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali possono rinvenirsi, per un verso, nel fatto che esso deve avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali e, per altro verso, che esso non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche ovvero meramente emulative, fermo restando tuttavia che la sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto stesso» (così TAR Sicilia, Catania, sez. I, 04/05/2020, n. 926; cfr. anche, TAR Piemonte, Torino, sez. II, 01/03/2021, n. 215; TAR Emilia Romagna, Parma, sez. I, 20/01/2020, n. 16).
Ancor più di recente è stato ribadito che: «La giurisprudenza, con un sufficiente grado di stabilità, ha ritenuto che i consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento del loro mandato, ciò anche al fine di permettere di valutare, con piena cognizione, la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
Di conseguenza sul consigliere comunale non può gravare alcun particolare onere di motivare le proprie richieste di accesso, atteso che, diversamente opinando, sarebbe introdotto una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio del mandato del consigliere comunale; dal termine "utili" contenuto nel prima ricordato art. 43 non può conseguire alcuna limitazione al diritto di accesso dei consiglieri comunali, detto aggettivo servendo in realtà a garantire l'estensione di tale diritto di accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per l'esercizio del mandato (così, tra le tante, Cons. Stato, V, 17.09.2010, n. 6963).
Ciò in quanto il diritto di accesso del consigliere comunale non riguarda solamente le competenze attribuite al Consiglio comunale, ma, essendo riferito all'espletamento del mandato, investe l'esercizio del munus in tutte le sue potenziali implicazioni, al fine di consentire la valutazione della correttezza ed efficacia dell'operato dell'amministrazione comunale.
Corollario di tale impostazione è che non può essere legittimamente opposto un diniego sull'istanza di accesso dei consiglieri motivato con riferimento alla esigenza di assicurare la riservatezza dei dati contenuti nei documenti richiesti e dunque il diritto alla privacy di soggetti terzi, in quanto, con riguardo all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali, tale esigenza è salvaguardata dall'art. 43, comma 2, dello stesso d.lgs. n. 267 del 2000, che impone ad essi il segreto ove accedano ad atti che incidono sulla sfera giuridica e soggettiva di terzi (Cons. Stato, V, 11.12.2013, n. 5931).
La natura del diritto (soggettivo pubblico) di accesso dei consiglieri comunali e le prerogative allo stesso connesse comporta, per un'esigenza di coerenza dell'ordinamento, riflessi anche sul piano processuale, invero in poche occasioni approfonditi in sede applicativa, ma che inducono a condividere l'assunto dell'appellante, secondo cui nella materia dell'accesso dei consiglieri comunali non è configurabile una posizione di controinteresse in capo al soggetto portatore dell'interesse alla riservatezza.
Si intende cioè osservare che, non contemplando il diritto di accesso del consigliere comunale i vincoli e le limitazioni previsti dalla disciplina generale di cui alla legge n. 241 del 1990 (ed in particolare quelli relativi alla riservatezza dei terzi), neppure in sede processuale assume rilievo la posizione del terzo che potrebbe opporsi all'accesso, e pertanto non è configurabile alcun controinteressato
» (così Consiglio di Stato sez. V, 19/04/2021, n. 3161).
9. L’applicazione dei principi testé esposti al caso in esame conduce all’accertamento giurisdizionale del diritto degli odierni ricorrenti ad avere accesso, per come dagli stessi richiesto, a tutti gli atti e documenti di cui ai fascicoli edilizi, di condono edilizio e di vigilanza edilizia relativi al complesso immobiliare di proprietà -OMISSIS-, in Catasto al -OMISSIS-, -OMISSIS-, in quanto oggetto di una segnalazione in ordine a possibili abusi e ciò allo scopo di vigilare in ordine alla correttezza dell’attività amministrativa fin qui posta in essere (in tema di accesso dei consiglieri comunali agli atti di cui alle pratiche edilizie, si veda TAR Puglia, Bari, sez. III, 04/06/2019, n. 795).
10. L’istanza ostensiva in parola, oltre a soddisfare la ratio legis sottesa all’art. 43, comma 2, citato T.U.E.L. è, inoltre, assentibile anche in quanto precisa, puntuale e, come tale, non comportante alcun aggravio per gli uffici comunali i quali ben possono –rectius devono- evaderla senza alcun differimento di sorta.
Il sostanziale rifiuto di evadere la richiesta ostensiva in questione non può, peraltro, trovare giustificazione nell’asserita esistenza -peraltro evidenziata soltanto in giudizio dalla difesa dell’ente– del segreto istruttorio di cui all’art. art. 329, comma 1, c.p.p.
Ed invero, innanzitutto, dalla produzione documentale agli atti del giudizio si evince la mera pendenza, avuto riguardo al compendio immobiliare -OMISSIS-, di un procedimento di vigilanza urbanistico-edilizia, azionato dall’Ufficio Tecnico comunale in sinergia con la Polizia Municipale, rientrante nell’ordinaria sfera di competenza dell’ente locale, secondo quanto disposto dall’art. 27, comma 1, D.P.R. n. 380/2001, a norma del quale: «Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale esercita, anche secondo le modalità stabilite dallo statuto o dai regolamenti dell'ente, la vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi».
Risulta, inoltre, che l’amministrazione stia valutando le risultanze di siffatta attività di vigilanza, espletata nel corso dei sopralluoghi del 18.02.2021, 04.03.2001 e 20.05.2001, a valle della quale redigerà una relazione finale in cui darà conto degli eventuali abusi riscontrati e dell’eventuale rilevanza penale degli stessi, con i connessi obblighi di informazione nei confronti dell’Autorità Giudiziaria penale.
10.1 L’attività di vigilanza in parola, non essendo qualificabile in termini di attività di indagine penale, tale dovendosi ritenere, a mente dell’art. 329 c.p.p., esclusivamente quella compiuta dal “pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria”, è doverosamente ostensibile, per le ragioni sopra esposte, nei confronti dei consiglieri comunali istanti.
A tale conclusione si dovrebbe giungere anche nel caso in cui, a valle della chiusura di siffatto procedimento amministrativo di vigilanza, l’ente dovesse determinarsi a trasmettere all’Autorità Giudiziaria Penale i relativi atti istruttori e provvedimentali, successivamente adottati.
Ed invero, l’eventuale migrazione di tali atti nel fascicolo del procedimento penale che dovesse essere, conseguentemente, avviato non sarebbe idonea a modificare la natura “amministrativa” degli accertamenti compiuti dall’ente i quali, non essendo stati realizzati né dal pubblico ministero né dalla polizia giudiziaria, continuerebbero a rimanere ostensibili dal Comune anche in pendenza di siffatto procedimento penale, giacché non “coperti” dal cd. segreto istruttorio di cui all’art. 329 c.p.p.
Quanto sopra trova riscontro in quel condivisibile orientamento anche di questo Tribunale, secondo cui «L'esistenza di un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso. Infatti, soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da una pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque, restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto che non intervenga uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso garantito all'interessato dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di cui all'art. 24, 1. n. 241 del 1990" (TAR Catania, (Sicilia) sez. III, 01/02/2017, n. 229)» (così TAR Lazio-Roma, sez. II, 02/01/2020, n. 4).
11. Sulla scorta delle superiori considerazioni, il ricorso è fondato, con conseguente accertamento del diritto dei consiglieri comunali ricorrenti ad avere visione ed estrarre copia degli atti e documenti richiesti con l’istanza del 18.11.2020, prot. n. 52706 appresso indicati, ove esistenti:
   - Visura e copia conforme originale della regolare licenza di costruzione degli immobili realizzati sulla -OMISSIS--OMISSIS- in località -OMISSIS- di -OMISSIS- nella via di -OMISSIS- del Comune di Cerveteri (come da piantina allegata pervenuta segnalazione denuncia);
   - Visura e copia conforme originale di eventuale condono o condoni inerenti gli immobili realizzati sulla -OMISSIS--OMISSIS- in località -OMISSIS- di -OMISSIS- nella via di -OMISSIS- del Comune di Cerveteri (come da piantina allegata alla segnalazione denuncia);
   - Visura e copia conforme all’originale di tutti i verbali relativi ai sopralluoghi fin qui posti in essere presso gli immobili realizzati sulla -OMISSIS--OMISSIS- in località -OMISSIS- di -OMISSIS- nella via di -OMISSIS- del Comune di Cerveteri, allo stato indicati dal Comune in relazione degli accessi del 18.02.2021; 04.03.2021 e 20.05.2021, e di quelli eventualmente a venire.
Con espressa declaratoria del diritto dei ricorrenti ad avere copia, già richiesta, della relazione conclusiva che verrà elaborata a chiusura della suddetta attività di vigilanza edilizia nonché degli eventuali provvedimenti repressivo-sanzionatori che l’amministrazione ritenesse di adottare, con eventuale nota di trasmissione alle Autorità di competenza.
11.2 Va, dunque, ordinato al Comune di Cerveteri di esibire gli atti sopra indicati, anche mediante estrazione di copia, nel termine di trenta giorni dalla comunicazione e/o notificazione, se anteriore, della presente sentenza ovvero dall’intervenuta formazione degli stessi (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 21.06.2021 n. 7338 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

marzo 2021

CONSIGLIERI COMUNALI: Il consigliere comunale ha diritto di accesso:
   - ai dati di sintesi del protocollo informatico, ossia numero di registrazione al protocollo, data, mittente, destinatario, modalità di acquisizione, oggetto, sia mediante la visione sia mediante il rilascio di copia cartacea;
   - ai CUD di alcuni dipendenti nonché a tutti i documenti, contenuti nei fascicoli degli stessi, relativi al trattamento economico e alla carriera.
L'art. 43 del TUEL attribuisce ai consiglieri comunali il diritto di ottenere dagli uffici tutte le notizie e informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del loro mandato.
La giurisprudenza delinea questo diritto affermando come esso sia direttamente funzionale non tanto all'interesse del consigliere comunale (o provinciale) quanto alla cura dell'interesse pubblico connessa al mandato conferito: i consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento delle loro funzioni, ciò anche al fine di permettere di valutare -con piena cognizione- la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
Ne consegue, per un verso, che sul consigliere comunale non può gravare alcun particolare onere di motivare le proprie richieste di accesso, atteso che, diversamente opinando, sarebbe introdotta una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio delle funzioni del consigliere comunale, e, per altro verso, che dal termine "utili", contenuto nell'articolo 43 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267, non può conseguire alcuna limitazione al diritto di accesso dei consiglieri comunali, poiché tale aggettivo comporta in realtà l'estensione di tale diritto di accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per l'esercizio delle funzioni.
La giurisprudenza ritiene inoltre che il diritto del consigliere comunale ad ottenere dall'ente tutte le informazioni utili all'espletamento delle funzioni non incontri neppure alcuna limitazione derivante dalla loro eventuale natura riservata, in quanto il consigliere è vincolato al segreto d'ufficio.
In definitiva gli unici limiti all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali si rinvengono, per un verso, nel fatto che esso deve avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali (attraverso modalità che ragionevolmente sono fissate nel regolamento dell'ente) e, per altro verso, che esso non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche ovvero meramente emulative, fermo restando tuttavia che la sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto stesso.
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L’art. 43, c. 2, TUEL consente al consigliere comunale di accedere a tutte le notizie e informazioni in possesso dell’amministrazione comunale, ritenute utili all’espletamento del mandato.
La richiesta presentata dalla ricorrente ha ad oggetto non il contenuto della documentazione registrata al protocollo ma i soli dati di sintesi: ciò è sufficiente ad escludere che porti ad un accesso generalizzato e a un travalicamento dei limiti della ragionevolezza e proporzionalità. Né costituisce ostacolo l’eventuale natura riservata dei dati poiché il consigliere è vincolato al segreto d'ufficio.
Questa conclusione si pone in linea con la giurisprudenza maggioritaria che, in più occasioni, ha affermato il diritto del consigliere ad accedere al protocollo informatico dell’ente mediante password o comunque mediante esibizione di copia cartacea dei dati di sintesi del protocollo informatico.
Deve, poi, essere consentito l’accesso anche ai CUD delle due dipendenti del Comune e ai documenti contenuti nei loro fascicoli relativi al trattamento economico e alla carriera.
Anche in questo caso l’obiezione della difesa resistente, e cioè che i documenti non sarebbero ostensibili perché strettamente personali e soggetti alla stretta tutela in materia di privacy, non può essere condivisa.
Come si è detto, non sono opponibili limitazioni connesse all’esigenza di assicurare la riservatezza dei dati e il diritto alla privacy dei terzi, atteso che, con riferimento all'esercizio del diritto in esame, tale esigenza è efficacemente salvaguardata dalla disposizione di cui al comma 2 dell’art. 43 cit., che impone al consigliere comunale il segreto ove la pretesa ostensiva abbia ad oggetto atti che incidono sulla sfera giuridica e soggettiva di terzi.
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...  per l'annullamento
   - del silenzio mostrato dal Comune in ordine alle istanze presentate dalla dr.ssa Zi., in qualità di consigliere comunale, ai fini di ottenere l'esibizione dei seguenti documenti:
   - documentazione contabile relativa alla realizzazione delle due piattaforme rialzate sulla strada provinciale (istanza 22.10.2020)
   - copia dell'allegato alla determinazione n. 10 del 06.02.2020 “Liquidazione spese economato 4° Trim 2019”, cioè l'elenco delle spese sostenute dall'economato nel quarto trimestre 2019 con i relativi buoni e titoli di spesa (istanza 20.10.2020)
   - dati di sintesi del protocollo informatico, ossia numero di registrazione al protocollo, data, mittente, destinatario, modalità di acquisizione, oggetto, sia mediante la visione sia mediante il rilascio di copia cartacea (istanza 20.10.2020)
   - CUD di due dipendenti del Comune (istanza 20.10.2020 e successiva integrazione 27.10.2020)
e per l'accertamento del diritto della ricorrente ad accedere alla suindicata documentazione, nonché a qualsiasi documentazione che si mostri, sia attualmente che in futuro, necessaria al corretto svolgimento della funzione di consigliere comunale.
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1. La sig.ra Si.Zi. -consigliere comunale di minoranza del Comune di San Martino Canavese– ha domandato l’annullamento del silenzio serbato dal Comune di San Martino Canavese sulle istanze, presentate il 22.10.2020 e il 27.10.2020, con cui ha domandato l’accesso ai seguenti documenti:
   I. documentazione contabile relativa alla realizzazione delle due piattaforme rialzate sulla strada provinciale;
   II. copia dell’allegato alla determinazione n. 10 del 06.02.2020 “Liquidazione spese economato 4° Trim 2019”, cioè l’elenco delle spese sostenute dall’economato nel quarto trimestre 2019 con i relativi buoni e titoli di spesa;
   III. dati di sintesi del protocollo informatico, ossia numero di registrazione al protocollo, data, mittente, destinatario, modalità di acquisizione, oggetto, sia mediante la visione sia mediante il rilascio di copia cartacea;
   IV. CUD di due dipendenti del Comune -quanto all’istruttore direttivo addetto ai servizi finanziari relativamente agli anni 2017, 2018, 2019; quanto al collaboratore amministrativo relativamente all’anno 2019– e tutti i documenti, contenuti nei fascicoli delle due dipendenti, relativi al trattamento economico e alla carriera.
2. La ricorrente ha lamentato l’illegittimità del silenzio per violazione dell’art. 43, secondo comma, del D.Lgs. 267/2000, violazione degli artt. 2, 3, e 22 della l. n. 241/1990, violazione dei principi generali di cui al D.Lgs. n. 33/2013, violazione del regolamento per l’accesso ai documenti del Comune di San Martino Canavese, violazione dell’art. 97 Cost. e violazione dei principi di buon andamento della P.A.
3. La ricorrente ha inoltre domandato l’accertamento del diritto ad accedere a qualsiasi documentazione amministrativa necessaria allo svolgimento delle funzioni di consigliere comunale.
...
6. L'art. 43 del TUEL attribuisce ai consiglieri comunali il diritto di ottenere dagli uffici tutte le notizie e informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del loro mandato.
La giurisprudenza delinea questo diritto affermando come esso sia direttamente funzionale non tanto all'interesse del consigliere comunale (o provinciale) quanto alla cura dell'interesse pubblico connessa al mandato conferito: i consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento delle loro funzioni, ciò anche al fine di permettere di valutare -con piena cognizione- la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale (Consiglio di Stato sez. V, 05/09/2014, n. 4525).
Ne consegue, per un verso, che sul consigliere comunale non può gravare alcun particolare onere di motivare le proprie richieste di accesso, atteso che, diversamente opinando, sarebbe introdotta una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio delle funzioni del consigliere comunale, e, per altro verso, che dal termine "utili", contenuto nell'articolo 43 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267, non può conseguire alcuna limitazione al diritto di accesso dei consiglieri comunali, poiché tale aggettivo comporta in realtà l'estensione di tale diritto di accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per l'esercizio delle funzioni (Consiglio Stato sez. V, 17.09.2010, n. 6963).
La giurisprudenza ritiene inoltre che il diritto del consigliere comunale ad ottenere dall'ente tutte le informazioni utili all'espletamento delle funzioni non incontri neppure alcuna limitazione derivante dalla loro eventuale natura riservata, in quanto il consigliere è vincolato al segreto d'ufficio.
In definitiva gli unici limiti all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali si rinvengono, per un verso, nel fatto che esso deve avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali (attraverso modalità che ragionevolmente sono fissate nel regolamento dell'ente) e, per altro verso, che esso non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche ovvero meramente emulative, fermo restando tuttavia che la sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto stesso (Cons. Stato, sez. V, 05.09.2014, n. 4525).
7. Nel caso di specie, il Collegio non condivide quanto sostenuto dalla difesa dell’amministrazione comunale circa l’abuso del diritto da parte della sig.ra Zi., per l’elevato numero delle istanze presentate, in un arco limitato di tempo, e l’ampia mole di documenti richiesti, a fronte delle limitate dimensioni e risorse di cui dispone il Comune: le due istanze presentate il 22.10.2020 e il 27.10.2020 non sono generiche, avendo ad oggetto specifici documenti; né si ravvisano elementi che ne denotino il carattere emulativo o irragionevole.
Quanto alle dimensioni dell’amministrazione comunale, esse non possono certamente giustificare una limitazione del diritto previsto all’art. 43 TUEL.
8. I documenti indicati al punto I sono stati consegnati alla ricorrente.
9. Con riferimento a questa parte del ricorso deve, pertanto, essere dichiarata la cessazione della materia del contendere.
10. Non altrettanto può dirsi con riferimento ai documenti indicati al punto II, non essendo stato dato accesso integrale a quanto richiesto.
Il Comune ha trasmesso alla ricorrente copia di parte della documentazione allegata alla determinazione n. 10 del 06.02.2020, consistente nell’elenco delle spese sostenute (doc. 6 del Comune) ma non ha invece consentito l’accesso ai buoni e ai titoli di spesa.
Non può condividersi quanto obiettato dalla difesa dell’amministrazione comunale circa la possibilità di ricavare dall’elenco fornito tutti i dati utili e necessari a ricostruire le spese sostenute, essendo indicati l’intervento, il numero di buono, il creditore, la somma pagata e la data di pagamento.
I documenti devono, invero, essere esibiti nella loro versione integrale, di modo da consentirne una conoscenza completa. In caso contrario verrebbe legittimata una sorta di filtro da parte dell’amministrazione all’ampio e incondizionato diritto del consigliere comunale, previsto all’art. 43, d.lgs. n. 267/2000, ad ottenere “tutte le notizie e le informazioni”, in possesso del Comune, utili all'espletamento del mandato.
11. Alla luce dei principi giurisprudenziali sopra richiamati sono fondate anche le pretese della ricorrente all’accesso ai documenti indicati ai punti III e IV.
12. I documenti indicati al punto III consistono nei dati di sintesi del protocollo informatico (ossia numero di registrazione al protocollo, data, mittente, destinatario, modalità di acquisizione, oggetto); di essi ne viene chiesto l’accesso mediante visione e rilascio di copia cartacea.
La difesa dell’amministrazione comunale ha contestato che aderire alla richiesta della ricorrente significherebbe consentire un accesso generalizzato e non controllato che travalicherebbe i confini della proporzionalità e della ragionevolezza, che avrebbe ad oggetto anche dati sensibili e soggetti a privacy, in assenza delle necessarie garanzie sul trattamento dei dati personali, e notizie e documenti sottratti all’ambito di esercizio delle funzioni del consigliere, in quanto afferenti ad attività svolte dall’amministrazione per conto dello Stato e di altri soggetti istituzionali.
Il Collegio non condivide queste obiezioni.
L’art. 43, c. 2, TUEL consente al consigliere comunale di accedere a tutte le notizie e informazioni in possesso dell’amministrazione comunale, ritenute utili all’espletamento del mandato.
La richiesta presentata dalla ricorrente ha ad oggetto non il contenuto della documentazione registrata al protocollo ma i soli dati di sintesi: ciò è sufficiente ad escludere che porti ad un accesso generalizzato e a un travalicamento dei limiti della ragionevolezza e proporzionalità. Né costituisce ostacolo l’eventuale natura riservata dei dati poiché il consigliere è vincolato al segreto d'ufficio.
Questa conclusione si pone in linea con la giurisprudenza maggioritaria che, in più occasioni, ha affermato il diritto del consigliere ad accedere al protocollo informatico dell’ente mediante password (Tar Sardegna, sent. n. 531/2018, n. 317/2019; Tar Campania, Salerno, sent. n. 545/2019, Tar Basilicata, sent. n. 599/2019) o comunque mediante esibizione di copia cartacea dei dati di sintesi del protocollo informatico (Tar Sicilia, Catania, sent. n. 926/2020).
13. Deve, poi, essere consentito l’accesso anche ai CUD delle due dipendenti del Comune e ai documenti contenuti nei loro fascicoli relativi al trattamento economico e alla carriera.
Anche in questo caso l’obiezione della difesa resistente, e cioè che i documenti non sarebbero ostensibili perché strettamente personali e soggetti alla stretta tutela in materia di privacy, non può essere condivisa.
Come si è detto, non sono opponibili limitazioni connesse all’esigenza di assicurare la riservatezza dei dati e il diritto alla privacy dei terzi, atteso che, con riferimento all'esercizio del diritto in esame, tale esigenza è efficacemente salvaguardata dalla disposizione di cui al comma 2 dell’art. 43 cit., che impone al consigliere comunale il segreto ove la pretesa ostensiva abbia ad oggetto atti che incidono sulla sfera giuridica e soggettiva di terzi (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 11/12/2013, n. 5931).
14. È, invece, inammissibile la domanda con cui la ricorrente ha chiesto l’accertamento, in via generale, del diritto ad accedere a qualsiasi documentazione amministrativa necessaria allo svolgimento delle funzioni di consigliere comunale: il rito in materia di accesso può avere ad oggetto determinazioni o silenzi dell’amministrazione relativi a istanze volte alla ostensione di specifici documenti ma non pretese ad un accesso generalizzato, le quali trovano, peraltro, riconoscimento nell’art. 43, TUEL, con le forme e nei limiti dallo stesso previsti.
15. Per le ragioni esposte, in parte va dichiarata cessata la materia del contendere, in parte il ricorso va accolto e in parte va dichiarato inammissibile.
Per l’effetto il Comune di San Martino Canavese va condannato a consentire l’accesso integrale ai documenti di cui ai punti II, III e IV, entro il termine di trenta giorni dalla comunicazione della presente sentenza (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 01.03.2021 n. 215 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

settembre 2020

CONSIGLIERI COMUNALIL’astensione del Consigliere comunale dalle deliberazioni assunte dall’organo collegiale deve trovare applicazione in tutti i casi in cui, per ragioni di ordine obiettivo, egli non si trovi in posizioni di assoluta serenità rispetto alle decisioni da adottare di natura discrezionale, con la precisazione che il concetto di "interesse" del consigliere alla deliberazione comprende ogni situazione di conflitto o di contrasto di situazioni personali, comportante una tensione della volontà, verso una qualsiasi utilità che si possa ricavare dal contribuire all'adozione di una delibera.
Come emerge dal tenore letterale dell'art. 78, comma 2, del d.lgs. n. 267 del 2000 e dalla sua ratio, la regola generale è che l’amministratore debba astenersi al minimo sentore di conflitto di interessi, reale o potenziale che sia; la deroga divisata per gli atti generali e normativi, oltre a non essere assoluta (perché qualora si profili il concreto interesse personale si ripristina l'obbligo di astensione), è da considerarsi tassativa ed incapace quindi, di incidere sul perimetro della fattispecie ampliandolo internamente.
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L’obbligo di allontanamento dalla seduta, in quanto dettato al fine di garantire la trasparenza e l'imparzialità dell'azione amministrativa, sorge per il solo fatto che l’amministratore rivesta una posizione suscettibile di determinare, anche in astratto, un conflitto di interesse, a nulla rilevando che lo specifico fine privato sia stato o meno realizzato e che si sia prodotto o meno un concreto pregiudizio per la p.a.
Il conflitto d'interessi, nei suoi termini essenziali valevoli per ciascun ramo del diritto, si individua nel contrasto tra due interessi facenti capo alla stessa persona, uno dei quali di tipo "istituzionale" ed un altro di tipo personale. Non rileva quindi che il consiglio abbia proceduto in modo imparziale ovvero senza condizionamenti, essendo l'obbligo di astensione per incompatibilità, espressione del principio generale di imparzialità e di trasparenza (art. 97 Cost.), al quale ogni Pubblica amministrazione deve conformare la propria immagine, prima ancora che la propria azione.
Viene nella sostanza recepito nella norma in esame quel comune sentire che nei riguardi di coloro che amministrano la cosa pubblica si traduce nel detto secondo il quale essi non soltanto debbono essere ma anche apparire non in conflitto con l'oggetto della questione che sono chiamati a deliberare (Cons. Stato Sez. IV, 25.09.2014, n. 4806, per cui, inoltre, solo relativamente agli atti a carattere generale l’amministratore pubblici deve astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione nei soli casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado).
Di recente, inoltre, la Sezione si è espressa nel senso che proprio l’obbligo di astensione, tipizzato dall’art. 51 c.p.c., rappresenta un corollario del principio di imparzialità, sancito dall’art. 97 Cost., di cui, assume portata generale, sicché le ipotesi di astensione obbligatoria non sono tassative, e come tali da interpretarsi restrittivamente, ma piuttosto esemplificative di circostanze che mutuano l’attitudine a generare il dovere di astensione direttamente dal superiore principio di imparzialità, che ha carattere immediatamente e direttamente precettivo.
L’obbligo di astensione rinviene la sua ragione giustificativa nel pieno rispetto del principio costituzionale del buon andamento ed imparzialità dell’azione amministrativa sancito dall’art. 97 della Costituzione, posto a tutela del prestigio della pubblica amministrazione e che non tollera alcun tipo di compressione.

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Con il secondo motivo di appello si contesta l’erronea applicazione dell’art. 78 del d.lgs. 267 del 2000 e l’errata applicazione dell’art. 51 c.p.c.
Sostengono, infatti, l’appellante Comune e, altresì, la società -OMISSIS-, nel proprio atto di appello, che agli amministratori comunali dovrebbe essere applicata solo la disciplina dell’art. 78 del Testo Unico Enti Locali e quindi il giudice di primo grado avrebbe errato nel trarre un principio generale contenente un obbligo di astensione dall’art. 51 del codice di procedura civile riferibile solo al giudice.
Il Collegio non condivide tali argomentazioni.
Ai sensi dell’art. 78 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267, Testo Unico Enti Locali, “il comportamento degli amministratori, nell'esercizio delle proprie funzioni, deve essere improntato all'imparzialità e al principio di buona amministrazione, nel pieno rispetto della distinzione tra le funzioni, competenze e responsabilità degli amministratori di cui all'art. 77, comma 2, e quelle proprie dei dirigenti delle rispettive amministrazioni.
2. Gli amministratori di cui all'art. 77, comma 2, (ovvero sindaci, anche metropolitani, presidenti delle province, consiglieri dei comuni anche metropolitani e delle province, componenti delle giunte comunali, metropolitane e provinciali, presidenti dei consigli comunali, metropolitani e provinciali, presidenti, consiglieri e assessori delle comunità montane, componenti degli organi delle unioni di comuni e dei consorzi fra enti locali, nonché componenti degli organi di decentramento) devono astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado. L'obbligo di astensione non si applica ai provvedimenti normativi o di carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado.
3. I componenti la giunta comunale competenti in materia di urbanistica, di edilizia e di lavori pubblici devono astenersi dall'esercitare attività professionale in materia di edilizia privata e pubblica nel territorio da essi amministrato.
4. Nel caso di piani urbanistici, ove la correlazione immediata e diretta di cui al comma 2 sia stata accertata con sentenza passata in giudicato, le parti di strumento urbanistico che costituivano oggetto della correlazione sono annullate e sostituite mediante nuova variante urbanistica parziale. Nelle more dell'accertamento di tale stato di correlazione immediata e diretta tra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell'amministratore o di parenti o affini è sospesa la validità delle relative disposizioni del piano urbanistico.
5. Al sindaco ed al presidente della provincia, nonché agli assessori ed ai consiglieri comunali e provinciali è vietato ricoprire incarichi e assumere consulenze presso enti ed istituzioni dipendenti o comunque sottoposti al controllo ed alla vigilanza dei relativi comuni e province
”.
In base al dato testuale delle disposizioni dell’art. 78 TUEL la interpretazione sostenuta dagli appellanti non può essere condivisa, in quanto il primo comma dell’art. 78 si riferisce ad un principio generale di imparzialità da cui deriva l’obbligo di astensione, che deve pertanto ritenersi di carattere generale. Ciò è confermato dal secondo comma dell’art. 78 che impone l’astensione non solo dalla votazione ma anche dalla “discussione” di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado.
Tale obbligo di astensione di carattere generale prescinde quindi da ogni valutazione sia dell’effettivo contributo causale alla delibera concretamente adottata nonché del concreto rapporto con l’interesse in questione.
Solo infatti per le delibere di carattere normativo o generale deve essere considerata la sussistenza di un interesse “immediato e diretto”, trattandosi appunto di atti a contenuto generale, mentre in delibere che abbiano ad oggetto situazioni concrete, come nel caso di specie, la disposizione di legge prescinde dalla valutazione di un carattere immediato e diretto dell’interesse.
Tale è anche l’interpretazione seguita dalla giurisprudenza di questo Consiglio, per cui “l’astensione del Consigliere comunale dalle deliberazioni assunte dall’organo collegiale deve trovare applicazione in tutti i casi in cui, per ragioni di ordine obiettivo, egli non si trovi in posizioni di assoluta serenità rispetto alle decisioni da adottare di natura discrezionale, con la precisazione che il concetto di "interesse" del consigliere alla deliberazione comprende ogni situazione di conflitto o di contrasto di situazioni personali, comportante una tensione della volontà, verso una qualsiasi utilità che si possa ricavare dal contribuire all'adozione di una delibera. Come emerge dal tenore letterale dell'art. 78, comma 2, del d.lgs. n. 267 del 2000 e dalla sua ratio, la regola generale è che l’amministratore debba astenersi al minimo sentore di conflitto di interessi, reale o potenziale che sia; la deroga divisata per gli atti generali e normativi, oltre a non essere assoluta (perché qualora si profili il concreto interesse personale si ripristina l'obbligo di astensione), è da considerarsi tassativa ed incapace quindi, di incidere sul perimetro della fattispecie ampliandolo internamente" (Cons. Stato Sez. IV, 28.01.2011 n..693; Consiglio Stato, sez. V, 13.06.2008, n. 2970).
L’obbligo di allontanamento dalla seduta, in quanto dettato al fine di garantire la trasparenza e l'imparzialità dell'azione amministrativa, sorge per il solo fatto che l’amministratore rivesta una posizione suscettibile di determinare, anche in astratto, un conflitto di interesse, a nulla rilevando che lo specifico fine privato sia stato o meno realizzato e che si sia prodotto o meno un concreto pregiudizio per la p.a.
Il conflitto d'interessi, nei suoi termini essenziali valevoli per ciascun ramo del diritto, si individua nel contrasto tra due interessi facenti capo alla stessa persona, uno dei quali di tipo "istituzionale" ed un altro di tipo personale. Non rileva quindi che il consiglio abbia proceduto in modo imparziale ovvero senza condizionamenti, essendo l'obbligo di astensione per incompatibilità, espressione del principio generale di imparzialità e di trasparenza (art. 97 Cost.), al quale ogni Pubblica amministrazione deve conformare la propria immagine, prima ancora che la propria azione.
Viene nella sostanza recepito nella norma in esame quel comune sentire che nei riguardi di coloro che amministrano la cosa pubblica si traduce nel detto secondo il quale essi non soltanto debbono essere ma anche apparire non in conflitto con l'oggetto della questione che sono chiamati a deliberare (Cons. Stato Sez. IV, 25.09.2014, n. 4806, per cui, inoltre, solo relativamente agli atti a carattere generale l’amministratore pubblici deve astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione nei soli casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado).
Di recente, inoltre, la Sezione, con un orientamento dal quale non si ritiene di potersi discostare, si è espressa nel senso che proprio l’obbligo di astensione, tipizzato dall’art. 51 c.p.c., rappresenta un corollario del principio di imparzialità, sancito dall’art. 97 Cost., di cui, assume portata generale, sicché le ipotesi di astensione obbligatoria non sono tassative, e come tali da interpretarsi restrittivamente, ma piuttosto esemplificative di circostanze che mutuano l’attitudine a generare il dovere di astensione direttamente dal superiore principio di imparzialità, che ha carattere immediatamente e direttamente precettivo. L’obbligo di astensione rinviene la sua ragione giustificativa nel pieno rispetto del principio costituzionale del buon andamento ed imparzialità dell’azione amministrativa sancito dall’art. 97 della Costituzione, posto a tutela del prestigio della pubblica amministrazione e che non tollera alcun tipo di compressione (Consiglio di Stato, Sez. II, 21.10.2019 n. 7113; id. Sez. II, 09.03.2020, n. 1654).
Tale interpretazione dell’obbligo di astensione come principio di carattere generale comporta l’infondatezza dei motivi d’appello, in quanto sia il -OMISSIS- che i consiglieri non avrebbero dovuto partecipare neppure alla discussione sulla delibera, con conseguente irrilevanza altresì della prova di resistenza.
Neppure può rilevare la circostanza che avessero un rapporto di lavoro od un contratto di locazione con la società beneficiaria, rilevando in base alla disciplina normativa e alla sua interpretazione giurisprudenziale anche un conflitto di interessi meramente potenziale ed essendo comunque legittimo, in base alla giurisprudenza sopra richiamata e integralmente condivisa dal Collegio, il richiamo alla espressa previsione dell’art. 51 c.p.c. che individua tra i presupposto per l’astensione i rapporti di credito e debito con le parti (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 10.09.2020 n. 5423 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

agosto 2020

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGOOrdinanzite, la grave malattia che flagella l'ordinamento giuridico (24.08.2020 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

CONSIGLIERI COMUNALIL’accesso agli atti esercitato dal consigliere comunale ai sensi dell’art. 43 d.lgs. n. 267 del 2000 ha natura e caratteri diversi rispetto alle altre forme di accesso, esprimendosi in un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d’utilità all’espletamento delle sue funzioni, ciò anche al fine di permettere di valutare -con piena cognizione- la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio e per promuovere tutte le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
Per tali ragioni, da un lato sul consigliere comunale non può gravare (e ciò sin da prima dell’introduzione nell’ordinamento dell’istituto dell’accesso civico generalizzato) alcun particolare onere di motivare le proprie richieste di accesso, atteso che, diversamente opinando, sarebbe introdotta una sorta di controllo dell’ente, attraverso i propri uffici, sull’esercizio delle sue funzioni; d’altra parte dal termine «utili», contenuto nell’articolo 43 d.lgs. n. 267 del 2000, non può conseguire alcuna limitazione al diritto di accesso dei Consiglieri comunali, poiché tale aggettivo comporta in realtà l’estensione di tale diritto di accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per l’esercizio delle funzioni.
L’unico limite all’accesso del consigliere comunale è configurabile, in termini generali, “nell’ipotesi in cui lo stesso si traduca in strategie ostruzionistiche o di paralisi dell’attività amministrativa con istanze che, a causa della loro continuità e numerosità, determinino un aggravio notevole del lavoro degli uffici ai quali sono rivolte e determinino un sindacato generale sull’attività dell’amministrazione.
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Proprio in quanto funzionale al mandato, l’accesso non richiede una puntuale e specifica motivazione, né tanto meno una dimostrazione delle attività consiliari perseguite e della lesione che ne discenderebbe in caso di limitazione: da un lato non è concepibile un controllo ex ante sull’esercizio del mandato in relazione all’accesso esercitato, dall’altro la prescritta utilità dei documenti non può valere a limitare il diritto d’accesso “poiché tale aggettivo comporta in realtà l’estensione di tale diritto di accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per l’esercizio delle funzioni”.
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Il diritto del consigliere comunale ad ottenere dall’ente tutte le informazioni utili all’espletamento delle funzioni non incontra […] alcuna limitazione derivante dalla loro eventuale natura riservata, in quanto il consigliere è vincolato al segreto d’ufficio.
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6.1. Va premesso che l’accesso agli atti esercitato dal consigliere comunale ai sensi dell’art. 43 d.lgs. n. 267 del 2000 ha natura e caratteri diversi rispetto alle altre forme di accesso, esprimendosi in un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d’utilità all’espletamento delle sue funzioni, ciò anche al fine di permettere di valutare -con piena cognizione- la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio e per promuovere tutte le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale (Cons. Stato, V, 05.09.2014, n. 4525).
Per tali ragioni, da un lato sul consigliere comunale non può gravare (e ciò sin da prima dell’introduzione nell’ordinamento dell’istituto dell’accesso civico generalizzato) alcun particolare onere di motivare le proprie richieste di accesso, atteso che, diversamente opinando, sarebbe introdotta una sorta di controllo dell’ente, attraverso i propri uffici, sull’esercizio delle sue funzioni; d’altra parte dal termine «utili», contenuto nell’articolo 43 d.lgs. n. 267 del 2000, non può conseguire alcuna limitazione al diritto di accesso dei Consiglieri comunali, poiché tale aggettivo comporta in realtà l’estensione di tale diritto di accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per l’esercizio delle funzioni (Cons. Stato, n. 4525 del 2014, cit.; IV, 12.02.2013, n. 843).
L’unico limite all’accesso del consigliere comunale è configurabile, in termini generali, “nell’ipotesi in cui lo stesso si traduca in strategie ostruzionistiche o di paralisi dell’attività amministrativa con istanze che, a causa della loro continuità e numerosità, determinino un aggravio notevole del lavoro degli uffici ai quali sono rivolte e determinino un sindacato generale sull’attività dell’amministrazione (Cons. Stato, IV, 12.02.2013, n. 846)” (Cons. Stato, V, 02.03.2018, n. 1298).
6.2. Facendo applicazione dei su indicati principi al caso in esame emerge la fondatezza delle doglianze proposte dall’appellante.
Va anzitutto escluso che il mero differimento dell’accesso in quanto tale non possa perciò solo pregiudicare il diritto del consigliere comunale ad accedere agli atti ex art 43 d.lgs. n. 267 del 2000: deriva infatti dal differimento pur sempre una limitazione, benché temporanea, dell’accesso -e, dunque, dell’ostensione di documenti utili all’esercizio delle funzioni consiliari- pregiudizievole per le sue prerogative di consigliere, tanto più nel caso di specie, in cui il differimento non è correlato a un termine certo e perdura ormai da tempo.
Sotto altro profilo, non si pone in coerenza con i principi giurisprudenziali in materia d’accesso del consigliere comunale la motivazione della sentenza impugnata laddove ritiene legittimo il differimento affermando che, in ragione della fase ancora tecnica e preliminare in cui il procedimento di valutazione della proposta versa, “non si configur[i per il Ri.] alcuna compressione, in termini giuridicamente rilevanti, delle prerogative connesse all’espletamento del suo mandato di Consigliere comunale”.
Come già rilevato, infatti, proprio in quanto funzionale al mandato, l’accesso non richiede una puntuale e specifica motivazione, né tanto meno una dimostrazione delle attività consiliari perseguite e della lesione che ne discenderebbe in caso di limitazione: da un lato non è concepibile un controllo ex ante sull’esercizio del mandato in relazione all’accesso esercitato, dall’altro la prescritta utilità dei documenti non può valere a limitare il diritto d’accesso “poiché tale aggettivo comporta in realtà l’estensione di tale diritto di accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per l’esercizio delle funzioni” (Cons. Stato, n. 4525 del 2014, cit.; n. 843 del 2013, cit.); né d’altra parte sono state specificamente opposte dalla difesa dell’ente eventuali modalità emulative o inutilmente gravose nell’esercizio dell’accesso che potrebbero valere a giustificarne la limitazione.
Ciò posto, la sola fase ancora preliminare e tecnica di valutazione della proposta del project financing non vale a elidere di per sé la potenziale “utilità” dei documenti per il consigliere istante, stanti i principi già richiamati sulla detta nozione di utilità e il suo significato nella prospettiva delle prerogative consiliari.
6.3. Neppure può valere a escludere allo stato l’accesso richiesto il regime speciale previsto dall’art. 53 d.lgs. n. 50 del 2016.
A prescindere dalle questioni inerenti la circostanza che il diritto esercitato dal consigliere comunale ha altra origine, natura e statuto disciplinare (art. 43 d.lgs. n. 267 del 2000), è decisivo rilevare come i documenti cui l’appellante ha chiesto di accedere riguardano la proposta di project financing, e perciò si collocano -nell’ambito dello schema delineato dall’art. 183, comma 15, d.lgs. n. 50 del 2016- nella fase antecedente alla (eventuale) gara, riguardando il rapporto fra il proponente il progetto e l’amministrazione: per questo, da un lato il regime dell’art. 53 d.lgs. n. 50 del 2016 non è direttamente pertinente rispetto all’accesso controverso, dall’altro è ben ravvisabile -considerata la dimensione endoamministrativa in cui il rapporto allo stato si colloca- una posizione qualificata del consigliere che ne legittima l’accesso ai documenti, dovendo peraltro la proposta essere valutata dall’amministrazione ed eventualmente inserita (attraverso il suo progetto di fattibilità) negli strumenti di programmazione e approvata (cfr. invece, per la limitazione all’accesso degli altri operatori economici in tale fase, Cons. Stato, V, 28.05.2009, n. 3319; IV, 26.01.2009, n. 391 e 392).
In siffatto contesto neppure rilevano le ragioni di riservatezza dei documenti oggetto dell’istanza d’accesso dedotte da ATM, le quali non sono in realtà neppure valorizzate nell’atto di differimento impugnato, e non assumono peraltro di per sé valore a mente della consolidata giurisprudenza secondo cui “il diritto del consigliere comunale ad ottenere dall’ente tutte le informazioni utili all’espletamento delle funzioni non incontra […] alcuna limitazione derivante dalla loro eventuale natura riservata, in quanto il consigliere è vincolato al segreto d’ufficio” (Cons. Stato, I, 14.03.2014, n. 865; V, 11.12.2013, n. 5931; 29.08.2011, n. 4829; 04.05.2004, n. 2716; oltre a Cons. Stato, n. 4525 del 2014, cit.); del resto, lo stesso appellante ha dato conto a tal proposito di esser consapevole di “resta[re] vincolato dall’obbligo del segreto” (cfr. appello, sub par. 2.a) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.08.2020 n. 5032 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Commissione consiliare statuto e regolamento. Atto di convocazione viziato. Conseguenze.
L’avviso di convocazione di una seduta di commissione comunale, completo di tutti i suoi elementi e pervenuto nei termini richiesti, fatto da un soggetto non legittimato in base alla norma regolamentare dell’Ente (in particolare, dal responsabile amministrativo anziché del Presidente del consiglio comunale) non integra alcuna fattispecie di invalidità.
Dalla previsione di cui al secondo comma, prima parte, dell’articolo 21-octies della legge 241/1990 deriva, infatti, l’irrilevanza della violazione delle norme sul procedimento o sulla forma dell'atto quando il contenuto dispositivo dello stesso "non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.

Le consigliere comunali chiedono un parere in merito alla legittimità o meno della convocazione di una seduta della commissione consiliare statuto e regolamento viziata, secondo quanto dalle stesse sostenuto, essendo stata la stessa convocata da un responsabile amministrativo del Comune invece che dal Presidente della commissione, in conformità alla previsione del regolamento sul funzionamento del consiglio comunale.
In via preliminare, si osserva che non compete a questo Ufficio esprimersi in merito alla legittimità degli atti degli enti locali stante l’avvenuta soppressione del regime dei controlli ad opera della legge costituzionale 3/2001. Di seguito, pertanto, si forniranno una serie di considerazioni giuridiche che si ritiene possano risultare di utilità in relazione alla problematica posta.
L’articolo 11 dello statuto comunale, al comma 1, prevede che: “Il Consiglio comunale nomina la commissione consiliare per lo Statuto ed i regolamenti nonché le altre commissioni previste come obbligatorie dalla legge.” Il successivo comma 5 stabilisce, poi, che: “Le attribuzioni, l’organizzazione, l’attività e le forme di pubblicità dei lavori delle commissioni consiliari sono stabiliti dal regolamento per la disciplina ed il funzionamento del Consiglio comunale”.
Quest’ultimo, all’articolo 13, disciplinante il funzionamento delle commissioni consiliari, al comma 3, recita: “La prima convocazione delle commissioni viene fissata dal Sindaco con avviso scritto da recapitarsi ai componenti con un preavviso di almeno cinque giorni.” Il successivo comma 5 dispone, poi, che: “Le successive riunioni della commissione sono convocate dal rispettivo presidente, con le modalità di cui al comma 3. Su espressa indicazione degli interessati, l’avviso stesso può essere sostituito da comunicazione informatica”.
Nel caso di specie, l'avviso è stato fatto dal responsabile amministrativo anziché dal Presidente, come previsto dal regolamento; di qui la necessità di valutare le conseguenze eventualmente scaturenti da tale comportamento.
In particolare, ai fini della valutazione del tipo di vizio di cui si sarebbe in presenza e delle eventuali conseguenze che dallo stesso potrebbero scaturire si prende in considerazione il disposto di cui all’articolo 21-octies della legge 07.08.1990, n. 241, rubricato “Annullabilità del provvedimento”, il quale, al comma 1, recita: “E' annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza”.
Il successivo comma 2, tuttavia, stabilisce che: “Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. La disposizione di cui al secondo periodo non si applica al provvedimento adottato in violazione dell'articolo 10-bis.”
A parere di chi scrive, avuto riguardo alla previsione del comma 2 dell’articolo 21-octies richiamato, nel caso di specie, non ricorrono le circostanze per ritenere esistente una fattispecie di invalidità.
Dalla previsione di cui al secondo comma, prima parte, dell’articolo 21-octies della legge 241/1990 deriva, infatti, l’irrilevanza della violazione delle norme sul procedimento o sulla forma dell'atto quando il contenuto dispositivo dello stesso "non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato
[1].
La novella dell'articolo 21-octies della legge sul procedimento amministrativo codifica “quelle tendenze già emerse in giurisprudenza mirate a valutare l'interesse a ricorrere, che viene negato ove il ricorrente non possa attendersi, dalla rinnovazione del procedimento, una decisione diversa da quella già adottata.”
[2]
Nel caso in riferimento si verserebbe proprio in tale fattispecie, atteso che l’avviso di convocazione, in caso di sua rinnovazione, manterrebbe un contenuto analogo a quello in concreto adottato. Ne consegue che pare risultare preclusa l’annullabilità, per incompetenza relativa, dell’avviso di convocazione di cui trattasi e, dunque, anche degli eventuali provvedimenti conseguenti, per invalidità derivata.
[3]
Quanto detto sopra circa il fatto che l’avviso di convocazione, in caso di sua rinnovazione, manterrebbe inalterato il suo contenuto -e per questo il fatto che lo stesso sia stato comunicato da soggetto incompetente non integra un vizio invalidante- è dovuto al fatto che detto atto possiede già tutti i requisiti sostanziali necessari per raggiungere il proprio scopo che è quello, proprio degli atti di convocazione in generale, di mettere i consiglieri in condizione di partecipare ad una determinata seduta esercitando i diritti inerenti il proprio munus pubblico.
In proposito si riportano alcune considerazioni espresse con riferimento all'avviso di convocazione dei consigli comunali.
Afferma, al riguardo, la dottrina
[4] che “la funzione dell’avviso è quella di garantire una “preinformazione” ai consiglieri comunali sugli argomenti in discussione senza pretendere di entrare nel contenuto degli stessi: […] la comunicazione assolve una funzione prestabilita di “informazione”; deve contenere gli argomenti posti in discussione (oggetto sintetico); individua il luogo, il giorno, e l’ora della seduta; va consegnata a “domicilio”; avviene in forma libera, non è prevista la notificazione (ex art. 21-bis della Legge n. 241 del 1990). Si deve, quindi, desumere che l’avviso di convocazione ha una funzione tipica di “strumento di conoscenza”, con una natura “recettizia”, […] è importante che il consigliere comunale sia posto nelle condizioni di conoscere tutti gli elementi utili per la partecipazione ai lavori, e questa conoscenza può essere aliunde dimostrata qualora si possa constatare che l’interessato ne era reso edotto”.
Anche la giurisprudenza, ha rilevato che “l’avviso di convocazione delle sedute consiliari è lo strumento indispensabile per il corretto e regolare funzionamento dell'organo consiliare, consentendo ai consiglieri comunali, diretti rappresentanti della comunità, non solo di essere informati delle riunioni dell'assise cittadina, ma soprattutto di potervi partecipare attivamente […].”
[5]
Il Ministero dell’Interno
[6], relativamente ad una fattispecie afferente un avviso di convocazione recante la data sia di prima che di seconda convocazione di una seduta consiliare, non comunicato nei termini quanto alla prima convocazione, ha affermato che “la irregolarità della convocazione del Consigliere comunale, come può essere sanata attraverso la convalida, così costituisce motivo di annullamento degli atti deliberativi adottati soltanto nel caso in cui alla stessa possa essere riconosciuta una efficacia preclusiva della piena capacità del Consigliere di esprimere il voto in seno al collegio di appartenenza.” [7]
In conclusione, in relazione al contenuto dell’avviso di convocazione e alla sua funzione, come esplicitati dagli orientamenti sopra riportati, ne deriva che, come già affermato, nel caso in esame il vizio contestato non risulta invalidante, in quanto il contenuto dell’avviso di cui si tratta non sarebbe diverso in caso di rinnovazione e il fatto che l’avviso in questione possiede tutti i requisiti funzionali al suo scopo porta ad escludere che nel caso di specie possa ritenersi leso il diritto alla partecipazione dei lavori della commissione consiliare dei consiglieri comunali, ai quali lo stesso è stato comunicato nei termini e con i contenuti ad esso propri.
[8]
---------------
[1] Benché l’articolo 21-octies della legge 241/1990, nella prima parte del comma 2, circoscriva il rimedio alle ipotesi di atto vincolato, tuttavia, come rilevato dalla dottrina “è però evidente che un’interpretazione strettamente letterale dell’aggettivo “vincolato” circoscriverebbe di molto, e senza una ragionevole spiegazione, l’operatività della norma, stante la scarsità, in natura, di atti vincolati, ossia privi di margini di discrezionalità.
Sotto questo profilo, appare perciò plausibile assumere che la disposizione si rivolga, piuttosto che ai soli atti astrattamente privi di profili di discrezionalità, a tutti quei provvedimenti che, muovendo da presupposti di fatto e di diritto pacifici ed incontestati, possono dar luogo, nel concreto, ad una sola scelta da parte dell’amministrazione” (così, R. Porcelli, “Art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990. Analisi della giurisprudenza”, in “Il diritto amministrativo, Rivista giuridica”, Anno XII, n. 07 - Luglio 2020).
[2] TAR Lazio, Roma, sez. I, sentenza dell’08.06.2009, n. 5460.
[3] Peraltro, di difficile individuazione sarebbe l’atto “definitivo” eventualmente suscettibile di impugnazione per invalidità derivata. Al riguardo si ricorda che le commissioni consiliari si configurano come articolazioni interne al consiglio comunale. Come rilevato dal Ministero dell’Interno (parere del 03.04.2014) “esse non sono organi necessari dell’ente locale, cioè non sono componenti indispensabili della sua struttura organizzativa, bensì organi strumentali dei consigli ed, in quanto tali, costituiscono componenti interne dell’organo assembleare, prive di una competenza autonoma e distinta da quella ad esso attribuita.
In altri termini, le commissioni consiliari operano sempre e comunque nell’ambito della competenza dei consigli”. Con specifico riferimento alle competenze delle commissioni consiliari soccorre l’articolo 11, comma 4, dello statuto dell’Ente il quale attribuisce alle stesse una funzione istruttoria e consultiva nei confronti del consiglio comunale.
[4] M. Lucca, “Norma regolamentare per la convocazione, con strumenti informatici, del consiglio comunale”, in www.segretarientilocali.it
[5] TAR Campania, Napoli, Sez. I, sentenza del 22.10.2018, n. 6129. Nello stesso senso si veda, anche, Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza del 14.09.2012, n. 4892.
[6] Ministero dell’Interno, parere del 18.03.2005.
[7] Nel caso esaminato dal Ministero dell’Interno, la prima seduta consiliare, non comunicata nei termini previsti, era andata deserta. Atteso che la mancata comunicazione nei termini dell’avviso di convocazione aveva riguardato solo tre consiglieri il Ministero dell’Interno ha rilevato come “in nessun caso l'assenza di detta irregolarità avrebbe potuto portare ad un esito diverso della seduta, dal momento che, anche se i tre si fossero presentati, l'adunanza avrebbe dovuto ugualmente essere dichiarata deserta.
In altri termini, poiché alla 'prova di resistenza' la irregolarità riscontrata non risulta in grado di modificare l'esito della seduta, cosicché il presupposto della 'seconda convocazione' (seduta deserta) non può ritenersi ad essa condizionato, non sembra che il vizio della prima convocazione si estenda alla seconda”.
[8] Nel caso di specie, sotto questo profilo, si osserva che mancherebbe l’interesse a ricorrere stante la mancata lesione dello ius ad officium del consigliere. Al riguardo, si osserva che, in linea generale, il consigliere comunale è legittimato ad impugnare le sole deliberazioni emanate dal consiglio quando esse ledano un suo interesse personale diretto.
La giurisprudenza, al riguardo, ha affermato che “il consigliere dell’ente locale deve essere considerato di per sé privo della legittimazione ad agire in giudizio, posto che quest’ultima non risiede nella semplice deviazione dell’atto impugnato rispetto allo schema normativamente previsto, occorrendo quanto meno che da tale deviazione derivi la compressione di una sua prerogativa inerente all’ufficio (e salve le questioni inerenti l’effettiva incidenza del vizio procedimentale sulla legittimità sostanziale dell’atto emesso in sede collegiale); in quest’ottica è indispensabile aver riguardo alla natura e al contenuto della delibera impugnata, e non alle norme interne relative al funzionamento dell’organo, per cui è irrilevante ogni altra violazione di forma e di sostanza nell’adozione di una deliberazione” (Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 02.12.2015, n. 5459).
La dottrina, nel richiamare recente giurisprudenza sull’argomento (TAR Campania, sez. I, sentenza del 05.06.2018, n. 3710) ha, ulteriormente, precisato che “l’impugnativa di singoli consiglieri può ipotizzarsi soltanto quando vengano in rilievo atti incidenti in via diretta sul diritto all’ufficio dei medesimi e, quindi, su un diritto spettante alla persona investita della carica di consigliere, dovendosi escludere che ogni violazione di forma o di sostanza nell’adozione di una deliberazione, che di per sé può produrre un atto illegittimo impugnabile dai soggetti diretti destinatari o direttamente lesi dal medesimo, si traduca in una automatica lesione dello ius ad officium”
(03.08.2020 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

luglio 2020

CONSIGLIERI COMUNALIQuesto Comune sta continuando a svolgere le sedute di Giunta e Consiglio in modalità remota, ma sono giunte alcune lamentele a riguardo della mancata trasmissione via streaming delle sedute consiliari.
Il regolamento di funzionamento del Consiglio Comunale, essendo abbastanza datato ed in procinto di essere modificato, non prevede una disciplina.
E’ possibile procedere?

L’art. 73, comma 1, del D.L. “Cura Italia” 17.03.2020 n. 18 denominato “semplificazioni in materia di organi collegiali” recita testualmente che “al fine di contrastare e contenere la diffusione del virus COVID-19 e fino alla data di cessazione dello stato di emergenza deliberato dal Consiglio dei ministri il 31.01.2020, i consigli dei comuni, delle province e delle città metropolitane e le giunte comunali, che non abbiano regolamentato modalità di svolgimento delle sedute in videoconferenza, possono riunirsi secondo tali modalità, nel rispetto di criteri di trasparenza e tracciabilità previamente fissati dal presidente del consiglio, ove previsto, o dal sindaco, purché siano individuati sistemi che consentano di identificare con certezza i partecipanti, sia assicurata la regolarità dello svolgimento delle sedute e vengano garantiti lo svolgimento delle funzioni di cui all'articolo 97 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, nonché adeguata pubblicità delle sedute, ove previsto, secondo le modalità individuate da ciascun ente”.
Pertanto, la normativa emergenziale che ha consentito lo svolgimento delle sedute degli organi collegiali degli Enti Locali in modalità “da remoto” anche in assenza di apposita regolamentazione dell’Ente pone una serie di questioni e di paletti nella sua applicazione:
   • tale possibilità, in assenza di regolamentazione, è valida fino alla cessazione dello Stato di emergenza (attualmente al 31 luglio p.v.);
   • i criteri, per ciò che concerne nello specifico lo svolgimento del Consiglio Comunale, devono essere preventivamente fissati da apposito decreto del Presidente del Consiglio (o del Sindaco se non previsto dalla legge o dallo Statuto);
   • deve essere garantita l’adeguata pubblicità delle sedute.
In linea generale, tanto la normativa sulla privacy (il garante si è espresso con un parere abbastanza datato nel marzo 2002) che il Ministero dell’Interno (con un primo parere del 20.12.2004 ed un successivo molto più recente del 28.06.2018) hanno chiarito la possibilità della ripresa, registrazione e diffusione delle immagini delle sedute consiliari, previa l’adozione di apposita regolamentazione ed informativa resa ai presenti.
Il Ministero dell’Interno, nel primo parere più datato del 2004, addirittura prevedeva, in assenza di regolamentazione, la possibilità di disciplinare la fattispecie, volta per volta, da parte del Presidente del Consiglio.
Detto tutto ciò, possiamo affermare che, almeno fino alla cessazione dello Stato di Emergenza ed in assenza di regolamentazione nonché di previsione normativa specifica, il Presidente del Consiglio (o il Sindaco qualora ricorra la fattispecie) può disciplinare con proprio decreto le specifiche modalità di registrazione, trasmissione e diffusione delle sedute consiliari che si svolgono con le modalità di cui al citato D.L. 18/2020 in modo da garantire quei criteri di trasparenza e pubblicità dallo stesso richiamati (es. diretta sul sito web del Comune, diretta facebook). Lo stesso decreto potrà, ad esempio prevedere che la registrazione (e la conseguente diffusione extra canali istituzionali) non possa essere effettuata in proprio né dai consiglieri comunali e né dai cittadini che assistono virtualmente alla seduta.
Successivamente, qualora l’Ente terminato lo Stato di Emergenza, decida di dotarsi di apposita regolamentazione per lo svolgimento dei lavori anche in modalità “da remoto”, potrà procedere alla registrazione, trasmissione e diffusione delle immagini esclusivamente con le modalità che saranno ivi disciplinate.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.L. 17.03.2020. n. 18 - Parere garante Privacy Marzo 2002 - Parere Ministero Interno 20.12.2004 - Parere Ministero Interno 28.06.2018 (08.07.2020 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

giugno 2020

CONSIGLIERI COMUNALIAccesso agli atti C.E.C..
Domanda
In vista della campagna elettorale delle prossime elezioni comunali, un consigliere attualmente in carica –delegato di una lista– chiede di avere copia degli atti di approvazione delle liste dei candidati alle scorse elezioni comunali, esaminate dalla Commissione elettorale circondariale.
È possibile dare parere positivo a questa istanza di accesso e concedere le copie di quanto richiesto?
Risposta
L’art. 43 del D.Lgs. n. 267/2000 prevede che: “2. I consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato. Essi sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge.”
Gli articoli 22 e seguenti della legge 241/1990 regolano il diritto di accesso agli atti amministrativi.
Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale del Consiglio di Stato, i consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d’utilità all’espletamento delle loro funzioni, ciò anche al fine di permettere di valutare –con piena cognizione– la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio e per promuovere, anche nell’ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
In base a quanto sopra citato il consigliere in questione ha, credo indubbiamente, diritto ad accedere ai dati richiesti. Peraltro anche il Garante della Privacy si è più volte espresso in materia, ritenendo legittimo l’accesso.
A mio modo di vedere però la richiesta di accesso deve essere inoltrata alla Commissione Elettorale Circondariale, che è l’organo competente all’esame ed all’ammissione delle liste e che detiene la documentazione in questione.
Perché è vero che l’art. 22 della legge 241/1990 parla di accessibilità dei documenti “detenuti” dalla pubblica amministrazione, ma lo stesso articolo, al comma 6, chiarisce che il diritto di accesso è esercitabile fino a quando la pubblica amministrazione “ha l’obbligo di detenere” i documenti amministrativi ai quali si chiede di accedere.
Nell’ambito della presentazione delle liste per le elezioni comunali, la procedura dettata dal D.P.R. 16.05.1960, n. 570, prevede che i documenti siano presentati alla segreteria comunale nelle date stabilite dalla legge. Il segretario comunale però deve immediatamente inoltrare il tutto alla Commissione elettorale circondariale, organo competente ad effettuare l’ammissione vera e propria.
Secondo il mio punto di vista l’obbligo giuridico di detenere i documenti è della Commissione elettorale circondariale, che resta l’unico organo competente per le attività sopra descritte (05.06.2020 - link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - CONSIGLIERI COMUNALIAi fini dell’ammissibilità soggettiva, nella richiesta di parere inoltrata, alla Sezione regionale di controllo, dal vicesindaco devono essere indicate espressamente le circostanze di cui all’art. 53 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267 (impedimento permanente o temporaneo, decadenza o decesso del Sindaco) che legittimano l’esercizio delle funzioni vicarie.
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PREMESSO
In data 18.02.2020, la vicesindaco del Comune di Modugno (BA) ha inoltrato alla Sezione regionale di controllo per la Puglia una richiesta di parere ex art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131, in materia di «oneri per permessi retribuiti» usufruiti da consiglieri comunali ex artt. 79-80 del d.lgs. n. 267/2000.
In tale richiesta, avanzata con la preliminare precisazione che il parere era inoltrato da «La sottoscritta …, giusto impedimento del Sindaco Dott. … prot. n. 7937 del 13/02/2020, rappresentante legale pro tempore del Comune di Modugno, in qualità di Vice Sindaco, avvalendosi della facoltà prevista dall'art. 7, comma 8, della legge n. 131/2003…», veniva posto il quesito se, alla luce della legislazione vigente, sia legittimo il rimborso degli oneri sostenuti dal datore di lavoro per la partecipazione alle riunioni di consiglio comunale e commissione da parte di un dipendente del Consorzio per l’Area di sviluppo Industriale di Bari che ricopre la carica di Consigliere comunale del Comune di Modugno, anche in considerazione della partecipazione dello stesso ente locale al capitale sociale dell’anzidetto Consorzio (ente pubblico economico), nonché del consolidamento (deliberato dal Comune ai sensi dell’art. 11-bis del d.lgs. n. 118/2011 della citata partecipata.
La Sezione remittente, nella conseguente deliberazione n. 25 del 23.03.2020, ha rilevato che la richiesta di parere risultava firmata dalla vicesindaco, la quale aveva addotto un impedimento del sindaco non specificato e/o documentato in atti.
Al riguardo, la stessa Sezione ha evidenziato che, nell’esercizio della funzione consultiva, le Sezioni regionali di controllo hanno avuto modo di pronunciarsi in più occasioni sulla tematica della legittimazione soggettiva alla richiesta di pareri da parte del vicesindaco, giungendo a conclusioni tra loro non conformi.
Ha ritenuto opportuno, pertanto, il deferimento ai sensi dell’art. 6, comma 4, del d.l. n. 174/2012, della seguente questione: «
se sia ammissibile la richiesta di parere firmata dal vicesindaco anche nel caso di assenza o impedimento temporaneo del sindaco ai sensi del secondo comma dell’art. 53 del d.lgs. 267/2000 e se, comunque, possa presumersi la legittimità della dichiarata sostituzione».
CONSIDERATO
1. Questa Sezione, fin dall’atto di indirizzo approvato nell’adunanza del 27.04.2004 e dalla deliberazione n. 5/AUT/2006 del 10.03.2006 –con le successive integrazioni contenute nelle deliberazioni n. 13/SEZAUT/2007, n. 9/SEZAUT/2009, n. 3/SEZAUT/2014/QMIG, n. 4/SEZAUT/2014/QMIG e n. 24/SEZAUT/2019/QMIG– ha esplicitato i requisiti di ammissibilità soggettiva (legittimazione dell’organo richiedente) e oggettiva (attinenza del quesito alla materia della contabilità pubblica, generalità ed astrattezza del quesito proposto, mancanza di interferenza con altre funzioni svolte dalla magistratura contabile o con giudizi pendenti presso la magistratura civile, penale, amministrativa e contabile) indicanti i caratteri di specializzazione funzionale che caratterizzano la Corte dei conti in sede consultiva, e che giustificano la peculiare attribuzione da parte del legislatore ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131.
In particolare, quanto alla verifica dell’ammissibilità oggettiva delle richieste di pareri, anche le Sezioni riunite di questa Corte (deliberazione n. 54/CONTR/2010) hanno avuto modo di precisare che alle Sezioni regionali di controllo non è stata attribuita una funzione di consulenza di portata generale, bensì limitata unicamente alla “materia di contabilità pubblica”. Dato che qualsiasi attività amministrativa può avere riflessi finanziari, è stato ritenuto che, ove non si adottasse una nozione strettamente tecnica di detta materia, si incorrerebbe in una dilatazione dell’ambito oggettivo della funzione consultiva tale da rendere le Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti organi di consulenza generale dell’amministrazione pubblica.
Pertanto, la nozione di contabilità pubblica –come ampiamente evidenziato da questa Sezione nelle deliberazioni n. 5/SEZAUT/2006 e 3/SEZAUT/2014/QMIG- anche se da intendersi in continua evoluzione in relazione alle materie che incidono direttamente sulla sana gestione finanziaria dell’Ente e sui pertinenti equilibri di bilancio, non può ampliarsi al punto da ricomprendere qualsivoglia attività degli Enti che abbia, comunque, riflessi di natura finanziaria e/o patrimoniale.
Se è vero, infatti, che ad ogni provvedimento amministrativo può seguire una fase contabile, attinente all’amministrazione di entrate e spese ed alle connesse scritture di bilancio, è anche vero che la disciplina contabile si riferisce solo a tale fase discendente, distinta da quella sostanziale, antecedente, del procedimento amministrativo, non disciplinata dalla normativa contabile. La richiesta di parere deve, poi, connotarsi per il carattere della generalità ed astrattezza e non deve implicare valutazioni inerenti i comportamenti amministrativi da porre in essere.
L’oggetto del parere, inoltre, non deve riguardare indagini in corso della Procura regionale od eventuali giudizi pendenti innanzi alla Sezione giurisdizionale regionale della Corte dei conti, e, in ogni caso «la funzione consultiva di questa Corte non può espletarsi in riferimento a quesiti che riguardino comportamenti amministrativi suscettibili di valutazione della Procura della stessa Corte dei conti o di altri organi giudiziari, al fine di evitare che i pareri prefigurino soluzioni non conciliabili con successive pronunce dei competenti organi della giurisdizione (ordinaria, amministrativa, contabile o tributaria). La funzione consultiva della Corte dei conti, infatti, non può in alcun modo interferire e, meno che mai, sovrapporsi a quella degli organi giudiziari» (deliberazione n. 24/SEZAUT/2019/QMIG).
Diversamente opinando, detta funzione si tradurrebbe in una atipica (e non consentita) attività di consulenza preventiva sulla legittimità dell’operato amministrativo, che potrebbe essere ipoteticamente attivata al fine di precostituire una causa giustificativa di esonero di responsabilità. In proposito, si ricorda che l’art. 69, comma 2, del d.lgs. 26.08.2016, n. 174, recante il Codice di giustizia contabile, nel disciplinare le ipotesi di archiviazione del fascicolo istruttorio da parte del P.M. erariale, stabilisce espressamente l’assenza di colpa grave anche quando «l’azione amministrativa si è conformata al parere reso dalla Corte dei conti in via consultiva, in sede di controllo e in favore degli enti locali nel rispetto dei presupposti generali per il rilascio dei medesimi».
Analogamente, per quanto riguarda la legittimazione soggettiva alla richiesta di pareri, questa Sezione, nelle pronunce sopra richiamate ha affermato il carattere tassativo dell’elencazione degli enti legittimati a formulare le richieste di parere, individuati in Regioni, Province, Comuni e Città metropolitane, i quali esercitano tale possibilità attraverso i rispettivi legali rappresentanti pro-tempore ovvero tramite il Consiglio delle autonomie locali (CAL), se istituito, in caso di richiesta di parere alle Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti.
Nel caso, invece, in cui la predetta richiesta venga indirizzata direttamente alla Sezione delle autonomie (ipotesi introdotta dall’art. 10-bis, del d.l. 24.06.2016 n. 113, convertito dalla l. 07.08.2016 n. 160, che ha innovato l'articolo 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131 in materia di attività consultiva della Corte), la stessa dovrà essere formulata per le Regioni, dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome e dalla Conferenza dei Presidenti delle assemblee legislative delle Regioni e delle Province autonome, mentre per i Comuni, le Province e le Città metropolitane, dalle rispettive componenti rappresentative nell'ambito della Conferenza unificata.
2. La questione deferita dalla Sezione di controllo pugliese attiene alla specifica ipotesi di ammissibilità soggettiva della richiesta di parere firmata dal vicesindaco nel caso di assenza o impedimento temporaneo del sindaco, ai sensi del secondo comma dell’art. 53 del d.lgs. n. 267/2000 (T.U.E.L.), il quale prevede che «Il vicesindaco ed il vicepresidente sostituiscono il sindaco e il presidente della provincia in caso di assenza o di impedimento temporaneo, nonché nel caso di sospensione dall'esercizio della funzione ai sensi dell'articolo 59».
Con riguardo, tuttavia, all’oggetto del parere richiesto dall’ente alla Sezione di controllo, sinteticamente riportato in premessa, va incidentalmente osservato che nella fattispecie anche l’ammissibilità oggettiva, alla luce di quanto sopra richiamato in merito ai rigorosi criteri che la delimitano, potrebbe apparire dubbia laddove la richiesta di parere fosse rivolta a conseguire indicazioni concrete per una specifica e puntuale attività gestionale dell’ente.
Si evidenzia, pertanto, l’opportunità che le Sezioni regionali di controllo non limitino l’esame al solo profilo dell’ammissibilità soggettiva, ma procedano comunque alla verifica della sussistenza di entrambi i requisiti di procedibilità, al fine di evitare che l’ente possa successivamente riproporre, una volta sanato il difetto di legittimazione soggettiva, la medesima richiesta oggettivamente inammissibile.
Tornando ai profili specifici della questione deferita a questa Sezione, nelle pronunce delle Sezioni regionali di controllo si sono evidenziati due diversi orientamenti. La tesi prevalente (si vedano, tra le altre: Corte dei conti, Sez. reg. Lombardia deliberazione n. 236/2018, n. 347/2015, n. 161/2015, e n. 177/2019; Sez. reg. Marche n. 196/2015; Sez. reg. Veneto n. 242/2018, Sez. reg. Campania, n. 22/2014 e n. 297/2016; Sez. reg. Umbria, deliberazione n. 70/2010; Sez. reg. Basilicata n. 58/2019) è nel senso di ritenere che la ricorrenza delle circostanze di cui all’art. 53 del T.U.E.L. debba trovare adeguata evidenziazione nella richiesta di parere. In particolare, è stato affermato che «…le circostanze che impediscono l’esercizio della funzione da parte del Sindaco devono essere indicate in modo espresso nella formulata richiesta di parere, al fine di poter preliminarmente imputare effettivamente la richiesta di parere all’ente per il tramite dell’organo vicario di quello legittimato, ex art. 53 del T.U.E.L.» (Sez. reg. Lombardia, n. 236/2018).
In altre pronunce si ammette in astratto la possibilità per il vicesindaco di formulare richiesta di parere anche in caso di impedimento temporaneo del Sindaco, confermando, tuttavia, la circostanza che le ragioni dell’impedimento debbano essere documentate, ovvero risultare da fatti notori (Sez. reg. Campania n. 297/2016 e Sez. reg. Veneto, n. 242/2018).
Diverso, invece, l’orientamento più risalente espresso dalla Sez. Lombardia nelle deliberazioni nn. 16/2006, 27/2008, 218/2014, nell’ultima delle quali si afferma che «…ai sensi dell’art. 53, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, il vicesindaco sostituisce il sindaco in caso di assenza o impedimento temporaneo ed è, pertanto, giuridicamente legittimato ad adottare tutti i provvedimenti oggettivamente necessari nell’interesse pubblico, essendo investito, come organo vicario, della pienezza dei poteri sostitutivi. Si precisa inoltre che anche nell’ipotesi in cui dall’atto del vicesindaco non emerga espressamente il titolo che legittima l’esercizio della potestà vicaria, deve ritenersi operante la presunzione che tale esercizio sia avvenuto nel rispetto dei presupposti di legge».
L’assunto della Sezione meneghina appare confortato dal TAR Bolzano, Trentino-Alto Adige, sez. I, sent. n. 129/2019: «La giurisprudenza, riferita alla pressoché identica disposizione statale contenuta nel Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali (art. 53, comma 2, del d.lgs. 18.08.2000, n. 267), ha chiarito che trattasi di una supplenza generale, prevista ex lege, che si estende a tutti gli atti del sindaco, senza bisogno di delega specifica, né di motivazione in ordine alle ragioni dell'impedimento del sindaco (in termini: Consiglio di Stato, Sez. V, 21.11.2003, n. 7617; Sez. I, 14.06.2001, n. 501/2001; Sez. V, 01.10.1999, n. 1224; TAR Palermo Sez. III, 12.10.2005, n. 2455 e TAR L'Aquila Sez. I, 06.06.2007, n. 288)».
3. Per inquadrare correttamente la questione proposta, occorre precisare che i limiti della funzione consultiva attribuita alla Corte dei conti attengono, quanto al profilo soggettivo, sia all'ente che ha la capacità di proporre l'istanza, sia al soggetto che può effettuare formalmente la richiesta.
Il primo limite, che può definirsi come “legittimazione soggettiva esterna”, è posto espressamente dall’art. 7, comma 8, della legge n. 131/2003. La legittimazione soggettiva esterna a richiedere pareri alle Sezioni regionali di controllo appartiene alle Regioni, che la esercitano direttamente, e a Comuni, Province e Città metropolitane, le cui richieste sono formulate, di norma, tramite il Consiglio delle autonomie locali, se istituito.
Al riguardo questa Sezione, nella già richiamata delibera n. 13/AUT/2007, ha ribadito la natura tassativa dell’elenco contenuto nella norma sopra richiamata, anche in base alla considerazione che l’elencazione (Regioni, Comuni, Province, Città metropolitane) riproduce letteralmente quella dell’articolo 114 della Costituzione, nel testo sostituito dall’art. 1 della legge costituzionale 18.10.2001, n. 3, della quale l’articolo 7, comma 8, della legge n. 131/2003 è norma di attuazione. Nella medesima delibera si è, inoltre, affermato che «la possibilità di andare oltre il significato letterale della legge, per applicare la norma anche a casi non espressamente previsti, ricorrendo all'interpretazione estensiva, è ammessa nel caso in cui l'oggetto non previsto possiede caratteri che lo assimilano a quelli contemplati dalla legge, tanto da presumere che il legislatore abbia omesso involontariamente di comprenderlo insieme con gli altri».
Il secondo limite, che può definirsi come “legittimazione soggettiva interna”, riguarda il potere di rappresentanza del soggetto che agisce in nome e per conto dell'ente nella richiesta di parere. Tale legittimazione deriva dalla ratio della funzione consultiva intestata dalla legge alla Corte dei conti, quale organo di magistratura indipendente di rilevanza costituzionale, che agisce in posizione di neutralità in un contesto di attribuzione di natura collaborativa nell'interesse generale del sistema delle autonomie locali.
Tale funzione non può risolversi in un servizio di consulenza amministrativa generale a favore dei soggetti interni al sistema delle autonomie, ovvero di consulenza amministrativa specifica su singoli atti a favore degli apparati burocratici degli enti territoriali. Consiste, invece, in un’interpretazione di norme fornita in termini di collaborazione istituzionale agli enti territoriali anche al fine del rispetto dell'equilibrio dei relativi bilanci, e dell'osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall'ordinamento dell'Unione Europea richiesto dall’art. 119 della Costituzione. Non può che conseguirne, dunque, l'ammissibilità soggettiva delle sole richieste provenienti dall’organo di vertice politico che detiene la rappresentanza istituzionale dell’ente.
4. Tanto premesso, ai sensi dell’art. 50, comma 2, T.U.E.L., è il sindaco il legale rappresentante dell’ente comunale e, pertanto, tale figura istituzionale costituisce organo di vertice politico con legittimazione soggettiva interna ed esterna a sollecitare l’esercizio della funzione consultiva da parte delle Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti. Queste ultime, tuttavia, non di rado si sono trovate a deliberare in merito a richieste di parere inoltrate dal vicesindaco. I poteri del vicesindaco sono disciplinati dall’art. 53 del T.U.E.L. rubricato “Dimissioni, impedimento, rimozione, decadenza, sospensione o decesso del Sindaco o del presidente della provincia”.
Nel primo comma della norma ora richiamata è regolato il caso di impedimento permanente o di sopravvenuta mancanza del Sindaco («In caso di impedimento permanente, rimozione, decadenza o decesso del sindaco o del presidente della provincia, la giunta decade e si procede allo scioglimento del consiglio. Il consiglio e la giunta rimangono in carica sino alla elezione del nuovo consiglio e del nuovo sindaco o presidente della provincia. Sino alle predette elezioni, le funzioni del sindaco e del presidente della provincia sono svolte, rispettivamente, dal vicesindaco e dal vicepresidente»).
Nel secondo comma è prevista l’ipotesi di impedimento temporaneo («Il vicesindaco ed il vicepresidente sostituiscono il sindaco e il presidente della provincia in caso di assenza o di impedimento temporaneo, nonché nel caso di sospensione dall'esercizio della funzione ai sensi dell'articolo 59»). Va evidenziato che la norma risulta priva di alcuni elementi idonei a precisarne la concreta portata: non è definita, infatti, l’ampiezza dei poteri sostitutivi del vicesindaco nelle diverse ipotesi dell’assenza, della sospensione o del temporaneo impedimento del sindaco e non sono, peraltro, specificati i casi in cui l’impedimento del sindaco debba qualificarsi permanente piuttosto che temporaneo. Tale indeterminatezza ha sollecitato il giudice amministrativo a pronunciarsi in merito alla portata del dettato normativo in oggetto.
In particolare, il Consiglio di Stato (parere Sez. I, 14.06.2001, n. 501/2001) ha ritenuto che «…secondo i principi, la preposizione di un sostituto all'ufficio o carica in cui si è realizzata la vacanza implica di norma l'attribuzione di tutti i poteri spettanti al titolare, con la sola limitazione temporale connessa alla vacanza stessa […] la legge ha manifestamente voluto evitare che l'impedimento del sindaco si risolvesse in una moratoria nell'attività di governo dell’ente».
L’assunto è ripreso dal TAR Bolzano, Trentino-Alto Adige (Sez. I, sent. n. 129/2019), che tuttavia, lo estende fino a ricomprendervi un profilo –la non necessità di motivare la sostituzione– che (come si dirà in proseguo) non è affatto esplicitato dai precedenti avvisi del Consiglio di Stato: «La giurisprudenza, riferita alla pressoché identica disposizione statale contenuta nel Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali (art. 53, comma 2, del d.lgs. 18.08.2000, n. 267), ha chiarito che trattasi di una supplenza generale, prevista ex lege, che si estende a tutti gli atti del sindaco, senza bisogno di delega specifica, né di motivazione in ordine alle ragioni dell'impedimento del sindaco» (in termini: Consiglio di Stato, Sez. V, 21.11.2003, n. 7617; Sez. V, 01.10.1999, n. 1224; TAR Palermo Sez. III, 12.10.2005, n. 2455 e TAR L'Aquila Sez. I, 06.06.2007, n. 288).
Orientamento analogo a quello della sentenza da ultimo richiamata è stato espresso, sostanzialmente, dalla Sezione regionale di controllo per la Lombardia nella deliberazione n. 218/2014/PAR. In tale pronuncia, come sopra evidenziato, viene affermato che «…ai sensi dell’art. 53, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, il vicesindaco sostituisce il sindaco in caso di assenza o impedimento temporaneo ed è, pertanto, giuridicamente legittimato ad adottare tutti i provvedimenti oggettivamente necessari nell’interesse pubblico, essendo investito, come organo vicario, della pienezza dei poteri sostitutivi. Si precisa inoltre che anche nell’ipotesi in cui dall’atto del vicesindaco non emerga espressamente il titolo che legittima l’esercizio della potestà vicaria, deve ritenersi operante la presunzione che tale esercizio sia avvenuto nel rispetto dei presupposti di legge».
5. Quest’ ultimo orientamento, proprio alla luce di quanto sopra evidenziato in merito alla ratio dell’attribuzione della funzione consultiva a questa Corte, non può essere condiviso. Sembra opportuno, innanzitutto, precisare che nella giurisprudenza del Consiglio di Stato, richiamata dalla sopra citata sentenza TAR Bolzano, Trentino-Alto Adige n. 129/2019, l’affermazione che la preposizione di un sostituto all'ufficio o carica in cui si è realizzata la vacanza implica di norma l'attribuzione di tutti i poteri spettanti al titolare, non comportando, invece, (e il Consiglio di Stato, infatti, non arriva ad una simile conclusione) che non debbano essere indicate le ragioni dell’impedimento del sindaco.
A maggior ragione, la “vicarietà” non può essere presunta dalla Sezione regionale di controllo quando si tratti di decidere circa il requisito soggettivo di ammissibilità della richiesta di parere, in quanto la tutela dell’esigenza di continuità nell’azione amministrativa dell’ente locale investe un aspetto diverso e, per così dire, “esterno” alla funzione consultiva di questa Corte, rispetto alla necessità che la circostanza che abilita alla sostituzione del sindaco, e quindi la “vicarietà” dell’esercizio delle di lui funzioni, venga esplicitamente indicata nella richiesta di parere.
Giova ricordare, infatti, che, ai sensi dell’art. 47, comma 3, del T.U.E.L., «Nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti e nelle province gli assessori sono nominati dal sindaco o dal presidente della provincia anche al di fuori dei componenti del consiglio, fra i cittadini in possesso dei requisiti di candidabilità, eleggibilità e compatibilità alla carica di consigliere». Analoga possibilità, ai sensi del comma 4 della medesima norma, può essere prevista nello Statuto dei comuni con popolazione inferiore a 15.000 abitanti.
Pertanto, può accadere che il vicesindaco non sia un soggetto direttamente investito di rappresentanza popolare, ovvero che sia nominato a sua volta da un vicesindaco (ad esempio, in ipotesi di decesso del sindaco), fino a giungere all’ipotesi che la richiesta di parere sia formulata dall’assessore più anziano “spendendo” i poteri sostitutivi del sindaco ove sia quest’ultimo che il vicesindaco abbiano un impedimento.
Appare del tutto evidente, quindi, che deve essere evitato il rischio che la richiesta di parere possa risolversi in un’interlocuzione tra una magistratura contabile competente per legge a fornire una consulenza a livello politico-istituzionale ed un organo di vertice politico che non sia deputato ad esprimere una richiesta (non meramente tecnico–amministrativa, ma) di interpretazione di norme funzionale a quella collaborazione istituzionale prefigurata dall’art. 119 della Costituzione. Con ciò prescindendosi anche dalle concrete e contingenti vicende dell’ente che hanno stimolato la richiesta di parere e per la cura delle quali è necessaria la continuità dell’azione amministrativa.
Risulta, pertanto, in linea con le considerazioni di cui sopra il parere espresso dalla Sezione di controllo della Lombardia (mutando il proprio precedente orientamento) nella deliberazione n. 236/2018, a mente della quale «
Le circostanze che impediscono l’esercizio della funzione da parte del Sindaco devono essere indicate in modo espresso nella formulata richiesta di parere, al fine di poter preliminarmente imputare effettivamente la richiesta di parere all’ente per il tramite dell’organo vicario di quello legittimato, ex art. 53 del T.U.E.L.».
Negli stessi termini che qui si condividono si sono pronunciate le Sezioni regionali Veneto n. 242/2018, Campania, n. 22/2014 e n. 297/2016; Umbria, n. 70/2010). In senso sostanzialmente conforme, da ultimo, anche la Sez. reg. Lombardia n. 404/2019: «
Sotto il profilo soggettivo, la richiesta di parere, proposta dal Vicesindaco, in considerazione della temporanea assenza del Sindaco per motivi di salute, deve ritenersi ammissibile in quanto, nella stessa istanza, vengono esplicitate in modo espresso le ragioni che legittimano lo stesso ad agire in sostituzione del sindaco e conseguentemente a rappresentare l’ente ai sensi dell’art. 52, comma 2 del TUEL».
P.Q.M.
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, pronunciandosi sulla questione di massima posta dalla Sezione regionale di controllo per la Puglia con la deliberazione n. 25/2020/PAR, enuncia il seguente principio di diritto:
«
Ai fini dell’ammissibilità soggettiva, nella richiesta di parere inoltrata, alla Sezione regionale di controllo, dal vicesindaco devono essere indicate espressamente le circostanze di cui all’art. 53 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (impedimento permanente o temporaneo, decadenza o decesso del Sindaco) che legittimano l’esercizio delle funzioni vicarie».
La Sezione regionale di controllo per la Puglia si atterrà ai principi di diritto enunciati nel presente atto di orientamento. Agli stessi principi si conformeranno tutte le Sezioni regionali di controllo ai sensi dell’art. 6, comma 4, del d.l. 10.10.2012, n. 174, convertito dalla legge 07.12.2012, n. 213 (Corte dei Conti, Sez. Autonomie, deliberazione 01.06.2020 n. 11).

maggio 2020

CONSIGLIERI COMUNALI - INCARICHI PROFESSIONALI: Le scelte degli amministratori pubblici, dovendo conformarsi ai criteri di legalità ed a quelli giuridici di economicità, di efficacia e di buon andamento, sono soggette al controllo della Corte dei Conti.
Nei giudizi di responsabilità amministrativa, poiché in via generale l'amministrazione deve provvedere ai suoi compiti con mezzi, organizzazione e personale propri, la Corte dei Conti può valutare se gli strumenti scelti dagli amministratori pubblici siano adeguati oppure esorbitanti ed estranei rispetto al fine pubblico da perseguire, e la verifica della legittimità dell'attività amministrativa non può prescindere dalla valutazione del rapporto tra gli obiettivi conseguiti e i costi sostenuti.
Inoltre,
la discrezionalità riconosciuta agli amministratori pubblici nell'individuazione della soluzione più idonea nel singolo caso concreto a realizzare l'interesse pubblico perseguito (causa e limite intrinseco e funzionale dell'attività della P.A.) è legittimamente esercitata in quanto risultino osservati i criteri giuridici informatori dell'agere della P.A. dettati dalla Costituzione (art. 97),
   - codificati all'art. 1, comma 1, L. n. 20 del 1994 («L'attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia e di pubblicità»), come modificato dall'art. 3 L. n. 546 del 1993 («ferma restando l'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali»),
   - ribaditi dall'art. 1 d.lgs. n. 29 del 1993 e dall'art. 1, comma 1, L. n. 286 del 1999 [«Le pubbliche amministrazioni devono: a) garantire la legittimità, regolarità e correttezza dell'azione amministrativa (controllo di regolarità amministrativa e contabile); b) verificare l'efficacia, efficienza ed economicità dell'azione amministrativa al fine di ottimizzare, anche mediante tempestivi interventi di correzione, il rapporto tra costi e risultati (controllo di gestione)»].

Pertanto,
le scelte degli amministratori, dovendo conformarsi ai suddetti criteri di legalità e a quelli giuridici di economicità (ottimizzazione dei risultati in relazione alle risorse disponibili), di efficacia (idoneità dell'azione amministrativa alla cura effettiva degli interessi pubblici da perseguire, congruenza teleologia e funzionale) e di buon andamento, sono soggette al controllo della Corte dei Conti, in quanto assumono rilevanza sul piano della legittimità e non della mera opportunità dell'azione amministrativa.
A tale stregua,
non eccede la giurisdizione contabile non solo la verifica se l'amministratore abbia compiuto l'attività per il perseguimento di finalità istituzionali dell'ente, ma anche se nell'agire amministrativo abbia rispettato tali norme e principi giuridici, sicché la Corte dei Conti non viola il limite giuridico della «riserva di amministrazione» (da intendere come preferenza tra alternative, nell'ambito della ragionevolezza, per il soddisfacimento dell'interesse pubblico) nel controllare anche la giuridicità sostanziale (e cioè l'osservanza dei criteri di razionalità, nel senso di correttezza e adeguatezza dell'agire, logicità, e proporzionalità tra costi affrontati e obbiettivi conseguiti, costituenti al contempo indici di misura del potere amministrativo e confini del sindacato giurisdizionale) dell'esercizio del potere discrezionale.
Non travalica, dunque, il limite esterno della giurisdizione contabile né quelli relativi alla riserva di amministrazione la pronunzia con la quale la Corte dei Conti ravvisi la non adeguatezza o esorbitanza rispetto al fine pubblico da perseguire.
L'insindacabilità "nel merito" delle scelte discrezionali compiute dai soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei Conti non comporta, infatti, che esse siano sottratte al sindacato giurisdizionale di conformità alla legge formale e sostanziale che regola l'attività e l'organizzazione amministrativa.
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Sotto altro profilo, con riferimento alle decisioni del giudice amministrativo si è da queste Sezioni Unite posto in rilievo che le stesse possono dirsi essere viziate per eccesso di potere giurisdizionale e, quindi, sindacabili per motivi inerenti alla giurisdizione, soltanto laddove detto giudice, eccedendo i limiti del riscontro di legittimità del provvedimento impugnato e sconfinando nella sfera del merito (riservato alla P.A.), compia una diretta e concreta valutazione della opportunità e convenienza dell'atto, ovvero quando la decisione finale, pur nel rispetto della formula dell'annullamento, esprima la volontà dell'organo giudicante di sostituirsi a quella dell'amministrazione, così esercitando una giurisdizione di merito in situazioni che avrebbero potuto dare ingresso soltanto a una giurisdizione di legittimità (cfr. Cass., Sez. Un., 30/10/2013, n. 24468).
Si è altresì sottolineato che nei giudizi di responsabilità amministrativa, poiché in via generale l'amministrazione deve provvedere ai suoi compiti con mezzi, organizzazione e personale propri, la Corte dei Conti può valutare se gli strumenti scelti dagli amministratori pubblici siano adeguati oppure esorbitanti ed estranei rispetto al fine pubblico da perseguire, e la verifica della legittimità dell'attività amministrativa non può prescindere dalla valutazione del rapporto tra gli obiettivi conseguiti e i costi sostenuti (cfr., per la negazione che violi i limiti esterni della giurisdizione contabile e quelli relativi alla riserva di amministrazione la pronuncia con la quale la Corte dei Conti ritenga illegittimo il ricorso ad incarichi esterni in assenza dei presupposti previsti dalla legge, Cass., Sez. Un., 23/11/2012, n. 20728; Cass., Sez. Un., 23/01/2012, n. 831).
Si è in proposito ulteriormente osservato come la discrezionalità riconosciuta agli amministratori pubblici nell'individuazione della soluzione più idonea nel singolo caso concreto a realizzare l'interesse pubblico perseguito (causa e limite intrinseco e funzionale dell'attività della P.A.) è legittimamente esercitata in quanto risultino osservati i criteri giuridici informatori dell'agere della P.A. dettati dalla Costituzione (art. 97), codificati all'art. 1, comma 1, L. n. 20 del 1994 («L'attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia e di pubblicità»), come modificato dall'art. 3 L. n. 546 del 1993 («ferma restando l'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali»), ribaditi dall'art. 1 d.lgs. n. 29 del 1993 e dall'art. 1, comma 1, L. n. 286 del 1999 [«Le pubbliche amministrazioni devono: a) garantire la legittimità, regolarità e correttezza dell'azione amministrativa (controllo di regolarità amministrativa e contabile); b) verificare l'efficacia, efficienza ed economicità dell'azione amministrativa al fine di ottimizzare, anche mediante tempestivi interventi di correzione, il rapporto tra costi e risultati (controllo di gestione)»].
Pertanto, le scelte degli amministratori, dovendo conformarsi ai suddetti criteri di legalità e a quelli giuridici di economicità (ottimizzazione dei risultati in relazione alle risorse disponibili), di efficacia (idoneità dell'azione amministrativa alla cura effettiva degli interessi pubblici da perseguire, congruenza teleologia e funzionale) e di buon andamento, sono soggette al controllo della Corte dei Conti, in quanto assumono rilevanza sul piano della legittimità e non della mera opportunità dell'azione amministrativa.
A tale stregua, non eccede la giurisdizione contabile non solo la verifica se l'amministratore abbia compiuto l'attività per il perseguimento di finalità istituzionali dell'ente, ma anche se nell'agire amministrativo abbia rispettato tali norme e principi giuridici, sicché la Corte dei Conti non viola il limite giuridico della «riserva di amministrazione» (da intendere come preferenza tra alternative, nell'ambito della ragionevolezza, per il soddisfacimento dell'interesse pubblico) nel controllare anche la giuridicità sostanziale (e cioè l'osservanza dei criteri di razionalità, nel senso di correttezza e adeguatezza dell'agire, logicità, e proporzionalità tra costi affrontati e obbiettivi conseguiti, costituenti al contempo indici di misura del potere amministrativo e confini del sindacato giurisdizionale) dell'esercizio del potere discrezionale.
Non travalica dunque il limite esterno della giurisdizione contabile né quelli relativi alla riserva di amministrazione la pronunzia con la quale, come nella specie, la Corte dei Conti ravvisi la non adeguatezza o esorbitanza rispetto al fine pubblico da perseguire (cfr., con riferimento alla diversa ipotesi dell'illegittimità del ricorso ad incarichi esterni in assenza dei presupposti previsti dalla legge, nonché con riferimento a consulenze, pareri e difesa giudiziale alla luce dei presupposti legali e delle clausole generali di giuridicità innanzi richiamati al fine di verificare la legittimità della scelta e la correttezza della gestione delle risorse pubbliche per i compensi corrisposti, alla luce anche del fondamentale principio del buon andamento e della ragionevole proporzionalità tra costi e benefici in relazione ai fini da perseguire, Cass., Sez. Un., 05/03/2009, n. 5288; Cass., Sez. Un., 09/05/2011, n. 10069; Cass., Sez. Un., 13/06/2011, n. 12902; Cass., Sez. Un., 23/01/2012, n. 831; Cass., Sez. Un., 13/02/2012, n. 1979; Cass., Sez. Un., n. 20728 del 2012; Cass., Sez. Un., n. 4283 del 2013; ancora, con riferimento all'attività amministrativa di potenziamento del servizio 118, Cass., Sez. Un., 14/05/2014, n. 10416).
L'insindacabilità "nel merito" delle scelte discrezionali compiute dai soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei Conti non comporta, infatti, che esse siano sottratte al sindacato giurisdizionale di conformità alla legge formale e sostanziale che regola l'attività e l'organizzazione amministrativa (v. Cass., Sez. Un., 28/06/2018, n. 17121) (Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, sentenza 13.05.2020 n. 8848).

CONSIGLIERI COMUNALI: Regolamento comunale per la disciplina del diritto di accesso dei consiglieri comunali ai documenti amministrativi.
I regolamenti comunali in tema di diritto di accesso agli atti da parte dei consiglieri comunali devono uniformarsi ai principi elaborati dalla giurisprudenza, secondo i quali detti amministratori vantano un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d’utilità all’espletamento delle loro funzioni.
Tale diritto non incontra alcuna limitazione derivante dalla eventuale natura riservata dei documenti richiesti, in quanto il consigliere è vincolato al segreto d'ufficio (fanno eccezione gli atti coperti da segreto in base a specifiche disposizioni di legge, come quelle che tutelano il segreto delle indagini penali o la segretezza della corrispondenza e delle comunicazioni). L’esercizio del diritto di accesso deve comunque avvenire con modalità tali da non recare pregiudizio all’attività degli uffici amministrativi.
Fermo che eventuali norme limitative dell’accesso dei consiglieri contenute nei regolamenti comunali devono essere interpretate ed applicate alla luce dei predetti principi, competerebbe unicamente all’autorità giudiziaria amministrativa, eventualmente adita, annullare le determinazioni amministrative illegittime.

Il Capogruppo consiliare chiede un parere in merito alla legittimità del regolamento adottato dal consiglio comunale, relativo alla disciplina del diritto di accesso agli atti da parte dei consiglieri comunali.
In via preliminare, si ricorda che non compete a questo Ufficio esprimersi in merito alla legittimità degli atti degli enti locali, stante l’avvenuta soppressione del regime dei controlli ad opera della legge costituzionale 3/2001. Di seguito, pertanto, si forniranno una serie di considerazioni giuridiche in ordine al diritto di accesso agli atti dei consiglieri comunali, che si ritiene possano risultare di utilità in relazione alla fattispecie prospettata.
L’articolo 43, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, recita: “I consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato. Essi sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge”.
Come affermato, in diverse occasioni, dalla giurisprudenza “i consiglieri comunali vantano un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d’utilità all’espletamento delle loro funzioni; ciò anche al fine di permettere di valutare con piena cognizione la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell’ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.”
[1].
Anche il Ministero dell’Interno, ha avuto modo di precisare che «il diritto dei consiglieri ha una ratio diversa da quella che contraddistingue il diritto di accesso ai documenti amministrativi riconosciuto alla generalità dei cittadini (ex articolo 10 del richiamato decreto legislativo n. 267/2000) ovvero a chiunque sia portatore di un "interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso (ex art. 22 e ss. della legge 07.08.1990, n. 241)»
[2].
E, ancora, in altra occasione, sempre il Ministero ha osservato che: “Fermo restando che l’Ente dovrebbe comunque disporre di apposito regolamento per la disciplina di dettaglio per l’esercizio di tale diritto, si osserva che la maggiore ampiezza di legittimazione all’accesso rispetto al cittadino (art. 10 del decreto legislativo n. 267/2000) è riconosciuta in ragione del particolare munus espletato dal consigliere comunale. Infatti, il consigliere deve essere posto nelle condizioni di valutare, con piena cognizione di causa, la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, onde potere esprimere un giudizio consapevole sulle questioni di competenza della P.A., opportunamente considerando il ruolo di garanzia democratica e la funzione pubblicistica da questi esercitata. A tal fine, il consigliere comunale non deve motivare la propria richiesta di informazioni, poiché, diversamente opinando, la P.A. si ergerebbe ad arbitro delle forme di esercizio delle potestà pubblicistiche dell’organo deputato all’individuazione ed al perseguimento dei fini collettivi. Conseguentemente, gli Uffici comunali non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l’oggetto delle richieste di informazioni avanzate da un Consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da questi espletato
[3].
Con riferimento ai limiti opponibili alle richieste di accesso dei consiglieri comunali, sulla scorta dei pronunciamenti giurisprudenziali intervenuti su tale tema è dato distinguere alcuni casi che costituiscono dei limiti formali alla richiesta di accesso da altri che, invece, riguardano il contenuto dell’eventuale documento richiesto dall’amministratore locale.
Sotto il primo profilo si segnala l’irricevibilità di richieste di accesso eccessivamente generiche o che per la loro mole possano recare pregiudizio all’attività degli uffici amministrativi. In questo senso si riporta una recente sentenza del giudice amministrativo la quale afferma che: “Le richieste di accesso agli atti fatte dai consiglieri comunali devono essere formulate in maniera specifica e dettagliata, recando l'indicazione degli estremi identificativi degli atti e dei documenti o, qualora tali elementi non siano noti al richiedente, almeno di quelli che consentano l'individuazione degli atti medesimi, in modo da comportare il minore aggravio agli uffici che dovranno esitare la richiesta, secondo i tempi necessari per non determinare interruzione alle altre attività di tipo corrente, e quindi senza pregiudizio per la corretta funzionalità amministrativa
[4].
Interessante, al riguardo, è anche una sentenza del Supremo giudice amministrativo il quale ha affermato che: “La giurisprudenza in tema di diritto di accesso ai documenti da parte dei consiglieri comunali e provinciali, e, per estensione, anche regionali, ne ha ravvisato il limite proprio nell'ipotesi in cui lo stesso si traduca in strategie ostruzionistiche o di paralisi dell'attività amministrativa con istanze che, a causa della loro continuità e numerosità, determinino un aggravio notevole del lavoro degli uffici ai quali sono rivolte e determinino un sindacato generale sull'attività dell'amministrazione. L'accesso, in altri termini, deve avvenire in modo da comportare il minore aggravio possibile per gli uffici comunali, e non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche o meramente emulative
[5].
Il Ministero dell’Interno, nel fare proprie le considerazioni espresse dalla giurisprudenza e sopra riportate, ha al riguardo precisato che, tuttavia, i limiti di cui sopra non possono comportare ingiustificate compressioni all’esercizio del diritto di accesso da parte dei consiglieri, con la conseguenza che non devono essere introdotte surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto stesso, determinandosi altrimenti un illegittimo ostacolo al concreto esercizio della funzione dell’amministratore locale, che è quella di verificare che il Sindaco e la Giunta municipale esercitino correttamente la loro funzione.
Al riguardo si riporta un parere nel quale il Ministero ha richiamato le considerazioni espresse dalla Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi
[6], la quale ha specificato che “in conformità al consolidato orientamento giurisprudenziale amministrativo (cfr., fra le molte, C.d.S., Sez. V, 22.05.2007, n. 929), riguardo le modalità di accesso alle informazioni e alla documentazione richieste dai consiglieri comunali ex art 43 TUEL, il diritto di accesso agli atti di un consigliere comunale -nell'esercizio del proprio munus publicum- non può subire compressioni di alcun genere, tali da ostacolare l'esercizio del suo mandato istituzionale, con l'unico limite di poter esaudire la richiesta (qualora essa sia di una certa gravosità) secondo i tempi necessari per non determinare interruzione alle altre attività di tipo corrente[7].
Con riferimento alla documentazione ostensibile ai consiglieri comunali, si ribadisce l’ampiezza che caratterizza le richieste di accesso avanzate dagli stessi: come rilevato dal Consiglio di Stato, “il diritto del consigliere comunale ad ottenere dall'ente tutte le informazioni utili all'espletamento delle funzioni non incontra neppure alcuna limitazione derivante dalla loro eventuale natura riservata, in quanto il consigliere è vincolato al segreto d'ufficio
[8].
Tuttavia, fermo il principio di cui sopra, la giurisprudenza ha negato l’accesso a degli amministratori locali relativamente a documentazione coperta da segreto istruttorio: “I consiglieri hanno l’incondizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d’utilità all’espletamento del loro mandato, al fine di permettere loro di valutare –con piena cognizione– la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione […]; diverso discorso è invece da farsi relativamente agli ulteriori atti di indagine penale, eventualmente delegata, che rientrano nel segreto istruttorio regolato dall’art. 329 c.p.p. e rispetto ai quali non può esercitarsi l’accesso se non nelle forme consentite dalla partecipazione al procedimento penale cui essi ineriscono
[9].
Nello stesso senso si è espresso anche il Ministero dell’Interno
[10] il quale, nel fare proprie due pronunce del Consiglio di Stato [11] ha osservato che: «L'Alto Consesso ha ritenuto che la posizione dei consiglieri comunali non possa essere talmente privilegiata da consentire loro l'accesso a tutti i documenti, anche segreti, dell'amministrazione, assumendo solo l'obbligo di non divulgare le relative notizie. […] Se ne deduce, così, che il diritto di accesso del consigliere comunale, da esercitarsi riguardo ai dati effettivamente utili all'esercizio del mandato ed ai soli fini di questo, deve essere coordinato con altre norme vigenti, come quelle che tutelano il segreto delle indagini penali o la segretezza della corrispondenza e delle comunicazioni […]».
Concludendo, si ritiene che i regolamenti comunali debbano uniformarsi ai principi elaborati dalla giurisprudenza sopra illustrati e che eventuali norme limitative dell’accesso dei consiglieri comunali debbano comunque essere interpretate ed applicate alla luce dei predetti principi.
In ogni caso, si rappresenta che, come tra l’altro affermato anche dal Ministero dell’Interno
[12] e dalla Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi [13], entrambi interpellati su una questione analoga a quella in esame [14], “l’autorità competente ad annullare eventuali determinazioni amministrative illegittime è solo il Tar […] salve le iniziative di modifica rimesse alla autonoma valutazione consiliare”.
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[1] TAR Sardegna Cagliari, sez. I, sentenza del 28.11.2017, n. 740; nello stesso senso, tra le altre, Consiglio di Stato, sentenza del 05.09.2014, n. 4525.
[2] Ministero dell’Interno, parere del 27.09.2018.
[3] Ministero dell’Interno, parere del 06.04.2017.
[4] TAR Campania Salerno, sez. II, sentenza del 04.04.2019, n. 545. Nello stesso senso si veda anche TAR Sardegna Cagliari, sez. I, sentenza del 13.02.2019, n. 128.
[5] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 02.03.2018, n. 1298.
[6] Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, “L’accesso ai documenti amministrativi”, anno 2011, sedute dell'11.10. e dell'08.11.2011.
[7] Ministero dell’Interno, parere del 18.05.2017.
[8] Consiglio di Stato, sez. V, sentenze del 29.08.2011, n. 4829 e del 04.05.2004, n. 2716.
[9] TAR Trento, sez. I, sentenza del 07.05.2009, n. 143. Nello stesso senso si veda Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 28.10.2016, n. 4537; TAR Sicilia, Catania, sentenza del 25.07.2017, n. 1943; TAR Potenza, sentenza del 14.12.2005, n. 1028.
[10] Ministero dell’Interno, parere del 13.02.2004.
[11] Rispettivamente Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 02.04.2001, n. 1893 e Consiglio di Stato, sentenza del 26.09.2000, n. 5105.
[12] Ministero dell’Interno parere del 18.05.2017, già citato in nota 7.
[13] Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, “L’accesso ai documenti amministrativi”, anno 2011, seduta dell'08.11.2011.
[14] In entrambi i casi si trattava della richiesta di parere in ordine alla legittimità del Regolamento per il diritto di accesso agli atti di un Comune, che si riteneva lesivo delle prerogative in materia di accesso stabilite per i consiglieri comunali
(08.05.2020 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

aprile 2020

CONSIGLIERI COMUNALI - LAVORI PUBBLICI: Accesso a cantieri da parte di consiglieri comunali.
Non è configurabile un diritto in senso stretto dei consiglieri comunali a visitare un cantiere dove si svolgono lavori affidati dal Comune o ad effettuarvi un sopralluogo, atteso che la legge nulla prevede per quanto riguarda tale evenienza, non potendo quindi individuarsi un corrispondente obbligo dell'Amministrazione di accogliere una richiesta in tal senso.
L’esercizio delle funzioni di controllo è, infatti, riconosciuto dall’ordinamento come funzione generale al consiglio quale organo nel suo complesso, che può avvalersi di commissioni consiliari appositamente istituite.
Non sono invece contemplate dalla normativa vigente per i consiglieri comunali competenze di tipo ispettivo da esercitarsi singolarmente su attività materiali, tanto più che, trattandosi di cantieri, spetta alle figure responsabili anche sotto il profilo delle norme in materia di sicurezza, in relazione alle proprie competenze, valutare la richiesta di accesso di persone comunque estranee ai lavori.

I Consiglieri comunali chiedono un parere in merito al diritto, agli stessi negato dal Comune, di accedere a cantieri nei quali si stanno realizzando alcune opere comunali, al fine di poter prendere visione personalmente dello stato di attuazione delle stesse, nell’esercizio delle funzioni loro proprie. Chiedono, altresì, che la Regione intervenga “affinché siano rimossi gli ostacoli frapposti dal Comune […] nei confronti degli scriventi Consiglieri Comunali”.
Preliminarmente, si osserva che non compete all’Amministrazione regionale intervenire su questioni siffatte: lo scrivente Servizio in questa sede si limita a fornire in via collaborativa delle considerazioni relative all’inquadramento giuridico della problematica in oggetto.
Il diritto di accesso degli amministratori locali trova la sua fonte normativa di riferimento nell’articolo 43, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, il quale attribuisce ai consiglieri il diritto di ottenere dagli uffici del comune, nonché dalle sue aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato.
Il fondamento di tale diritto risiede nel fatto che le informazioni acquisibili dagli amministratori dell’ente devono considerare l’esercizio, in tutte le sue potenziali esplicazioni, della funzione di cui ciascun amministratore è individualmente investito quale membro del consiglio. Di qui la possibilità per ognuno di essi di compiere, attraverso la visione dei provvedimenti adottati e l’acquisizione di informazioni, una compiuta valutazione della correttezza e dell’efficacia dell’operato dell’amministrazione comunale, utile non solo per poter esprimere un voto maggiormente consapevole sugli affari di competenza del consiglio, ma anche per promuovere, nell’ambito del consiglio stesso, le varie iniziative consentite dall’ordinamento ai membri di quel collegio
[1].
I consiglieri hanno infatti, a norma dell’articolo 43, commi 1 e 3, del decreto legislativo n. 267/2000, diritto di iniziativa su ogni questione sottoposta alla deliberazione del consiglio, hanno diritto di chiedere la convocazione del consiglio e di presentare interrogazioni, mozioni e ogni altra istanza di sindacato ispettivo, secondo la disciplina dettata dallo statuto e dal regolamento consiliare.
L’esercizio delle funzioni di controllo è riconosciuto dall’ordinamento come funzione generale al consiglio quale organo nel suo complesso, che può avvalersi di commissioni consiliari appositamente istituite ai sensi dell’articolo 44, comma 1, del decreto legislativo n. 267/2000, con funzioni di controllo e di garanzia. Il comma 2 consente l’istituzione all’interno dell’organo consiliare di commissioni di indagine sull’attività dell’amministrazione, demandando allo statuto e al regolamento consiliare la disciplina relativa a poteri, composizione e funzionamento.
Emerge di tutta evidenza che la normativa citata non contempla per i consiglieri comunali competenze di tipo ispettivo da esercitarsi singolarmente su attività materiali, tanto più che, trattandosi di cantieri, spetta alle figure responsabili anche sotto il profilo delle norme in materia di sicurezza, in relazione alle proprie competenze, valutare la richiesta di accesso di persone comunque estranee ai lavori
[2].
Alla luce delle considerazioni sopra esposte, non è configurabile un diritto in senso stretto dei consiglieri comunali a visitare un cantiere dove si svolgono lavori affidati dal Comune o ad effettuarvi un sopralluogo, atteso che la legge nulla prevede per quanto riguarda tale evenienza, non potendo quindi individuarsi un corrispondente obbligo dell'Amministrazione di accogliere una richiesta in tal senso.
Ferma la mancanza di tale obbligo in capo al Comune, si ribadisce che consentire o meno l‘accesso dei consiglieri comunali ai cantieri rientra nella responsabilità dell’Amministrazione, la quale deve operare al riguardo un’attenta ponderazione della normativa in materia di sicurezza, tenendo anche in debita considerazione i provvedimenti dalla stessa adottati in attuazione del D.Lgs. 09.04.2008, n. 81.
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[1] Si veda, tra le altre, TAR Campania Salerno, sez. II, sentenza del 04.04.2019, n. 545 la quale recita: “Le istanze di accesso avanzate dai componenti dei consigli comunali presentano una loro specificità rispetto a quella della generalità dei cittadini, essendo ai primi riconosciuti ampi poteri ai sensi dell'art. 43 D.Lgs. n. 267/2000. In particolare, il diritto di accesso dei consiglieri comunali, nella sua tendenziale onnicomprensività, è strettamente funzionale all'esercizio delle funzioni di indirizzo e controllo degli atti degli organi decisionali dell'ente locali, consentendo loro di valutare, con piena cognizione, la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione e di promuovere le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale, e quindi si configura come significativa espressione del principio democratico dell'autonomia locale e della rappresentanza responsabile della collettività.
[2] In questo senso si è espressa anche l’ANCI in un parere del 26.10.2005 nel quale, in coerenza con quanto sopra già espresso, ha osservato che: “Si ritiene comunque che competa ai consiglieri comunali la più ampia facoltà ai sensi dell’art. 43 tuel di prendere visione ed estrarre copia di atti e documentazione amministrativa che si trovi presso gli uffici comunali. Sulla base di tali principi si può pertanto ritenere che competa ai consiglieri comunali di visionare, chiedendone se del caso copia, gli elaborati tecnici afferenti a lavori pubblici sussistendo, per converso, un correlativo obbligo degli uffici di rilasciarli; - Non appare invece ammissibile che tali stessi soggetti possano accedere, in forza della qualifica posseduta, nei cantieri per effettuare attività di vigilanza; - Ai consiglieri comunali l'ordinamento non assegna infatti poteri di "vigilanza" o "controllo" di questo tipo (che semmai competono agli organi di polizia municipale dell'ente)”
(09.04.2020 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

marzo 2020

CONSIGLIERI COMUNALI: Emergenza COVID-19. Pubblicità delle sedute del consiglio comunale.
Nella situazione di emergenza da COVID -19 in atto, nel silenzio del regolamento, spetta al sindaco, quale presidente del consiglio comunale, stabilire le modalità che meglio possano soddisfare il rispetto del principio di pubblicità delle sedute consiliari.
Nel confronto tra l’effettuare la diretta streaming o, invece, il procedere alla diffusione, successivamente alla seduta, della registrazione integrale della stessa, si ritiene che la prima modalità, qualora la strumentazione necessaria sia nella disponibilità dell’Ente, configuri lo strumento che in maniera più diretta ed efficace consentirebbe di dare adeguata pubblicità alla seduta del consiglio comunale.

Il Comune chiede un parere in merito alle modalità di svolgimento delle sedute del consiglio comunale in questo particolare momento caratterizzato dalla situazione di emergenza da Covid-19 in atto. Più in particolare desidera sapere se vi sia l’obbligo che le sedute consiliari si tengano in diretta streaming o se il requisito della pubblicità possa essere soddisfatto anche in differita, per il tramite della pubblicazione della registrazione. Chiede, altresì, se, in caso di registrazione della seduta, il segretario comunale debba comunque riportare nel verbale, in sintesi, i tratti salienti della discussione.
La materia delle modalità di svolgimento delle sedute consiliari in questo momento di emergenza sanitaria in atto è stato regolamento sia dal legislatore regionale che statale. Il primo è intervenuto con la legge regionale 13.03.2020, n. 3 recante “Prime misure urgenti per far fronte all’emergenza epidemiologica da COVID–19”, la quale all’articolo 11 reca “Modalità di svolgimento delle sedute della Giunta regionale e del Consiglio regionale in casi di emergenza”. Tale articolo risulta di interesse anche per gli enti locali della nostra Regione stante il disposto di cui al comma 5, secondo cui “Le disposizioni di cui ai commi da 1 a 4 possono trovare applicazione anche agli enti locali della regione, in quanto compatibili con il loro ordinamento e nel rispetto della propria autonomia”.
Nell’evidenziare che la norma sopra citata pone una facoltà (“possono”) per gli enti locali di adeguarsi a quanto disposto dalla norma stessa, si riproduce il contenuto della disposizione recentemente emanata dal Consiglio regionale secondo cui:
1. In caso di situazione di particolare gravità e urgenza, riconosciuta con provvedimento del Consiglio dei Ministri o del Presidente del Consiglio dei Ministri, che renda temporaneamente impossibile o particolarmente difficile al Consiglio regionale, alle Commissioni consiliari, alla Conferenza dei Presidenti dei Gruppi consiliari o alla Giunta regionale riunirsi secondo le ordinarie modalità stabilite dalla normativa vigente, è consentito lo svolgimento delle sedute in modalità telematica.
2. Ai fini della presente legge, per seduta in modalità telematica si intendono le sedute degli organi collegiali di cui al comma 1 con partecipazione a distanza dei componenti dell’organo stesso attraverso l’utilizzo di strumenti telematici idonei a consentire la comunicazione in tempo reale a due vie e, quindi, il collegamento simultaneo fra tutti i partecipanti ed idonei, per quanto riguarda il Consiglio regionale, a permettere l’espressione del voto anche a scrutinio segreto.
3. La sussistenza delle condizioni di cui al comma 1 è riconosciuta:
   a) per il Consiglio regionale e per le Commissioni consiliari, dal Presidente del Consiglio, sentita la Conferenza dei Presidenti dei Gruppi consiliari;
   b) omissis;
   c) omissis.
4. Con gli atti di rispettiva competenza gli organi di cui al comma 1 adottano le necessarie disposizioni attuative di quanto disposto dal presente articolo.
5. Le disposizioni di cui ai commi da 1 a 4 possono trovare applicazione anche agli enti locali della regione, in quanto compatibili con il loro ordinamento e nel rispetto della propria autonomia
”.
A livello di normazione statale è stato emanato in data 17.03.2020 il decreto legge n. 18 recante “Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19” il quale all’articolo 73, comma 1, prevede che “Al fine di contrastare e contenere la diffusione del virus COVID-19 e fino alla data di cessazione dello stato di emergenza deliberato dal Consiglio dei ministri il 31.01.2020, i consigli dei comuni, delle province e delle città metropolitane e le giunte comunali, che non abbiano regolamentato modalità di svolgimento delle sedute in videoconferenza, possono riunirsi secondo tali modalità, nel rispetto di criteri di trasparenza e tracciabilità previamente fissati dal presidente del consiglio, ove previsto, o dal sindaco, purché siano individuati sistemi che consentano di identificare con certezza i partecipanti, sia assicurata la regolarità dello svolgimento delle sedute e vengano garantiti lo svolgimento delle funzioni di cui all'articolo 97 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, nonché adeguata pubblicità delle sedute, ove previsto, secondo le modalità individuate da ciascun ente”.
Il successivo comma 5 stabilisce, infine, che: “Dall'attuazione della presente disposizione non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. Le amministrazioni pubbliche interessate provvedono agli adempimenti di cui al presente articolo con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente sui propri bilanci”.
Premesso che, stante la potestà legislativa esclusiva della nostra Regione in materia di ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni
[1], esercitata con l’emanazione della legge regionale 3/2020, in Friuli Venezia Giulia trova applicazione la legge regionale in luogo di quella statale, pur tuttavia dal confronto tra le due disposizioni si evince la sostanziale conformità dei precetti dalle stesse posti.
Inoltre, quanto al requisito della pubblicità delle sedute da tenersi in modalità telematica/videoconferenza, oggetto del presente quesito, la legge regionale nulla dice espressamente, laddove, invece, il legislatore statale ha unicamente disposto che debba essere data “adeguata pubblicità delle sedute […] secondo le modalità individuate da ciascun ente”. Per tale parte si ritiene che il legislatore statale abbia espresso un principio generale applicabile anche nella nostra Regione.
Atteso che il regolamento dell’Ente non dispone alcunché circa tale aspetto, si ritiene che spetti al Sindaco, quale Presidente del consiglio comunale, stabilire le modalità che, nell’attuale situazione emergenziale, meglio possano soddisfare il rispetto del principio di pubblicità delle sedute consiliari. A tal fine, si ritiene che l’Ente debba avvalersi degli strumenti a propria disposizione, attesa anche la previsione di legge statale di cui all’articolo 73, comma 5, del DL 18/2020, secondo cui “le amministrazioni pubbliche interessate provvedono agli adempimenti di cui al presente articolo con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente sui propri bilanci”.
In particolare, delle due modalità proposte nel quesito, l’una consistente nella diretta streaming e l’altra nella pubblicazione, successivamente alla seduta, della registrazione integrale della seduta stessa, nel ribadire che spetta al Presidente del consiglio decidere quale modalità utilizzare, preferibilmente previo confronto con i Capigruppo
[2], si ritiene che entrambe le modalità prefigurate siano in grado di raggiungere lo scopo per il quale sono state predisposte e cioè consentire la pubblicità della seduta del consiglio comunale.
Ciò premesso non può sottacersi che, qualora il Comune abbia la strumentazione necessaria a consentire la diretta streaming, essa pare configurare lo strumento che in maniera più diretta ed efficace consentirebbe di dare adeguata pubblicità alla seduta del consiglio comunale.
Con riferimento all’ultima questione posta, si ritiene che il segretario comunale debba comunque indicare nel verbale, tra gli altri, l’argomento trattato nella discussione, con tale espressione intendendosi far riferimento all’indicazione dei tratti salienti della seduta stessa
[3].
---------------
[1] Ai sensi dell’articolo 4, primo comma, n. 1-bis), dello Statuto di autonomia, introdotto dalla legge costituzionale 23.09.1993, n. 2.
[2] In mancanza di diversa previsione regolamentare, attuativa delle disposizioni normative inerenti allo svolgimento delle sedute consiliari in modalità telematica/videoconferenza, si ritiene infatti che, nell’ambito della leale collaborazione tra maggioranza e minoranze consiliari, sia opportuno che il Sindaco senta i Capigruppo.
[3] L’articolo 81 del regolamento consiliare (rubricato “Processo verbale delle sedute”) prevede che il segretario debba redigere il processo verbale della seduta indicando “a) la data e l’ora della seduta; b) il numero di consiglieri presenti e le generalità degli assenti; c) l’argomento che viene trattato; d) il risultato della discussione, con l’indicazione del numero dei Consiglieri che hanno votato a favore della proposta, delle generalità di quelli che hanno votato contro la proposta o che si siano astenuti” (articolo 81, comma 2)
(31.03.2020 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: La privacy al tempo del virus COVID-19.
Domanda
Un consigliere di minoranza, con una interpellanza urgente, ha chiesto al sindaco di pubblicare giornalmente, nel sito web del comune, i nominativi e gli indirizzi delle persone risultate positive ai test sul COVD-19, sulla base dei dati trasmessi dalla Prefettura, così da consentire agli altri cittadini si prendere le loro precauzioni.
E’ possibile farlo?
Risposta
L’emergenza sanitaria, che ha colpito così tanto duramente la nostra nazione –e il mondo intero– ha comportato l’adozione di misure per il contenimento del contagio molto rilevanti e inimmaginabili sino a un mese fa.
Alcune di queste limitazioni hanno toccato, persino, dei diritti fondamentali. Si pensi, per tutti, al diritto di libera circolazione e al diritto di riunione, sanciti rispettivamente dagli articoli 16 e 17 della Costituzione.
È giusto chiedersi, dunque, se lo stato di emergenza nazionale dichiarato con una delibera del Consiglio dei ministri del 31.01.2020, per la durata di sei mesi, possa, in qualche modo, incidere anche sul diritto alla tutela dei dati delle persone fisiche, così come disciplinati dal Regolamento (UE) 2016/679 e, per quanto compatibili, dal decreto legislativo 30.06.2003, n. 196, alla luce delle modifiche introdotte dal d.lgs. 10.08.2018, n. 101.
La domanda risulta legittima, oltre che doverosa e una prima risposta è venuta direttamente dal Comitato Europeo per la Protezione dei Dati (EDPB) con la “Dichiarazione sul trattamento dei dati personali nel contesto dell’epidemia di COVID-19”, adottata il 19.03.2020.
Il massimo organismo europeo in materia di tutela della privacy afferma che: “Le norme in materia di protezione dei dati (come il regolamento generale sulla protezione dei dati) non ostacolano l’adozione di misure per il contrasto della pandemia di coronavirus. La lotta contro le malattie trasmissibili è un importante obiettivo condiviso da tutte le nazioni e, pertanto, dovrebbe essere sostenuta nel miglior modo possibile. È nell’interesse dell’umanità arginare la diffusione delle malattie e utilizzare tecniche moderne nella lotta contro i flagelli che colpiscono gran parte del mondo. Il Comitato europeo per la protezione dei dati desidera comunque sottolineare che, anche in questi momenti eccezionali, titolari e responsabili del trattamento devono garantire la protezione dei dati personali degli interessati. Occorre pertanto tenere conto di una serie di considerazioni per garantire la liceità del trattamento di dati personali e, in ogni caso, si deve ricordare che qualsiasi misura adottata in questo contesto deve rispettare i principi generali del diritto e non può essere irrevocabile. L’emergenza è una condizione giuridica che può legittimare limitazioni delle libertà, a condizione che tali limitazioni siano proporzionate e confinate al periodo di emergenza”.
Il documento, consultabile nel sito web del Garante Privacy italiano al seguente link, tratta argomenti importanti come:
   1 .La liceità del trattamento;
   2. i principi fondamentali relativi al trattamento dei dati personali;
   3. l’uso dei dati di localizzazione da dispositivi mobili;
   4. l’utilizzo dei dati nel contesto lavorativo.
In buona sostanza, anche la recentissima indicazione dell’EDPB, rileva che le esigenze di contenimento dell’epidemia (pandemia, dall’11.03.2020, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità) e la tutela dei dati “particolari” –come la salute– delle persone fisiche, rappresentano esigenze contrapposte che vanno “contemperate”. Per fare ciò è necessario eliminare gli agganci tra il dato personale di salute e la giusta necessità di informare la popolazione; ciò lo si può fare applicando la pseudonimizzazione o l’anonimizzazione.
Rispondendo, quindi, alla specifica domanda del quesito è possibile osservare che il sindaco, anche nella sua veste di autorità sanitaria locale (ex art. 32, della legge 833/1978), riceve dalle autorità sanitarie regionali o dalla Prefettura, i dati personali, completi di nominativo e indirizzo, sia delle persone risultate “positive” ai test, che delle persone collocate in quarantena fiduciaria dall’autorità sanitaria. Tale trasferimento di dati risulta indispensabile anche per poter dare modo al sindaco –tramite gli addetti della polizia locale– di procedere ai necessari controlli e verifiche, circa il rispetto del periodo di quarantena, da parte dei soggetti che ne sono obbligati.
Per quanto riguarda, invece, la comunicazione dei dati personali riferiti allo stato di salute via web in favore dei cittadini (del globo), sarà necessario rendere anonimi i dati riferiti ai nominativi e indirizzi di residenza delle persone sottoposte a misure, pubblicando solamente un dato numerico complessivo che dia conto, eventualmente, delle persone risultate positive e di quelle che sono collocate in quarantena fiduciaria.
D’altro canto, va ricordato che la “sicurezza” degli altri cittadini, viene garantita dall’autorità sanitaria competente per territorio, la quale è tenuta a svolgere un’accurata indagine epidemiologica e a porre in “quarantena con sorveglianza attiva” tutte quelle persone che possono essere entrate in contatto con il soggetto positivo. Qualsiasi altra soluzione adottata –oltre a violare gli articolo 6 e 9 del Regolamento (UE) 2016/679– darebbe lo spunto per avviare una iniqua e pericolosa “caccia all’untore” (29.03.2020 - link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Emergenza COVID-19. Sedute del consiglio comunale.
Lo svolgimento delle sedute del consiglio comunale, nella situazione di emergenza da Covid-19 in atto, pur nell’assenza di prescrizioni normative specifiche, impositive di particolari obblighi, deve avvenire con modalità coerenti con le indicazioni che, a livello nazionale e regionale, sono fornite per cercare di limitare quanto più possibile la diffusione del virus.
Compete al presidente del consiglio comunale/sindaco stabilire tali modalità di gestione delle sedute consiliari quali la necessità che esse si tengano a porte chiuse, in guisa da evitare assembramenti di persone, o l’opportunità di limitare le sedute del consiglio a quelle aventi ad oggetto questioni urgenti e in ogni caso non differibili.

Il Comune, in considerazione della situazione di emergenza da Covid-19 in atto, chiede un parere in merito alle modalità di svolgimento dei consigli comunali. In particolare, desidererebbe avere delle indicazioni generali sulle modalità di gestione delle sedute consiliari, tra cui la necessità/opportunità di limitare le stesse ai soli casi di necessità e indifferibilità.
In via preliminare si osserva che, ai sensi dell’articolo 38, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 “il funzionamento dei consigli, nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto, è disciplinato dal regolamento”.
Ai sensi dell’articolo 4 del regolamento sul funzionamento del consiglio comunale, la presidenza del consiglio spetta al sindaco (o, in caso di sua assenza, al vicesindaco) il quale, ai sensi del successivo articolo 5, provvede, tra l’altro, al “proficuo funzionamento dell’assemblea consiliare” (comma 2) ed “esercita i poteri necessari per mantenere l’ordine e per assicurare l’osservanza della legge, dello Statuto e del regolamento” (comma 3).
Spetta, pertanto, al sindaco, nella sua qualità di presidente del consiglio comunale, assumere ogni decisione circa l’ordinato e proficuo svolgimento delle sedute consiliari: nel particolare contesto in essere si ritiene che il potere del sindaco comprenda ogni decisione ritenuta idonea a fronteggiare l’emergenza esistente e, in particolare, permetta lo svolgimento delle sedute consiliari con modalità coerenti con le indicazioni che, a livello nazionale e regionale, sono fornite per cercare di limitare quanto più possibile la diffusione del virus.
Con riferimento alle norme emanate, sia dal legislatore statale che regionale, per fronteggiare l’emergenza in atto, non paiono sussistere prescrizioni specifiche, impositive di particolari obblighi circa la tenuta delle sedute consiliari.
In particolare, quanto alla normativa statale, i decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri emanati in attuazione del decreto-legge 23.02.2020, n. 6 pongono l’obbligo di rispettare una serie di condizioni generali di tipo igienico-sanitario, la cui applicabilità è collegata all’esistenza di più persone che si ritrovano in un unico luogo: di qui la necessità del loro rispetto anche nel caso di sedute del consiglio comunale con la presenza “fisica” dei consiglieri
[1].
Corollario della ratio sottesa all’emanazione di tali norme (che è quella di evitare i contatti ravvicinati tra le persone al fine di limitare quanto più possibile la trasmissione del virus da un individuo ad un altro) pare essere, altresì, la necessità che, in questo momento di emergenza, le sedute del consiglio comunale si tengano a porte chiuse, in guisa da limitare assembramenti di persone
[2].
In linea con la ratio sopra indicata e con le prescrizioni che a livello statale sono state adottate per gli altri settori della vita quotidiana, si porrebbe, anche l’eventuale decisione del sindaco, quale presidente del consiglio comunale, di limitare le sedute del consiglio a quelle aventi ad oggetto questioni urgenti e in ogni caso non differibili. Nel ribadire l’inesistenza di un obbligo siffatto, una decisione di tale natura risulterebbe senz’altro coerente con l’attuale situazione emergenziale in essere e con le indicazioni esistenti a livello nazionale che depongono nel senso di limitare, sotto ogni profilo, gli spostamenti e i “movimenti” di persone.
A tale riguardo, si fa presente che in data 12.03.2020 l’Assessore regionale alle autonomie locali, funzione pubblica, sicurezza, politiche dell'immigrazione, corregionali all'estero e lingue minoritarie ha inviato a tutti i sindaci della nostra regione una nota nella quale, tra l’altro, si afferma che: “E’ evidente che la situazione emergenziale che coinvolge l’intera Nazione, comporta anche sacrifici e rallentamenti ineludibili in numerose attività anche lavorative. Ciò significa che è dovere di tutti –soprattutto di coloro che abbiano responsabilità pubbliche– discernere con serietà le attività veramente indifferibili da ogni altra che potrà essere svolta o soddisfatta successivamente”.
Inoltre, si segnala anche la legge regionale 13.03.2020, n. 3 recante “Prime misure urgenti per far fronte all’emergenza epidemiologica da COVID–19”, la quale all’articolo 11 reca “Modalità di svolgimento delle sedute della Giunta regionale e del Consiglio regionale in casi di emergenza”. Tale articolo risulta di interesse anche per gli enti locali della nostra Regione stante il disposto di cui al comma 5, secondo cui “Le disposizioni di cui ai commi da 1 a 4 possono trovare applicazione anche agli enti locali della regione, in quanto compatibili con il loro ordinamento e nel rispetto della propria autonomia
[3].
Nell’evidenziare che la norma sopra citata pone una facoltà (“possono”) per gli enti locali di adeguarsi a quanto disposto dalla stessa, si riproduce il contenuto della disposizione recentemente emanata dal Consiglio regionale secondo cui:
1. In caso di situazione di particolare gravità e urgenza, riconosciuta con provvedimento del Consiglio dei Ministri o del Presidente del Consiglio dei Ministri, che renda temporaneamente impossibile o particolarmente difficile al Consiglio regionale, alle Commissioni consiliari, alla Conferenza dei Presidenti dei Gruppi consiliari o alla Giunta regionale riunirsi secondo le ordinarie modalità stabilite dalla normativa vigente, è consentito lo svolgimento delle sedute in modalità telematica.
2. Ai fini della presente legge, per seduta in modalità telematica si intendono le sedute degli organi collegiali di cui al comma 1 con partecipazione a distanza dei componenti dell’organo stesso attraverso l’utilizzo di strumenti telematici idonei a consentire la comunicazione in tempo reale a due vie e, quindi, il collegamento simultaneo fra tutti i partecipanti ed idonei, per quanto riguarda il Consiglio regionale, a permettere l’espressione del voto anche a scrutinio segreto.
3. La sussistenza delle condizioni di cui al comma 1 è riconosciuta:
   a) per il Consiglio regionale e per le Commissioni consiliari, dal Presidente del Consiglio, sentita la Conferenza dei Presidenti dei Gruppi consiliari;
   b) omissis;
   c) omissis.
4. Con gli atti di rispettiva competenza gli organi di cui al comma 1 adottano le necessarie disposizioni attuative di quanto disposto dal presente articolo.
5. Le disposizioni di cui ai commi da 1 a 4 possono trovare applicazione anche agli enti locali della regione, in quanto compatibili con il loro ordinamento e nel rispetto della propria autonomia
” (16.03.2020 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Gruppi consiliari.
   1) La disciplina dei gruppi consiliari, ai sensi dell’art. 38, comma 2, del D.Lgs. 267/2000, è dettata dal regolamento sul funzionamento del consiglio comunale “nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto”. Pertanto, le problematiche relative alla costituzione e al funzionamento dei gruppi consiliari devono essere valutate alla stregua delle specifiche norme statutarie e regolamentari di cui l’ente si è dotato.
   2) Qualora un consigliere comunale esca dal gruppo di originaria appartenenza e non intenda aderire ad alcun gruppo esistente, dovrebbe essergli data la possibilità di aderire al gruppo misto, se esistente, o di costituirlo ex novo: la possibilità che il gruppo misto sia costituito anche da un solo componente soddisfa, infatti, il diritto di autodeterminazione del consigliere e consentirebbe il pieno rispetto del principio costituzionalmente garantito del divieto di mandato imperativo.

Il Consigliere comunale desidera sapere quale sia la “prassi corretta da seguire per dimettersi dal gruppo elettorale di appartenenza mantenendo però la posizione di consigliere comunale di minoranza indipendente”. La questione posta attiene la più ampia tematica della disciplina dei gruppi consiliari all’interno della compagine assembleare comunale.
In via preliminare si osserva che “il principio generale del divieto di mandato imperativo sancito dall’articolo 67 della Costituzione, e pacificamente applicabile ad ogni assemblea elettiva, assicura ad ogni consigliere l’esercizio del mandato ricevuto dagli elettori –pur conservando verso gli stessi la responsabilità politica– con assoluta libertà, ivi compresa quella di far venir meno l’appartenenza dell’eletto alla lista o alla coalizione di originaria appartenenza
[1].
Sempre in termini generali si chiarisce che, come rilevato dal Ministero dell’Interno, “i gruppi non sono configurabili quali organi dei partiti e, pertanto, non sembra sussistere in capo a questi ultimi una potestà direttamente vincolante sia per un membro del gruppo di riferimento, che per gli organi assembleari dell’ente
[2].
Interessante, al riguardo è una pronuncia del giudice amministrativo la quale ha precisato che “i gruppi consiliari, in seno al Consiglio comunale […] hanno […] una duplice natura. Essi infatti rappresentano, per un verso, la proiezione dei partiti all’interno delle assemblee, e, per altro verso, costituiscono parte dell’ordinamento assembleare, in quanto articolazioni interne di un organo istituzionale. È dunque possibile distinguere due piani di attività dei gruppi: uno, più strettamente politico, che concerne il rapporto del singolo gruppo con il partito politico di riferimento, l’altro, gravitante nell’ambito pubblicistico, in relazione al quale i gruppi costituiscono strumenti necessari per lo svolgimento delle funzioni proprie degli organi assembleari, contribuendo ad assicurare l’elaborazione di proposte e il confronto dialettico tra le diverse posizioni politiche e programmatiche
[3].
Con riferimento alla fattispecie in esame l’intenzione del consigliere comunale è quella di uscire dal gruppo originario di appartenenza costituito dai consiglieri eletti nella medesima lista. A seguito di tali dimissioni si porrebbe la questione di definire la nuova collocazione che assumerebbe l’indicato consigliere attesa la sua volontà di mantenere “la posizione di consigliere comunale di minoranza indipendente”.
La questione verrà nel prosieguo affrontata sotto il profilo della disciplina dei gruppi consiliari, e non già di quello dei gruppi politici, l’appartenenza o l’uscita dai quali è regolamentata dalle norme interne dei diversi movimenti politici, senza influenza diretta sull’attività del consiglio comunale.
Preliminarmente, si ricorda che la disciplina dei gruppi consiliari, ai sensi dell’articolo 38, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, è dettata dal regolamento sul funzionamento del consiglio comunale “nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto”, essendo riconosciuta ai consigli piena autonomia funzionale ed organizzativa. Pertanto, le problematiche relative alla costituzione e al funzionamento dei gruppi consiliari devono essere valutate alla stregua delle specifiche norme statutarie e regolamentari di cui l’ente si è dotato.
Tale disciplina è contenuta nell’articolo 30 dello statuto comunale e nell’articolo 8 del regolamento sul funzionamento del consiglio comunale.
Il primo (articolo 30 dello statuto) recita: “I consiglieri possono costituirsi in gruppi, designando il capogruppo, secondo quanto previsto nel regolamento e ne danno comunicazione al Segretario comunale. Qualora non si eserciti tale facoltà o nelle more della designazione, i capigruppo sono individuati nei consiglieri che abbiano riportato il maggior numero dei voti nella lista di appartenenza”.
Il secondo (articolo 8 del regolamento consiliare) prevede che:
   “1. I Consiglieri eletti nella medesima lista formano, di regola, un Gruppo Consiliare.
   2. Ciascun Gruppo è costituito da almeno due Consiglieri. Nel caso che una lista presentata alle elezioni abbia avuto eletto un solo Consigliere, a questi sono riconosciute le prerogative e la rappresentanza spettanti ad un Gruppo Consiliare.
   3. I singoli Gruppi devono comunicare per iscritto al Sindaco il nome del Capo gruppo, durante la prima riunione del Consiglio neo-eletto. […]
   4. Il Consigliere che intende appartenere ad un Gruppo diverso da quello in cui è stato eletto deve darne comunicazione al Sindaco, allegando la dichiarazione di accettazione del Capo del nuovo gruppo.
   5. Il Consigliere che si distacca dal gruppo in cui è stato eletto e non aderisce ad altri gruppi non acquisisce le prerogative spettanti ad un gruppo consiliare. Qualora più Consiglieri vengano a trovarsi nella predetta condizione, essi costituiscono un gruppo misto che elegge al suo interno il Capo gruppo. Della costituzione del gruppo misto deve essere data comunicazione per iscritto al Sindaco, da parte dei Consiglieri interessati.
   6. Omissis
”.
In via preliminare necessita ricordare che l’interpretazione delle norme regolamentari in oggetto spetta in via esclusiva al consiglio comunale che è l’organo competente all’adozione delle stesse. Di seguito pertanto si forniscono delle possibili interpretazioni dell’articolo 8 del regolamento per il funzionamento del consiglio che possano essere di ausilio per la soluzione della questione posta.
Quanto alle modalità da porre in essere per uscire dal gruppo di appartenenza si ritiene applicabile il disposto di cui al comma 4 dell’articolo 8 citato secondo cui “Il Consigliere che intende appartenere ad un Gruppo diverso da quello in cui è stato eletto deve darne comunicazione al Sindaco”. Si ritiene che tale norma possa applicarsi non solo nel caso, espressamente disciplinato, di uscita da un gruppo e adesione ad altro già esistente ma anche nella diversa ipotesi in cui non esista un gruppo al quale aderire.
Peraltro, l’articolo 30 dello statuto comunale prevede che la costituzione dei gruppi consiliari debba essere comunicata al segretario comunale. Al fine di coordinare le due disposizioni si ritiene opportuno che la comunicazione da parte dell’amministratore locale venga effettuata nei confronti sia del sindaco che del segretario comunale.
Si pone, poi, la questione di individuare il gruppo di successiva appartenenza del consigliere comunale in riferimento.
Attesa, infatti, l’impossibilità per il consigliere di costituire da solo un gruppo autonomo, stante la previsione di cui al comma 2 dell’articolo 8 del regolamento consiliare in base al quale “ciascun gruppo è costituito da almeno due Consiglieri”, bisogna considerare la possibilità che lo stesso entri a far parte del gruppo misto o lo costituisca, se non esistente. Non pare invece sostenibile la possibilità che un amministratore locale non faccia parte di alcun gruppo consiliare. La mancata incardinazione in un gruppo consiliare, infatti, si tradurrebbe in un’inaccettabile penalizzazione per il consigliere, attesa l’esistenza di diverse norme nel nostro ordinamento che presuppongono l’appartenenza ad un gruppo consiliare
[4].
Nel ribadire che la materia dei gruppi consiliari deve trovare la propria disciplina nelle norme statutarie e regolamentari dell’ente locale, si osserva che l’articolo 8, comma 5, del regolamento sul funzionamento del consiglio comunale parrebbe non consentire la possibilità di istituire il gruppo misto anche con la partecipazione di un unico componente. Esso, infatti, prevede che: “Il Consigliere che si distacca dal gruppo in cui è stato eletto e non aderisce ad altri gruppi non acquisisce le prerogative spettanti ad un gruppo consiliare. Qualora più Consiglieri vengano a trovarsi nella predetta condizione, essi costituiscono un gruppo misto che elegge al suo interno il Capo gruppo. Della costituzione del gruppo misto deve essere data comunicazione per iscritto al Sindaco, da parte dei Consiglieri interessati”.
Occorre, peraltro, considerare che in linea generale il gruppo misto è un gruppo consiliare con carattere residuale, nel quale confluiscono i consiglieri, anche di diverso orientamento, che non si riconoscono negli altri gruppi costituiti, o che non possono costituire un proprio gruppo per mancanza delle condizioni previste dallo statuto o dal regolamento e la cui costituzione non dovrebbe essere subordinata alla presenza di un numero minimo di componenti. La possibilità di consentire che il gruppo misto sia costituito anche da un solo componente soddisfa, in altri termini, il diritto di autodeterminazione del consigliere e consentirebbe il pieno rispetto del principio costituzionalmente garantito del divieto di mandato imperativo.
Si rileva, ancora, che fino a quando il gruppo misto è composto da un solo membro, lo stesso dovrebbe assumere automaticamente la veste di capogruppo.
Il Ministero dell’Interno, in diverse occasioni, nell’affrontare la questione in riferimento, pur premettendo che “le problematiche relative alla costituzione e funzionamento dei gruppi consiliari devono essere valutate alla stregua delle specifiche norme statutarie e regolamentari di cui l’ente locale si è dotato
[5], stante la piena autonomia funzionale e organizzativa riconosciuta ai consigli comunali, ha affermato che “l’esercizio del diritto di costituire il gruppo misto non dovrebbe essere subordinato alla presenza di un numero minimo di componenti [6].
Concludendo, alla luce delle considerazioni suesposte le norme regolamentari del Comune dovrebbero rispettare i principi sopra espressi per quanto concerne la costituzione del gruppo misto. Si suggerisce, pertanto, di richiedere all’Ente di appartenenza di valutare l'opportunità di procedere alla modifica di quelle disposizioni che si pongano in contrasto con essi e che costituirebbero una lesione delle prerogative riconosciute ai consiglieri comunali.
---------------
[1] Così TAR Trentino Alto Adige, sentenza del 09.03.2009, n. 75.
[2] Ministero dell’Interno, parere del 21.01.2020.
[3] TAR Lazio, Roma, sez. II-ter, sentenza del 15.12.2004, n. 16240.
[4] Una tale necessità si desume da diverse previsioni che presuppongono l’esistenza dei gruppi consiliari all’interno del consiglio comunale. Si pensi, a titolo di esempio, alla norma di cui all’art. 38, comma 3, TUEL, ove si demanda al regolamento sul funzionamento del consiglio la disciplina, tra l’altro, anche della gestione delle risorse attribuite per il funzionamento dei gruppi consiliari regolarmente costituiti o all’art. 39, comma 4, TUEL il quale prevede che il presidente del consiglio comunale assicuri una adeguata e preventiva informazione ai gruppi consiliari sulle questioni sottoposte al consiglio.
[5] Ministero dell’Interno, parere del 12.08.2019.
[6] Ministero dell’Interno, parere del 22.11.2019. Nello stesso senso Ministero dell’Interno, parere del 21.07.2017
(05.03.2020 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

febbraio 2020

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Consigli, parla lo statuto. Un consigliere non può restare senza gruppo. Se non ci sono le condizioni per costituirne uno, deve confluire nel misto.
Un consigliere può essere espulso dal proprio gruppo consiliare?

Un consigliere comunale è stato espulso dal gruppo consiliare di appartenenza essendo «venuto meno il necessario rapporto di fiducia», e lo stesso amministratore non ha aderito ad alcun altro gruppo compreso il gruppo misto. Nell'ambito dei consigli comunali, i gruppi non sono configurabili quali organi dei partiti e, pertanto, non sembra sussistere in capo a questi ultimi una potestà direttamente vincolante sia per un membro del gruppo di riferimento, che per gli organi assembleari dell'ente.
Si richiama la sentenza n. 16240/2004 con la quale il Tar Lazio ha precisato che i gruppi consiliari hanno una duplice natura; essi rappresentano, per un verso, la proiezione dei partiti all'interno delle assemblee, e, per altro verso, costituiscono parte dell'ordinamento assembleare, in quanto articolazioni interne di un organo istituzionale. Nella citata pronuncia, si legge che «è dunque possibile distinguere due piani di attività dei gruppi: uno, più strettamente politico, che concerne il rapporto del singolo gruppo con il partito politico di riferimento, l'altro, gravitante nell'ambito pubblicistico, in relazione al quale i gruppi costituiscono strumenti necessari per lo svolgimento delle funzioni proprie degli organi assembleari, contribuendo ad assicurare l'elaborazione di proposte e il confronto dialettico tra le diverse posizioni politiche e programmatiche».
L'art. 38, comma 2, del Tuel demanda al regolamento, «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto», la disciplina del funzionamento dei consigli; pertanto, le problematiche relative alla costituzione e al funzionamento dei gruppi consiliari devono essere valutate alla stregua delle specifiche norme statutarie e regolamentari di cui l'ente locale si è dotato.
Dalla lettura dello statuto e del regolamento sul funzionamento del consiglio comunale, emerge che i consiglieri possono costituire gruppi monopersonali solamente nel caso in cui sia stato eletto un solo consigliere nell'ambito di una lista, oppure, «in corrispondenza della nascita di nuovi movimenti politici a livello nazionale». Dall'esame delle norme citate emerge, altresì, che, qualora i consiglieri nel corso della consiliatura abbiano abbandonato il proprio gruppo originario, ove non abbiano diritto a costituire un gruppo di un solo componente, «vanno assegnati al gruppo misto».
Tali disposizioni, nel prevedere l'iscrizione d'ufficio al gruppo misto in assenza dei presupposti previsti a giustificazione del gruppo monopersonale, sembrerebbero escludere la possibilità che il consigliere possa decidere di non appartenere ad alcun gruppo. Nell'ambito delle surriferite fonti di autonomia locale non sembra potersi rinvenire una specifica normativa che preveda l'ipotesi della espulsione di un consigliere dal proprio gruppo di appartenenza originario.
Tanto premesso, nel ribadire che la materia dei gruppi consiliari è interamente demandata allo statuto e al regolamento sul funzionamento del consiglio, si rappresenta che è in tale ambito che dovrebbero trovare adeguata soluzione le relative problematiche applicative. Spetta, infatti, alle decisioni del consiglio comunale, valutare l'opportunità di indicare, con apposita modifica regolamentare, anche le ipotesi in argomento
(articolo ItaliaOggi del 21.02.2020).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGOPubblicazione provvedimenti organi indirizzo e dirigenti.
Domanda
Quali sono i provvedimenti adottati dagli organi di indirizzo e dai dirigenti, oggetto degli specifici obblighi di pubblicazione, di cui all’art. 23, del d.lgs. n. 33/2013?
Risposta
L’articolo 23, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, nella sua versione iniziale, prevedeva l’obbligo di pubblicare e aggiornare ogni sei mesi, in distinte partizioni della sezione «Amministrazione trasparente», gli elenchi dei provvedimenti adottati dagli organi di indirizzo politico e dai dirigenti, con particolare riferimento ai provvedimenti finali dei procedimenti di:
   a) autorizzazione o concessione;
   b) scelta del contraente per l’affidamento di lavori, forniture e servizi, anche con riferimento alla modalità di selezione prescelta ai sensi del codice dei contratti pubblici, relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al d.lgs. n. 163/2006;
   c) concorsi e prove selettive per l’assunzione del personale e progressioni di carriera di cui all’art. 24 del d.lgs. n. 150/2009;
   d) accordi stipulati dall’amministrazione con soggetti privati o con altre amministrazioni pubbliche.
Il successivo comma 2, stabiliva, invece, che per ciascuno dei provvedimenti compresi negli elenchi di cui al comma 1 doveva essere pubblicato:
   • il contenuto;
   • l’oggetto;
   • l’eventuale spesa prevista;
   • gli estremi relativi ai principali documenti contenuti nel fascicolo relativo al procedimento.
La pubblicazione doveva avvenire nella forma di una scheda sintetica, prodotta automaticamente in sede di formazione del documento che contiene l’atto.
La norma originaria –peraltro non cristallina nella sua formulazione, in virtù della presenza della locuzione “con particolare riferimento”– ha subito delle sostanziali modifiche da parte dell’articolo 22, comma 1, del decreto legislativo 25.05.2016, n. 97, che ha abrogato le lettere a) e c), del comma 1 e l’intero comma 2.
Alla luce delle modifiche intervenute, il testo dell’art. 23, del d.lgs. 33/2013, risulta, oggi, così strutturato:
Art. 23 Obblighi di pubblicazione concernenti i provvedimenti amministrativi
   1. Le pubbliche amministrazioni pubblicano e aggiornano ogni sei mesi, in distinte partizioni della sezione «Amministrazione trasparente», gli elenchi dei provvedimenti adottati dagli organi di indirizzo politico e dai dirigenti, con particolare riferimento ai provvedimenti finali dei procedimenti di:
[a) autorizzazione o concessione;]
b) scelta del contraente per l’affidamento di lavori, forniture e servizi, anche con riferimento alla modalità di selezione prescelta ai sensi del codice dei contratti pubblici, relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al d.lgs. 18.04.2016, n. 50, fermo restando quanto previsto dall’articolo 9-bis;
[c) concorsi e prove selettive per l’assunzione del personale e progressioni di carriera di cui all’art. 24 del d.lgs. 150/2009;]
d) accordi stipulati dall’amministrazione con soggetti privati o con altre amministrazioni pubbliche, ai sensi degli artt. 11 e 15 della legge 07.08.1990, n. 241.
   [2. Per ciascuno dei provvedimenti compresi negli elenchi di cui al comma 1 sono pubblicati il contenuto, l’oggetto, la eventuale spesa prevista e gli estremi relativi ai principali documenti contenuti nel fascicolo relativo al procedimento. La pubblicazione avviene nella forma di una scheda sintetica, prodotta automaticamente in sede di formazione del documento che contiene l’atto.]
Alla luce di quanto sopra, la risposta al quesito può essere formulata come di seguito riportato:
   – ogni sei mesi e per la durata di anni cinque, occorre pubblicare su Amministrazione trasparente > Provvedimenti, un elenco con i principali provvedimenti degli organi di indirizzo che, nei comuni, sono il Sindaco, la Giunta e il Consiglio comunale
[1], pertanto, andranno pubblicati i seguenti elenchi:
   • deliberazioni di Consiglio comunale;
   • deliberazione di Giunta comunale;
   • ordinanze del sindaco, ex art. 50 del TUEL 267/2000;
   • ordinanze del sindaco, ex art. 54 TUEL 267/2000;
   • decreti del sindaco.
Per ciò che concerne i dirigenti (o posizioni organizzative, in enti senza la dirigenza) occorre pubblicare degli elenchi semestrali di:
   • determinazioni dirigenziali;
   • ordinanze dirigenziali.
La tempistica degli obblighi di pubblicazione può essere indicata nella sezione Trasparenza, del Piano Anticorruzione, prevedendo –ma è solo una nostra indicazione– che gli elenchi del primo semestre dell’anno vengano pubblicati entro il 30 settembre del medesimo anno e gli elenchi del secondo semestre, entro il 31 marzo dell’anno successivo.
Per quanto riguarda, invece, gli atti per la scelta del contraente per l’affidamento di lavori, forniture e servizi, si ritiene che l’obbligo possa ritenersi già assolto, pubblicando tutti gli atti nella sottosezione Bandi di gara e contratti, come scrupolosamente previsto dall’articolo 37, del d.lgs. 33/2013
[2], mentre per gli accordi con altri soggetti, stipulati ai sensi degli artt. 11 e 15 della legge 241/1990, l’obbligo sarà già assolto con la pubblicazione degli elenchi delle deliberazioni di Giunta e di Consiglio o, in caso di accordi di rilevante impatto sull’organizzazione e sulle funzioni dell’ente, nella sottosezione Disposizioni generali > Atti generali.
L’elenco, in assenza di specifiche indicazioni della legge e dell’ANAC
[3], si ritiene che possa essere formato come da tabella sotto riportata, prestando la massima attenzione e cautela al contenuto dell’oggetto dell’atto, soprattutto alla luce delle vigenti disposizioni in materia di tutela dei dati personali (si pensi, a titolo di esempio per tutti, alle ordinanze sindacali di TSO e ASO [4]).

ATTO                     NUM.   DATA           OGGETTO
Delibera consiliare   01       07.01.2020   Approvazione …


Contrariamente a ciò che si trova pubblicato in alcuni siti web di qualche ente locale, chi scrive, ritiene che non sia più pubblicabile il contenuto (cioè il testo integrale) degli atti adottati dagli amministratori e dai dirigenti. Ciò in virtù dell’introduzione, nella legislazione italiana, proprio dal d.lgs. 97/2016, dell’innovativo (e per certi versi rivoluzionario) istituto dell’accesso civico generalizzato (cosiddetto: FOIA)
[5].
Istituto attraverso il quale, qualsiasi cittadino del mondo, potrà avanzare richiesta di accesso ai dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, in forma totalmente gratuita e senza necessità di motivazione. Una volta consultati gli elenchi e avuto contezza dell’oggetto dell’atto, sarà estremamente agevole presentare istanza di accesso con il FOIA o con la legge 241/1990 (Titolo V, motivando la richiesta ex art. 22, comma 1, lettera b
[6]). I relativi modelli per garantire l’accesso (FOIA o legge 241), dovranno essere pubblicati e resi facilmente scaricabili e compilabili, dagli enti nella sottosezione Altri contenuti > Accesso civico.
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[1] Si veda articolo 36, comma 1, del d.lgs. 18.08.2000, n. 267;
[2] Si veda Allegato 1, delibera ANAC n. 1310 del 28/12/2016, sottosezione “Provvedimenti”;
[3] Si veda Paragrafo 5.5, della delibera ANAC n. 1310 del 28/12/2016, recante “Prime linee guida recanti indicazioni sull’attuazione degli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni contenute nel d.lgs. 33/2013 come modificato dal d.lgs. 97/2016”;
[4] TSO = Trattamento Sanitario Obbligatorio; ASO = Assistenza Sanitaria Obbligatoria;
[5] Si veda articolo 5, comma 2 e seguenti e articolo 5-bis, d.lgs. 33/2013;
[6] Legge 241/1990, art. 22, co. 1, lettera b): per “interessati”, tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso
(18.02.2020 - link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALIBarriere architettoniche, il Comune che non le elimina discrimina indirettamente il consigliere disabile.
Il Comune attua una forma di «discriminazione indiretta» contro il consigliere disabile se non rimuove le barriere architettoniche che gli impediscono di accedere "in via autonoma" alla sala consiliare. L'ente locale è tenuto a risarcirgli i danni subiti in relazione a tutto il periodo in cui il suo diritto di accesso è stato impedito a meno dell'aiuto di terzi, per quanto messi a disposizione dall'ente stesso. E, la successiva installazione di un'ascensore per disabili non cancella i disagi subiti che sono appunto il danno ingiusto risarcibile in termini di responsabilità aquiliana.

La Corte di Cassazione, Sez. III civile, con la sentenza 13.02.2020 n. 3691 conferma -a carico del Comune- il risarcimento del danno, quantificato in via equitativa, in favore del consigliere penalizzato dalla mancata predisposizione di modifiche architettoniche o di sistemi ad hoc per rendere accessibili i luoghi pubblici di sua appartenenti a chi sia portatore di disabilità.
A nulla rilevando che in alternativa al sostegno fisico del personale comunale di servizio il Comune avesse anche deciso di tenere le assemblee consiliari nella palestra elementare proprio per favorire il consigliere in difficoltà. Si tratta, comunque di quella discriminazione indiretta -a norma del comma 3 dell'articolo 2 della legge 67/2006- che non è mirata contro una singola persona concretamente danneggiata dallo stato dei luoghi, ma rileva per la sua potenzialità lesiva dei diritti dei disabili coinvolti dalla situazione di fatto.
Quindi la mancanza di volontà di discriminare una specifica persona non fa venir meno la violazione dei diritti costituzionalmente garantiti ai portatori di handicap fisico.
L'elemento soggettivo che rileva non è l'intenzione volontaria o colpevole di arrecare un danno, ma la negligenza e la mera inerzia del soggetto chiamato ad adempiere al dovere di rimuovere le barriere architettoniche per consentire il corrispondente esercizio del diritto all'accessibilità. Come dice la Cassazione la discriminazione indiretta si realizza anche con «comportamenti neutri». Mentre non è elemento neutro, bensì fonte di responsabilità aquiliana, la mancata predisposizione di mezzi tesi a migliorare l'accesso dei disabili agli edifici già costruiti, in attesa di interventi definitivi maggiormente migliorativi per l'esercizio del relativo diritto.
Infatti, per tale motivo la Cassazione ha confermato il ragionamento dei giudici di appello che avevano respinto la lamentela del Comune sul proprio obbligo di risarcire, in quanto aveva predisposto un mezzo ("trattorino") che seppur non adeguato a garantire l'accesso autonomo del disabile dimostrava l'intenzione di superamento delle barriere architettoniche. Invece, nelle more dell'intervento edilizio risolutivo sussiste la responsabilità anche per la misura provvisoria inadeguata allo scopo. Ovviamente tale qualità di adeguatezza (in questo caso, di un montascale piuttosto che di un trattorino) è valutazione di merito non ridiscutibile in sede di legittimità.
Infine il Comune contestava la liquidazione del danno in via equitativa facendo rilevare il proprio sforzo di contemperare i limiti fisici di un edificio anni '50 con l'esigenza di accedere da parte del consigliere disabile. La Cassazione fa notare che è l'inadeguatezza dell'azione messa in campo a tutela della persona disabile a determinare il vulnus risarcibile. In questo caso si è trattato della predisposizione di un mezzo insicuro e non utilizzabile in via autonoma da parte del fruitore.
Conclude la Cassazione che in sede di legittimità è insindacabile il giudizio del giudice di merito che ravvisa i presupposti del risarcimento in via equitativa, mentre deve essere percepibile e quindi ricorribile in Cassazione l'eventuale carenza motivazionale sul calcolo del quantum (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 14.02.2020).
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MASSIMA
6. Il ricorso va rigettato.
6.1. In particolare, il primo motivo è in parte non fondato e in parte inammissibile.
6.1.1. La censura è, in particolare, non fondata, laddove pretende di attribuire natura programmatica alle norme che impongono l'eliminazione delle barriere architettoniche.
Giova premettere, al riguardo, come questa Corte abbia già affermato che
l'esistenza di "ampia definizione legislativa e regolamentare di barriere architettoniche e di accessibilità rende la normativa sull'obbligo dell'eliminazione delle prime, e sul diritto alla seconda per le persone con disabilità, immediatamente precettiva ed idonea a far ritenere prive di qualsivoglia legittima giustificazione la discriminazione o la situazione di svantaggio in cui si vengano a trovare queste ultime", consentendo loro "il ricorso alla tutela antidiscriminatoria, quando l'accessibilità sia impedita o limitata" ciò, a prescindere, "dall'esistenza di una norma regolamentare apposita che attribuisca la qualificazione di barriera architettonica ad un determinato stato dei luoghi" (così, in motivazione Cass. Sez. 3, sent. 23.09.2016, n. 18762, Rv. 642103-02).
Una conclusione, questa, che appare del tutto in linea con la necessità di assicurare alla normativa suddetta un'interpretazione conforme a Costituzione, se è vero che -come sottolinea la stessa giurisprudenza costituzionale- l'accessibilità "è divenuta una «qualitas» essenziale" perfino "degli edifici privati di nuova costruzione ad uso di civile abitazione, quale conseguenza dell'affermarsi, nella coscienza sociale, del dovere collettivo di rimuovere, preventivamente, ogni possibile ostacolo alla esplicazione dei diritti fondamentali delle persone affette da handicap fisici" (così, Corte cost., sent. n. 167 del 1999; nello stesso senso, Corte cost. sent. n. 251 del 2008).
Del pari,
si è sottolineato come "il superamento delle barriere architettoniche -tra le quali rientrano, ai sensi dell'art. 1, comma 2, lettera b), del d.P.R. n. 503 del 1996, gli «ostacoli che limitano o impediscono a chiunque la comoda e sicura utilizzazione di spazi, attrezzature o componenti»- è stato previsto (comma 1 dell'art. 27 della legge n. 118 del 1971) «per facilitare la vita di relazione» delle persone disabili", evidenziandosi che tali principi "rispondono all'esigenza di una generale salvaguardia della personalità e dei diritti dei disabili e trovano base costituzionale nella garanzia della dignità della persona e del fondamentale diritto alla salute degli interessati, intesa quest'ultima nel significato, proprio dell'art. 32 Cost., comprensivo anche della salute psichica oltre che fisica" (così, nuovamente, Corte cost. sent. n. 251 del 2008).
6.1.2. Il motivo è, invece, addirittura inammissibile laddove il ricorrente deduce di aver ottemperato al dovere di apportare all'edificio municipale "tutti quegli accorgimenti che possano migliorarne la fruibilità da parte dei disabili", attraverso la messa disposizione del "trattorino", lamentando, così, la violazione, in particolare, dell'art. 1, comma 3, del d.P.R. n. 503 del 1996.
Così prospettata, infatti, la censura fuoriesce dalla portata applicativa dell'art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ., e ciò alla stregua del principio secondo cui "il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un'erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l'allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa" -che è quanto si lamenta nel caso di specie, dal momento che ci si duole del fatto che il "trattorino" non sia stato ritenuto accorgimento idoneo ad migliore la fruibilità dell'edificio municipale in attesa dell'installazione dell'ascensore- "è, invece, esterna all'esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità" (da ultimo, "ex multis", Cass. Sez. 1, ord. 13.10.2017, n. 24155, Rv. 645538-03, nonché Cass. Sez. 3, ord. 13.03.2018, n. 6035, Rv. 648414-01).
Lo stesso è a dirsi della dedotta errata interpretazione dell'art. 2 della legge n. 67 del 2006, giacché la censura è basata sull'assunto che esso Comune si sarebbe tempestivamente attivato per l'installazione dell'ascensore, ovvero su una valutazione fattuale, preclusa in questa sede, essendo inammissibile il motivo di ricorso per cassazione "con cui si deduca, apparentemente, una violazione di norme di legge mirando, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito" (da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 04.04.2017, n. 8758, Rv. 643690-01).
6.2. Il secondo motivo è anch'esso in parte non fondato e in parte inammissibile.
6.2.1. Va, innanzitutto, esaminata la censura secondo cui la sentenza impugnata avrebbe omesso del tutto "la valutazione dell'elemento soggettivo dell'azione del Comune volta al superamento della barriera architettonica", e ciò minimizzando l'installazione del cd. "trattorino".
Al riguardo, deve osservarsi -nel ribadire, peraltro, che il riconoscimento del carattere discriminatorio di "una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri" in ogni caso "presuppone la verifica della sussistenza degli elementi soggettivi ed oggettivi dell'illecito aquiliano ai sensi dell'art. 2043 cod. civ., al quale va ricondotta la fattispecie prevista dall'art. 3, comma 3, della legge n. 67 del 2006" (cfr. Cass. Sez. 3, sent. n. 18762 del 2016, cit.)- che tale censura, ancora una volta, finisce con il risolversi nella richiesta di un apprezzamento di fatto sulla idoneità del "trattorino" a garantire l'accessibilità all'edificio municipale, non consentita in questa sede, donde la sua inammissibilità.
6.2.2. Quanto, invece, alla censura che investe la determinazione del risarcimento del danno, va evidenziato -nel senso, questa volta, della non fondatezza- come quello previsto dalla norma in esame sia uno sistema equitativo di liquidazione del danno.
Di conseguenza, trovano applicazione i principi secondo cui "l'esercizio, in concreto, del potere discrezionale conferito al giudice di liquidare il danno in via equitativa non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità", purché a condizione -soddisfatta nel caso che occupa- che "la motivazione della decisione dia adeguatamente conto dell'uso di tale facoltà, indicando il processo logico e valutativo seguito" (da ultimo, Cass. Sez. 3, sent. 13.10.2017, n. 24070, Rv. 645831-01; in senso analogo Cass. Sez. 1, sent. 15.03.2016, n. 5090, Rv. 639029-01), restando, poi, inteso che "al fine di evitare che la relativa decisione si presenti come arbitraria e sottratta ad ogni controllo", occorre che il giudice indichi, anche solo "sommariamente e nell'ambito dell'ampio potere discrezionale che gli è proprio, i criteri seguiti per determinare l'entità del danno e gli elementi su cui ha basato la sua decisione in ordine al «quantum»" (Cass. Sez. 3, sent. 31.01.2018, n. 2327, Rv. 647590-01), senza però che egli sia "tenuto a fornire una dimostrazione minuziosa e particolareggiata di un univoco e necessario rapporto di consequenzialità di ciascuno degli elementi esaminati e l'ammontare del danno liquidato, essendo sufficiente che il suo accertamento sia scaturito da un esame della situazione processuale globalmente considerata" (Cass. Sez. 3, sent. 10.11.2015, n. 22885, Rv. 637822-01).
Nel caso di specie, la Corte marchigiana, nell'operare la quantificazione, ha dichiarato di aver "tenuto conto della destinazione d'uso del fabbricato interessato, della qualifica rivestita all'epoca dall'istante, nonché del periodo di tempo per il quale si è protratta la situazione di inadempienza dell'ente territoriale", così indicando i criteri seguiti nella determinazione del "quantum".

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALILa piattaforma ANAC per l’acquisizione dei piani triennali di prevenzione della corruzione.
Domanda
Da una lettura delle disposizioni in merito alla stesura del PTPCT 2020 e agli adempimenti da eseguire, successivamente alla approvazione definitiva, è emersa la necessità di compilare il questionario sul sito di ANAC secondo le modalità indicate nella “Piattaforma di Acquisizione dei Piani Triennali per la Prevenzione della Corruzione e per la Trasparenza – Guida alla compilazione dei questionari per le Pubbliche Amministrazioni”.
Si chiede se tale compilazione sia obbligatoria e se è da effettuarsi entro il termine del 31 gennaio 2020, medesimo termine indicato per la approvazione del PTPCT.
Risposta
L’articolo 1, comma 8, della legge 06.11.2012, n. 190, prevede che, entro il 31 gennaio di ogni anno, l’organo di indirizzo politico, su proposta del Responsabile della Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (RPCT), adotti il Piano Triennale di Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (PTPCT) e lo trasmetta all’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC)
Al comma 14, del medesimo articolo, si prevede che, entro il 15 dicembre di ogni anno, il RPCT trasmetta all’organo di indirizzo politico e all’Organismo Indipendente di Valutazione (OIV) una relazione recante i risultati dell’attività svolta e la pubblichi sul sito web dell’amministrazione.
I due adempimenti (PTPCT e Relazione annuale) sono evidentemente collegati in quanto il nuovo PTPCT dovrà tener conto dei risultati dell’annualità precedente.
Generalmente l’ANAC, prima della scadenza del 15 dicembre, proroga il termine e lo allinea con quello previsto per l’adozione del PTPCT. Anche quest’anno l’ANAC, con il Comunicato del 13.11.2019, ha posticipato il termine per la pubblicazione della relazione annuale del RPCT al 31.01.2020.
Tra i compiti dell’ANAC, vi è quello di verificare e monitorare l’adozione, da parte delle amministrazioni, del PTPCT e l’attuazione della normativa e delle misure di prevenzione della corruzione.
Tale attività si è esplicata non solo attraverso la cosiddetta vigilanza, ma anche attraverso un’attività di monitoraggio, finalizzata a valutare la qualità dei PTPCT e delle misure di prevenzione, la congruità di tali documenti rispetto alle indicazioni fornite dall’Autorità nei Piani Nazionali Anticorruzione (PNA) e l’opportunità di eventuali correttivi.
Dal 2019 è disponibile una Piattaforma, predisposta dall’ANAC, per l’acquisizione e il monitoraggio dei Piani Anticorruzione e per la redazione delle relazioni annuali dei Responsabili. Essa può essere utilizzata anche per il monitoraggio di competenza del RPCT.
Il Presidente ANAC ne ha dato notizia con il Comunicato del 12.06.2019, consentendo di accreditarsi e di inserire i dati relativi al PTPCT 2019-2021.
La piattaforma permette:
a) all’Autorità, di condurre analisi qualitative dei dati grazie alla sistematica e organizzata raccolta delle informazioni e, dunque, di poter rilevare le criticità dei PTPCT e migliorare, di conseguenza, la sua attività di supporto alle amministrazioni;
b) ai RPCT:
   – di avere una migliore conoscenza e consapevolezza dei requisiti metodologici più rilevanti per la costruzione del PTPCT;
   – monitorare nel tempo i progressi del proprio PTPCT;
   – conoscere, in caso di successione nell’incarico di RPCT, gli sviluppi passati del PTPCT;
   – effettuare il monitoraggio sull’attuazione del PTPCT;
   – produrre la relazione annuale.
Il PNA 2019 (delibera ANAC n. 1064 del 13.11.2019) e il citato Comunicato ANAC non esplicitano in maniera chiara se sia obbligatorio procedere alla registrazione e all’inserimento dei dati relativi al PTPCT 2020-2022. Tuttavia, considerato che viene richiamato, quale base giuridica della piattaforma, il comma 8, dell’art. 1, della legge 190/2012, che prevede la trasmissione del PTPCT ad ANAC, si può ritenere che la Piattaforma sia la modalità per adempiere a tale previsione normativa.
A sostegno di tale interpretazione si richiama l’allegato 1, al PNA 2019 nel quale si dice che i RPCT “sono tenuti ora a registrarsi ed accreditarsi” sulla Piattaforma. La precisazione che, per il 2020, la Piattaforma opera in forma sperimentale, sembra relativa esclusivamente all’ambito di operatività, limitato, per ora, alle sole amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165.
L’utilizzo della Piattaforma per il monitoraggio di competenza del RPCT è, invece, facoltativo, come facoltativo è il livello di approfondimento, non obbligando il sistema all’inserimento di tutte le misure specifiche.
Non è, invece, previsto un termine per l’inserimento, che potrà essere effettuato a partire dall’adozione del PTPCT, essendo un adempimento strumentale al monitoraggio, sia dell’ANAC che del RPCT.
La Piattaforma si compone di tre sezioni:
   • Anagrafica: finalizzata all’acquisizione delle informazioni in merito all’amministrazione, al Responsabile della prevenzione della Corruzione e Trasparenza, alla sua formazione e alle sue competenze;
   • questionario Piano Triennale: finalizzato all’acquisizione delle informazioni relative al Piano Triennale per la Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (PTPCT) e alla programmazione delle misure di prevenzione della corruzione;
   • questionario Monitoraggio attuazione: finalizzato all’acquisizione delle informazioni relative alle misure di prevenzione ed allo stato di avanzamento del PTPCT.
Per ulteriori informazioni si rinvia al box 15, dell’Allegato 1, al PNA 2019 e alle indicazioni disponibili al seguente link.
A completamento informativo, si segnala che con comunicato del 27.11.2019, il Presidente dell’ANAC precisa che l’utilizzo e la compilazione dei dati nella Piattaforma non può essere delegato a soggetti esterni all’Amministrazione, in attuazione del principio secondo cui soggetti terzi non possono predisporre il PTPCT e neppure fornire contributi per la redazione dello stesso. Nel Comunicato si specifica, anche, che non possono far parte della struttura di supporto al RPCT soggetti esterni all’amministrazione.
Per la relazione annuale 2019, l’ANAC prevede che si possa, alternativamente, utilizzare la Scheda in formato Excel, analoga a quella in uso negli anni scorsi (con due sole sezioni aggiuntive concernenti rispettivamente “la rotazione straordinaria” e “il pantouflage”), o generare in modo automatico la relazione attraverso la Piattaforma, dopo aver completato l’inserimento dei dati relativi ai PTPCT e alle misure di attuazione (vedi Comunicato del 13.11.2019).
È prevedibile che, per la relazione 2020, l’ANAC richiederà esclusivamente la seconda modalità.
Tutto ciò premesso, la risposta allo specifico quesito è la seguente:
   a) la compilazione può ritenersi obbligatoria;
   b) il termine per provvedervi non è stato definito, ma non è quello del 31.01.2020.
Per quanto sopra, l’ente interpellante ha come obbligo di pubblicare la relazione riferita all’anno 2019 e il PTPCT 2020/2022, approvato con deliberazione della Giunta comunale, nel proprio sito web nella sezione Amministrazione trasparente > Altri contenuti > Prevenzione della corruzione (11.02.2020 - link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Incompatibilità di un amministratore locale.
Nei confronti dell’assessore di uno dei comuni facenti parte di un’UTI che venisse assunto alle dipendenze dell’Unione medesima, soltanto qualora tale soggetto fosse componente degli organi di governo della stessa sussisterebbe la causa di incompatibilità di cui al combinato disposto degli articoli 60 comma 1, n. 7), e 63, comma 1, n. 7), TUEL, secondo cui è ineleggibile/incompatibile l’amministratore locale che sia dipendente del comune medesimo.
L’Unione territoriale intercomunale (UTI) chiede un parere in merito all’esistenza di una causa di incompatibilità per l’assessore di uno dei comuni facenti parte dell’UTI medesima qualora lo stesso venisse assunto alle dipendenze dell’Unione.
Preliminarmente si sottolinea che l’articolo 5, comma 2, della legge regionale 12.12.2014, n. 26 prevede che all’Unione territoriale intercomunale si applichino “i principi previsti per l’ordinamento degli enti locali e, in quanto compatibili, le norme di cui all’articolo 32 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 (testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali)”.
Il comma 4 del citato articolo 32 stabilisce che all’unione si applicano, in quanto compatibili e non derogati con altre disposizioni di legge, i principi previsti per l’ordinamento dei comuni, con particolare riguardo allo status degli amministratori.
Pertanto, in base a tale ultimo richiamo, le norme contemplate nel D.Lgs. 267/2000, e in particolare gli articoli 60 e 63 del medesimo decreto, in quanto compatibili e non derogate nei termini sopra indicati, devono ritenersi applicabili anche con riferimento alle unioni di comuni.
Premesso quanto sopra, si ritiene debba essere preso in considerazione l’articolo 60 comma 1, num. 7), TUEL, in combinato disposto con l’articolo 63, comma 1, num. 7), TUEL secondo cui è ineleggibile/incompatibile l’amministratore locale che sia dipendente del comune medesimo.
Quanto alla fattispecie in riferimento seguirebbe l’insorgenza dell’indicata causa di incompatibilità nel caso in cui il medesimo soggetto fosse dipendente dell’unione di comuni e, nel contempo, componente degli organi di governo della stessa.
A tale ultimo riguardo necessita segnalare che sono organi dell'Unione l'Assemblea, il Presidente e, qualora istituito, l’Ufficio di presidenza
[1].
Quanto all’assemblea essa è costituita da tutti i sindaci dei comuni aderenti a ciascuna Unione e, solo nel caso di impossibilità a partecipare alle sedute dell'Assemblea o nel caso di incompatibilità, questi possono delegare un assessore a rappresentarli.
[2]
Con riferimento al caso in esame segue che la causa di incompatibilità sopra citata verrebbe in rilievo solo nel caso in cui l’assessore divenisse componente dell’assemblea dell’UTI.
Analoghe considerazioni possono compiersi avuto riguardo all’Ufficio di presidenza: la causa di incompatibilità in esame sorgerebbe nei confronti dell’assessore qualora lo stesso fosse componente di tale organo di governo.
Non si prende, invece, in considerazione la figura giuridica del Presidente non potendo l’assessore ricoprire detto ruolo.
[3]
Da ultimo si ricorda che, ai sensi dell’articolo 28, comma 5, della legge regionale 29.11.2019, n. 21 “a far data dall'01.01.2021 le Unioni territoriali intercomunali di cui al comma 1
[4] sono trasformate di diritto nella rispettiva Comunità di montagna”.
Da tale data, pertanto, affinché non si realizzi la causa di incompatibilità sopra esaminata, necessiterà valutare che l’indicato assessore, mantenendo l’attività lavorativa alle dipendenze della costituita Comunità di montagna, non entri a far parte di alcun organo di governo della stessa.
[5]
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[1] Si veda l’articolo 12, commi 1 e 2, della legge regionale 26/2014 il quale recita:
   “1. Sono organi dell'Unione l'Assemblea, il Presidente e l’organo di revisione.
   2. Lo statuto delle Unioni può prevedere l'istituzione di un Ufficio di presidenza con funzioni esecutive e, in tal caso, ne determina le competenze e la relativa composizione”.
[2] Precisamente l’articolo 13, comma 6, della legge regionale 26/2014 recita, al riguardo: “In caso di impossibilità a partecipare alle sedute dell'Assemblea, i Sindaci possono delegare un assessore a rappresentarli. In caso di incompatibilità previste dalla vigente normativa statale, la delega può essere conferita anche in via permanente.”
[3] Il Presidente, infatti, è un sindaco (articolo 14, comma 1, della legge regionale 24/2016 secondo cui: “Il Presidente è eletto dall'Assemblea tra i suoi componenti”).
[4] Si tratta delle Unioni che esercitano le funzioni delle soppresse Comunità montane di cui alla legge regionale 33/2002.
[5] Circa l’applicabilità agli organi politici della Comunità delle norme dettate dal TUEL sullo status degli amministratori locali si rileva che l’articolo 6, comma 2, della legge regionale 21/2019 in combinato disposto con l’articolo 7, comma 1, della legge regionale medesima prevede che alle Comunità di montagna “si applicano i principi e, in quanto compatibili, le norme previste per i Comuni”
(05.02.2020 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

gennaio 2020

CONSIGLIERI COMUNALI: I consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento delle loro funzioni.
La giurisprudenza è univoca nel ritenere che “i consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento delle loro funzioni, ciò anche al fine di permettere di valutare -con piena cognizione- la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale”.
Sicché, va
riaffermato il principio sulla base del quale l’istanza di accesso del consigliere comunale non può essere sorretta dalla sola allegazione della carica ricoperta ma deve, altresì, essere riconnessa ad un concreto esercizio delle prerogative consiliari pervenendo, quindi, al rigetto in ragione della mancata allegazione di un effettivo interesse all’accesso.
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In data 10.09.2019 il ricorrente, Consigliere comunale del Comune di Fabbrico, avanzava richiesta di accesso ex artt. 43, comma 2, del d.Lgs. n. 267/2000 e 22 della L. n. 2421/1990, riferita alla “copia della comparsa di costituzione e risposta depositata dal difensore del Comune di Fabbrico avv. Pa.Mi. nel procedimento giurisdizionale per risarcimento danno attivato avanti al tribunale civile di Reggio Emilia dal -OMISSIS- contro il Comune di Fabbrico” (vicenda che coinvolge l’Amministrazione relativamente all’esecuzione dei lavori di adeguamento sismico e ristrutturazione del Palazzetto dello Sport comunale).
Con atto del 07.10.2019, il Comune negava l’accesso ritenendo esclusa, anche per i Consiglieri comunali, l’operatività dell’istituto dell’accesso agli atti giudiziari.
Con nota del 10 ottobre successivo il ricorrente reiterava la propria richiesta e, in assenza di ulteriori riscontri, con il ricorso introduttivo del presente giudizio, impugnava il diniego intervenuto.
Il Comune, con atto del 12.11.2019, in esito alla richiesta da ultimo presentata dal ricorrente, adottava un nuovo diniego esplicitando più estesamente le ragioni per le quali gli atti richiesti non potevano costituire oggetto di ostensione.
Il ricorrente impugnava il reiterato diniego con motivi aggiunti affermando, sostanzialmente, la piena accessibilità dell’atto richiesto e la contraddittorietà dell’agire amministrativo stante il precedente accoglimento di una analoga istanza di accesso riferita all’atto di citazione introduttivo del giudizio civile in questione.
Il Comune si costituiva in giudizio confutando le avverse doglianze ed affermando la legittimità de proprio diniego.
All’esito della camera di consiglio del 15.01.2020, la causa veniva decisa.
Deve in premessa evidenziarsi che l’art. 43, comma 2, del D.Lgs. n. 267/2000 prevede che “i consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato. Essi sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge”.
Circa lo specifico tema, la giurisprudenza è univoca nel ritenere che “i consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento delle loro funzioni, ciò anche al fine di permettere di valutare - con piena cognizione - la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale” (TAR Sicilia, Palermo, Sez. I, 09.01.2015, n. 77).
Il Regolamento comunale per l’esercizio del diritto di accesso del Comune di Fabbrico, disciplina l’accesso documentale dei Consiglieri Comunali all’art. 39.
Ai sensi del comma 3 del citato articolo, “i consiglieri comunali hanno diritto di ottenere dagli uffici del comune, nonché dalle istituzioni, aziende ed enti dallo stesso dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, al fine di tutelare, in via generale, i diritti derivanti dalla propria posizione di consigliere comunale e già in particolare, di consentire la piena conoscenza di elementi informazioni utili all’espletamento del mandato”.
Lo stesso comma specifica ulteriormente che “i consiglieri hanno diritto: … b) di ottenere copie degli atti e dei documenti necessari per l’esercizio del loro mandato”.
Il successivo comma 4 dispone che “il consigliere non è tenuto a dimostrare l’esistenza di un interesse giuridicamente rilevante, ma è sufficiente che dichiari che le notizie e le informazioni sono richieste per l’espletamento del mandato”.
L’unico limite all’esercizio del diritto in questione posto dalla fonte regolamentare in esame, è contemplato nel comma 11 laddove si afferma che “l’accesso dei consiglieri comunali è vietato esclusivamente nelle eseguenti fattispecie: a) richieste assolutamente generiche, meramente emulative, pretestuose o paralizzanti l’attività amministrativa indirizzata a controlli generali di tutta l’attività dell’Amministrazione per un determinato arco di tempo”.
Chiarito nei su esposti termini il contesto normativo e giurisprudenziale di riferimento deve rilevarsi che l’istanza di accesso presentata dal ricorrente era motivata sul presupposto dell’utilità della documentazione richiesta in vista della trattazione consiliare di questioni che, in ipotesi, avrebbero potuto incidere, sotto il profilo finanziario, sulla corretta tenuta del bilancio dell’Ente.
L’Amministrazione, rifacendosi ai contenuti della decisione del Consiglio di Stato n. 12/2019 (riassunta e ripetutamente richiamata), negava l’accesso rilevando l’insufficienza della sola qualità di Consigliere comunale, a consentire un indiscriminato accesso agli atti essendo, altresì, necessario “che l’istanza muova da un’effettiva esigenza collegata all’esame di questioni proprie dell’Assemblea consiliare”.
Ne deriverebbe, secondo l’Amministrazione, che l’istituto dell’accesso del Consigliere comunale sarebbe garantito “solo se funzionale all’attività del Consiglio comunale, rilevando di converso che tale estensione del diritto non può andare oltre agli argomenti all’o.d.g. (quelli dell’art. 42 del TUEL)” (diniego impugnato).
Il ricorso è fondato.
Preliminarmente deve rilevarsi l’inconferenza della richiamata pronunzia del Consiglio di Stato in quanto in detta sede il giudice di appello, riaffermava il principio sulla base del quale l’istanza di accesso del consigliere comunale non può essere sorretta dalla sola allegazione della carica ricoperta ma deve, altresì, essere riconnessa ad un concreto esercizio delle prerogative consiliari pervenendo, quindi, al rigetto dell’appello, in ragione della mancata allegazione di un effettivo interesse all’accesso.
L’odierna fattispecie differisce da quella esaminata in detta sede avendo il ricorrente allegato, ed essendo documentata, l’attinenza della richiesta allo svolgimento delle attività assembleari.
Deve in primis evidenziarsi che, con atto del 20.09.2019, protocollato il giorno successivo, due Consiglieri del gruppo consiliare di opposizione (capeggiato dal ricorrente) richiedevano la convocazione del Consiglio comunale includendo nelle questioni all’ordine del giorno: “1. Lo stato di fatto delle opere di adeguamento sismico e ristrutturazione del Palazzetto dello Sport di Fabbrico; 2. Lo stato di fatto della vertenza legale con l’impresa appaltatrice …”.
La conoscenza dell’atto oggetto della richiesta di ostensione era, pertanto, “utile” (nei sensi di cui al richiamato art. 42 del TUEL) in vista della discussione assembleare di profili riferiti alla vicenda della ristrutturazione del Palazzetto dello Sport, al centro della disputa (e del giudizio civile) in atto fra il Comune e l’appaltatore incaricato delle relative lavorazioni.
Nel caso di specie, quindi, sotto un primo profilo, sussiste il requisito della funzionalità dell’accesso all’esercizio delle attività consiliari, richiesta dalla disciplina normativa nazionale; sotto altro profilo non ricorre il carattere emulativo, pretestuoso e paralizzante che, ai sensi delle illustrate disposizioni regolamentari interne, inibiscono l’esercizio dell’accesso.
La determinazione impugnata, infine, è ulteriormente viziata per contraddittorietà avendo l’Amministrazione (in precedenza e con riferimento alla medesima vicenda giudiziaria), accolto l’istanza di accesso avente ad oggetto l’atto di citazione dell’appaltatore con il quale veniva instaurato il giudizio risarcitorio in atto (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 20.01.2020 n. 16 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Quote rosa nelle giunte. Anche negli enti sotto i 3.000 abitanti. Assessori esterni al consiglio per garantire la parità di genere
I comuni con popolazione inferiore ai 3.000 abitanti sono tenuti al rispetto delle quote rosa nella composizione delle rispettive giunte?
Il comma 137 della legge n. 56/2014 dispone che «nelle giunte dei comuni con popolazione superiore a 3.000 abitanti, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura inferiore al 40%, con arrotondamento aritmetico».
Per quanto concerne i comuni con popolazione inferiore ai 3.000 abitanti, occorre tenere conto che ai sensi dell'art. 6, comma 3, del decreto legislativo n. 267/2000, come modificato dalla legge n. 215/2012, è previsto che gli statuti comunali e provinciali stabiliscano norme per assicurare condizioni di pari opportunità tra uomo e donna e per garantire la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali non elettivi del comune e della provincia, nonché degli enti, aziende ed istituzioni da essi dipendenti.
L'art. 2, comma 1, lett. b), della stessa legge n. 215/2012 ha modificato l'art. 46, comma 2, del Tuel disponendo che il sindaco ed il presidente nella provincia nominano i componenti della giunta «nel rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la presenza di entrambi i sessi».
La normativa va letta alla luce dell'art. 51 della Costituzione, come modificato dalla legge costituzionale n. 1/2003, che ha riconosciuto dignità costituzionale al principio della promozione della pari opportunità tra donne e uomini.
Pertanto si ritiene che per i comuni con popolazione inferiore a 3.000 abitanti debbano trovare applicazione le disposizioni contenute nei citati articoli 6, comma 3 e 46, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 e nella legge n. 215/2012. Tali disposizioni, recependo i principi sulle pari opportunità dettati dall'art. 51 della Costituzione, dall'art. 1 del decreto legislativo dell'11.04.2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità) e dall'art. 23 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, non hanno un mero valore programmatico, ma carattere precettivo, finalizzato a rendere effettiva la partecipazione di entrambi i sessi in condizioni di pari opportunità, alla vita istituzionale degli enti territoriali.
Per quanto concerne la possibilità di pervenire alla nomina di assessori esterni, si richiama quanto osservato dalla scrivente amministrazione con circolare n. 6508 del 24.04.2014, nella quale gli enti locali sono stati invitati a valutare l'opportunità di procedere alle modifiche statutarie funzionali alla piena attuazione del principio di parità di genere introducendo la possibilità di ricorrere alla nomina di assessori privi dello status di consigliere comunale.
In proposito, risulta che, ai sensi dello statuto del comune che ha prospettato la questione, è prevista la possibilità di nominare gli assessori «anche al di fuori dei componenti del Consiglio fra i cittadini in possesso dei requisiti di compatibilità ed eleggibilità alla carica di Consigliere comunale». Pertanto, il sindaco dell'ente potrebbe valutare la possibilità di applicare tale disposizione statutaria al fine di conformare la composizione della giunta alle previsioni legislative.
Si fa presente, a tale riguardo, che il Tar Abruzzo, con sentenza n. 105 del 2019, ha ritenuto fondato il ricorso avverso un provvedimento di nomina della giunta in quanto non sarebbe stata effettuata «la necessaria attività istruttoria volta ad acquisire la disponibilità alla nomina di persone di sesso femminile anche tra cittadini al di fuori dei componenti dell'organo consiliare»
(articolo ItaliaOggi del 10.01.2020).

CONSIGLIERI COMUNALI: Incompatibilità del sindaco.
Nei confronti del sindaco, il cui fratello risulta appaltatore di lavori di manutenzione di un immobile comunale, si configura la causa di incompatibilità di cui all’art. 61, comma 1-bis, del D.Lgs. 267/2000 secondo cui “non possono ricoprire la carica di sindaco o di presidente di provincia coloro che hanno ascendenti o discendenti ovvero parenti o affini fino al secondo grado che coprano nelle rispettive amministrazioni il posto di appaltatore di lavori o di servizi comunali o provinciali o in qualunque modo loro fideiussore".
Il Comune chiede un parere in merito all’esistenza di una causa di incompatibilità per il sindaco atteso che suo fratello, titolare di una ditta individuale, è risultato aggiudicatario di una gara indetta dall’Ente per l’esecuzione di lavori di manutenzione di un fabbricato di proprietà comunale.
Con riferimento al quesito posto viene in rilievo la norma di cui all’articolo 61, comma 1-bis, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 ai sensi della quale: “Non possono ricoprire la carica di sindaco o di presidente di provincia coloro che hanno ascendenti o discendenti ovvero parenti o affini fino al secondo grado che coprano nelle rispettive amministrazioni il posto di appaltatore di lavori o di servizi comunali o provinciali o in qualunque modo loro fideiussore”.
Il Ministero dell’Interno, in un proprio parere
[1], ha rilevato che: “Solo per coloro che intendono ricoprire la carica di sindaco o di presidente della provincia, è prevista un'ipotesi d'incompatibilità, specificamente loro dettata dall'art. 61, comma 1-bis, del D.Lgs. n. 267/2000, che impedisce di ricoprire le due cariche a coloro che hanno ascendenti o discendenti ovvero parenti o affini fino al secondo grado che coprano nelle rispettive amministrazioni il posto di appaltatore di lavori o di servizi comunali. La previsione si aggiunge a quella comune di cui all'art. 63, comma 1, n. 2, del T.U.O.E.L. e colpisce i citati amministratori anche in assenza di un vantaggio diretto o indiretto che possa essere imputato loro personalmente, ma rimanga esclusivo del parente che gestisce l'appalto o il servizio, a maggior salvaguardia del principio d'imparzialità dell'azione amministrativa e per porre al riparo coloro che svolgono una pubblica funzione dal sospetto di essere influenzati da interessi confliggenti con quelli del comune [2].
Attesa la chiarezza del dettato letterale della disposizione in esame, si ritiene che si configuri l’indicata causa di incompatibilità per il sindaco il cui fratello (parente in linea collaterale di secondo grado) risulta appaltatore di lavori di manutenzione di un immobile comunale. Tale conclusione rimane ferma indipendentemente dalle modalità di svolgimento della gara, alla quale il fratello poteva, com’è avvenuto, regolarmente partecipare e prescinde, altresì, dalla considerazione che l’applicazione di una norma siffatta potrebbe creare, di fatto, seri disagi e difficoltà nel reperimento di imprese che svolgano determinati lavori o servizi in realtà comunali dalle ridotte dimensioni demografiche e connotate da una peculiare posizione geografica.
Per completezza espositiva si ricorda che il comma 1-bis dell’articolo 61 TUEL è stato aggiunto dall’articolo 7, comma 1, lett. b-bis), n. 3), del decreto legge 29.03.2004, n. 80, convertito, con modificazioni, dalla legge 28.05.2004, n. 140, a seguito della dichiarazione di incostituzionalità, avvenuta con sentenza 31.10.2000, n. 450, dell’articolo 61, n. 2, TUEL nella parte in cui prevedeva la medesima fattispecie quale causa generatrice di ineleggibilità alla carica di sindaco
[3].
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[1] Ministero dell’Interno, parere del 25.05.2010.
[2] Prosegue l’indicato parere rilevando che: “Per tutti gli altri amministratori non è posta invece analoga disposizione, per cui la possibilità di conflitto fra gli interessi del consigliere e quelli del Comune non può essere presunta dall'esistenza di un rapporto di parentela con l'amministratore di un'impresa che opera in servizi o appalti dell'Ente, ma va accertata adeguatamente”.
[3] La Corte costituzionale, in altri termini, aveva cancellato dall’ordinamento una previsione legislativa che aveva finito per considerare più grave il fatto che il candidato alla carica di sindaco avesse un rapporto di parentela o affinità con un appaltatore (e, quindi, causa di ineleggibilità, ex articolo 61, n. 2, TUEL testo precedente) rispetto a quello di essere egli stesso appaltatore in proprio di lavori o servizi comunali (e, quindi, causa di incompatibilità, ex articolo 63, comma 1, num. 2, TUEL).
Nel rispetto di quanto deciso dalla Corte Costituzionale è successivamente intervenuto il decreto legge 80/2004 che ha aggiunto, come sopra già riportato, il comma 1-bis dopo il comma 1 dell’articolo 61 del D.Lgs. 267/2000
(09.01.2020 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Paletti alle registrazioni. Non esiste un diritto a filmare le sedute. Il presidente del consiglio valuta caso per caso. Necessario un regolamento.
È possibile registrare e diffondere le immagini delle sedute di consiglio comunale pur in assenza di apposita previsione regolamentare, riconoscendo poteri autorizzativi al presidente del consiglio?
Il vigente ordinamento conferisce al consiglio comunale autonomia funzionale e organizzativa (art. 38, comma 3, Tuel) entro la quale si riconduce la potestà di regolare, con apposite norme, ogni aspetto attinente al funzionamento dell'assemblea, tra cui anche quello della registrazione del dibattito e delle votazioni con mezzi audiovisivi, sia da parte degli uffici di supporto all'attività di verbalizzazione del segretario comunale che da parte dei consiglieri, degli organi di informazione e dei cittadini che assistono alla sedute pubbliche.
In questo quadro di riferimento, norme interne possono regolare, pertanto, nell'ambito della disciplina dello svolgimento delle adunanze, anche la registrazione del dibattito e delle votazioni con mezzi audiovisivi; ciò sia per gli uffici di supporto alla verbalizzazione (art. 97, comma 4, lett. a) del decreto legislativo n. 267/2000), che per i consiglieri e i cittadini che assistono alla seduta; lo stesso regolamento può riservare all'amministrazione il compito di registrare le sedute con mezzi audiovisivi escludendo da tale possibilità altri soggetti.
La pubblicità delle sedute non implica, infatti, la facoltà di registrazione ma la libera presenza di chi abbia interesse ad assistervi (v. sentenza della Corte di cassazione, sez. I, n. 5128/2001 ove si afferma la legittimità di un regolamento consiliare che vieta di introdurre nella sala del consiglio apparecchi di riproduzione audiovisiva, se non previa autorizzazione).
La giurisprudenza (in particolare, la sentenza n. 826 del 16/03/2010 del Tar per il Veneto) afferma che in assenza di un'apposita disciplina regolamentare adottata dall'ente, non possono essere garantiti i diritti previsti dal codice sul trattamento dei dati personali di cui al dlgs 196 del 2003 e successive modifiche, non essendo consentito al sindaco-presidente estemporanei assensi, alla videoregistrazione.
È stato ritenuto, invece, immediatamente concedibile da parte del presidente del consiglio comunale, nei confronti di emittenti televisive nazionali e locali l'autorizzazione a riprendere, in via non sistematica, gratuitamente e senza diritti di esclusiva, talune brevi fasi delle sedute del consiglio comunale in quanto da tale autorizzazione non conseguono obblighi di sorta per l'amministrazione comunale quale «titolare» o «responsabile» del trattamento dei personali.
Non sussiste, quindi, un autonomo e indiscriminato diritto a procedere alla registrazione che consenta di superare gli eventuali divieti posti dall'amministrazione.
Sulla materia, anche il Garante per la protezione dei dati personali con nota del 23.04.2003 ha ritenuto che l'amministrazione comunale possa, con apposita norma regolamentare, porre delle condizioni e dei limiti alle riprese ed alla diffusione televisiva delle riunioni del consiglio comunale, prevedendo, in quella sede, l'onere di informare preventivamente i presenti nell'aula consiliare dell'esistenza delle telecamere e della successiva diffusione delle immagini, ovvero il divieto di divulgare informazioni sullo stato di salute, nonché le ipotesi in cui eventualmente limitare le riprese per assicurare la riservatezza dei soggetti presenti o oggetto del dibattito.
Con precedenti pareri, questo ministero aveva ritenuto la possibilità per il presidente del consiglio di regolare e valutare la registrazione caso per caso, seppur in assenza di espressa previsione regolamentare, nell'esercizio dei già richiamati poteri di «direzione dei lavori e delle attività del consiglio», di cui all'art. 39, comma 1, del decreto legislativo n. 267/2000 in stretta correlazione alle esigenze di ordinato svolgimento dell'attività consiliare ed in relazione all'oggetto dei lavori previsti all'ordine del giorno.
Tuttavia alla luce anche degli orientamenti giurisprudenziali e del Garante per la protezione dei dati personali, si ritiene, invece, opportuno un approfondimento della problematica che non può non condurre alla necessità della previa adozione di norme regolamentari entro le quali il Presidente può esercitare le proprie prerogative
(articolo ItaliaOggi del 03.01.2020).

dicembre 2019

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ La parità vale sempre. Anche per le nomine in corso di consiliatura. L’uguaglianza di genere nelle giunte non deve poter essere aggirata.
Per rispettare la normativa in tema di parità di genere nelle giunte si deve sostituire l'assessore esterno che si sia dimesso nel corso della consiliatura?
Il caso segnalato si riferisce a un comune con popolazione superiore a 3.000 abitanti la cui giunta era formata da quattro assessori oltre al sindaco. A seguito delle dimissioni dell'assessore esterno di genere femminile, attualmente la giunta è composta da quattro uomini, compreso il sindaco, e da una sola donna.
Atteso che lo statuto dell'ente contempla la possibilità di nominare un numero di assessori non inferiore a tre e non superiore a quattro, sorge il dubbio se, nello specifico caso, visto che la situazione attuale è conseguente alle dimissioni dell'assessore esterno e non ad una nuova nomina effettuata dal sindaco, sia possibile mantenere la composizione della giunta come risultante a seguito delle suddette dimissioni o sia necessario riequilibrare le percentuali di genere previste dalla vigente normativa. La normativa di riferimento dispone che «nelle giunte dei comuni con popolazione superiore a 3.000 abitanti, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura inferiore al 40%, con arrotondamento aritmetico».
Al riguardo, il Consiglio di stato, con sentenza n. 4626 del 05/10/2015, ha precisato che tutti gli atti adottati nella vigenza dell'art. 1, comma 137, trovano in esso «un ineludibile parametro di legittimità» e, pertanto, un'interpretazione che riferisse l'applicazione della norma alle sole nomine assessorili effettuate all'indomani delle elezioni e non anche a quelle adottate in corso di consiliatura consentirebbe un facile aggiramento della suddetta normativa. Tali osservazioni sono state ribadite da ultimo dal Tar Abruzzo con sentenza n. 105 del 2019
(articolo ItaliaOggi del 27.12.2019).

CONSIGLIERI COMUNALIIncompatibilità di alcuni consiglieri comunali facenti parte di associazioni locali.
   1) Per i consiglieri comunali che rivestono, altresì, la carica, rispettivamente, di Presidente, Segretario, Tesoriere di un’associazione, che riceve contributi in denaro da parte dell’amministrazione comunale, potrebbe sussistere la causa di incompatibilità prevista dall’art. 63, c. 1, n. 1), del D.Lgs. 267/2000, nella parte in cui dispone che non può ricoprire la carica di consigliere comunale l’amministratore o il dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento di ente, istituto o azienda che riceva dal comune, in via continuativa, una sovvenzione in tutto o in parte facoltativa, quando la parte facoltativa superi nell’anno il dieci per cento del totale delle entrate dell’ente. Sotto il profilo soggettivo, atteso il diverso ruolo svolto dai singoli consiglieri all’interno dell’associazione si deve valutare, per ciascuno di essi, se rientrino o meno nella nozione di amministratore o in quella di dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento.
   2) Non può ricoprire la carica di amministratore locale “colui che, come titolare, amministratore, dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento ha parte, direttamente o indirettamente, in servizi, esazioni di diritti, somministrazioni o appalti, nell’interesse del comune” (art. 63, co. 1, n. 2, TUEL). La disposizione in oggetto, quindi, si riferisce al soggetto che, rivestito di una delle predette qualità soggettive, nel partecipare ad un servizio nell’interesse del Comune sia contestualmente portatore di un proprio specifico interesse, contrapposto a quello generale dell’ente locale e, quindi, per questo potenzialmente confliggente con l’esercizio imparziale della carica elettiva. Qualora un amministratore locale rivestisse una delle qualità soggettive sopra indicate nell’ambito di un’associazione spetterebbe all'Ente valutare se la stessa svolga o meno un servizio nell'interesse dell'amministrazione comunale.  

Il Comune chiede di conoscere un parere in merito alla possibile sussistenza di cause di incompatibilità, ai sensi dell’articolo 63 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, per alcuni consiglieri comunali (sia di maggioranza che di minoranza) i quali fanno parte, nel ruolo di Presidente, Tesoriere, Segretario o socio, di associazioni (sportive e non) del territorio che ricevono contributi da parte del Comune stesso.
Con riferimento alla fattispecie in esame risulta necessario prendere in considerazione il disposto di cui all’articolo 63, comma 1, n. 1), seconda parte, TUEL, ai sensi del quale non può ricoprire la carica di consigliere comunale l’amministratore o il dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento di ente, istituto o azienda che riceva dal comune, in via continuativa, una sovvenzione in tutto o in parte facoltativa, quando la parte facoltativa superi nell’anno il dieci per cento del totale delle entrate dell’ente.
Innanzitutto si osserva come, secondo autorevole dottrina
[1], il termine “ente” deve essere inteso in senso lato e, pertanto, vi rientrano anche gli organismi privi di personalità giuridica. In questo senso si è pronunciata anche la Corte di cassazione [2] che ha inteso comprendere nella nozione di ente sovvenzionato le persone giuridiche pubbliche, private e le associazioni non riconosciute che, pur non dotate di personalità giuridica, abbiano autonomia amministrativa e patrimoniale.
Requisito oggettivo per l’insorgenza dell’indicata causa di incompatibilità è che l’associazione riceva dal comune una sovvenzione, consistente in un’erogazione continuativa a titolo gratuito, volta a consentire all’ente sovvenzionato di raggiungere, con l’integrazione del proprio bilancio, le finalità in vista delle quali è stato costituito. Tale sovvenzione deve possedere tre caratteri:
   - continuità, nel senso che la sua erogazione non deve essere saltuaria od occasionale;
   - facoltatività (in tutto o in parte): l’intervento finanziario dell’ente non deve cioè derivare da un obbligo, ovvero può essere in parte obbligatorio e in parte facoltativo
[3];
   - notevole consistenza: l’apporto della sovvenzione deve essere, per la parte facoltativa, superiore al dieci per cento del totale delle entrate annuali dell’ente sovvenzionato.
Quanto al requisito soggettivo richiesto dall’articolo 63, comma 1, n. 1), TUEL, esso consiste nel fatto che l’amministratore comunale ricopra, all’interno dell’associazione, il ruolo di amministratore o di dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento.
Ai fini dell’accertamento dell’incompatibilità in argomento in capo ai consiglieri comunali
[4] risulta necessario esaminare se i diversi ruoli rivestiti dagli stessi all’interno dell’associazione implichino il su indicato requisito soggettivo.
In particolare, quanto al Presidente non sembra dubbia la sua ascrivibilità tra gli amministratori dell’associazione.
[5]
Con riferimento alla figura del segretario e del tesoriere, bisognerà in primo luogo verificare, alla luce delle previsioni statutarie, se gli stessi siano, giuridicamente, dipendenti o meno dell’associazione. In caso di risposta positiva si tratta, in subordine, di valutare se, per lo svolgimento delle loro mansioni, vi sia esplicazione di poteri di rappresentanza o di coordinamento in seno all’associazione. Fermo rimanendo che una tale valutazione potrà compiersi solo alla luce di quanto previsto nelle clausole statutarie, pare che tanto le funzioni del segretario
[6] quanto quelle del tesoriere [7] non dovrebbero di norma comportare l’esplicazione di poteri di rappresentanza né di coordinamento. [8]
Da ultimo, non si configura la causa di incompatibilità in riferimento avuto riguardo agli amministratori locali che siano semplici soci di tali associazioni attesa l’assenza del requisito soggettivo richiesto dalla norma in commento e consistente nel fatto di essere “amministratori o dipendenti con poteri di rappresentanza o di coordinamento” di tali soggetti giuridici.
Per completezza espositiva si segnala, altresì, la disposizione di cui all’articolo 63, comma 1, n. 2), TUEL, nella parte in cui prevede che non possa ricoprire la carica di amministratore locale “colui che, come titolare, amministratore, dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento ha parte, direttamente o indirettamente, in servizi, esazioni di diritti, somministrazioni o appalti, nell’interesse del comune”.
La norma citata potrebbe venire in rilievo qualora il tipo di attività effettuata dall’associazione -presso cui il consigliere comunale è amministratore o dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento– possa configurarsi come servizio svolto nell’interesse del comune
[9].
Innanzitutto, come evidenziato in diversi pareri ministeriali, “l’assenza della finalità di lucro, non è sufficiente ad escludere la sussistenza dell’indicata incompatibilità. Il comma 2 dell’articolo. 63 ha, infatti, escluso l’applicazione della suddetta ipotesi solo per coloro che hanno parte in cooperative sociali, iscritte regolarmente nei registri pubblici, dal momento che solo tali forme organizzative offrono adeguate garanzie per evitare il pericolo di deviazioni nell’esercizio del mandato da parte degli eletti ed il conflitto, anche solo potenziale, che la medesima persona sarebbe chiamata a dirimere se dovesse scegliere tra l’interesse che deve tutelare in quanto amministratore dell’ente che gestisce il servizio e l’interesse che deve tutelare in quanto consigliere del comune che di quel servizio fruisce
[10].
La norma in esame è finalizzata ad evitare che la medesima persona fisica rivesta contestualmente la carica di amministratore di un comune e la qualità di amministratore di un soggetto che si trovi in rapporti giuridici con l’ente locale, caratterizzati da una prestazione da effettuare all’ente o nel suo interesse, atteso che tale situazione potrebbe determinare l’insorgere di una posizione di conflitto di interessi.
In particolare, la locuzione “aver parte”, se correlata alla successiva locuzione “nell’interesse del comune” allude alla contrapposizione tra interesse “particolare” del soggetto ed interesse del comune, istituzionalmente “generale”, in relazione alle funzioni attribuitegli, e, quindi, sottintende alla situazione di potenziale conflitto di interessi, in cui si trova il predetto soggetto, rispetto all’esercizio imparziale della carica elettiva.
Inoltre, l’ampia espressione “servizi nell’interesse del comune” suole ricomprendere “qualsiasi rapporto intercorrente con l'ente locale che a causa della sua durata e della costanza delle prestazioni effettuate sia in grado di determinare conflitto di interessi
[11]. La giurisprudenza ha, altresì, specificato che l'ampia espressione di “servizi nell'interesse del comune” si riferisce “a tutte quelle attività che l'ente locale, nell'ambito dei propri compiti istituzionali e mediante l'esercizio dei poteri normativi ed amministrativi attribuitigli, fa e considera proprie [...] [12].
La disposizione in oggetto, quindi, si riferisce al soggetto che, rivestito di una delle predette qualità soggettive, partecipi ad un servizio pubblico, inteso nell’ampio senso sopra specificato, come portatore di un proprio specifico interesse, contrapposto a quello generale dell’ente locale e, quindi, per questo potenzialmente confliggente con l’esercizio imparziale della carica elettiva.
Qualora un amministratore locale rivestisse una delle qualità soggettive sopra indicate nell’ambito di un’associazione spetterebbe all'Ente valutare se la stessa svolga o meno un servizio nell'interesse dell'amministrazione comunale.
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[1] Cfr. P. Virga, Diritto amministrativo, Amministrazione locale, 3, ed. Giuffré, II ed. 1994, pag. 78 e segg.; R.O. Di Stilo – E. Maggiora, Ineleggibilità e incompatibilità alle cariche elettive, ed. Maggioli, 1985, pag. 73; E. Maggiora, Ineleggibilità, incompatibilità, incandidabilità nell’ente locale, 2000, pagg. 136-137.
[2] Corte di cassazione, sentenza del 22.06.1972, n. 2068.
[3] Per quanto riguarda il concetto di facoltatività, si rileva che, secondo l’orientamento del Ministero dell’Interno (parere del 30.12.2010, prot. n. 15900/TU/63), la sovvenzione è facoltativa “nel senso e nei limiti in cui non trovi origine in un obbligo stabilito dalla legge”.
Per completezza espositiva si segnala, peraltro, anche un diverso orientamento dottrinario il quale afferma che per determinare l'incompatibilità la sovvenzione non deve avere il carattere dell'obbligatorietà, nel senso che “non deve essere conseguenza di una legge, o di un regolamento o di un contratto bilaterale, ma deve rientrare nella discrezionalità, cioè deve essere concessa a titolo gratuito o ciò che è lo stesso deve rientrare nella libera determinazione dell'Ente che la accorda” (Rocco Orlando di Stilo, 'Gli organi regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali', Maggioli editore, 1982, pag. 140. Nello stesso senso, Enrico Maggiora, 'Ineleggibilità, incompatibilità, incandidabilità nell'ente locale', Giuffrè editore, 2000, pag. 142; AA.VV., 'L'ordinamento comunale', Giuffré editore, 2005, pag. 138.
Tale filone interpretativo è seguito anche dall'ANCI il quale ha affermato che la facoltatività della sovvenzione richiede che 'l'intervento finanziario dell'ente locale non deve derivare da un obbligo di legge o da un obbligo convenzionale' (così pareri del 17.09.2014 e del 28.04.2014).
[4] Non ha alcun rilievo al riguardo il fatto che i consiglieri siano di maggioranza o di minoranza.
[5] Per completezza espositiva si segnala che, invece, per quanto concerne l’eventuale ipotesi di consiglieri comunali membri del “Consiglio direttivo”, si tratterà di verificare se sia possibile ricomprendere gli stessi nella nozione legislativa di “amministratore” contemplata dall’articolo 63 del TUEL, in ordine alla quale è prevista la causa di incompatibilità in argomento. Tale valutazione dovrebbe essere effettuata considerando la situazione concreta, in relazione a quanto previsto nelle clausole statutarie dell’associazione: si rileva comunque al riguardo che, di norma, i membri dell’esecutivo svolgono funzioni sussumibili tra quelle proprie dell’organo di amministrazione, con conseguente configurarsi dell’incompatibilità in esame, nella sussistenza degli altri requisiti richiesti dalla legge.
[6] Tendenzialmente rientrano tra i compiti del segretario dell’associazione l’estensione, la sottoscrizione e l’eventuale custodia dei verbali dell’Assemblea dei soci; la tenuta aggiornata del libro soci e di altri eventuali registri dell’associazione.
[7] In linea di massima è compito del tesoriere tenere, controllare e aggiornare i libri contabili, conservando la documentazione che ad essi sottende, curare la gestione della cassa dell’associazione, predisporre i bilanci.
[8] Per completezza espositiva, si segnala che, per il verificarsi della causa di incompatibilità in riferimento è richiesto che il dipendente abbia poteri di rappresentanza o, in alternativa, di coordinamento. Ratio della norma è evitare che l’amministratore rivesta, al contempo, il ruolo di controllore e di controllato del proprio operato. Significativa, al riguardo, è la sentenza della Cassazione civile, sez. I, del 20.11.2004, n. 21942.
Potrebbe, altresì, verificarsi il caso che siano nominati segretario e/o tesoriere alcuni componenti del consiglio direttivo dell’associazione. In tal caso, atteso che gli stessi rivestirebbero, nel contempo, il ruolo di membro del direttivo, valgono le considerazioni che saranno espresse nel prosieguo in relazione a tale figura.
[9] Si pensi, a titolo di esempio, al caso di un’associazione sportiva che gestisce la palestra comunale: fattispecie esaminata dal Ministero dell’Interno il quale nel parere del 29.05.2007 ha ravvisato il sussistere dell’indicata causa di incompatibilità stante la sussistenza di tutti i requisiti richiesti dall’articolo 63, comma 1, n. 2), TUEL.
[10] Ministero dell’Interno, pareri del 12.05.2011 e dell’11.01.2011.
[11] Saporito, Pisciotta, Albanese, “Elezioni regionali ed amministrative”, Bologna, 1990, pag. 115.
[12] Cassazione civile, sez. I, sentenza del 16.01.2004, n. 550
(13.12.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALIDeleghe agli amministratori locali.
  
1) Non sussiste alcun obbligo da parte del sindaco di conferire deleghe per materia ai vari assessori, potendo lo stesso mantenere a sé le attribuzioni afferenti i diversi settori dell’amministrazione. Segue altresì che, anche in mancanza di deleghe, l’organo giuntale è da considerarsi pienamente legittimato ad operare nella sua composizione collegiale e nel rispetto delle regole ad esso proprie.
   2) Il sindaco, al momento della nomina di un assessore esterno deve verificare che non sussistano nei suoi confronti cause di incandidabilità, ineleggibilità o incompatibilità, fermo restando che andrà accertato il permanere dei requisiti anche nel corso del mandato.
   3) È inammissibile l’attribuzione di deleghe con rilevanza esterna ai consiglieri comunali, potendo le stesse, ove previste, avere solo rilevanza interna e finalità consultiva. L’ordinamento consente, piuttosto, l’attribuzione a singoli consiglieri di compiti di collaborazione, circoscritti all’esame ed alla cura di affari specifici, che non implichi la possibilità di assumere atti a rilevanza esterna, né di adottare atti di gestione spettanti agli organi burocratici.

Il Comune chiede un parere relativamente a diverse questioni riguardanti gli amministratori locali. In particolare desidera sapere:
   1) se sia possibile per il sindaco non attribuire alcuna delega agli assessori nominati;
   2) se sia valida la nomina degli assessori esterni compiuta dal sindaco, atteso il non avvenuto accertamento dell’inesistenza in capo agli stessi delle condizioni di eleggibilità, compatibilità e candidabilità;
   3) se sia possibile attribuire una delega ad un consigliere comunale.
Con riferimento alla prima questione posta si osserva che, come rilevato dall’ANCI in un parere rilasciato sull’argomento
[1]il ruolo politico dell’assessore si esplicita […] in maniera primaria nell’ambito dell’organo collegiale Giunta” e, solo in via secondaria, la figura dell’assessore è caratterizzata dalle “deleghe” assegnate dal Sindaco. Si consideri, altresì che non è dato riscontrare l’esistenza di alcuna norma di legge nel decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, recante “Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali”, che obblighi il sindaco all’attribuzione di tali deleghe. A ciò si aggiunga la considerazione per cui lo statuto comunale, all’articolo 17, nel declinare le “attribuzioni di amministrazione [2] del sindaco prevede, al comma 1, che questi “possa” e non già “debba” delegare le sue funzioni o parte di esse ai singoli assessori.
Da tali premesse si ritiene consegua l’insussistenza di un obbligo da parte del sindaco di conferire deleghe per materia ai vari assessori, potendo lo stesso mantenere a sé le attribuzioni afferenti i diversi settori dell’amministrazione. Segue altresì che, anche in mancanza di deleghe, l’organo giuntale è da considerarsi pienamente legittimato ad operare nella sua composizione collegiale e nel rispetto delle regole ad esso proprie.
Passando a trattare della seconda questione posta, si rileva che l’articolo 24 dello statuto comunale prevede, al comma 2, che: “Gli assessori sono normalmente scelti tra i consiglieri; possono tuttavia essere nominati anche assessori esterni al Consiglio, purché dotati dei requisiti di eleggibilità, compatibilità e candidabilità alla carica di Consigliere Comunale ed in possesso di particolare competenza tecnica, amministrativa o professionale. Qualora siano stati nominati assessori esterni, il Consiglio Comunale, nella prima seduta successiva alla loro nomina, procede ad accertare le condizioni di eleggibilità, di compatibilità e di candidabilità degli stessi”.
Con riferimento al caso in esame il Comune, atteso che la prima seduta consiliare successiva alla nomina degli assessori esterni da parte del sindaco è andata deserta, chiede se la nomina degli assessori possa dirsi validamente effettuata.
Ai sensi dell’articolo 46, comma 2, TUEL “il sindaco e il presidente della provincia nominano, nel rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la presenza di entrambi i sessi, i componenti della giunta […]”: l’atto di nomina degli assessori è, dunque, di competenza del sindaco.
Quanto alla valutazione dei “requisiti di candidabilità, eleggibilità e compatibilità” si ritiene che la norma statutaria dell’Ente, sopra riportata, non possa trovare applicazione in quanto non coerente con il quadro normativo dettato dal TUEL in materia di organi di governo del comune.
La norma statutaria sopra riportata, nella parte in cui attribuisce al consiglio comunale l’accertamento delle condizioni di eleggibilità, di compatibilità e di candidabilità degli assessori esterni demanda, infatti, a tale organo una competenza che non gli è propria, non essendo l’assessore esterno componente del consiglio ma solo della giunta comunale.
L’ANCI in un proprio parere,
[3] con riferimento all’individuazione dell’organo deputato alla contestazione di una causa di incompatibilità di un assessore esterno, ha affermato che “vi siano due possibili strade: la prima è che il procedimento di contestazione della cause di incompatibilità (che può sfociare in una pronuncia di decadenza) si svolga ad iniziativa della Giunta anziché del Consiglio, poiché è questo l’organo collegiale di appartenenza; l’altra possibilità –preferibile a parere di chi scrive– è che sia il Sindaco a revocare l’assessore incompatibile. Il testo unico degli enti locali stabilisce infatti che il Sindaco possa nominare come assessori esterni solo i cittadini “in possesso dei requisiti di candidabilità, eleggibilità e compatibilità alla carica di consigliere comunale”: orbene, se il soggetto nominato come assessore esterno non possiede questi requisiti, è chiaro che la sua investitura non può ritenersi legittima, per cui è necessario che il Sindaco proceda alla revoca dell’atto di nomina stesso.”
Concludendo su tale punto, si ritiene che l’assessore esterno nominato dal sindaco possa esercitare le prerogative che gli sono proprie in quanto assessore, sia singolarmente che quale componente dell’organo giuntale di cui fa parte, fermo restando che andrà verificato il permanere dei requisiti nel corso del mandato con le modalità ritenute opportune.
[4] Si ritiene, altresì, che la valutazione della sussistenza dei requisiti di candidabilità, eleggibilità e compatibilità alla carica di assessore sia stata compiuta dal sindaco all’atto della nomina degli stessi.
Passando a trattare dell’ultima questione posta, il Ministero dell’Interno ha ripetutamente ritenuto inammissibile l’attribuzione di deleghe con rilevanza esterna ai consiglieri comunali, potendo le stesse, ove previste, avere solo rilevanza interna e finalità consultiva, specificando che l’ordinamento consente, piuttosto, l’attribuzione a singoli consiglieri di compiti di collaborazione, circoscritti all’esame ed alla cura di affari specifici, che non implichi la possibilità di assumere atti a rilevanza esterna, né di adottare atti di gestione spettanti agli organi burocratici.
Per delega interna s’intende l’incarico funzionale affidato dal titolare dell’organo delegante per lo svolgimento di un’attività ausiliaria di studio, proposta e vigilanza in determinati settori. Risulta, quindi essere una misura organizzativa che, pur potendo assumere notevole importanza pratica e rilevanza politica, non può produrre effetti giuridici.
In particolare, in un recente parere
[5] il Ministero dell’Interno ha ribadito che «nell'ambito dell'autonomia statutaria dell'ente locale, sancita dall'art. 6 del citato decreto legislativo n. 267/2000, è ammissibile la disciplina di deleghe interorganiche, purché il contenuto delle stesse sia coerente con la funzione istituzionale dell'organo cui si riferisce. Occorre considerare che il consigliere può essere incaricato di studi su determinate materie e di compiti di collaborazione circoscritti all'esame e alla cura di situazioni particolari, che non implichino la possibilità di assumere atti a rilevanza esterna, né di adottare atti di gestione spettanti agli organi burocratici.
Il consigliere, infatti, svolge la sua attività istituzionale, in qualità di componente di un organo collegiale quale il consiglio, che è destinatario dei compiti individuati e prescritti dalle leggi e dallo statuto.
Atteso che il consiglio svolge attività di indirizzo e controllo politico-amministrativo, partecipando "…alla verifica periodica dell'attuazione delle linee programmatiche da parte del Sindaco … e dei singoli assessori" (art. 42, comma 3, del T.U.O.E.L.), ne scaturisce l'esigenza di evitare una incongrua commistione nell'ambito dell'attività di controllo.
In proposito, va osservato che il TAR Toscana, con decisione n. 1248/2004, ha respinto il ricorso avverso una norma statutaria concernente la delega ai consiglieri di funzioni sindacali in quanto la stessa escludeva implicitamente che potessero essere delegati compiti di amministrazione attiva, tali da comportare “…l’inammissibile confusione in capo al medesimo soggetto del ruolo di controllore e di controllato…”.
Si aggiunge, altresì, che il Consiglio di Stato, con parere n. 4883/11 reso in data 17.10.2012, ha ritenuto fondato un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica in quanto l’atto sindacale impugnato, nel prevedere la delega ai consiglieri comunali di funzioni di amministrazione attiva, determinava “… una situazione, per lo meno potenziale, di conflitto di interesse.”.
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[1] ANCI, parere dell’11.10.2007.
[2] Tale è la rubrica dell’articolo 17 dello statuto comunale.
[3] ANCI, parere dell’08.09.2004.
[4] Con riferimento alla norma di cui all’articolo 24 dello statuto nella parte in cui attribuisce al consiglio comunale il compito di accertare le condizioni di eleggibilità, di compatibilità e di candidabilità degli assessori esterni, per quanto sopra già esposto, si suggerisce all’ente di provvedere alla sua modifica.
[5] Ministero dell’Interno, parere del 28.10.2019. Nello stesso senso si vedano, anche i pareri del 12.08.2019 e del 05.01.2018
(11.12.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

novembre 2019

CONSIGLIERI COMUNALI: Composizione della giunta comunale. Quote di genere.
Nelle giunte dei comuni con popolazione superiore a 3.000 abitanti, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura inferiore al 40 per cento, con arrotondamento aritmetico. L’impossibilità di rispettare la percentuale di rappresentanza di genere configura una situazione eccezionale che deve essere adeguatamente provata, con conseguente necessità di un’accurata e approfondita istruttoria e di un’altrettanto adeguata e puntuale motivazione del provvedimento sindacale di nomina degli assessori che quella percentuale di rappresentanza non riesca a garantire.
Il Comune chiede un parere in merito alla composizione della giunta comunale. Più in particolare riferisce che, a seguito delle dimissioni di una componente dell’organo giuntale, quest’ultimo non è rispettoso delle quote di genere. Chiede, pertanto, se sia possibile mantenere l’assetto attuale della giunta attesa la difficoltà di individuazione di un altro componente di sesso femminile e considerata l’imminenza del rinnovo del consiglio comunale.
L’articolo 18 dello statuto comunale, al comma 1, prevede che: “La Giunta Comunale è composta dal Sindaco, che la convoca senza formalità e la presiede, e da un numero di Assessori non superiore a sei, tra cui un Vice Sindaco
[1].
È nominata dal Sindaco che ne dà comunicazione al Consiglio nella prima seduta successiva alle elezioni, unitamente alla proposta degli indirizzi generali di governo.
Il Sindaco può nominare fino ad un massimo di due Assessori non Consiglieri, senza attribuire loro le funzioni di Vice Sindaco. I due Assessori dovranno essere individuati all’interno delle liste dei candidati alla carica di consigliere comunale collegate al Sindaco eletto
”.
Attesa la formulazione statutaria che fissa un numero massimo di assessori nominabili dal sindaco segue che questi potrebbe individuare un numero anche inferiore rispetto al massimo consentito. Sotto tale profilo giuridico, pertanto, l’attuale organo giuntale che risulta composto da quattro assessori più il sindaco potrebbe considerarsi correttamente costituito e legittimato ad operare.
Le considerazioni di cui sopra devono tuttavia tenere in debito conto anche il necessario rispetto del principio di parità di genere.
Al riguardo si osserva che l’articolo 1, comma 137, della legge 07.04.2014, n. 56 prevede che: “Nelle giunte dei comuni con popolazione superiore a 3.000 abitanti, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura inferiore al 40 per cento, con arrotondamento aritmetico”.
Relativamente al caso in esame, su quattro assessori almeno due dovrebbero pertanto appartenere al genere meno rappresentato.
Preliminarmente si osserva che la norma citata deve essere applicata non solo con riguardo alle nomine assessorili effettuate all’indomani delle elezioni ma anche a quelle adottate in corso di consiliatura. Una diversa interpretazione, come affermato dal Supremo giudice amministrativo
[2], “consentirebbe un facile aggiramento della suddetta prescrizione” che costituisce un “ineludibile parametro di legittimità” di tutti gli atti adottati nella sua vigenza.
La giurisprudenza ha affrontato, in diverse occasioni, la questione della valenza da attribuire alla norma sopra citata, e, in particolare, se essa “abbia o meno un limite intrinseco di operatività e cioè se, in ogni caso e senza alcuna eccezione , la composizione della giunta debba comunque assicurare la presenza dei due generi in misura non inferiore al 40% ovvero se sia astrattamente configurabile (e sistematicamente compatibile con quella previsione normativa) una situazione, di carattere assolutamente eccezionale, in cui, la giunta comunale possa ritenersi legittimamente costituita ed altrettanto legittimamente operante, pur se quella percentuale non sia stata rispettata
[3].
Il giudice amministrativo
[4] nell’osservare che l’applicazione della prescrizione contenuta nell’articolo 1, comma 137, della legge 56/2014, volta a garantire la parità tra i sessi e conseguentemente le reciproche pari opportunità, deve essere contemperata con il principio, anch’esso di valenza costituzionale, di continuità delle “funzioni politico-amministrative”, afferma che “il giusto contemperamento dei due delineati principi costituzionali che vengono in gioco (e cioè il limite intrinseco, logico-sistematico, di operatività della norma in questione) può ragionevolmente rintracciarsi nella effettiva impossibilità di assicurare nella composizione della giunta comunale la presenza dei due generi nella misura stabilita dalla legge, impossibilità che deve essere adeguatamente provata e che pertanto si risolve nella necessità di un’accurata e approfondita istruttoria ed in un’altrettanto adeguata e puntuale motivazione del provvedimento sindacale di nomina degli assessori che quella percentuale di rappresentanza non riesca a rispettare”.
Ancora si è affermato che “l’impossibilità in concreto di rispettare la percentuale di rappresentanza di genere debba risultare in modo puntuale ed inequivoco e debba avere un carattere tendenzialmente oggettivo”.
Sul fatto che l’impossibilità di rispettare la parità di genere nell’organo giuntale debba essere adeguatamente provata si è ulteriormente espressa la giurisprudenza amministrativa rilevando che “il Sindaco ha l’obbligo di svolgere indagini conoscitive, intese ad individuare, all’interno della società civile, nell’ambito del bacino territoriale di riferimento del Comune, personalità femminili in possesso di quelle qualità–doti professionali, nonché condivisione dei valori etico-politici propri della maggioranza uscita vittoriosa alle elezioni, idonee a ricoprire l’incarico di componente la giunta municipale
[5].
Sempre con riferimento al tipo di prova di cui il sindaco dovrebbe avvalersi a giustificazione del mancato rispetto del principio di parità di genere nell’organo giuntale la giurisprudenza
[6] ha affermato come si tratti di una prova “particolarmente ardua, in quanto non possono essere utilizzate motivazioni di tipo meramente soggettivo (mancanza di conoscenza personale o di un preesistente rapporto fiduciario) e neppure ragioni di opportunità collegate agli equilibri tra i gruppi politici di maggioranza”.
Le considerazioni di cui sopra risultano avallate anche dal Ministero dell’Interno che, in diverse occasioni, nell’affrontare la questione in riferimento, ha fatto proprie le conclusioni cui era giunta la giurisprudenza amministrativa
[7].
Quanto all’ulteriore questione della validità delle deliberazioni adottate dalla giunta in caso di mancata osservanza della normativa in materia di quote di genere, il Ministero dell’Interno
[8] ha richiamato le osservazioni formulate al riguardo dal Consiglio di Stato in sede consultiva [9] il quale ha precisato che “vanno considerate due ipotesi. La prima si riferisce al caso in cui l’atto deliberativo sia stato adottato, mentre è pendente ricorso giurisdizionale avverso l’irregolare composizione dell’organo. Come ricordato dalla stessa Amministrazione richiedente, la questione è stata risolta dalla giurisprudenza amministrativa, che si è espressa nel senso che l’organo in carica si presume validamente costituito sino al deposito della sentenza che ne accerta l’illegittima composizione (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, 13.01.2012, n. 1). Fino a quel momento la Giunta o il Consiglio dispongono dei pieni poteri e i relativi atti beneficiano del principio della continuità degli organi amministrativi. Tale orientamento è condiviso dalla Sezione.
La seconda ipotesi prende in esame il caso in cui l’atto deliberativo sia stato adottato da un organo la cui irregolare composizione non sia stata impugnata. Anche in questa situazione non ci sono riflessi diretti sulla validità dell’atto. L’atto, se non impugnato nei termini, è divenuto inoppugnabile, esso ha acquistato stabilità
[10]”.
Concludendo, con riferimento al quesito posto, compete al sindaco valutare se sussistono motivazioni sufficienti, idonee a comprovare l’impossibilità di nomina di un ulteriore componente femminile all’interno della giunta comunale, coerenti con le considerazioni espresse dalla giurisprudenza sull’argomento e sopra riportate
[11]. Atteso che, nel caso in esame, la mancata rappresentanza di genere nella misura richiesta dalla legge è sopravvenuta nel corso del mandato, non è dato riscontrare la presenza di un atto (quale sarebbe il decreto di nomina) nel quale dare conto dell’iter motivazionale seguito. Quest’ultimo potrebbe, comunque, essere portato a conoscenza del consiglio comunale da parte del sindaco.
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[1] Per completezza espositiva si segnala che, ai sensi dell’articolo 12, comma 39, della legge regionale 29.12.2010, n. 22 “Il numero massimo degli Assessori comunali è determinato, per ciascun comune, in misura pari a un quarto del numero dei Consiglieri del comune, con arrotondamento all’unità superiore. Nel calcolo del numero dei Consiglieri comunali si computa il Sindaco. […]”.
Come precisato anche nella circolare n. 02/EL del 25.03.2019 dell’allora Direzione centrale autonomie locali, sicurezza e politiche dell’immigrazione “a prescindere dall’effettivo adeguamento statutario, nell’ipotesi in cui lo statuto dell’Ente preveda la nomina di un numero di assessori superiore al massimo consentito dalla legge regionale, il Sindaco dovrà attenersi al numero massimo indicato dalla legge regionale stessa”.
Atteso che il Comune ha una popolazione compresa tra i 3.001 e i 10.000 abitanti il numero massimo di assessori sarebbe di cinque (più il sindaco). Nel caso in esame la giunta comunale risultava formata da 5 assessori e, a seguito delle dimissioni di uno di essi, la stessa risulta attualmente composta da 4 assessori (più il sindaco) di cui uno solo di sesso femminile.
Si ricorda, inoltre, che con legge regionale 09.08.2018, n. 20 (articolo 10, comma 46, che ha inserito l’articolo 39-bis della legge regionale 22/2010) è stata introdotta la possibilità per il sindaco di nominare, qualora sussistano particolari esigenze di governo locale anche di natura transitoria, un ulteriore assessore, oltre il numero massimo previsto.
[2] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 05.10.2015, n. 4626.
[3] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 03.02.2016, n. 406.
[4] Consiglio di Stato, sentenza 406/2016, citata in nota 3.
[5] TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, sentenza del 09.01.2015, n. 1. Nello stesso senso si veda TAR Puglia, Lecce, sez. I, sentenza del 07.02.2013, n. 289.
[6] TAR Lombardia, Brescia, sez. II, sentenza del 05.01.2012, n. 1.
[7] Si vedano i pareri del Ministero dell’Interno del 05.01.2018 e del 16.05.2017.
[8] Ministero dell’Interno, parere del 03.04.2018.
[9] Consiglio di Stato, parere del 19.01.2015, n. 93.
[10] Prosegue l’indicato parere affermando che: “A chiarimento si considera che il potere amministrativo è conferito dalla legge per la cura di interessi che non sono propri del soggetto che lo esercita e che richiedono una situazione di supremazia nell’ordinamento giuridico (principio di legalità). A detto principio si aggiungono il principio di necessità, cioè il dovere del soggetto investito del potere di perseguire l’interesse pubblico sino a quando perduri la situazione che ha originato il potere e l’esigenza di curare gli interessi per cui è esercitato.
Ne consegue che la stabilità dell’azione amministrativa è premessa e sintesi dei principi generali ai quali deve ispirarsi l’esercizio del potere pubblico: economicità, efficacia e non aggravamento, pubblicità e trasparenza, ragionevolezza e proporzionalità, buona fede e legittimo affidamento”.
[11] Non pare al riguardo possibile giustificare la mancata nomina del componente femminile col fatto che è imminente il rinnovo del consiglio comunale
(27.11.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Programma emendabile. Parola al consiglio sulle linee del sindaco. La facoltà non è esclusa in base all'art. 42 del decreto 267/2000.
Si possono emendare le linee programmatiche presentate dal sindaco al consiglio comunale ai sensi dell'articolo 46, comma 3, del dlgs n. 267/2000?

L'articolo 46, comma 3, del dlgs n. 267/2000 demanda allo statuto il termine entro il quale il sindaco, previa audizione della giunta, presenta al consiglio le linee programmatiche relative alle azioni e ai progetti da realizzare nel corso del mandato. Il citato articolo prescrive che lo statuto disciplini anche i modi di partecipazione del consiglio «alla definizione, all'adeguamento e alla verifica periodica dell'attuazione delle linee programmatiche da parte del sindaco... e dei singoli assessori».
Il Consiglio nella sua funzione di indirizzo e controllo come enunciata dal decreto legislativo n. 267/2000 è chiamato, dunque, a partecipare al programma amministrativo sia nella fase iniziale che nelle fasi intermedie, con le modalità indicate proprio nello statuto. Lo statuto di un comune stabilisce che il sindaco, in sede di verifica annuale dello stato di attuazione dei programmi, presenta al Consiglio una relazione sul grado di realizzazione delle linee programmatiche nei termini di cui all'art. 193 del Tuoel.
Alla luce della normativa sopra richiamata, si ritiene che le linee programmatiche non possano non essere «partecipate» tramite delibere quali atti tipici con i cui gli organi collegiali manifestano la propria volontà. Pertanto non si ritiene esclusa la facoltà di proporre emendamenti alle linee programmatiche presentate dal sindaco, considerato che il disposto recato dal citato articolo 42, comma 3, del dlgs n. 267/2000 assegna al consiglio la competenza alla definizione, all'adeguamento e alla verifica periodica del programma di governo (articolo ItaliaOggi del 22.11.2019).

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGODanno erariale al sindaco per l'incarico dirigenziale a un funzionario senza laurea.
Il sindaco che attribuisce un incarico dirigenziale a un funzionario non laureato arreca un danno erariale al Comune.

Lo ha stabilito la corte dei Corte dei conti del Veneto, con la sentenza 20.11.2019 n. 182, con la quale ha condannato il sindaco di un Comune al risarcimento di un danno erariale per oltre 78 mila euro, a seguito del decreto di conferimento di un incarico dirigenziale a un funzionario privo del necessario diploma di laurea.
L'attribuzione dell'incarico a tempo determinato, con decorrenza dal giugno 2013 al maggio 2018, era avvenuta con un decreto del sindaco adottato ai sensi dell'articolo 110 del Tuel, che disciplina gli incarichi a contratto. L'argomentazione addotta dai giudici a sostegno della pesante condanna fa perno sul fatto che quest'ultimo articolo consente la copertura dei posti di qualifica dirigenziale mediante contratto a tempo determinato «fermi restando i requisiti richiesti dalla qualifica da ricoprire».
Il requisito della laurea
L'impianto normativo connesso a questo disposto non lascia dubbi in ordine alla necessità del diploma di laurea per l'accesso alla dirigenza della Pa.
In particolare, l'articolo 19 del Dlgs 165/2001 (testo unico sul pubblico impiego), con riguardo all'attribuzione degli incarichi dirigenziali a tempo determinato, fa espresso riferimento alla formazione universitaria e post universitaria ai fini della verifica della competenza professionale, mentre l'articolo 28 del medesimo decreto, per quanto riguarda l'accesso alle qualifiche dirigenziali a tempo indeterminato, prevede anch'esso la necessità del possesso di titolo di laurea.
Tenuto conto di ciò, il decreto illegittimo ha comportato il riconoscimento al funzionario di un trattamento economico superiore a quello che gli sarebbe spettato se l'incarico gli fosse stato attribuito con il riconoscimento di una posizione organizzativa, e per questo la Corte ha addebitato al sindaco un danno pari alla differenza retributiva tra le due posizioni in organico per tutto il periodo di svolgimento dell'incarico.
Il collegio ha respinto l'argomentazione difensiva secondo cui il sindaco non avrebbe avuto alternative nella scelta del funzionario (dato che era l'unico dipendente di categoria D disponibile ad assumere l'incarico), senza tener conto del fatto che la nomina avrebbe fatto risparmiare al Comune i costi di un conferimento di incarico dirigenziale a un soggetto esterno.
Al contrario, i giudici hanno sostenuto che «esistevano nell'organico dell'ente altre professionalità a cui attribuire l'incarico», mentre per quanto concerne il presunto risparmio di spesa la difesa del sindaco «nulla ha argomentato in merito alla possibilità di affidare la responsabilità dell'area a un funzionario di categoria D mediante l'istituto della posizione organizzativa».
La colpa grave
La sezione ha poi ravvisato i connotati di una colpa grave nella condotta del primo cittadino, in quanto in materia si è ormai consolidato «un quadro normativo chiaro, privo di insidie sul piano ermeneutico, anche alla luce della concorde e costante giurisprudenza amministrativa».
A nulla è valso il tentativo della difesa nel sostenere un coinvolgimento di altri organi comunali nella responsabilità decisionale per il conferimento dell'incarico dirigenziale illegittimo.
Secondo i giudici la circostanza che, a monte del decreto in questione, la giunta comunale avesse adottato un piano di fabbisogno del personale prevedendo la copertura del posto di qualifica dirigenziale mediante contratto a tempo determinato con incarico in base all'articolo 110 del Tuel non ha escluso neppure parzialmente la responsabilità del convenuto.
La decisione di giunta, infatti, atteneva unicamente alle modalità di copertura del posto, e non all'individuazione del soggetto al quale l'incarico avrebbe dovuto essere conferito da parte del sindaco, nella veste di titolare della funzione di scelta del responsabile dell'ufficio.
Il segretario generale, chiamato a sua volta in causa dal sindaco in qualità di soggetto titolare delle «funzioni di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell'ente in ordine alla conformità dell'azione amministrativa alle leggi, allo statuto e ai regolamenti» (articolo 97 del tuel), è stato scagionato dal collegio per aver rappresentato al sindaco subito dopo l'adozione del decreto, verbalmente e per iscritto, i profili di illegittimità dell'avvenuto conferimento dell'incarico.
In definitiva, l'addebito del danno erariale è stato posto interamente a carico del sindaco dell'ente, individuato dalla Corte quale titolare esclusivo del potere di esercitare la funzione di scelta dell'incarico, con esclusione peraltro della cosiddetta «esimente politica», riferibile ai soli atti rientranti nella competenza di uffici tecnici o amministrativi e approvati, autorizzati o eseguiti in buona fede dagli organi politici (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 10.12.2019).

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Accesso alla dirigenza e responsabilità erariale per mancanza del diploma di laurea.
In materia di conferimento di incarichi dirigenziali a tempo determinato negli enti locali, la normativa di settore (d.lgs. 267/2000), nell’individuarne la disciplina (art. 110), ha rinviato, quanto a requisiti e presupposti, alla generale disciplina del pubblico impiego (D.lgs. 29/1993 prima e, poi, D.lgs. 165/2001) e, quindi, all’art. 19 del D.lgs. 165/2001 (la cui applicazione agli enti locali è stata espressamente prevista dal D.lgs. 150/2009, benché in giurisprudenza, anche di questa Corte, non si fosse mancato di sottolinearne, anche in precedenza, l’estensibilità oltre l’impiego statale in quanto rappresentativa di principio generale) che, al comma 6, stabilisce i requisiti per il conferimento di incarichi dirigenziali a tempo determinato, prevedendo la concorrenza del requisito culturale della formazione universitaria con il requisito professionale dell’esperienza quinquennale in posizioni funzionali previste per l’accesso alla dirigenza.
Tale ultima disposizione, nel testo in vigore all’epoca dei fatti (2013) e, cioè, successivamente alle modifiche apportate dall’art. 40 del D.lgs n. 150/2009, aveva una formulazione letterale che non poteva (e non può) lasciare adito a dubbio ermeneutico alcuno in relazione al necessario possesso del titolo di studio della laurea: la “particolare specializzazione professionale” che è requisito per l’attribuzione dell’incarico, infatti, deve essere comprovata “dalla formazione universitaria e postuniversitaria, post universitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro…”.
Requisito culturale e di esperienza lavorativa dunque, non possono in alcun modo essere ritenuti, anche solo sulla base della littera legis, alternativi tra loro, ma debbono, coerentemente con la ratio legis, sussistere congiuntamente.
Invero, “
il criterio secondo il quale il legislatore ha inteso disciplinare l’immissione nell’esercizio di funzioni dirigenziali di soggetti, quali essi siano, in precedenza già non investiti di tale qualifica, risulta evidentemente informato alla volontà di acquisire professionalità estranee, tali da presentare qualità aggiuntive e comunque non minori rispetto ai già elevati requisiti previsti per le nomine di funzionari appartenenti ai ruoli dirigenziali. Tanto premesso, consegue da ciò attraverso una lettura sistematica dell’art. 19, c. 6, che la facoltà da tale norma prevista richiede, nei suoi destinatari, il concorrente possesso di una particolare specializzazione, sia professionale, che culturale e scientifica; quando si passi all’accertamento di tali requisiti, in relazione alle funzioni da attribuire, l’interprete, dal canto suo, non può sottrarsi alla verifica, sotto ogni profilo, della presenza di tutti gli elementi che complessivamente rendono il soggetto idoneo all’incarico. Ne discende che, ferma rimanendo l’esigenza dell’accertamento di un livello di formazione culturale identificabile nel possesso della laurea, gli elementi che configurano e completano in estranei il profilo della professionalità debbano, insieme ad altri, ricavarsi dal già disimpegnato esercizio di funzioni almeno di pari rilevanza di quelle previste nel nuovo compito. Quindi, oltre all’accertato possesso di sufficiente formazione culturale, in un contesto normativo in cui è però prevista l’attribuzione di incarichi dirigenziali previa verifica della sussistenza di livelli di formazione particolarmente elevati, occorre che la valutazione venga estesa ad un puntuale esame dei curricula degli incaricandi”.
L’aver conferito, da parte del convenuto, un incarico dirigenziale a soggetto non in possesso di diploma di laurea costituisce una violazione delle predette disposizioni, integrando l’elemento oggettivo della responsabilità amministrativa.
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In relazione all’elemento soggettivo, ritiene il Collegio che la condotta del convenuto sia connotata, come prospettato dalla Procura regionale, da colpa grave.

Invero,
il decreto di conferimento dell’incarico è, formalmente e sostanzialmente, atto proprio del Sindaco, adottato nell’ambito di funzioni ad esso attribuite in via esclusiva dal TUEL e dal Regolamento comunale di organizzazione degli uffici e dei servizi del Comune
La circostanza che, a monte del decreto in questione, la Giunta Comunale, organo al quale compete la programmazione in materia di personale ex art. 48, comma 2, TUEL, avesse deciso -appunto all’interno di un atto programmatorio a valenza generale quale il Piano occupazionale-
la “copertura del posto di qualifica dirigenziale dell’Area II “servizi economico-finanziari e tributari” mediante contratto a tempo determinato” con incarico ai sensi dell’art. 110 TUEL, anziché ricorrere ad altre opzioni (incarico a tempo determinato a personale esterno, concorso pubblico, attribuzione di posizione organizzativa) non vale ad escludere, neppure parzialmente, la responsabilità del convenuto.
Tale decisione, infatti, attiene unicamente alle modalità di copertura del posto, non alla individuazione e alla scelta del soggetto al quale l’incarico avrebbe dovuto essere conferito, queste ultime riferibili unicamente alla volontà del titolare del potere di esercitare la relativa funzione: il sindaco, appunto.
Né la circostanza che il personale apicale degli uffici o il segretario comunale fossero tenuti alla predisposizione dell’atto vale ad escludere in capo al sindaco la responsabilità dell’atto stesso, a ripartirla o ad attenuarla: si tratta, infatti, di compito di mera redazione materiale del documento, non di una (com)partecipazione alla formazione della volontà che nel documento si trasfonde dando, appunto, origine all’atto; la scelta del soggetto destinatario dell’incarico (e, quindi, la valutazione della sussistenza della speciale professionalità richiesta dalla norma) è di esclusiva pertinenza del Sindaco.
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Nell’attuale assetto normativo regolante la figura ed il ruolo del segretario comunale, dopo l’intervento della legge 127/1997 (che ha abrogato il parere preventivo obbligatorio di legittimità del segretario sugli atti degli organi collegiali), al segretario sono attribuite funzioni meramente consultive e di assistenza agli organi del comune –la cui ampiezza, peraltro, è delimitata dalla introduzione della figura del Direttore generale- e di coordinamento dell’attività dei dirigenti, ma non certo funzioni di amministrazione attiva.
La mera sottoscrizione degli atti di Giunta e Consiglio comunale quale soggetto verbalizzatore (art. 97, comma 3, TUEL) assolve ad una specifica funzione redazionale e certificativa, propria del Segretario, che non comporta alcuna responsabilità diversa da quella di registrazione dei fatti e delle volontà in conformità a quanto avvenuto nella seduta e, perciò, esterna ed estranea al processo formativo delle volontà espresse dagli organi collegiali a seguito di deliberazione (ed, in ipotesi, causative di danno).
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Il conferimento di incarico dirigenziale ex art. 110 TUEL è atto proprio del Sindaco dal quale è causalmente derivato il contestato danno al Comune con il pagamento di competenze retributive ad un soggetto privo della professionalità necessaria per la copertura dell’incarico illegittimamente conferito.

Invero,
l’illegittimità dell’incarico conferito a soggetto privo dei requisiti di studio richiesti dalla norma ha causato all’amministrazione un ingiusto pregiudizio economico: il danno in caso di prestazioni rese in mancanza del prescritto titolo di studio e professionale è insito nella lesione della violazione del sinallagma contrattuale, dal momento che alla retribuzione percepita non corrisponde una prestazione adeguatamente commisurata e qualitativamente corrispondente alla professionalità richiesta.
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Oggetto del presente giudizio è la responsabilità risarcitoria del convenuto, all’epoca Sindaco pro tempore del Comune di Villafranca di Verona, per l’illegittimo conferimento di incarico dirigenziale intra dotazione organica, a tempo determinato, ad un dipendente dell’ente poiché sprovvisto dell’imprescindibile requisito del diploma di laurea, così come previsto dalla disciplina di rango primario vigente all’atto del conferimento dell’incarico medesimo, nel giugno 2013.
Secondo la prospettazione della Procura Regionale, il possesso del titolo di studio della laurea, non solo era un requisito obbligatoriamente richiesto, ma emergeva in modo chiaro e puntuale dal complesso delle disposizioni normative regolanti la materia, circostanza che di per sé impediva il venir meno della gravità delle colpa.
A tale conclusione la Procura è pervenuta in considerazione dell'art. 110 del D.lgs. 267/2000, che prevede che la copertura dei posti di qualifica dirigenziale possa avvenire mediante contratto a tempo determinato “fermi restando i requisiti richiesti dalla qualifica da ricoprire”, dell’art. 19 del D.Lgs. 165/2001 -divenuto applicabile a tutte le amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del D.lgs. 165/2001 in forza dell’art. 40, comma 1, lett. f), del D.lgs. 150/2009-, che disciplina il conferimento di incarichi dirigenziali a tempo determinato e fa riferimento alla “particolare specificazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria”, e infine dell’art. 28 del D.Lgs. 165/2001 che, benché riferito alle nomine in ruolo dei dirigenti per le quali, appunto, è richiesto il diploma di laurea, è da considerarsi norma di generale applicazione, anche per ragioni di logica e coerenza del sistema.
Si tratterebbe di un quadro normativo chiaro, privo di insidie sul piano ermeneutico, anche alla luce della concorde e costante giurisprudenza amministrativa da un lato e, dall’altro, della stessa Corte dei Conti, più volte intervenuta nella materia de qua anche in sede di controllo di legittimità (Sez. Centr. Contr. Leg. n. 31/2001, n. 3/2003) che in sede consultiva di controllo (a partire dalla Sez. Contr. Lombardia n. 31/2001) e ribadita anche dal Dipartimento della Funzione Pubblica fin dal 2008 (parere n. 35/2008).
La difesa del convenuto non ha formulato contestazioni circa le norme applicabili, al momento dell’adozione del decreto sindacale n. 11 del 18.06.2013, al conferimento di incarichi dirigenziali ai sensi dell’art. 110 del TUEL -e, quindi, in relazione alla necessità del possesso del requisito della laurea-, tuttavia ha rappresentato che tale quadro normativo, in ogni caso farraginoso e di non semplice ricostruzione a causa della tecnica normativa del rinvio mobile, solo a partire dalla riforma del 2009 non poneva dubbi interpretativi circa i requisiti professionali e di studio necessari per il conferimento di incarichi dirigenziali.
In precedenza, infatti, la formulazione letterale dell’art. 19, comma 6, del D.lgs. 165/2001, elencando i requisiti possesso di laurea/esperienza in maniera disgiuntiva, consentiva di ritenere legittimo il conferimento di incarico anche a soggetti non in possesso del titolo di studio, ma in possesso di concreta esperienza di lavoro maturata presso pubbliche amministrazioni; solo dopo il d.lgs. 150/2009, il testo della disposizione è stato mutato in modo tale da non lasciare spazio a soluzioni ermeneutiche diverse circa la necessaria compresenza di entrambi i requisiti.
Osserva il Collegio che l’adozione da parte dell’odierno convenuto, all’epoca dei fatti Sindaco pro tempore del Comune di Villafranca di Verona, del decreto n. 11 del 18.06.2013 integra una condotta antigiuridica, essendo condivisibile la ricostruzione del quadro normativo applicabile alla fattispecie dedotta dalla Procura Regionale e, nella sostanza, condivisa anche dalla difesa del convenuto.
Come già ricordato,
in materia di conferimento di incarichi dirigenziali a tempo determinato negli enti locali, la normativa di settore (d.lgs. 267/2000), nell’individuarne la disciplina (art. 110), ha rinviato, quanto a requisiti e presupposti, alla generale disciplina del pubblico impiego (D.lgs. 29/1993 prima e, poi, D.lgs. 165/2001) e, quindi, all’art. 19 del D.lgs. 165/2001 (la cui applicazione agli enti locali è stata espressamente prevista dal D.lgs. 150/2009, benché in giurisprudenza, anche di questa Corte, non si fosse mancato di sottolinearne, anche in precedenza, l’estensibilità oltre l’impiego statale in quanto rappresentativa di principio generale) che, al comma 6, stabilisce i requisiti per il conferimento di incarichi dirigenziali a tempo determinato, prevedendo la concorrenza del requisito culturale della formazione universitaria con il requisito professionale dell’esperienza quinquennale in posizioni funzionali previste per l’accesso alla dirigenza.
Osserva a tal proposito il Collegio che
tale ultima disposizione, nel testo in vigore all’epoca dei fatti (2013) e, cioè, successivamente alle modifiche apportate dall’art. 40 del D.lgs n. 150/2009, aveva una formulazione letterale che non poteva (e non può) lasciare adito a dubbio ermeneutico alcuno in relazione al necessario possesso del titolo di studio della laurea: la “particolare specializzazione professionale” che è requisito per l’attribuzione dell’incarico, infatti, deve essere comprovata “dalla formazione universitaria e postuniversitaria, post universitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro…”.
Requisito culturale e di esperienza lavorativa dunque, non possono in alcun modo essere ritenuti, anche solo sulla base della littera legis, alternativi tra loro, ma debbono, coerentemente con la ratio legis, sussistere congiuntamente.
Come osservato, infatti, già prima dell’intervento del legislatore del 2009 dalla Sezione del controllo di legittimità su atti del Governo di questa Corte con la delibera n. 3/2003 del 09.01.2003, “
il criterio secondo il quale il legislatore ha inteso disciplinare l’immissione nell’esercizio di funzioni dirigenziali di soggetti, quali essi siano, in precedenza già non investiti di tale qualifica, risulta evidentemente informato alla volontà di acquisire professionalità estranee, tali da presentare qualità aggiuntive e comunque non minori rispetto ai già elevati requisiti previsti per le nomine di funzionari appartenenti ai ruoli dirigenziali. Tanto premesso, consegue da ciò attraverso una lettura sistematica dell’art. 19, c. 6, che la facoltà da tale norma prevista richiede, nei suoi destinatari, il concorrente possesso di una particolare specializzazione, sia professionale, che culturale e scientifica; quando si passi all’accertamento di tali requisiti, in relazione alle funzioni da attribuire, l’interprete, dal canto suo, non può sottrarsi alla verifica, sotto ogni profilo, della presenza di tutti gli elementi che complessivamente rendono il soggetto idoneo all’incarico. Ne discende che, ferma rimanendo l’esigenza dell’accertamento di un livello di formazione culturale identificabile nel possesso della laurea, gli elementi che configurano e completano in estranei il profilo della professionalità debbano, insieme ad altri, ricavarsi dal già disimpegnato esercizio di funzioni almeno di pari rilevanza di quelle previste nel nuovo compito. Quindi, oltre all’accertato possesso di sufficiente formazione culturale, in un contesto normativo in cui è però prevista l’attribuzione di incarichi dirigenziali previa verifica della sussistenza di livelli di formazione particolarmente elevati, occorre che la valutazione venga estesa ad un puntuale esame dei curricula degli incaricandi”.
L’aver conferito, da parte del convenuto, un incarico dirigenziale a soggetto non in possesso di diploma di laurea costituisce una violazione delle predette disposizioni, integrando l’elemento oggettivo della responsabilità amministrativa.
In relazione all’elemento soggettivo, ritiene il Collegio che la condotta del convenuto sia connotata, come prospettato dalla Procura regionale, da colpa grave.

Contrariamente, infatti, a quanto sostenuto dalla difesa del convenuto,
il decreto di conferimento dell’incarico è, formalmente e sostanzialmente, atto proprio del Sindaco, adottato nell’ambito di funzioni ad esso attribuite in via esclusiva dal TUEL e dal Regolamento comunale di organizzazione degli uffici e dei servizi del Comune di Villafranca di Verona (art. 50, comma 10, TUEL: “Il sindaco e il presidente della provincia nominano i responsabili degli uffici e dei servizi, attribuiscono e definiscono gli incarichi dirigenziali e quelli di collaborazione esterna secondo le modalità ed i criteri stabiliti dagli articoli 109 e 110, nonché dai rispettivi statuti e regolamenti comunali e provincia”; Art. 109 TUEL: (Conferimento di funzioni dirigenziali) “1. Gli incarichi dirigenziali sono conferiti a tempo determinato, ai sensi dell'articolo 50, comma 10, con provvedimento motivato e con le modalità fissate dal regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, secondo criteri di competenza professionale, in relazione agli obiettivi indicati nel programma amministrativo del sindaco o del presidente della provincia (…)”; art, 12, comma 1, lett. c), del Regolamento secondo cui spetta al Sindaco “l’attribuzione e la definizione degli incarichi dirigenziali ai responsabili di area” e art. 60, comma 1, dello Statuto comunale: “(Incarichi dirigenziali) 1. L’atto del Sindaco di conferimento o revoca degli incarichi dirigenziali è adottato sentita la Giunta e il Direttore Generale, se nominato o il Segretario Generale.”).
La circostanza che, a monte del decreto in questione, la Giunta Comunale, organo al quale compete la programmazione in materia di personale ex art. 48, comma 2, TUEL, avesse deciso -appunto all’interno di un atto programmatorio a valenza generale quale il Piano occupazionale: D.G.C. n. 90 del 2013, cfr. doc. 16 allegato all’atto di citazione- la “copertura del posto di qualifica dirigenziale dell’Area II “servizi economico-finanziari e tributari” mediante contratto a tempo determinato” con incarico ai sensi dell’art. 110 TUEL, anziché ricorrere ad altre opzioni (incarico a tempo determinato a personale esterno, concorso pubblico, attribuzione di posizione organizzativa) non vale ad escludere, neppure parzialmente, la responsabilità del convenuto.
Tale decisione, infatti, attiene unicamente alle modalità di copertura del posto, non alla individuazione e alla scelta del soggetto al quale l’incarico avrebbe dovuto essere conferito, queste ultime riferibili unicamente alla volontà del titolare del potere di esercitare la relativa funzione: il sindaco, appunto.
Né la circostanza che il personale apicale degli uffici o il segretario comunale fossero tenuti alla predisposizione dell’atto vale ad escludere in capo al sindaco la responsabilità dell’atto stesso, a ripartirla o ad attenuarla: si tratta, infatti, di compito di mera redazione materiale del documento, non di una (com)partecipazione alla formazione della volontà che nel documento si trasfonde dando, appunto, origine all’atto; la scelta del soggetto destinatario dell’incarico (e, quindi, la valutazione della sussistenza della speciale professionalità richiesta dalla norma) è di esclusiva pertinenza del Sindaco.

La difesa del ricorrente, poi, attribuisce al Segretario comunale, che con il suo comportamento reticente avrebbe omesso di rappresentare alla Giunta e al Sindaco l’esistenza di profili di illegittimità, l’aver indotto in errore gli organi politici, privando il Sindaco in particolare di “scegliere diversamente da come ha fatto” (pag. 18 comparsa).
Anche a prescindere dalla contraddittorietà dell’argomentazione difensiva, avendo lo stesso convenuto in precedenza sostenuto che la scelta del rag. Da. per l’attribuzione dell’incarico dirigenziale “si presentava sostanzialmente come obbligata” (pag. 10 comparsa) essendo quest’ultimo l’unico dipendente di categoria D disponibile ad assumere l’incarico,
nell’attuale assetto normativo regolante la figura ed il ruolo del segretario comunale, dopo l’intervento della legge 127/1997 (che ha abrogato il parere preventivo obbligatorio di legittimità del segretario sugli atti degli organi collegiali), al segretario sono attribuite funzioni meramente consultive e di assistenza agli organi del comune –la cui ampiezza, peraltro, è delimitata dalla introduzione della figura del Direttore generale- e di coordinamento dell’attività dei dirigenti, ma non certo funzioni di amministrazione attiva.
Risulta in atti che il segretario comunale di Villafranca di Verona abbia assolto al proprio compito di consulenza/assistenza, avendo rappresentato al Sindaco i profili di illegittimità del decreto di conferimento dell’incarico, sia per le vie brevi prima sia formalmente con PEC nei giorni immediatamente successivi all’adozione: la Procura ha prodotto, infatti, copia della comunicazione scritta che la medesima ha dichiarato di aver consegnato brevi manu al Sindaco e inviato tramite PEC.
La difesa del convenuto ha contestato la veridicità della circostanza, peraltro confermata dalla medesima Segretario in sede di audizione (doc. 33 Procura), producendo sub doc. 9 una nota (erroneamente qualificata come dichiarazione) a firma del Vice Segretario generale del Comune di Villafranca di Verona, dr. Bo., con la quale lo stesso trasmette al difensore un file di excel (non prodotto in atti) contenente l’elenco degli atti protocollati in arrivo nel periodo 21.06.2013-30.06.2010, evidenziando che con le chiavi di ricerca “sindaco” e “Fa.” non si producono risultati.
E’ di tutta evidenza che, anche al di là della considerazione per cui il file predetto, in assenza di iniziative processuali di parte convenuta diverse dalla prova testimoniale richiesta –inammissibile sia per l’omessa formulazione di specifici capitoli, ma anche irrilevante per le ragioni che seguiranno-, non avrebbe certo potuto essere acquisito d’ufficio agli atti del giudizio -con la conseguenza che la mera cognizione dell’ esistenza di un file non consente di valutarne il contenuto- e anche a voler superare ogni questione in merito alla natura e alla capacità probatoria di un file in assenza di forme di certificazione circa la sua completezza, autenticità ed effettiva corrispondenza con i dati del server (se il protocollo è elettronico) ovvero dei registri (se il protocollo è cartaceo) del Comune, l’estratto del protocollo generale dell’ente dal quale non risulta l’avvenuta protocollazione di una comunicazione, potrebbe unicamente attestare, appunto, che al protocollo generale non risulta acquisito un documento, ma non può escludere, in assoluto, che tale documento esista o sia stato consegnato al destinatario.
E ciò a maggior ragione se si considera che il documento allegato dal Segretario al proprio esposto (doc. 1 Procura) porta un numero del protocollo riservato (il n. 89 del 2013: il relativo registro –non prodotto né offerto in produzione- è conservato nell’Ufficio del Segretario, come risulta dalla dichiarazione resa dalla d.ssa Sa. in sede di audizione), circostanza che di certo spiega l’assenza di numero di protocollo generale e che non è stata oggetto di contestazione alcuna da parte della difesa del convenuto.
Del resto, la stessa Sa. ha espressamente confermato in audizione di aver, dapprima, rappresentato verbalmente l’illegittimità dell’atto e di aver, poi, consegnato la nota scritta brevi manu ed infine di averla trasmessa anche tramite PEC.
In tale sede, peraltro, la medesima Segretario ha dichiarato anche che nei colloqui intercorsi con il convenuto, quest’ultimo è apparso a conoscenza del fatto che il rag. Da. non avrebbe potuto rivestire l’incarico dirigenziale per difetto del titolo di studio, tant’è che oggetto di discussione era la possibilità di conferire detto incarico ad altro dipendente comunale in possesso di laurea, il dr. Gr., che seguiva le questioni relative alla programmazione di competenza del settore finanziario e di aver appreso dell’incarico solo successivamente al conferimento, essendole stata consegnata una copia del relativo decreto sindacale.
A fronte di tali evidenze probatorie, ampiamente circostanziate e non incise dalle produzioni documentali della difesa, non sembra che possa fondatamente ritenersi che via siano state condotte omissive imputabili al Segretario utili a escludere o ridurre la responsabilità del Sindaco.
Quanto, poi, al ruolo del Segretario comunale in relazione alla citata delibera della Giunta comunale che ha approvato il piano occupazionale 2013 (che, peraltro, come si è visto, non è causativa di danno alcuno), la mera sottoscrizione degli atti di Giunta e Consiglio comunale quale soggetto verbalizzatore (art. 97, comma 3, TUEL) assolve ad una specifica funzione redazionale e certificativa, propria del Segretario, che non comporta alcuna responsabilità diversa da quella di registrazione dei fatti e delle volontà in conformità a quanto avvenuto nella seduta e, perciò, esterna ed estranea al processo formativo delle volontà espresse dagli organi collegiali a seguito di deliberazione (ed, in ipotesi, causative di danno).
Priva di giuridico pregio appare, infine, l’argomentazione difensiva secondo cui il Sindaco, organo politico, non sarebbe per ciò tenuto, nell’esercizio delle sue funzioni e nell’adozione degli atti propri –quelli, cioè, per i quali è titolare di competenza esclusiva quale quello di cui si tratta-, alla conoscenza delle norme, dovendo provvedervi in sua vece gli uffici tecnici, invocando all’uopo la giurisprudenza di questa Corte in punto di esimente politica.
La disposizione normativa invocata dal ricorrente, infatti, (art. 1, comma 1-ter, della L. n. 20/1994), prevedendo che la responsabilità dei componenti di un organo politico viene meno quando essi abbiano in buona fede autorizzato o approvato atti di competenza di organi tecnici o amministrativi, non tutela sempre e comunque, come sembra pretendere l’appellante, il soggetto politico in quanto tale, ma si limita a prevedere la sua irresponsabilità nelle sole ipotesi in cui esso abbia fatto affidamento sull’attività gestoria svolta dai dipendenti amministrativi della quale non abbia potuto apprezzare, per la peculiarità dei relativi contenuti, il carattere potenzialmente lesivo.
Come ha invero correttamente osservato la Corte territoriale, la richiamata norma si limita ad attuare il principio di separazione tra politica e gestione amministrativa, più volte affermato dal legislatore (art. 3 d.lgs. n. 29/1993, art. 4 d.lgs. n. 165/2001, art. 107 del d.lgs. n. 267/2000) ed in forza del quale i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo delle amministrazioni pubbliche, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita mediante poteri autonomi ai dirigenti, Ne segue che tale norma non consente di ancorare sic et simpliciter l’irresponsabilità del soggetto politico al particolare ruolo istituzionale che lo diversifica dai dirigenti, dovendosi detta disposizione considerare inoperante quando il soggetto stesso abbia direttamente compiuto, nell’ambito delle sue competenze, atti causativi di danno erariale
” (Sez. III App., 432/2016).
Ed è, appunto, questo il caso che ci aggrava: come già ricordato più sopra,
il conferimento di incarico dirigenziale ex art. 110 TUEL è atto proprio del Sindaco dal quale è causalmente derivato il contestato danno al Comune di Villafranca di Verona con il pagamento di competenze retributive ad un soggetto privo della professionalità necessaria per la copertura dell’incarico illegittimamente conferito.
Venendo ad esaminare il terzo elemento costitutivo della responsabilità erariale, l’avvenuta causazione di un danno risarcibile, il Collegio osserva che, come peraltro correttamente rappresentato dalla Procura attrice,
l’illegittimità dell’incarico conferito a soggetto privo dei requisiti di studio richiesti dalla norma ha causato all’amministrazione un ingiusto pregiudizio economico: il danno in caso di prestazioni rese in mancanza del prescritto titolo di studio e professionale è insito nella lesione della violazione del sinallagma contrattuale, dal momento che alla retribuzione percepita non corrisponde una prestazione adeguatamente commisurata e qualitativamente corrispondente alla professionalità richiesta, come peraltro ormai acquisito dalla costante giurisprudenza di questa Corte (cfr. Sez. Veneto sent. n. 107/2015; Sez. Sicilia n. 55/2014; Sez. Lombardia n. 280/2013; Sez. Toscana n. 433/2011; Sez. Sardegna n. 1246/2009; Sez. Piemonte n. 24/2009 per citare, ex multis, alcune tra le più recenti e, da ultimo, Sez. Campania n. 129/2017).
Alla luce di tali consolidati orientamenti, corretto appare, quindi, il criterio di quantificazione del danno utilizzato dalla Procura e, cioè, la differenza fra le retribuzioni percepite dal Dalgal in dipendenza dall’incarico dirigenziale e quelle che gli sarebbero spettate qualora avesse ricevuto il riconoscimento di una posizione organizzativa quale funzionario di cat. D5 (questa sì, legittima e conforme alla normativa e alle disposizioni contrattuali applicabili ratione temporis: “ART. 8 - Area delle posizioni organizzative.
1. Gli enti istituiscono posizioni di lavoro che richiedono, con assunzione diretta di elevata responsabilità di prodotto e di risultato:
   a) lo svolgimento di funzioni di direzione di unità organizzative di particolare complessità, caratterizzate da elevato grado di autonomia gestionale e organizzativa;
   b) lo svolgimento di attività con contenuti di alta professionalità e specializzazione correlate a diplomi di laurea e/o di scuole universitarie e/o alla iscrizione ad albi professionali;
   c) lo svolgimento di attività di staff e/o di studio, ricerca, ispettive, di vigilanza e controllo caratterizzate da elevate autonomia ed esperienza.
2. Tali posizioni, che non coincidono necessariamente con quelle già retribuite con l’indennità di cui all’art. 37, comma 4, del CCNL del 06.07.1995, possono essere assegnate esclusivamente a dipendenti classificati nella categoria D, sulla base e per effetto d’un incarico a termine conferito in conformità alle regole di cui all’art. 9
.” CCNL del 31.03.1999).
La difesa del convenuto contesta in nuce l’esistenza di un danno risarcibile rappresentando, al contrario, l’avvenuta realizzazione di una economia di spesa in quanto il posto avrebbe comunque dovuto essere coperto, con maggiori costi, con ricorso ad un dirigente esterno, argomentando in ordine alla necessaria copertura del posto con una figura dirigenziale non potendosi procedere ad accorpamenti di aree, ma nulla argomentando in merito alla possibilità di affidare la responsabilità dell’area ad un funzionario di cat. D mediante l’istituto della posizione organizzativa, contrattualmente previsto (ed applicabile al caso de quo), appunto oggetto di contestazione da parte della Procura Regionale.
In conclusione, sussistendone tutti i presupposti, deve essere dichiarata la responsabilità erariale del convenuto per i fatti di cui è causa e lo stesso deve essere condannato al risarcimento del danno in favore del Comune di Villafranca di Verona.
Per le ragioni ampiamente più sopra esposte in merito alla solo presunta compartecipazione di soggetti terzi (Giunta comunale/Segretario Comunale) alla formazione della volontà sottostante al decreto di conferimento dell’incarico, ritiene il Collegio non ricorrere nemmeno i presupposti per l’applicazione del potere riduttivo, così come richiesto dalla difesa.
In conclusione, la domanda attorea deve essere accolta e il convenuto condannato al risarcimento in favore del Comune di Villafranca di Verona del danno complessivamente derivante dai fatti di cui è causa e quantificato in euro 78.120,00, somma comprensiva della rivalutazione monetaria, oltre agli interessi legali dalla data della sentenza al saldo effettivo.
Ai sensi dell’art. 31 del c.g.c. il convenuto va inoltre condannato al pagamento delle spese di giustizia, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Sezione Giurisdizionale Regionale per il Veneto della Corte dei Conti, ogni diversa e/o contraria domanda od eccezione respinta, definitivamente pronunciando nel giudizio iscritto al n. 30799 del registro di segreteria promosso dal Procuratore Regionale nei confronti di Fa.Ma.;
   - respinge l’eccezione preliminare di prescrizione;
   - in accoglimento della domanda avanzata dalla Procura Regionale condanna Fa.Ma. al risarcimento del danno nei confronti del Comune di Villafranca di Verona di euro 78.120,00 (settantottomilacentoventi/00), somma comprensiva della rivalutazione monetaria, oltre interessi dalla data della sentenza fino al saldo effettivo (Corte dei Conti Veneto, sentenza 20.11.2019 n. 182).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Parere in merito alla possibilità di rifondere spese legali ad un ex amministratore (Legali Associati per Celva, nota 18.11.2019 - tratto da www.celva.it).
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Dalla descrizione fornita dal Comune di Ayas risulta che nei confronti di un amministratore e di un dipendente dell’Ente veniva instaurato un procedimento penale per turbativa d’asta e che nel mese di novembre 2011 il Tribunale di Aosta metteva sentenza di assoluzione degli imputati perché il fatto non sussiste. (...continua).

CONSIGLIERI COMUNALILegittimazione ad impugnare la proroga dello scioglimento del Consiglio comunale.
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Processo amministrativo – Legittimazione – Attiva - Proroga scioglimento Consiglio comunale – Impugnazione – Singolo elettore – Inammissibilità.
L’impugnazione dello scioglimento dell’organo consiliare ai sensi dell’art. 143 del T.U.E.L., come anche della sua proroga, non è annoverabile tra le azioni proponibili dai singoli elettori ai sensi dell’art. 9 del T.U.E.L., e ciò in quanto la misura dissolutoria di cui all’art. 143, mentre incide sulle situazioni soggettive dei componenti degli organi elettivi che, per effetto di essa, vengono a subire una perdita di status, non altrettanto incide su quella dell’ente locale, titolare di posizioni autonome e distinte, che, anzi, nella misura vede uno strumento di tutela e di garanzia della pubblica amministrazione (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che è inammissibile per difetto di legittimazione l’azione popolare proposta per impugnare lo scioglimento del consiglio comunale e la nomina di una commissione straordinaria per la provvisoria gestione del medesimo, perché lo strumento offerto dall’art. 9 del T.U.E.L. non può essere utilizzato per far valere azioni che non sono di spettanza dell’ente locale nell’interesse del quale si dichiara di agire.
Il provvedimento di proroga è, sì, contestabile in sede giurisdizionale avanti al giudice amministrativo da parte dei componenti del disciolto organo consiliare, ma solo se e nella misura in cui tale contestazione, per vizi propri del medesimo provvedimento –ad esempio per la sua tardività– o per vizî derivati dallo scioglimento medesimo, possa condurre al reinsediamento dei soggetti eletti, risultato da escludersi, nella vicenda esaminata, per l’accertata definitiva legittimità del predetto scioglimento, e non già al fine di ottenere la fissazione di nuove, più ravvicinate nel tempo, elezioni.
Non sussiste dunque legittimazione dei componenti della disciolta amministrazione comunale, nemmeno quali cittadini-elettori, ad impugnare il provvedimento di proroga per far valere un siffatto interesse.
Il presupposto dell’eccezionalità, previsto dall’art. 143, comma 10, T.U.E.L., atto a giustificare la proroga dello scioglimento del consiglio comunale per infiltrazione mafiosa si lega all’eccezionalità della situazione che ha determinato lo scioglimento del consiglio comunale, non dovendo ipotizzarsi una c.d. doppia eccezionalità, la prima, tale da determinare la misura dissolutoria, e la seconda, del tutto diversa dalla prima, tale da giustificarne la proroga.
È insita nella stessa natura della proroga, infatti, l’esigenza di proseguire gli effetti dell’originario provvedimento al fine di consentire che questo possa continuare ad esplicare la propria efficacia per tutte le ragioni che ne hanno giustificato l’iniziale adozione e non è logicamente sostenibile che i motivi della prolungata efficacia debbano essere del tutto diversi e avulsi rispetto a quelle originarie ragioni al cospetto di una misura, come quella straordinaria dello scioglimento del consiglio comunale, adottata proprio al fine di contrastare l’infiltrazione mafiosa negli organi politici e amministrativi dell’ente locale.
La proroga non è, cioè, una misura straordinaria che si assomma ad una misura straordinaria, ma la mera prosecuzione temporale dell’unica misura straordinaria in presenza di stringenti ragioni finalizzate al regolare funzionamento dei servizi affidati alle pubbliche amministrazioni (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 12.11.2019 n. 7762 - tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Richiesta convocazione del consiglio comunale da parte di un quinto dei consiglieri. Questione pregiudiziale.
  
1) In caso di convocazione del consiglio comunale da parte di almeno un quinto dei consiglieri le istanze possono essere dichiarate improcedibili da parte del presidente del consiglio comunale o del sindaco soltanto qualora le stesse vertano o su un oggetto che per legge è manifestamente estraneo alle competenze del collegio consiliare oppure su un oggetto illecito o impossibile, non potendo invece essere sindacate nel merito le richieste avanzate dal prescritto quorum di consiglieri.
   2) L’istituto della questione pregiudiziale deve essere coordinato con il potere dei consiglieri (“della minoranza”) di chiedere la convocazione del consiglio medesimo, riconosciuto e definito come “diritto” dal legislatore. Sono, pertanto, ammissibili solo quelle questioni pregiudiziali che impediscono la discussione dell’argomento posto all’ordine del giorno per ragioni interne e proprie della specifica procedura o per altre ragioni legittime di pregiudizialità connesse con l’oggetto dell’argomento, con esclusione di questioni strumentalmente dirette a porre nel nulla la funzione del diritto di iniziativa.

Il Comune chiede un parere in merito ad una richiesta di convocazione del consiglio comunale formulata ai sensi dell’articolo 39, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267
[1] dalla minoranza consiliare e avente ad oggetto la discussione di una mozione su una pluralità di argomenti afferenti una medesima tematica. Sulla questione in riferimento si è già pronunciato il segretario comunale che, quanto ai contenuti della stessa, “inclina fortemente a dubitare che il suo oggetto sia riconducibile alla competenza consiliare”.
In via preliminare si rileva in generale che, nel caso di richiesta di convocazione del consiglio comunale da parte di almeno un quinto dei consiglieri, il sindaco ha l’obbligo di riunire il consiglio in un termine non superiore ai venti giorni. Entro tale termine si deve provvedere non solo alla convocazione ma anche alla riunione dell’assemblea consiliare.
[2]
In caso d’inosservanza di tale obbligo soccorre la previsione di cui all’articolo 26, comma 1, della legge regionale 04.07.1997, n. 23 secondo cui: “Ai sensi dell'articolo 3 del decreto legislativo 9/1977 nella regione Friuli-Venezia Giulia, in caso di inosservanza degli obblighi di convocazione del Consiglio comunale e provinciale, previa diffida, provvede l'Assessore regionale per le autonomie locali”.
È, quindi, consentito al soggetto competente alla convocazione del consiglio di attivarsi anche dopo la scadenza del termine prescritto, fino all’intervento sostitutivo regionale.
Nella fattispecie prospettata viene in rilevo la problematica dell’individuazione dei limiti alla sindacabilità da parte del sindaco, quale presidente del consiglio, delle richieste di convocazione dell’assemblea da parte dei consiglieri di minoranza nell’ipotesi in cui sussistano dubbi circa la competenza dell’organo consiliare in ordine agli argomenti da iscrivere all’ordine del giorno.
Al riguardo sussiste un costante orientamento ministeriale
[3] secondo cui le istanze possono essere dichiarate improcedibili da parte del presidente del consiglio comunale o del sindaco soltanto “qualora le richieste stesse vertano o su un oggetto che per legge è manifestamente estraneo alle competenze del collegio consiliare oppure su un oggetto illecito o impossibile”, non potendo tali soggetti sindacare nel merito le richieste avanzate dal prescritto quorum di consiglieri.
Al riguardo, il Ministero ha richiamato in più occasioni la giurisprudenza consolidata secondo cui, di fronte alla richiesta di convocazione, il presidente del consiglio può soltanto verificare, sotto il profilo formale, che la stessa provenga dal prescritto numero di soggetti legittimati, mentre non potrà sindacarne l’oggetto, atteso che spetta al consiglio comunale la verifica della propria competenza e, quindi, l’ammissibilità delle questioni da trattare
[4].
Di conseguenza, rimane preclusa al presidente del consiglio, destinatario della richiesta di convocazione, una valutazione di merito circa l’ammissibilità delle questioni, salvo che non si tratti di oggetto che, in quanto illecito, impossibile o per legge manifestamente estraneo alle competenze del consiglio, in nessun caso potrebbe essere posto all’ordine del giorno, neppure su autonoma iniziativa del presidente stesso.
Infatti, la richiesta di convocazione del consiglio da parte di un quinto dei consiglieri rappresenta lo strumento parallelo alla forma ordinaria di convocazione da parte del suo presidente e risulta, pertanto, collocata su un piano di parità: la ratio della norma sarebbe travisata qualora alla richiesta si ponessero dei limiti non previsti per la convocazione da parte del presidente del consiglio.
Con riferimento alle questioni per le quali la minoranza consiliare ha richiesto la convocazione del consiglio si rileva che, almeno per una di esse, il segretario comunale, nel parere rilasciato sull’argomento, ha affermato che «l’invito “a mettere a disposizione le risorse finanziarie necessarie per far espletare all’Istituto Comprensivo (…) il bando atto ad individuare l’operatore economico che si occupa della supervisione degli alunni durante il pranzo” potrebbe costituire oggetto di disamina consiliare ove interpretato come una sollecitazione ad adeguare e/o integrare gli stanziamenti del bilancio comunale».
Si precisa, al riguardo che “nello stabilire se una determinata questione sia o meno di competenza del Consiglio comunale occorre aver riguardo non solo agli atti fondamentali espressamente elencati dal comma 2 dell’art. 42 del Testo Unico, ma anche alle funzioni di indirizzo e di controllo politico-amministrativo di cui al comma 1 del medesimo articolo 42, con la possibilità, quindi, che la trattazione da parte del collegio non debba necessariamente sfociare nell’adozione di un provvedimento finale. Il Consiglio comunale ha, infatti, un potere generale di indirizzo e di controllo politico-amministrativo sull’attività del Comune […]
[5].
Quanto, poi, alle ulteriori questioni poste, alla luce di quanto sopra riportato, il sindaco potrebbe dichiarare le stesse improcedibili solo qualora ritenesse il loro oggetto illecito, impossibile o per legge manifestamente estraneo alle competenze del consiglio.
In caso contrario, dovrebbe riunire il consiglio in un termine non superiore ai venti giorni e questi dovrebbe effettuarne la trattazione a meno che, prima dell’inizio della loro discussione, un consigliere ponesse su di esse la questione pregiudiziale e il Consiglio la approvasse.
A tale riguardo l’articolo 26 del regolamento del consiglio comunale rubricato “Questioni pregiudiziali e sospensive” recita: “1. Il Consigliere, prima che abbia inizio la discussione su un argomento all’ordine del giorno, può porre la questione pregiudiziale, per ottenere che quell’argomento non si discuta, o la questione sospensiva, per ottenere che la discussione stessa venga rinviata al verificarsi di determinante scadenze.
2. La questione sospensiva può essere posta anche nel corso della discussione.
3. Le questioni sono discusse immediatamente prima che abbia inizio o che continui la discussione; questa prosegue solo se il Consiglio non le respinga a maggioranza.
4. Dopo il proponente, sulle questioni possono parlare solo un consigliere a favore ed uno contro.
5. In caso di contemporanea presentazione di più questioni pregiudiziali o di più questioni sospensive, si procede, previa unificazione, ad un’unica discussione, nella quale può intervenire un solo consigliere per gruppo, compresi i proponenti. Se la questione sospensiva è accolta, il Consiglio decide sulla scadenza della stessa.
6. Gli interventi sulla questione pregiudiziale e sulla questione sospensiva non possono eccedere, ciascuno, i cinque minuti. La votazione ha luogo per alzata di mano.
7. I richiami al regolamento, all’ordine del giorno o all’ordine dei lavori e le questioni procedurali hanno la precedenza sulle discussioni principali. In tali casi, possono parlare, dopo il proponente, un consigliere contro ed uno a favore e per non più di cinque minuti ciascuno.
8. Ove il Consiglio venga, dal Presidente, chiamato a decidere sui richiami e sulle questioni di cui al precedente comma, la votazione avviene per alzata di mano
”.
Con riferimento alla fattispecie in essere l’istituto della questione pregiudiziale, quanto ad ambito di ammissibilità, deve essere coordinato con il potere dei consiglieri (“della minoranza”) di chiedere la convocazione del consiglio medesimo, riconosciuto e definito come “diritto” dal legislatore (artt. 43 e 39, secondo comma, D.Lgs. 18.08.2000 n. 267).
Sui limiti entro cui può essere esercitato dalla maggioranza consiliare il diritto di disporre questioni pregiudiziali o sospensive si è espressa la giurisprudenza
[6] la quale ha chiarito che “pare che l’ordinamento abbia voluto fare giusto bilanciamento fra due principi: da un lato, il principio maggioritario, a sua volta rafforzato nel sistema elettorale degli Enti locali, quanto al momento del decidere; dall’altro, il principio del valore della funzione della minoranza, espressa nel diritto di convocazione dell’assemblea per decidere su un argomento. Ritiene, pertanto, il Collegio che il coordinamento fra diritto di iniziativa della minoranza e potere della maggioranza a porre questioni pregiudiziali, vada risolto nel senso che l’ordinamento dà prevalenza e garantisce comunque la effettività del primo, sia nel momento iniziale (convocazione del Consiglio), che nel suo ineliminabile aspetto funzionale (discussione). Ne consegue, che ogni qual volta l’ordinamento prevede e garantisce il diritto di iniziativa della minoranza mediante convocazione dell’assemblea, il potere della maggioranza di porre questioni pregiudiziali non può che essere inteso in senso congruente con il diritto di iniziativa. In tale situazione il Collegio ritiene che siano ammissibili solo quelle questioni pregiudiziali che impediscono la discussione dell’argomento posto all’ordine del giorno per ragioni interne e proprie della specifica procedura, con esclusione di questioni strumentalmente dirette a porre nel nulla la funzione del diritto di iniziativa”.
La medesima sentenza prosegue affermando come sia necessario, altresì, verificare “se, accanto ed oltre le questioni pregiudiziali connesse con la specifica procedura della mozione, non possano esistere anche altre ragioni legittime di pregiudizialità connesse con l’oggetto stesso della mozione così come definito dalla proposta di deliberazione posta quale conclusione della mozione”.
Calando le sopra riportate considerazioni giurisprudenziali nel caso concreto potrebbe affermarsi che le questioni poste dalla minoranza consiliare a base della richiesta di convocazione possano non essere discusse nel merito dall’organo consiliare qualora questi ritenesse il loro oggetto manifestamente estraneo alle sue competenze. Verrebbe, in altri termini, rimesso ai poteri “sovrani” dell’assemblea decidere in via pregiudiziale che gli argomenti (tutti o alcuni) in riferimento, inseriti nell’ordine del giorno, non debbano essere discussi in quanto ritenuti estranei alle proprie competenze. In conformità a quanto previsto dalla norma regolamentare il proponente la questione pregiudiziale dovrebbe motivare la stessa e dopo di lui, “sulle questioni possono parlare solo un consigliere a favore ed uno contro” (articolo 26, comma 4, del regolamento del consiglio comunale).
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[1] Recita l’articolo 39, comma 2, del D.Lgs. 267/2000: “Il presidente del consiglio comunale o provinciale è tenuto a riunire il consiglio, in un termine non superiore ai venti giorni, quando lo richiedano un quinto dei consiglieri, o il sindaco o il presidente della provincia, inserendo all’ordine del giorno le questioni richieste”.
[2] Per completezza espositiva si rileva che, secondo chi scrive, nel caso in esame deve essere presa in considerazione la disciplina procedurale relativa alla richiesta di convocazione da parte di almeno un quinto dei consiglieri e non già quella, contenuta nel regolamento sul funzionamento del consiglio comunale, relativa all’istituto delle mozioni (il quale prevede, all’articolo 44, che le stesse “sono svolte all’inizio della seduta immediatamente successiva alla loro presentazione”).
[3] In questo senso, tra gli altri, si vedano i pareri del Ministero dell’Interno del 06.04.2017 e del 16.03.2018.
[4] Si veda TAR Piemonte, sez. II, sentenza del 24.04.1996, n. 268.
[5] Così Ministero dell’Interno, parere del 28.06.2018. In senso conforme, Tribunale di Giustizia Amministrativa di Trento, sentenza del 14.01.2010, n. 20.
[6] TAR Puglia, Lecce, sez. I, sentenza del 06.02.2004, n. 1022. Nello stesso senso, TAR Puglia, Lecce, sez. I, sentenza del 25.07.2001, n. 4278
(08.11.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Approvazione del verbale della seduta del consiglio comunale. Richiesta di rettifica del verbale.
Nel verbale della seduta del consiglio comunale non tutti gli atti o fatti devono essere necessariamente documentati ma solo quelli che, secondo un criterio di ragionevole individuazione, assumono rilevanza proprio in relazione alle finalità cui l’attività di verbalizzazione è preposta.
La dottrina prevalente afferma che le frasi offensive o ingiuriose devono essere omesse dal verbale. Altro orientamento afferma, invece, la sussistenza non già di un obbligo ma di una mera facoltà in capo al segretario di omissione delle frasi offensive o ingiuriose, salvo che non gliene sia fatto esplicito obbligo.

Il Comune chiede un parere in merito ad una richiesta di rettifica del verbale di una seduta del consiglio comunale, nel quale il segretario comunale non aveva inserito alcune frasi ritenute offensive ed ingiuriose.
Più in particolare riferisce che, nel corso della seduta consiliare successiva, in relazione al punto dell’ordine del giorno avente ad oggetto “approvazione verbali seduta precedente”, un gruppo consiliare ha presentato per iscritto una richiesta di rettifica dello stesso chiedendo l’inserimento di alcune precisazioni riguardanti una discussione verificatasi tra il sindaco e un consigliere comunale nel corso della seduta di consiglio, con reciproca richiesta di verbalizzazione di frasi ritenute sconvenienti ed offensive; in particolare in tale occasione il consigliere comunale aveva rivolto una richiesta orale al segretario di verbalizzare l’affermazione pronunciata nei suoi confronti “per fatto personale ai sensi art. 45 del vigente Regolamento Consiglio Comunale
[1], trattandosi di una frase offensiva”.
Nel verbale il segretario comunale aveva dato atto che “la finalità del verbale sia quella di restituire, a futura memoria, i fatti salienti verificatisi nel corso della seduta, fatti cioè di interesse per la Comunità di […], e di garantire, nel contempo, il controllo sulla corretta formazione della volontà collegiale, senza che sussista alcun obbligo, in capo a costui, di rendere una minuziosa descrizione delle singole attività compiute o delle singole opinioni espresse e di verbalizzare allusioni ovvero frasi ritenute sconvenienti o offensive”. In conseguenza di un tanto nel verbale non erano state riportate le parole oltraggiose pronunciate nel corso dell’adunanza consiliare.
Di qui la richiesta di rettifica avanzata dal gruppo di minoranza, cui appartiene il consigliere in riferimento, la quale è stata sottoposta alla decisione del consiglio comunale il quale ha disposto “il non accoglimento della richiesta di rettifica/integrazione al verbale presentata dal Consigliere XX, ritenendo completo ed esaustivo il verbale così come redatto dal segretario comunale”.
In via preliminare si ricorda che il verbale è un documento dotato di pubblica fede descrittivo di atti o fatti compiuti alla presenza di un soggetto verbalizzante appositamente incaricato.
[2]
Come affermato da certa dottrina
[3] il verbale della seduta di un organo collegiale “rappresenta la «memoria» di quanto è accaduto e documenta i fatti salienti della seduta, affinché i fatti in essa avvenuti possano essere successivamente documentati”.
Anche la giurisprudenza, intervenuta sull’argomento, ha affermato che: “Il verbale ha l’onere di attestare il compimento dei fatti svoltisi al fine di verificare il corretto iter di formazione della volontà collegiale e di permettere il controllo delle attività svolte, non avendo al riguardo alcuna rilevanza l’eventuale difetto di una minuziosa descrizione delle singole attività compiute o delle singole opinioni espresse.”
[4]
Pertanto, non tutti gli atti o fatti devono essere necessariamente documentati nel verbale, ma solo quelli che, secondo un criterio di ragionevole individuazione, assumono rilevanza proprio in relazione alle finalità cui l’attività di verbalizzazione è preposta.
Con specifico riferimento all’obbligo o meno del segretario di verbalizzazione di frasi ingiuriose, si osserva come la dottrina prevalente
[5] afferma che esse debbano essere omesse dal verbale. In tal senso, in un parere dell’ANCI si legge che: “Eventuali ingiurie, allusioni o dichiarazioni offensive o diffamatorie non debbono essere riportate a verbale ed il Segretario comunale provvede ad escluderle”. [6]
Per completezza espositiva, si segnala l’orientamento di certa dottrina la quale afferma la sussistenza non già di un obbligo ma di una mera facoltà in capo al segretario di omissione delle frasi offensive o ingiuriose. In tale senso è stato affermato che “avendo il segretario l’obbligo di inserire a verbale solo i punti essenziali della discussione, si può ritenere che il segretario stesso abbia la facoltà di evitarne la riproduzione, salvo che non gliene sia fatto esplicito obbligo”.
[7]
Le considerazioni sopra espresse –anche alla luce della dottrina da ultimo citata, la quale ritiene che il segretario comunale debba procedere alla verbalizzazione delle parole offensive “se gliene sia fatto esplicito obbligo”- devono essere lette alla luce delle previsioni contenute al riguardo nel regolamento del consiglio comunale.
In particolare, l’articolo 40 dello stesso recita: “1. Dichiarata aperta la seduta il presidente, a mezzo del Segretario, dà lettura dei verbali della seduta precedente.
2. Sul processo verbale non è concessa la parola se non a chi vi intende far inserire una rettifica oppure per fatto personale senza entrare nel merito della discussione.
3. Si intende per rettifica una richiesta di modifica di una parola o di brevi concetti che il verbalizzante può avere male interpretato o riportato. Non è possibile far inserire nuovi concetti che si assume di avere detto se non previa approvazione mediante votazione del Consiglio Comunale, previa dettatura da parte del Consigliere interessato del nuovo intervento da inserire a verbale
”.
In via preliminare si ricorda che l’interpretazione delle norme contenute nel regolamento del consiglio comunale compete unicamente all’organo che tali norme si è dato; di conseguenza chi scrive esprime in via meramente collaborativa alcune considerazioni giuridiche che possano essere di ausilio all’Ente nella soluzione della questione posta, ferma rimanendo l’autonomia dell’organo consiliare nell’interpretazione delle proprie norme.
Fermo l’orientamento della dottrina che ritiene non si debbano mai riportare le frasi offensive od oltraggiose, quanto all’ulteriore filone dottrinario, secondo il quale il segretario sarebbe tenuto alla verbalizzazione delle frasi offensive qualora sia rinvenibile un espresso obbligo di verbalizzazione delle stesse, dall’analisi dell’articolo 40, comma 3, del regolamento sul funzionamento del consiglio parrebbe potersi desumere la sussistenza di tale obbligo di verbalizzazione qualora il consiglio comunale deliberi in tal senso.
Nel caso in esame, invece, l’organo consiliare si è espresso in senso contrario alla rettifica/integrazione al verbale, ritenendo completa ed esaustiva la sua redazione come effettuata dal segretario comunale.
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[1] L’articolo 45 del regolamento del consiglio comunale recita: “1. È fatto personale l’essere intaccato nella propria condotta o il sentirsi attribuire opinioni contrarie a quelle espresse.
   2. Chi chiede la parola del fatto personale, deve indicare in che cosa questo consista ed il Presidente decide se il richiedente abbia o meno diritto di parlare”.
[2] Così, R. Nobile, “Verbalizzazione e verbali delle sedute degli organi e degli organismi collegiali negli enti locali”, in La Gazzetta degli enti locali, 2015.
[3] I. Tricomi, Prontuario degli Enti Locali, 2003, pag. 380.
[4] Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 25.07.2001, n. 4074. Nello stesso senso, Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza del 02.03.2001, n. 1189 e TAR Lazio–Roma, sez. I, sentenza del 12.03.2001, n. 1835. In questo senso si veda, anche il parere del Ministero dell’Interno del 20.01.2015.
[5] Si veda, c. Polidori, “Verbali e organi collegiali nelle pubbliche amministrazioni”, Trieste, 2012, pag. 195.
[6] ANCI, parere del 18.12.2007.
[7] A.R., “Consiglio comunale – verbale delle adunanze – contenuto – redazione dei processi verbali”, in L’Amministrazione italiana, n. 11/1999
(08.11.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

ottobre 2019

CONSIGLIERI COMUNALI - PATRIMONIO: OGGETTO: acquisto di terreno comunale da parte di amministratore del Comune tramite permuta – sussistenza di un interesse pubblico – divieto di cui all’art. 1471 c.c. e all’art. 15 del Regolamento comunale – applicabilità – parere (Legali Associati per Celva, nota 29.10.2019 - tratto da www.celva.it).
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Il Comune di La Thuile ha sottoposto alla nostra attenzione, per il tramite del CELVA, quesito avente ad oggetto le modalità di applicazione dell’art. 1471 c.c., recante “Divieti speciali di comprare”, nonché dell’art. 15 del Regolamento comunale per la disciplina delle alienazioni di beni immobili. (...continua).

CONSIGLIERI COMUNALIIndennità amministratori: vige ancora la riduzione del 10% sull’ammontare in essere alla data del 30/09/2005.
Domanda
L’Amministrazione comunale del mio Ente è stata eletta nello scorso mese di maggio. Ho un dubbio: la riduzione del 10% sull’indennità spettante agli amministratori introdotta alcuni anni fa è ancora vigente?
Risposta
Come noto le indennità spettanti agli amministratori degli enti locali trovano la loro disciplina nell’art. 82 del TUEL. Per la loro quantificazione, che avviene essenzialmente per fascia demografica di appartenenza, vige ancora il decreto ministeriale n. 119 del 04/04/2000, a suo tempo adottato ai sensi dell’art. 23 della legge n. 265/1999.
Il quesito del lettore fa riferimento alla decurtazione del 10% introdotta dall’art. 1, comma 54, della legge 23/12/2005, n. 266, che deve essere applicato all’ammontare dell’indennità risultante alla data del 30/09/2005, a cui devono essere assoggettate sono anche le indennità e i gettoni di presenza spettanti agli amministratori degli enti locali.
Sul tema è poi intervenuto l’art. 76, comma 3, del d.l. 25/06/2008, n. 112 convertito dalla legge 06/08/2008, n. 133 che ha modificato l’art. 82, comma 11, del TUEL (già in precedenza modificato dall’art. 2, comma 25, della legge 24/12/2007, n. 244), eliminando ogni possibilità di incremento delle indennità di funzione e dei gettoni di presenza rispetto alla misura determinata ai sensi del comma 8 dello stesso articolo, ovvero mediante decreto ministeriale.
L’art. 5, comma 7, del d.l. 31/05/2010, n. 78 convertito dalla legge 30/07/2010, n. 122 ha infine previsto un’ulteriore rideterminazione in ribasso delle indennità di funzione e dei gettoni di presenza per un periodo non inferiore ai tre anni e in una misura variabile in ragione della dimensione demografiche dell’ente, rinviandone tuttavia l’attuazione ad un decreto ministeriale che a tutt’oggi non ha ancora visto la luce. La norma è pertanto rimasta lettera morta. Sul tema è recentemente intervenuta la Corte dei conti, sezione regionale di controllo per l’Abruzzo con parere n. 113 del 12 settembre scorso.
I magistrati contabili hanno ribadito l’orientamento giurisprudenziale ormai da tempo consolidato: affermano che essendo stata abolita fin dal 2008 la possibilità per gli enti di modificare autonomamente l’importo delle indennità, le delibere contenenti eventuali riduzioni, superiori a quella fissate dalla legge, vanno intese come rinunce volontarie ad una parte dell’indennità. Come tali, esse non hanno alcuna influenza sull’ammontare delle stesse per gli esercizi successivi (Sezione di controllo per il Piemonte deliberazione n. 278/2012/PAR).
Il principio è stato poi confermato dalla Sezione delle autonomie con parere n. 35/2016/QMIG che afferma che le indennità di funzione non possono essere soggette ad un congelamento rapportato ad un determinato momento storico e mantenuto negli esercizi futuri, solo perché circostanze di natura personale e discrezionale (ad esempio, in caso di riduzione volontaria, parziale o totale, dell’indennità da parte di un amministratore in carica all’atto della sua rideterminazione) abbiano potuto incidere sugli importi spettanti. Gli importi decurtati per scelte volontarie e soggettive non possono costituire una base storica sulla quale rapportare le medesime indennità per il futuro.
Da ciò discende che le indennità che siano state volontariamente ridotte al di sotto della soglia stabilita dalla legge possano essere rideterminate in aumento fino a raggiungere la misura teorica massima legale definita dal DM n. 119/2000 in ragione della dimensione demografica dell’ente. Resta invece pienamente confermato l’abbattimento percentuale previsto dall’art. 1, comma 54, della legge 23/12/2005, n. 266, che continua pertanto ad applicarsi all’ammontare dell’indennità risultante alla data del 30/09/2005 (28.10.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

settembre 2019

CONSIGLIERI COMUNALI: 1.- Criminalità – Enti locali – art. 143 TUEL - scioglimento degli organi elettivi ed amministrativi per infiltrazioni di stampo mafioso - elementi sintomatici.
2.- Criminalità – Enti locali – scioglimento degli organi elettivi ed amministrativi per infiltrazioni di stampo mafioso – garanzie procedimentali – limiti.
   1. Gli elementi sintomatici del condizionamento criminale devono caratterizzarsi per concretezza ed essere, anzitutto, assistiti da un obiettivo e documentato accertamento nella loro realtà storica; per univocità, intesa quale loro chiara direzione agli scopi che la misura di rigore è finalizzata a prevenire; per rilevanza, che si caratterizza per l’idoneità all’effetto di compromettere il regolare svolgimento delle funzioni dell’ente locale.
L’art. 143 del T.U.E.L., al comma 1 (nel testo novellato dall’art. 2, comma 30, della l. n. 94 del 2009), richiede infatti che gli elementi capaci di evidenziare la sussistenza di un rapporto tra l’organizzazione mafiosa e gli amministratori dell’ente considerato infiltrato devono essere «concreti, univoci e rilevanti» ed assumere una valenza tale da determinare un’alterazione del procedimento di formazione della volontà degli organi elettivi ed amministrativi e da compromettere l’imparzialità delle amministrazioni comunali e provinciali, nonché il regolare funzionamento dei servizi ad esse affidati.
La coesistenza di elementi oggettivi ed elementi soggettivi è indubbiamente necessaria ad integrare la fattispecie dell’art. 143 del T.U.E.L.: gli uni e gli altri devono convergere non in una rappresentazione statica e dicotomica, ma dinamica e sinergica: la vita politica e amministrativa di un ente, infatti, nella sua complessità, non può essere letta e valutata in modo esasperatamente analitico, sicché, se è vero che elementi oggettivi e soggettivi devono sussistere entrambi, è anche vero che essi devono essere letti insieme, secondo una connessione che, per quanto non assolutamente certa, deve apparire almeno altamente probabile e assistita da una valida spiegazione razionale, rispetto alla quale tutte le altre spiegazioni risultino meno plausibili.
Se è vero che il mero disordine amministrativo o che semplici prassi quanto meno opinabili o addirittura estese sequenze di atti illegittimi adottati dall’ente locale non bastano, in sé, a giustificare la misura dissolutoria, non si può negare però che le irregolarità nella gestione dei pubblici appalti, possano costituire un indice significativo della grave compromissione che l’esercizio delle funzioni amministrative risente per effetto della penetrazione diffusa delle logiche mafiose all’interno dell’apparato politico e amministrativo locale, ad ogni livello.
   2. L’avvio del procedimento, di cui all’art. 143 del T.U.E.L., non deve essere preceduto dalla comunicazione, di cui all’art. 7 della l. n. 241 del 1990, né da particolari guarentigie procedimentali non solo per il tipo di interessi coinvolti che non concernono, se non indirettamente, le persone, ma la complessiva rappresentazione operativa dell’ente locale e, quindi, in ultima analisi, gli interessi dell’intera collettività comunale, ma anche perché la difesa delle ragioni degli amministratori coinvolti e dei componenti del consiglio disciolto, scaturenti dal principio del giusto procedimento, è comunque assicurata –per quanto posticipata– alla sede del controllo giurisdizionale: è dunque sul piano della tutela giurisdizionale che si sposta, essenzialmente, il controllo sull’emissione di queste misure preventive, straordinarie ed eccezionali, tutela giurisdizionale.
A fronte, infatti, di una misure caratterizzate dal fatto di costituire la reazione dell’ordinamento alle ipotesi di attentato all’ordine ed alla sicurezza pubblica, non è ipotizzabile alcuna violazione dell’art. 97 Cost. per l’assenza o per la diminuzione delle garanzie partecipative, dato che la disciplina del procedimento amministrativo è rimessa alla discrezionalità del legislatore nei limiti della ragionevolezza e del rispetto degli altri principi costituzionali, tra i quali non è compreso quello del “giusto procedimento” amministrativo, dato che la tutela delle situazioni soggettive è comunque assicurata in sede giurisdizionale dagli artt. 24 e 113 Cost.
(massima free tratta da www.giustamm.it - Consiglio di Stato, Sezione III, sentenza 26.09.2019 n. 6435 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGOUfficio di staff con incarico gratuito.
Domanda
È possibile costituire l’ufficio di staff (ex art. 90 TUEL) attribuendo un incarico gratuito ad un collaboratore del sindaco? Cambia qualcosa se il collaboratore fosse in pensione?
Risposta
Per poter costituire un ufficio alle dirette dipendenze del sindaco (o della giunta o dei singoli assessori) è necessario che la materia venga preventivamente disciplinata nel ROUS (Regolamento per l’Ordinamento degli Uffici e dei Servizi). L’ufficio di staff viene costituito per l’esercizio delle funzioni di indirizzo e controllo attribuite –in questo caso– al sindaco.
L’ufficio di staff –struttura eventuale, ma non necessaria in un ente locale– può essere costituito da dipendenti dell’ente, che lasciano i propri incarichi e mansioni per dedicarsi ad altro, o, se l’ente non è dissestato o strutturalmente deficitario, da collaboratori assunti con contratto a tempo determinato. Se questi collaboratori, sono dipendenti di altra amministrazione, vengono posti in aspettativa senza assegni (comma 1).
Al personale assunto con contratto di lavoro subordinato e a tempo determinato, si applica il CCNL del comparto Funzioni locali (comma 2).
L’ufficio di staff trova la sua ragion d’essere nella collaborazione dell’organo politico, per l’esercizio delle funzioni di indirizzo e controllo, per cui sono escluse tutte le attività gestionali che restano in capo ai dipendenti inquadrati nella struttura organizzativa del comune, identificati nei dirigenti o posizioni organizzative negli enti senza la dirigenza (comma 3-bis).
Ricapitolando tutte le disposizioni contenute nell’articolo 90, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, comprese le ultime modifiche apportate, nel 2014 con il d.l. 90, possiamo riassumere che la costituzione dell’ufficio di staff:
   • non richiede la pubblicazione di avvisi o lo svolgimento di prove selettive;
   • non richiede il possesso di specifici titoli di studio;
   • non richiede specifica esperienza professionale;
   • non richiede particolari contenuti del curriculum vitae o professionale;
   • non richiede che vi sia una verifica preventiva dell’assenza di professionalità nell’ambito dell’ente;
   • prevede, necessariamente, un carattere oneroso;
   • non pone alcun limite alla possibilità di inquadrare i destinatari degli incarichi, i cui contratti possono, pertanto, classificarli dalla categoria A fino alla dirigenza, nell’ambito del CCNL del comparto Funzioni locali;
   • non pone alcun limite alla retribuzione;
   • non richiede alcuna particolare motivazione sulla scelta del destinatario;
   • è assoggettata ai limiti di spesa per il personale (media della spesa del triennio 2011/2013).
Dopo aver provato a chiarire il quadro normativo in cui ci si muove, dando risposta al doppio quesito presentato è possibile scrivere quanto segue:
   a) data la chiara portata dei commi 1 e 2 dell’articolo 90, del TUEL, non è possibile nominare un componente dell’ufficio di staff a titolo gratuito. Il collaboratore esterno deve essere titolare di un contratto di lavoro subordinato, a tempo determinato, parametrato a quello dei dipendenti del comparto Funzioni locali, con le eventuali deroghe –previste nel comma 3– per ciò che concerne il trattamento economico accessorio;
   b) non sarebbe vietato nominare nell’ufficio di staff un collaboratore in pensione, ma resta vietato nominarlo a titolo gratuito.
A completamento si riporta l’articolo 90, nel testo attualmente in vigore:
Articolo 90 Uffici di supporto agli organi di direzione politica
   1. Il regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi può prevedere la costituzione di uffici posti alle dirette dipendenze del sindaco, del presidente della provincia, della giunta o degli assessori, per l’esercizio delle funzioni di indirizzo e di controllo loro attribuite dalla legge, costituiti da dipendenti dell’ente, ovvero, salvo che per gli enti dissestati o strutturalmente deficitari, da collaboratori assunti con contratto a tempo determinato, i quali, se dipendenti da una pubblica amministrazione, sono collocati in aspettativa senza assegni.
   2. Al personale assunto con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato si applica il contratto collettivo nazionale di lavoro del personale degli enti locali.
   3. Con provvedimento motivato della giunta, al personale di cui al comma 2 il trattamento economico accessorio previsto dai contratti collettivi può essere sostituito da un unico emolumento comprensivo dei compensi per il lavoro straordinario, per la produttività collettiva e per la qualità della prestazione individuale.
   3-bis. Resta fermo il divieto di effettuazione di attività gestionale anche nel caso in cui nel contratto individuale di lavoro il trattamento economico, prescindendo dal possesso del titolo di studio, è parametrato a quello dirigenziale
(26.09.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALIPubblicazione dati organi politici cessati dalla carica.
Domanda
A seguito delle elezioni comunali, svoltesi il 26.05.2019, quali dati dobbiamo tenere ancora pubblicati, riferiti ai componenti degli organi politici scaduti?
Risposta
Per i titolari di incarichi politici (nei comuni: Sindaco, Consiglieri e Assessori) gli obblighi di pubblicità e trasparenza sono contenuti nell’articolo 14, comma 1, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33 e riguardano:
   a) l’atto di nomina o di proclamazione, con l’indicazione della durata dell’incarico o del mandato elettivo;
   b) il curriculum;
   c) i compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica; gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici;
   d) i dati relativi all’assunzione di altre cariche, presso enti pubblici o privati, ed i relativi compensi a qualsiasi titolo corrisposti;
   e) gli altri eventuali incarichi con oneri a carico della finanza pubblica e l’indicazione dei compensi spettanti;
   f) le dichiarazioni di cui all’art. 2, legge 441/1982, nonché le attestazioni e dichiarazioni di cui agli artt. 3 e 4 della medesima legge, come modificata dal presente decreto, limitatamente al soggetto, al coniuge non separato e ai parenti entro il secondo grado, ove gli stessi vi consentano. Viene in ogni caso data evidenza al mancato consenso. Alle informazioni di cui alla presente lettera concernenti soggetti diversi dal titolare dell’organo di indirizzo politico non si applicano le disposizioni di cui all’art. 7.
È bene specificare che gli obblighi della precedente lettera f) –relativi alla situazione reddituale e patrimoniale– vanno adempiuti per gli amministratori e loro parenti (se ne danno il consenso) nei comuni con più di 15.000 abitanti, come previsto dalla delibera ANAC del 07.10.2014, n. 144, come integralmente sostituita dalla determinazione dell’Autorità datata 08.03.2017, n. 241, Paragrafo 2.1.
Una volta che i titolari di incarichi politici, invece, cessano dalla loro carica, occorre prestare attenzione al comma 2, del già citato articolo 14 che, testualmente, prevede:
2. Le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati cui ai commi 1 e 1-bis entro tre mesi dalla elezione, dalla nomina o dal conferimento dell’incarico e per i tre anni successivi dalla cessazione del mandato o dell’incarico dei soggetti, salve le informazioni concernenti la situazione patrimoniale e, ove consentita, la dichiarazione del coniuge non separato e dei parenti entro il secondo grado, che vengono pubblicate fino alla cessazione dell’incarico o del mandato. Decorsi detti termini, i relativi dati e documenti sono accessibili ai sensi dell’articolo 5.
A seguito, dunque, della cessazione del mandato o dell’incarico, i dati di cui sopra, devono restare pubblicati per i tre anni successivi (sino al 25.05.2022, nel vostro caso), con la sola eccezione per le informazioni concernenti la situazione patrimoniale e, ove consentita, la dichiarazione del coniuge non separato e dei parenti entro il secondo grado (padre, madre, nonno/a, fratelli, sorelle figli), che devono essere pubblicate solamente fino alla cessazione dell’incarico o del mandato.
Trascorsi i previsti tre anni, i dati non più pubblicati nella sezione Amministrazione trasparente del sito web, restano conservati in archivio e su di loro è possibile prevedere l’accesso civico generalizzato (cd: FOIA), come disciplinato dall’art. 5, comma 2, del d.lgs. 33/2013.
Nella citata determinazione n. 241/2017, recante «Linee guida recanti indicazioni sull’attuazione dell’art. 14 del d.lgs. 33/2013 «Obblighi di pubblicazione concernenti i titolari di incarichi politici, di amministrazione, di direzione o di governo e i titolari di incarichi dirigenziali» come modificato dall’art. 13 del d.lgs. 97/2016», nel Paragrafo 4, vengono fornite dettagliate indicazioni in merito agli Obblighi di trasparenza dei soggetti cessati dall’incarico.
Nella delibera è anche disponibile l’Allegato 2, contenente il Modello per la comunicazione e pubblicazione dei dati della variazione patrimoniale dei titolari di incarichi politici, di amministrazione, di direzione o di governo e dei titolari di incarichi dirigenziali cessati dalla carica o dall’incarico, sempre riferito ai comuni con più di 15.000 abitanti, che si riporta integralmente nel modello allegato.
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Publika – modello soggetti cessati dalla carica (24.09.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Ricorsi, accesso illimitato. Niente paletti all’istanza del consigliere. La giurisprudenza esclude lesioni alla riservatezza del ricorrente.
Può l'amministrazione rifiutare l'accesso del consigliere comunale alla documentazione relativa a un ricorso, di cui sia venuto a conoscenza dalla consultazione del protocollo informatico, adducendo la necessità di acquisire l'autorizzazione da parte dell'interessato ricorrente?
L'esercizio del diritto di accesso, esercitabile dai consiglieri comunali ai sensi dell'art. 43, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, è definito dal Consiglio di stato (sentenza n. 4471/2005) «diritto soggettivo pubblico funzionalizzato», finalizzato al controllo politico-amministrativo sull'ente, nell'interesse della collettività (cfr. Cds V, 05/09/2014, n. 4525, cit. da Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi del 29.11.2018); si tratta, all'evidenza, di un diritto dai confini più ampi del diritto di accesso riconosciuto al cittadino nei confronti del comune di residenza (art. 10 Tuel) o, più in generale, nei confronti della p.a., disciplinato dalla legge n. 241 del 1990 (cfr. parere della commissione per l'accesso ai documenti amministrativi del 28.10.2014 e il richiamato del 29.11.2018).
Il diritto a ottenere dall'ente tutte le informazioni utili all'espletamento del mandato non incontra alcuna limitazione derivante dalla loro eventuale natura riservata, in quanto il consigliere, a cui è ostensibile anche documentazione che per ragioni di riservatezza non sarebbe ordinariamente ostensibile ad altri richiedenti, è vincolato al segreto d'ufficio (Tar Lombardia, Milano, sent. n. 2363 del 23.09.2014 e citato Cds, sez. V, 05.09.2014, n. 4525).
Peraltro, in fattispecie simili alla presente, il Consiglio di stato, sez. V, con decisione 04/05/2004, n. 2716, riguardo alla normativa prevista dal dpcm n. 200 del 26.01.1996, recante il regolamento per la categoria di documenti dell'avvocatura dello stato sottratti al diritto di accesso, ha rilevato che le limitazioni ivi previste «non possono applicarsi, in via analogica, ai consiglieri comunali, i quali, nella loro veste di componenti del massimo organo di governo del comune, hanno titolo ad accedere anche agli atti concernenti le vertenze nelle quali il comune è coinvolto nonché ai pareri legali richiesti dall'amministrazione comunale, onde prenderne conoscenza e poter intervenire al riguardo».
Il predetto dpcm pone un limite solo agli atti defensionali, (art. 2, comma 2, lett. b) a cui comunque i consiglieri comunali potrebbero accedere essendo tenuti al segreto; nel caso in oggetto, trattandosi, invece, del testo di un ricorso già presentato all'organo competente, non pare peraltro sussistere alcuna lesione dell'interessato (che in relazione alla richiesta del consigliere comunale assume la veste di «controinteressato»).
Infatti, anche in virtù della definizione di cui all'art. 22, comma 1, lett. c), della legge n. 241/1990, dall'esercizio dell'accesso il ricorrente non vedrebbe compromesso il proprio diritto alla riservatezza dato che l'atto è già noto alla controparte (il comune) che può diffonderlo all'interno dei propri uffici anche al fine della preparazione delle memorie di parte.
In merito ai tempi di rilascio degli atti, ferma restando la necessità di una regolamentazione della materia dell'accesso, si ritiene che la stessa deve tendere a garantire l'esercizio del diritto, con la previsione di termini ragionevoli compatibili con le esigenze tecniche degli uffici addetti alla loro consegna
(articolo ItaliaOggi del 20.09.2019).

CONSIGLIERI COMUNALIIn sede di convalida degli eletti devo contestare una causa di incompatibilità per debito tributario verso l'ente. Ciò parrebbe comportare la diffusione di dati personali.
La seduta deve essere pubblica? Ricordo che l'opposizione di cause di incompatibilità può essere rilevata d'ufficio o da qualsiasi cittadino.

Il regolamento del parlamento europeo relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la Dir. n. 95/46/CE, vale a dire il Reg. (CE) 27.04.2016, n. 2016/679/UE, all'art. 4, sotto la rubrica "Definizioni", stabilisce che “s'intende per «dato personale» qualsiasi informazione riguardante una persona fisica identificata o identificabile («interessato»); si considera identificabile la persona fisica che può essere identificata, direttamente o indirettamente, con particolare riferimento a un identificativo come il nome, un numero di identificazione, dati relativi all'ubicazione, un identificativo on-line o a uno o più elementi caratteristici della sua identità fisica, fisiologica, genetica, psichica, economica, culturale o sociale".
Pertanto, sicuramente la causa di incompatibilità per debito tributario verso l'ente dell'eletto è un dato personale. Tuttavia, l'art. 6, comma 1, del Reg. cit. sotto la rubrica "Liceità del trattamento" stabilisce che:
"Il trattamento è lecito solo se e nella misura in cui ricorre almeno una delle seguenti condizioni:
   a) l'interessato ha espresso il consenso al trattamento dei propri dati personali per una o più specifiche finalità;
   b) il trattamento è necessario all'esecuzione di un contratto di cui l'interessato è parte o all'esecuzione di misure precontrattuali adottate su richiesta dello stesso;
   c ) il trattamento è necessario per adempiere un obbligo legale al quale è soggetto il titolare del trattamento;
   d) il trattamento è necessario per la salvaguardia degli interessi vitali dell'interessato o di un'altra persona fisica;
   e) il trattamento è necessario per l'esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all'esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento;
   f) il trattamento è necessario per il perseguimento del legittimo interesse del titolare del trattamento o di terzi, a condizione che non prevalgano gli interessi o i diritti e le libertà fondamentali dell'interessato che richiedono la protezione dei dati personali, in particolare se l'interessato è un minore
.”
Si rileva, ancora, che il D.Lgs. 30.06.2003, n. 196, novellato dal D.Lgs. 10.08.2018, n. 101, che ha recepito il Regolamento suddetto, all'art. 2-ter, (Base giuridica per il trattamento di dati personali effettuato per l'esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all'esercizio di pubblici poteri) ha stabilito che:
   — "La diffusione e la comunicazione di dati personali, trattati per l'esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all'esercizio di pubblici poteri, a soggetti che intendono trattarli per altre finalità sono ammesse unicamente se previste ai sensi del comma 1.” (comma 3);
   — "si intende per: a) "comunicazione", il dare conoscenza dei dati personali a uno o più soggetti determinati diversi dall'interessato, dal rappresentante del titolare nel territorio dell'Unione europea, dal responsabile o dal suo rappresentante nel territorio dell'Unione europea, dalle persone autorizzate, ai sensi dell'articolo 2-quaterdecies, al trattamento dei dati personali sotto l'autorità diretta del titolare o del responsabile, in qualunque forma, anche mediante la loro messa a disposizione, consultazione o mediante interconnessione; b) "diffusione", il dare conoscenza dei dati personali a soggetti indeterminati, in qualunque forma, anche mediante la loro messa a disposizione o consultazione". (comma 4)
Il comma 1 del citato art. 2-ter, stabilisce inoltre che "La base giuridica prevista dall'art. 6, par. 3, lett. b) del regolamento, è costituita esclusivamente da una norma di legge o, nei casi previsti dalla legge, di regolamento".
Pertanto, essendo la causa di incompatibilità per debiti tributari espressamente prevista dalla legge -ossia dall'art. 63, D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 che sotto la rubrica "Incompatibilità" stabilisce al comma 1 "Non può ricoprire la carica di sindaco, presidente della provincia, consigliere comunale, consigliere metropolitano, provinciale o circoscrizionale ... 6) Colui che, avendo un debito liquido ed esigibile, rispettivamente, verso il comune o la provincia ovvero verso istituto od azienda da essi dipendenti è stato legalmente messo in mora ovvero, avendo un debito liquido ed esigibile per imposte, tasse e tributi nei riguardi di detti enti, abbia ricevuto invano notificazione dell'avviso di cui all'articolo 46 del decreto del Presidente della Repubblica 29.09.1973, n. 602"-, il trattamento del dato personale nelle sue forme della comunicazione e della diffusione è lecito.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 63
D.Lgs. 30.06.2003, n. 196
Reg. (CE) 27.04.2016, n. 2016/679/UE, art. 4
Reg. (CE) 27.04.2016, n. 2016/679/UE, art. 6
(18.09.2019 - tratto da http://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

CONSIGLIERI COMUNALILa parità di genere nella giunta comunale prevale sullo statuto.
Il rispetto della parità di genere nella composizione delle giunte comunali è insuperabile. La natura fiduciaria della carica di assessore non può giustificare la limitazione di un eventuale interpello alle sole donne appartenenti allo stesso partito o alla stessa coalizione che ha espresso il primo cittadino. In altre parole va adeguatamente comprovata, certificata da parte del sindaco, l'accidentale situazione di obiettiva e assoluta impossibilità di rispettare la percentuale di genere femminile nella composizione dell'organo politico-amministrativo. Sono in gioco i principi costituzionali di uguaglianza tra tutti i cittadini e di democraticità della Repubblica nell'avvalersi di competenze e capacità, ma anche i principi di legalità, imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione.

Con la sentenza 17.09.2019 n. 1578, il TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, ha affrontato il delicato tema della parità tra i generi, soffermandosi su alcuni dei profili più sensibili di concreta applicazione: l'esercizio delle funzioni democratico-rappresentative dei cittadini.
La vicenda
Alcuni consiglieri comunali di minoranza si sono rivolti al Tar per ottenere l'annullamento dei decreti con i quali il sindaco della loro cittadina aveva provveduto a designare la giunta municipale indicando come assessori tre uomini e una sola donna.
Secondo i ricorrenti, il sindaco, oltre a non rispettare il dettato normativo, non avrebbe svolto alcuna effettiva attività istruttoria, non potendosi realmente desumere quale procedura avesse posto in atto per acquisire la disponibilità da parte di persone di genere femminile. Non solo, il sindaco neppure avrebbe dato conto di rinunce all'incarico assessorile, tanto all'interno della stessa maggioranza consiliare, che della società civile tutta.
La decisione
Il Tar ha ammesso che solo l'effettiva impossibilità di assicurare la presenza dei due generi nella misura stabilita dalla legge giustifica deroghe a questi principi. Inattuabilità che però deve essere comprovata attraverso un'accurata e approfondita istruttoria e una conforme e puntuale motivazione del provvedimento sindacale di nomina degli assessori. L'impossibilità di rispettare la percentuale di rappresentanza di genere deve risultare in concreto, in modo circostanziato e inequivoco e deve avere un carattere tendenzialmente oggettivo.
Non è pensabile che mere situazioni soggettive o contingenti -come ad esempio quelle che possano derivare dall'applicazione di disposizioni statutarie relative al funzionamento degli organi comunali ovvero che attengano alle modalità di elezione degli stessi ovvero dipendenti dalla mancanza di candidati all'interno del partito o della coalizione vincitrice delle elezioni, o comunque di piena ed esclusiva fiducia del sindaco- possano legittimare la deroga alla effettiva applicazione della normativa.
Nel caso in cui lo statuto comunale non preveda la figura dell'assessore esterno, per la piena attuazione del principio di pari opportunità tra uomini e donne l'ente dovrà dunque procedere a modifiche statutarie (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'11.10.2019).
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SENTENZA
1. Fr.Ca., Al.Fi. e An.Gi.Ma., in qualità di cittadini e di consiglieri comunali di minoranza di Castrolibero hanno adìto questo Tribunale allo scopo di ottenere l’annullamento dei decreti nn. 10936, 10938, 10939 e 10941 del 14.06.2018 con i quali il Sindaco ha provveduto a designare la Giunta Municipale dell’ente indicando tra gli assessori tre uomini e una rappresentante femminile, così violando, secondo la prospettazione contenuta nel ricorso, l’art. 1, comma 137, della Legge 56/2014 che fa obbligo, nel caso di comuni con popolazione superiore a 3000 abitanti, di garantire una rappresentanza di genere nella misura del 40%.
2. Oltre a non rispettare il dettato normativo, sostengono i ricorrenti, il Sindaco non avrebbe svolto alcuna attività istruttoria, non potendosi desumere quale procedura abbia posto in atto per acquisire l’eventuale disponibilità per lo svolgimento delle funzioni assessorili da parte di persone di genere femminile; neppure avrebbe dato conto di eventuali rinunce all’incarico de quo tanto all’interno della stessa maggioranza consiliare quanto nella società civile.
...
6. Nel merito è palese la fondatezza del ricorso per violazione del menzionato referente normativo.
6.1. La natura fiduciaria della carica assessorile non può giustificare, infatti, la limitazione di un eventuale interpello -di cui in ogni caso non vi è alcuna prova- alle sole persone appartenenti allo stesso partito o alla stessa coalizione di quella che ha espresso il Sindaco, soprattutto in realtà locali niente affatto estese, come quella di cui ci si occupa, ciò tanto più in considerazione del principio alla cui attuazione è finalizzata la norma in questione. Nessuna prova, inoltre, è stata effettivamente fornita in ordine a una adeguata istruttoria svolta per reperire, per la nomina di assessore femminile, idonee personalità nell’ambito territoriale di riferimento.
6.2. Deve quindi ritenersi che non risulti provata quella situazione di obiettiva ed assoluta impossibilità di rispettare la percentuale di genere femminile nella composizione della giunta comunale fissata dal legislatore, condizione che, in una logica di contemperamento dei principi costituzionali che vengono in gioco costituisce il “limite intrinseco, logico–sistematico, di operatività della norma in questione” (Consiglio di Stato, Sez. V, 406/2016).
7. Nemmeno può, da ultimo, convenirsi con l’approccio ermeneutico sostenuto nel ricorso, teso a configurare in chiave non immediatamente precettiva la più volte enunciata disposizione di legge, impostazione che appare eccessivamente svalutativa del relativo disposto normativo, rispondente a specifici valori di rango costituzionale, sinteticamente riassumibili nella necessità di assicurare la parità di genere.
7.1. E’ pertanto palesemente infondata, ad avviso del Collegio, la questione di legittimità della norma stessa prospettata dall’amministrazione con riferimento agli artt. 5 e 97 della Costituzione.
7.2. Ciò tanto più se si tiene conto che rientra nella esclusiva discrezionalità del legislatore nazionale la scelta delle modalità ritenute più idonee ed adeguate per rendere tendenzialmente effettivo, anche nell’accesso alle cariche elettive, il principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione, assicurando pari opportunità per la partecipazione alla concreta gestione della cosa pubblica, finalità cui è preordinata in modo non macroscopicamente illogico o irragionevole la fissazione di una soglia percentuale minima di rappresentanza di genere all’interno della giunta comunale, la quale, quindi, neppure può ritenersi lesiva delle prerogative delle autonomie locali attesa, tra l’altro, la proclamata unità e indivisbilità della Repubblica.
8. Il ricorso, per quanto osservato, è fondato.

ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI - CONSIGLIERI COMUNALINel nuovo ordinamento delle autonomie locali (d.lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 50, fonte primaria), competente a conferire al difensore del comune la procura alle liti è solo il sindaco, sicché la delibera della giunta comunale, quand'anche prevista dalla normativa secondaria rappresentata dallo statuto, resta un atto meramente gestionale e tecnico, privo di valenza esterna.
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  Rilevato che
   - il primo motivo è in parte inammissibile, in parte infondato;
   - per un verso si tratterebbe, in tesi, di omessa pronuncia sull'eccezione, in senso lato, indicata come formulata, e non del dedotto omesso esame, il cui regime normativo fa diversamente riferimento a un fatto storico discusso in istruttoria;
   - per altro verso i ricorrenti indicano di aver proposto l'eccezione in una non meglio specificata memoria di replica, senza chiarire quindi se sia stato un atto meramente illustrativo facente parte della discussione scritta finale, ovvero di altro atto assertivo, con una violazione degli artt. 366, nn. 3 e 6, cod. proc. civ., che non permette di constatare se si tratti di questione nuova, e come tale in questa sede preclusa, essendo sotteso, al rilievo, possibile anche d'ufficio, un accertamento in fatto (la presenza o meno della delibera, in funzione della decisione sulla sussistenza di valida procura);
   - nel merito, infine, la questione sarebbe stata comunque infondata, poiché questa Corte ha chiarito che, nel nuovo ordinamento delle autonomie locali (d.lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 50, fonte primaria), competente a conferire al difensore del comune la procura alle liti è solo il sindaco, sicché la delibera della giunta comunale, quand'anche prevista dalla normativa secondaria rappresentata dallo statuto, resta un atto meramente gestionale e tecnico, privo di valenza esterna (Cass., 23/03/2016, n. 5802, pag. 3, Cass., 21/06/2018, n. 16459, pagg. 4-5) (Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 10.09.2019 n. 22526).

CONSIGLIERI COMUNALIAtto illegittimo se alla votazione partecipa il consigliere obbligato all'astensione.
Nel caso in cui sia stata approvata una deliberazione con la partecipazione di un consigliere che non ha rispettato l'obbligo di astensione, l'atto non può essere oggetto di convalida, in quanto si limiterebbe a emendare il vizio in modo solo formale e apparente e non a eliminare il fatto storico della partecipazione alla seduta del soggetto e dell'influenza che tale partecipazione ha determinato sulle convinzioni e opinioni degli altri componenti.
Lo afferma il TAR Abruzzo-Pescara con la sentenza 09.09.2019 n. 209.
Il fatto
È stata impugnata la deliberazione consiliare di approvazione del progetto preliminare dei lavori per la realizzazione di un'area polifunzionale, con contestuale adozione di variante semplificata al vigente piano regolatore edilizio, per diversi motivi tra i quali la partecipazione di un consigliere comunale che non si sarebbe astenuto dal prendere parte alla discussione e avrebbe altresì votato a favore della deliberazione, pur riguardando interessi propri. Con motivi aggiunti il ricorrente ha poi chiesto l'annullamento della delibera, nel frattempo intervenuta, con cui il consiglio comunale ha convalidato la delibera.
L'articolo 78, comma 2, del Tuel impone agli amministratori di astenersi dal prendere parte alla discussione e alla votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado. L'obbligo di astensione non si applica ai soli provvedimenti normativi o di carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado.
L'astensione
Il Tar Abruzzo accoglie il ricorso e annulla i provvedimenti impugnati, sulla base della considerazione che la violazione dell'obbligo di astensione mira a evitare che la partecipazione alla seduta e alla votazione del soggetto portatore di un interesse egoistico possa influenzare le decisioni dell'organo collegiale «a prescindere dall'accertamento in concreto di tale influenza». Il pericolo, cioè, è valutato in astratto e in via presuntiva dallo stesso legislatore, per questo il vizio non appare emendabile con una mera nuova votazione priva della presenza del soggetto che ha partecipato e votato nella prima riunione.
Infatti la convalida, la cui funzione è quella di emendare il vizio originario e mantenere il provvedimento con efficacia retroattiva, si limita a rimuovere il vizio in modo solo formale e apparente, in quanto non può eliminare il fatto storico della partecipazione alla seduta del soggetto interessato e soprattutto l'influenza che tale partecipazione ha ormai determinato sulle convinzioni e opinioni degli altri. Talché, concludono i giudici abruzzesi, l'atto convalidato resta comunque adottato con la partecipazione del consigliere che si sarebbe dovuto astenere.
La via maestra per «recuperare» quanto deciso dal Consiglio comunale allora non è la convalida, posto che il vizio non è emendabile, ma secondo il Tar Abruzzo sarebbe stato necessario provvedere ad una nuova e autonoma delibera, annullando in autotutela la precedente (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 30.09.2019).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Accessi al server regolati. Connessioni da remoto, disciplina ad hoc. Consiglieri e protocollo dell’ente: dal Tar Campania utili parametri.
In un comune siciliano può un consigliere accedere da remoto al server comunale del protocollo dell'ente in carenza di previsione regolamentare che lo preveda espressamente?

L'esercizio del diritto di accesso, esercitabile dai consiglieri comunali ai sensi dell'art. 43, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, è definito dal Consiglio di stato (sentenza n. 4471/2005) «diritto soggettivo pubblico funzionalizzato», finalizzato al controllo politico-amministrativo sull'ente, nell'interesse della collettività (cfr. Consiglio di stato V, 05/09/2014, n. 4525, cit. da Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi del 29.11.2018); si tratta di un diritto dai confini più ampi del diritto di accesso riconosciuto al cittadino nei confronti del comune di residenza (art. 10 Tuoel) o, più in generale, nei confronti della p.a., disciplinato dalla legge n. 241 del 1990 (cfr. parere della Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi del 28.10.2014 e il richiamato del 29.11.2018).
Per i comuni della regione Sicilia si applica l'art. 217 del Testo coordinato delle leggi regionali relative all'ordinamento degli enti locali (Art. 199, Ordinamento amministrativo degli enti locali nella Regione siciliana approvato con legge regionale n. 16/1963 (art. 20, legge regionale n. 1/1976 e art. 56, legge regionale n. 9/1986), il quale prevede, analogamente, che «I consiglieri comunali (...), per l'effettivo esercizio della loro funzione, hanno diritto di prendere visione dei provvedimenti adottati dall'ente e degli atti preparatori in essi richiamati nonché di avere tutte le informazioni necessarie all'esercizio del mandato e di ottenere, senza spesa, copia degli atti deliberativi. Copia dell'elenco delle delibere adottate dalla giunta è trasmessa al domicilio dei consiglieri e depositata presso la segreteria a disposizione di chiunque ne faccia richiesta».
Il protocollo informatico, come noto, è stato introdotto dall'art. 50 del dpr n. 445/2000, il quale, al comma 3, richiede la realizzazione o la revisione dei sistemi informativi automatizzati in conformità anche alle disposizioni di legge sulla riservatezza dei dati personali; gli articoli 53 e 55 del citato dpr n. 445 prevedono, rispettivamente, la «registrazione di protocollo» e la «segnatura di protocollo» che contengono una serie di dati che consentono la rintracciabilità dei documenti.
La citata Commissione per l'accesso, già con il parere del 16.03.2010 stabiliva che «l'accesso diretto tramite utilizzo di apposita password al sistema informatico dell'Ente, ove operante, è uno strumento di accesso certamente consentito al consigliere comunale che favorirebbe la tempestiva acquisizione delle informazioni richieste senza aggravare l'ordinaria attività amministrativa. Ovviamente il consigliere comunale rimane responsabile della segretezza della password di cui è stato messo a conoscenza a tali fini (art. 43, comma 2, Tuoel)».
Anche il Garante per la protezione dei dati personali (v. relazione del 2004, pag. 19 e 20) aveva specificato che «nell'ipotesi in cui l'accesso da parte dei consiglieri comunali riguardi dati sensibili, l'esercizio di tale diritto, ai sensi dell'art. 65, comma 4, lett. b), del Codice, è consentito se indispensabile per lo svolgimento della funzione di controllo, di indirizzo politico, di sindacato ispettivo e di altre forme di accesso a documenti riconosciute dalla legge e dai regolamenti degli organi interessati per consentire l'espletamento di un mandato elettivo. Resta ferma la necessità, (...) che i dati così acquisiti siano utilizzati per le sole finalità connesse all'esercizio del mandato, rispettando in particolare il divieto di divulgazione dei dati idonei a rivelare lo stato di salute. Spetta quindi all'amministrazione destinataria della richiesta accertare l'ampia e qualificata posizione di pretesa all'informazione ratione officii del consigliere comunale».
Già il Tar Sardegna con la sentenza n. 29/2007 ha affermato, tra l'altro, che è consentito prendere visione del protocollo generale senza alcuna esclusione di oggetti e notizie riservate e di materie coperte da segreto, posto che i consiglieri comunali sono comunque tenuti al segreto ai sensi dell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000, mentre il Tar Lombardia, Brescia, 01.03.2004 n. 163, ha ritenuto non ammissibile imporre ai consiglieri l'onere di specificare in anticipo l'oggetto degli atti che intendono visionare, giacché trattasi di informazioni di cui gli stessi possono disporre solo in conseguenza dell'accesso.
Sempre il Tar Sardegna, approfondendo la tematica, con la sentenza n. 531/2018, ha specificato che il «possesso delle chiavi di accesso telematico, rappresenta una condizione preliminare, ma nondimeno necessaria, per l'esercizio consapevole del diritto di accesso, in modo che questo si svolga non attraverso una apprensione generalizzata e indiscriminata degli atti dell'amministrazione comunale (...), ma mediante una selezione degli oggetti degli atti di cui si chiede l'esibizione. Peraltro, una delle modalità essenziali per poter operare in tal senso è rappresentata proprio dalla possibilità di accedere (non direttamente al contenuto della documentazione in arrivo o in uscita dall'amministrazione, ma) ai dati di sintesi ricavabili dalla consultazione telematica del protocollo». Anche il Tar Campania (Sezione staccata di Salerno), con la recentissima decisione n. 545 del 04/04/2019 ha confermato il diritto del consigliere comunale all'accesso anche da remoto al protocollo informatico dell'ente.
Il predetto tribunale, ribadendo sostanzialmente quanto stabilito dal Tar Sardegna con la richiamata sentenza 531/2018, ha ritenuto che tale esercizio non dovrebbe tuttavia essere esteso al contenuto della documentazione in arrivo o in uscita dall'amministrazione soggetta, invece, alle ordinarie regole in materia di accesso, tra le quali la necessità di richiesta specifica, ma ai soli dati di sintesi ricavabili dalla consultazione telematica del protocollo (numero di registrazione al protocollo, data, mittente, destinatario, modalità di acquisizione, oggetto). Il Tar Campania con la citata decisione n. 545/2019 ha accolto il ricorso imponendo all'amministrazione comunale resistente di apprestare, entro il termine di 60 giorni decorrente dalla comunicazione della medesima decisione «le modalità organizzative per il rilascio di password per l'accesso da remoto al protocollo informatico al consigliere comunale ricorrente».
Ciò premesso, si osserva che la disciplina regolamentare si pone anche come strumento di previsione delle misure tecniche necessarie per l'effettivo esercizio del diritto in parola in capo al consigliere comunale. Tale strumento, necessario al fine di porre i competenti uffici comunali nelle condizioni di operare correttamente, dovrebbe, dunque, essere obbligatoriamente adottato dall'ente in tempi ragionevoli ben potendo prendersi a parametro i termini individuati dal sopra citato Tar della Campania o termini più brevi favorevoli ai consiglieri comunali
(articolo ItaliaOggi del 06.09.2019).

CONSIGLIERI COMUNALIVincoli rigidi ai rimborsi delle spese legali agli amministratori.
La sentenza 05.09.2019 n. 461 della Corte dei conti del Lazio evidenzia l'impossibilità per gli enti locali di rimborsare le spese legali superiori a quelle stabilite dal giudice contabile.
La linea di demarcazione per gli amministratori, rispetto ai dipendenti, di una possibile apertura al rimborso delle spese legali in materia civile, amministrativa e penale, è stata fornita solo con il Dl 78/2015; mentre in sede contabile, a fronte del sicuro conflitto di interessi iniziale con l'amministrazione di appartenenza, in caso di assoluzione sono rimborsabili le sole spese stabilite dal giudice contabile.
Per evitare dubbi sulla possibilità di rimborsare le spese legali ai propri amministratori superiori a quelle indicate nella sentenza di assoluzione contabile meritano alcune precisazioni sulla deliberazione n. 73/2017 della Corte dei conti dell'Emilia Romagna richiamata nella sentenza della Corte laziale (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 17 settembre).
La difesa da parte degli amministratori
Per poter difendere la propria posizione, il sindaco e l'avvocato chiamati in giudizio per responsabilità erariale hanno ritenuto di poter far riferimento, tra l'altro, alle indicazioni dei giudici contabili emiliano-romagnoli contenute nella deliberazione 73/2017.
Il passaggio significativo, a giustificazione della possibilità di riconoscere da parte dell'ente locale un compenso superiore a quello statuito dal giudice contabile, è dovuto in parte alle affermazioni secondo cui «il rimborso delle spese legali in favore dei dipendenti e degli amministratori pubblici, assolti per non avere commesso il fatto nell'ambito di un procedimento connesso con l'espletamento del servizio, deriva dal principio per il quale non solo nei rapporti privati, ma anche in quelli pubblici, chi agisce per un interesse altrui non deve sopportare nella sua sfera personale gli effetti svantaggiosi di questa attività, bensì deve essere tenuto indenne sia dalle spese sostenute, sia dai danni subiti per la fedele esecuzione del suo compito (Corte dei conti a Sezioni riunite n. 707/1991)».
Precisando, tuttavia, successivamente che «solo recentemente il legislatore statale ha riconosciuto, con l'articolo 7-bis del Dl 19.06.2015 n. 78, convertito con modificazioni dalla legge 06.08.2015 n. 125, detto diritto anche in favore degli amministratori locali».
Nell'interpretazione della difesa è stato ritenuto che mente prima del Dl n. 78/2015 l'amministratore locale godeva di un diritto di essere tenuto indenne dai danni subiti per la fedele esecuzione del suo compito, con la nuova disposizione inserita nel Dl n. 78/2015 il rimborso diveniva soggetto di una serie di presupposti e quindi soggetto ai soli limiti posti dal giudice contabile.
La corretta interpretazione
Il possibile dubbio nasce dal fatto che la sentenza della Corte laziale non ha confutato su questo punto la difesa dei convenuti. Da una semplice lettura della deliberazione, non può che rilevarsi, in via principale, come non si sia in presenza di alcun parere (anche perché in materia di rimborso delle spese legali da molti anni la Corte dei conti non può esprimersi), ma di specifico controllo sul questionario inviato agli enti locali concernente la gestione dei servizi legali.
Il preambolo della Corte, quindi, ha come scopo quello di stigmatizzare il non corretto pagamento effettuato dall'ente locale ad un proprio dipendente, su un provvedimento di archiviazione per estinzione del reato per remissione di querela, senza alcun accertamento interno atto a verificare se i comportamenti tenuti fossero o meno contrari ai doveri di ufficio, preannunciando la medesima linea tenuta anche di recente dal giudice amministrativo (Tar Lazio, sentenza 05.09.2019 n. 10749).
Conclusioni
La deliberazione del Corte dei conti dell'Emilia Romagna, pertanto, non avalla alcuna possibilità di un rimborso delle spese legali all'amministratore per un importo superiore a quello previsto nella sentenza del giudice contabile, ritenendo che il Collegio contabile Laziale non l'abbia volontariamente confutata proprio per mancata attinenza della stessa con il danno erariale emerso nella vicenda contabile.
In conclusione, sia prima che dopo il Dl n. 78/2015, in seguito all'interpretazione autentica fornita dal legislatore (articolo 10-bis, comma 10, del Dl 203/2005), l'ente locale si espone al danno erariale tutte le volte in cui dispone un rimborso delle spese legali superiore a quello stabilito dal giudice contabile (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 25.09.2019).

CONSIGLIERI COMUNALI: La richiesta avente ad oggetto il rilascio delle credenziali informatiche di accesso all’area “Contabile e Patrimonio” appare esorbitante rispetto alla ratio ed al perimetro del diritto di accesso esercitabile da parte dei consiglieri regionali, sicché risulta legittimo il diniego opposto.
In linea generale, l'accesso ai documenti esercitato dai consiglieri comunali e provinciali, e, per estensione, anche regionali, espressione delle loro prerogative di controllo democratico, non incontra alcuna limitazione in relazione all'eventuale natura riservata degli atti, stante anche il vincolo del segreto d'ufficio che lo astringe.
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Vero è che l’accesso previsto dall’art. 43 del T.U.E.L. -pacificamente estensibile ai consiglieri regionali- deve essere letto ed applicato in conformità alla progressiva digitalizzazione che ha interessato negli ultimi anni l’attività degli uffici pubblici, ciò che rende sicuramente ammissibile l’accesso mediante l’utilizzo di sistemi informatici.
E’ però parimenti vero che la concreta modalità dell’accesso con l’impiego di applicativi informatici non deve determinare la elusione dei principi di fondo che conformano l’esercizio del relativo diritto, nei termini stabiliti dagli artt. 22 e 24 della legge n. 241 del 1990.
In particolare, resta ferma la regola per cui l’esercizio del diritto di accesso presuppone la presentazione di una richiesta specifica e puntuale, che deve riferirsi a documenti preesistenti e già formati.
Invece, nel caso di specie, il rilascio delle credenziali informatiche di accesso all’area “Contabile e Patrimonio”, nei termini richiesti dai ricorrenti, consentirebbe ai consiglieri regionali di accedere alla generalità indiscriminata dei documenti relativi alla contabilità dell’ente in mancanza di apposita istanza.
Tale forma di accesso “diretto” si risolve in un monitoraggio assoluto e permanente sull’attività degli uffici, tale da violare la ratio dell’istituto, che, così declinato, eccede strutturalmente la sua funzione conoscitiva e di controllo in riferimento ad una determinata informazione e/o ad uno specifico atto dell’ente, siccome ritenuti strumentali al mandato politico, per appuntarsi, a monte, sull’esercizio della funzione propria dell’area “Contabile e Patrimonio” e sulla complessiva attività degli uffici, con finalità essenzialmente esplorative, che eccedono dal perimetro delle prerogative attribuite ai consiglieri regionali.
In tal senso è stato affermato che “è legittimo il diniego opposto alla richiesta tendente ad ottenere la documentazione relativa a molteplici settori dell'Ente ed ancorata non ad un determinato periodo di tempo, ma sostanzialmente riferita anche ad epoche future. Infatti una richiesta così strutturata, tesa ad utilizzare, in lettura, gli applicativi informatici del Comune, appare preordinata a compiere un sindacato generalizzato sull'attività, presente, passata e futura, degli organi decidenti, deliberanti e amministrativi dell'Ente e non risulta strumentale al mandato politico, che deve essere riferito a singole problematiche che di volta in volta interessano l'elettorato e desumibili da atti e documenti già in possesso dell’Amministrazione … omissis … In definitiva, compete al richiedente la selezione preventiva del materiale di proprio interesse, attività propedeutica connaturata alle modalità dell’accesso, che non può mai avere finalità solo esplorative, ancorché il diritto sia esercitato da soggetti cui la legge riconosce una legittimazione rafforzata. Pertanto, è condivisibile l’assunto posto a fondamento del contestato diniego, secondo cui il rilascio delle richieste credenziali si tradurrebbe in un accesso generalizzato e indiscriminato a tutti i dati della corrispondenza in entrata e uscita e della contabilità”.
Più di recente, la giurisprudenza del TAR ha ritenuto legittimo il rilascio delle credenziali di accesso al sistema informatico dell’ente ai soli fini della consultazione del protocollo informatico, avendo cura di precisare espressamente che tali credenziali non devono consentire l’accesso diretto ai documenti: “… al fine di evitare ogni accesso indiscriminato alla totalità dei documenti protocollati, il Collegio è dell’avviso che l’accesso da remoto vada consentito in relazione ai soli dati di sintesi ricavabili dalla consultazione telematica del protocollo, non potendo essere esteso al contenuto della documentazione, la cui acquisizione rimane soggetta alle ordinarie regole in materia di accesso (tra le quali la necessità di richiesta specifica)”.
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6. Il ricorso è infondato.
6.1. Innanzi tutto si osserva che è condivisibile quanto sostenuto dai ricorrenti in riferimento al fatto che il diritto di accesso del consigliere regionale non incontra il limite della riservatezza.
Infatti, sul punto la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha recentemente chiarito che: “l'accesso ai documenti esercitato dai consiglieri comunali e provinciali, e, per estensione, anche regionali, espressione delle loro prerogative di controllo democratico, non incontra alcuna limitazione in relazione all'eventuale natura riservata degli atti, stante anche il vincolo del segreto d'ufficio che lo astringe” (Cons. Stato, Sez. V, 02.03.2018 n. 1298).
Ciò nondimeno, la predetta questione non è conferente nel caso di specie, dal momento che il limite della riservatezza, inizialmente opposto dalla Regione Molise con la nota del 01.03.2019, non ha trovato ulteriore riscontro in sede di riesame.
6.2. Con la nota in data 05.03.2019 la Regione Molise ha conclusivamente giustificato il provvedimento di diniego in ragione del fatto che “la concessione della richiesta abilitazione equivarrebbe ad un accesso indiscriminato e generale su non ben definiti atti d’ufficio”.
Sotto tale profilo il diniego di rilascio delle credenziali di accesso al sistema informativo Urbi Smart appare giustificato e conforme ai principi desumibili dalla normativa di riferimento.
Vero è che l’accesso previsto dall’art. 43 del T.U.E.L. -pacificamente estensibile ai consiglieri regionali- deve essere letto ed applicato in conformità alla progressiva digitalizzazione che ha interessato negli ultimi anni l’attività degli uffici pubblici, ciò che rende sicuramente ammissibile l’accesso mediante l’utilizzo di sistemi informatici.
E’ però parimenti vero che la concreta modalità dell’accesso con l’impiego di applicativi informatici non deve determinare la elusione dei principi di fondo che conformano l’esercizio del relativo diritto, nei termini stabiliti dagli artt. 22 e 24 della legge n. 241 del 1990.
In particolare, resta ferma la regola per cui l’esercizio del diritto di accesso presuppone la presentazione di una richiesta specifica e puntuale, che deve riferirsi a documenti preesistenti e già formati.
Invece, nel caso di specie, il rilascio delle credenziali di accesso all’area “Contabile e Patrimonio” del sistema Urbi Smart, nei termini richiesti dai ricorrenti, consentirebbe ai consiglieri regionali di accedere alla generalità indiscriminata dei documenti relativi alla contabilità dell’ente in mancanza di apposita istanza.
Tale forma di accesso “diretto” si risolve in un monitoraggio assoluto e permanente sull’attività degli uffici, tale da violare la ratio dell’istituto, che, così declinato, eccede strutturalmente la sua funzione conoscitiva e di controllo in riferimento ad una determinata informazione e/o ad uno specifico atto dell’ente, siccome ritenuti strumentali al mandato politico, per appuntarsi, a monte, sull’esercizio della funzione propria dell’area “Contabile e Patrimonio” e sulla complessiva attività degli uffici, con finalità essenzialmente esplorative, che eccedono dal perimetro delle prerogative attribuite ai consiglieri regionali.
6.3. In tal senso è stato affermato che “è legittimo il diniego opposto alla richiesta tendente ad ottenere la documentazione relativa a molteplici settori dell'Ente ed ancorata non ad un determinato periodo di tempo, ma sostanzialmente riferita anche ad epoche future. Infatti una richiesta così strutturata, tesa ad utilizzare, in lettura, gli applicativi informatici del Comune, appare preordinata a compiere un sindacato generalizzato sull'attività, presente, passata e futura, degli organi decidenti, deliberanti e amministrativi dell'Ente e non risulta strumentale al mandato politico, che deve essere riferito a singole problematiche che di volta in volta interessano l'elettorato e desumibili da atti e documenti già in possesso dell’Amministrazione … omissis … In definitiva, compete al richiedente la selezione preventiva del materiale di proprio interesse, attività propedeutica connaturata alle modalità dell’accesso, che non può mai avere finalità solo esplorative, ancorché il diritto sia esercitato da soggetti cui la legge riconosce una legittimazione rafforzata (TAR Toscana, I, 30.03.2016, n. 563). Pertanto, è condivisibile l’assunto posto a fondamento del contestato diniego, secondo cui il rilascio delle richieste credenziali si tradurrebbe in un accesso generalizzato e indiscriminato a tutti i dati della corrispondenza in entrata e uscita e della contabilità” (TAR Toscana, Sez. I, 22.12.2016 n. 1844).
6.4. Più di recente, la giurisprudenza del TAR ha ritenuto legittimo il rilascio delle credenziali di accesso al sistema informatico dell’ente ai soli fini della consultazione del protocollo informatico, avendo cura di precisare espressamente che tali credenziali non devono consentire l’accesso diretto ai documenti: “… al fine di evitare ogni accesso indiscriminato alla totalità dei documenti protocollati, il Collegio è dell’avviso che l’accesso da remoto vada consentito in relazione ai soli dati di sintesi ricavabili dalla consultazione telematica del protocollo, non potendo essere esteso al contenuto della documentazione, la cui acquisizione rimane soggetta alle ordinarie regole in materia di accesso (tra le quali la necessità di richiesta specifica)” (TAR Basilicata, 10.07.2019 n. 599).
6.5. Per le ragioni sopra esposte la richiesta avente ad oggetto il rilascio delle credenziali di accesso all’area “Contabile e Patrimonio” del sistema Urbi Smart o comunque la previsione di equivalenti strumenti di reperimento di atti ed informazioni, appare esorbitante rispetto alla ratio ed al perimetro del diritto di accesso esercitabile da parte dei consiglieri regionali, sicché il ricorso merita di essere respinto (TAR Molise, sentenza 03.09.2019 n. 285 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

agosto 2019

CONSIGLIERI COMUNALI: Interrogazione di alcuni consiglieri comunali. Diritto di accesso agli atti degli amministratori locali. Limiti.
I consiglieri comunali hanno l’incondizionato diritto di accesso a tutti gli atti in possesso dell’Amministrazione che possano essere d’utilità all’espletamento del mandato al fine di permettere loro di valutare –con piena cognizione– la correttezza e l’efficacia dell’operato del Comune, nonché per promuovere, anche nell’ambito del Consiglio comunale, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
Diverso discorso è invece da farsi relativamente agli atti di indagine penale che rientrano nel segreto istruttorio regolato dall’art. 329 c.p.p. e rispetto ai quali non può esercitarsi l’accesso se non nelle forme consentite dalla partecipazione al procedimento penale cui essi ineriscono.

Il Comune chiede di conoscere un parere in merito all’ambito di esercizio dei diritti spettanti ai consiglieri comunali ai sensi dell’articolo 43 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 e in particolare, all’istituto dell’interrogazione e del diritto di accesso agli atti.
A tal fine riferisce dell’avvenuta presentazione di un’interrogazione da parte di alcuni consiglieri comunali con la quale veniva chiesto al sindaco di riferire sui contenuti di un’indagine giudiziaria in corso che interessa l’amministrazione comunale. Trattandosi di operazioni di indagine sottoposte al segreto d’ufficio l’Ente desidera sapere quali limitazioni sussistano al riguardo anche sotto il profilo dell’eventuale sussistenza del diritto di accesso agli atti spettante agli amministratori locali.
L’articolo 43 del D.Lgs. 267/2000, al comma 1, prevede che i consiglieri comunali abbiano diritto di presentare interrogazioni e mozioni mentre il successivo comma 3 stabilisce che il sindaco o l’assessore da esso delegato risponde, “entro 30 giorni, alle interrogazioni e ad ogni istanza di sindacato ispettivo presentata dai consiglieri. Le modalità della presentazione di tali atti e delle relative risposte sono disciplinate dallo statuto e dal regolamento consiliare”.
Il regolamento dell’Ente disciplina l’istituto delle interrogazioni e delle istanze di sindacato ispettivo all’articolo 34 precisando, al comma 1, che l’interrogazione “è definita come la domanda, singola o collettiva, che i Consiglieri possono rivolgere al Sindaco o alla Giunta, nel rispetto delle singole competenze, per avere notizia sulla veridicità di qualche fatto ed informazione, su eventuali provvedimenti adottati o che si presumono siano da adottare. Non può eccedere i cinque minuti”.
Si tratta di un istituto il cui utilizzo è garantito ai consiglieri comunali al fine di poter esercitare il proprio munus publicum. La facoltà di presentare interrogazioni, interpellanze e ordini del giorno rientra tra le funzioni di sindacato ispettivo attribuite dalla legge agli amministratori locali. Si tratta di istituti finalizzati a garantire la funzione propria del consigliere comunale che è quella di verificare che il sindaco e la giunta esercitino correttamente la loro attività di governo.
Analoga ratio sorregge l’istituto del diritto di accesso spettante agli amministratori locali il quale trova la sua fonte normativa di riferimento nell’articolo 43, comma 2, TUEL il quale recita: “I consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato. Essi sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge”.
La giurisprudenza ha, infatti, costantemente sottolineato che le informazioni acquisibili devono considerare l’esercizio, in tutte le sue potenziali esplicazioni, del munus di cui ciascun consigliere comunale è individualmente investito, in quanto membro del consiglio. Ne deriva che tale munus comprende la possibilità per ogni consigliere di compiere, attraverso la visione dei provvedimenti adottati e l’acquisizione di informazioni, una compiuta valutazione della correttezza e dell’efficacia dell’operato dell’amministrazione comunale, utile non solo per poter esprimere un voto maggiormente consapevole sugli affari di competenza del consiglio, ma anche per promuovere, nell’ambito del consiglio stesso, le varie iniziative consentite dall’ordinamento ai membri di quel collegio
[1].
Premesso quanto sopra necessita ora soffermarsi sui limiti cui soggiacciono i diritti di cui sopra e, in particolare, per ciò che rileva in questa sede, sull’obbligo al segreto istruttorio che impedisce l’ostensione dei documenti coperti dal segreto e, in parallelo, altresì, la diffusione di ogni informazione concernente le indagini giudiziarie in corso e per le quali sussiste l’obbligo alla segretezza.
Come affermato dalla dottrina
[2] «la giurisprudenza ha chiarito che l’innovazione legislativa introdotta con il T.U.E.L. non poteva travolgere le diverse ipotesi di segreto previste dall’ordinamento, anche in presenza di documenti formati o detenuti dall’amministrazione.
L’esistenza di ipotesi speciali di segreto è stata esplicitata dall’art. 24, comma 1, lett. a), della legge 241/1990 che esclude il diritto di accesso “(…) nei casi di segreto o di divieto di divulgazione espressamente previsti dalla legge (…)”, riferendosi a casi in cui l’esigenza di segretezza è volta alla protezione di “interessi di natura e consistenza diversa da quelli genericamente amministrativi”
[3].
Si è così affermato che il diritto non è esercitabile nei confronti di alcuni tipi di atti […] da ritenersi segreti e non sufficientemente protetti dal semplice obbligo di non divulgazione delle notizie ivi riportate.
[4]
Se così non fosse, l’accesso del consigliere ai documenti coperti da segreto “assumerebbe una portata oggettiva più ampia di quella riconosciuta ai cittadini ed ai titolari di posizioni giuridiche differenziate (pure comprensive di situazioni protette a livello costituzionale)”
[5].
Le esigenze connesse all’espletamento del mandato non potrebbero, pertanto, autorizzare un privilegio incondizionato a scapito di altri soggetti interessati e a sacrificio degli interessi tutelati dalla normativa sul segreto
».
Tra i casi di segreto previsti dall’ordinamento a preclusione del diritto di accesso rientra quello istruttorio in sede penale, delineato dall’art. 329 c.p.p. a tenore del quale “Gli atti d'indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria, le richieste del pubblico ministero di autorizzazione al compimento di atti di indagine e gli atti del giudice che provvedono su tali richieste sono coperti dal segreto fino a quando l'imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari
[6].
In questo senso si è espressa la giurisprudenza la quale ha affermato che: “I consiglieri hanno l’incondizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d’utilità all’espletamento del loro mandato, al fine di permettere loro di valutare –con piena cognizione– la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, nonché per promuovere, anche nell’ambito del Consiglio comunale, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale. […] diverso discorso è invece da farsi relativamente agli ulteriori atti di indagine penale, eventualmente delegata, che rientrano nel segreto istruttorio regolato dall’art. 329 c.p.p. e rispetto ai quali non può esercitarsi l’accesso se non nelle forme consentite dalla partecipazione al procedimento penale cui essi ineriscono
[7].
Nello stesso senso si è espresso anche il Ministero dell’Interno[8] il quale, nel fare proprie due pronunce del Consiglio di Stato
[9] ha osservato che: «L'Alto Consesso ha ritenuto che la posizione dei consiglieri comunali non possa essere talmente privilegiata da consentire loro l'accesso a tutti i documenti, anche segreti, dell'amministrazione, assumendo solo l'obbligo di non divulgare le relative notizie. […] Se ne deduce, così, che il diritto di accesso del consigliere comunale, da esercitarsi riguardo ai dati effettivamente utili all'esercizio del mandato ed ai soli fini di questo, deve essere coordinato con altre norme vigenti, come quelle che tutelano il segreto delle indagini penali o la segretezza della corrispondenza e delle comunicazioni […]».
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[1] Si veda, tra le altre, Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 29.08.2011, n. 4829.
[2] R. Cicatelli, “Il diritto di accesso del consigliere comunale agli atti della magistratura della Corte dei Conti. Nota alla sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, 02.01.2019, n. 12”, in “Il Piemonte delle Autonomie”, 2019.
[3] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 02.04.2001, n. 1893.
[4] Si riportano le parole del Consiglio di Stato espresse nella sentenza 1893/2001: “Con riguardo alla posizione specifica dei consiglieri comunali, occorre chiarire la portata della espressione normativa "essi sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge" (articolo 43, comma 2, del T.U. 18.08.2000 n. 267). La norma, per la sua collocazione sistematica e per il suo significato letterale, intende ribadire la regola secondo cui, lecitamente acquisite e le informazioni e le notizie utili all'espletamento del mandato, il consigliere, di regola, è autorizzato a divulgarle. Un divieto di comunicazione a terzi deve derivare da apposita disposizione normativa.
In tale prospettiva si spiega, coerentemente, il rapporto tra la disciplina sulla protezione dei dati personali e la pretesa all'accesso del consigliere comunale. Questi è legittimato ad acquisire le notizie ed i documenti concernenti dati personali, anche sensibili, poiché, di norma, tale attività costituisce "trattamento" autorizzato da specifica disposizione legislativa (legge n. 675/1996; decreto legislativo n. 135/1999), secondo le regole integrative fissate dalle determinazioni ed autorizzazioni generali del Garante e dagli atti organizzativi delle singole amministrazioni.
Ma il consigliere comunale non può comunicare a terzi i dati personali (in particolare quelli sensibili) se non ricorrono le condizioni indicate dalla normativa in materia di tutela della riservatezza.
Questi principi sono alla base della decisione n. 940/2000 della Sezione, la quale ammette l'accesso del consigliere comunale anche nei casi in cui esso incide sulla riservatezza dei terzi, senza affrontare la diversa questione dell'accesso ai documenti coperti dal segreto, per la tutela di diversi interessi.
Non è plausibile, invece, la tesi secondo cui il consigliere comunale, in tale veste, potrebbe accedere a tutti i documenti, anche segreti, dell'amministrazione, assumendo solo l'obbligo di non divulgare le relative notizie.
In tal modo, l'accesso ai documenti del consigliere comunale, ritenuto prevalente anche sul segreto professionale, assumerebbe una portata oggettiva più ampia di quella riconosciuta ai cittadini ed ai titolari di posizioni giuridiche differenziate (pure comprensive di situazioni protette a livello costituzionale). Il mandato politico-amministrativo affidato al consigliere esprime certamente il principio democratico dell'autonomia locale e della rappresentanza esponenziale della collettività, ma, nell'attuale contesto normativo, non può autorizzare un privilegio così marcato, a scapito degli altri soggetti interessati alla conoscenza dei documenti amministrativi e con sacrificio degli interessi tutelati dalla normativa sul segreto.”
[5] Consiglio di Stato, sentenza n. 1893/2001, citata in nota 3.
[6] Per completezza espositiva si segnala che il testo dell’articolo come sopra riportato è stato così modificato dal decreto legislativo 29.12.2017, n. 216, il quale all’articolo 2, comma 1, lett. f), ha inserito all'articolo 329, comma 1, dopo le parole: «e dalla polizia giudiziaria» le seguenti: «, le richieste del pubblico ministero di autorizzazione al compimento di atti di indagine e gli atti del giudice che provvedono su tali richieste».
Il successivo articolo 9, al comma 1 (così modificato dall’art. 2, comma 1, del D.L. 25.07.2018, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla legge 21.09.2018, n. 108, dall’art. 1, comma 1139, lett. a), n. 1), della legge 30.12.2018, n. 145, a decorrere dal 01.01.2019, e, successivamente, dall’art. 9, comma 2, lett. a), D.L. 14.06.2019, n. 53) ha, peraltro, stabilito che la disposizione di cui all’articolo 2 si applica alle operazioni di intercettazione relative a provvedimenti autorizzativi emessi dopo il 31.12.2019.
[7] TAR Trento, sez. I, sentenza del 07.05.2009, n. 143. Nello stesso senso si veda Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 28.10.2016, n. 4537; TAR Sicilia, Catania, sentenza del 25.07.2017, n. 1943; TAR Potenza, sentenza del 14.12.2005, n. 1028.
[8] Ministero dell’Interno, parere del 13.02.2004.
[9] Rispettivamente Consiglio di Stato, sentenza 1893/2001, già citata in nota 3, e Consiglio di Stato, sentenza del 26.09.2000, n. 5105
(02.08.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

luglio 2019

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Incarichi a contratto misurati. Non sono strumenti ordinari per coprire. Il Tar Calabria chiarisce la portata limitata del dlgs 267 (art. 110).
A giudizio del Tar, l’incarico è stato attribuito senza tenere in alcun modo conto della circostanza relativa alla presenza nel proprio organico dei ricorrenti, dipendenti a tempo indeterminato.
Gli incarichi a contratto non sono uno strumento ordinario di copertura dei fabbisogni e possono essere assegnati esclusivamente nel caso di dimostrata assenza nell'organico di professionalità.

La sentenza 17.07.2019 n. 456 del TAR Calabria-Reggio Calabria chiarisce la portata limitata delle disposizioni dell'articolo 110 del dlgs 267/2000, evidenziando i corretti presupposti e condizioni per attivare gli incarichi a contratto. Il Tar ha annullato la deliberazione con la quale era stata decisa l'assunzione di un responsabile di servizio (in un comune privo di dirigenti) ai sensi dell'articolo 110 del Tuel (Testo unico enti locali), per violazione delle disposizioni normative, per altro ponendo le spese a carico del comune soccombente e trasmettendo il fascicolo alla procura della Corte dei conti.
A giudizio del Tar, l'incarico è stato attribuito «senza tenere in alcun modo conto della circostanza relativa alla presenza nel proprio organico dei ricorrenti, dipendenti a tempo indeterminato la cui idoneità professionale a ricoprire l'incarico in discorso non è mai stata contestata e, dall'altro, che non ha assolto minimamente all'onere di esplicitare le ragioni per cui si è ritenuto di dover ricorrere alla procedura in discorso».
Il comune ha violato le previsioni dell'art. 19, comma 6, del dlgs 165/2001, norma da applicare obbligatoriamente insieme con l'art. 110 del Tuel. La difesa dell'ente locale aveva espresso la tesi secondo la quale i contratti di cui all'articolo 110 del Tuel non richiederebbero la previa, necessaria, valutazione circa l'esistenza di analoghe professionalità all'interno dell'ente, è stata respinta. Il Tar spiega che detta tesi «si scontra con la necessità di leggere la norma in discorso in connessione con gli artt. 19 comma 6, 7 comma 6 e 36 del dlgs 165/2001».
Proprio il comma 6 dell'art. 19 del dlgs 165/2001 impone di motivare gli incarichi a contratto a partire proprio dalla rilevazione dell'assenza irrimediabile di professionalità interne. Tale dimostrazione, spiega il Tar, è necessaria perché sia rispettato il principio di «autosufficienza» del personale, secondo il quale «ogni ente pubblico, dallo Stato all'ente locale, deve provvedere ai propri compiti con la propria organizzazione ed il proprio personale».
Il fondamento di tale principio, prosegue la sentenza, deriva non solo non solo «dal canone costituzionale di buona amministrazione, di cui i principi di efficacia ed economicità dell'azione amministrativa costituiscono attuazione, ma anche nella considerazione che -atteso che ogni ente pubblico ha una sua organizzazione e un suo personale- è con questa organizzazione e con questo personale che l'ente deve attendere alle sue funzioni».
Da qui la fondamentale statuizione: utilizzare personale esterno alla dotazione organica è ammesso, ma entro limiti ristretti. Non solo occorre che gli incarichi a contratto si attivino nei limiti ed alle condizioni in cui la legge lo consenta, ma è necessario dimostrare che si tratti di un rimedio straordinario ad una carenza temporanea di professionalità. Infatti, afferma il Tar, «tutte le forme di esternalizzazione dell'attività pubblica quali le consulenze, le collaborazioni esterne, i contratti a tempo determinato, hanno la comune e generale funzione di acquisire professionalità qualitativamente e quantitativamente assenti nella pubblica amministrazione, oppure quella di sopperire ad esigenze eccezionali ed impreviste, di natura transitoria».
Di conseguenza gli incarichi ai sensi dell'art. 110 non solo debbono essere preceduti dalla dimostrata assenza di professionalità, non solo debbono essere affidati a persone dotati di una competenza estremamente peculiare e in possesso dei particolari requisiti imposti dall'art. 19, comma 6, dlgs 165/2001, ma debbono essere necessariamente connessi ad esigenze transitorie, alle quali porre rimedio in via definitiva con l'adeguamento della dotazione organica e, quindi, l'assunzione in ruolo delle professionalità mancanti, così da rispettare il principio di autosufficienza e non ripetere all'infinito il ricorso agli incarichi a contratto, trasformandoli surrettiziamente in strumenti di ordinaria copertura dei fabbisogni
(articolo ItaliaOggi del 28.12.2019).
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SENTENZA
... per l'annullamento:
   - della deliberazione n. 4 del 27.06.2016, pubblicata all’Albo Pretorio il 05.07.2016, con la quale è stata approvata la programmazione del fabbisogno di personale a tempo determinato;
   - del successivo Avviso pubblico del 12.07.2016 per l’assunzione di un funzionario tecnico categoria D3 ai sensi dell’art. 110, comma 1, del D.Lgs. 267/2000;
   - della deliberazione n. 27 del 12.08.2016, avente ad oggetto il conferimento dell’incarico di funzionario tecnico ai sensi dell’art. 110, comma 1, del D.Lgs. 267/2000.
...
1. Con il ricorso in epigrafe l’Architetto Gi.Ma. e l’Ingegnere Al.Ca., entrambi dipendenti a tempo indeterminato del Comune di Rosarno, chiedono l’annullamento della deliberazione n. 4 del 27.06.2016, con la quale è stata approvata la programmazione del fabbisogno di personale a tempo determinato dell’ente per l’anno 2016, del successivo avviso pubblico del 12.07.2016 per l’assunzione di un funzionario tecnico categoria D3, ai sensi dell’art. 110, comma 1, del d.lgs 267/2000, nonché della deliberazione n. 27 del 12.08.2016 avente ad oggetto il conferimento dell’incarico di funzionario tecnico ai sensi dell’art. 110, comma 1, del d.lgs 267/2000.
2. Espongono in fatto i ricorrenti che, all’esito dell’approvazione (di cui alla Delibera del Commissario Prefettizio n. 35 del 27.08.2015) del nuovo organigramma dell’Ente, e dell’accorpamento (di cui alla successiva Delibera del Commissario Prefettizio n. 51 del 14.04.2016) delle due aree tecniche –“Lavori Pubblici” e “Urbanistica ed Edilizia”- in un’unica unità operativa complessa, gli stessi venivano privati della responsabilità di posizione organizzativa di cui godevano prima delle citate modifiche alla struttura burocratica del comune e che, all’esito delle elezioni amministrative del 2016, la nuova amministrazione insediatasi decideva di procedere, con i provvedimenti gravati, a reperire all’esterno il funzionario a cui affidare la direzione dell’area tecnica, con contratto a tempo determinato ex art. 110, comma 1, del TUEL.
3. Contro la detta decisione e contro i conseguenti provvedimenti di approvazione del bando di selezione e di conferimento dell’incarico al controinteressato sono perciò insorti i ricorrenti con il ricorso in epigrafe affidato, alle seguenti censure:
   3.1. Violazione e falsa applicazione dell’art. 110, comma 1, del D.Lgs. n. 267/2000.
L’amministrazione avrebbe omesso di considerare che, in seno alla struttura burocratica del comune, erano già in servizio gli odierni ricorrenti, sicché il provvedimento gravato sarebbe stato adottato in difetto della condizione normativa che consente di attivare i contratti a tempo determinato solo in assenza di analoghe professionalità, nei ruoli dell'Amministrazione.
Il provvedimento impugnato, per altro verso, violerebbe l’art. 9, comma 28, del D.L. 78/2010, il quale stabilisce che, a decorrere dall'anno 2011, le Amministrazioni dello Stato e degli altri enti pubblici anche ad ordinamento autonomo, possono avvalersi di personale a tempo determinato o con convenzioni ovvero con contratti di collaborazione coordinata e continuativa, nel limite del 50% della spesa sostenuta per le stesse finalità nell’anno 2009.
   3.2. Violazione di legge e, in particolare, dell'art. 3 della legge n. 241/1990 per omessa e/o insufficiente motivazione del provvedimento.
Sarebbe evidente il vizio di motivazione del provvedimento gravato, che, in violazione anche dell’art. 19, comma 6, del dlgs 165/2001, non rappresenterebbe né l’esigenza di una specifica qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli dell'Amministrazione, né le ragioni del ricorso all’incarico a contratto, invece che al concorso pubblico.
   3.3. Violazione del legittimo affidamento dei ricorrenti.
Si sostiene che i ricorrenti, in possesso dei requisiti professionali richiesti per l’espletamento dell’incarico, hanno visto del tutto disattesa la propria aspettativa di continuare a ricoprire la predetta posizione lavorativa. L’Amministrazione intimata avrebbe, infatti, leso il loro legittimo affidamento attraverso la decisione di assumere a tempo determinato un nuovo funzionario tecnico nonostante la presenza di analoghi profili professionali nei ruoli dell’Amministrazione.
...
5.1. Vanno preliminarmente scrutinate le eccezioni preliminari formulate dalla resistente amministrazione, che il Collegio giudica infondate.
Quanto alla eccezione di inammissibilità del ricorso per mancata partecipazione dei ricorrenti alla procedura selettiva, in disparte ogni considerazione sul fatto che, seguendo la tesi della resistente amministrazione, l’architetto Ma., avrebbe dovuto, per continuare a coltivare il proprio interesse a ricorrere, partecipare ad una selezione per una qualifica già posseduta, appare evidente che il vulnus alle posizioni giuridiche di entrambi i ricorrenti si è perfezionato con la scelta dell’amministrazione di procedere a reperire all’esterno la professionalità a cui affidare la direzione dell’area tecnica.
In altri termini, la lesione della sfera giuridica dei ricorrenti era già compiuta al momento dell’indizione della procedura selettiva ex art. 110, co. 1, del TUEL e nessun rilievo può avere, ai fini del radicamento dell’interesse a ricorrere, la loro mancata partecipazione alla ridetta selezione, per altro evidentemente rivolta a selezionare all’esterno del personale dell’ente il soggetto a cui conferire l’incarico.
Il Collegio reputa altresì prive di fondamento le eccezioni di improcedibilità del ricorso legate ai successivi provvedimenti amministrativi adottati dall’ente (la proroga del contratto del controinteressato o addirittura i provvedimenti di riorganizzazione della struttura). Le descritte circostanze, in uno con quella relativa allo scadere del contratto di lavoro del controinteressato, anche se determinassero la cessazione degli effetti dei provvedimenti gravati, non potrebbero comunque considerarsi idonee a far venir meno l’interesse alla decisione dei ricorrenti che potrebbero, nei termini prescritti dall’art. 30, comma 5, del codice del processo amministrativo, attivare la tutela risarcitoria, come già ipotizzato in ricorso.
6. Nel merito, risultano, nei termini di cui si dirà, fondati ed assorbenti i primi due motivi di ricorso.
La tesi della resistente amministrazione secondo la quale i contratti ex 110, comma 1, del TUEL non richiedono la previa, necessaria, valutazione circa l’esistenza di analoghe professionalità all’interno dell’ente, si scontra con la necessità di leggere la norma in discorso in connessione con gli artt. 19 comma 6, 7 comma 6 e 36 del dlgs 165/2001, che, in disparte ogni altra considerazione, è resa ineludibile per tabulas dalla mera lettura dell’art. 88 del dlgs 267/2000 a mente del quale “All'ordinamento degli uffici e del personale degli enti locali, ivi compresi i dirigenti ed i segretari comunali e provinciali, si applicano le disposizioni del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29 e successive modificazioni ed integrazioni, e le altre disposizioni di legge in materia di organizzazione e lavoro nelle pubbliche amministrazioni nonché quelle contenute nel presente testo unico.”
In altri termini,
la procedura finalizzata alla copertura dei posti di responsabili dei servizi o degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione, mediante contratto a tempo determinato, ai sensi dell’art. 110, comma 1, del TUEL, non può derogare dal rispetto delle prescrizioni dell’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001, il quale fornisce due fondamentali e correlate indicazioni:
   - l’incarico può essere conferito a soggetti esterni a condizione che la correlata professionalità sia “non rinvenibile nei ruoli dell'Amministrazione”; occorre, quindi, preliminarmente dimostrare, l’assenza totale nei ruoli dell’amministrazione di persone aventi la professionalità necessaria;
   - gli “incarichi sono conferiti, fornendone esplicita motivazione”, la quale è funzionale alla verifica della particolare e comprovata qualificazione professionale, richiesta ai funzionari da sottoporre a selezione, e della insussistenza di professionalità equivalenti all’interno dell’ente, anche ai fini del controllo della Corte dei Conti sugli atti di conferimento dei predetti incarichi
(Cass. civ. Sez. lavoro, sentenza 22.02.2017 n. 4621).
6.2. Tanto premesso,
il Collegio non può esimersi dal ricordare come sia un principio basilare del nostro ordinamento, da tempo unanimemente riconosciuto dalla giurisprudenza contabile, quello in virtù del quale ogni ente pubblico, dallo Stato all'ente locale, deve provvedere ai propri compiti con la propria organizzazione ed il proprio personale.
Detto principio trova in realtà il suo fondamento non solo nel canone costituzionale di buona amministrazione, di cui i principi di efficacia ed economicità dell'azione amministrativa costituiscono attuazione, ma anche nella considerazione che -atteso che ogni ente pubblico ha una sua organizzazione e un suo personale- è con questa organizzazione e con questo personale che l'ente deve attendere alle sue funzioni.
La possibilità di ricorrere a personale esterno è ammessa nei limiti ed alle condizioni in cui la legge la preveda, stante che tutte le forme di esternalizzazione dell'attività pubblica quali le consulenze, le collaborazioni esterne, i contratti a tempo determinato, hanno la comune e generale funzione di acquisire professionalità qualitativamente e quantitativamente assenti nella pubblica amministrazione, oppure quella di sopperire ad esigenze eccezionali ed impreviste, di natura transitoria.
6.3. Tanto premesso,
nel caso di specie, dall’esame della documentazione versata in atti, risulta pacificamente, da un lato, che il Comune di Rosarno ha attivato la procedura di cui all’art. 110, comma 1, del TUEL senza tenere in alcun modo conto della circostanza relativa alla presenza nel proprio organico dei ricorrenti, dipendenti a tempo indeterminato la cui idoneità professionale a ricoprire l’incarico in discorso non è mai stata contestata e, dall’altro, che non ha assolto minimamente all’onere di esplicitare le ragioni per cui si è ritenuto di dover ricorrere alla procedura in discorso.
7. In conclusione, il ricorso deve essere accolto con conseguente annullamento degli atti impugnati.

CONSIGLIERI COMUNALI: Il consigliere comunale può avere le credenziali di accesso a protocollo e sistema contabile dell'ente.
Il diritto di accesso dei consiglieri comunali ex art. 43 cit. del TUEL va oggi necessariamente correlato al progressivo e radicale processo di digitalizzazione dell’organizzazione e dell’attività amministrativa, risultante dal Codice dell’Amministrazione digitale.
Tale disciplina, per quanto di rilievo, impone allo Stato, alle regioni e alle autonomie locali di assicurare "la disponibilità, la gestione, l'accesso, la trasmissione, la conservazione e la fruibilità dell'informazione in modalità digitale", "utilizzando con le modalità più appropriate le tecnologie dell'informazione e della comunicazione" (cfr. art. 2, co. 1), precisando che "i dati delle pubbliche amministrazioni sono formati, raccolti, conservati, resi disponibili e accessibili con l'uso delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione che ne consentano la fruizione e riutilizzazione, alle condizioni fissate dall'ordinamento, da parte delle altre pubbliche amministrazioni e dei privati" (cfr. art. 50, co. 1).
Partendo dalla lettura combinata di tali precisi riferimenti normativi, la più recente giurisprudenza amministrativa è giunta alla condivisibile conclusione per cui l'Amministrazione comunale ha il dovere di dotarsi di una piattaforma integrata di gestione documentale, nell'ambito della quale è inserito anche il protocollo informatico. Corrispondentemente, il consigliere comunale ha il diritto di soddisfare le esigenze conoscitive connesse all’espletamento del suo mandato anche attraverso la modalità informatica, con accesso da remoto.
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Al ricorrente va, dunque, riconosciuto il diritto ad accedere da remoto al protocollo informatico e al sistema informatico contabile dell’Ente, con corrispondente obbligo per il Comune di approntare le necessarie modalità organizzative, sia pure con alcune necessarie limitazioni.
In particolare, al fine di evitare ogni accesso indiscriminato alla totalità dei documenti protocollati, il Collegio è dell’avviso che l’accesso da remoto vada consentito in relazione ai soli dati di sintesi ricavabili dalla consultazione telematica del protocollo, non potendo essere esteso al contenuto della documentazione, la cui acquisizione rimane soggetta alle ordinarie regole in materia di accesso (tra le quali la necessità di richiesta specifica).
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... per l'annullamento della nota del Comune di Vietri di Potenza, prot. 467 del 16/01/2019, di diniego e rifiuto in ordine alla richiesta del 17/12/2018 di rilascio delle credenziali e della password di accesso da remoto al protocollo informatico e al sistema informatico contabile dell'Ente.
...
1. Con il ricorso in epigrafe, spedito per la notificazione in data 09/02/2019, il sig. Ca.Gr., nella sua qualità di consigliere comunale di minoranza del Comune di Vietri di Potenza, ha impugnato il provvedimento comunale, prot. 467 del 16/01/2019, con cui non è stata accolta la sua richiesta, formulata in data 17/12/2018, di rilascio delle credenziali per accesso da remoto al protocollo informatico e al sistema informatico contabile dell’Ente.
1.1. Il provvedimento comunale è motivato in quanto “l’applicativo riferito al protocollo non è ancora funzionante al 100% e pertanto vulnerabile ad eventuali azioni di hacheraggio”.
1.2. Il ricorso è affidato al seguente motivo:
   - Interesse ad agire; Violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 97 costituzione; Violazione e falsa applicazione dell’art. 43 del d.lgs. 267/2000 e degli artt. 22 e ss l. 241/1990; Violazione e falsa applicazione del d.lgs. n. 82 del 07.03.2005; Violazione e falsa applicazione del principio di economicità dell’azione amministrativa; Eccesso di potere per contraddittorietà incongruità, illogicità ed irragionevolezza, carenza di istruttoria e di motivazione-mancato esercizio dell’azione amministrativa. Mancata valutazione degli interessi in gioco - sviamento-carenza assoluta di istruttoria-omessa valutazione dei presupposti giuridici - violazione del giusto procedimento e dell’agire amministrativo-ingiustizia manifesta.
Il provvedimento sarebbe illegittimo in quanto contrastante con l’art. 43 del d.lgs. n. 267/2000 (Testo unico enti locali), che riconosce ai consiglieri comunali e provinciali il “diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del loro mandato”.
Tale diritto dovrebbe essere esercitabile anche con modalità elettroniche, stante quanto disposto dall’art. 2 del d.lgs. n. 82/2005 (Codice dell’Amministrazione digitale), secondo cui “le autonomie locali assicurano la disponibilità, la gestione, l’accesso, la trasmissione, la conservazione e la fruibilità dell’informazione in modalità digitale e si organizzano ed agiscono a tal fine utilizzando con le modalità più appropriate e nel modo più adeguato al soddisfacimento degli interessi degli utenti le tecnologie dell’informazione e della comunicazione”.
In tal senso non sarebbe apprezzabile la giustificazione addotta dal Comune a fondamento del mancato accoglimento della richiesta di accesso da remoto. D’altra parte, la ritenuta esistenza di problemi nell’applicativo sembrerebbe contraddetta dalla circostanza che il medesimo Comune, in data 04/07/2018, avrebbe acconsentito ad analoga richiesta proveniente da altro consigliere comunale.
2. Si è costituito in giudizio il Comune di Vietri di Potenza che resiste all’accoglimento del ricorso in quanto l’Amministrazione si sarebbe limitata a rinviare l’accesso, ma non a negarlo. Inoltre, la richiesta modalità di accesso non sarebbe ammissibile in quanto renderebbe possibile un accesso generalizzato all’attività amministrativa, svincolato dall’esercizio del mandato elettorale.
3. Alla camera di consiglio del 03/07/2019 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
4. Il ricorso è fondato nei sensi di seguito esposti.
Deve ritenersi che il diritto di accesso dei consiglieri comunali ex art. 43 cit. del TUEL, cui è funzionalmente connessa la richiesta del ricorrente, va oggi necessariamente correlato al progressivo e radicale processo di digitalizzazione dell’organizzazione e dell’attività amministrativa, risultante dal Codice dell’Amministrazione digitale.
Tale disciplina, per quanto di rilievo, impone allo Stato, alle regioni e alle autonomie locali di assicurare "la disponibilità, la gestione, l'accesso, la trasmissione, la conservazione e la fruibilità dell'informazione in modalità digitale", "utilizzando con le modalità più appropriate le tecnologie dell'informazione e della comunicazione" (cfr. art. 2, co. 1), precisando che "i dati delle pubbliche amministrazioni sono formati, raccolti, conservati, resi disponibili e accessibili con l'uso delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione che ne consentano la fruizione e riutilizzazione, alle condizioni fissate dall'ordinamento, da parte delle altre pubbliche amministrazioni e dei privati" (cfr. art. 50, co. 1).
Partendo dalla lettura combinata di tali precisi riferimenti normativi, la più recente giurisprudenza amministrativa è giunta alla condivisibile conclusione per cui l'Amministrazione comunale ha il dovere di dotarsi di una piattaforma integrata di gestione documentale, nell'ambito della quale è inserito anche il protocollo informatico. Corrispondentemente, il consigliere comunale ha il diritto di soddisfare le esigenze conoscitive connesse all’espletamento del suo mandato anche attraverso la modalità informatica, con accesso da remoto (cfr. TAR Campania, Salerno, sez. II, 04.04.2019, n. 545; TAR Sardegna, 04.04.2019, n. 317).
Alla luce di tali assunti, va rilevata l’illegittimità della nota impugnata, in quanto recante un sostanziale e ingiustificato diniego alla richiesta ostensiva del ricorrente, in violazione dell’art. 43 TUEL. Invero, l’esigenza conoscitiva del ricorrente è rimasta insoddisfatta sine die e comunque sino al momento di assunzione in decisione del ricorso, malgrado il decorso di diversi mesi dalla sua introduzione, nel corso dei quali l’Amministrazione nulla ha fatto per rimuovere i presunti ostacoli di sicurezza informatica opposti al ricorrente. Questi ultimi, peraltro, soltanto asseriti ma non provati nella loro oggettività e, dunque, non apprezzabili in questa sede.
Né può rilevare, secondo quanto ulteriormente esposto dal Comune, che il provvedimento si è limitato a differire il rilascio delle credenziali, posto che il ritardo nell’approntamento degli eventuali accorgimenti tecnologici (che a tacer d’altro corrispondono all’adempimento di un preciso ed inderogabile dovere legale) non può comunque andare a detrimento del pieno e incondizionato esercizio delle prerogative connesse all’esercizio del mandato elettorale.
D’altra parte, sotto tale profilo, va anche rilevato che, come documentalmente dedotto dal ricorrente e non contestato dal Comune (cfr. art. 64 cod. proc. amm.), il medesimo Ente, in data 04/07/2018, ha acconsentito ad analoga richiesta proveniente da altro consigliere comunale, senza addurre alcun elemento ostativo. Circostanza che depone nel senso dell’inattendibilità della motivazione addotta a fondamento della nota comunale.
Al ricorrente va, dunque, riconosciuto il diritto ad accedere da remoto al protocollo informatico e al sistema informatico contabile dell’Ente, con corrispondente obbligo per il Comune di approntare le necessarie modalità organizzative, sia pure con alcune necessarie limitazioni.
In particolare, al fine di evitare ogni accesso indiscriminato alla totalità dei documenti protocollati, il Collegio è dell’avviso che l’accesso da remoto vada consentito in relazione ai soli dati di sintesi ricavabili dalla consultazione telematica del protocollo, non potendo essere esteso al contenuto della documentazione, la cui acquisizione rimane soggetta alle ordinarie regole in materia di accesso (tra le quali la necessità di richiesta specifica).
5. In conclusione, il ricorso deve essere accolto e, per l’effetto, va annullata la nota comunale impugnata e va ordinato al Comune di Vietri di Potenza di apprestare, entro il termine di sessanta giorni decorrente dalla pubblicazione o dalla comunicazione in via amministrativa della presente sentenza, le modalità organizzative per il rilascio in favore del consigliere comunale ricorrente di credenziali per l'accesso da remoto al protocollo informatico e al sistema informatico contabile dell’Ente, ferme restando le limitazione dianzi esplicitate (TAR Basilicata, sentenza 10.07.2019 n. 599 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Presidente non revocabile. Decide la maggioranza, non il capogruppo. Sulla disciplina delle commissioni lo statuto rinvia al regolamento dell’ente
Può essere revocato il presidente di una delle commissioni permanenti in virtù di una mera comunicazione effettuata dal proprio capogruppo al presidente del consiglio comunale?

L'articolo 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000 demanda allo statuto l'istituzione facoltativa delle commissioni consiliari, con il solo vincolo del rispetto del criterio proporzionale nella loro composizione. I poteri, l'organizzazione e le forme di pubblicità dei lavori sono demandati al regolamento.
Lo statuto di un ente dispone che i presidenti delle commissioni consiliari permanenti sono eletti fra i componenti di ciascuna commissione con il voto della maggioranza dei suoi componenti e cessano dalla carica per dimissioni o perché lo richiede almeno la maggioranza dei consiglieri componenti, rinviando al regolamento la disciplina del numero delle commissioni, la loro composizione, i poteri, l'organizzazione e tutto ciò che attiene al loro funzionamento.
Il regolamento comunale prevede che le commissioni sono composte mediante designazione da parte dei gruppi consiliari con proposta scritta di ciascun presidente del gruppo al presidente del consiglio.
Con una espressione difforme dalla previsione statutaria, viene stabilito che «il presidente del consiglio, preso atto della costituzione delle commissioni procede alla elezione dei presidenti delle commissioni mediante votazione palese scegliendoli, per ciascuna commissione tra i componenti della stessa».
Il decreto legislativo n. 267/2000 non prevede espressamente la possibilità di revocare il presidente del consiglio. Per quanto concerne la tematica della ammissibilità della revoca del presidente del consiglio o del presidente della commissione consiliare, entrambe figure di garanzia, in carenza di una specifica previsione statutaria, si registrano posizioni contrastanti in giurisprudenza. In alcune pronunce si tende ad affermarne l'illegittimità, mentre, in altre, l'assenza nelle norme statutarie di una specifica disciplina della revoca «non ne inibisce di per sé la possibilità di ricorrervi» (Tar Lazio n. 8881/2008).
Lo statuto comunale, oltre a disciplinare le modalità di elezione dei presidenti, fornisce anche chiare indicazioni in ordine alla loro cessazione dalla carica, è a queste che, occorre attenersi.
Pertanto, fatte salve le dimissioni volontarie dell'interessato, solo la maggioranza della commissione può deliberarne la sostituzione con altro componente della medesima commissione, essendo invero limitata l'attività dei capigruppo consiliari alla mera indicazione dei componenti delle commissioni su designazione dei gruppi di appartenenza, i quali, tuttavia, ai sensi del regolamento possono, comunque, sostituire i propri rappresentanti all'interno delle commissioni (articolo ItaliaOggi del 05.07.2019).

CONSIGLIERI COMUNALI: La pubblicazione della relazione di fine mandato.
Domanda
Siamo un ente di circa 10mila abitanti e, in prossimità della scadenza del mandato, desideriamo conoscere anticipatamente cosa prevede la legge in merito alla redazione e pubblicazione della Relazione di fine mandato. Potreste cortesemente sintetizzarci le disposizioni in materia, comprese le eventuali sanzioni relative?
Risposta
La relazione di fine mandato è sottoposta a precisi vincoli procedurali, previsti dall’articolo 4 del decreto legislativo n. 149/2011. I soggetti interessati sono:
   a) il responsabile del servizio finanziario, che si occupa del la redazione o il segretario comunale in sua vece
   b) il sindaco, che la deve sottoscrivere;
   c) l’organo di revisione che la certifica.
Il termine per l’adempimento è fissato al sessantesimo giorno antecedente la data di scadenza del mandato.
Entro e non oltre quindici giorni dalla sottoscrizione, la relazione deve essere certificata dall’organo di revisione dell’ente locale, che ha il compito di attestare la veridicità dei contenuti e la loro corrispondenza con i documenti contabili e di programmazione finanziaria dell’ente.
Entro i tre giorni successivi, il sindaco, deve trasmettere la relazione e la certificazione dell’organo di controllo, alla sezione regionale di controllo della Corte dei Conti.
Entro i sette giorni successivi alla certificazione, l’ultimo obbligo riguarda la pubblicazione sul sito istituzionale –queste le precise indicazioni della norma– con evidenza della data di trasmissione alla sezione regionale di controllo della Corte dei Conti.
Non viene specificato dove la relazione debba essere pubblicata. Non dice nulla al riguardo neppure il decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33/2013, in materia di obblighi di trasparenza e pubblicazione.
Nel silenzio della norma, si ritiene opportuno che la relazione venga pubblicata all’interno della sezione ‘Amministrazione trasparente’ del sito web istituzionale > sotto sezione ‘Organizzazione’ > ‘Organi di indirizzo politico-amministrativo’.
È, inoltre, consigliabile prevedere la pubblicazione della relazione di fine mandato anche all’interno della home page del sito, con la finalità di garantire maggiormente l’esercizio effettivo del controllo democratico del cittadino, secondo le indicazioni dei giudici contabili.
La tempistica delle scadenze è rimarcato anche dalle conseguenze sanzionatorie di carattere pecuniario, che accompagnano il mancato rispetto dell’obbligo di redazione e di pubblicazione nel sito dell’ente della relazione di fine mandato.
Le sanzioni previste consistono nel dimezzamento, per i tre mesi successivi, delle indennità del sindaco. La decurtazione si estende, nel solo caso di mancata predisposizione della relazione, al responsabile finanziario o al segretario comunale, che non l’hanno predisposta.
La norma richiede, inoltre, che il sindaco dia notizia della mancata pubblicazione della relazione, motivandone le ragioni, nella pagina principale del sito istituzionale dell’ente.
Sull’argomento può essere opportuno, consultare la deliberazione n. 15/2019/VSG del 23.01.2019 (Corte dei Conti – sezione regionale di controllo per la Campania), con la quale sono stati trasmessi alla Procura contabile competente, gli atti inerenti al mancato invio della relazione di fine mandato, da parte di un ente coinvolto nel rinnovo del consiglio comunale.
In particolare, si evidenzia che la Corte dei Conti, nel disporre l’irrogazione delle conseguenti sanzioni, precisa che esse sono, in ogni caso, di esclusiva spettanza dell’ente locale, dovendo essere attuate dagli uffici appositamente preposti alla liquidazione delle competenze (02.07.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

giugno 2019

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Il presidente non fa cambi.
Si può prevedere una norma regolamentare che conferisca al presidente del consiglio comunale il potere di sostituire i consiglieri nell'ambito delle commissioni consiliari?

La proposta di modifica di un comune del regolamento sulle commissioni consiliari prevede che ogni consigliere dovrebbe essere rappresentato in almeno due commissioni. Ove tale obiettivo non si realizzi, si prevede che sia il presidente del consiglio comunale, sentita la conferenza dei capigruppo e il gruppo interessato, ad effettuare le sostituzioni rispettando il criterio della rappresentanza proporzionale tra minoranza e maggioranza, privilegiando le sostituzioni nell'ambito del medesimo gruppo o, in caso di impossibilità, operando le relative sostituzioni nell'ambito dello stesso schieramento.
Al riguardo, si osserva che, come noto, le commissioni consiliari previste dall'articolo 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000, una volta istituite sulla base di una facoltativa previsione statutaria, sono disciplinate dal regolamento comunale con l'unico limite, posto dal legislatore, riguardante il rispetto del criterio proporzionale nella composizione.
Ciò significa che le forze politiche presenti in consiglio debbano essere il più possibile rispecchiate anche nelle commissioni, in modo che in ciascuna di esse sia riprodotto il loro peso numerico e di voto. Quanto al rispetto del criterio proporzionale previsto dal citato articolo 38, comma 6, il legislatore non precisa come lo stesso debba essere declinato in concreto. Il regolamento, a cui sono demandate la determinazione dei poteri delle commissioni, nonché la disciplina dell'organizzazione e delle forme di pubblicità dei lavori, dovrebbe stabilire anche i meccanismi idonei a garantirne il rispetto.
Con riferimento allo specifico caso, non si rinvengono criticità circa la previsione concernente la partecipazione di ogni consigliere in almeno due commissioni, mentre desta perplessità la parte della proposta di modifica regolamentare che conferisce al presidente il potere di nominare i commissari effettuando le relative sostituzioni. Tale modifica, infatti, non sembra coerente con il principio elettivo che regola le commissioni consiliari.
In virtù di tale modifica la stessa commissione potrebbe essere partecipata da commissari eletti dal consiglio comunale e da commissari designati quali sostituti in virtù di un atto adottato da un organo monocratico (articolo ItaliaOggi del 28.06.2019).

CONSIGLIERI COMUNALI: Incompatibilità di un amministratore comunale presidente di un’associazione che riceve dal Comune un contributo sulla base di una convenzione stipulata per la gestione di servizi scolastici.
Sussiste la causa di incompatibilità di cui all’art. 63, comma 1, punto 2), prima parte, del D. Lgs. 267/2000 per un consigliere comunale che riveste la carica di presidente di una associazione di solidarietà familiare che organizza servizi didattico/educativi nell’ambito di un progetto al quale compartecipa finanziariamente il Comune stesso.
Il Comune chiede di valutare se sussista la causa di incompatibilità disciplinata dall’art. 63, comma 1, punto 2), del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 per un consigliere comunale che riveste la carica di presidente di una associazione di solidarietà familiare costituita per favorire l’organizzazione di servizi a sostegno dei compiti familiari educativi e di cura.
Tra il Comune e l’associazione esiste una convenzione che disciplina lo svolgimento di attività integrative di sostegno scolastico/educativo da parte di quest’ultima e l’uso dei locali di proprietà comunale; il Comune compartecipa finanziariamente al progetto didattico-educativo presentato dall’associazione, a titolo di rimborso spese e tenuto conto delle disponibilità di bilancio dell’Ente, previa rendicontazione delle spese sostenute. Il progetto viene gestito attraverso un accordo di partenariato fra il Comune e l’associazione ed è inserito nell’ambito degli interventi previsti dalla deliberazione della Giunta regionale n. 2386 del 14.12.2018, la cui attuazione è stata delegata all’Azienda per l’Assistenza Sanitaria del territorio.
Per l’esame della fattispecie segnalata vengono in rilievo sia l’ipotesi di incompatibilità statuita dall’art. 63, comma 1, n. 1), seconda parte, sia quella di cui al successivo n. 2), prima parte, del d.lgs. 267/2000.
La prima norma citata prevede che non possa ricoprire la carica di consigliere comunale l’amministratore di ente, istituto o azienda che riceva dal comune, in via continuativa, una sovvenzione in tutto o in parte facoltativa, quando la parte facoltativa superi nell’anno il dieci per cento del totale delle entrate dell’ente.
Per quanto concerne il requisito soggettivo, affinché venga in rilievo la causa di incompatibilità, il consigliere comunale deve rivestire all’interno dell’associazione il ruolo di amministratore, ovvero di persona che possiede poteri di gestione e/o decisione all’interno dell’ente; nel caso di specie, la qualità di amministratore del presidente è indubbia, poiché lo stesso Statuto dell’associazione prevede all’art. 21 che “Il Presidente agisce in nome e per conto dell’Associazione e ha la firma sociale”. Per quanto concerne poi il termine “ente”, esso va inteso in senso lato e comprende anche gli organismi, come l’associazione in argomento, privi di personalità giuridica.
[1]
Per quanto concerne il concetto di “sovvenzione”, questa deve consistere in un’erogazione continuativa a titolo gratuito, volta a consentire all’ente sovvenzionato di raggiungere, con l’integrazione del proprio bilancio, le finalità in vista delle quali è stato costituito. La legge richiede che la sovvenzione debba possedere complessivamente tre caratteri: la continuità, nel senso che la sua erogazione non deve essere una tantum o occasionale, la notevole consistenza, ovvero il suo apporto deve essere superiore al dieci per cento delle entrate annuali dell’ente e la facoltatività (in tutto o in parte), nel senso che non deve derivare da un obbligo di legge o convenzionale.
[2] Infine, la dottrina ha sottolineato come il concetto di sovvenzione si diversifica dal concetto di “corrispettivo”, per cui non si ha sovvenzione nel caso in cui la somma corrisposta avvenga in relazione a prestazioni svolte in favore dell’ente. [3]
Nel caso di specie, tenuto conto del fatto che le sovvenzioni che l’associazione riceve dal Comune sono dovute in forza della convenzione e dell’accordo di partenariato sottoscritti fra i due soggetti nei termini indicati in premessa e che le stesse sono frutto di un corrispettivo che il Comune riconosce all’associazione per lo svolgimento di una serie di attività di carattere didattico, educativo e di aggregazione sociale, si ritiene che non sussistano gli elementi richiesti per il concretizzarsi della fattispecie di incompatibilità di cui all’art. 63, comma 1, n. 1), seconda parte, del TUEL.
Come anticipato, potrebbe venire in rilievo anche la causa di incompatibilità disciplinata dal successivo n. 2), prima parte, del medesimo comma 1 dell’art. 63 del TUEL.
Ai sensi della citata norma, non può rivestire la carica di consigliere comunale colui che, come amministratore, ha parte, direttamente o indirettamente, in servizi, somministrazioni o appalti, nell’interesse del comune. Sulla presenza del requisito soggettivo nella fattispecie in esame si è già detto in relazione alla precedente causa esaminata; per completezza, si segnala ora che l’assenza di finalità di lucro nell’associazione non è sufficiente ad escludere la sussistenza dell’ipotesi di incompatibilità, atteso che il comma 2 dell’art. 63 del TUEL ha escluso l’applicazione della suddetta ipotesi solo per coloro che hanno parte in cooperative o consorzi di cooperative iscritte regolarmente nei pubblici registri.
[4]
Nel merito, si rappresenta che la ratio della causa di incompatibilità in esame (annoverabile tra le cosiddette “incompatibilità di interessi”) consiste nell'impedire che possano concorrere all'esercizio delle funzioni dei consigli comunali soggetti portatori di interessi confliggenti con quelli del comune o i quali comunque si trovino in condizioni che ne possano compromettere l'imparzialità.
[5]
La formulazione assai ampia della disposizione in esame ("servizi nell'interesse del comune") è giustificata proprio dalla menzionata ratio: il legislatore, infatti, intende comprendere in essa, nel modo più ampio possibile, tutte le ipotesi, in cui la "partecipazione" in servizi imputabili al comune e, per ciò stesso, di interesse generale, possa dar luogo, nell'esercizio della carica del "partecipante", eletto amministratore locale, ad un conflitto tra interesse particolare di questo soggetto e quello generale dell'ente locale.
[6]
Ne discende che la nozione di partecipazione deve assumere un significato il più possibile esteso e flessibile, al fine di potervi ricomprendere forme di partecipazione eterogenee e che è irrilevante la natura, pubblicistica o privatistica, dello strumento prescelto dall’ente locale per la realizzazione delle proprie finalità istituzionali.
[7]
Dalla lettura della convenzione e dell’accordo di partenariato, si evince che le attività poste in essere dall’associazione si concretizzano nell’organizzazione di diversi servizi nell’ambito didattico ed educativo, quali quello di doposcuola per gli alunni della scuola primaria e secondaria di primo grado, la creazione e gestione della “sezione primavera” della scuola dell’infanzia, la predisposizione del servizio mensa per tutti gli alunni, dei servizi di accompagnamento degli alunni sullo scuolabus e dell’accoglienza/postaccoglienza scolastica, nonché l’organizzazione e la gestione di centri estivi in favore di bambini e ragazzi.
Occorre pertanto valutare in concreto se l’associazione, attraverso le attività educative e ricreative sopra elencate, svolga un servizio nell’interesse dell’Amministrazione comunale, atteso che dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere che qualsiasi attività che venga svolta a favore dell’ente nell’ambito delle competenze istituzionali attribuite a quest’ultimo e mediante l’esercizio dei poteri normativi ed amministrativi conferitigli, appare idonea a concretizzare l’incompatibilità.
[8]
A parere dello scrivente, non vi è dubbio che i servizi educativi e ricreativi gestiti dall’associazione rientrino tra i fini istituzionali del Comune e siano svolti nell’interesse dello stesso; un tanto è anche sancito nella convenzione quale presupposto per la partecipazione finanziaria dell’Ente al progetto dell’associazione, laddove si riconosce l’importanza e l’utilità sociale delle attività erogate in favore della comunità ed in particolar modo dei minori (art. 14 della convenzione).
Per i motivi sopraesposti, si ritiene che la posizione dell’amministratore possa essere riconducibile alla causa di incompatibilità di cui alla prima parte del punto 2) del comma 1 dell’art. 63 del D.Lgs. 267/2000.
A tale proposito, si ricorda che la valutazione della concreta sussistenza dell'incompatibilità è rimessa al consiglio comunale, in conformità al generale principio per cui ogni organo collegiale è competente a deliberare sulla regolarità dei titoli di appartenenza dei propri componenti, mediante l’attivazione della procedura prevista dall'art. 69 del TUEL, che garantisce il contraddittorio tra organo ed amministratore, assicurando a quest'ultimo l'esercizio del diritto di difesa e la possibilità di rimuovere entro un congruo termine la causa di incompatibilità contestata.
[9]
---------------
[1] In tal senso si sono espresse sia la dottrina (cfr., tra gli altri, Maggiora, Ineleggibilità, incompatibilità, incandidabilità nell’ente locale, Giuffrè, 2000) che la giurisprudenza (cfr. Corte di Cassazione, sentenza n. 2068 del 22.06.1972).
[2] Si sottolinea che il carattere della facoltatività viene interpretato dal Ministero dell’interno in modo più restrittivo, per cui, a giudizio del dicastero, la sovvenzione è facoltativa nel senso e nei limiti in cui non trovi origine in un obbligo stabilito dalla legge. Per una trattazione completa ed esaustiva del concetto di sovvenzione ed, in generale, della causa di incompatibilità in esame, si vedano i pareri dello scrivente Servizio prot. n. 11420 del 27.07.2015 e n. 33168 del 31.12.2014.
[3] Cfr. Pinto – D’Alfonso, Incandidabilità, ineleggibilità, incompatibilità e status degli amministratori locali, Maggioli, 2003, pagg. 195 e seguenti.
[4] Cfr. parere Ministero dell’interno 11.01.2011, consultabile cliccando qui.
[5] Cfr. Corte Costituzionale, sentenze n. 44 del 1997, n. 450 del 2000 e n. 220 del 2003.
[6] Cfr. Cassazione Civile, Sez. I, sentenza n. 550 del 16.01.2004.
[7] Cfr. pareri Ministero dell’interno 11.11.2014 e 12.03.2010.
[8] Cfr. Pinto – D’Alfonso, opera citata nella nota 3 e Cassazione civile, n. 550/2004.
[9] Cfr. Corte di Cassazione Civile, Sez. I, sentenza n. 12529 del 12.11.1999 e n. 12809 del 10.07.2004
(27.06.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALIIncompatibilità tra carica di assessore e consigliere per padre e figlio.
Domanda
A seguito delle elezioni comunali del 26.05.2019 è risultato eletto un consigliere comunale. Il sindaco, costituendo la Giunta, ha nominato assessore esterno il padre del consigliere.
Si determina il caso di conflitto d’interesse tra consigliere ed assessore? Chi dei due deve lasciare la carica?
Risposta
Il caso in esame –a prescindere da ragioni di opportunità che saranno state valutate, si immagina, dal sindaco prima di procedere alle nomine– non comporta nessuna causa di incompatibilità o situazione di conflitto d’interesse, né per il consigliere comunale (figlio), né per il padre (assessore esterno).
Le norme a cui occorre fare riferimento per l’esame della situazione sono le seguenti:
   • articoli da 63 a 67 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, recante: “Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali";
   • Capo IV (articoli da 10 a 12) del decreto legislativo 31.12.2012, n. 235, recante “Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 06.11.2012, n. 190”;
   • articolo 1, comma 42, della legge 06.11.2012, n. 190;
   • articoli 46, comma 2 e 47, del TUEL 267/2000;
   • articolo 1, comma 137, della legge 07.04.2014, n. 56 (25.06.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Convocazioni, atti dovuti. Insindacabili dal presidente del consiglio. Spetta all’assemblea decidere sull’ammissibilità degli argomenti.
Può il presidente del consiglio negare la convocazione dell'assemblea richiesta da un quinto dei consiglieri ai sensi dell'art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 perché l'argomento oggetto della richiesta era stato già esaminato in altra seduta consiliare?
L'articolo 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 prevede l'obbligo di convocazione del consiglio, con inserimento nell'ordine del giorno delle questioni proposte, quando venga richiesto, tra gli altri, da un quinto dei consiglieri.
La giurisprudenza prevalente in materia si è da tempo espressa affermando che, in caso di richiesta di convocazione del consiglio da parte di un quinto dei consiglieri, «al presidente del consiglio comunale spetta soltanto la verifica formale che la richiesta provenga dal prescritto numero di soggetti legittimati, mentre non può sindacarne l'oggetto, poiché spetta allo stesso consiglio nella sua totalità la verifica circa la legalità della convocazione e l'ammissibilità delle questioni da trattare, salvo che non si tratti di oggetto che, in quanto illecito, impossibile o per legge manifestamente estraneo alle competenze dell'assemblea in nessun caso potrebbe essere posto all'ordine del giorno» (si veda, in particolare, Tar Piemonte, sez. Il, 24.04.1996, n. 268).
Nel caso specifico, ai sensi dell'art. 39, comma 1, del regolamento sul funzionamento del consiglio comunale è previsto che l'assemblea possa pronunciarsi sull'eventuale richiesta di ritiro di un argomento all'ordine del giorno (c.d. «questione pregiudiziale»).
Ciò posto, il presidente del consiglio è tenuto ad attenersi alla vigente disciplina regolamentare, spettando al potere sovrano dell'assemblea decidere, in via pregiudiziale, sull'ammissibilità della discussione degli argomenti inseriti nell'ordine del giorno
(articolo ItaliaOggi del 21.06.2019).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Cause di inconferibilità per incarico ex art. 110, comma 1, del tuel 267/2000.
Domanda
Dopo le elezioni amministrative del 26.05.2019, il nostro sindaco (confermato) intende avviare una procedura pubblica finalizzata alla copertura di un posto di responsabile apicale di area –con posizione organizzativa, in ente senza dirigenza– ai sensi dell’articolo 110, comma 1, del TUEL. Tra i “papabili” figura un ex assessore che ha terminato il proprio mandato il 26/05/2019. Il comune ha meno di 15.000 abitanti.
Come ci dobbiamo comportare se l’ex assessore partecipa alla procedura? Lo dobbiamo ammettere?
Risposta
Il riferimento normativo in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi dirigenziali presso le pubbliche amministrazioni (compresi i comuni), va rinvenuto nel decreto legislativo 08.04.2013, n. 39.
In particolare, va evidenziato che l’articolo 2, comma 2, del citato decreto prevede che le norme si applicano, negli enti locali, anche al conferimento di incarichi dirigenziali a personale non dirigenziale, come in effetti accade nei comuni, nei comuni privi di figure dirigenziali, con i titolari di posizione organizzativa, a cui il sindaco conferisce le funzioni dirigenziali, ai sensi degli articoli 50, comma 10 e 109, comma 2, del Testo Unico Enti Locali.
Venendo allo specifico quesito, si ritiene che le cause di inconferibilità, non siano rinvenibili, nel caso segnalato, dal momento che il vostro comune ha meno di 15.000 abitanti.
L’articolo 7, comma 2, lettera b) –che richiama la precedente lettera a)– prevede, infatti, una causa di inconferibilità per i componenti dei consigli o delle giunte (fissata in uno o due anni), ma solamente per gli incarichi dirigenziali nei comuni sopra 15.000 abitanti.
In tali enti (ma solo in quelli) si deve rispettare quello che alcuni commentatori hanno definito il “periodo di raffreddamento”, intendendo per esso un lasso temporale che non comporta un’esclusione permanente dal conferimento dell’incarico dirigenziale, ma solo di natura temporanea.
La normativa, in pratica, vuol impedire che un soggetto che si trovi in una posizione tale da compromettere l’imparzialità, acceda all’incarico senza soluzione di continuità. È necessario un periodo di raffreddamento, utile a garantire la condizione di imparzialità all’incarico (18.06.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Gruppi, niente espulsioni. Non sono configurabili come organi di partito. E per questo non hanno potestà vincolante verso i componenti.
È ammessa l'espulsione di un consigliere da parte del gruppo consiliare di appartenenza per insanabili divergenze politiche?

In linea generale si osserva che il rapporto tra il candidato eletto e il partito di appartenenza «non esercita influenza giuridicamente rilevabile, attesa la mancanza di rapporto di mandato e la assoluta autonomia politica dei rappresentanti del consiglio comunale e degli organi collegiali in generale rispetto alla lista o partito che li ha candidati» (Tar Puglia, sez. di Bari sentenza n. 506 del 2005). Ne consegue che all'interno del consiglio i gruppi non sono configurabili quali organi dei partiti e, pertanto, non sembra sussistere in capo a questi ultimi una potestà direttamente vincolante sia per un membro del gruppo di riferimento, sia per gli organi assembleari dell'ente.
La sentenza n. 16240/2004 con la quale il Tar Lazio ha precisato che i gruppi consiliari hanno una duplice natura; essi rappresentano, per un verso, la proiezione dei partiti all'interno delle assemblee, e, per altro verso, costituiscono parte dell'ordinamento assembleare, in quanto articolazioni interne di un organo istituzionale.
Nella citata pronuncia, si legge che «è dunque possibile distinguere due piani di attività dei gruppi: uno, più strettamente politico, che concerne il rapporto del singolo gruppo con il partito politico di riferimento, l'altro, gravitante nell'ambito pubblicistico, in relazione al quale i gruppi costituiscono strumenti necessari per lo svolgimento delle funzioni proprie degli organi assembleari, contribuendo ad assicurare l'elaborazione di proposte e il confronto dialettico tra le diverse posizioni politiche e programmatiche (cfr. Cass. civ, Sez. un., 19.02.2004, n. 3335; C.S., IV, 02.10.1992, n. 932; Corte cost. 12.04.1990, n. 187)».
Per quanto riguarda la questione rappresentata si evidenzia che il nostro ordinamento «si preoccupa di assicurare un metodo di organizzazione democratica dei gruppi (in linea con quanto previsto dall'art. 49 Cost. relativamente ai partiti politici), ma non intende in alcun modo condizionarne la vita e le dinamiche interne. In altre parole, il concreto funzionamento e la gestione dei gruppi (parlamentari, regionali, consiliari), diventano rilevanti per l'ordinamento solo quando questi ultimi interferiscano con lo svolgimento delle funzioni proprie delle assemblee» (Tar per il Lazio ul. cit). L'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/00 demanda al regolamento, «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto», la disciplina del funzionamento dei consigli; pertanto, le problematiche relative alla costituzione e al funzionamento dei gruppi consiliari devono essere valutate alla stregua delle specifiche norme statutarie e regolamentari di cui l'ente locale si è dotato.
Dalla lettura del regolamento sul funzionamento del consiglio comunale si rileva una disciplina dettagliata per quanto riguarda il passaggio da un gruppo ad un altro, con il presupposto indefettibile dell'accettazione da parte del gruppo cui il consigliere chiede di aderire. Nell'ambito della suddetta fonte regolamentare, invece, non sembra potersi rinvenire una specifica normativa che preveda l'ipotesi della espulsione di un consigliere dal proprio gruppo di appartenenza originario.
Nello stesso regolamento è previsto, altresì, che il gruppo monopersonale sia ammesso unicamente nella ipotesi in cui sia risultato eletto un solo consigliere nell'ambito della corrispondente lista elettorale. Attesa la surriferita disposizione, è stato chiesto se sia consentito agli altri consiglieri di formare un nuovo gruppo consiliare lasciando il consigliere indesiderato quale unico componente del gruppo originariamente costituito. Tale opzione sembrerebbe percorribile in quanto l'enunciato della disposizione preclusiva della costituzione del gruppo monopersonale non sembra impedire ad un consigliere la possibilità di permanere nel gruppo che, pur originariamente costituito da più membri, si sia ridotto ad un unico componente, nel corso della consiliatura.
Tanto premesso, nel ribadire che la materia dei «gruppi consiliari» è interamente demandata allo statuto ed al regolamento sul funzionamento del consiglio, è in tale ambito che dovrebbero trovare adeguata soluzione le relative problematiche applicative.
Spetta, infatti, alle decisioni del consiglio comunale, oltre che trovare soluzioni per le singole questioni, valutare l'opportunità di indicare, con apposita modifica regolamentare, anche le ipotesi in argomento, al fine di assicurare il regolare funzionamento dei gruppi e l'ordinato svolgimento delle funzioni proprie dell'assemblea consiliare (articolo ItaliaOggi del 14.06.2019).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Il presidente è revocabile. Ma solo se smette di agire in modo neutrale. Nel contrasto tra statuto e regolamento prevale sempre il primo.
Si può prevedere nel regolamento sul funzionamento del consiglio comunale la revoca del presidente del consiglio? Il presidente del consiglio può essere revocato con una maggioranza diversa da quella necessaria per la sua elezione? Quale disposizione deve essere applicata in caso di contrasto tra una norma statutaria e una regolamentare con riferimento alla disciplina delle commissioni consiliari?
Il presidente del consiglio, è previsto dall'art. 39 del decreto legislativo n. 267/2000 che rende obbligatoria la figura in parola nei comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti, mentre per i comuni con popolazione inferiore alla predetta soglia ne è demandata la facoltà alla previsione statutaria.
Lo statuto di un comune in prima votazione richiede la maggioranza dei 2/3 dei consiglieri assegnati, computando anche il sindaco, al fine dell'elezione del presidente del consiglio. In seconda votazione, da effettuarsi nella stesa seduta, prevede la maggioranza assoluta dei voti dei consiglieri assegnati, computando anche il sindaco.
Il regolamento modificato, prevede la revoca a seguito di mozione di sfiducia che può essere presentata solo dopo l'accertamento di gravi mancanze nella corretta conduzione del proprio ruolo istituzionale.
Ciò posto, come ritenuto, tra gli altri, dal Tar Puglia–Lecce, con sentenza n. 528/2014, «la giurisprudenza ha chiarito che la figura del presidente del consiglio è posta a garanzia del corretto funzionamento di detto organo e della corretta dialettica tra maggioranza e minoranza, per cui la revoca non può essere causata che dal cattivo esercizio della funzione, in quanto ne sia viziata la neutralità e deve essere motivata perciò con esclusivo riferimento a tale parametro e non a un rapporto di fiducia (conforme, Consiglio di stato, sez. V, 26.11.2013, n. 5605)».
In merito alla specifica tematica sollevata, concordando sulla necessità dell'osservanza del rispetto della gerarchia delle fonti, conformemente anche all'articolo 7 del decreto legislativo n. 267/2000, che disciplina l'adozione dei regolamenti comunali «nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dallo statuto» (cfr. sentenza Tar Lombardia, Brescia, n. 2625 del 28.12.2009) non sembra tuttavia evidente alcun contrasto della citata disposizione regolamentare con il vigente statuto in ordine alle maggioranze richieste.
In ogni caso, così come affermato dal Consiglio di stato con la sentenza n. 2678 del 05.06.2017 «è sufficiente osservare che è la stessa natura e delicatezza delle funzioni di presidente del consiglio comunale, ad escludere logicamente la configurabilità della irrevocabilità della funzione, ciò anche a prescindere dalla considerazione che, secondo i principi generali, il potere di adottare un atto implica di per sé il potere di emettere anche il contrarius actus, salvo che ciò sia espressamente escluso da una specifica disposizione normativa che nel caso di specie non si riscontra».
Riguardo le commissioni consiliari si rileva che l'articolo 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000 demanda allo statuto la loro istituzione facoltativa con il solo vincolo del rispetto del criterio proporzionale nella loro composizione. I poteri, l'organizzazione e le forme di pubblicità dei lavori sono demandati al regolamento. Il citato art. 38, al comma 2, nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto, prevede, altresì, altri contenuti obbligatori del citato regolamento (modalità per la convocazione e per la presentazione e la discussione delle proposte, l'indicazione del numero dei consiglieri necessari per la validità della seduta – con il vincolo della presenza di almeno un terzo dei componenti assegnati).
Con norma regolamentare, ai sensi del comma 3 del citato art. 38, sono fissate le modalità per fornire ai consigli, servizi, attrezzature e risorse finanziare ed è disciplinata la gestione delle risorse attribuite per il loro funzionamento e per quello dei gruppi consiliari, mentre per i comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti è data facoltà di previsione di apposite strutture per il funzionamento del consiglio.
Ciò premesso, si ritiene che, qualora sussista un contrasto tra le norme statutarie e le norme regolamentari è alle prime che occorre fare riferimento, mentre l'eventuale assenza di una disciplina regolamentare degli istituti sopra citati, potendo comportare delle disfunzioni nel corretto funzionamento degli organi, dovrebbe comunque essere colmata dall'ente
(articolo ItaliaOggi del 07.06.2019).

CONSIGLIERI COMUNALIIncompatibilità di un amministratore locale.
Non sussiste alcuna causa di incompatibilità per un consigliere comunale che svolge la propria attività di lavoratore dipendente presso altro comune, qualora i due enti locali (unitamente ad altri comuni) abbiano in essere diverse convenzioni per la gestione in forma associata delle proprie funzioni e servizi. Ciò anche qualora l’indicato consigliere comunale venisse nominato assessore presso il medesimo comune.
Il Comune chiede un parere in merito all’esistenza di eventuali cause di incompatibilità per un consigliere comunale che svolge la propria attività di lavoratore dipendente, non titolare di posizione organizzativa, presso altro comune, considerato che i due enti locali (unitamente ad altri Comuni) hanno in essere diverse convenzioni per la gestione in forma associata delle proprie funzioni e servizi. Ciò specie qualora l’indicato consigliere comunale venisse nominato assessore presso il medesimo comune.
In via preliminare si ricorda che le cause di incompatibilità degli amministratori locali, in quanto limitative del diritto di elettorato passivo garantito dall’articolo 51 della Costituzione, hanno carattere tassativo e non possono quindi essere applicate a situazioni non espressamente previste.
Ciò premesso si ritiene che la fattispecie prospettata non integri alcuna causa di incompatibilità prevista dalla legge
[1].
In particolare, la norma che potrebbe in astratto venire in rilievo è l’articolo 60, comma 1, num. 7), in combinato disposto con l’articolo 63, comma 1, num. 7), del D.Lgs. 267/2000, la quale prevede una situazione di ineleggibilità/incompatibilità tra l’essere dipendente di un comune ed il rivestire la carica di consigliere comunale del medesimo comune. Nel caso in esame l’amministratore locale è dipendente giuridicamente di altro comune rispetto a quello presso il quale svolge il proprio mandato elettivo.
Né ha rilievo per l’eventuale insorgenza della causa di incompatibilità il fatto che tra i Comuni interessati sussistano delle convenzioni per l’esercizio associato delle funzioni comunali: si osserva, infatti, che ai fini della sussistenza della indicata causa di incompatibilità ciò che conta è esclusivamente il rapporto di dipendenza giuridica non rilevando il fatto che l’effettiva attività svolta possa essere resa anche nell’interesse del comune presso cui svolge il proprio mandato elettivo.
Si ricorda, altresì, al riguardo, che la convenzione è una forma collaborativa tra enti locali la quale è inidonea a far sorgere entità distinte ed autonome rispetto ai comuni che si associano. Ciò anche qualora il testo convenzionale preveda l’istituzione di uffici comuni ai quali affidare l’esercizio delle funzioni pubbliche in luogo degli enti partecipanti all’accordo, i quali possono definirsi come articolazioni interne, prive di personalità giuridica.
Tali conclusioni non mutano anche qualora l’indicato consigliere comunale venisse nominato assessore dal proprio sindaco. Non è dato, infatti, ravvisare, con riferimento alla fattispecie in riferimento, l’esistenza di cause di incompatibilità ulteriori valevoli per i soli assessori comunali.
Per questi ultimi il legislatore statale ha, invece, dettato una previsione specifica all’articolo 78, comma 3, TUEL il quale recita: “I componenti la giunta comunale competenti in materia di urbanistica, di edilizia e di lavori pubblici devono astenersi dall’esercitare attività professionale in materia di edilizia privata e pubblica nel territorio da essi amministrato”.
La norma disciplina la particolare situazione in cui potrebbe venire a trovarsi un assessore comunale al quale venga conferita la delega in materia di edilizia, urbanistica e lavori pubblici e che, al contempo, svolga la propria attività professionale nel medesimo territorio da esso amministrato e relativamente allo stesso ambito di materia cui si riferisce la delega assessorile ricevuta.
Premesso che la norma non introduce alcuna causa di incompatibilità né è prevista alcuna sanzione specifica in caso di sua violazione
[2], si rileva che essa in ogni caso non verrebbe in rilevo nel caso di specie atteso che l’amministratore locale svolge attività di lavoro dipendente e non autonomo.
In particolare, anche qualora questi venisse nominato assessore con delega in materia di urbanistica, di edilizia e di lavori pubblici e, al contempo, svolgesse la propria attività di lavoratore dipendente nello stesso ambito della delega conferitagli dal sindaco[3] non risulterebbe integrata la fattispecie sopra descritta: soltanto esigenze di opportunità, da valutarsi in relazione all’effettiva attività svolta e ad ogni altra circostanza del caso concreto, potrebbero deporre a favore di soluzioni che siano rispettose delle esigenze di imparzialità e di buona amministrazione che sempre devono connotare l’agère della pubblica amministrazione.
Per completezza espositiva si segnala, infine, anche il disposto di cui all’articolo 78, comma 2, TUEL, applicabile a tutti gli amministratori di cui all’articolo 77, comma 2, secondo cui essi “devono astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado. L'obbligo di astensione non si applica ai provvedimenti normativi o di carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado.”
Anche tale previsione non introduce alcuna causa di incompatibilità ma individua alcune fattispecie generatrici di conflitto di interesse la presenza delle quali impone un obbligo di astensione in capo all’amministratore locale che eventualmente si venga a trovare in una delle situazioni indicate dalla norma citata.
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[1] Per completezza espositiva si segnala che non vengono in rilievo nel caso in esame le cause di inconferibilità previste dal decreto legislativo 08.04.2013, n. 39 recante “Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, a norma dell’articolo 1, commi 49 e 50, della legge 06.11.2012, n. 190” atteso che in tale sede non si contemplano cause ostative al conferimento della carica di assessore.
[2] Resta tuttavia per i soggetti coinvolti la personale responsabilità politica nei confronti del corpo elettorale ed eventualmente la responsabilità deontologica nei confronti dell’ordine di appartenenza.
[3] Sul presupposto che, come riferito dall’Ente, tutte le funzioni comunali sono svolte in convenzione tra i comuni in riferimento di talché l’attività lavorativa svolta potrebbe riguardare anche quella propria degli altri Comuni in convenzione
(06.06.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALIIl consigliere comunale revocato non può essere risarcito per il danno all'immagine.
Quando la percezione collettiva viene influenzata dall’irrompere di eventi di natura penale ovvero dalla presenza di indagini sfociate in arresti e processi in sede penale, in relazione a fatti di notevole allarme sociale, oltre che rilevanti per la dimensione politica del reo, il Consigliere comunale revocato per tali fatti non può accedere ad alcun risarcimento per danno all’immagine.
Questa è la tesi emergente dalla sentenza 03.06.2019 n. 3731 del Consiglio di Stato, Sez. III.
Il fatto
Con decreto del ministro dell’Interno veniva rimosso dalla carica un Consigliere comunale in conseguenza di due ordinanze di custodia cautelare, emesse dal Tribunale del luogo, per fatti di concussione.
Entrambe le misure cautelari venivano, poi, successivamente revocate dal Tribunale del riesame, con due separate ordinanze.
Il provvedimento di revoca veniva impugnato dinanzi al Giudice amministrativo che lo annullava e, successivamente, l’interessato proponeva un nuovo ricorso dinanzi al Tar, per chiedere la condanna del ministero dell’Interno al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti per l’effetto del provvedimento amministrativo dichiarato illegittimo dal Tar.
La richiesta di risarcimento veniva respinta; il rigetto è stato confermato con la sentenza in rassegna.
La decisione
Il Collegio giudicante non ha ravvisato la possibilità di stabilire un risarcimento da danno non patrimoniale per atto amministrativo illegittimo.
In conformità alla decisione di primo grado, il Consiglio di Stato ravvisa che deve tenersi conto del condivisibile orientamento giurisprudenziale secondo cui, in casi analoghi, il risarcimento del danno derivante dalla mancata percezione dell'indennità di carica è destituito di fondamento, in quanto la corresponsione di tale emolumento è correlata all'effettivo svolgimento delle funzioni di Consigliere comunale, allo scopo di compensare le eventuali diminuzioni patrimoniali subite, con riferimento all'esercizio dell'attività lavorativa propria del Consigliere, impegnato nelle sedute assembleari.
In ogni caso, immediatamente dopo l’adozione del provvedimento lesivo nei confronti del ricorrente, l’intero Consiglio comunale era stato sciolto, per cui era evidente che, anche se non fosse mai stato adottato il provvedimento individuale di revoca, il Consigliere non avrebbe potuto più percepire l’indennità, essendo venuto meno l’organo collegiale di cui avrebbe dovuto continuare a far parte.
Conclusioni
Quanto al danno all’immagine, il Consiglio di Stato ha rimarcato che il pregiudizio all’immagine e alla carriera politica, più che dal provvedimento ministeriale di rimozione dal Consiglio comunale, è derivato dai procedimenti penali nei quali il revocato è stato coinvolto, oltre che dalle ordinanze di custodia cautelare che l’hanno colpito in una fase storica nella quale vicende simili hanno compromesso l’immagine e la carriera politica della maggior parte degli esponenti politici dell’epoca, in conseguenza di un sentimento ampiamente diffuso nell’opinione pubblica che, comunque lo si voglia giudicare, ha provocato un profondo rivolgimento politico e istituzionale (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 01.07.2019).

maggio 2019

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Protocollo on-line aperto. Accesso garantito ai consiglieri comunali. Ma il diritto va esercitato in modo consapevole, selezionando gli atti.
Può il consigliere comunale accedere da remoto al protocollo informatico del comune nel quale è stato eletto?

Il plenum della Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, del 16 marzo 2010, ha osservato che il diritto di accesso ed il diritto di informazione dei consiglieri comunali nei confronti della p.a. trovano la loro disciplina nell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000 che riconosce a questi il diritto di ottenere dagli uffici comunali, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato (confermato dal successivo parere del 23.10.2012).
Il protocollo informatico è stato introdotto dall'art. 50 del dpr n. 445/2000, il quale, al comma 3, richiede la realizzazione o la revisione dei sistemi informativi automatizzati in conformità anche alle disposizioni di legge sulla riservatezza dei dati personali; gli artt. 53 e 55 del citato dpr n. 445/00 prevedono, rispettivamente, la «registrazione di protocollo» e la «segnatura di protocollo» che contengono una serie di dati che consentono la rintracciabilità dei documenti.
La citata commissione per l'accesso, già con il richiamato parere del 2010 stabiliva che «l'accesso diretto tramite utilizzo di apposita password al sistema informatico dell'ente, ove operante, è uno strumento di accesso certamente consentito al consigliere comunale che favorirebbe la tempestiva acquisizione delle informazioni richieste senza aggravare l'ordinaria attività amministrativa. Ovviamente il consigliere comunale rimane responsabile della segretezza della password di cui è stato messo a conoscenza a tali fini (art. 43, comma 2, Tuel)».
Anche il Garante per la protezione dei dati personali (vedi relazione del 2004, pagg. 19 e 20) aveva specificato che «nell'ipotesi in cui l'accesso da parte dei consiglieri comunali riguardi dati sensibili, l'esercizio di tale diritto, ai sensi dell'art. 65, comma 4, lett. b), del Codice, è consentito se indispensabile per lo svolgimento della funzione di controllo, di indirizzo politico, di sindacato ispettivo e di altre forme di accesso a documenti riconosciute dalla legge e dai regolamenti degli organi interessati per consentire l'espletamento di un mandato elettivo. Resta ferma la necessità, che i dati così acquisiti siano utilizzati per le sole finalità connesse all'esercizio del mandato, rispettando in particolare il divieto di divulgazione dei dati idonei a rivelare lo stato di salute. Spetta quindi all'amministrazione destinataria della richiesta accertare l'ampia e qualificata posizione di pretesa all'informazione ratione officii del consigliere comunale».
Rilevando che la specifica materia dovrebbe trovare apposita disciplina di dettaglio nel regolamento dell'ente, si osserva che anche la giurisprudenza ha affermato il diritto del consigliere alla visione del protocollo generale, senza alcuna esclusione di oggetti e notizie riservate e di materie coperte da segreto, posto che i consiglieri comunali sono tenuti al segreto - ai sensi del citato art. 43 del dlgs n. 267/2000.
Già il Tar Sardegna con la sentenza n. 29/2007 ha affermato, tra l'altro, che è consentito prendere visione del protocollo generale senza alcuna esclusione di oggetti e notizie riservate e di materie coperte da segreto, posto che i consiglieri comunali sono comunque tenuti al segreto ai sensi dell'art. 43 del dlgs n. 267/2000, mentre il Tar Lombardia, Brescia, 01.03.2004, n. 163, ha ritenuto non ammissibile imporre al consigliere l'onere di specificare in anticipo l'oggetto degli atti che intendono visionare giacché trattasi di informazioni di cui gli stessi possono disporre solo in conseguenza dell'accesso.
Sempre il Tar Sardegna, approfondendo la tematica, con la sentenza n. 531/2018, ha specificato che il «possesso delle chiavi di accesso telematico, rappresenta una condizione preliminare, ma nondimeno necessaria, per l'esercizio consapevole del diritto di accesso, in modo che questo si svolga non attraverso una apprensione generalizzata e indiscriminata degli atti dell'amministrazione comunale, ma mediante una selezione degli oggetti degli atti di cui si chiede l'esibizione. Peraltro, una delle modalità essenziali per poter operare in tal senso è rappresentata proprio dalla possibilità di accedere (non direttamente al contenuto della documentazione in arrivo o in uscita dall'amministrazione, ma) ai dati di sintesi ricavabili dalla consultazione telematica del protocollo».
Appare dirimente, infine, la recentissima decisione n. 545 del 04/04/2019 con la quale il Tar Campania (sezione staccata di Salerno), ha confermato il diritto del consigliere comunale all'accesso anche da remoto al protocollo informatico dell'ente.
Lo stesso Tar Campania, confermando sostanzialmente quanto stabilito dal Tar Sardegna con la richiamata sentenza 531/2018, ha ribadito che tale esercizio non dovrebbe tuttavia essere esteso al contenuto della documentazione in arrivo o in uscita dall'amministrazione -soggetta, invece, alle ordinarie regole in materia di accesso, tra le quali la necessità di richiesta specifica- ma ai soli dati di sintesi ricavabili dalla consultazione telematica del protocollo (numero di registrazione al protocollo, data, mittente, destinatario, modalità di acquisizione, oggetto) (articolo ItaliaOggi del 31.05.2019).

CONSIGLIERI COMUNALIObblighi di pubblicazione dati e documenti amministratori comunali, dopo le elezioni.
Domanda
Il 26.05.2019 si è votato anche nel nostro comune per il rinnovo del Consiglio comunale e per l’elezione diretta del Sindaco. Quali obblighi e con quali tempistiche si deve procedere alla pubblicazione dei dati dei nuovi amministratori?
Risposta
Gli obblighi di pubblicazione per gli amministratori comunali sono dettagliatamente riportati nell’articolo 14, comma 1, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, cosiddetto Decreto Trasparenza.
Per il sindaco, i consiglieri comunali e gli assessori (se esterni) gli obblighi riguardano i seguenti documenti ed informazioni:
   a) l’atto di nomina o di proclamazione, con l’indicazione della durata dell’incarico o del mandato elettivo;
   b) il curriculum;
   c) i compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica; gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici;
   d) i dati relativi all’assunzione di altre cariche, presso enti pubblici o privati, ed i relativi compensi a qualsiasi titolo corrisposti;
   e) gli altri eventuali incarichi con oneri a carico della finanza pubblica e l’indicazione dei compensi spettanti;
   f) le dichiarazioni di cui all’art. 2, della legge 05.07.1982, n. 441, nonché le attestazioni e dichiarazioni di cui agli articoli 3 e 4 della medesima legge, come modificata dal presente decreto, limitatamente al soggetto, al coniuge non separato e ai parenti entro il secondo grado, ove gli stessi vi consentano. Viene in ogni caso data evidenza al mancato consenso. Alle informazioni di cui alla presente lettera concernenti soggetti diversi dal titolare dell’organo di indirizzo politico non si applicano le disposizioni di cui all’art. 7.
La delibera ANAC n. 241 del 08.03.2017, ha specificato che relativamente alla situazione reddituale e patrimoniale (articolo 14, comma 1, lettera f), l’obbligo riguarda solamente gli amministratori dei comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti.
Tra gli atti e documenti da pubblicare occorre distinguere tra quelli che gli uffici comunali hanno già a loro disposizione e quelli che possono essere forniti esclusivamente dagli amministratori.
Tra i documenti “detenuti” dall’ente rientrano quelli della:
   lettera a) – atto di nomina o di proclamazione;
   lettera c) – compensi di qualsiasi natura connessi alla carica e i rimborsi delle spese per missioni.
Dovranno essere richiesti agli amministratori e, da questi, consegnati agli uffici, i documenti e le dichiarazioni della:
   lettera b) – curriculum;
   lettera d) – dati relativi all’assunzione di altre cariche e i relativi compensi;
   lettera e) – altri eventuali incarichi a carico della finanza pubblica;
   lettera f) – dichiarazione dei redditi e situazione patrimoniale propria e dei famigliari qualora vi consentano. Oppure dichiarazione, dell’amministratore circa il mancato consenso del proprio coniuge e famigliari (figli; fratelli; genitori; nonni; nipoti, intesi come figli dei figli; eccetera).
I dati dovranno essere richiesti ai singoli amministratori, dopo l’insediamento degli organi, con nota a cura del Responsabile della Trasparenza che, di norma, nei comuni è il segretario comunale. Per i componenti della giunta, occorrerà attendere i decreti di nomina degli assessori da parte del sindaco.
Per la tempistica di pubblicazione, il comma 2, del citato art. 14, prevede che i documenti vengano pubblicati nel sito web, entro tre mesi dalla elezione o dalla nomina e per i tre anni successivi dalla cessazione del mandato, fatte salve le informazioni concernenti la situazione patrimoniale e, ove consentita, la dichiarazione del coniuge non separato e dei parenti entro il secondo grado, che vengono pubblicate, solamente, fino alla cessazione del mandato.
A seguito dell’elezioni, quindi, l’ente –e per la durata di tre anni– dovrà organizzare due link. Uno con i dati dell’amministrazione scaduta e uno con le informazioni sull’amministrazione in carica, ricordandosi di eliminare il link dell’amministrazione cessata, trascorso il mese di maggio 2022.
Tutti i dati, come previsto nell’Allegato “1” della delibera ANAC n. 1310 del 28/12/2016, dovranno essere pubblicati, nel sito internet dell’ente nella sezione: Amministrazione trasparente > Organizzazione > Titolari di incarichi politici, di amministrazione, di direzione e di governo.
bene rammentare, infine, che ai sensi dell’articolo 47, comma 1, del d.lgs. 33/2013, l’ANAC può irrogare una sanzione amministrativa pecuniaria da 1.000 euro, a carico del responsabile della mancata comunicazione dei dati, a seguito della mancata o incompleta comunicazione delle informazioni e dei dati di cui all’art. 14, concernenti:
   a) la situazione patrimoniale complessiva del titolare dell’incarico al momento dell’assunzione in carica;
   b) la titolarità di imprese, le partecipazioni azionarie proprie, del coniuge e dei parenti entro il secondo grado;
   c) tutti i compensi cui da diritto l’assunzione della carica.
Il relativo provvedimento sanzionatorio dell’Autorità Anticorruzione dovrà essere pubblicato sul sito internet dell’amministrazione (28.05.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Sul danno erariale derivante dal riconoscimento ex post, da parte del comune, di debiti a titolo di corrispettivi per lo svolgimento di lavori saltuari e occasionali svolti da privati cittadini e sulla portata dell'ex "parere di legittimità", del "parere di regolarità tecnica" e del "parere di regolarità contabile".
Le delibere di Giunta oggetto del presente giudizio non hanno valore come riconoscimento di debiti fuori bilancio per l’incompetenza assoluta dell’organo esecutivo del Comune.
Infatti, solo il riconoscimento formale da parte del Consiglio Comunale consente l’imputazione del debito assunto irregolarmente al bilancio dell’ente.
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Sussiste la piena responsabilità del sindaco e degli assessori (Giunta Comunale) per aver posto in essere una condotta antigiuridica –connotata da colpa grave- tesa al riconoscimento di debiti da parte di un organo incompetente a riconoscere i debiti dell’Ente, soprattutto in assenza dei presupposti normativi per l’applicabilità dell’art. 191, 3 comma, e/o per il riconoscimento di cui all’art. 194 del TUEL.
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Parimenti responsabile il geometra responsabile dell’area tecnica e del personale, per aver apposto il parere di regolarità tecnica in calce alle delibere di cui è causa senza verificare la legittimità e regolarità delle procedure relative alla fase dell’impegno contabile e della spesa, alla fase contrattuale e di assegnazione dei lavori e alla fase di verifica della regolare esecuzione degli stessi.

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Altrettanto responsabile il segretario comunale, per il quale valgono le seguenti considerazioni.
E’ indubbio che il segretario comunale svolge una specifica funzione di garante della legalità e di correttezza amministrativa dell’azione dell’ente locale, di assistenza e di collaborazione giuridica ed amministrativa proprio in virtù dell’art. 17, comma 68, della l. 127 del 1997, ma ancor prima in virtù della l. 142 del 1990.
L’intervenuta soppressione, ai sensi dell’art. 17, comma 85, della legge citata, del parere di legittimità su ogni proposta di deliberazione giuntale o consiliare, non costituisce commodus discessus da ogni responsabilità.
Al contrario,
l’evoluzione normativa in materia, ben lungi dall'evidenziare una sottrazione del segretario in questione alla responsabilità amministrativa per il parere eventualmente espresso su atti della Giunta o del Consiglio, ne ha invece sottolineato le maggiori responsabilità in ragione della rilevata estensione di funzioni, di tal che non assume alcun rilievo esimente l'art. 17, commi 85 e 86, l. n. 127/1997 che ha espressamente abrogato l'istituto del parere preventivo di legittimità del segretario comunale.
Sul punto il Collegio ritiene di condividere quanto affermato da questa Corte, secondo cui
la soppressione del parere di legittimità del segretario su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta o al Consiglio “non esclude che permangano in capo al segretario tutta una serie di compiti ed adempimenti che, lungi dal determinare un'area di deresponsabilizzazione del medesimo, lo impegnano, invece, ad un corretto svolgimento degli stessi, pena la sua soggezione, in ragione del rapporto di servizio instaurato con l'Ente locale, all'azione di responsabilità amministrativa, ove di questa ricorrano gli specifici presupposti”.
Nel caso di specie,
il segretario, partecipando alla seduta di Giunta, avrebbe dovuto svolgere la sua funzione di garante del diritto ponendo in evidenza le gravi violazioni di legge che, con l’approvazione delle delibere di riconoscimento, si stavano effettuando, e, nell’ipotesi in cui gli assessori avessero comunque deciso di deliberare il riconoscimento, avrebbe dovuto esigere la verbalizzazione della sua opposizione.
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Non appare revocabile in dubbio che nell’ambito del controllo sulla regolarità e correttezza dell’azione amministrativa, rientri a pieno titolo il controllo sulla legittimità della proposta di deliberazione, ovverosia la verifica del rispetto delle norme che presidiano l’attività amministrativa nello specifico campo, nonché la legittimità del fine pubblico perseguito e la correttezza sostanziale delle soluzioni adottate.

Ne deriva che
la lettura combinata dall’art. 49 e 147-bis, comma 1, del TUEL permette di individuare, innanzitutto, il contenuto del parere di regolarità tecnica, che non si limita a verificare l’attendibilità tecnica della soluzione proposta, ma involge l’insieme del procedimento amministrativo, coprendo e inglobando le regole sia tecniche, di un determinato settore, che quelle generali in ordine alla legittimità dell’azione amministrativa, ivi compresa la legittimità della spesa, in considerazione del fatto che ciascun centro di responsabilità, proponente un qualsiasi atto deliberativo recante spesa, gestisce autonomamente il piano esecutivo di gestione assegnato al proprio settore.
Invece,
con il “parere di regolarità contabile” il fine perseguito dal legislatore è stato quello di assegnare al responsabile del servizio di ragioneria un ruolo centrale nella tutela degli equilibri di bilancio dell'ente e, a tal fine, nell’esprimere tale parere egli dovrà tener conto, in particolare, delle conseguenze rilevanti in termini di mantenimento nel tempo degli equilibri finanziari ed economico-patrimoniali, valutando:
   a) la verifica della sussistenza del parere di regolarità tecnica rilasciato dal soggetto competente;
   b) il corretto riferimento (si sottolinea effettuato dall’organo proponente) della spesa alla previsione di bilancio annuale, ai programmi e progetti del bilancio pluriennale e, ove adottato, al piano esecutivo di gestione.

Orbene,
secondo il sistema delle competenze assegnate dal TUEL e ridisegnate dalla riforma operata con il d.l. n. 174/2012, la verifica della legittimità delle deliberazioni, sia esse di giunta che di consiglio, non rientra tra il controlli che il responsabile del servizio di ragioneria deve effettuare prima dell’emissione del proprio parere di regolarità contabile.
Da tutto quanto sopra, anche con riferimento a quanto affermato in ordine alle funzioni e responsabilità del segretario comunale,
si ritiene che il parere di regolarità contabile non possa che coprire la legittimità della spesa in senso stretto del termine, cioè la corretta imputazione al capitolo del bilancio dell’ente, la regolare copertura finanziaria e il rispetto degli equilibri di bilancio, esulando dai compiti del responsabile del servizio di ragioneria ogni valutazione sulla legittimità dell’atto deliberativo, perché di competenza di altri organi istituzionali dell’ente.
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La questione all’esame del Collegio riguarda una ipotesi di danno erariale derivante dal riconoscimento ex post, da parte del Comune di Santa Domenica Talao, di debiti a titolo di corrispettivi per lo svolgimento di lavori saltuari e occasionali svolti da privati cittadini.
Il Procuratore regionale contesta agli odierni convenuti che, con l’adozione delle diciannove delibere di giunta sopra citate, siano state violate le disposizioni di cui agli artt. 191 e seguenti del TUEL che concernono l’assunzione degli impegni di spesa negli enti locali, nonché dell’art. 36 del D.Lgs. n. 165/2001 e dell’art. 92 del TUEL relativi all’utilizzo delle forme di lavoro flessibile.
L’art. 191 del TUEL stabilisce che “Gli enti locali possono effettuare spese solo se sussiste l'impegno contabile registrato sul competente programma del bilancio di previsione e l'attestazione della copertura finanziaria di cui all’art. 153, comma 5”.
Il successivo comma 3 afferma che “Per i lavori pubblici di somma urgenza, cagionati dal verificarsi di un evento eccezionale o imprevedibile, la Giunta, entro venti giorni dall'ordinazione fatta a terzi, su proposta del responsabile del procedimento, sottopone al Consiglio il provvedimento di riconoscimento della spesa con le modalità previste dall'articolo 194, comma 1, lettera e), prevedendo la relativa copertura finanziaria nei limiti delle accertate necessità per la rimozione dello stato di pregiudizio alla pubblica incolumità. Il provvedimento di riconoscimento è adottato entro 30 giorni dalla data di deliberazione della proposta da parte della Giunta, e comunque entro il 31 dicembre dell'anno in corso se a tale data non sia scaduto il predetto termine. La comunicazione al terzo interessato è data contestualmente all'adozione della deliberazione consiliare”.
Orbene,
dall’esame delle delibere di riconoscimento indicate nell’atto di citazione non risulta che le stesse siano state precedute dalla necessaria delibera a contrarre con il relativo impegno di spesa sul relativo capitolo di bilancio con l’attestazione di copertura finanziaria da parte del responsabile del servizio economico-finanziario.
Né dalle stesse è rinvenibile, al di là di un’apodittica affermazione, la giustificazione di ragioni di urgenza o di eccezionalità e imprevedibilità dell’evento che avrebbero potuto giustificare il ricorso alla procedura disciplinata dal terzo comma del medesimo articolo 191 suddetto.
Stante quanto sopra,
si sarebbe, allora, dovuto fare ricorso all’istituto del riconoscimento del debito fuori bilancio di cui all’art. 194 del TUEL, la cui competenza viene, però, ascritta al Consiglio comunale e non all’organo esecutivo dell’ente locale.
Nel caso di specie, pertanto, il rapporto obbligatorio intercorre tra il privato fornitore e il soggetto amministratore o funzionario o dipendente dell’ente che ha consentito la prestazione, ai sensi del già richiamato art. 191, comma 4.
Inoltre, gli artt. 36 del D.Lgs. n 165/2001 e 92 del TUEL, richiamati dal Procuratore nel suo atto di citazione, disciplinano la possibilità per le pubbliche amministrazioni di ricorrere a forme contrattuali di lavoro flessibile con rapporti di lavoro a tempo parziale e a tempo determinato, pieno o parziale, sempre, però, nel rispetto della disciplina vigente in materia e “per comprovate esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale, (sempre) nel rispetto delle condizioni e modalità di reclutamento (del personale) assicurando la trasparenza ed escludendo ogni forma di discriminazione".
Orbene, ai fini dell’accertamento della responsabilità dei convenuti citati, ad avviso del Collegio, nessun rilievo assume il diverso inquadramento giuridico dei fatti operato dai difensori.
Infatti, sia che tali interventi vengano inquadrati tra le “borse lavoro” o tra gli “appalti di servizi”, in nessuno dei due casi vi è stato un atto propedeutico –quale ad esempio un bando per l’assegnazione delle borse, o una delibera di acquisizione dei servizi richiesti- che abbia concorso a manifestare all’esterno una volontà in tal senso, da parte dell’amministrazione del Comune di Santa Domenica Talao.
In tutti i casi, sia l’eventuale assegnazione della borsa o l’adozione di qualsivoglia forma di lavoro flessibile sia, a maggior ragione, la stipulazione di un contratto d’appalto di servizi, necessitano di una forma scritta “ad substantiam”, nel pieno rispetto di uno dei principi cardine dell’ordinamento giuridico, quando una delle parti contrattuali è una Pubblica Amministrazione.
Tale principio è sancito dall’art. 17 della Legge di contabilità generale dello Stato (R.D. n. 2440 del 1923) che, ammettendo anche forme più semplificate di stipulazione contrattuale, prevede per tutte la forma scritta (scrittura privata; obbligazione stesa ai piedi del capitolato; atto separato sottoscritto; lettera commerciale).
Tale principio trova la sua giustificazione non solo e non tanto in ragioni di ordine generale attinenti l’interesse pubblico perseguito dalla p.a., ma anche nella considerazione che un’attività estremamente procedimentalizzata, quale quella in esame, al di là del nomen juris utilizzato ai fini del suo inquadramento, non sarebbe concepibile che possa essere conclusa con una stipulazione orale.
Ciò anche perché la forma scritta rappresenta uno strumento indefettibile di garanzia del regolare svolgimento dell'attività negoziale della p.a., nell'interesse sia del cittadino sia della stessa amministrazione e, conseguentemente, in assenza della forma scritta il contratto è nullo (in terminis: Cass, sez. I civile, sent. n. 5263/2015; n. 7297/2009; sez. III civile, ord. n. 16307/2018).
Per il principio su esposto, prive di pregio, ad avviso del Collegio, sono le contestazioni che le difese muovono all’atto di citazione secondo cui nel caso di specie si verserebbe in una ipotesi di affidamento di un appalto di servizi sotto soglia.
Infatti, il superamento o meno della “soglia” (art 29 del D.Lgs n. 163/2006 applicabile ratione temporis; oggi art. 36 del D.Lgs. n. 50/2016) implica esclusivamente un maggiore o minore rigore nella scelta del contraente, ma nessuna incidenza può avere in ordine alla necessaria forma scritta dei contratti della p.a.
Atteso quanto sopra, ritiene il Collegio che nessuna valida obbligazione sia sorta in capo all’amministrazione del Comune di Santa Domenica Talao e, pertanto, sussiste la responsabilità amministrativo-contabile in capo ai convenuti, in quanto con la loro condotta hanno causato un indubbio danno erariale consistente nell’erogazione di corrispettivi non dovuti in quanto conseguenti a obbligazioni nulle.
A ciò si aggiunga che
sono state violate tutte le norme del TUEL (prima citate) poste a presidio della correttezza delle procedure di spesa degli enti locali e, per quanto già detto, le delibere di Giunta oggetto del presente giudizio non hanno nemmeno valore come riconoscimento di debiti fuori bilancio per l’incompetenza assoluta dell’organo esecutivo del Comune.
Infatti, solo il riconoscimento formale da parte del Consiglio Comunale consente l’imputazione del debito assunto irregolarmente al bilancio dell’ente.

In ordine alle singole condotte il Collegio svolge le seguenti considerazioni.
Sussiste la piena responsabilità del sindaco Lu.Al.Gi. e degli assessori Es.Fu.Fr., La Gr.Ma.Gi., Fa.Gi., La.Ra.Ma., Le.Fr. e Pa.An.Sa. per aver posto in essere una condotta antigiuridica –connotata da colpa grave- tesa al riconoscimento di debiti da parte di un organo incompetente a riconoscere i debiti dell’Ente, soprattutto in assenza dei presupposti normativi per l’applicabilità dell’art. 191, 3 comma, e/o per il riconoscimento di cui all’art. 194 del TUEL.
Inoltre, nessuna istruttoria è stata svolta dal sindaco o dai componenti la giunta ma, soprattutto, nessuna prova viene fornita in ordine all’eccezionalità e imprevedibilità dei lavori e alla loro utilità per il Comune.
Parimenti responsabile il geom. Fa.Be., responsabile dell’area tecnica e del personale, per aver apposto il parere di regolarità tecnica in calce alle delibere di cui è causa senza verificare la legittimità e regolarità delle procedure relative alla fase dell’impegno contabile e della spesa, alla fase contrattuale e di assegnazione dei lavori e alla fase di verifica della regolare esecuzione degli stessi.
In merito nessun valore esimente, ad avviso del Collegio, può avere la perizia a firma del geom. To.Gr., datata 19.10.2016, in quanto riferentesi a delibere diverse rispetto a quelle oggetto della citazione in questione.
Altrettanto responsabile il dott. Mo.Ca.An., segretario comunale, per il quale valgono le seguenti considerazioni.
E’ indubbio che il segretario comunale svolge una specifica funzione di garante della legalità e di correttezza amministrativa dell’azione dell’ente locale, di assistenza e di collaborazione giuridica ed amministrativa proprio in virtù dell’art. 17, comma 68, della l. 127 del 1997, ma ancor prima in virtù della l. 142 del 1990.
L’intervenuta soppressione, ai sensi dell’art. 17, comma 85, della legge citata, del parere di legittimità su ogni proposta di deliberazione giuntale o consiliare, non costituisce commodus discessus da ogni responsabilità.
Al contrario,
l’evoluzione normativa in materia, ben lungi dall'evidenziare una sottrazione del segretario in questione alla responsabilità amministrativa per il parere eventualmente espresso su atti della Giunta o del Consiglio, ne ha invece sottolineato le maggiori responsabilità in ragione della rilevata estensione di funzioni, di tal che non assume alcun rilievo esimente l'art. 17, commi 85 e 86, l. n. 127/1997 che ha espressamente abrogato l'istituto del parere preventivo di legittimità del segretario comunale.
Sul punto il Collegio ritiene di condividere quanto affermato da questa Corte, secondo cui
la soppressione del parere di legittimità del segretario su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta o al Consiglio “non esclude che permangano in capo al segretario tutta una serie di compiti ed adempimenti che, lungi dal determinare un'area di deresponsabilizzazione del medesimo, lo impegnano, invece, ad un corretto svolgimento degli stessi, pena la sua soggezione, in ragione del rapporto di servizio instaurato con l'Ente locale, all'azione di responsabilità amministrativa, ove di questa ricorrano gli specifici presupposti (Sez. giur. Toscana, sent. n. 217/2012).
Il segretario Mo., partecipando alla seduta di Giunta, avrebbe dovuto svolgere la sua funzione di garante del diritto ponendo in evidenza le gravi violazioni di legge che, con l’approvazione delle delibere di riconoscimento, si stavano effettuando, e, nell’ipotesi in cui gli assessori avessero comunque deciso di deliberare il riconoscimento, avrebbe dovuto esigere la verbalizzazione della sua opposizione.
Niente di tutto questo è avvenuto, e pertanto deve confermarsi la responsabilità del segretario comunale.
Considerazioni contrarie vanno svolte, invece, per la convenuta De Lu.Ma.Ro., quale responsabile del servizio economico-finanziario del Comune, che ha emesso i relativi pareri di “regolarità contabile”.
Il responsabile del servizio economico-finanziario, ai sensi dell’art. 49 del TUEL, come modificato dall’art. 3, comma 1, lett. b), del d.l. n. 174/2012, convertito in l. n. 213/2012, su ogni proposta di deliberazione ha l’obbligo di esprimere un parere di regolarità contabile, qualora la stessa comporti riflessi diretti o indiretti sulla situazione economico finanziaria o sul patrimonio dell’ente.
Tale parere, che rientra tra quelli preventivi, è previsto dall’art. 147 del TUEL, a mente del quale “Gli enti locali, nell'ambito della loro autonomia normativa e organizzativa, individuano strumenti e metodologie per garantire, attraverso il controllo di regolarità amministrativa e contabile, la legittimità, la regolarità e la correttezza dell'azione amministrativa”.
Il successivo art. 147-bis afferma che “Il controllo di regolarità amministrativa e contabile è assicurato, nella fase preventiva della formazione dell'atto, da ogni responsabile di servizio ed è esercitato attraverso il rilascio del parere di regolarità tecnica attestante la regolarità e la correttezza dell'azione amministrativa. Il controllo contabile è effettuato dal responsabile del servizio finanziario ed è esercitato attraverso il rilascio del parere di regolarità contabile e del visto attestante la copertura finanziaria”.
Pertanto, il legislatore della novella del 2012, con la suddetta norma ha inteso differenziare il contenuto del “controllo di regolarità amministrativa e contabile” (di competenza del responsabile del servizio o della funzione), che si esprime attraverso il parere di regolarità tecnica e riguarda la “regolarità e la correttezza dell’azione amministrativa”, dal “controllo contabile” che, esprimendosi attraverso il parere di regolarità contabile (di competenza del responsabile di ragioneria), ha riguardo all’aspetto meramente contabile e finanziario del provvedimento, attraverso, anche, l’apposizione del visto attestante la copertura finanziaria.
Pertanto,
non appare revocabile in dubbio che nell’ambito del controllo sulla regolarità e correttezza dell’azione amministrativa, rientri a pieno titolo il controllo sulla legittimità della proposta di deliberazione, ovverosia la verifica del rispetto delle norme che presidiano l’attività amministrativa nello specifico campo, nonché la legittimità del fine pubblico perseguito e la correttezza sostanziale delle soluzioni adottate.
Ne deriva che
la lettura combinata dall’art. 49 e 147-bis, comma 1, del TUEL permette di individuare, innanzitutto, il contenuto del parere di regolarità tecnica, che non si limita a verificare l’attendibilità tecnica della soluzione proposta, ma involge l’insieme del procedimento amministrativo, coprendo e inglobando le regole sia tecniche, di un determinato settore, che quelle generali in ordine alla legittimità dell’azione amministrativa, ivi compresa la legittimità della spesa, in considerazione del fatto che ciascun centro di responsabilità, proponente un qualsiasi atto deliberativo recante spesa, gestisce autonomamente il piano esecutivo di gestione assegnato al proprio settore.
Invece,
con il “parere di regolarità contabile” il fine perseguito dal legislatore è stato quello di assegnare al responsabile del servizio di ragioneria un ruolo centrale nella tutela degli equilibri di bilancio dell'ente e, a tal fine, nell’esprimere tale parere egli dovrà tener conto, in particolare, delle conseguenze rilevanti in termini di mantenimento nel tempo degli equilibri finanziari ed economico-patrimoniali, valutando:
   a) la verifica della sussistenza del parere di regolarità tecnica rilasciato dal soggetto competente;
   b) il corretto riferimento (si sottolinea effettuato dall’organo proponente) della spesa alla previsione di bilancio annuale, ai programmi e progetti del bilancio pluriennale e, ove adottato, al piano esecutivo di gestione.

Orbene,
secondo il sistema delle competenze assegnate dal TUEL e ridisegnate dalla riforma operata con il d.l. n. 174/2012, la verifica della legittimità delle deliberazioni, sia esse di giunta che di consiglio, non rientra tra il controlli che il responsabile del servizio di ragioneria deve effettuare prima dell’emissione del proprio parere di regolarità contabile.
Da tutto quanto sopra, anche con riferimento a quanto affermato in ordine alle funzioni e responsabilità del segretario comunale,
si ritiene che il parere di regolarità contabile non possa che coprire la legittimità della spesa in senso stretto del termine, cioè la corretta imputazione al capitolo del bilancio dell’ente, la regolare copertura finanziaria e il rispetto degli equilibri di bilancio, esulando dai compiti del responsabile del servizio di ragioneria ogni valutazione sulla legittimità dell’atto deliberativo, perché di competenza di altri organi istituzionali dell’ente.
Conseguentemente, ritiene il Collegio, di rigettare l’azione del Procuratore regionale nei confronti di De Lu.Ma.Ro..
Al proscioglimento segue il rimborso delle spese di lite, poste a carico dell’Amministrazione comunale, che si liquidano equitativamente in euro 1.500,00.
Riguardo alla quantificazione del danno e alla sua ripartizione fra i rimanenti convenuti, si condivide parzialmente quanto indicato in citazione e quindi:
...
P.Q.M.
La Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la regione Calabria, definitivamente pronunciando, in accoglimento parziale dell’atto di citazione:
assolve Ma.Ro. De Lu. da ogni addebito e liquida alla medesima a titolo di spese del giudizio la somma di € 1.500,00 oltre IVA, CPA e spese generali come per legge, posta a carico dell’Amministrazione di appartenenza;
condanna i sotto elencati convenuti al pagamento in favore del Comune di Santa Domenica Talao delle somme:
   1) Lu.Al.Gi., € 2.294,00 oltre alla rivalutazione monetaria e agli interessi legali dalla data della presente sentenza e sino all’effettivo soddisfo.
   2) La Gr.Ma.Gi., € 679,00, oltre alla rivalutazione monetaria e agli interessi legali dalla data della presente sentenza e sino all’effettivo soddisfo.
   3) Es.Fu.Fr., € 369,00, oltre alla rivalutazione monetaria e agli interessi legali dalla data della presente sentenza e sino all’effettivo soddisfo.
   4) Fa.Gi., € 690,00, oltre alla rivalutazione monetaria e agli interessi legali dalla data della presente sentenza e sino all’effettivo soddisfo.
   5) La Bo.Ra.Ma., € 1.425,00, oltre alla rivalutazione monetaria e agli interessi legali dalla data della presente sentenza e sino all’effettivo soddisfo.
   6) Pa.An.Sa., € 25,00, oltre alla rivalutazione monetaria e agli interessi legali dalla data della presente sentenza e sino all’effettivo soddisfo.
   7) Le.Fr., € 340,00, oltre alla rivalutazione monetaria e agli interessi legali dalla data della presente sentenza e sino all’effettivo soddisfo.
   8) Mo.Ca.An., € 2.444,00, oltre alla rivalutazione monetaria e agli interessi legali dalla data della presente sentenza e sino all’effettivo soddisfo.
   9) Fa.Be., € 2.444,00, oltre alla rivalutazione monetaria e agli interessi legali dalla data della presente sentenza e sino all’effettivo soddisfo (Corte dei Conti, sez. giurisdiz, Calabria, sentenza 27.05.2019 n. 185).

CONSIGLIERI COMUNALI: Rimborso permessi amministratori locali dipendenti di s.p.a. a totale partecipazione pubblica.
Ai sensi dell’art. 80 del TUEL, gli oneri relativi ai permessi retribuiti degli amministratori locali per l’espletamento delle loro funzioni pubbliche sono a carico dell’ente presso cui dette funzioni vengono svolte ove si tratti di lavoratori dipendenti da privati o da enti pubblici economici.
Per quanto concerne la natura delle società a totale partecipazione pubblica, il Consiglio di Stato, sez. I, ha da ultimo chiarito, con il parere 16.11.2011, n. 706, che ai fini dell’applicazione dell’art. 80 del TUEL sono considerate “privati” -e quindi hanno diritto al rimborso da parte del Comune dei predetti oneri- tutte le società pubbliche, ad esclusione di quelle inserite nel conto economico consolidato individuate dall’ISTAT, ai sensi dell’art. 1, commi 2 e 3, D.Lgs. n. 196/2009, e di quelle che hanno per legge personalità giuridica di diritto pubblico.

Il Comune chiede un parere in ordine alla possibilità di rimborsare gli oneri relativi ai permessi retribuiti fruiti da amministratori che sono dipendenti di azienda partecipata dell’Ente, ai sensi dell’art. 80 del TUEL. Il Comune precisa che l’azienda in questione è una SPA partecipata al 100% da soci pubblici.
L’art. 80 del TUEL stabilisce che le assenze dal servizio degli amministratori locali per partecipare alle riunioni degli organi politici di cui fanno parte, nonché quelle relative agli altri permessi previsti dalla legge per l’espletamento del mandato, sono retribuite dal datore di lavoro. La norma precisa altresì che, qualora detti amministratori siano lavoratori dipendenti di privati o di enti pubblici economici, gli oneri per i permessi retribuiti sono a carico dell'ente presso il quale gli stessi lavoratori esercitano le funzioni pubbliche di cui all'articolo 79
[1].
Stante la formulazione testuale della norma, il rimborso degli oneri relativi ai permessi di cui si tratta da parte del Comune è correlato alla natura privata (o di ente pubblico economico) del datore di lavoro degli amministratore locali
[2].
Con riferimento ad amministratori dipendenti di s.p.a. a capitale interamente pubblico –nella specie, Poste Italiane S.p.a. e Ferrovie dello Stato S.p.a.– una prima posizione del Ministero è stata quella di escludere il rimborso dei permessi retribuiti a dette società da parte dell’ente locale, argomentando dalla natura pubblica di dette società affermata dal Consiglio di Stato
[3].
Peraltro, il Ministero ha successivamente ritenuto di richiedere un parere al Consiglio di Stato sulla natura pubblica o privata delle s.p.a. a capitale interamente pubblico, ai fini dell’applicazione dell’art. 80 del TUEL.
Ebbene, il Consiglio di Stato, nell’auspicare un intervento chiarificatore del legislatore sull’effettiva natura delle s.p.a. pubbliche, che prescinda dal contesto e dall’applicazione di norme di settore, ha fornito un parere in relazione alle specifiche esigenze applicative della menzionata disposizione del D.Lgs. n. 267/2000.
In particolare, posto che l’art. 80 del TUEL fa riferimento soprattutto al rapporto di dipendenza dei lavoratori, il Consiglio di Stato ha preso in considerazione le normative di carattere generale che lo connotano, in relazione alla natura giuridica del datore di lavoro: in particolare, il D.Lgs. n. 165/2001, recante “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”, all’art. 1, comma 2, prevede analiticamente cosa si debba intendere per amministrazioni pubbliche, escludendo gli enti pubblici economici (e a fortiori le società per azioni a capitale pubblico). Inoltre, la L. n. 196/2009 (legge di contabilità e finanza pubblica), altra normativa di carattere generale, all’art. 1, commi 2 e 3, considera, ai fini della legge medesima, per amministrazioni pubbliche i soggetti espressamente indicati dall’ISTAT con specifico provvedimento da pubblicarsi nella G.U. entro il 30 settembre di ogni anno.
Alla luce di tali riferimenti normativi, il Consiglio di Stato ha affermato che sono da ritenersi amministrazioni pubbliche: a) tutte quelle elencate dall’art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 165/2001; b) gli enti e gli altri soggetti inseriti nel conto economico consolidato individuati, ai sensi dell’art. 1, commi 2 e 3, D.Lgs. n. 196/2009, dall’ISTAT
[4]; c) quelle società alle quali la legge attribuisce espressamente “personalità giuridica di diritto pubblico”.
Conseguentemente –conclude il Consiglio di Stato– sono considerate “privati”, ai sensi dell’art. 80, secondo periodo, D.Lgs. n. 267/2000, e quindi non sono a loro carico gli oneri per i permessi retribuiti dei propri dipendenti correlati all’esercizio delle funzioni pubbliche, tutte le società pubbliche, ad esclusione di quelle inserite nel conto economico consolidato individuate dall’ISTAT in applicazione della normativa di cui al D.Lgs. n. 196/2009 richiamata, e di quelle che hanno per legge “personalità giuridica di diritto pubblico”.
Il Consiglio di Stato precisa come tale conclusione sia a favore di una soluzione di certezza giuridica che regga su dati normativi testuali e prescinda da interpretazioni legate all’accertamento della natura delle singole situazioni
[5].
Alla luce di quanto esposto, si ritiene che l’Ente possa far riferimento, per la soluzione del caso che lo riguarda, ai criteri elaborati dal Consiglio di Stato per l’individuazione della natura (privata o pubblica), ai fini dell’applicazione dell’art. 80 del TUEL, della s.p.a. interamente pubblica datore di lavoro dei dipendenti amministratori,.
Un tanto anche avuto riguardo alla nota del Ministero dell’Interno n. 47 del 13.01.2012, con cui il Ministero trasmette ai Prefetti della Repubblica il parere del Consiglio di Stato n. 706/2011, con preghiera di darne la più ampia divulgazione presso le amministrazioni locali
[6].
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[1] In tal caso, l'ente, su richiesta documentata del datore di lavoro, è tenuto a rimborsare quanto dallo stesso corrisposto, per retribuzioni ed assicurazioni, per le ore o giornate di effettiva assenza del lavoratore. Il rimborso viene effettuato dall'ente entro trenta giorni dalla richiesta.
[2] La ratio della norma è infatti quella di salvaguardare l’esercizio delle funzioni pubbliche svolte da lavoratori dipendenti prevedendo il ristoro dei conseguenti oneri nei confronti dei soggetti datori di lavoro privati (o aventi natura di ente pubblico economico), ristoro escluso nei confronti dei soggetti datori di lavoro pubblici.
[3] Ministero dell’Interno, Dipartimento per gli affari interni e territoriali, parere del 10.06.2010, ove il Ministero argomenta dalle considerazioni del Consiglio di Stato sez. VI, 02.03.2001, n. 1206 secondo cui Poste Italiane S.p.a. ha natura pubblica, sulla base del fatto che la stessa sia ancora interamente posseduta dallo Stato, che continui ad agire per il conseguimento di finalità pubblicistiche e che lo Stato, nella sua veste di azionista di maggioranza o totalitario, non possa che indirizzare le attività societarie a fini di interesse pubblico generale.
Allo stesso modo, la giurisprudenza amministrativa aveva affermato la natura pubblicistica di Ferrovie dello Stato S.p.a., nonostante la veste formalmente privatistica (Consiglio di Stato sez. VI, 16.12.1998, n. 1683; TAR Roma, sez. III, 06.08.2002, n. 7010, richiamati dal Ministero citato).
Per l’orientamento più recente, nel senso della natura privata di dette società, ai fini dell’applicazione dell’art. 80 del TUEL, si veda sub nota 4.
[4] In proposito, il Consiglio di Stato osserva che l’elenco di cui al comunicato 24.07.2010 e a quello 30.09.2011 non comprende Ferrovie dello Stato S.p.a., Trenitalia S.p.a. e Poste Italiane S.p.a.
Lo stesso vale, da ultimo, per l’elenco di cui al comunicato dell’ISTAT pubblicato nella G.U. del 28.09.2018, n.d.r.
[5] Nel senso della rimborsabilità dei permessi a datori di lavoro aventi veste di s.p.a. a totale partecipazione pubblica, v. anche Corte dei conti Lombardia 26.09.2017, n. 256, con specifico riferimento ad un assessore dipendente di una s.p.a. a totale capitale pubblico che opera in affidamento diretto in house per la gestione del servizio idrico integrato.
La Corte dei conti Lombardia argomenta dal dato della qualificazione formale, ossia la costituzione in forma societaria con connessa distinzione soggettiva tra società e soci così come la separazione dei rispettivi patrimoni (che esclude che la provenienza pubblica delle risorse impiegate nel capitale sociale determini automaticamente l’acquisizione della natura pubblicistica delle disponibilità finanziarie della società). Conforme anche Corte dei conti Veneto 28.05.2014, n. 346, sulla rimborsabilità dei permessi a dipendente di s.p.a. a totale capitale pubblico, di cui il comune presso cui il lavoratore esercita le funzioni pubbliche detiene alcune quote.
In senso parzialmente difforme sotto quest’ultimo profilo: Corte dei conti Campania 18.09.2014, n 198 e Corte dei conti Lazio 09.09.2013, n. 182, che sostengono l’inclusione delle s.p.a. a totale partecipazione pubblica tra i soggetti aventi diritto al rimborso degli oneri per permessi retribuiti accordati a propri dipendenti per lo svolgimento di funzioni pubbliche presso enti locali diversi da quelli che ne detengono il capitale sociale”.
[6] Per completezza espositiva, si segnala la pronuncia del Tribunale ordinario di Roma, sez. II, n. 16106 del 19.07.2014, che ha ritenuto di escludere la rimborsabilità dei permessi ad una s.p.a. a capitale interamente pubblico, ritenendo che la stessa, pur avendo natura giuridica formale privata potesse essere parificata ai soggetti pubblici di cui all’art. 80 del TUEL, avuto riguardo alla funzione pubblica svolta di gestione tributaria.
Il Tribunale di Roma –a fronte della posizione del Consiglio di Stato, che, per individuare i soggetti aventi natura giuridica formale privata da parificarsi ai soggetti pubblici di cui all’art. 80 del TUEL, ha optato per una soluzione di certezza giuridica “che regga su dati normativi testuali e prescinda da interpretazioni legate all’accertamento della natura delle singole situazioni”– ha comunque ritenuto potersi verificare in via interpretativa se la s.p.a. a totale capitale pubblico di cui si trattava potesse essere parificata ai soggetti pubblici di cui all’art. 80 del TUEL.
Ed un tanto il Tribunale ha reputato possibile, sulla base dello statuto della società in questione, da cui emergeva che la stessa svolgeva esclusivamente attività istituzionali proprie dell’ente proprietario (unico socio), non compatibili con l’esercizio di attività di impresa in regime di concorrenza
(27.05.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Quorum, modifiche doc. La materia è demandata al regolamento. Non spetta allo statuto disciplinare il funzionamento dei consigli.
Può il presidente del consiglio rigettare una proposta di modifica allo statuto proposta da un consigliere comunale?
Un consigliere ha rappresentato di aver ricevuto una nota con la quale il presidente del consiglio comunale comunicava di non poter recepire validamente la proposta di modifica dello statuto in materia di quorum strutturale per le sedute di seconda convocazione perché in contrasto con il dispositivo recato dall'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000.
Il citato art. 38, comma 2, come noto, ha demandato alla fonte regolamentare, nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto, il funzionamento dei consigli e, in particolare, la determinazione del numero legale per la validità delle sedute, con il limite che detto numero non può, in ogni caso, essere inferiore al «terzo dei consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a tal fine il sindaco».
Ai sensi dell'art. 8, comma 1, del regolamento sul funzionamento del consiglio comunale è previsto che l'iniziativa per le deliberazioni consiliari si esercita mediante la formulazione di un testo di deliberazione e che la relativa iniziativa spetta alla giunta e a ciascun consigliere comunale. Il comma 2 del medesimo articolo prevede che il presidente, sulla scorta dei pareri delle competenti strutture comunali, può dichiarare inammissibili quelle proposte e quegli emendamenti privi della copertura o i cui testi contrastino con norme di legge, dello statuto o dei regolamenti comunali. Ai sensi del successivo comma 3, si individua il consiglio di presidenza, composto dal presidente e dai vicepresidenti, quale organo di reclamo per testi dichiarati inammissibili al dibattito consiliare.
Atteso il delineato contesto normativo, la nota del presidente del consiglio comunale avrebbe dovuto menzionare il contenuto dei pareri previsti dall'art. 8, comma 2, del regolamento sul consiglio comunale anche al fine di fornire elementi utili a rimodulare correttamente la proposta di modifica del quorum strutturale di seconda convocazione. In tal modo si sarebbe consentito il pieno svolgimento dello ius ad ufficium del consigliere con specifico riferimento all'esercizio del diritto di iniziativa deliberativa.
Nel merito, poiché ai sensi dell'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, la materia concernente il quorum strutturale è demandata non allo statuto, ma al regolamento del consiglio, la proposta di modifica avrebbe dovuto riferirsi a tale fonte normativa
(articolo ItaliaOggi del 24.05.2019).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGOREATI CONTRO LA PA/ Abuso d’ufficio per il sindaco che punisce lo zelo. Punito il comportamento ritorsivo contro un dipendente diligente.
Abuso d’ufficio per il sindaco che non rinnova l’incarico e nega l’indennità al responsabile di area come ritorsione per il suo zelo. E il reato -oltre alla valutabilità del danno il danno economico e professionale- scatta a prescindere dal diritto o meno del dipendente alla riconferma.
La colpa del funzionario era di aver agevolato l’accertamento della responsabilità contabile, poi esclusa, del primo cittadino e della giunta in merito ad alcune nomine, e nell’aver dato seguito, malgrado sconsigliato in maniera “pressante”, ad iniziative per presunti illeciti della polizia locale. Un comportamento virtuoso che gli era costato il rinnovo della nomina a responsabile dell’area vigilanza e le indennità: in pratica un demansionamento.
Per la Corte di Cassazione (Sez. VI penale, sentenza 23.05.2019 n. 22871), che avalla la linea della Corte d’Appello, il sindaco con le sue azioni ritorsive e discriminatorie, aveva prima di tutto violato la Costituzione. E, in particolare l’articolo a tutela del buon andamento e dell’imparzialità della Pa, e l’articolo , secondo il quale i cittadini a cui sono affidate funzioni pubbliche devono adempierle con disciplina e onore.
Una lettura che non era piaciuta al ricorrente, secondo il quale, la Corte di merito aveva valorizzato la Carta per il reato di abuso d’ufficio (articolo del Codice penale) anziché norme specifiche. Ad avviso della difesa, infatti, la Costituzione non ha un contenuto precettivo, mentre per contestare il reato sarebbe stato necessario individuare la violazione di una specifica disciplina.
La Cassazione condivide l’impostazione dei giudici di merito che, pur avendo analizzato le norme sul conferimento degli incarichi e sull’impiego pubblico, non le hanno messe al centro della loro decisione.
Chiarito che il demansionamento c’era stato perché non erano stati assecondati i desiderata del sindaco, il reato, e la conseguente valutabilità dei danni, ci sono, infatti, al di là del diritto al rinnovo dell’incarico e all’indennità. La Cassazione spiega che l’abuso d’ufficio «fa riferimento a una condotta che non è genericamente connotata da abuso, ma deve essere caratterizzata da violazione di norme di legge o di regolamento ovvero dall’omessa astensione».
Il legislatore ha voluto dunque delimitare con più precisione la sfera dell’illecito «in modo che non consentisse indebite interferenze nell’azione amministrativa e implicasse la chiara definizione dei canoni di riferimento». E non si può affermare che il riferimento alla legge non includa le fonti sovraordinate: prima fra tutte la Costituzione. In questo quadro pesa l’articolo , da valutare in sinergia con l’articolo , che impone di esercitare con disciplina e onore le funzioni pubbliche e ai pubblici ufficiali di assicurare il buon andamento e l’imparzialità dell’ amministrazione.
Solo in apparenza la Carta introduce canoni di carattere generale, in realtà le direttive hanno un immediato risvolto applicativo. È chiaro il rilievo dato all’inosservanza del principio di imparzialità che mette “fuori legge” ingiustificate preferenze, favoritismi e vessazioni intenzionali e discriminatorie (articolo Il Sole 24 Ore del 24.05.2019).
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La condotta evidenzia discriminazioni e ritorsioni.
Risponde del reato di abuso di ufficio il sindaco che discrimina e fa ritorsioni nei confronti del responsabile di un settore amministrativo dell'ente locale, non rinnovandogli l'incarico perché non ha seguito le sue indicazioni e procurandogli un danno connesso alla mancata corresponsione di indennità associate alla posizione e a un sostanziale demansionamento.

Così la Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la sentenza 23.05.2019 n. 22871.
Il delitto di abuso d'ufficio nella formulazione che risulta dalle modifiche introdotte dalla legge 234/1997, fa riferimento a una condotta che non è genericamente connotata da abuso, ma deve essere caratterizzata da violazione di norme di legge o di regolamento ovvero dall'omessa astensione. Il legislatore ha voluto in questo modo delimitare con più precisione la sfera dell'illecito, circoscrivendolo entro un ambito che non consentisse indebite interferenze nell'azione amministrativa e implicasse la chiara definizione dei canoni esterni di riferimento.
Nel caso in esame è stato ravvisato il delitto di abuso di ufficio quando «la condotta del pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l'esercizio del potere, ma anche quando la stessa risulti orientata alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito, realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello sviamento di potere, che integra la violazione di legge, poiché lo stesso non viene esercitato secondo lo schema normativo che ne legittima l'attribuzione».
E nel contempo si comprende che sia stato dato rilievo all'inosservanza del principio costituzionale dell'imparzialità, che preclude ingiustificate preferenze o favoritismi ovvero intenzionali vessazioni o discriminazioni.
Ciò significa che l'articolo 323 del codice penale (reato di abuso di ufficio), pur non essendo di per sé riferibile alla violazione di norme poste da fonti diverse da quelle menzionate, tuttavia ricomprende la violazione di quei canoni costituzionali, che assumono precisa valenza e costituiscono la base stessa dell'esercizio dei pubblici uffici. Ne deriva, affermano i giudici di legittimità, che il riscontro del carattere discriminatorio e ritorsivo dell'azione amministrativa non vale solo a qualificare ab extrinseco il movente, ma rileva sul piano oggettivo, connotando il contenuto di tale azione e rendendo la condotta penalmente tipica.
Per la Cassazione è corretto il ragionamento dei giudici di merito, che hanno ravvisato l'illiceità della condotta del sindaco ricorrente proprio in ragione del suo contenuto discriminatorio e ritorsivo, contrastante non con evanescenti principi generali bensì con una precisa direttiva, sottostante all'azione di qualsiasi pubblico ufficiale, che implica l'osservanza della causa del potere assegnato e il rifiuto di qualsivoglia pregiudiziale discriminazione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.05.2019).
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MASSIMA
2. Il secondo motivo è infondato.
2.1. Va in effetti rimarcato che la contestazione di cui al capo B), per la quale è stata pronunciata condanna, nel far riferimento al disposto dell'art. 97 Cost. e dell'art. 1, comma 1, legge 241 del 1990, intendeva far leva essenzialmente sul carattere discriminatorio e ritorsivo della condotta del ricorrente in danno del Sa., indicando in tale quadro alcuni elementi descrittivi, aventi lo scopo di corroborare tale assunto, costituiti dall'utilizzo di una motivazione apparente, dalla nomina di altro soggetto privo di diploma di laurea, in assenza di una procedura comparativa, dal contributo che era stato fornito dal Sa. per l'accertamento della responsabilità contabile del Sindaco e della Giunta per i fatti di cui all'originario capo A), dal fatto che il Sa. aveva contravvenuto alle espresse richieste del Sindaco di non dar corso ad iniziative per presunti illeciti commessi da agenti della Polizia locale.
La Corte ha sul punto condiviso l'impostazione del primo Giudice, che proprio sul carattere discriminatorio e ritorsivo della condotta in danno del Sa. ha fondato il proprio giudizio, nel quale non ha assunto un rilievo centrale il riferimento agli artt. 110 d.lgs. 267 del 2000 e 19 d.lgs. 165 del 2001, pur menzionati nel capo di imputazione.
2.2. Ciò posto, le doglianze del ricorrente non possono trovare accoglimento.
L'art. 323 cod. pen. nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte dalla legge 234 del 1997, fa riferimento ad una condotta che non è genericamente connotata da abuso, ma deve essere caratterizzata da violazione di norme di legge o di regolamento ovvero dall'omessa astensione.
Il legislatore ha voluto in tal modo delimitare con più precisione la sfera dell'illecito, circoscrivendolo entro un ambito che non consentisse indebite interferenze nell'azione amministrativa e implicasse la chiara definizione dei canoni esterni di riferimento.
In tale prospettiva la violazione di legge o di regolamento non può che essere intesa come rappresentativa del superamento di quei canoni esterni, posti da fonti ben individuate.
D'altro canto non può in alcun modo affermarsi che il riferimento alla legge non includa altresì quello a fonti sovraordinate, prima di tutto la Carta fondamentale, cioè la Costituzione, ove parimenti in grado di definire in modo preciso i limiti dell'azione amministrativa.
Ed anzi deve al riguardo rimarcarsi come l'intera disciplina di tale azione debba essere collocata nell'ambito costituzionale, in relazione a precise direttive che dalla Costituzione possano desumersi sia sul versante della stretta correlazione tra il potere affidato e la fonte di esso sia su quello dell'effettivo svolgimento dell'azione amministrativa.
In tale quadro viene in evidenza l'art. 97 Cost., da valutare in sinergia con l'art. 54 Cost.: ed invero si desume da tali norme che
le funzioni pubbliche devono essere esercitate con disciplina ed onore e che i pubblici uffici devono essere organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione.
Solo in apparenza per tale via sono introdotti canoni di carattere generale, in quanto in realtà siffatte direttive contengono un immediato risvolto applicativo, imponendo da un lato il rispetto della causa di attribuzione del potere, in modo che lo stesso non sia esercitato al di fuori dei suoi presupposti, e dall'altro l'imparzialità dell'azione, la quale non deve essere contrassegnata da profili di discriminazione e ingiustizia manifesta, aspetti di per sé contrastanti con l'intero assetto costituzionale dei poteri amministrativi, come in concreto poi disciplinati dalla legge.
Ben si comprende su tali basi che sia stato ravvisato il delitto di abuso di ufficio quando «la condotta del pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l'esercizio del potere, ma anche quando la stessa risulti orientata alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito, realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello sviamento di potere, che integra la violazione di legge, poiché lo stesso non viene esercitato secondo lo schema normativo che ne legittima l'attribuzione» (Cass. Sez. U. n. 155 del 29/09/2011, dep. nel 2012, Rossi, rv. 251498; Cass. Sez. 6, n. 27816 del 02/04/2015, Di Febo, rv. 263932).
E nel contempo
si comprende che sia stato dato rilievo all'inosservanza del principio costituzionale dell'imparzialità, che preclude ingiustificate preferenze o favoritismi ovvero intenzionali vessazioni o discriminazioni (Cass. Sez. 6, n. 49549 del 12/06/2018, Laimer, rv. 274225; Cass. Sez. 2, n. 46096 del 27/10/2015, Giorgino, rv. 265464).
Ciò significa che
l'art. 323 cod. pen., pur non essendo di per sé riferibile alla violazione di norme poste da fonti diverse da quelle menzionate, tuttavia ricomprende la violazione di quei canoni costituzionali, che assumono precisa valenza e costituiscono la base stessa dell'esercizio dei pubblici uffici.
Ne deriva che
il riscontro del carattere discriminatorio e ritorsivo dell'azione amministrativa non vale solo a qualificare ab extrinseco il movente, ma rileva sul piano oggettivo, connotando il contenuto di tale azione e rendendo la condotta penalmente tipica.
2.3. Ed allora
deve rilevarsi la correttezza del ragionamento dei Giudici di merito, che hanno ravvisato l'illiceità della condotta del ricorrente proprio in ragione del suo contenuto discriminatorio e ritorsivo, contrastante non con evanescenti principi generali bensì con una precisa direttiva, sottostante all'azione di qualsiasi pubblico ufficiale, implicante l'osservanza della causa del potere assegnato e il rifiuto di qualsivoglia pregiudiziale discriminazione.
In particolare, anche sulla scorta di quanto rilevato dal Giudice del lavoro nel provvedimento del 15/10/2014, è stato osservato:
   - che
l'apertura del procedimento per il mancato rinnovo al Sa. dell'incarico di Responsabile dell'Area Vigilanza era stato caratterizzato da motivazioni (riferite alla necessità di rotazione per ragioni di prevenzione della corruzione) del tutto pretestuose, prive di qualsivoglia riscontro e intrinsecamente contraddittorie rispetto a quanto in diversa occasione rilevato;
   - che
il Sa. si era per contro distinto nel propiziare l'accertamento della responsabilità erariale del Sindaco e della Giunta nella vicenda della nomina di Ci.Ro. (oggetto dell'originario capo A) e nel contravvenire ai pressanti suggerimenti del Sindaco di non dar corso ad iniziative riguardanti presunti illeciti addebitabili all'agente Ch.;
   - che
al momento di procedere alla nomina del nuovo Responsabile dell'Area Sicurezza, il Sindaco aveva del tutto omesso di procedere ad una valutazione comparativa, assegnando l'incarico a Qu.Lu. appena transitato in mobilità nel ruolo del Comune, ma sprovvisto del diploma di laurea, e ponendo il Sa. in posizione addirittura subordinata a colui che era stato il suo vice;
   - che
la richiesta di assegnazione di un'indennità di coordinamento o di maggiorazione dell'indennità di posizione, era stata negata senza una sostanziale motivazione, dopo che nel luglio 2013 il Sindaco, con una mail, aveva mostrato di correlare l'accoglimento della richiesta al modo in cui il Sa. avrebbe gestito la questione riguardante gli illeciti addebitati al Ch..
Tali elementi sono stati tutt'altro che arbitrariamente posti a fondamento del carattere ritorsivo e discriminatorio del trattamento riservato al Sa., non rilevando la circostanza che il predetto avesse o meno uno specifico diritto al rinnovo ovvero al riconoscimento dell'indennità, a fronte del contenuto assunto dall'azione amministrativa e del concreto sviamento del potere, esercitato con modalità contrastanti con le ragioni poste a fondamento di esso.
Prive di rilievo risultano in tale prospettiva anche le deduzioni, peraltro largamente assertive, riguardanti l'interpretazione degli artt. 50, 107, 109 e 110 d.lgs. 267 del 2000, a fronte del carattere assorbente del rilevato profilo di illiceità, qualificato anche dalla mancata adozione di un'adeguata valutazione comparativa, tale da costituire specifica giustificazione della determinazione assunta:
va invero rilevato come tale mancanza costituisca dato sintomaticamente idoneo a rafforzare il giudizio in ordine al contenuto discriminatorio di tale determinazione, così come la sostanziale assenza di una specifica motivazione del mancato riconoscimento dell'indennità, a fronte di quanto precedentemente prospettato in termini di correlazione con i desiderata del Sindaco, suffraga la valenza ritorsiva del diniego, quand'anche legato a valutazione discrezionale (per il rilievo della motivazione deve del resto richiamarsi Cass. Sez. 6, n. 13341 del 27/10/1999, Stagno D'Alcontres, rv. 215278, nonché la più recente Cass. Sez. 6, n. 21976 del 05/04/2013, Paiardini, rv. 256549).
E' del tutto inconferente infine la circostanza che la fonte dell'indennità fosse costituita da una convenzione, non riconducibile né alla legge né al regolamento: in realtà deve ribadirsi come la valutazione di illiceità riposi anche in questo caso sulla valenza discriminatoria e ritorsiva del diniego, nei termini già descritti.
3. E' parimenti infondato il terzo motivo.
3.1.
Con riguardo al tema della c.d. doppia ingiustizia, si rileva in generale che accanto al profilo della violazione di legge o di regolamento (o della violazione dell'obbligo di astensione) che deve connotare la condotta, deve individuarsi il profilo dell'ingiustizia del vantaggio patrimoniale o del danno, che costituiscono, in alternativa, l'evento consumativo del delitto di abuso di ufficio.
Tale ingiustizia può essere individuata sia in base a profili autonomi rispetto a quelli che connotano la condotta sia quale proiezione di quegli stessi profili, ove idonei a qualificare il risultato prodotto (sul punto Cass. Sez. 6, n. 48913 del 04/11/2015, Ricci, rv. 265473; Cass. Sez. 6, n. 11394 del 29/01/2015, Strassoldo, rv. 262793).
D'altro canto
la nozione di danno ingiusto deve essere intesa non solo con riguardo a situazioni patrimoniali e a diritti soggettivi perfetti (Cass. Sez. 6, n. 39452 del 07/07/2016, Brigandì, rv. 268222), dovendosi aver riguardo ad ogni tipo di aggressione arrecata a situazioni soggettive di pertinenza di un soggetto, nel presupposto che la stessa sia giuridicamente ingiustificata e tale da produrre conseguenze lesive.
Assume infatti rilievo la fattispecie di danno ingiusto evocata dall'art. 2043 cod. civ., riferibile anche alla lesione di interessi legittimi (sul punto dopo l'analisi di Cass. Civ. Sez. U., n. 500 del 22/07/1999, rv., si rinvia per più recenti puntualizzazioni del tema a Cass. Civ., Sez. 1, n. 16196 del 20/06/2018, rv. 649479; Cass. Sez. L., n. 7043 del 13/04/2004, rv. 572035), ferma restando la concreta valutabilità della «chance», particolarmente rilevante nel caso di comparazione di poche posizioni.
3.2. In tale prospettiva è all'evidenza infondata la doglianza incentrata sulla non configurabilità di un diritto soggettivo del Sa. a vedersi confermato l'incarico ed a fruire dell'indennità richiesta.
Al contrario deve condividersi l'assunto dei Giudici di merito secondo i quali
la condotta discriminatoria e ritorsiva del ricorrente, sostenuta altresì da quello specifico animus, si è proiettata sul Sa., determinando l'intenzionale pregiudizio della sua posizione, valutabile in termini professionali e patrimoniali, pur a prescindere dalla sussistenza di un vero e proprio diritto soggettivo, in quanto ha compromesso in quello specifico momento la possibilità del Sa. di continuare a svolgere le medesime mansioni, ne ha per contro determinato il sostanziale demansionamento, con sottoposizione a soggetto precedentemente a lui sottoposto, ha significato il mancato riconoscimento dell'indennità, che lo stesso Sindaco aveva mostrato di voler condizionare a comportamenti in linea con i suoi desiderata.
Tali effetti lesivi della condotta sono stati dunque correttamente qualificati come di per sé ingiusti, in quanto tali da pregiudicare la posizione del Sa. e da non trovare alcuna giuridica giustificazione, avuto riguardo alle illecite determinazioni assunte.
Non rileva in senso contrario che in prosieguo di tempo, dopo l'annullamento disposto dal Giudice del lavoro, fosse stato riattivato il procedimento con valutazione comparativa, cui il Sa. aveva omesso di partecipare, e fosse stata assunta una nuova determinazione in merito alla spettanza dell'indennità con esito negativo per lo stesso Sa., avallato questa volta dal Giudice del lavoro, a fronte di addotti persistenti profili di discriminatorietà.
Va infatti rimarcata in questa sede la lesione già prodottasi, in conseguenza dell'illecito esercizio delle funzioni amministrative e del contenuto discriminatorio delle relative determinazioni, tali da arrecare di per sé, «hic et nunc», un pregiudizio contra ius, peraltro assistito dall'intenzionalità, insita nello stesso connotato di ritorsione sotteso all'agire amministrativo.

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Commissioni inclusive.
Può considerarsi aderente al dettato legislativo un regolamento del consiglio comunale in base al quale il rispetto del criterio della rappresentanza proporzionale dei gruppi presenti in consiglio presso le commissioni consiliari sia riferito al «numero complessivo dei componenti le commissioni»?

In base a quanto disposto dall'art. 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000, le commissioni consiliari, una volta istituite sulla base di una facoltativa previsione statutaria, sono disciplinate dall'apposito regolamento comunale con l'inderogabile limite, posto dal legislatore, riguardante il rispetto del criterio proporzionale nella composizione. Ciò significa che le forze politiche presenti in consiglio devono essere il più possibile rispecchiate anche nelle commissioni in modo che in ciascuna di esse ne sia riprodotto il peso numerico e di voto.
Poiché il legislatore non precisa come debba essere applicato il surriferito criterio di proporzionalità, spetta al regolamento, cui sono demandate la determinazione dei poteri delle commissioni, nonché la disciplina dell'organizzazione e delle forme di pubblicità dei lavori, stabilire i meccanismi idonei a garantirne il rispetto.
Secondo l'univoco e consolidato indirizzo giurisprudenziale formatosi, il criterio proporzionale può dirsi rispettato ove sia assicurata, in ogni commissione, la presenza di ciascun gruppo presente in consiglio in modo che, se una lista è rappresentata da un solo consigliere, questi deve essere presente in tutte le commissioni costituite (si veda Tar Lombardia, Brescia, 04.07.1992, n. 796; Tar Lombardia Milano, 03.05.1996, n. 567), assicurando una composizione delle commissioni proporzionata all'entità di ciascun gruppo consiliare.
Pertanto il dettato legislativo, che prevede il rispetto del criterio proporzionale nella composizione delle commissioni consiliare, dovrebbe essere riferito ad ogni commissione costituita e non all'insieme delle commissioni stesse
(articolo ItaliaOggi del 17.05.2019).

CONSIGLIERI COMUNALI: Diritto di accesso di un consigliere al sistema informatico comunale.
L’accesso diretto tramite utilizzo di apposita password al protocollo informatico dell’Ente è uno strumento consentito ai consiglieri comunali, finalizzato a favorire la tempestiva acquisizione delle informazioni richieste senza aggravare l’ordinaria attività amministrativa.
Peraltro, la determinazione delle modalità organizzative attraverso le quali viene garantito l’accesso ai consiglieri comunali rientra tra le prerogative di esclusiva competenza dell’Amministrazione.

Il Comune chiede un parere in materia di diritto di accesso spettante ai consiglieri comunali. Più in particolare, premesso che un amministratore locale ha richiesto all’Ente l’accesso, tramite apposita password, al sistema informatico comunale “al fine di acquisire tempestivamente le informazioni necessarie all’espletamento del proprio mandato elettivo”, chiede se la consultazione del protocollo generale comunale debba limitarsi ad una presa visione generale dello stesso eventualmente seguita da una richiesta specifica e mirata di determinati atti/documenti o se tale consultazione già, ab origine, possa comprendere la presa visione di tutti gli atti e documenti allegati, ancorché relativi ad attività endoprocedimentali.
Il diritto di accesso dei consiglieri comunali è disciplinato all’articolo 43 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, il quale, al comma 2, riconosce a questi il diritto di ottenere dagli uffici comunali, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del loro mandato.
Si osserva, in via generale, che la giurisprudenza ha costantemente sottolineato che le informazioni acquisibili devono considerare l’esercizio, in tutte le sue potenziali esplicazioni, del munus di cui ciascun consigliere comunale è individualmente investito, in quanto membro del consiglio. Ne deriva che tale munus comprende la possibilità per ogni consigliere di compiere, attraverso la visione dei provvedimenti adottati e l’acquisizione di informazioni, una compiuta valutazione della correttezza e dell’efficacia dell’operato dell’amministrazione comunale, utile non solo per poter esprimere un voto maggiormente consapevole sugli affari di competenza del consiglio, ma anche per promuovere, nell’ambito del consiglio stesso, le varie iniziative consentite dall’ordinamento ai membri di quel collegio
[1].
Il generale diritto di accesso del consigliere comunale è quindi esercitato riguardo ai dati utili per l’esercizio del mandato e fornisce una veste particolarmente qualificata all’interesse all’accesso del titolare di tale funzione pubblica, legittimandolo all’esame e all’estrazione di copia dei documenti che contengono le predette notizie e informazioni
[2].
Sul consigliere comunale non può gravare alcun onere di motivare le proprie richieste di informazione, né gli uffici comunali hanno titolo a richiedere le specifiche ragioni sottese all’istanza di accesso, né a compiere alcuna valutazione circa l’effettiva utilità della documentazione richiesta ai fini dell’esercizio del mandato. A tale riguardo il Ministero dell’Interno ha evidenziato che “diversamente opinando, la P.A. assumerebbe il ruolo di arbitro delle forme di esercizio delle potestà pubblicistiche dell’organo deputato all’individuazione ed al perseguimento dei fini collettivi. Conseguentemente, gli uffici comunali non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l’oggetto delle richieste di informazioni avanzate da un Consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da questi espletato
[3].
Il diritto di accesso spettante agli amministratori locali, pur essendo più ampio di quello riconosciuto alla generalità dei cittadini ai sensi del Capo V della legge 07.08.1990, n. 241, incontra il divieto di usare i documenti per fini privati o comunque diversi da quelli istituzionali, in quanto i dati acquisiti in virtù della carica ricoperta devono essere utilizzati esclusivamente per le finalità collegate all’esercizio del mandato (presentazione di mozioni, interpellanze, espletamento di attività di controllo politico-amministrativo ecc.). Il diritto di accesso, inoltre, non deve essere emulativo, in quanto riferito ad atti palesemente inutili ai fini dell’espletamento del mandato.
[4]
Ancora è stato affermato che le richieste di accesso devono essere esercitate con modalità e forme tali da evitare intralci all’ordinario svolgimento dell’attività degli Uffici. Su questa linea la giurisprudenza ha specificato che: “Il consigliere comunale non può abusare del diritto all’informazione riconosciutogli dall’ordinamento, piegandone le alte finalità a scopi meramente emulativi od aggravando eccessivamente, con richieste non contenute entro gli immanenti limiti della proporzionalità e della ragionevolezza, la corretta funzionalità amministrativa dell’ente civico
[5].
Con riferimento specifico alla richiesta di accesso al protocollo generale dell’Ente si è espresso il TAR Sardegna
[6] affermando che “deve essere accolta la richiesta dei consiglieri comunali di prendere visione del protocollo generale […] senza alcuna esclusione di oggetti e notizie riservate e di materie coperte da segreto, posto che i Consiglieri comunali sono comunque tenuti al segreto, ai sensi dell’art. 43, comma 2, del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267”.
Anche il Ministero dell’Interno, nell’affrontare questioni analoghe a quella in esame, si è, anche di recente, espresso in termini favorevoli all’accesso rilevando, in particolare, che: “Anche la giurisprudenza ha affermato il diritto del consigliere alla visione del protocollo generale, senza alcuna esclusione di oggetti e notizie riservate e di materie coperte da segreto, posto che i consiglieri comunali sono tenuti al segreto – ai sensi del citato articolo 43 del decreto legislativo n. 267/2000
[7].
Con specifico riferimento al protocollo informatico comunale la Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi nel parere del 22.02.2011 ha rilevato che “ai sensi della vigente normativa […] ogni comune deve provvedere a realizzare il protocollo informatico, al quale possono poi liberamente accedere i consiglieri comunali, i quali pertanto –tramite tale protocollo– possono prendere visione di tutte le determinazioni e le delibere adottate dall’ente; ciò in ottemperanza al principio generale di economicità dell’azione amministrativa, che riduce allo stretto necessario la redazione in forma cartacea dei documenti amministrativi
[8].
Le conclusioni di cui sopra sono state fatte proprie anche dal Ministero dell’interno
[9] il quale, investito della questione del diritto di accesso al sistema informativo comunale da parte dei consiglieri ha richiamato le determinazioni della Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi tra cui quella secondo cui “l’accesso diretto tramite utilizzo di apposita password al sistema informatico dell’Ente, ove operante, è uno strumento di accesso certamente consentito al consigliere comunale che favorirebbe la tempestiva acquisizione delle informazioni richieste senza aggravare l’ordinaria attività amministrativa. Ovviamente il consigliere comunale rimane responsabile della segretezza della password di cui è stato messo a conoscenza a tali fini (art. 43, comma 2, T.UOEL) [10].
Preme, tuttavia, osservare che l’accesso come sopra configurato consentirebbe ai consiglieri di conoscere una moltitudine di dati personali e di informazioni anche aventi natura riservata e/o relative a determinate situazioni che esigono una dovuta tutela al fine di scongiurare una diffusione incontrollata di dati sensibili o comunque, la cui conoscenza, potrebbe essere fonte di disagio sociale
[11].
Come rilevato dall’Anci, “l’accesso diretto non può, però, essere esteso alla consultazione dei singoli atti anche per la presenza nei registri del protocollo di atti soggetti al segreto istruttorio o di atti personali o riservati la cui visione è un diritto del consigliere, comunque soggetta a valutazione da parte dell’amministrazione
[12].
In altri termini si potrebbe affermare che, ferme le considerazioni sopra espresse circa l’ampiezza del diritto di accesso spettante ai consiglieri comunali, occorrerebbe altresì considerare che “la determinazione delle modalità organizzative attraverso le quali viene garantito l’accesso ai Consiglieri comunali rientra tra le prerogative di esclusiva competenza dell’Amministrazione che dovranno evitare sia surrettizie limitazioni del diritto di accesso che aggravi ingiustificati al buon funzionamento dell’amministrazione
[13].
In questa direzione pare muoversi la recente sentenza del TAR Sardegna
[14] la quale, pur riconoscendo il diritto dei consiglieri comunali all’ottenimento delle chiavi di accesso al protocollo informatico dell’Ente, ha limitato tale diritto alla visione dei soli dati di sintesi ricavabili dalla consultazione telematica.
Afferma, in particolare, detto TAR che “la richiesta di accedere al protocollo informatico, e quindi di essere in possesso delle chiavi di accesso telematico rappresenta una condizione preliminare, ma nondimeno necessaria, per l’esercizio consapevole del diritto di accesso, in modo che questo si svolga non attraverso una apprensione generalizzata e indiscriminata degli atti dell’amministrazione comunale […] ma mediante una selezione degli oggetti degli atti di cui si chiede l’esibizione. Peraltro, una delle modalità essenziali per poter operare in tal senso è rappresentata proprio dalla possibilità di accedere (non direttamente al contenuto della documentazione in arrivo o in uscita dall'amministrazione, ma) ai dati di sintesi ricavabili dalla consultazione telematica del protocollo”.
Quanto, infine, all’accessibilità anche degli atti endoprocedimentali il Ministero dell’Interno ha rilevato che «salvo espressa eccezione di legge, ai consiglieri comunali non può essere opposto alcun divieto, determinandosi altrimenti un illegittimo ostacolo alla loro funzione visto, peraltro che ai sensi dell’art. 22, c. 1, lett. d), della legge n. 241/1990 anche gli atti interni rientrano nel concetto di “documento amministrativo”, indipendentemente dalla loro eventuale idoneità probatoria»
[15].
Riconosciuto, pertanto, il diritto di accesso dei consiglieri comunali nell’accezione sopra descritta, il Ministero dell’Interno ha ribadito, in varie occasioni, che “Fatto salvo il diritto dei consiglieri, la materia, comunque, dovrebbe trovare apposita disciplina regolamentare di dettaglio per il suo esercizio
[16].
---------------
[1] Si veda, tra le altre, Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 29.08.2011, n. 4829.
[2] Cfr. Consiglio di Stato, sez. V, decisioni 21.02.1994, n. 119, 08.09.1994, n. 976, 26.09.2000, n. 5109, che precisano che la facoltà di esaminare ed estrarre copia dei documenti spetta “a qualunque cittadino che vanti un proprio interesse qualificato e sono, a maggior ragione, contenute nella più ampia e qualificata posizione di pretesa all’informazione spettante ratione officii al consigliere comunale”. Tale principio è stato successivamente ripreso e confermato dal TAR Piemonte, sezione II, nella sentenza del 31.07.2009, n. 5879.
[3] Ministero dell’Interno, parere del 18.05.2017.
[4] Tra le altre, TAR Lombardia, Milano, sez. III, sentenza del 23.09.2014, n. 2363.
[5] TAR Campania, Salerno, sez. II, sentenza del 13.11.2012, n. 2040.
[6] TAR Sardegna, sez. II, sentenza del 12.01.2007, n. 29.
[7] Ministero dell’Interno, parere del 28.06.2018. Nello stesso senso si veda, anche, il parere del Ministero dell’Interno del 21.08.2018.
[8] Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, plenum del 22.02.2011. La medesima Commissione in altra occasione (plenum del 23.10.2012) ha affermato che: “Proprio al fine di evitare che le continue richieste di accesso si trasformino in un aggravio della ordinaria attività amministrativa dell’ente locale, questa Commissione ha riconosciuto la possibilità per il consigliere comunale di avere accesso diretto al sistema informatico interno (anche contabile) dell’ente attraverso l’uso di password di servizio (fra gli ultimi, cfr. parere del 29.11.2009) e, più recentemente, anche al protocollo informatico”.
Si veda, altresì, il parere espresso dalla medesima Commissione del 03.02.2009 ove si afferma che: “Il ricorso a supporti magnetici o l’accesso diretto al sistema informatico interno dell’Ente, ove operante, sono strumenti di accesso certamente consentiti al consigliere comunale che favorirebbero la tempestiva acquisizione delle informazioni richieste senza aggravare l’ordinaria attività amministrativa”.
[9] Ministero dell’Interno, parere del 18.05.2017.
[10] Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, seduta plenaria del 16.03.2010.
[11] Osservazioni tratte da M. Lucca, “L’accesso al protocollo da parte del consigliere comunale”, reperibile sul seguente sito internet: www.mauriziolucca.com
[12] ANCI, parere del 19.06.2018.
[13] ANCI, parere del 19.06.2018, citato anche in nota 12.
[14] TAR Sardegna, Cagliari, sentenza del 31.05.2018, n. 531. Nello stesso senso si veda, anche, TAR Toscana, Firenze, sentenza del 22.12.2016, n. 1844.
[15] Ministero dell’Interno, parere del 18.05.2017.
[16] Tra gli altri si veda Ministero dell’Interno parere del 28.06.2018
(15.05.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Il consiglio? È un diritto. I motivi della convocazione sono insindacabili. Legittimo chiedere la riunione per esaminare mozioni e interrogazioni.
Si può chiedere la convocazione del consiglio comunale ai sensi dell'art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 per poter esaminare atti di sindacato ispettivo?
Un quinto dei consiglieri comunali di minoranza di un ente ha depositato una mozione ed una interrogazione contestualmente alla istanza di convocazione ai sensi dell'art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000.
In base al regolamento sul funzionamento del consiglio comunale è previsto che le interrogazioni e le mozioni presentate al protocollo dell'ente dovranno essere iscritte all'ordine del giorno in occasione della convocazione della prima adunanza del consiglio successiva alla loro presentazione.
La medesima fonte normativa prevede che la convocazione richiesta ex citato art. 39, comma 2, «deve contenere in allegato, per ciascun argomento indicato da iscrivere all'ordine del giorno, il relativo schema di deliberazione».
Ad avviso del sindaco, in base al combinato disposto delle norme regolamentari su richiamate, sarebbe escluso che la richiesta di convocazione formulata da un quinto dei consiglieri possa avere ad oggetto atti di sindacato ispettivo, dovendo ciascuna richiesta essere, indefettibilmente, corredata dal relativo «schema di deliberazione». Il diritto ex art. 39, comma 2, «è tutelato in modo specifico dalla legge con la previsione severa ed eccezionale della modificazione dell'ordine delle competenze mediante intervento sostitutivo del prefetto in caso di mancata convocazione del consiglio comunale in un termine emblematicamente breve di venti giorni» (Tar Puglia, sez. 1, 25.07.2001, n. 4278).
L'orientamento che vede riconosciuto e definito «il potere dei consiglieri di chiedere la convocazione del consiglio medesimo» come «diritto» dal legislatore è, quindi, ormai ampiamente consolidato (sentenza Tar Puglia, Lecce, sez. I del 04.02.2004, n. 124).
La questione sulla sindacabilità dei motivi che determinano i consiglieri a chiedere la convocazione straordinaria dell'assemblea, si è orientata nel senso che al presidente del consiglio spetti solo la verifica formale della richiesta prescritto numero di consiglieri, non potendo comunque sindacarne l'oggetto.
La giurisprudenza in materia si è da tempo espressa affermando che, in caso di richiesta di convocazione del consiglio da parte di un quinto dei consiglieri, «al presidente del consiglio comunale spetta soltanto la verifica formale che la richiesta provenga dal prescritto numero di soggetti legittimati, mentre non può sindacarne l'oggetto, poiché spetta allo stesso consiglio nella sua totalità la verifica circa la legalità della convocazione e l'ammissibilità delle questioni da trattare, salvo che non si tratti di oggetto che, in quanto illecito, impossibile o per legge manifestamente estraneo alle competenze dell'assemblea in nessun caso potrebbe essere posto all'ordine del giorno» (Tar Piemonte, n. 268/1996, Tar Sardegna, n. 718 del 2003 ).
Si soggiunge che il Tar Sardegna, con la sentenza n. 718 del 2003, ha respinto un ricorso avverso un provvedimento prefettizio ex art. 39, comma 5, del citato decreto legislativo in quanto, ad avviso del giudice amministrativo, il prefetto non poteva esimersi dal convocare d'autorità il consiglio comunale, «essendosi verificata l'ipotesi di cui all'art. 39 del Tuel n. 267/2000».
Inoltre, si è sostenuto che appartiene ai poteri sovrani dell'assemblea decidere in via pregiudiziale che un dato argomento inserito nell'ordine del giorno non debba essere discusso (questione pregiudiziale) ovvero se ne debba rinviare la discussione (questione sospensiva) (Tar Puglia, Lecce, sez. 1, 25.07.2001, n. 4278 e sempre Tar Puglia, Lecce, sez. 1, 04.02.2004,n. 124).
Va peraltro rilevato che l'art. 43 del Tuel demanda alla potestà statutaria e regolamentare dei comuni e delle province la disciplina delle modalità di presentazione delle interrogazioni, delle mozioni e di ogni altra istanza di sindacato ispettivo proposta dai consiglieri, nonché delle relative risposte, che devono comunque essere fornite entro trenta giorni.
Con riguardo a quest'ultimo ambito, occorre osservare che, qualora l'intenzione dei proponenti non sia diretta a provocare una delibera in merito del consiglio comunale, bensì a porre in essere un atto di sindacato ispettivo, si potrebbe ipotizzare, ai sensi dell'art. 42, comma 1, del decreto legislativo n. 267/2000, che rientri nella competenza del Consiglio comunale in qualità di «organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo» anche la trattazione di «questioni» che, pur non rientrando nell'elencazione del comma 2 del medesimo art. 42, attengono comunque al suddetto ambito di controllo.
Del resto, la dizione legislativa che parla di «questioni» e non di deliberazioni o di atti fondamentali, conforta nel ritenere che la trattazione di argomenti non rientranti nella previsione del citato comma 2, dell'art. 42, non debba necessariamente essere subordinata alla successiva adozione di provvedimenti da parte del consiglio comunale.
Sulla base di tali argomentazioni, si ritiene, pertanto, che il prefetto sia tenuto alla applicazione della normativa prevista dall'art. 39, comma 5, del decreto legislativo n. 267/2000, invitando il sindaco a voler provvedere alla convocazione del richiesto consiglio comunale
(articolo ItaliaOggi del 10.05.2019).

CONSIGLIERI COMUNALISpese legali rimborsabili solo se il regolamento stabilisce i criteri.
Dopo le modifiche legislative sulla rimborsabilità delle spese legali agli amministratori assolti in ambito di procedimenti penali, la questione di maggior interesse si è spostata sull'invarianza della spesa. L'orientamento maggioritario dei giudici contabili ha confermato che l'invarianza finanziaria deve essere circoscritta alle sole spese della missione 1 con i «Servizi istituzionali, generali e di gestione».

Questa indicazione è stata ribadita anche dalla Corte della Campania (parere 06.05.2019 n. 102) precisando, inoltre, la necessaria previa regolamentazione per poter aderire ai canoni di legalità, imparzialità e buon andamento dell'azione amministrativa ed evitare anche ogni possibile conflitto di interesse.
La disposizione legislativa
A causa di una giurisprudenza di legittimità particolarmente restrittiva sul rimborso delle spese legali sostenute dagli amministratori degli enti locali per la propria difesa nei procedimenti penali, il Dl 78/2015 ha modificato l'articolo 86 del Testo unico degli enti locali prevedendo che, qualora ne ricorrano le condizioni, gli enti locali possono rimborsare le spese legali agli amministratori assolti, solo qualora vi sia invarianza di spesa.
In altri termini, la normativa prevede che, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, in caso di conclusione del procedimento con sentenza di assoluzione o di emanazione di un provvedimento di archiviazione, in assenza di conflitto di interessi con l'ente, in presenza di nesso causale tra funzioni esercitate e fatti giuridicamente rilevanti e, infine, in assenza di dolo o colpa grave, gli enti possono rimborsare le spese legali sostenute dagli amministratori per la propria difesa in giudizio.
Le diverse posizioni della giurisprudenza contabile
Sulla questione della rimborsabilità delle spese legali e, in modo particolare, sul concetto di invarianza di spesa, si sono formate due diverse posizioni della magistratura contabile. Da una parte una giurisprudenza minoritaria (Corte dei conti Basilicata) ha individuato l'invarianza all'interno delle risorse ordinarie finanziarie, umane e materiali che a legislazione vigente garantiscono l'equilibrio di bilancio, condizionando il rimborso alla predeterminazione di criteri e modalità cui gli enti locali devono attenersi per l'assegnazione o il riparto dello stanziamento.
Una corrente maggioritaria (Lombardia; Molise; Puglia; Piemonte, Umbria ed Emilia Romagna) ha, invece, circoscritto l'invarianza alle sole spese della Missione 1 per «Servizi istituzionali, generali e di gestione», come una sorta di autofinanziamento all'interno delle spese a disposizione degli stessi organi politici.
A questa corrente maggioritaria si affianca anche la Sezione della Campania in considerazione del fatto che la locuzione «senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica» rischierebbe di rimanere svuotata di qualsivoglia significato restando assorbita, diversamente opinando, dal principio del pareggio e degli equilibri di bilancio.
Le indicazioni del Collegio contabile campano
Un volta precisata la posta contabile cui fare riferimento per l'invarianza della spesa, il Collegio contabile partenopeo impone ulteriori condizioni. In particolare la materia del ristoro delle spese legali agli amministratori comporta scelte discrezionali con «vantaggi economici per gli stessi amministratori» che ne beneficiano, con la conseguenza che i criteri e le modalità cui gli enti devono attenersi dovrebbero essere sanciti all'interno di un regolamento che definisca ex ante l'assegnazione o il riparto dello stanziamento.
Infatti, in mancanza della previa regolamentazione gli enti saranno costretti a seguire le regole generali di legalità, imparzialità e buon andamento dell'azione amministrativa, così da evitare anche ogni possibile conflitto di interesse (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 28.05.2019).

CONSIGLIERI COMUNALI: Inconferibilità di incarichi a componenti di organi politici di livello locale.
Sussisterebbe la causa di inconferibilità di cui all’art. 7, co. 2, lett. c), del D.Lgs. 39/2013 nei confronti di un amministratore locale che venisse nominato dal sindaco quale componente del consiglio di amministrazione di un’Azienda pubblica di servizi alla persona. Tale inconferibilità riguarda non solo coloro che hanno ricoperto la carica politica nei due anni precedenti l’eventuale conferimento dell’incarico, ma altresì coloro che la ricoprono attualmente.
Il Comune chiede un parere in merito alla possibilità che il sindaco nomini un proprio consigliere comunale quale componente del consiglio di amministrazione di un’Azienda pubblica di servizi alla persona (ASP), avente sede nel Comune medesimo, atteso che quest’ultimo concluderà a breve il proprio mandato elettivo
[1].

La normativa che si ritiene debba essere presa in considerazione è il decreto legislativo 08.04.2013, n. 39 recante “Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, a norma dell'articolo 1, commi 49 e 50, della legge 06.11.2012, n. 190”, in particolare, per quel che rileva in questa sede, l’articolo 7, comma 2, lett. c), secondo cui: “A coloro che nei due anni precedenti siano stati componenti della giunta o del consiglio della provincia, del comune o della forma associativa tra comuni che conferisce l'incarico, […] non possono essere conferiti:
   a) omissis;
   b) omissis;
   c) gli incarichi di amministratore di ente pubblico di livello provinciale o comunale;
   d) omissis
”.
In via preliminare si rileva che l’azienda pubblica di servizi alla persona rientra tra gli “enti pubblici di livello provinciale o comunale”. A sostegno di un tanto depongono le seguenti argomentazioni espresse in un parere reso da questo Ufficio
[2] e che, di seguito, si riportano succintamente.
La definizione di «enti pubblici» è rinvenibile all’articolo 1, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 39/2013 che li qualifica come «enti di diritto pubblico non territoriali nazionali, regionali o locali, comunque denominati, istituiti, vigilati, finanziati dalla pubblica amministrazione che conferisce l’incarico, ovvero i cui amministratori siano da questa nominati».
Si ritiene che l’Azienda pubblica di servizi alla persona rientri in tale qualificazione in quanto ente dotato di personalità giuridica di diritto pubblico ai sensi dell’articolo 3 della legge regionale 11.12.2003, n. 19, il cui statuto disciplina modalità e criteri di elezione o nomina degli organi di amministrazione da parte degli enti locali o di altri soggetti (articolo 4, commi 1 e 2, della legge regionale 19/2003). Nel caso in esame, in base allo statuto dell’ASP i componenti del consiglio di amministrazione sono nominati dal sindaco del Comune in cui ha sede l’Azienda
[3]: ne deriva la connotazione “locale” dell’ente.
Si consideri, altresì, che la norma citata si applica anche con riferimento agli amministratori che attualmente ricoprono la carica politica, e non solo a quelli che l’hanno ricoperta in passato (due anni prima)
[4].
Alla luce delle considerazioni sopra espresse, e nel ribadire che il conferimento dell’incarico di amministratore dell’ASP compete al sindaco del Comune in cui l’amministratore locale svolge il proprio mandato elettivo, segue l’inconferibilità allo stesso dell’incarico di componente del consiglio di amministrazione dell’Azienda pubblica di servizi alla persona in riferimento.
Peraltro il fatto che l’attuale amministratore locale cesserà dalle proprie funzioni il prossimo mese di maggio non altera le conclusioni cui sopra si è addivenuti atteso che la causa di inconferibilità in argomento, come già rilevato, riguarda non solo coloro che attualmente ricoprono la carica politica ma altresì coloro che l’hanno ricoperta nei due anni precedenti l’eventuale conferimento dell’incarico.
Per completezza espositiva si segnala, inoltre, la norma di cui all’articolo 7, comma 1, della legge regionale 19/2003 nella parte in cui prevede che: “La carica di amministratore di un’azienda è incompatibile con la carica di: a) amministratore di comune […] dove insiste l’azienda”.
Segue che per il periodo di tempo in cui l’amministratore dell’Azienda pubblica di servizi alla persona fosse, altresì, amministratore locale sussisterebbe nei suoi confronti anche la causa di incompatibilità prevista dall’indicata legge regionale.
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[1] Il Comune sentito anche per le vie brevi specifica che il consigliere comunale cesserà dalle sue funzioni il prossimo mese di maggio e non si è ricandidato.
[2] Parere prot. n. 16597 del 28.05.2013.
[3] L’articolo 6 dello statuto dell’ASP recita: “Il consiglio di amministrazione è formato da cinque componenti, ivi compreso il presidente, nominati dal Sindaco del Comune di […], di cui uno in rappresentanza degli eredi della donatrice […]”. Si precisa che l’articolo individua nel sindaco del comune in cui l’Azienda ha la propria sede legale il soggetto deputato alla nomina dei componenti del consiglio di amministrazione dell’Azienda.
[4] Si veda, al riguardo, l’orientamento n. 11/2015 espresso dall’ANAC secondo cui: “Le situazioni di inconferibilità previste nell’art. 7 del d.lgs. 39/2013, nei confronti di coloro che nell’anno o nei due anni precedenti hanno ricoperto le cariche politiche e gli incarichi ivi indicati, vanno equiparate, ai fini del d.lgs. 39/2013, a coloro che attualmente ricoprono tali ruoli”
(03.05.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Stop ai consiglieri politici. La figura non è compatibile con il Tuel. Le norme sul riparto delle attribuzioni non possono essere derogate
Il sindaco può nominare i cosiddetti consiglieri politici?
L'ordinamento degli enti locali non prevede la figura del «consigliere politico»; i consiglieri, gli assessori e il sindaco, quali organi di governo degli enti locali, sono figure tipiche individuate dalla legge.
Si evidenzia che, nel sistema posto dal legislatore costituzionale, art. 117, lettera p), lo Stato ha legislazione esclusiva in materia di «organi di governo e funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane», mentre all'ente locale è riconosciuta un'autonomia statutaria, normativa, organizzativa ed amministrativa nel rispetto, però, dei principi fissati dal decreto legislativo n. 267/2000.
Ai sensi dell'art. 6 del suddetto Tuel, lo statuto stabilisce le norme fondamentali dell'organizzazione dell'ente e specifica le attribuzioni degli organi.
È prevista, inoltre, la possibilità di istituire uffici di supporto agli organi di direzione politica ai sensi dell'art. 90 del citato decreto legislativo che al primo comma demanda al regolamento degli uffici e dei servizi la possibilità di prevedere la costituzione di uffici posti alle dirette dipendenze del sindaco, della giunta o degli assessori per l'esercizio delle funzioni di indirizzo e controllo loro attribuite dalla legge.
Con riferimento a tale istituto, va ricordato che la giurisprudenza contabile ha evidenziato il carattere necessariamente oneroso del rapporto con i soggetti incaricati di funzioni di staff (cfr. pronuncia Src Campania n. 155/2014/Par).
Per quanto concerne la possibilità che il sindaco deleghi proprie funzioni ai consiglieri, tali ipotesi possono ricorrere, ai sensi dell'art. 54, comma 10, per l'esercizio delle funzioni di ufficiale del governo nei quartieri e nelle frazioni, e ai sensi dell'art. 31, comma 4, in caso di partecipazioni alle assemblee consortili.
Tutto ciò premesso, considerato che, nell'ambito dei principi fissati con legge dello Stato, l'ente può integrare, nei termini su indicati, le norme che stabiliscono il riparto delle attribuzioni, ma non può derogarle, l'individuazione della figura del «consigliere politico» non appare compatibile con l'ordinamento degli enti locali
(articolo ItaliaOggi del 03.05.2019).

aprile 2019

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Ok ai consigli urgenti. Per gli atti soggetti a termine perentorio. Quando è possibile riunire l' assemblea dopo la convocazione dei comizi.
E' possibile, dopo la convocazione dei comizi elettorali, dare seguito alla richiesta di convocazione del consiglio comunale ai sensi dell' art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000?

Ai sensi dell' art. 38, comma 5, i consigli comunali durano in carica per un periodo di cinque anni sino all'elezione dei nuovi, limitandosi, dopo la pubblicazione del decreto di indizione dei comizi elettorali, ad adottare gli atti urgenti e improrogabili. La previsione legislativa in esame trae la propria ratio ispiratrice nella necessità di evitare che il consiglio comunale possa condizionare la formazione della volontà degli elettori adottando atti aventi natura cosiddetta «propagandistica», tali da alterare la par condicio tra le forze politiche che partecipano alle elezioni amministrative.
È stato precisato in giurisprudenza che la preclusione disposta dalla citata norma opera solamente con riguardo a quelle fattispecie in cui il consiglio comunale è chiamato ad operare in pieno esercizio di discrezionalità e senza interferenze con i diritti fondamentali dell' individuo riconosciuti e protetti dalla fonte normativa superiore.
Quando invece l'organo consiliare è chiamato a pronunciarsi su questioni vincolate nell'an, nel quando e nel quomodo e che, inoltre, coinvolgano diritti primari dell'individuo, l'esercizio del potere non può essere rinviato (Tar Puglia n. 382/2004).
È stato precisato, inoltre, che il carattere di atti urgenti e improrogabili possa essere riconosciuto agli atti «per i quali è previsto un termine perentorio e decadenziale, superato il quale viene meno il potere di emetterli, ovvero essi divengono inutili, cioè inidonei a realizzare la funzione per la quale devono essere formati o hanno un' utilità di gran lunga inferiore» (Tar Veneto n. 1118 del 2012).
In ordine alla sussistenza del presupposto della urgenza e improrogabilità, è stato osservato che lo stesso «costituisce apprezzamento di merito insindacabile in sede di giurisdizione di legittimità, se non sotto il limitato profilo della inesistenza del necessario apparato motivazionale, ovvero della palese irrazionalità od illogicità della motivazione addotta» (sentenza Tar Friuli-Venezia Giulia n. 585 del 2006, confermata in appello dal Consiglio di stato con la sentenza n. 6543/2008).
Come indicato nella circolare di questo ministero n. 2 del 07.12.2006, va rilevato che l'esistenza dei presupposti di urgenza ed improrogabilità deve essere valutata caso per caso dallo stesso consiglio comunale che ne assume la relativa responsabilità politica, tenendo presente il criterio interpretativo di fondo che pone, quali elementi costitutivi della fattispecie, scadenze fissate improrogabilmente dalla legge e/o il rilevante danno per l'amministrazione comunale che deriverebbe da un ritardo nel provvedere.
Pertanto, la richiesta di convocazione d'urgenza del consiglio comunale ai sensi dell'art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, dovrà essere valutata alla luce dei criteri ermeneutici sopraindicati (articolo ItaliaOggi del 26.04.2019).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Lo statuto vince sempre. In caso di contrasto con il regolamento. Gli atti del consiglio comunale restano efficaci fino all’annullamento.
Può produrre effetti un regolamento sul funzionamento del consiglio adottato in contrasto con lo statuto comunale? Che ne è degli atti adottati in coerenza con tale regolamento?
Il caso riguarda un regolamento comunale che, nel fissare il quorum strutturale per la validità delle sedute a quattro componenti, avrebbe contraddetto l'art. 21 dello statuto recante «deliberazione degli organi collegiali». Ai sensi della citata disposizione è previsto, infatti, che «gli organi collegiali deliberano validamente con l'intervento della metà dei componenti assegnati».
Il contrasto tra le due fonti normative determinerebbe l'inidoneità della fonte subordinata, il regolamento del consiglio, a produrre effetti giuridici. Inoltre, l'illegittimità della norma regolamentare renderebbe invalide le deliberazioni consiliari eventualmente approvate in contrasto con la disciplina statutaria vigente.
Per quanto riguarda l'asserito contrasto tra la normativa statutaria e quella regolamentare, si rileva che in base al principio di gerarchia delle fonti e in conformità all'articolo 7 del decreto legislativo n. 267/2000 che disciplina l'adozione dei regolamenti comunali «nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dallo statuto» (cfr. sentenza Tar Lombardia, Brescia, n. 2625 del 28.18.2009) dovrebbe prevalere la normativa statutaria.
Nel caso in questione, tuttavia, da un'attenta lettura delle norme sembrerebbe che l'art. 21 dello statuto detta la disciplina generale per le deliberazioni «degli organi collegiali» tout court, mentre l'art. 31 del regolamento sul funzionamento del consiglio comunale rechi la specifica disciplina del quorum strutturale del consiglio.
In ordine alla validità degli atti adottati dal consiglio comunale in difformità alle previsioni statutarie in materia di quorum strutturale e, pertanto, potenzialmente annullabili, si osserva che tali atti conservano la loro efficacia fino all'eventuale annullamento
(articolo ItaliaOggi del 19.04.2019).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Elezioni, consigli limitati
Da quando decorre il termine previsto dall'art. 38, comma 5, del dlgs n. 267/2000 per la limitazione del potere dei consigli alla adozione dei soli «atti urgenti e improrogabili»?

Ai sensi dell'art. 38, comma 5, del dlgs n. 267/2000, i consigli comunali durano in carica per un periodo di cinque anni sino all'elezione dei nuovi, limitandosi, dopo la pubblicazione del decreto di indizione dei comizi elettorali, ad adottare gli atti urgenti e improrogabili.
L'art. 38 citato va coordinato in combinato disposto con l'art. 18, comma 1, del dpr n. 570 del 1960, il quale prevede che il sindaco è tenuto, con la pubblicazione di un manifesto da effettuarsi 45 giorni prima della data delle elezioni, a comunicare agli elettori, in quanto soggetti destinatari, il dispositivo del decreto prefettizio di indizione dei comizi elettorali con la data fissata per le elezioni.
Al fine di individuare la decorrenza dell'operatività della disciplina recata dall'art. 38, comma 5, del Tuel, dovrà farsi riferimento in via esclusiva alla data di pubblicazione del manifesto elettorale previsto dall'art. 18, comma 1, del dpr n. 570/1960 citato.
Da tale data, pertanto, i consigli comunali saranno tenuti a limitare la propria attività alla adozione degli «atti urgenti e improrogabili» (articolo ItaliaOggi del 12.04.2019).

CONSIGLIERI COMUNALIIncompatibilità di un amministratore locale.
Non integra la causa di incompatibilità di cui all’art. 63, co. 1, num. 2), TUEL la stipulazione da parte di un amministratore comunale di un contratto di locazione con l’Ente presso cui svolge il proprio mandato elettivo, qualora le obbligazioni nascenti dal contratto concluso siano stabilite sin dal momento del sorgere del rapporto ed escludano da parte del Comune il controllo e la valutazione delle prestazioni.
Il Comune chiede un parere in merito all’esistenza di una causa di incompatibilità per un amministratore locale, titolare di un’impresa individuale, che, in quanto risultante migliore offerente nella gara indetta dall’Ente avente ad oggetto “la locazione dell’immobile, da adibire a punto di ristoro […] e delle aree adiacenti attrezzate ad uso pic-nic”, dovrebbe stipulare con l’Ente il relativo contratto.
Con riferimento alla questione posta si ritiene debba essere preso in considerazione l’articolo 63, comma 1, num. 2), TUEL ai sensi del quale non può ricoprire la carica di consigliere comunale “colui che, come […] titolare […] ha parte, direttamente o indirettamente, in servizi, esazioni di diritti, somministrazioni o appalti, nell’interesse del comune”.
In via preliminare si ricorda come un esame delle eventuali cause di incompatibilità o ineleggibilità che possono investire gli amministratori locali deve essere effettuato in chiave di stretta interpretazione, rifuggendo da qualsiasi tipo di estensione analogica delle stesse, atteso che le cause ostative all’espletamento del mandato elettivo incidono direttamente sul diritto di elettorato passivo, alla luce della riserva di legge in materia posta dall’articolo 51 della Costituzione.
Dal tenore letterale della disposizione sopra citata segue che la sussistenza dell’incompatibilità in riferimento richiede, quanto al requisito oggettivo, lo svolgimento di un servizio nell’interesse del comune.
Nel termine servizi si comprende “qualsiasi rapporto intercorrente con l’ente locale che a causa della sua durata e della costanza delle prestazioni effettuate, sia in grado di determinare conflitto di interessi. […] Contenuto dei servizi è una prestazione di fare, senza elaborazione della materia, diretta a produrre una utilità, sia essa ad esecuzione prolungata, continuativa o periodica
[1].
La Cassazione
[2] ha osservato come «la circostanza che il legislatore abbia utilizzato il termine “servizi” al plurale e senza ulteriori specificazioni e/o qualificazioni, se non quella che deve trattarsi di “servizi nell’interesse del comune”, legittima l’interprete a comprendere in esso qualsiasi tipo di “servizio” svolto nell’interesse del comune». E, ancora «l'espressione "servizi" non allude soltanto ai "servizi pubblici" locali, ivi compresi i c.d. "servizi sociali", come sono tradizionalmente intesi -gestiti in proprio dall'ente locale o affidati alla gestione di altri soggetti, pubblici o privati, ad es., mediante concessione o convenzione; relativamente ai quali ultimi, pertanto, non v'è dubbio che il soggetto concessionario o affidatario dei servizi medesimi possa versare, sussistendone le condizioni di legge, nella situazione di incompatibilità di interessi de qua- ma comprende, appunto, qualsiasi tipo di servizio svolto nell'interesse del comune».
Si è, altresì, affermato che «la formulazione assai ampia della disposizione in esame (“servizi nell’interesse del comune”) è giustificata dalla sua ratio: il legislatore, infatti, intende comprendere in essa –nel modo più ampio possibile, appunto– tutte le ipotesi, in cui la “partecipazione”, nel senso dianzi precisato, in servizi imputabili al comune –e, per ciò stesso, di interesse generale– possa dar luogo, nell’esercizio della carica del “partecipante”, eletto amministratore locale, ad un conflitto tra interesse particolare di questo soggetto e quello generale dell’ente locale
».
Da ultimo, l’indicata sentenza afferma, anche, che «la “partecipazione” soggettivamente qualificata ivi prevista, in tanto è rilevante, in quanto dia luogo ad un conflitto di interessi, anche potenziale, che sia in concreto ravvisabile, caso per caso, alla luce della disciplina particolare che regola il servizio e la partecipazione ad esso».
Preme, al riguardo, sottolineare che la norma è, in generale, finalizzata ad evitare che la medesima persona fisica rivesta contestualmente la carica di amministratore di un comune e la qualità di titolare, amministratore, dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento di un soggetto che si trovi in rapporti giuridici con l’ente locale, caratterizzati da una prestazione da effettuare all’ente o nel suo interesse, atteso che tale situazione potrebbe determinare l’insorgere di una posizione di conflitto di interessi.
La giurisprudenza, sottolineando che la ratio dell’incompatibilità risiede nell’esigenza di evitare che il medesimo soggetto venga coinvolto in due sfere di interessi potenzialmente in contrasto, ha evidenziato come tale esigenza ricorra in tutte le ipotesi in cui, per effetto di tale rapporto e dell’assunzione della carica elettiva, il soggetto venga a trovarsi, contemporaneamente, nella posizione di controllore e in quella di controllato.
[3]
Con riferimento alla fattispecie in essere risulta pertanto determinante valutare se, analizzando le clausole contenute nel bando di gara, l’effettiva consistenza dei beni dedotti in contratto ed ogni altra circostanza del caso concreto anche in base alle intenzioni delle parti, possa ritenersi integrata, anche solo potenzialmente, quella posizione di conflitto di interessi in capo all’amministratore interessato che giustificherebbe l’insorgenza dell’indicata causa di incompatibilità
[4].
Indipendentemente dal nomen iuris utilizzato per qualificare il contratto, qualora lo stesso avesse natura sostanziale di affitto di azienda[5] più facilmente potrebbe essere ricondotto alla nozione di “servizio svolto nell’interesse del comune”; quanto alla locazione essa di regola non integra la causa di incompatibilità in riferimento in quanto, come affermato dalla giurisprudenza, “le relative obbligazioni [sono] stabilite sin dal momento del sorgere del rapporto, [ed] escludono da parte del Comune il controllo e la valutazione delle prestazioni
[6].
Nel ricordare che compete al consiglio comunale la valutazione dell’eventuale sussistenza della causa di incompatibilità del componente l’organo elettivo
[7], segue che lo stesso dovrà operare un’attenta lettura delle clausole contrattuali e delle ulteriori condizioni caratterizzanti il contratto al fine di accertare se ricorrano o meno i presupposti per l’applicabilità della causa di incompatibilità di cui all’articolo 63, comma 1, num. 2), TUEL.
Ciò -si ribadisce- a prescindere dal nomen iuris utilizzato per identificare la tipologia contrattuale oggetto di futura stipulazione e tenuto conto altresì del fatto che nemmeno la natura di locazione (anziché di affitto di azienda) del contratto può risultare di per se stessa decisiva per la soluzione della questione che ci occupa. Infatti, anche qualora si potesse ritenere di configurare la fattispecie come locazione commerciale
[8], ciò che sarebbe determinante ai fini dell’esclusione della causa di incompatibilità è, alla luce dell’orientamento giurisprudenziale succitato, che le relative obbligazioni siano prestabilite sin dal momento del sorgere del rapporto ed escludano il controllo e la valutazione delle prestazioni da parte del Comune nonché potenziali conflitti [9].
In ultimo si rileva che, ai fini dell’accertamento della sussistenza dell’indicata causa di incompatibilità, è compito del Comune interrogarsi altresì circa lo scopo che intende perseguire con la conclusione del contratto in riferimento: in particolare valutando se vi sia sottesa la realizzazione di un interesse generale dell’Amministrazione comunale quale la valorizzazione turistica dell’area.
Al riguardo si segnala la norma di cui all’articolo 2 del bando di gara nella parte in cui dispone che “il locatario dovrà destinare l’immobile esclusivamente per una attività di somministrazione di alimenti e bevande ed i terreni (area pic-nic) per attività finalizzate alla fruizione turistica dell’area delle Grotte di […]” nonché l’articolo 11 dello stesso nella parte in cui individua una serie di criteri qualitativi di valutazione delle offerte tra i quali si citano i seguenti: “C) impegno a svolgere attività correlate all’offerta turistica (quali ad esempio: Organizzazione di eventi, manifestazioni, ecc.) […]; E) Migliore esperienza in attività turistiche […]”.
L’eventuale riconoscimento di tale finalità potrebbe infatti sottendere che l’affittuario/locatario “ha parte […] in servizi […] nell’interesse del comune”; da ciò conseguirebbe una situazione di potenziale conflitto di interesse con l’amministrazione comunale.
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[1] E. Maggiora, “Ineleggibilità, incompatibilità, incandidabilità nell’ente locale”, Giuffrè editore, 1999, pag. 146.
[2] Cassazione civile, sez. I, sentenza del 16.01.2004, n. 550.
[3] Corte d’Appello di Napoli, sentenza del 07.02.2003, n. 477.
[4] Non risultano, invece, vincolanti le espressioni terminologiche utilizzate (locazione piuttosto che affitto) le quali recedono rispetto all’effettiva consistenza delle prescrizioni contenute nel bando di gara e degli altri elementi indicati.
[5] In generale, si parla di affitto quando il contratto ha per oggetto il godimento di una cosa produttiva (art. 1615, cod. civ.), mentre la locazione è il contratto col quale una parte (locatore) si obbliga a far godere all’altra (conduttore) una cosa mobile o immobile per un dato tempo verso un determinato corrispettivo (art. 1571, cod. civ.).
Secondo consolidata giurisprudenza (fra le altre, Cassazione civile, sentenza dell’11.06.2007, n. 13683; più di recente, sempre nello stesso senso, si veda Cassazione civile, sez. III, sentenza del 16.10.2017, n. 24276), “costituisce affitto di azienda e non locazione di immobile con pertinenze un contratto in cui i beni ceduti siano considerati, non nella loro individualità, ma nel loro complesso, in un rapporto, quindi, di interdipendenza e complementarietà con gli altri elementi, in ragione del fine economico perseguito dall'imprenditore. La differenza tra locazione di immobile (eventualmente con pertinenze) e affitto di azienda, infatti, consiste nel fatto che, nella prima ipotesi, l'immobile concesso in godimento viene considerato specificamente, nella economia del contratto, come l'oggetto principale della stipulazione, secondo la sua consistenza effettiva e con funzione prevalente e assorbente rispetto agli altri elementi i quali, siano essi legati materialmente o meno all'immobile, assumono carattere di accessorietà e rimangono collegati all'immobile funzionalmente. Diversamente, nell'affitto di azienda, l'immobile non viene considerato nella sua individualità giuridica, ma come uno degli elementi costitutivi del complesso dei beni mobili e immobili, legati tra di loro da un vincolo di interdipendenza e di complementarietà per il conseguimento di un determinato fine produttivo, sicché l'oggetto del contratto è costituito dall'anzidetto complesso unitario”.
[6] Corte d’appello Reggio Calabria, 23.01.1958. Si cita anche la sentenza della Cassazione civile, sez. I, dell’11.08.1972, n. 2674 che ha ritenuto non concretare l’insorgenza della causa di incompatibilità la stipulazione di un “contratto di concessione di affitto di una cava comunale, poiché le obbligazioni nascenti dal contratto ed in esso prestabilite escludono potenziali conflitti”. Entrambe le massime sono tratte da E. Maggiora, “Ineleggibilità, incompatibilità, incandidabilità nell’ente locale”, pag. 151, citato in nota 3.
[7] È, infatti, principio di carattere generale del nostro ordinamento che gli organi elettivi debbano esaminare i titoli di ammissione dei propri componenti. Così come, in sede di esame della condizione degli eletti (art. 41 del D.Lgs. 267/2000), è attribuito al consiglio comunale il potere-dovere di controllare se nei confronti dei propri membri esistano condizioni ostative all’esercizio delle funzioni, qualora venga successivamente attivato il procedimento di contestazione di una causa di incompatibilità, a norma dell’art. 69 del D.Lgs. 267/2000, spetta al consiglio, al fine di valutare la sussistenza di detta causa, esaminare le osservazioni difensive formulate dall’amministratore e, di conseguenza, adottare gli atti che siano ritenuti necessari.
[8] Si rileva che la prescrizione di cui all’articolo 5 del bando di gara (rubricato “Durata dell’affidamento ed importo a base di gara”) fissa la durata del contratto da stipularsi in tre anni, eventualmente rinnovabili per un ulteriore triennio. Al riguardo, si segnala in via collaborativa che un tale arco temporale risulta in contrasto con la norma di cui all’articolo 27 della legge 27.07.1978, n. 392 (“Disciplina delle locazioni di immobili urbani”) la quale, al comma 1, recita: “La durata delle locazioni e sublocazioni di immobili urbani non può essere inferiore a sei anni se gli immobili sono adibiti ad una delle attività appresso indicate industriali, commerciali e artigianali di interesse turistico, quali agenzie di viaggio e turismo, impianti sportivi e ricreativi, aziende di soggiorno ed altri organismi di promozione turistica e simili”.
[9] Particolare attenzione si ritiene debba essere posta all’articolo 11 del bando di gara nella parte in cui dispone che: “L’aggiudicatario si impegna: […] a presentare annualmente al Comune un prospetto con l’indicazione delle giornate di apertura, dichiarandosi consapevole che il Comune effettuerà dei controlli e che dall’esito dei medesimi verrà valutato il rispetto delle condizioni offerte. Qualora tali condizioni non risultassero garantite potrà essere avviata la procedura per la risoluzione del contratto”. Il precedente articolo 7 del bando, infatti, prevede che l’aggiudicazione avvenga a favore dell’offerta complessiva finale più vantaggiosa sulla base di una serie di elementi di cui alcuni aventi natura qualitativa, il rispetto dei quali è rimesso al controllo dell’ente locale
 (11.04.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Gli incarichi spettano al sindaco. Sua la competenza a reclutare dirigenti a contratto. Corte conti Molise: è una delle poche attribuzioni gestionali assegnate al primo cittadino.
Spetta in via esclusiva al sindaco la competenza ad incaricare i dirigenti a contratto, mentre sull'apparato amministrativo incombe il dovere di compiere l'istruttoria preventiva, la sottoscrizione del contratto e il compimento degli adempimenti successivi.

La sentenza 08.04.2019 n. 10 della Corte dei conti, sezione giurisdizionale Molise fornisce indicazioni molto utili sul piano operativo sulla complessa procedura intesa al reclutamento di dirigenti a contratto ai sensi dell' articolo 110 del dlgs 267/2000.
Competenze del sindaco. La sentenza ha escluso l'illegittimità del conferimento dell'incarico, e di conseguenza dell'illiceità dell'esborso connesso al compenso erogato, derivante dalla circostanza che la nomina sia stata disposta con decreto del sindaco.
I giudici della sezione Molise hanno avuto facilmente modo di dimostrare la legittimità del decreto sindacale di nomina, richiamando la previsione piuttosto chiara dell' articolo 50, comma 10, del dlgs 267/2000: «Il sindaco e il presidente della provincia nominano i responsabili degli uffici e dei servizi, attribuiscono e definiscono gli incarichi dirigenziali e quelli di collaborazione esterna secondo le modalità ed i criteri stabiliti dagli articoli 109 e 110, nonché dai rispettivi statuti e regolamenti comunali e provinciali».
Si tratta, dunque, di una delle poche competenze in qualche misura gestionali che l'ordinamento degli enti locali attribuisce direttamente al sindaco, invece che a dirigenza giunta o consiglio.
La sentenza evidenzia piuttosto chiaramente che si tratta di una competenza gestionale vera e propria: infatti, i giudici considerano possibile assimilare in qualche misura il decreto sindacale ad una determinazione dirigenziale, perché l' attribuzione di un incarico dirigenziale a contratto comporta anche l'impegno di spesa.
Il sindaco, dunque, nell'adottare il decreto di incarico, non solo può, ma anche deve impegnare contestualmente la spesa necessaria, per finanziare la connessa retribuzione.
Competenze dell'apparato. Se al sindaco, quindi, compete incaricare con proprio decreto il dirigente a contratto, all'apparato amministrativo spetta svolgere tutta l'attività istruttoria connessa, che va dall'elaborazione dell'avviso pubblico alla gestione della selezione, all'espressione di avvisi e pareri sulla legittima adozione dell' iniziativa.
Secondo la sentenza, non necessariamente occorrono i pareri di regolarità amministrativa e contabile, previsti dall'articolo 49 del Tuel, il quale li impone solo per le proposte di deliberazione di giunta e consiglio.
Tuttavia, la pronuncia della magistratura contabile ritiene che non sia un vizio di legittimità nemmeno l'assenza del visto di regolarità contabile attestante la copertura finanziaria: esso, infatti, si limita ad attestare l'effettiva disponibilità in bilancio delle somme, senza potersi esprimere in alcun modo sulla legittimità dell' atto.
Tocca ancora all'apparato (sulla base dell'organizzazione interna di ciascun ente) adottare, poi, tutti gli atti attuativi dell'incarico.
In particolare, la Sezione Molise avverte che compete al dirigente o responsabile preposto sottoscrivere il contratto che regola l'incarico assegnato dal sindaco, così come compete ovviamente all'ufficio stipendi erogare materialmente il compenso. Né il decreto sindacale di incarico può considerarsi illegittimo se successivamente il contratto non venga sottoscritto.
È, quindi, sia nella fase istruttoria preliminare, sia nella fase attuativa successiva, che eventualmente l'apparato amministrativo può e deve evidenziare vizi giuridico-contabili. Nel caso di specie, la Procura regionale aveva attivato l'azione di responsabilità perché i dirigenti a contratto erano stati assunti pur avendo il comune violato il patto di stabilità: ma, di tale violazione il sindaco ebbe cognizione sei mesi dopo l'adozione dei decreti, senza che mai prima né revisori dei conti, né ragioniere o apparato amministrativo avessero mai espresso in atti problemi connessi al rispetto del patto.
Per questa ragione, la sentenza ha assolto il sindaco, lasciando intendere sullo sfondo che eventuali responsabilità erariali andrebbero ricercati non in capo al primo cittadino, ma alla compagine amministrativa: era essa a dover avvertire il sindaco della condizione finanziaria e comunque a tenerne conto nel momento in cui dovesse stipulare il contratto o erogare lo stipendio  (articolo ItaliaOggi del 19.04.2019).

CONSIGLIERI COMUNALINiente responsabilità erariale al sindaco per l’assunzione a contratto di un funzionario.
Spetta al sindaco l'assunzione del funzionario apicale a contratto, mentre spetta alla dirigenza l'istruttoria e la verifica delle condizioni di conformità alla normativa. La mancanza dell'impegno contabile non rileva ai fini della responsabilità del sindaco, trattandosi di un atto monocratico (decreto) e non collegiale (giunta), come non rileva la successiva mancata stipula del contratto rimesso dalla normativa alla sola competenza dirigenziale.
Sono questi i principi enunciati dalla Corte dei conti del Molise (sentenza 08.04.2019 n. 10) che ha sollevato dalla responsabilità contabile il sindaco per l'avvenuto conferimento dell'incarico apicale.
La vicenda
Su specifica segnalazione della Sezione di controllo della Corte dei conti, la Procura ha rinviato a giudizio per danno erariale il sindaco di un Comune, tra l'altro, per illegittimo e illecito conferimento di un incarico a contratto effettuato in base all'articolo 110, comma 1, del Tuel.
Tra le contestazioni avanzate dalla Procura, la presunta illegittimità dell'atto di conferimento dell'incarico –e conseguente illiceità dell'esborso– dipendeva da una presunta incompetenza del sindaco nell'adottare, con iniziativa esclusiva, un provvedimento di amministrazione attiva o di gestione, di competenza degli uffici amministrativi, privo di adeguata istruttoria e dei prescritti pareri tecnici e visti favorevoli.
La diversa posizione del collegio contabile
Il Collegio contabile molisano ha confutato la tesi della Procura in merito all'asserita illegittimità e illiceità del conferimento dell'incarico a contratto da parte del sindaco. In via preliminare, rientra nell'esclusivo potere del sindaco (articolo 50, comma 10, del Dlgs 267/2000) l'emissione del decreto di nomina del responsabile dei servizi avvenuta a seguito di apposita selezione, in base all'articolo 110, comma 1, del Tuel e poi successivamente prorogata.
Si tratta, in altri termini, dell'ipotesi che riguarda la tipologia della copertura dei posti previsti «in dotazione» organica di responsabili dei servizi o degli uffici, cosiddetti responsabili di posizione organizzativa o unità operative (come pure di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione). Quindi, l'iniziativa e l'esercizio del potere di nomina spetta al sindaco, mentre rientra nelle prerogative e competenze proprie del dirigente o del responsabile amministrativo, diverso dall'organo di governo, sulla base del tradizionale riparto o distinzione tra organi e funzioni di indirizzo politico o di gestione, curare l'istruttoria, valutare la fattibilità del provvedimento e riferire eventuali problematiche in ordine alle scelte da effettuare.
Per queste ragioni, secondo il collegio contabile, non può certo ricadere alcuna responsabilità amministrativa sul sindaco per fatto colpevole omissivo di terzi. Pertanto, in primo luogo, non vi è alcuna responsabilità del primo cittadino per la mancata apposizione del visto contabile sul decreto di nomina, poiché nessun parere avrebbe dovuto essere preventivamente rilasciato, non trattandosi di deliberazione di un organo collegiale ma di un decreto sindacale.
Inoltre, va rilevato in ogni caso che la mancanza del visto contabile e finanziario da parte del responsabile del servizio, si risolve nella mera attestazione della copertura finanziaria del provvedimento su cui viene apposto, ovvero sulla verifica dell'effettiva disponibilità delle risorse impegnate. Infatti, il parere contabile non investendo la preventiva valutazione di legittimità della presupposta decisione sindacale, una sua eventuale omessa apposizione -sempre che obbligatoria- non sarebbe comunque suscettibile di costituire, quanto meno ai fini dell'accertamento della responsabilità amministrativa, un fatto eziologicamente addebitabile al sindaco per fatto omissivo.
Né a miglior sorte può condurre a responsabilità sindacale la mancata successiva stipula del contratto, in quanto sia la stipula del contratto, sia l'adozione di ogni altro atto conseguenziale o esecutivo di detto decreto rientra nella competenza propria dei dirigenti o dei responsabili dei servizi (articolo 107, comma 3, del Tuel) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 17.04.2019).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Trasparenza sulle liti. I consiglieri possono accedere agli atti. Le vertenze che riguardano l’ente non possono essere coperte da segreto.
Il consigliere comunale può accedere alla copia di una lettera inviata dal servizio legale interno concernente una diffida ricevuta dall'ente?

L'esercizio del diritto di accesso, esercitabile dai consiglieri comunali ai sensi dell'art. 43, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, è definito dal Consiglio di stato (sentenza n. 4471/2005) «diritto soggettivo pubblico funzionalizzato», finalizzato al controllo politico-amministrativo sull'ente, nell'interesse della collettività; si tratta, all'evidenza, di un diritto dai confini più ampi del diritto di accesso riconosciuto al cittadino nei confronti del comune di residenza (art. 10 Tuel) o, più in generale, nei confronti della p.a., disciplinato dalla legge n. 241/1990 (cfr. Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi del 28.10.2014).
Il diritto del consigliere comunale ad ottenere dall'ente tutte le informazioni utili all'espletamento del mandato non incontra alcuna limitazione derivante dalla loro eventuale natura riservata, in quanto il consigliere è vincolato al segreto d'ufficio; gli unici limiti all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali possono rinvenirsi, per un verso, nel fatto che esso deve avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali (attraverso modalità che ragionevolmente sono fissate nel regolamento dell'ente) e, per altro verso, che esso non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche ovvero meramente emulative, fermo restando tuttavia che la sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazione al diritto stesso (Consiglio di stato, sez. V, n. 6963/2010).
Peraltro, in fattispecie analoga, il Consiglio di stato, sez. V, con decisione 04/05/2004, n. 2716, riguardo alla normativa prevista dal dpcm n. 200 del 26.01.1996, recante il regolamento per la categoria di documenti dell'Avvocatura dello stato sottratti al diritto di accesso, ha rilevato che le limitazioni ivi previste «non possono applicarsi, in via analogica, ai consiglieri comunali, i quali, nella loro veste di componenti del massimo organo di governo del comune, hanno titolo ad accedere anche agli atti concernenti le vertenze nelle quali il comune è coinvolto nonché ai pareri legali richiesti dall'amministrazione comunale, onde prenderne conoscenza e poter intervenire al riguardo».
Anche il Tar Lombardia–Milano – con sentenza n. 2363 del 23.09.2014 ha riconosciuto un ampio diritto dei consiglieri comunali ad accedere agli atti del comune in quanto «non è in dubbio che possa essere ostensibile anche documentazione che, per ragioni di riservatezza, non sarebbe ordinariamente ostensibile ad altri richiedenti, essendo il consigliere tenuto al segreto d'ufficio (v. anche Cons. stato, sez. V, 05.09.2014, n. 4525)».
Pertanto, anche in presenza di una norma regolamentare che limita l'accesso agli atti amministrativi relativi a procedimenti «conclusi», la richiesta appare ammissibile, stante, peraltro, l'obbligo di riservatezza a cui è tenuto il consigliere comunale (articolo ItaliaOggi del 05.04.2019).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGODanno erariale al sindaco che dà la posizione organizzativa prima del pensionamento.
Responsabilità contabile al sindaco che abbia nominato una posizione organizzativa prima del suo pensionamento. In questo caso il danno erariale è equivalente al totale delle somme maggiorate, pagate sulla pensione del dipendente in quiescenza, fino alla data del rinvio a giudizio. Spetterà, invece, all'Inps attivare le eventuali procedure per la riduzione della pensione futura, data l'attribuzione della maggiorazione stipendiale avvenuta in modo illegittimo e illecito.

Queste sono le conclusioni della Corte dei conti, sezione giurisdizionale, dell'Umbria (sentenza 03.04.2019 n. 21).
La vicenda
In un ente privo di posizioni dirigenziali, il sindaco aveva conferito a una dipendente la posizione organizzativa e, solo dopo quattro giorni dal conferimento dell'incarico, aveva ricevuto dalla medesima la domanda di collocamento a riposo. Il pensionamento veniva successivamente disposto, grazie ai requisiti posseduti dalla richiedente, anche se a soli undici giorni dalla sua nomina a responsabile del servizio.
La Procura contabile ha rinviato a giudizio il sindaco per il danno erariale procurato alla pubblica amministrazione per aver attuato una scelta arbitraria, mediante assegnazione della posizione organizzativa alla dipendente, permettendo alla medesima di fruire di un maggior importo del suo trattamento pensionistico.
L'importo della pensione della dipendente, infatti, è stato calcolato comprendendo una indennità di posizione parametrata non al periodo di esercizio effettivo della responsabilità del servizio ma su base annua. In altri termini il Primo cittadino, con dolo o almeno colpa grave, non avrebbe fatto gli interessi dell'ente ma esclusivamente procurato un vantaggio alla dipendente per la maggiore pensione ricevuta.
Il vantaggio pensionistico della dipendente, pari a circa 3mila euro annui, corrisponde al danno erariale che andrà pertanto moltiplicato per gli anni di indebita fruizione. Inoltre, in considerazione della certezza dei pagamenti per gli anni successivi, dalla data del rinvio a giudizio, la Procura ha anche proceduto alla quantificazione del maggior danno stimato sulla vita media della pensionata.
Il sindaco si è difeso da una lato in quanto a suo dire la nomina sarebbe avvenuta a seguito della richiesta di esonero della precedente titolare di posizione organizzativa per motivi personali, mentre dall'altro lato ha stigmatizzato la posizione della Procura che non avrebbe tenuto conto delle responsabilità specifiche del segretario comunale e del responsabile del personale. Il primo per aver inoltrato al sindaco la richiesta di dimissioni immediate della precedente titolare di posizione organizzativa, con obbligo di procedere all'assegnazione della titolarità dell'ufficio ad altra dipendente con i requisiti previsti dal contratto, essendo all'oscuro della successiva sua decisione di essere collocata a riposo. Il secondo per aver predisposto la determinazione di collocamento a riposo della dipendente senza alcuna informazione preventiva sui requisiti pensionistici posseduti dalla medesima.
La decisione del collegio contabile
Le eccezioni del sindaco non sono state considerate meritevoli di tutela da parte del collegio contabile in quanto, negli enti privi di dirigenti, la nomina dei responsabili dei servizi spetta in via esclusiva al sindaco, cui è automaticamente associata, per disposizione contrattuale, la posizione organizzativa con relativa retribuzione di posizione.
In merito alla richiesta di dimissioni presentate dalla precedente titolare di posizione organizzativa, il sindaco non ha tenuto conto della sua naturale scadenza che, non per caso, coincideva con la data della successiva richiesta della dipendente nominata di essere collocata a riposo. In questo caso, stante il breve periodo di vacanza del posto di responsabile del servizio, il sindaco avrebbe ben potuto attribuire ad interim le funzioni ad altra posizione organizzativa.
Sulla quantificazione del danno erariale, oltre al potere riduttivo spettante alla Corte per la compartecipazione di altri soggetti che hanno assunto un ruolo passivo nella vicenda, l'ulteriore danno richiesto dalla Procura, sul calcolo del valore attuale degli esborsi futuri basati sulla vita media della dipendente, non può trovare accoglimento, non essendosi il danno ancora prodotto.
Tuttavia, al fine di evitare ulteriori danni alle finanze pubbliche, l'illegittimità e l'illiceità dell'attribuzione della posizione organizzativa sarà comunicata all'Inpc che opererà le dovute valutazioni sulla pensione reale dovuta alla dipendente (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 07.05.2019).
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SENTENZA
3. Nel merito, la responsabilità del convenuto va affermata in relazione all’adozione, realizzata a propria firma e nella sua qualità di vertice dell’Amministrazione comunale, dei provvedimenti di sostituzione della dott.ssa Ru. con la dott.ssa Vo., di cui ai decreti n. 5 e n. 6 del 20.12.2011 (rispettivamente aventi ad oggetto “revoca dell’incarico di responsabile del servizio UMD 7 e conferimento incarico responsabile del servizio UMD 7 anno 2011” e “pesatura posizione organizzativa UMD 7”), per conferire a quest’ultima, per appena otto giorni, la posizione organizzativa comprensiva della relativa indennità pensionabile da durare per l’intero periodo di corresponsione del trattamento pensionistico.
La competenza all’adozione di questi atti, concernenti la nomina dei responsabili dei servizi e degli uffici e all’attribuzione degli incarichi dirigenziali, è chiaramente attribuita al Sindaco (art. 50, comma 10, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267-TUEL) e tale disposizione di legge risulta, peraltro, espressamente richiamata nei due decreti sindacali (numero 5 e numero 6) citati.
Né possono valere, in contrario avviso, le giustificazioni addotte in ordine ad una asserita “autorevolezza” e “solennità” della richiesta avanzata per il tramite del segretario comunale che avrebbe preceduto la decisione finale di competenza del sindaco Buschi, ovvero le analoghe giustificazioni in ordine ai successivi passaggi amministrativi conseguenti alle decisioni da costui assunte.
La questione della legittimità del conferimento avvenuto assume, dunque, un rilievo del tutto particolare rispetto alla condotta gravemente colposa del convenuto. Infatti, l’incarico originariamente conferito sarebbe scaduto naturalmente il 31.12.2011 e non vi era pertanto alcuna reale urgenza di provvedere alla sostituzione fino a tale data.
Inoltre, come sottolineato dalla Procura, nell’ipotesi dell’asserita urgenza egli ben avrebbe potuto affidare l’incarico ad interim, per i pochi giorni restanti fino al 31.12.2011, a uno degli altri soggetti che ricoprivano posizioni organizzative, senza che si addivenisse all’esborso dell’ulteriore indennità da parte del Comune di San Giustino.
Viceversa, la condotta del sindaco Bu. si è rivelata essere preordinata alla costituzione di un trattamento stipendiale più favorevole nei confronti della dott.ssa Vo., con conseguenze permanenti sul connesso trattamento pensionistico e con la realizzazione di un danno reale e concreto a carico dell’INPS, come quantificato nella parte dispositiva della presente sentenza.
4. Il periodo per il quale calcolare il danno va dall’inizio dell’anno 2013 fino a tutto il novembre 2018, per un importo pari ad € 17.728,53 (2.996,54 moltiplicato per sei anni, meno un mese), che il Collegio ritiene congruo abbattere del cinquanta per cento, considerando che l’azione del sindaco, determinante l’attuale e concreto pregiudizio danno patrimoniale ai danni dell’istituto di previdenza -tuttora protratto nel tempo- sia stata agevolata nel percorso amministrativo anche dalla mancata attivazione di altri soggetti facenti parte dell’apparato amministrativo comunale, in fase di controllo, ovvero esterni ad esso, in fase di esecuzione dei provvedimenti in questione.
In questi limiti può provvedere il Collegio, non potendo invero disporre l’estensione del contraddittorio nel presente giudizio, come richiesto dal convenuto (art. 83 CGC).
5. Con riguardo alla quantificazione del danno va altresì precisato che non può trovare accoglimento la richiesta –avanzata da parte attrice– della condanna per il danno relativo alle prestazioni economiche del trattamento pensionistico che troveranno realizzazione successiva.
Tale richiesta, riguardando la previsione di un danno futuro, esula dalla competenza di questa Sezione a conoscere della domanda relativa ad un danno concreto ed attuale. Come risulta dalla giurisprudenza contabile e come ricordato anche dalla Corte di Cassazione, questa Corte, in sede giurisdizionale, non ha la titolarità di poteri di prevenzione del danno erariale: “né d’altra parte alla Corte dei conti in sede giurisdizionale è affidato il compito di prevenire danni erariali non ancora prodotti” (Cass., Sez. Un., 22.12.2009, n. 27092).
Nel respingere tale richiesta, tuttavia questo Collegio ritiene di rimettere gli atti alla Amministrazione previdenziale interessata, che opererà le dovute valutazioni.
6. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
la Corte dei conti, Sezione giurisdizionale regionale per l’Umbria, disattesa ogni contraria istanza, eccezione e deduzione, definitivamente pronunciando,
condanna Bu.Fa. al pagamento della somma di € 8.864,76 (euro ottomilaottocentosessantaquattro,76) in favore dell’INPS, più rivalutazione monetaria con decorrenza dalle date di pagamento dei singoli ratei di pensione e, sul totale risultante, interessi dalla data di pubblicazione della sentenza.
Condanna altresì il convenuto al pagamento delle spese di giudizio, che si liquidano in € 122,33 (centoventidue/33).
Manda alla Segreteria per la trasmissione della presente sentenza alla competente sede INPS e per tutti gli ulteriori adempimenti.

marzo 2019

CONSIGLIERI COMUNALILa causa inutile arreca un danno erariale e nessuna utilità per l'Ente Locale.
Va condannato per danno erariale il sindaco di un comune che, anche nella qualità di Presidente del Consiglio comunale, pone in essere una condotta antigiuridica, consistente nel dichiarare nullo il voto di un consigliere comunale, con ciò determinando l’impugnazione della delibera comunale, annullata dal Tar con contestuale refusione delle spese processuali a carico del comune stesso.

Così si esprime la Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Basilicata, con la sentenza 11.03.2019 n. 10.
Il fatto
La Procura Regionale del capoluogo lucano ha convenuto in giudizio il Presidente del consiglio comunale, per aver determinato l’impugnazione dinanzi al giudice amministrativo, da parte di un consigliere comunale, di due deliberazioni.
Le delibere consiliari sono state impugnate perché il Presidente del Consiglio, ritenuto che il consigliere fosse in conflitto d’interesse, ha dichiarato la nullità del voto da questo espresso.
All’esito del contenzioso amministrativo, il Comune è stato condannato al pagamento delle spese processuali, cosa che poteva essere evitata, perché non compete al Presidente del Consiglio Comunale dichiarare la nullità di un voto espresso da un Consigliere Comunale. Il voto espresso dal Consigliere Comunale in conflitto d’interessi, infatti, può essere annullato soltanto dalla competente Autorità Giudiziaria.
Il pagamento delle spese processuali è stato considerato un inutile dispendio di risorse pubbliche, circostanza che ha determinato la condanna del Sindaco/Presidente del Consiglio Comunale.
La decisione
Per il collegio giudicante risulta evidente che il comune ha dovuto sostenere un esborso del tutto inutile: allo stesso, infatti, non corrisponde alcuna utilità né per l'ente né per la collettività amministrata; tale esborso costituisce danno erariale determinato dalle antigiuridiche e gravemente colpose condotte del Sindaco f.f., Presidente del Consiglio e Vice Sindaco.
Le condotte attuate sono state considerate antigiuridiche perché contrastanti con i compiti istituzionali e i doveri d'ufficio: - di responsabile dell'amministrazione del comune, di rappresentanza dell'ente, di direzione e coordinamento dell'attività politica amministrativa del comune nonché dell'attività della giunta, di sovrintendenza al funzionamento dei servizi e degli uffici e all'esecuzione degli atti, compiti e doveri allo stesso intestati, in qualità di Vice sindaco e Sindaco f.f., - di direzione delle sedute consiliari, di accertamento del relativo esito e di proclamazione del risultato della votazione, compiti e doveri allo stesso intestati in qualità di Presidente del Consiglio comunale.
Risulta, inoltre, dagli processuali, che le su indicate condotte del predetto responsabile sono state adottate anche in contrasto con l'espresso parere del segretario comunale e debbono considerarsi quanto meno gravemente colpose, in quanto connotate da inescusabile negligenza nell'adempimento dei doveri connessi all’ufficio pubblico (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 14.05.2019).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Incarichi ai consiglieri. Ma senza poteri di gestione o decisionali. Affidabili studi e collaborazioni. Preclusi gli atti a rilevanza esterna.
Sono legittimi gli atti di conferimento di incarichi di studio e approfondimento ai consiglieri comunali?
Nell'ambito dell'autonomia statutaria dell'ente locale, sancita dall'art. 6 del decreto legislativo n. 267/2000, è ammissibile la disciplina di deleghe interorganiche, purché il contenuto delle stesse sia coerente con la funzione istituzionale dell'organo cui si riferisce.
Occorre considerare, quale criterio generale, che il consigliere può essere incaricato di studi su determinate materie, di compiti di collaborazione circoscritti all'esame e alla cura di situazioni particolari, che non implichino la possibilità di assumere atti a rilevanza esterna, né, infine, di adottare atti di gestione spettanti agli organi burocratici.
Il consigliere, infatti, svolge la sua attività istituzionale, in qualità di componente di un organo collegiale quale il consiglio, che è destinatario dei compiti individuati e prescritti dalle leggi e dallo statuto. Una ristrettissima serie delle funzioni sindacali può essere delegabile ai consiglieri in virtù di specifiche previsioni normative (in particolare, le funzioni svolte dal sindaco ex art. 54 nella sua attività di Ufficiale di governo).
Va osservato, ancora, che il Tar Toscana, con decisione n. 1248/2004, ha respinto il ricorso avverso una norma statutaria concernente la delega ai consiglieri di funzioni sindacali in quanto la stessa escludeva implicitamente che potessero essere delegati compiti di amministrazione attiva, tali da comportare «l'inammissibile confusione in capo al medesimo soggetto del ruolo di controllore e di controllato». Il Consiglio di stato, con parere n. 4883/2011 (4992/2012) in data 17.10.2012, ha ritenuto, invece, fondato un ricorso straordinario al presidente della repubblica in quanto l'atto sindacale impugnato, nel prevedere la delega ai consiglieri comunali di funzioni di amministrazione attiva, determinava «una situazione, per lo meno potenziale, di conflitto di interesse».
La normativa statutaria dell'ente locale, nel disciplinare la materia de qua, potrebbe prevedere disposizioni che stabiliscano il riparto di attribuzioni tra gli organi di governo dell'ente, integrando ma non derogando alle vigenti norme di legge. I provvedimenti in questione non devono comportare la possibilità di adozione di atti a rilevanza esterna o di atti di gestione spettanti agli organi burocratici o agli assessori. Parimenti, i consiglieri comunali incaricati non dovranno avere poteri decisionali di alcun tipo diversi o ulteriori rispetto a quelli che derivano dallo status di consigliere
(articolo ItaliaOggi dell'08.03.2019).

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI: Verbalizzazione delle sedute consiliari. Interventi di singoli consiglieri.
   1) L’interpretazione delle norme sul funzionamento del consiglio comunale, tra cui rientrano quelle in merito alla verbalizzazione delle sedute del consiglio, compete unicamente all’organo che le ha elaborate, quindi allo stesso organo consiliare.
   2) Qualora il regolamento preveda che il verbale di deliberazione contenga gli elementi principali dei singoli interventi effettuati dagli amministratori locali, pare non coerente con tale previsione che la delibera comunale, con riferimento a tali interventi, si limiti ad un rinvio alla registrazione audio allegata alla stessa.

Il Comune chiede un parere in merito alla verbalizzazione delle sedute del consiglio e della giunta comunale. In particolare, desidera sapere se sia legittimo che la delibera comunale, con riferimento ai singoli interventi effettuati dagli amministratori locali, si limiti ad un rinvio alla registrazione audio allegata alla stessa e, qualora venga richiesto di “procedere ad una verbalizzazione scritta perfettamente conforme ad ogni parola utilizzata” dal consigliere/assessore durante l’intervento, possa considerarsi legittimo richiedere allo stesso di “fornire copia del testo scritto del proprio intervento in formato word”.
L’articolo 8 dello statuto comunale, rubricato “Deliberazioni degli organi collegiali”, al comma 2, prevede che: “L’istruttoria e la documentazione delle proposte di deliberazione avvengono attraverso i responsabili degli uffici; la verbalizzazione degli atti e delle sedute del consiglio e della giunta è curata dal segretario comunale, secondo le modalità e i termini stabiliti dal regolamento per il funzionamento del consiglio”.
Stante la previsione statutaria dell’Ente segue che le norme contenute nel regolamento per il funzionamento del consiglio comunale nella parte relativa alla verbalizzazione delle sedute consiliari si applicano anche alla verbalizzazione delle sedute giuntali.
L’articolo 21 di tale regolamento, rubricato “Processi verbali”, recita: “1. I verbali delle adunanze sono compilati dal Segretario comunale, coadiuvato dalla Segreteria e costituiscono prova autentica delle deliberazioni adottate dal Consiglio, può avvalersi della registrazione con mezzi elettronici. I consiglieri devono chiedere espressamente al Segretario comunale l’inserimento integrale dei propri interventi consegnandone copia del testo scritto.
2. Per le deliberazioni concernenti persone, deve farsi constare dal verbale che si è proceduto alla votazione per scrutinio segreto.
3. Tutti i verbali di deliberazione devono indicare il testo integrale della parte dispositiva costituente la proposta, il numero dei voti resi pro e contro la proposta stessa e la proclamazione fatta dal Sindaco, nonché l’indicazione dei nominativi dei consiglieri che hanno effettuato interventi durante la discussione riportandone per sintesi gli elementi più significativi.
4. Dal verbale dovranno infine risultare: a) il giorno, l’ora e il luogo dell’adunanza; b) il nome ed il cognome di chi presiede il consiglio comunale, del Segretario e degli eventuali scrutatori; c) se si tratta di sessione ordinaria o sessione straordinaria; d) l’oggetto della proposta su cui il Consiglio è chiamato a deliberare; e) il verbale delle adunanze deve contenere il numero dei Consiglieri presenti alla votazione sui singoli argomenti, con l’indicazione del nome di quelli che si sono astenuti e di quelli contrari.
5. Non sono inserite nel verbale le dichiarazioni ingiuriose, contrarie alle leggi, all’ordine pubblico e al buon costume e di protesta contro i provvedimenti adottati.
6. Ogni consigliere può pretendere che nel verbale si facciano constare le motivazioni del suo voto.
7. I verbali sono sottoscritti dal Presidente della seduta e dal Segretario
”.
Premesso che l’interpretazione delle norme sul funzionamento del consiglio comunale compete unicamente all’organo che le ha elaborate, quindi allo stesso organo consiliare, di seguito si esprimono, in via meramente collaborativa, delle considerazioni che possano essere di utilità all’Ente nella soluzione della questione posta.
Con riferimento al primo quesito posto afferente alla possibilità che il verbale di deliberazione rinvii, quanto ai singoli interventi consiliari, alla registrazione che verrebbe allegata allo stesso, si ritiene di fornire risposta negativa. Ad un tanto sembra ostare la previsione di cui all’articolo 21, comma 3, nella parte in cui dispone che il verbale di deliberazione deve tra l’altro riportare “l’indicazione dei nominativi dei consiglieri che hanno effettuato interventi durante la discussione riportandone per sintesi gli elementi più significativi”.
Dal tenore letterale della disposizione citata deriva, infatti, che il verbale non può limitarsi ad un semplice rinvio degli interventi effettuati dai consiglieri dovendo contenere gli elementi principali dello stesso. Benché la riproduzione degli interventi, ancorché in maniera succinta, non rientri tra gli elementi essenziali che, in generale, il verbale deve contenere
[1], pur tuttavia tale essenzialità può essere imposta da una specifica previsione regolamentare sul punto, come nel caso in esame.
Con riferimento al secondo quesito posto relativo alle modalità di riproduzione dell’intervento integrale di un consigliere soccorre il disposto di cui al comma 1 dell’articolo 21 del regolamento sul funzionamento del consiglio nella parte in cui prevede che: “I consiglieri devono chiedere espressamente al Segretario comunale l’inserimento integrale dei propri interventi consegnandone copia del testo scritto.”
La previsione regolamentare richiede unicamente la consegna di un testo scritto da parte del consigliere non specificando che lo stesso debba essere presentato su supporto informatico. Nel silenzio della previsione regolamentare sul punto si ritiene rientri nella discrezionalità del consigliere interessato aderire ad un’eventuale richiesta di presentazione del proprio intervento scritto anche mediante consegna di idoneo dispositivo digitale.
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[1] In tal senso si veda TAR Pescara, Abruzzo, sez. I, sentenza del 14.01.2010, n. 56 la quale recita: “Il processo verbale relativo agli interventi effettuati dai singoli consiglieri non è essenziale ai fini della valida esistenza di un atto deliberativo assunto dal Consiglio comunale, essendo essenziali, ai sensi dei principi generali che disciplinano la validità dell'atto amministrativo collegiale, solo la data di adozione, l'indicazione dei presenti e degli assenti, il contenuto dispositivo e l'esito della votazione”  (08.03.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALIRelazione di fine mandato. Le scadenze per la sua predisposizione, pubblicazione ed invio alla corte dei conti.
Domanda
L’amministrazione comunale del mio ente è in scadenza nei prossimi mesi, essendo stata eletta nel 2014. Quali sono i termini per la predisposizione, l’invio alla Corte dei conti e la pubblicazione della relazione di fine mandato?
Risposta
Come noto l’obbligo di predisporre la relazione di fine mandato è stato introdotto dall’art. 4 del d.lgs. 149/2011. Il comma 2 stabilisce che essa venga redatta dal responsabile del servizio finanziario o dal segretario generale e sia poi sottoscritta dal presidente della provincia o dal sindaco non oltre il sessantesimo giorno antecedente la data di scadenza del mandato. Entro e non oltre quindici giorni dopo la sottoscrizione della relazione, essa dovrà risultare certificata dall’organo di revisione dell’ente locale e, nei tre giorni successivi la relazione e la certificazione devono essere trasmesse dal presidente della provincia o dal sindaco alla competente sezione regionale di controllo della Corte dei conti.
E’ poi previsto che la relazione e la certificazione siano pubblicate sul sito istituzionale dell’ente entro i sette giorni successivi alla data di certificazione da parte dall’organo di revisione, con l’indicazione della data di trasmissione alla sezione regionale di controllo della Corte dei conti. Il dubbio che si pone per molti operatori degli enti locali attiene alla modalità di conteggio dei sessanta giorni dalla data di scadenza del mandato. Sul punto è intervenuta la Corte dei conti con deliberazione della Sezione Autonomie n. 15/2016.
In particolare la Corte, nell’interpretare la norma di legge, afferma che debba ‘ritenersi che il mandato del Sindaco o del Presidente della Provincia abbia inizio con la proclamazione tanto è vero che tali organi, appena proclamati eletti, hanno il potere di compiere atti ed assumere provvedimenti immediatamente, senza attendere alcuna legittimazione successiva da parte del Consiglio’.
Pertanto, alla luce di ciò i sessanta giorni vengono conteggiati proprio con riferimento alla suddetta data di proclamazione degli eletti da parte dell’adunanza dei presidenti di seggio. Per gli enti che sono andati ad elezione il 25/05/2014 e per i quali la proclamazione è avvenuta il giorno successivo (26/05), la relazione dovrà essere predisposta entro il 27 marzo prossimo. Analogamente per gli enti che sono andati al ballottaggio il 08/06/2014, per i quali la proclamazione è avvenuta il 09/06/2014, il termine per la predisposizione della relazione è fissato per il 10 aprile prossimo.
Il successivo comma 4 del medesimo articolo 4 del d.lgs. 149/2011 definisce il contenuto della relazione. Il modello da utilizzare è stato poi approvato con d.m. Interno del 26/04/2013. In merito agli obblighi di pubblicazione sul sito dell’ente si evidenzia come la legge si limiti a fissarne la data: la pubblicazione dovrà infatti avvenire entro i sette giorni successivi alla data di certificazione effettuata dall’organo di revisione, con l’indicazione della data di trasmissione alla sezione regionale di controllo della Corte dei conti.
Non viene specificato dove la relazione debba essere pubblicata. Non dice nulla al riguardo neppure il d.lgs. 33/2013 in materia di trasparenza degli enti locali. Nel silenzio della norma si ritiene opportuno che la relazione sia pubblicata all’interno della sezione ‘Amministrazione trasparente’ del sito web istituzionale, nella sottosezione ‘Organizzazione’ > ‘Organi di indirizzo politico-amministrativo’. È inoltre opportuno per una maggiore trasparenza e visibilità, prevederne la pubblicazione anche all’interno della home page del sito.
Infine attenzione alle sanzioni: il comma 6 prevede infatti che in caso di mancato adempimento dell’obbligo di redazione e di pubblicazione nel sito dell’ente, della relazione di fine mandato, al sindaco e, qualora non abbia predisposto la relazione, al responsabile del servizio finanziario o al segretario generale è ridotto della metà, con riferimento alle tre successive mensilità, rispettivamente, l’importo dell’indennità di mandato e degli emolumenti. Il sindaco è inoltre tenuto a dare notizia della mancata pubblicazione della relazione, motivandone le ragioni, nella home page del sito medesimo (04.03.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

febbraio 2019

CONSIGLIERI COMUNALIPubblicazione situazione reddituale e patrimoniale di amministratori della Provincia.
Domanda
Siamo un Comune con popolazione inferiore ai 15mila abitanti e il nostro Sindaco ci ha chiesto di chiarire se, in qualità di componente dell’Assemblea dei Sindaci, è obbligato a pubblicare i suoi redditi nella sezione di Amministrazione Trasparente del portale web della Provincia. Cosa prevede la normativa in merito?
Risposta
La disposizione che regola la pubblicazione dei dati reddituali e patrimoniali è contenuta nell’articolo 14, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 33/2013 che, in passato, è già stata oggetto di interpretazioni da parte dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC).
L’ultima formulazione della norma, riveduta con la determinazione n. 241/2017, aveva chiarito che per i comuni con popolazione inferiore ai 15.000 abitanti, i titolari di incarichi politici, nonché i loro coniugi non separati e parenti entro il secondo grado non sono tenuti alla pubblicazione dei dati reddituali e patrimoniali, fermo restando l’obbligo di pubblicare le altre informazioni previste: l’atto di nomina o di proclamazione; il curriculum; i compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica; gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici; i dati relativi all’assunzione di altre cariche, presso enti pubblici o privati, ed i relativi compensi; gli altri eventuali incarichi con oneri a carico della finanza pubblica ed i compensi spettanti.
La disposizione sopra richiamata, rivolta prettamente ai titolari di incarichi politici di Stato, Regioni ed Enti locali, si prestava a dubbi interpretativi, soprattutto in relazione all’applicabilità o meno ai titolari di incarichi politici, non di carattere elettivo.
L’ANAC è intervenuta in materia con la delibera n. 641, del 14.06.2017, di modifica ed integrazione della delibera n. 241 dell’08.03.2017, precisando che i destinatari degli obblighi di pubblicazione di cui sopra, sono tutti i soggetti che partecipano –sia in via elettiva che di nomina– a organi politici di livello statale, regionale e locale.
In particolare, l’Autorità ha previsto che per i sindaci dei comuni con popolazione inferiore ai 15mila abitanti, in quanto componenti ex lege dell’Assemblea dei Sindaci, non sussiste l’obbligo di pubblicazione nella sezione di Amministrazione Trasparente del sito web della Provincia dei dati reddituali e patrimoniali, previsti dall’art. 14, comma 1, lettera f) del decreto legislativo 33/2013.
La risposta al quesito posto, quindi, è che il Sindaco non è obbligato a pubblicare alcuna informazione sui suoi redditi e sul suo patrimonio, ma potrebbe essere tenuto a farlo qualora l’amministrazione disponesse di pubblicare “dati ulteriori” rispetto a quanto richiesto dalla legge, individuando tali dati nell’ambito del Piano Triennale per la Prevenzione della Corruzione e per la Trasparenza, in linea con il concetto di trasparenza come accessibilità totale (FAQ ANAC in materia di trasparenza n. 1.9) (12.02.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Accesso al rendiconto. Anche nei mini-enti niente paletti ai consiglieri. Il Tuel non pone limiti al diritto di visionare gli atti ed estrarne copia.
In materia di diritto di accesso dei consiglieri comunali, può essere respinta, da parte dell'ufficio finanziario dell'ente, la richiesta di «presa visione della documentazione relativa al bilancio di rendiconto», in quanto il comune, che non ha approvato il Peg, ha una popolazione «inferiore ai 5.000 abitanti»?

Il plenum della commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, del 16.03.2010, ha osservato che il «diritto di accesso» e il «diritto di informazione» dei consiglieri comunali nei confronti della p.a. trovano la loro disciplina nell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000 che riconosce a questi il diritto di ottenere dagli uffici comunali, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato.
Premesso che l'ente dovrebbe comunque disporre di apposito regolamento per la disciplina di dettaglio per l'esercizio di tale diritto, la maggiore ampiezza di legittimazione all'accesso rispetto al cittadino (art. 10 del decreto legislativo n. 267/2000) è riconosciuta in ragione del particolare munus espletato dal consigliere comunale. Infatti, il consigliere deve essere posto nelle condizioni di valutare, con piena cognizione di causa, la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'amministrazione, onde potere esprimere un giudizio consapevole sulle questioni di competenza della p.a., opportunamente considerando il ruolo di garanzia democratica e la funzione pubblicistica da questi esercitata.
Ciò in quanto «un pieno controllo sull'attività dell'ente spetta certamente a ciascun consigliere comunale, espressione politica della collettività locale di cui il comune è ente esponenziale» (parere della Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi del 17/12/2015). A tal fine, il consigliere comunale non deve motivare la propria richiesta di informazioni, poiché, diversamente opinando, la p.a. si ergerebbe ad arbitro delle forme di esercizio delle potestà pubblicistiche dell'organo deputato all'individuazione ed al perseguimento dei fini collettivi. Conseguentemente, gli Uffici comunali non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l'oggetto delle richieste di informazioni avanzate da un consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da questi espletato.
In merito al caso di specie, l'articolo 169 del decreto legislativo n. 267/2000 relativo al Piano esecutivo di gestione (Peg), al comma 3, prevede la facoltatività dell'adozione di tale strumento per i comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti. L'art. 227 del medesimo decreto legislativo disciplina il rendiconto di gestione disponendo, al comma 3, una deroga per tale tipologia di comuni in ordine alla predisposizione del conto economico, dello stato patrimoniale e del bilancio consolidato per gli enti che si avvalgono della facoltà di non tenere la contabilità economico-patrimoniale prevista dall'art. 232.
Tali disposizioni non sembra che contengano limitazioni all'accesso nei riguardi dei consiglieri comunali i quali, oltre ad avere diritto di visionare ed eventualmente di estrarre copia di qualsiasi atto che sia in possesso del comune, hanno un diritto a visionare proprio gli specifici atti ai sensi dell'articolo 227 citato - che al comma 2, prevede testualmente che «la proposta è messa a disposizione dei componenti dell'organo consiliare prima dell'inizio della sessione consiliare in cui viene esaminato il rendiconto entro un termine, non inferiore a 20 giorni, stabilito dal regolamento di contabilità».
Pertanto, alla luce del quadro sopra delineato, non sembra che possa negarsi l'accesso agli atti richiesti
(articolo ItaliaOggi dell'01.02.2019).

gennaio 2019

CONSIGLIERI COMUNALIIl consigliere comunale può impugnare una delibera solo se lede direttamente il suo mandato.
Non sussiste legittimazione dei consiglieri comunali a impugnare atti che non siano direttamente lesivi dell'ufficio ricoperto.
Un consigliere di minoranza di un Comune alle porte di Milano aveva impugnato di fronte al Tar la delibera di adozione del Piano di governo del territorio, chiedendone l'annullamento, in quanto alla seduta del consiglio comunale aveva espresso il proprio voto favorevole anche un consigliere in conflitto di interessi, che, se si fosse astenuto, avrebbe determinato il venir meno del numero legale.
Si era costituito il Comune eccependo l'inammissibilità del ricorso, in quanto il ricorrente, nella qualità di consigliere comunale, non sarebbe stato legittimato a impugnare le deliberazione dell'organo di cui faceva parte.
Con la sentenza 25.01.2019 n. 153, il TAR Lombardia-Milano, Sez. II, ha rigettato il ricorso.
Il collegio ha affermato che i consiglieri comunali non sono legittimati ad agire contro l'Amministrazione di appartenenza, dato che il giudizio amministrativo, di regola, non è aperto alle controversie tra organi o componenti di organi dello stesso ente.
Si può ipotizzare il ricorso dei singoli consiglieri comunali solo quando «vengano in rilievo atti incidenti in via diretta su un diritto spettante alla persona investita della carica di consigliere, dovendosi escludere che ogni violazione di forma o di sostanza nell’adozione di una deliberazione, che di per sé può produrre un atto illegittimo impugnabile dai diretti destinatari o direttamente lesi dal medesimo, si traduca in una automatica lesione dello ius ad officium».
Infatti il consigliere comunale gode di legittimazione attiva contro l'organo di cui fa parte solo quando eccepisce vizi che attengano:
   1) a erronee modalità di convocazione dell'organo consiliare
   2) alla violazione dell'ordine del giorno
   3) all'inosservanza del deposito della documentazione necessaria per poter consapevolmente deliberare
   4) in generale, quando gli sia precluso, in tutto o in parte, l'esercizio delle funzioni (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.02.2019).
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MASSIMA
2. A questo punto devono essere esaminate le eccezioni formulate dalla difesa del Comune e, in particolare, quella che assume l’inammissibilità dell’intero gravame sul presupposto che il ricorrente, agendo nella qualità di consigliere comunale, non risulterebbe legittimato ad impugnare le delibere assunte dall’organo consiliare di cui fa parte.
2.1. L’eccezione è fondata.
Il ricorrente ha agito nella veste di consigliere comunale di minoranza per censurare la legittimità di alcune deliberazioni –relative all’adozione e all’approvazione del P.G.T.– non deducendo tuttavia la lesione del proprio munus, ma evidenziando un asserita violazione della normativa contenuta nel Testo Unico degli Enti Locali (art. 78, comma 2, del D.Lgs. n. 267 del 2000) sulla prevenzione dei conflitti di interessi tra gli amministratori e gli amministrati.
Tuttavia,
secondo una consolidata giurisprudenza, non sussiste alcuna legittimazione in capo ai consiglieri comunali ad impugnare atti che non risultano direttamente lesivi del proprio munus. Difatti i consiglieri comunali, in quanto tali, non sono legittimati ad agire contro l’Amministrazione di appartenenza, dato che il giudizio amministrativo non è di regola aperto alle controversie tra organi o componenti di organi dello stesso ente, ma è rivolto a risolvere controversie intersoggettive.
Pertanto, l’impugnativa di singoli consiglieri può ipotizzarsi soltanto quando vengano in rilievo atti incidenti in via diretta sul diritto all’ufficio dei medesimi e, quindi, su un diritto spettante alla persona investita della carica di consigliere, dovendosi escludere che ogni violazione di forma o di sostanza nell’adozione di una deliberazione, che di per sé può produrre un atto illegittimo impugnabile dai soggetti diretti destinatari o direttamente lesi dal medesimo, si traduca in una automatica lesione dello ius ad officium.
Ne deriva che la legittimazione al ricorso può essere riconosciuta al consigliere solo quando i vizi dedotti attengano (a) ad erronee modalità di convocazione dell’organo consiliare, (b) alla violazione dell’ordine del giorno, (c) alla inosservanza del deposito della documentazione necessaria per poter liberamente e consapevolmente deliberare e (d) più in generale, laddove sia precluso in tutto o in parte l’esercizio delle funzioni relative all’incarico rivestito
(ex multis, Consiglio di Stato, V, 07.07.2014, n. 3446; TAR Campania, Napoli, I, 05.06.2018, n. 3710).
Nella fattispecie de qua, non si sono prodotte lesioni rientranti nelle categorie in precedenza indicate e, quindi, sia il ricorso introduttivo che il ricorso per motivi aggiunti devono essere dichiarati inammissibili per difetto di legittimazione del ricorrente.
2.2. In senso contrario non rileva nemmeno la circostanza –addotta peraltro soltanto in sede di memoria di replica dalla difesa attorea– che la coniuge del ricorrente sarebbe proprietaria di un mappale confinante con quello del sig. Sa., considerato che nessun ulteriore elemento è stato addotto per procedere ad una verifica in ordine alla sussistenza di una qualsivoglia lesione in capo al ricorrente, a prescindere dalla tempestività degli eventuali rilievi e dalla legittimazione ad agire in giudizio di un soggetto in sostituzione del proprio coniuge.
2.3. In conclusione, sia il ricorso introduttivo che il ricorso per motivi aggiunti devono essere dichiarati inammissibili per difetto di legittimazione del ricorrente.

CONSIGLIERI COMUNALIConflitto di interessi di un amministratore locale.
   
1) Le cause di incompatibilità o ineleggibilità che possono investire gli amministratori locali incidono direttamente sul diritto di elettorato passivo, tutelato dall’art. 51 della Costituzione; segue che le norme che introducono cause ostative all’espletamento del mandato elettivo sono di stretta interpretazione, e non è ammessa l’interpretazione analogica delle stesse.
   2) La disposizione di cui all’articolo 78 TUEL, secondo la quale l’amministratore locale non deve prendere parte alla discussione e alla votazione delle deliberazioni in cui lo stesso ha un interesse proprio (o di parenti o affini sino al quarto grado), è espressione di un obbligo generale di astensione dei membri di collegi amministrativi che vengano a trovarsi in posizione di conflitto di interessi in quanto portatori di interessi personali, diretti o indiretti, in contrasto potenziale con quello pubblico. Con riferimento specifico all’approvazione dei provvedimenti normativi o di carattere generale la norma ha disciplinato l’obbligo di astensione in modo tale che la sua violazione possa verificarsi solo in presenza di un interesse immediato, diretto e specifico dell’amministratore (o dei suoi parenti o affini) e non di un interesse genericamente non definito.

Il Comune, sentito anche per le vie brevi, chiede un parere in merito alla posizione rivestita da un assessore comunale, che ha svolto l’attività di revisore dei conti presso un consorzio partecipato dall’Ente medesimo, sotto il profilo dell’esistenza di possibili cause di incompatibilità o di conflitto di interessi per lo stesso.
In particolare, premesso che il soggetto in riferimento è stato eletto consigliere comunale nel giugno 2017 e ha cessato di essere revisore del consorzio a luglio 2018, atteso che il Comune ha approvato nel mese di ottobre 2018 il bilancio consolidato con i bilanci dei propri organismi ed enti strumentali e delle società controllate e partecipate relativo all’esercizio 2017
[1], nel cui novero è compreso il consorzio nel quale lo stesso ha prestato l’attività di revisore, l’Ente desidera sapere se, sul presupposto dell’eventuale esistenza di una qualche forma di incompatibilità/conflitto di interessi in capo all’amministratore locale, la delibera consiliare di cui sopra (cfr. delibera di ottobre 2018) possa risultare affetta da qualche vizio di legittimità.
Sentito il Servizio finanza locale, con riferimento alla fattispecie in esame, si formulano le seguenti considerazioni giuridiche generali.
In primis, pare che per il soggetto di cui si discute non venga in rilevo alcuna causa di incompatibilità prevista dalla legge: ciò sia dal punto di vista della carica di amministratore locale sia sotto quello dell’aver svolto l’attività di revisore dei conti per il consorzio.
In particolare, si ricorda come un esame delle eventuali cause di incompatibilità o ineleggibilità che possono investire gli amministratori locali deve essere effettuato in chiave di stretta interpretazione, rifuggendo da qualsiasi tipo di estensione analogica delle stesse, atteso che le cause ostative all’espletamento del mandato elettivo incidono direttamente sul diritto di elettorato passivo, alla luce della riserva di legge in materia posta dall’articolo 51 della Costituzione.
Premesso un tanto, sotto il primo profilo pare non ricorrano i presupposti per l’applicazione di alcuna delle fattispecie indicate all’articolo 63 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267
[2]. Tra queste si cita, escludendosene l’applicazione, quella di cui al comma 1, num. 3), secondo la quale non può ricoprire la carica di consigliere comunale “il consulente legale, amministrativo e tecnico che presta opera in modo continuativo in favore delle imprese di cui ai numeri 1) e 2) del presente comma” (l’impresa nel caso di specie sarebbe rappresentata dal consorzio).
Come rilevato dal Ministero dell’Interno in un proprio parere
[3] che affrontava una questione analoga a quella in esame [4], non si può infatti qualificare l’organo di revisione quale consulente amministrativo o tecnico del consorzio.
Ad analoghe conclusioni si perviene analizzando la posizione del soggetto in riferimento sotto il profilo dell’incarico di revisore dei conti del consorzio. Al riguardo la norma da prendere astrattamente in esame è l’articolo 236 del TUEL
[5] ai sensi del quale: “1. Valgono per i revisori le ipotesi di incompatibilità di cui al primo comma dell'articolo 2399 del codice civile [6], intendendosi per amministratori i componenti dell'organo esecutivo dell'ente locale.
2. L'incarico di revisione economico-finanziaria non può essere esercitato dai componenti degli organi dell'ente locale e da coloro che hanno ricoperto tale incarico nel biennio precedente alla nomina, dal segretario e dai dipendenti dell'ente locale presso cui deve essere nominato l'organo di revisione economico-finanziaria e dai dipendenti delle regioni, delle province, delle città metropolitane, delle comunità montane e delle unioni di comuni relativamente agli enti locali compresi nella circoscrizione territoriale di competenza.
3. Omissis
”.
In particolare non ricorrono i presupposti per l’applicazione del comma 1 del citato articolo 236 TUEL
[7], mancando il requisito del controllo tra consorzio e comune richiesto dall’articolo 2399, primo comma, lett. b), cod. civ. ivi richiamato [8].
Quanto all’ulteriore questione afferente la legittimità o meno della delibera assunta dal consiglio comunale, con la partecipazione del consigliere in argomento, avente ad oggetto l’approvazione del bilancio consolidato dell’ente con i bilanci dei propri organismi ed enti strumentali e delle società controllate e partecipate, in via preliminare si ricorda che non compete a questo Ufficio esprimersi in merito alla legittimità degli atti degli enti locali, stante l’avvenuta soppressione del regime dei controlli ad opera della riforma costituzionale n. 3/2001.
Pur tuttavia, di seguito si effettuano una serie di valutazioni giuridiche sulla tematica in riferimento che si ritiene possano essere di utilità all’Ente che ha posto il quesito.
In particolare la norma da prendere in considerazione è l’articolo 78, comma 2, TUEL il quale recita: “Gli amministratori di cui all'articolo 77, comma 2, devono astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado. L'obbligo di astensione non si applica ai provvedimenti normativi o di carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado”.
Alla luce delle considerazioni in appresso indicate pare che nel caso di specie manchino le condizioni per ritenere sussistente l’obbligo di astensione del consigliere comunale in relazione all’approvazione della predetta delibera.
In via generale si ricorda che la giurisprudenza
[9] ha più volte affermato che la norma in commento è espressione di un obbligo generale di astensione dei membri di collegi amministrativi che vengano a trovarsi in posizione di conflitto di interessi in quanto portatori di interessi personali, diretti o indiretti, in contrasto potenziale con quello pubblico.
Con riferimento specifico all’approvazione dei provvedimenti normativi o di carattere generale, al cui interno deve ricondursi anche la fattispecie in esame, la norma ha disciplinato l’obbligo di astensione in modo tale che la sua violazione possa verificarsi solo in presenza di un interesse immediato, diretto e specifico dell’amministratore (o dei suoi parenti o affini) e non di un interesse genericamente non definito.
Quanto alla delibera di approvazione del bilancio consolidato con i bilanci dei propri organismi ed enti strumentali e delle società controllate e partecipate, assunta dal consiglio comunale, si rileva che esso, ai sensi del principio applicato n. 4/4 di cui al decreto legislativo 23.06.2011, n. 118, consiste in “un documento contabile a carattere consuntivo che rappresenta il risultato economico, patrimoniale e finanziario del «gruppo amministrazione pubblica» […]. Il bilancio consolidato è quindi lo strumento informativo primario di dati patrimoniali, economici e finanziari del gruppo inteso come un’unica entità economica distinta dalle singole società e/o enti componenti il gruppo, che assolve a funzioni essenziali di informazione, sia interna che esterna, funzioni che non possono essere assolte dai bilanci separati degli enti e/o società componenti il gruppo né da una loro semplice aggregazione”.
Il Servizio finanza locale sull’argomento ha precisato come trattasi di un documento che consiste principalmente in un “assemblaggio” tecnico di bilanci di esercizio singolarmente approvati ed opportunamente adattati secondo regole tecniche precise per permetterne il consolidamento.
Attesa la natura del bilancio consolidato in uno con le funzioni ad esso proprie
[10], considerato il fatto che il bilancio consolidato viene redatto sulla base dei documenti contabili trasmessi dagli enti partecipati, i quali costituiscono documenti “perfetti” nel senso che si tratta di atti già approvati nelle rispettive sedi (per quel che rileva in questa sede, approvati dagli organi competenti del consorzio), produttivi di effetti e non impugnabili dagli amministratori dell’ente capogruppo (il Comune), parrebbe seguire l’inesistenza di un interesse immediato e diretto del consigliere comunale con riferimento all’approvazione della delibera in argomento.
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[1] L’approvazione consiliare, pertanto, benché intervenuta quando il consigliere comunale non era più revisore dei conti del consorzio, afferiva, tuttavia, a documenti contabili del consorzio sui quali lo stesso aveva svolto la sua attività di revisore dei conti.
[2] Né di quelle contenute all’articolo 60 TUEL le quali benché volte a individuare specifiche ipotesi di ineleggibilità, qualora sopraggiungano nel corso del mandato trovano applicazione in forza dell’estensione contenuta all’articolo 63, comma 1, num. 7) TUEL.
[3] Ministero dell’Interno, parere del 25.05.2010.
[4] Si trattava di un componente dei revisori dei conti di un consorzio tra comuni eletto consigliere comunale in uno degli enti locali facenti parte del consorzio.
[5] Tale norma si applica al consorzio in forza del rinvio contenuto all’articolo 2, comma 2, TUEL il quale recita: “Le norme sugli enti locali previste dal presente testo unico si applicano, altresì, salvo diverse disposizioni, ai consorzi cui partecipano enti locali, con esclusione di quelli che gestiscono attività aventi rilevanza economica ed imprenditoriale e, ove previsto dallo statuto, dei consorzi per la gestione dei servizi sociali”. Peraltro si ricorda che l’articolo 24 (Disciplina in materia di revisione economico-finanziaria degli enti locali) della legge regionale 17.07.2015, n. 18 stabilisce che: “In materia di revisione economico-finanziaria degli enti locali si applica la normativa statale, salvo quanto previsto dalla legge regionale”.
[6] L’articolo 2399, primo comma, del cod. civ. recita: “Non possono essere eletti alla carica di sindaco e, se eletti, decadono dall'ufficio:
   a) omissis;
   b) il coniuge, i parenti e gli affini entro il quarto grado degli amministratori della società, gli amministratori, il coniuge, i parenti e gli affini entro il quarto grado degli amministratori delle società da questa controllate, delle società che la controllano e di quelle sottoposte a comune controllo;
   c) omissis”.
[7] Non si prende, invece, in esame la fattispecie contemplata al comma 2 dell’articolo 236 TUEL nella parte in cui sancisce che l’incarico di revisione economico-finanziaria non possa essere esercitato dai componenti degli organi dell’ente locale atteso che essa introduce una causa di incompatibilità per il revisore contabile che sia amministratore nel medesimo ente (consorzio) nel quale esercita il proprio mandato elettivo.
[8] La relazione di controllo tra Comune e consorzio andrebbe, infatti, valutata alla luce dell’articolo 2359 del cod. civ. il quale stabilisce che: “Sono considerate società controllate:
   1) le società in cui un'altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell'assemblea ordinaria;
   2) le società in cui un'altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un'influenza dominante nell'assemblea ordinaria;
   3) le società che sono sotto influenza dominante di un'altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa”.
[9] Tra le altre, TAR Piemonte, Torino, sez. I, sentenza del 24.10.2014, n. 1623; Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 28.01.2011, n. 693.
[10] A tal riguardo, il punto 1 dell’Allegato 4/4 al D.Lgs. 118/2011 stabilisce che il bilancio consolidato deve consentire di: “a) sopperire alle carenze informative e valutative dei bilanci degli enti che perseguono le proprie funzioni anche attraverso enti strumentali e detengono rilevanti partecipazioni in società […]; b) attribuire alla amministrazione capogruppo un nuovo strumento per programmare, gestire e controllare con maggiore efficacia il proprio gruppo comprensivo di enti e società; c) ottenere una visione completa delle consistenze patrimoniali e finanziarie di un gruppo di enti e società che fa capo ad un'amministrazione pubblica, incluso il risultato economico”
  (25.01.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Minoranze da tutelare. No all’ostruzionismo della maggioranza. Illegittime le modifiche regolamentari tese a far mancare il numero legale.
Qual è il quorum necessario affinché possano considerarsi valide le sedute consiliari di seconda convocazione?
L'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 demanda al regolamento comunale, «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto», la determinazione del «numero dei consiglieri necessario per la validità delle sedute», con il limite che tale numero non può, in ogni caso, scendere sotto la soglia del «terzo dei consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a tale fine il sindaco e il presidente della provincia».
Nella fattispecie in esame, il consiglio comunale ha deliberato la modifica della disposizione regolamentare sul funzionamento dell'organo consiliare recante la disciplina relativa alla seduta di seconda convocazione prevedendo, ai fini della validità della seduta stessa, la presenza di «almeno quattro consiglieri». Poiché il consiglio comunale in questione è composto solo da tre consiglieri di minoranza, emergerebbe la difficoltà, per questi ultimi, di poter esercitare il proprio mandato elettivo a causa del ripetersi delle assenze della maggioranza e alla conseguente mancanza del numero legale previsto per la validità delle sedute del consiglio.
In merito, il Tar Sicilia, Catania, sez. I 18/07/2006, n. 1181, pronunciandosi in tema di c.d. «ostruzionismo di maggioranza», ha evidenziato che il comportamento preordinato al conseguimento della mancanza del numero legale delle assemblee rappresentative costituisce una inammissibile prevaricazione della maggioranza nei confronti delle minoranze, alle quali viene impedito di esercitare il proprio ruolo di opposizione e quindi l'esercizio di un diritto politico costituzionalmente garantito. Secondo il Tar citato, l'art. 49 della Costituzione preclude ai partiti politici e ai loro rappresentanti «qualunque opera non solo di aperto sabotaggio ma anche di subdola, lenta e surrettizia erosione delle istituzioni democratiche».
La modifica regolamentare proposta, pertanto, unitamente alla lamentata assenza sistematica dei componenti di maggioranza potrebbero configurare un inammissibile svilimento dei diritti e delle prerogative dei consiglieri di minoranza. Premesso che il vigente ordinamento non prevede poteri di controllo di legittimità sugli atti degli enti locali in capo al ministero dell'interno, l'ente locale in questione dovrebbe valutare l'opportunità di rivedere la propria normativa regolamentare
(articolo ItaliaOggi dell'11.01.2019).

ATTI AMMINISTRATIVINell'ambito della manovra dell'approvazione del bilancio di previsione, nella seduta del consiglio comunale, posto che prima dell'approvazione del bilancio, nella sequenza dell'ordine del giorno, si intende approvare una modifica ad un regolamento tributario, questa delibera di modifica di regolamento che va ad incidere sul bilancio stesso, può essere dichiarata immediatamente eseguibile o le modifiche dei regolamenti non lo possono essere?
Il quesito in esame riguarda la declaratoria di "immediata eseguibilità", relativa alle deliberazioni degli organi collegiali: Giunta e Consiglio. Precisamente, si chiede di sapere se le deliberazioni consiliari di modificazione di regolamenti in materia tributaria possano essere oggetto dell'indicata declaratoria.
In via preliminare, occorre chiarire il concetto di "eseguibilità" e ben distinguerlo da quello di "esecutività". Orbene, per "esecutività", si intende la formale idoneità di un provvedimento a produrre effetti. Viceversa, per "eseguibilità", si intende la concreta idoneità di un provvedimento a produrre effetti. In altri termini, il provvedimento, seppur non esecutivo, può essere attuato (posto in esecuzione) mediante la dichiarazione di eseguibilità, che impone una precisa assunzione di responsabilità. L'eseguibilità costituisce, quindi, un'anticipazione dell'esecuzione, sulla base di una dichiarazione di assunzione di responsabilità.
Chiarito il concetto, procediamo alla lettura dell'art. 134, comma 4, D.Lgs 18.08.2000, n. 267, il quale stabilisce quanto segue: "Nel caso di urgenza le deliberazioni del consiglio o della giunta possono essere dichiarate immediatamente eseguibili con il voto espresso dalla maggioranza dei componenti".
Il tenore letterale della disposizione normativa pone in essere un generico riferimento alle deliberazioni del consiglio o della giunta, senza operare alcuna limitazione. Dunque, in base ad un'interpretazione meramente letterale appare facile desumere che, non sussistendo limitazioni espresse, anche le deliberazioni modificative di regolamenti in materia tributaria possono essere dichiarate immediatamente eseguibili.
Ed, infatti, la giurisprudenza, che si è più volte occupata dell'istituto, non ha mai evidenziato limitazioni di "categorie" di provvedimenti deliberativi o di "materia" eventualmente oggetto di declaratoria. Precisamente, la giurisprudenza ha evidenziato quanto segue:
   - La funzione della dichiarazione di immediata eseguibilità è quella di garantire l'effettività delle decisioni assunte, nelle more della pubblicazione dell'atto deliberativo: "Si tratta di una norma che tende a salvaguardare l'effettività di quanto deciso dall'organo politico nelle more della pubblicazione dell'atto, al fine di evitare uno spazio temporale (dal giorno della deliberazione a quello dell'effettiva pubblicazione), che potrebbe tradire l'obiettivo della delibera medesima in modo deleterio per il pubblico interesse di volta in volta perseguito, così eliminando l'"effetto annuncio" connaturato all'ordinaria regola di cui al terzo comma dell'art. 134 (in base alla quale la delibera diventa ordinariamente esecutiva solo trascorsi dieci giorni dalla sua pubblicazione)" (TAR Piemonte Torino Sez. II, 14.03.2014, n. 460);
   - Conseguentemente, la dichiarazione di immediata eseguibilità accede alla deliberazione principale, ma non si identifica con essa, ed è proprio la necessità di una votazione separata a rivelarne l'autonomia sotto il profilo strutturale e funzionale (in tal senso: TAR Liguria Genova Sez. II, 09.01.2007, n. 2);
   - La dichiarazione di immediata eseguibilità costituendo una scelta discrezionale dell'Amministrazione, deve essere ben motivata: "La clausola di immediata eseguibilità dipende da una scelta discrezionale dell'amministrazione, comunque pur sempre correlata al requisito dell'urgenza, che deve ricevere adeguata motivazione nell'ambito dello stesso atto" (TAR Liguria Genova Sez. II, 09.01.2007, n. 2).
   - Non occorre la previa pubblicazione della deliberazione: "L'immediata eseguibilità di una deliberazione consiliare o giuntale non presuppone la previa pubblicazione dell'atto. In caso contrario il comma 4 dell'art. 134 avrebbe dovuto essere diversamente formulato, non potendosi lasciare nel vago un profilo così rilevante" (TAR Marche Ancona Sez. I, 23.07.2014, n. 713).
Orbene, in base ai riportati indirizzi giurisprudenziali, appare ben chiaro che la dichiarazione di immediata eseguibilità non incontra alcun limite di "categorie" o di "materia" e può anche trovare applicazione in relazione alle deliberazioni consiliari di modifica di regolamenti tributari. Ad ogni modo, occorre prestare la massima attenzione al profilo motivazionale, corredando la dichiarazione di un'adeguata giustificazione, esplicativa delle ragioni di urgenza. Ed, infatti, l'evidente necessità di una congrua motivazione è ribadita anche da un parere reso dal Ministero dell'interno: "La clausola di immediata eseguibilità dipende da una scelta discrezionale dell'amministrazione, comunque pur sempre correlata al requisito dell'urgenza, che deve ricevere adeguata motivazione nell'ambito dello stesso atto" (parere 17.02.2017).
Ovviamente, la concreta ed effettiva produzione di effetti giuridici deve essere coordinata con le vigenti disposizioni in materia di tributi locali, tenendo conto, soprattutto, dell'art. 1, comma 169, L. 27.12.2006, n. 296, il quale stabilisce che: "gli enti locali deliberano le tariffe e le aliquote relative ai tributi di loro competenza entro la data fissata da norme statali per la deliberazione del bilancio di previsione. Dette deliberazioni, anche se approvate successivamente all'inizio dell'esercizio purché entro il termine innanzi indicato, hanno effetto dal 1° gennaio dell'anno di riferimento. In caso di mancata approvazione entro il suddetto termine, le tariffe e le aliquote si intendono prorogate di anno in anno".
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs 18.08.2000, n. 267, art. 134 - L. 27.12.2006, n. 296, art. 1, comma 169
Riferimenti di giurisprudenza
TAR Liguria Sez. II, 09.01.2007, n. 2 - TAR Piemonte Sez. II, 14.03.2014, n. 460 - TAR Marche Sez. I, 23.07.2014, n. 713
Documenti allegati

Parere 17.02.2017 del Ministero dell'Interno
(10.01.2019 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Gestionale senza segreti. Accesso al sistema informatico contabile. I consiglieri hanno diritto di visionare documenti senza limitazioni.
Ai sensi della vigente normativa, è consentito al consigliere comunale di accedere al sistema informatico gestionale, anche contabile, dell'ente locale?
Il Tar Sardegna, con sentenza n. 29/2007, in merito alla questione prospettata, ha affermato che è consentito prendere visione del protocollo generale senza alcuna esclusione di oggetti e notizie riservate e di materie coperte da segreto, posto che i consiglieri comunali sono tenuti al segreto ai sensi dell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000. Il Tar Lombardia, Brescia, inoltre, con sentenza n. 163/2004, ha ritenuto non ammissibile imporre ai consiglieri l'onere di specificare in anticipo l'oggetto degli atti che intendono visionare poiché trattasi di informazioni di cui gli stessi possono disporre solo in conseguenza dell'accesso.
La previa visione dei vari protocolli, tra cui il protocollo informatico, previsto dall'art. 17 del decreto legislativo n. 82/05 e successive modificazioni (codice dell'amministrazione digitale), è pertanto necessaria per poter individuare gli estremi degli atti sui quali si andrà ad esercitare l'accesso vero e proprio.
In tal senso, anche la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, con parere del 22.02.2011, ha osservato che, ai sensi della vigente normativa (dpr 20.10.1998, n. 428, dpcm 31.10.2000, dpr 28.12.2000 n. 445, dpcm 14.10.2003) ogni comune deve provvedere a realizzare il protocollo informatico, a cui possono liberamente accedere i consiglieri comunali che, quindi, possono prendere visione in via informatica delle determinazioni e delle delibere adottate dall'ente; ciò, in ottemperanza al principio generale di economicità dell'azione amministrativa, che riduce allo stretto necessario la redazione in forma cartacea dei documenti amministrativi. I precedenti pareri espressi dalla commissione per l'accesso ai documenti amministrativi rafforzano, peraltro, tale favorevole orientamento.
In particolare la Commissione, con il parere del 03.02.2009, ha precisato che «il ricorso a supporti magnetici o l'accesso al sistema informatico interno dell'ente, ove operante, sono strumenti di accesso certamente consentiti al consigliere comunale, poiché favoriscono la tempestiva acquisizione delle informazioni richieste senza aggravare l'ordinaria attività amministrativa».
Inoltre, con il parere del 16.03.2010, ha ribadito l'accessibilità del consigliere comunale al sistema informatico dell'ente tramite utilizzo di apposita password, ove operante, ferma restando la responsabilità della segretezza della password di cui il consigliere è stato messo a conoscenza a tali fini (art. 43, comma 2, Tuel); infine, con il parere del 25.05.2010, ha rimarcato il diritto del consigliere di accedere anche al protocollo informatico
(articolo ItaliaOggi del 04.01.2019).

CONSIGLIERI COMUNALILa carica di consigliere comunale non dà diritto di accesso agli atti della magistratura contabile.
Non è sufficiente rivestire la carica di Consigliere per essere legittimati sic et simpliciter all’accesso documentale ad atti, pur rivolti all’Ente rappresentato, delle Procure regionali della Corte dei conti, occorrendo dare atto che l’istanza muova da un’effettiva esigenza collegata all’esame di questioni proprie dell’assemblea consiliare. Invero, la finalizzazione dell’accesso ai documenti in relazione all’espletamento del mandato costituisce il presupposto legittimante ma anche il limite dello stesso, configurandosi come funzionale allo svolgimento dei compiti del Consigliere.
È quanto afferma il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 02.01.2019 n. 12.
Il caso
La vicenda trae origine dall’impugnazione dinnanzi al Tar, da parte di un Consigliere comunale in carica presso un Comune veneto, di un provvedimento del Comune con cui si negava l’accesso agli atti afferenti ad una richiesta inoltrata al Comune dalla Procura della Corte dei conti regionale, nonché alla successiva risposta dell’Amministrazione alla Procura.
L’istanza di accesso, spiegata nella sua qualità di Consigliere comunale, era giustificata in quanto utile all’espletamento del proprio mandato, poiché attinente a questioni che in ipotesi avrebbero potuto incidere, sotto il profilo finanziario, sulla corretta tenuta del bilancio dell’Ente. L’Amministrazione negava però l’accesso, eccependo tra l’altro l’assoggettamento degli atti richiesti a segreto istruttorio.
Il Tar respingeva il ricorso, sul presupposto –da un lato– che non fosse stato dimostrato l’effettivo interesse all’accesso, ossia un’esigenza collegata all’esame di questioni di bilancio o altre questioni poste all’ordine del giorno di una seduta del Consiglio e che comunque –dall’altro– la sussistenza dell’eccepito segreto istruttorio, atteso che la documentazione della quale era stata chiesta l’ostensione non riguardava un atto prodotto nell’esercizio delle competente proprie dell’Amministrazione comunale, bensì una documentazione proveniente dalla Procura della Corte dei conti afferente ad un’indagine promossa dalla stessa Procura.
Il Consiglio di Stato, adito in seconde cure, rigettava anch’esso il ricorso, ha affermato che non sia sufficiente rivestire la carica di consigliere per essere legittimati sic et simpliciter all’accesso, occorrendo dare atto che l’istanza muova da un’effettiva esigenza collegata all’esame di questioni proprie dell’assemblea consiliare.
In tal guisa, infatti, la finalizzazione dell’accesso ai documenti in relazione all’espletamento del mandato costituisce il presupposto legittimante ma anche il limite dello stesso, configurandosi come funzionale allo svolgimento dei compiti del Consigliere.
La decisione
Come visto, il Consiglio di Stato parte dall’assunto per cui la carica di Consigliere comunale non attribuisca al singolo Consigliere un generale diritto di accesso agli atti, anche interni, formati dall’Amministrazione o comunque utilizzati ai fini dell’attività amministrativa in ragione del sol fatto di rivestire detta carica istituzionale; bensì, strumentalmente, lo riconnette all’esercizio delle sue funzioni all’interno dell’assemblea di cui fa parte.
Detto in altri termini, non appare sufficiente rivestire la carica di Consigliere per essere legittimati sic et simpliciter all’accesso, ma occorre dare atto che l’istanza muova da un’effettiva esigenza collegata all’esame di questioni proprie dell’assemblea consiliare.
Il Collegio, infatti, fa notare come la finalizzazione dell'accesso ai documenti in relazione all'espletamento del mandato costituisce il presupposto legittimante ma anche il limite dello stesso, configurandosi come funzionale allo svolgimento dei compiti del Consigliere.
Partendo da questi presupposti, la richiesta, nel caso di specie, non aveva ad oggetto degli atti interni dell’Amministrazione comunale (ovvero da questi utilizzati ai fini dello svolgimento della propria attività istituzionale), bensì una nota della Procura regionale della Corte dei conti con la quale venivano chiesti all’Amministrazione alcuni riscontri nell’ambito di uno specifico procedimento istruttorio. Pertanto, la documentazione richiesta atteneva ad un procedimento aperto dalla magistratura contabile, ancorché tale indagine fosse collegata ad una determinata attività dell’Ente territoriale.
Nella vicenda de qua, dunque, fuoriusciva dal perimetro di applicazione dell’art. 43 Tuel (il cui secondo comma recita testualmente: «I Consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del Comune e della Provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato. Essi sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge»). Di guisa che, nel caso di specie, le eccezionali prerogative riconosciute da tale norma ai Consiglieri comunali erano da considerarsi inapplicabili, tanto più a fronte di previsioni di legge che prevedessero invece un regime speciale di segretezza o riservatezza, nell’interesse generale o di terzi.
Conclusioni
Nel rigettare il ricorso, dunque, il Consiglio di Stato ha ritenuto che, nel caso di specie, il regime speciale di segretezza, fosse rinvenibile nelle disposizioni del Dlgs 26.08.2016, n. 174 (Codice della giustizia contabile) che disciplina –nell’ambito delle attività di indagine della Procura contabile– le ipotesi di accesso al fascicolo istruttorio (articolo 71), la riservatezza della fase istruttoria (articolo 57) e le comunicazioni dell’archiviazione dei procedimenti istruttori (articolo 69).
Nel primo caso, in particolare, solamente il destinatario dell'invito a dedurre ha diritto di visionare e di estrarre copia di tutti documenti inseriti nel fascicolo istruttorio depositato presso la segreteria della Procura regionale.
Alla luce di tali disposizioni, il Collegio ha concluso che la possibilità dell’accesso alla documentazione istruttoria è riservata ai soli soggetti interessati dall’attività inquirente (in particolare, quelli invitati a dedurre), nel rispetto dei principi del Dlgs 30.06.2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali) e ciò all’evidente fine di evitare che la gestione della documentazione contenuta nel fascicolo istruttorio possa in concreto comportare nocumento alla riservatezza dei soggetti coinvolti negli accertamenti.
Alla luce di quanto precede il Consiglio di Stato ha ritenuto corretta la conclusione del primo Giudice, secondo cui alla vicenda per cui è causa doveva applicarsi la disciplina generale sull’accesso agli atti di cui alla legge 07.08.1990, n. 241; in particolare, veniva in considerazione l’articolo 24, comma 1, di tale legge, per cui gli atti in esame dovevano rimanere riservati, non avendo l’istante addotto alcuna esigenza di difendere i propri interessi giuridici, in forza del comma 7 dello stesso articolo 24 (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 12.02.2019).
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Ad un complessivo esame degli atti di causa, il Collegio ritiene che il gravame non sia fondato.
Con il primo motivo viene eccepita la contraddizione, da parte della sentenza impugnata, della ratio sottesa al diritto di accesso agli atti di cui sono titolari i consiglieri comunali, ai sensi dell’art. 43 Tuel, ai quali non potrebbe essere negato l’accesso utile all’esercizio del mandato, durante il cui espletamento sarebbero peraltro vincolati al segreto d’ufficio.
Per l’effetto, l’odierno appellante non sarebbe stato gravato da alcun onere motivazionale in occasione della proposizione di istanza di accesso, anche alla luce degli artt. 52 e 54 del Regolamento per la disciplina dei procedimenti amministrativi e per il diritto di accesso ai documenti del Comune di Cassola, vigente all’epoca dei fatti, in applicazione dei quali era legittimamente consentito allo stesso richiedere la documentazione ritenuta “utile” all’espletamento delle proprie funzioni.
L’art. 52, in particolare, prevedeva che “I consiglieri comunali hanno diritto di ottenere dagli uffici e dagli enti e aziende dipendenti dal Comune tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, nello stato in cui sono disponibili, utili all'espletamento del mandato”, laddove il primo comma dell’art. 54 (“Accesso agli atti riservati”) stabiliva che “Non può essere inibito ai consiglieri l’esercizio del diritto di accesso agli atti interni di cui all’art. 41, ai documenti dichiarati riservati e agli atti preparatori di cui all’art. 45”.
Per contro, nessuna rilevanza poteva attribuirsi, nel caso di specie, alle norme del nuovo Codice di giustizia contabile richiamate in sentenza (artt. 71, 57 e 69 del d.lgs. n. 174 del 2016), così come all’art. 24 della l. n. 241 del 1990, giacché –richiamando il precedente della Sezione 11 dicembre 2013, n. 5931– con riferimento all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali, tale esigenza sarebbe salvaguardata dall'art. 43 comma 2, d.lgs. 18.08.2000, n. 267, che impone ad essi il segreto ove accedano ad atti che incidono sulla sfera giuridica e soggettiva di terzi.
Né sussistevano, nel caso di specie, esigenze di riservatezza istruttoria, dal momento che il fascicolo della Corte dei Conti indicato dall’appellante nella richiesta di accesso era già stato archiviato.
Il motivo non è fondato.
Va in primo luogo considerato, come del resto fatto dal primo giudice, che il richiamato art. 52 del Regolamento per la disciplina dei procedimenti amministrativi e per il diritto di accesso non attribuisce al singolo consigliere comunale un generale diritto di accesso in ragione del sol fatto di rivestire detta carica istituzionale, bensì, strumentalmente, lo riconnette all’esercizio delle sue funzioni all’interno dell’assemblea di cui fa parte.
Detto in altri termini,
non appare sufficiente rivestire la carica di consigliere per essere legittimati sic et simpliciter all’accesso, ma occorre dare atto che l’istanza muova da un’effettiva esigenza collegata all’esame di questioni proprie dell’assemblea consiliare.
Del resto, la finalizzazione dell'accesso ai documenti in relazione all'espletamento del mandato costituisce il presupposto legittimante ma anche il limite dello stesso, configurandosi come funzionale allo svolgimento dei compiti del consigliere (Cons. Stato, V, 26.09.2000, n. 5109).
Il diritto di accesso di cui trattasi, comunque, riguarda esclusivamente gli “atti, anche interni, formati dall’amministrazione o comunque utilizzati ai fini dell’attività amministrativa” (art. 31, comma 2, del Regolamento cit.), non essendo previste specifiche deroghe per i consiglieri comunali (comma 4).
Ciò premesso, la richiesta a suo tempo inoltrata dall’odierno appellante non aveva ad oggetto degli atti interni dell’amministrazione comunale (ovvero da questi utilizzati ai fini dello svolgimento della propria attività istituzionale), bensì, innanzitutto, una nota della Procura regionale della Corte dei Conti con la quale venivano chiesti all’amministrazione alcuni riscontri nell’ambito di uno specifico procedimento istruttorio. In breve, la documentazione richiesta, come ben sintetizzato in sentenza, atteneva ad un procedimento aperto dalla magistratura contabile, ancorché tale indagine fosse collegata ad una determinata attività dell’Ente territoriale.
La vicenda per cui è causa, dunque, fuoriusciva dal perimetro di applicazione dell’art. 52 del citato Regolamento comunale (e, più in generale, dall’art. 43 Tuel), con l’effetto che le eccezionali prerogative riconosciute da tale norma ai consiglieri comunali dovevano considerarsi inapplicabili, tanto più a fronte di previsioni di legge che prevedessero invece un regime speciale di segretezza o riservatezza, nell’interesse generale o di terzi.
Ritiene il Collegio che, nel caso di specie, un regime di tale natura, avente tra l’altro carattere speciale, sia rinvenibile nelle disposizioni del d.lgs. 26.08.2016, n. 174 (Codice della giustizia contabile) che disciplinano –nell’ambito delle attività di indagine della Procura contabile– le ipotesi di accesso al fascicolo istruttorio (art. 71), la riservatezza della fase istruttoria (art. 57) e le comunicazioni dell’archiviazione dei procedimenti istruttori (art. 69).
Nel primo caso, in particolare, solamente il destinatario dell'invito a dedurre ha diritto di visionare e di estrarre copia di tutti documenti inseriti nel fascicolo istruttorio depositato presso la segreteria della procura regionale, previa presentazione di domanda scritta, salva comunque la tutela della riservatezza di cui all’articolo 52, comma 1 (relativa all’obbligo di segretezza delle generalità del pubblico dipendente denunziante).
Alla luce di tali disposizioni, come ben nota il giudice di prime cure, deve concludersi che la possibilità dell’accesso alla documentazione istruttoria è riservata ai soli soggetti interessati dall’attività inquirente (in particolare, quelli invitati a dedurre), nel rispetto dei principi del d.lgs. 30.06.2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali) e ciò all’evidente fine di evitare che la gestione della documentazione contenuta nel fascicolo istruttorio possa in concreto comportare nocumento alla riservatezza dei soggetti coinvolti negli accertamenti; del resto, ad ulteriormente ribadire tale esigenza, lo stesso provvedimento di archiviazione viene inoltrato solamente a chi abbia assunto formalmente la veste di “invitato a dedurre” (ex art. 69, comma 4, d.lgs. n. 174 del 2016), dovendo in linea di principio rimanere ignoto ai terzi.
Tale ultimo rilievo vale anche a smentire l’eccezione di parte appellante, secondo cui nessuna esigenza di riservatezza avrebbe più potuto essere opposta, dal momento che il fascicolo della Corte dei Conti indicato nella richiesta di accesso era stato archiviato.
Alla luce di quanto precede appare dunque corretta la conclusione del primo giudice, secondo cui alla vicenda per cui è causa doveva applicarsi la disciplina generale sull’accesso agli atti di cui alla legge 07.08.1990, n. 241; in particolare, veniva in considerazione l’art. 24, comma 1, di tale legge, per cui gli atti in esame dovevano rimanere riservati, non avendo l’istante addotto alcuna esigenza di difendere i propri interessi giuridici, in forza del comma 7 dello stesso art. 24.

dicembre 2018

CONSIGLIERI COMUNALI: Accesso agli atti da parte di un consigliere comunale.
Ai sensi dell’art. 43, co. 2, TUEL, sussiste il diritto del consigliere comunale di accedere a determinati atti relativi ad un singolo contribuente.
Il diritto di accesso ai documenti esercitato dai consiglieri comunali, infatti, in quanto espressione delle loro prerogative di controllo democratico, non incontra alcuna limitazione in relazione all'eventuale natura riservata degli atti, stante anche il vincolo del segreto d'ufficio cui gli stessi sono tenuti in forza della citata norma di legge.

Il Comune chiede un parere in materia di diritto di accesso agli atti spettante ai consiglieri comunali. Più in particolare, nel riferire di una richiesta avanzata da un amministratore locale del seguente tenore: “situazione/accertamenti/tassazione immobili di proprietà di… .omissis … siti in ……” chiede se l’istanza di accesso debba essere accolta atteso che la stessa riguarda un singolo contribuente.
In via preliminare si ricorda che il diritto di accesso agli atti amministrativi da parte degli amministratori locali è disciplinato dall’articolo 43, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 il quale prevede che: “I consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato. Essi sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge.”
La giurisprudenza, anche di recente, ha ribadito che “l'accesso ai documenti esercitato dai consiglieri comunali e provinciali, e, per estensione, anche regionali, espressione delle loro prerogative di controllo democratico, non incontra alcuna limitazione in relazione all'eventuale natura riservata degli atti, stante anche il vincolo del segreto d'ufficio che lo astringe. Inoltre, tale accesso non deve essere motivato, atteso che, diversamente, sarebbe consentito un controllo da parte degli uffici dell'Amministrazione sull'esercizio delle funzioni del consigliere. La locuzione aggettivale "utile", contenuta nell'art. 43 del t.u.e.l., non vale ad escludere il carattere incondizionato del diritto (soggettivo pubblico) di accesso del consigliere, ma piuttosto comporta l'estensione di tale diritto a qualsiasi atto ravvisato "utile" per l'esercizio delle funzioni
[1].
L’ampiezza di legittimazione all’accesso riconosciuta ai consiglieri comunali si giustifica “in ragione del particolare munus espletato dal consigliere comunale, affinché questi possa valutare con piena cognizione di causa la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, al fine di poter esprimere un giudizio consapevole sulle questioni di competenza della P.A., opportunamente considerando il ruolo di garanzia democratica e la funzione pubblicistica da questi esercitata
[2].
In relazione all’esigenza di salvaguardia della riservatezza dei terzi, si osserva ancora come la giurisprudenza
[3] abbia rilevato che la stessa è soddisfatta dall’articolo 43, comma 2, del D.Lgs. 267/2000, laddove statuisce che i consiglieri stessi sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge: “Il diritto del consigliere comunale o provinciale di avere accesso, ex art. 43 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, a tutte le informazioni che siano utili all'espletamento del mandato non incontra alcuna limitazione derivanti da esigenze di riservatezza o privacy dei terzi, in quanto il consigliere è vincolato all'osservanza del segreto. L'art. 43, comma 2 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, prevede infatti che i consiglieri comunali sono tenuti al segreto nel caso accedano ad atti che incidono sulla sfera giuridica e soggettiva di terzi[4].
Con riferimento ad una richiesta di un consigliere comunale “di accedere ai fascicoli personali di 154 contribuenti fisici e giuridici -iscritti a ruolo per il tributo sui rifiuti Tarsu/Tares– che hanno ricevuto l’avviso di accertamento per omessa/infedele denuncia” il Ministero dell’Interno, in un proprio parere
[5], nel richiamare i principi già sopra esposti ha ulteriormente ribadito che “gli Uffici comunali non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l’oggetto delle richieste di informazione avanzate da un consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da questi espletato. Ciò, anche nel rispetto della separazione dei poteri (art. 4 e art. 14 del d.lgs. n. 165/2001) sancita per gli enti locali dall’art. 107 del TUOEL n. 267/2000 che richiama il principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo politico- amministrativo spettano agli organi di governo, essendo riservata ai dirigenti la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica [6].
Da ultimo, sempre a favore dell’ostensibilità, nel caso di specie, della documentazione richiesta dall’amministratore locale si segnala un parere della Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi
[7] relativa ad una istanza ex art. 43, comma 2, TUEL inerente il pagamento dei tributi per le concessioni cimiteriali nel quale la stessa ha affermato che “deve essere accolta la richiesta d’accesso formulata dal consigliere comunale, affinché questi possa valutare con piena cognizione di causa la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, ad atti inerenti il pagamento dei tributi per le concessioni cimiteriali. Infatti, le informazioni richieste attengono un settore particolarmente nevralgico come quello dell’effettiva riscossione delle imposte comunali da parte dell’amministrazione competente”.
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[1] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 02.03.2018, n. 1298. Si veda, anche, TAR Sardegna, Cagliari sez. I sentenza del 28.11.2017, n. 740 ove si afferma che: “I consiglieri comunali vantano un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d’utilità all’espletamento delle loro funzioni; ciò anche al fine di permettere di valutare con piena cognizione la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell’ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale”.
[2] Così, Ministero dell’Interno, parere del 23.05.2014.
[3] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 04.05.2004, n. 2716. Nello stesso senso, tra le altre, TAR Veneto Venezia, sez. I, sentenza del 15.02.2008, n. 385 e TAR Lazio, Latina, sez. I, sentenza del 19.02.2013, n. 171.
[4] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza dell’11.12.2013, n. 5931. Nello stesso senso si veda, anche, TAR Campania, Napoli, sez. VI, sentenza del 06.06.2014, n. 3161 la quale afferma: “In particolare, nessuna limitazione può derivare al diritto d'accesso del consigliere comunale agli atti del Comune, qualunque sia il loro destinatario, dalla natura riservata delle informazioni richieste essendo per legge vincolato al segreto d'ufficio”.
[5] Ministero dell’Interno parere del 23.05.2014.
[6] Per completezza espositiva si segnala che il Ministero dell’Interno nell’indicato parere ha, altresì, precisato che “in ogni caso, ad avviso di questa Direzione Centrale, appare necessaria una regolamentazione della materia da parte del Consiglio comunale nell’ambito anche degli strumenti di autorganizzazione dello stesso Consiglio”. Nel medesimo parere si ricorda, infatti l’orientamento espresso da un indirizzo giurisprudenziale consolidato (cfr. C.d.S. Sez. V. n. 929/2007) secondo cui «il diritto di accesso da parte del consigliere “non può subire compressioni per pretese esigenze di natura burocratica dell’ente con l’unico limite di potere esaudire la richiesta (qualora sia di una certa gravosità) secondo i tempi necessari per non determinare interruzione delle attività di tipo corrente” (limite della proporzionalità e ragionevolezza delle richieste), restando ferma la “necessità di contemperare nel modo più ragionevole e adeguato possibile dette richieste, finalizzate all’espletamento del mandato, con le esigenze di funzionamento degli uffici” (C.d.S., Sezione V, del 17.09.2010, n. 6963)».
[7] Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, parere del 14.12.2010
(28.12.2018 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Statuto, il sindaco vota. Deve essere computato nel quorum funzionale. Il primo cittadino è a tutti gli effetti componente del consiglio comunale.
Deve essere annullata la deliberazione consiliare con la quale è stata approvata una modifica allo statuto dell'ente, nel caso in cui sia stato computato nel quorum funzionale, previsto dall'art. 6, comma 4, del decreto legislativo n. 267/2000, anche il voto del sindaco?
Premesso che sulla questione l'orientamento del giudice amministrativo non è univoco (cfr. Tar Puglia sent. 1301/2004, Tar Lazio, sez. II-ter, sentenza n. 497/2011 e Tar Lombardia sentenza n. 1604/2011), l'art. 6, comma 4, del dlgs n. 267/2000 dispone che «gli statuti sono deliberati dai rispettivi consigli con il voto favorevole dei due terzi dei consiglieri assegnati … le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche alle modifiche statutarie».
La citata normativa prevede un «procedimento aggravato» per l'approvazione delle norme statutarie, nonché delle relative modifiche; in particolare prescrive che, in caso di mancata approvazione dei due terzi dell'assemblea, si deve ripetere la votazione entro 30 giorni e, inoltre, stabilisce che lo statuto si ritiene approvato se ottiene per due volte, in sedute successive, il voto favorevole della maggioranza assoluta dei membri assegnati al collegio.
L'approvazione dello statuto, pertanto, comporta -attesa la natura di atto normativo «fondamentale» sua propria (comma 2, art. 6 cit.)- che su di esso converga il più elevato numero di consensi attraverso un'ampia discussione e comparazione d'interessi da parte della maggioranza e dell'opposizione consiliare. Tale esigenza ha determinato, conseguentemente, la previsione di maggioranze speciali disponendo che i quorum, rispettivamente della prima e delle altre votazioni, siano ragguagliati ai due terzi o alla maggioranza assoluta non dei votanti, ma dei consiglieri assegnati.
Dunque, l'iter deliberativo di approvazione dello statuto e delle sue modifiche implica che in sede di prima votazione la delibera sia approvata con il voto favorevole dei due terzi dei consiglieri assegnati ivi compreso il sindaco, che è componente del consiglio comunale ai sensi dell'art. 37 del citato testo unico.
Infatti, nelle ipotesi in cui l'ordinamento non ha inteso computare il sindaco, o il presidente della provincia, nel quorum richiesto per la validità di una seduta, lo ha indicato espressamente usando la formula «senza computare a tal fine il sindaco e il presidente della provincia» (articolo ItaliaOggi del 28.12.2018).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Quorum, vince lo statuto. Se c’è discrasia con le previsioni regolamentari. Cosa succede quando c’è contrasto sul numero minimo di consiglieri.
Come deve essere determinato il quorum strutturale affinché possa essere considerata valida una seduta del consiglio comunale, riunito in seconda convocazione?

L'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, demanda al regolamento comunale, «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto», la determinazione del «numero dei consiglieri necessario per la validità delle sedute» del consiglio riunito in seconda convocazione, con il limite che tale numero non può, in ogni caso, scendere sotto la soglia del «terzo dei consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a tale fine il sindaco e il presidente della provincia»; intendendosi con ciò che, limitatamente al computo del «terzo» dei consiglieri, il sindaco deve essere escluso.
Nel caso in esame, il regolamento di organizzazione e funzionamento del consiglio comunale prevede, per la validità delle sedute del consiglio comunale convocate in seconda convocazione, la presenza di almeno 14 consiglieri. Lo statuto comunale, invece, dispone che le medesime sedute siano valide con la presenza di almeno un terzo dei consiglieri assegnati, escluso il sindaco.
La discrasia tra tali norme deve ricondursi alla modifica, introdotta dalla legge n. 148/2011, che ha inciso sulla composizione dei consigli operando una riduzione del numero dei consiglieri rientranti nella fascia demografica dell'ente locale di cui trattasi.
Tuttavia, in ossequio al principio della gerarchia delle fonti, e conformemente anche all'articolo 7 del citato decreto legislativo n. 267/2000, che disciplina l'adozione dei regolamenti comunali «nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dallo statuto» (cfr. sentenza Tar Lombardia, Brescia, n. 2625 del 28.12.2009, Tar Lazio, n. 497 del 2011), la disposizione regolamentare deve essere disapplicata, in considerazione della prevalenza della norma statutaria
(articolo ItaliaOggi del 21.12.2018).

CONSIGLIERI COMUNALI: Inconferibilità di incarichi ai sensi dell'art. 8 del D.Lgs. 39/2013. Incompatibilità sopravvenuta ai sensi delle disposizioni del D.Lgs. 267/2000.
   1) Non sussiste la causa di inconferibilità di cui all’art. 8, co. 5, del D.Lgs. 39/2013 per l’assessore di un Comune con popolazione inferiore a 15.000 abitanti che sia nominato direttore generale di un’azienda sanitaria nel cui ambito territoriale è compreso il Comune presso cui l’amministratore locale svolge il proprio mandato elettivo.
   2) L’indicata causa di inconferibilità non sussiste nemmeno nel caso in cui il Comune partecipi ad un’Unione territoriale intercomunale con popolazione superiore a 15.000 abitanti, compresa nell'ambito territoriale dell'azienda sanitaria, a condizione che l’amministratore locale non faccia parte (o non abbia fatto parte nei due anni precedenti) dell’organo consiliare o dell’organo con funzioni esecutive dell’Unione.
   3) Nel caso in cui l’assessore comunale venisse nominato direttore generale di un’azienda sanitaria si realizzerebbe, invece, la causa di incompatibilità sopravvenuta di cui all’art. 66 TUEL, il quale prevede che “La carica di direttore generale, di direttore amministrativo e di direttore sanitario delle aziende sanitarie locali e ospedaliere è incompatibile con quella di consigliere provinciale, di sindaco, di assessore comunale, di presidente o di assessore della comunità montana.”

Il Comune, il quale ha una popolazione inferiore a 15.000 abitanti e partecipa ad un’Unione territoriale intercomunale con popolazione superiore alla soglia indicata, chiede un parere in merito alla possibilità che un proprio assessore sia nominato direttore generale di azienda sanitaria, alla luce della disposizione dettata in materia di inconferibilità di incarichi dall’art. 8, comma 5, del decreto legislativo 08.04.2013, n. 39.
Tale norma stabilisce infatti che “Gli incarichi di direttore generale, direttore sanitario e direttore amministrativo nelle aziende sanitarie locali non possono essere conferiti a coloro che, nei due anni precedenti, abbiano fatto parte della giunta o del consiglio di una provincia, di un comune con popolazione superiore ai 15.000 o di una forma associativa tra comuni avente la medesima popolazione, il cui territorio è compreso nel territorio della ASL”.
Premesso che la consistenza demografica del Comune esclude di per sé il sorgere della causa di inconferibilità in esame, per quanto riguarda la “forma associativa tra comuni”, risulta necessario verificare che l’assessore comunale non faccia parte (o non abbia fatto parte nei due anni precedenti) dell’organo consiliare o dell’organo con funzioni esecutive dell’Unione.
Atteso che, secondo quanto precisato dal Comune, l’assessore non partecipa/ha partecipato né all’Assemblea né all’Ufficio di Presidenza dell’Unione, in coerenza con le previsioni statutarie relative alla composizione degli organi della forma associativa, si ritiene che non si configuri nei suoi confronti l’inconferibilità dell’incarico di direttore generale dell’azienda sanitaria, di cui alla disposizione in argomento.
Qualora all’assessore sia conferito detto incarico, il Comune chiede inoltre se nei suoi confronti venga in essere una causa di incompatibilità sopravvenuta, ai sensi delle disposizioni contenute nel decreto legislativo 18.08.2000, n. 267.
Al riguardo rileva il disposto di cui all’articolo 66 TUEL il quale recita: “La carica di direttore generale, di direttore amministrativo e di direttore sanitario delle aziende sanitarie locali e ospedaliere è incompatibile con quella di consigliere provinciale, di sindaco, di assessore comunale, di presidente o di assessore della comunità montana.”.
Segue che, nel caso in cui l’assessore comunale venisse nominato direttore generale di un’azienda sanitaria si realizzerebbe la causa di incompatibilità sopravvenuta sopra descritta con necessità che il consiglio comunale attivi nei suoi confronti il procedimento di cui all’articolo 69 TUEL (21.12.2018 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Commissioni, esterni out. Possono farne parte solo i consiglieri comunali. Illegittimo il regolamento che apre a soggetti estranei al consiglio.
È legittimo, ai sensi dell'art. 38, comma 6, del dlgs n. 267/2000, il regolamento del consiglio comunale di un ente locale in cui si prevede che la composizione delle commissioni consiliari permanenti sia integrata con la presenza di membri esterni al consiglio, nominati dalla giunta comunale?
Il citato art. 38, comma 6, stabilisce che lo statuto può prevedere la costituzione di commissioni consiliari istituite dal consiglio «nel proprio seno». Se istituite, tali commissioni sono disciplinate dal regolamento comunale con l'unico limite, posto dal legislatore, del rispetto del criterio proporzionale. Ciò significa che le forze politiche presenti in consiglio debbono essere il più possibile rispecchiate anche nelle commissioni, in modo che in ciascuna di esse sia riprodotto il loro peso numerico e di voto.
Nel caso di specie, lo statuto comunale dispone che il consiglio possa costituire, «nel proprio seno», le commissioni consiliari permanenti.
Il regolamento sul funzionamento del consiglio comunale prevede, invece, che la composizione delle stesse commissioni consiliari possa essere integrata dalla presenza di membri non consiglieri nominati dalla giunta.
La disposizione regolamentare, che sembrerebbe essere espressione dell'intento della amministrazione di dare attuazione ai principi della partecipazione popolare di cui all'art. 8 del Testo unico sugli enti locali (dlgs n. 267/2000), non appare coerente con la disciplina dettata dal legislatore, e ribadita dallo statuto dell'ente, riguardante la indefettibilità dello status di consigliere comunale in capo ai componenti delle commissioni consiliari ex art. 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000.
Ai sensi della norma statale citata, infatti, «il consiglio si avvale di commissioni costituite nel proprio seno con criterio proporzionale» ed è, quindi, preclusiva della possibilità che soggetti estranei al consiglio possano farne parte a titolo di veri e propri componenti.
Tale impostazione risulta confermata anche dalla dottrina, secondo cui la composizione delle commissioni deve rispecchiare, con criterio proporzionale, le forze politiche presenti in consiglio, «con esclusione di componenti non facenti parte del consiglio stesso».
L'ente, pertanto, dovrà valutare l'opportunità di pervenire a una modifica della normativa regolamentare
(articolo ItaliaOggi del 14.12.2018).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Diritto d’accesso ripetuto. Ai consiglieri vanno riconosciuti poteri ampi. Il componente di minoranza può presentare istanze reiterate.
È legittima la condotta di un consigliere di minoranza che presenta numerose e reiterate istanze di accesso al protocollo del comune?

L'art. 22, comma 2, della legge n. 241/1990 stabilisce che l'accesso ai documenti amministrativi, in virtù delle sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce principio generale dell'attività amministrativa, in quanto favorisce la partecipazione e assicura l'imparzialità' e la trasparenza dell'azione amministrativa.
L'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000, invece, consente ai consiglieri comunali di accedere a tutte le notizie e le informazioni in possesso dell'ente, utili all'espletamento del proprio mandato.
Nel caso in esame, il sindaco ha sospeso le richieste di accesso del consigliere di minoranza al protocollo, ritenendole «formalizzate in modo abnorme, generico, indiscriminato e reiterato e finalizzate a strategie ostruzionistiche comportanti aggravi dell'attività amministrativa dell'ente».
Tuttavia, al consigliere comunale, in relazione proprio al munus rivestito, deve essere riconosciuto un diritto più ampio rispetto a quello esercitabile dal semplice cittadino, che si estende oltre le competenze attribuite al consiglio comunale, al fine della necessaria valutazione della correttezza ed efficacia dell'operato dell'amministrazione comunale (cfr.: Cds n. 4525 del 05.09.2014, Cds sez. V n. 5264/07 che richiama Cons. stato, V sez. 21.02.1994 n. 119, Cons. stato, V sez. 26.09.2000 n. 5109, Cons. stato, V sez. 02.04.2001 n. 1893). La giurisprudenza, fatta salva la necessità di non aggravare la funzionalità amministrativa dell'ente con richieste emulative, è infatti orientata a ritenere illegittimo il diniego opposto dall'amministrazione di prendere visione del protocollo generale e di quello riservato del sindaco, comprensivo sia della posta in arrivo che di quella in uscita.
I giudici del Tar Sardegna, nella citata sentenza n. 29/2007, hanno, peraltro, affermato che è consentito prendere visione del protocollo generale senza alcuna esclusione di oggetti e notizie riservate e di materie coperte da segreto, posto che i consiglieri comunali sono comunque tenuti al segreto ai sensi dell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000, mentre il Tar Lombardia, Brescia, 01.03.2004 n. 163, ha ritenuto non ammissibile imporre al consigliere l'onere di specificare in anticipo l'oggetto degli atti che intendono visionare giacché trattasi di informazioni di cui gli stessi possono disporre solo in conseguenza dell'accesso.
Pertanto, la previa visione dei vari protocolli, tra cui il protocollo informatico (il cui esame, ormai consolidato, era già previsto dall'art. 17, del dlgs. n. 82/2005), è necessaria per poter individuare gli estremi degli atti sui quali si andrà ad esercitare l'accesso vero e proprio, e potrà trovare apposita disciplina di dettaglio nel regolamento dell'ente.
La Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, esprimendosi sull'esercizio del diritto d'accesso, sulla base del principio di economicità che incombe sia sugli uffici tenuti a provvedere, sia sui soggetti che chiedono prestazioni amministrative, ha riconosciuto «la possibilità per il consigliere di avere accesso diretto al sistema informatico interno, anche contabile, dell'ente attraverso l'uso della password di servizio» (articolo ItaliaOggi del 07.12.2018).

CONSIGLIERI COMUNALIQuesito sulla disciplina della parità di genere nelle giunte comunali dei Comuni con popolazione inferiore ai 3.000 abitanti.
È legittima la composizione della giunta di un comune con popolazione inferiore a 3.000 abitanti composta dal sindaco di genere femminile e due assessori di genere maschile.
Per quanto riguarda il numero la composizione rispetta la legge regionale 29.12.2010, n. 22 (Legge finanziaria 2011) e il dettato dello Statuto comunale, che prevede che “la Giunta è composta dal sindaco che la presiede e fino a 4 assessori uno dei quali è investito della carica di vice sindaco”, conferendo al Sindaco spazi di discrezionalità nella determinazione del numero degli stessi, potendo lo stesso, entro il limite massimo stabilito dallo statuto, nominarne il numero che reputa ottimale.
Sotto il profilo del rispetto delle quote di genere è conforme sia allo statuto comunale, che prevede che la rappresentanza di ciascun genere sia garantita in misura non inferiore ai 2/5, arrotondati per difetto, dei componenti della Giunta sia al l’articolo 46, comma 2, del decreto legislativo 267/2000, così come modificato dall’articolo 2, comma 1, lettera b), della legge 23.11.2012, n. 215, il quale recita: “Il sindaco (…) nomina (…), nel rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la presenza di entrambi i sessi, i componenti della Giunta (…)”.

Il Sindaco del Comune, la cui popolazione all’ultimo censimento ufficiale è pari a 1.715 abitanti, chiede un parere in merito al computo o meno del sindaco fra i componenti della giunta comunale; un tanto al fine di verificare la conformità dell’attuale organo esecutivo (composto dal sindaco di genere femminile e da due assessori dell’altro genere) alla previsione statutaria dell’Ente, che fissa la rappresentanza di genere in misura non inferiore ai due quinti, arrotondati per difetto, dei componenti della giunta.
Nei Comuni della Regione Friuli Venezia Giulia la composizione delle Giunte comunali è disciplinata dalla legge regionale 29.12.2010, n. 22 (Legge finanziaria 2011), che all’articolo 12, comma 39, dispone che il numero massimo degli assessori comunali non possa essere superiore ad un quarto del numero dei consiglieri comunali, con arrotondamento all’unità superiore e computando nel calcolo anche il Sindaco. Per il Comune di cui trattasi, il numero massimo degli assessori risulta essere quattro, ai quali va aggiunto il sindaco, portando la composizione della Giunta comunale a complessivi cinque componenti.
La previsione legislativa va letta però nell’ottica dell’autonomia statutaria dell’Ente, che consente allo statuto comunale, nel rispetto della soglia massima stabilita dalla legge, di fissare il numero degli assessori ovvero il numero massimo degli stessi. Pertanto, nell’ipotesi in cui lo statuto dell’Ente preveda la nomina di un numero di assessori inferiore al massimo consentito dalla legge regionale, il sindaco dovrà attenersi al numero massimo indicato dallo statuto in vigore, mentre nel diverso caso in cui lo statuto preveda la nomina di un numero di assessori superiore al massimo consentito dalla legge regionale, il Sindaco dovrà attenersi al numero massimo indicato da quest’ultima.
Nel caso di specie, il numero massimo di assessori è fissato in quattro anche nello Statuto che, all’articolo 26, comma 1, dispone che “la Giunta è composta dal sindaco che la presiede e fino a 4 assessori uno dei quali è investito della carica di vice sindaco”, conferendo al Sindaco spazi di discrezionalità nella determinazione del numero degli stessi, potendo lo stesso, entro il limite massimo stabilito dallo statuto, nominarne il numero che reputa ottimale.
[1] Peraltro, come sottolineato anche dal Sindaco, dalla lettura sistematica dell’articolo 28, comma 3, del medesimo Statuto, si evince che il numero minimo di assessori nominabili coincide con il quorum costitutivo ivi fissato, ovvero due. [2]
Per quanto concerne poi, il tema della rappresentanza di genere nelle giunte comunali, la norma generale in vigore per i Comuni con popolazione inferiore a 3.000 abitanti è l’articolo 46, comma 2, del decreto legislativo 267/2000, così come modificato dall’articolo 2, comma 1, lettera b), della legge 23.11.2012, n. 215, il quale recita: “Il sindaco (…) nomina (…), nel rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la presenza di entrambi i sessi, i componenti della Giunta (…)”.
La disposizione non fissa delle vere e proprie quote da rispettare (che sono invece pari al 40% per i comuni con popolazione superiore ai 3.000 abitanti ai sensi della Legge 07.04.2014, n. 56, c.d. Legge Delrio), con la conseguenza che il principio potrebbe ritenersi rispettato anche con la presenza di un solo componente di genere diverso rispetto a quello maggiormente rappresentato.
[3]
In questo ambito, il Comune ha adeguato il proprio Statuto, prevedendo che la rappresentanza di ciascun genere sia garantita in misura non inferiore ai 2/5, arrotondati per difetto, dei componenti della Giunta (articolo 26, comma 2, dello Statuto), nell’esercizio dell’autonomia statutaria prevista dall’articolo 12, comma 2, della legge regionale 1/2006 e in attuazione dei principi contenuti nell’articolo 6, comma 3 e 46, comma 2, del TUEL.
Si precisa inoltre che il Ministero dell’interno, con la circolare del 09.06.2014, emanata all’indomani dell’entrata in vigore della Legge Delrio, ha chiarito che nel calcolo degli assessori vada incluso anche il Sindaco, a garanzia della rappresentanza di genere, osservando come il legislatore, laddove ha voluto il contrario, lo ha previsto espressamente.
[4]
Da tutto quanto sopra esposto consegue che l’attuale composizione della Giunta comunale risulta conforme al dettato normativo, sia sotto il profilo numerico che in tema di rispetto delle quote di genere fissate dalla disciplina statale e statutaria.
----------------
[1] Cfr., fra gli altri, il parere del Ministero dell’interno 16.07.2009, consultabile al seguente indirizzo. Si veda anche la pubblicazione “L’ordinamento locale nel Friuli Venezia Giulia 2018” alle pagg. 26 e 27, reperibile sul Portale delle autonomie locali nella sezione Pubblicazioni.
[2] L’articolo 28 (Funzionamento della giunta) al comma 3, dello Statuto recita: “Le sedute sono valide se sono presenti 3 componenti e le deliberazioni adottate a maggioranza dei presenti”.
[3] Un tanto è sempre specificato nelle circolari in materia di composizione delle giunte comunali che annualmente lo scrivente Servizio redige per i comuni interessati al rinnovo dei propri organi (si veda, per il 2018, la circolare n. 04 EL/C dell’08.03.2018, reperibile al seguente indirizzo.
[4] Peraltro la presenza di un solo componente di genere femminile rispetta in ogni caso la quota di rappresentanza fissata dalla norma statutaria, che prevede l’arrotondamento per difetto, in quanto sia che i 2/5 siano calcolati su 3 (composizione attuale della Giunta) sia che lo siano su 4 (composizione della Giunta antecedente alle dimissioni del secondo assessore di genere femminile), il risultato (1,6 nel primo caso e 1,2 nel secondo) arrotondato è sempre 1
(05.12.2018 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

novembre 2018

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Parità nei piccoli comuni. Uguaglianza uomo-donna anche nei mini-enti. Principio applicabile pur in assenza di una espressa previsione statutaria.
In tema di parità di genere, nella composizione della giunta comunale, quale normativa è applicabile ad un ente locale con popolazione inferiore a 3 mila abitanti?

La materia è disciplinata dalla legge n. 56 del 07.04.2014 che, all'art. 1, comma 137, per i soli comuni con popolazione superiore ai 3 mila abitanti, ha stabilito un preciso quorum del 40%, affinché sia rispettato il principio della parità di genere; per i comuni al di sotto di tale soglia demografica la norma di riferimento è, invece, l'art. 6, comma 3, del decreto legislativo n. 267/2000.
Secondo tale disposizione legislativa gli statuti comunali e provinciali devono prevedere norme che assicurino condizioni di pari opportunità tra uomo e donna e garantiscano la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali non elettivi del comune e della provincia, nonché degli enti, aziende ed istituzioni da essi dipendenti.
La citata disposizione è stata poi modificata della legge n. 215 del 2012 che ha sostituito il verbo «promuovere» con il verbo «garantire» ed ha aggiunto alla espressione «organi collegiali» la dicitura «non elettivi» (art. 1, comma 1); inoltre, ha previsto che gli enti locali, entro sei mesi dall'entrata in vigore della legge stessa, dovessero adeguare i propri statuti e regolamenti alle disposizioni dell'art. 6, comma 3, del Tuel (art. 1, comma 2).
L'art. 2, comma 1, lett. b) della citata legge n. 215/2012 ha modificato l'art. 46, comma 2, del decreto legislativo n. 267/00, disponendo che il sindaco e il presidente della provincia nominino i componenti della giunta «nel rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la presenza di entrambi i sessi».
La citata normativa va letta alla luce dell'art. 51 della Costituzione, come modificato dalla legge costituzionale n. 1/03, che ha riconosciuto dignità costituzionale al principio della promozione delle pari opportunità tra donne e uomini.
Nel caso dei comuni rientranti nella suddetta fascia demografica, pertanto, devono trovare applicazione le disposizioni contenute nei citati articoli 6, comma 3, e 46, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 e nella legge n. 215/2012.
Tali disposizioni, recependo i principi sulle pari opportunità dettati dall'art. 51 della Costituzione, dall'art. 1 del decreto legislativo dell'11.04.2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità) e dall'art. 23 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, hanno carattere precettivo e non meramente programmatico, e sono finalizzate a rendere effettiva la partecipazione di entrambi i sessi alla vita istituzionale degli enti territoriali, in condizioni di pari opportunità.
Ferma restando la necessità dell'adeguamento statutario da parte dell'ente, le richiamate disposizioni normative sulla parità di genere risultano immediatamente applicabili, anche in carenza di una espressa previsione statutaria (articolo ItaliaOggi del 30.11.2018).

CONSIGLIERI COMUNALIIndennità di funzione a rischio se il sindaco non comunica il collocamento in aspettativa.
Per ottenere il versamento dei contributi assistenziali e previdenziali, è onere del sindaco comunicare l'autorizzazione al collocamento in aspettativa e verificarne l'effettiva ricezione da parte del Comune. Nel caso di omissione, spetta all''amministrazione valutare se la sua condotta possa integrare una tacita rinuncia alle pretese ovvero sia maturata la prescrizione.

Lo sostiene la sezione regionale di controllo per l'Abruzzo della Corte dei conti con il parere 28.11.2018 n. 149.
Il fatto
Il consiglio delle autonomie locali ha avanzato richiesta di parere in merito alla pretesa di un ex sindaco, dipendente di un consorzio di bonifica, volta a ottenere il versamento dei contributi assistenziali e previdenziali per il periodo di svolgimento del mandato. Periodo in cui era stato e collocato in aspettativa non retribuita in base all'articolo 81 del Tuel, che appunto riconosce agli amministratori locali, che siano lavoratori dipendenti, la possibilità di essere collocati a richiesta in aspettativa non retribuita per tutto il periodo di espletamento del mandato.
Il fatto è che l’uomo non ha mai comunicato il collocamento in aspettativa «per mero errore», ma utilizzando come «pezza d'appoggio» le delibere con cui il consorzio l'aveva autorizzato, ha chiesto il versamento dei contributi legati al periodo in cui ha esercitato la funzione ovvero il rimborso di una somma pari a quanto occorrente per procedere al riscatto contributivo volontario.
L'amministrazione comunale, per la quale l'eventuale accoglimento della richiesta si tramuta in un debito fuori bilancio da riconoscere nelle forme stabilite dal Tuel, ha dubitato si possa procedere in questo senso, per cui ha chiesto lumi ai magistrati contabili.
L'indennità
L'articolo 82 del Tuel riconosce una indennità di funzione per gli amministratori locali, dimezzata per i lavoratori dipendenti che non abbiano richiesto l'aspettativa, la cui misura è determinata con decreto del Ministro dell'Interno. Secondo la sezione Abruzzo della Corte dei conti, è obbligo dell'interessato comunicare l'autorizzazione all'eventuale collocamento in aspettativa senza assegni e verificarne l'effettiva ricezione da parte dell'amministrazione comunale. «Onere –si legge nel parere– particolarmente rilevante e non sicuramente gravoso, considerando, altresì, la mancanza di una specifica richiesta per attivare l'impegno di spesa per il riconoscimento delle indennità di pertinenza degli amministratori».
All’obbligo corrisponde quello dell'ente di assumere un formale atto di impegno delle somme necessarie, in maniera che in linea generale non si può sostenere l'eventuale richiesta intervenuta successivamente di coprire le somme pari alle differenze di indennità e ai conseguenti contributi assistenziali e previdenziali.
Sempre in via generale, ha evidenziato però la sezione che la mancanza della registrazione della spesa sul competente intervento o capitolo di bilancio e della relativa attestazione della copertura finanziaria può determinare la sussistenza degli elementi costitutivi per il riconoscimento di un debito fuori bilancio secondo l'articolo 194, comma 1, lettera e), del Tuel, ma solo qualora l'ente si sia giovato delle prestazioni del sindaco, seppure in violazione delle procedure sancite nell'articolo 191, comma 1, relative agli impegni di spesa.
Che fare?
I magistrati contabili abruzzesi si fermano qui e non forniscono ulteriori coordinate per operare la scelta idonea a rispettare i dettami di legge, non rientrando nella loro funzione consultiva, lasciando agli apprezzamenti dell'ente la valutazione del comportamento dell'ex sindaco colpevole di non aver comunicato alcunché al Comune da egli stesso amministrato.
Offrono però in modo velato una doppia imbeccata: se l'omissione possa integrare una tacita acquiescenza o rinuncia alle pretese, trattandosi di indennità erogate al di fuori di schemi negoziali per l'esercizio di pubbliche funzioni il cui pagamento deve essere effettuato periodicamente in termini inferiori all'anno; ovvero se sia maturata, anche parzialmente, la prescrizione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 07.12.2018).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Accesso agli atti fai-da-te. La consultazione on-line non incide sull’attività. I consiglieri possono entrare negli applicativi in modalità visualizzazione
 È coerente con la disciplina recata dall'art. 43, comma 2, del dlgs. n. 267/2000, in materia di diritto di accesso, consentire ai consiglieri comunali di accedere a tutti i documenti in arrivo e in partenza, oggetto di registrazione, scansionati otticamente, con possibilità di salvare i file o stamparli? I consiglieri comunali possono visualizzare tutti gli applicativi software gestionali utilizzati dal comune accedendo anche a tutti i dati, agli iter, anche in corso, e alla documentazione collegata?

A norma dell'art. 43, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, in relazione al munus rivestito, al consigliere comunale deve essere riconosciuto un diritto più ampio rispetto a quello esercitabile dal semplice cittadino, che si estende oltre le competenze attribuite al consiglio comunale, al fine della necessaria valutazione della correttezza ed efficacia dell'operato dell'amministrazione comunale (cfr., Cds n. 4525 del 05.09.2014, Cds sez. V n. 5264/2007 che richiama Cons. stato, V sez. 21.02.1994 n. 119, Cons. stato, V sez. 26.09.2000 n. 5109, Cons. stato, V sez. 02.04.2001 n. 1893).
Il Tar Campania, Salerno, sez. II, con decisione 25.06.2010, n. 9584, ha affermato che «la finalizzazione dell'accesso all'espletamento del mandato costituisce, al tempo stesso, il presupposto legittimante l'accesso e il fattore che ne delimita la portata. Le disposizioni richiamate, infatti, collegano l'accesso a tutto ciò che può essere effettivamente funzionale allo svolgimento dei compiti del singolo consigliere comunale e provinciale e alla sua partecipazione alla vita politico-amministrativa dell'ente; questo orientamento è confermato dalla giurisprudenza, che ha avuto occasione di precisare che il consigliere può accedere non solo ai «documenti» formati dalla pubblica amministrazione di appartenenza ma, in genere, a qualsiasi «notizia» o «informazione» utili ai fini dell'esercizio delle funzioni consiliari (cfr. Cass. civ. sez. III, sent. n. 8480 del 03.08.1995)
».
Peraltro, lo stesso Tar della Campania, sezione staccata di Salerno (sezione seconda), con la decisione n. 2040/2012 del 13/11/2012, pur riconoscendo l'ampio diritto del consigliere comunale ad accedere agli atti comunali, ha specificato che si afferma pure in giurisprudenza che «il consigliere comunale non può abusare del diritto all'informazione riconosciutogli dall'ordinamento, piegandone le alte finalità a scopi meramente emulativi o aggravando eccessivamente, con richieste non contenute entro gli immanenti limiti della proporzionalità e della ragionevolezza, la corretta funzionalità amministrativa dell'ente civico».
Lo stesso Tar ha ritenuto, nel caso esaminato, che fossero stati varcati i confini di proporzionalità e ragionevolezza tracciati dal Consiglio di stato (sez. V, 02.09.2005, n. 4471), in quanto le istanze di accesso si riferivano a una notevole congerie di atti e documenti, aventi peraltro natura eterogenea, il cui reperimento non poteva che comportare un insopportabile aggravio a carico dei compulsati uffici comunali.
Pertanto, il consigliere comunale, sebbene abbia la possibilità di avere accesso diretto al sistema informatico interno dell'ente attraverso l'uso della password di servizio, tuttavia, può esercitare tale diritto nei limiti che consentano di evitare intralci all'ordinario svolgimento dei servizi degli uffici.
Nel caso di specie, considerato che lo statuto dell'ente consente l'acquisizione di informazioni mediante consultazione di atti e documenti con modalità tali da non incidere negativamente sulla normale attività delle strutture dell'amministrazione comunale, e che la gestione dei servizi tramite l'informatizzazione costituisce ormai la regola nell'attività della pubblica amministrazione, potrebbe consentirsi al consigliere comunale l'accesso ai vari applicativi, in semplice visualizzazione, in modalità che non incidano nelle procedure in corso e non provochino intralci nella ordinaria trattazione delle pratiche da parte degli uffici, con la possibilità di estrarre autonomamente copia degli atti di interesse, acquisibili anche dal registro di protocollo informatico (articolo ItaliaOggi del 23.11.2018).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Accesso senza motivazioni. I consiglieri non devono spiegare le ragioni. Va rivisto il regolamento che affida al sindaco il potere di verifica.
In materia di diritto di accesso dei consiglieri comunali, le norme del regolamento comunale che impongono al consigliere comunale di motivare la propria richiesta di accesso agli atti; ovvero che limitano il diritto di visione degli atti quando ciò si traduca in «un potere di inchiesta, di ispezione o di verifica»; oppure che affidano al sindaco il potere di verificare che l'informazione richiesta attenga al mandato del consigliere, possono considerarsi legittime ai sensi dell'art. 43 del dlgs n. 267/2000?

L'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000 disciplina il diritto di accesso e il diritto di informazione dei consiglieri comunali circa gli atti in possesso dell'amministrazione comunale, utili all'espletamento del proprio mandato. Tale disciplina specifica si differenzia dal pur ampio diritto di accesso riconosciuto al cittadino dall'articolo 10 del medesimo decreto legislativo; infatti il termine «utili», contenuto nella citata disposizione del Tuel, garantisce l'estensione di tale diritto di accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per l'esercizio del mandato (cfr. Cds n. 6963/2010) senza che alcuna limitazione possa derivare dall'eventuale natura riservata delle informazioni richieste (vedi anche Consiglio di stato, sentenza n. 4525 del 05.09.2014, che ha richiamato Cds, sez. V, 17.09.2010, n. 6963 e 09.10.2007, n. 5264).
Anche la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, con parere reso in data 09.04.2014, ha specificato che l'accesso del Consigliere non può essere soggetto ad alcun onere motivazionale, giacché altrimenti sarebbe introdotta una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio del mandato del consigliere comunale.
La Commissione, infatti, ha ritenuto, in considerazione del fatto che il consigliere è comunque vincolato al segreto d'ufficio, che gli unici limiti all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali si rinvengano, per un verso, nel fatto che esso non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche, ovvero meramente emulative (fermo restando che la sussistenza di tali caratteri necessita di attento e approfondito vaglio, al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto stesso), nonché, per altro verso, nel fatto che esso debba avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali (vedi, oltre al citato parere del 09.04.2014, anche il precedente plenum in data 06.04.2011, conforme a Cds, sez. V, 04.05.2004, n. 2716, Tar Trentino Alto Adige, Trento, Sez. I, 07.05.2009, n. 143).
Pertanto, gli uffici comunali e il sindaco non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l'oggetto delle richieste di informazioni avanzate da un consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da questi espletato.
Ciò, anche nel rispetto del principio di separazione dei poteri (art. 4 e art. 14 del decreto legislativo n. 165/2001) sancito, per gli enti locali, dall'art. 107 del decreto legislativo n. 267/2000 secondo cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo, essendo riservata ai dirigenti la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica.
Del resto, ai sensi dell'art. 42, comma 1, del Tuel il consiglio è l'organo di indirizzo e «di controllo politico-amministrativo»; sicché, il controllo del sindaco sull'operato anche dei singoli consiglieri si porrebbe in contrasto con tale normativa.
Pertanto, nel caso di specie, è opportuna la revisione delle disposizioni regolamentari che impongono l'obbligo motivazionale a carico dei consiglieri richiedenti l'accesso e che affidano al sindaco il potere di verifica. Del resto l'ente, attraverso l'esercizio della propria potestà regolamentare, può optare, tra le varie alternative possibili per la disciplina che, in concreto, meglio contemperi esigenze concorrenti.
In particolare, quelle di garanzia delle condizioni più adeguate all'espletamento del mandato da parte dei consiglieri comunali e quelle di salvaguardia della funzionalità degli uffici e del normale espletamento del servizio da parte del personale dipendente, nonché quella di tutela della sicurezza degli uffici, del personale e del patrimonio (articolo ItaliaOggi del 16.11.2018).

CONSIGLIERI COMUNALIAmministratori locali, «ok» all'aumento delle indennità ridotte dalla vecchia maggioranza.
La decurtazione volontaria delle indennità degli amministratori al di sotto del limite imposto dalla legge non vincola le successive maggioranze politiche, che possono procedere ad aumentarle fermo restando l'obbligo della decurtazione del 10%.

Lo riconosce la sezione regionale di controllo per il Veneto della Corte dei conti con il parere 14.11.2018 n. 428.
Il quesito
È stato chiesto alla sezione se è possibile aumentare le indennità spettanti al sindaco e alla giunta comunale nel massimo stabilito dal Dm 119/2000 e dalla legge 266/2005, alla luce del comma 136 della legge Delrio 56/2014 che ha preteso l'invarianza della spesa in rapporto alla legislazione vigente. Indennità ridotte all'esito delle elezioni amministrative che hanno visto rieletta l'amministrazione uscente.
Il comma 54 della legge finanziaria del 2006 ha imposto una riduzione del 10% delle indennità di funzione spettanti agli amministratori locali rispetto all'ammontare risultante alla data del 30.09.2005. I commi 135 e 136 della Delrio hanno fissato il principio della invarianza della spesa a legislazione vigente nel disporre modifiche al numero dei consiglieri comunali e degli assessori.
I principi
La sezione del Veneto ribadisce che la decurtazione volontaria al di sotto del limite comune tabellare imposto dall'ordinamento non vincola le successive maggioranze politiche, fermo restando l'obbligo normativo della decurtazione del 10% dei valori tabellari di spesa risalenti al 2015 che definisce il quantum al quale rapportare l'invarianza della spesa voluta dalla legge 56/2014.
L'orientamento si basa sui principi di diritto, sulla giurisprudenza e sulle immutate le condizioni normative che ne costituiscono il presupposto, in virtù dei quali le indennità di funzione non possono essere soggette ad un “congelamento” rapportato ad un determinato momento storico e mantenuto negli esercizi futuri per il solo fatto che circostanze di natura personale –come una riduzione volontaria– abbiano potuto incidere sugli importi spettanti. Non sarebbe, infatti, condivisibile che gli importi decurtati per motivazioni soggettive vengano a costituire una base “storica” sulla quale rapportare le medesime indennità anche per le successive tornate elettorali.
Ok all'aumento
Pertanto, l'indennità di funzione del sindaco da considerare è quella massima prevista dalla tabella A allegata al Dm 119/2000, che sarebbe spettata in relazione alla classe demografica del proprio ente, indipendentemente da eventuali situazioni personali. A questo importo deve essere applicata la decurtazione del 10% prevista dall'articolo 1, comma 54, della legge 266/2005.
Le delibere contenenti eventuali riduzioni, superiori a quella fissate dalla legge, vanno intese come rinunce volontarie, che non hanno alcuna influenza sull'ammontare delle indennità per gli esercizi successivi (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 28.11.2018).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Consigli, parla lo statuto. Presidenza al vicesindaco se è consigliere. L’assessore esterno non può guidare l’assemblea non facendone parte.
È possibile affidare la carica di vice presidente del Consiglio comunale al vice sindaco, assessore esterno, in un comune con popolazione inferiore a 15.000 abitanti?
Il vice sindaco facente funzioni può assumere il ruolo di presidente della commissione elettorale comunale e partecipare alle relative operazioni?

In merito al primo quesito, l'art. 64, comma 3, del Tuel (dlgs n. 267/2000), prevede che, nei comuni con popolazione inferiore ai 15 mila abitanti, non vi è incompatibilità tra la carica di consigliere comunale ed assessore nella rispettiva giunta, mentre la nomina di assessori esterni al consiglio fa parte del contenuto facoltativo dello statuto ai sensi dell'art. 47, comma 4, del medesimo decreto legislativo.
Per quanto riguarda le funzioni di presidente del consiglio comunale, l'art. 39, comma 3, del citato dlgs prevede che nei comuni sino a 15 mila abitanti le stesse siano svolte dal sindaco, «salvo differente previsione statutaria», mentre il comma 1, stabilisce che le funzioni vicarie del presidente del consiglio, quando lo statuto non dispone diversamente, siano esercitate dal consigliere anziano. La normativa statale, pertanto, anche in carenza di specifiche disposizioni dell'ente, individua il vicario del presidente del consiglio.
Nel caso di specie, lo statuto del comune attribuisce al sindaco il potere di presiedere il consiglio comunale e stabilisce che, «qualora il consigliere anziano sia assente o rinunci a presiedere l'assemblea, la presidenza è assunta dal consigliere che, nella graduatoria di anzianità… occupa il posto immediatamente successivo».
Anche il regolamento sul funzionamento del consiglio comunale conferma la titolarità della presidenza in capo al sindaco; la stessa disposizione, tuttavia, stabilisce che in caso di assenza o di impedimento del sindaco, la presidenza è assunta dal vice sindaco e ove questi sia assente o impedito, dall'assessore più anziano di età. La disposizione regolamentare si pone, dunque, in contrasto con la norma statutaria. Seguendo la gerarchia delle fonti, conformemente anche all'articolo 7 del citato decreto legislativo n. 267/2000 che disciplina l'adozione dei regolamenti comunali «nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dallo statuto» (cfr. sentenza Tar Lombardia, Brescia, n. 2625 del 28.12.2009 e Tar Lazio, n. 497 del 2011) la disposizione statutaria dovrebbe essere prevalente sulla norma regolamentare.
Tuttavia, circa la possibilità, nei comuni fino a 15 mila abitanti, di far presiedere il consiglio comunale, in assenza del sindaco, al vice sindaco non consigliere comunale, il Consiglio di stato, con il parere n. 94/96 del 21.02.1996 (richiamato dal successivo parere n. 501 del 14.06.2001) (con riferimento all'estensione dei poteri del vice sindaco) ha affermato che il vice sindaco può sostituire il sindaco nelle funzioni di presidente del consiglio comunale soltanto nel caso in cui il vicario rivesta la carica di consigliere comunale.
Nell'ipotesi in cui il vice sindaco, come nella fattispecie in esame, sia un assessore esterno, questi non può presiedere il consiglio, in quanto non può «fungere da presidente di un collegio un soggetto che non ne faccia parte». La seconda questione prospettata trova adeguata soluzione nell'orientamento del Consiglio di Stato, espresso con pareri n. 94/96 del 21.02.1996 e n. 501/2001 del 04.06.2001, che, nella sostanza, hanno avallato la linea interpretativa già seguita, in materia, dal ministero dell'interno.
In particolare l'Alto Consesso, rilevando che le funzioni del sindaco sospeso vengono svolte dal vice sindaco in virtù dell'art. 53, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, ha stabilito che in caso di vicarietà, nessuna norma positiva identifica atti riservati al titolare della carica e vietati a chi lo sostituisce.
Tale considerazione di ordine testuale risulta confortata da riflessioni di carattere sistematico, poiché la preposizione di un sostituto all'ufficio o carica in cui si è realizzata la vacanza implica, di regola, l'attribuzione di tutti i poteri spettanti al titolare, con la sola limitazione temporale connessa alla vacanza medesima. Se a ciò si aggiunge che l'esigenza di continuità dell'azione amministrativa dell'ente locale postula che in ogni momento vi sia un soggetto giuridicamente legittimato ad adottare tutti i provvedimenti oggettivamente necessari nell'interesse pubblico, è necessario riconoscere al vicesindaco reggente pienezza di poteri.
Peraltro, in ordine alla specifica fattispecie, il dpr 20.03.1967, n. 223, all'articolo 14, stabilisce che la commissione elettorale comunale è presieduta dal sindaco e in caso di assenza, impedimento o cessazione dalla carica, dall'assessore delegato o dall'assessore anziano. Se il sindaco, infine, è sospeso dalle funzioni di ufficiale del governo, la commissione è presieduta dal commissario prefettizio incaricato di esercitare tali funzioni.
Nel caso di specie, alla luce delle disposizioni di cui al Tuel, dunque, il vice sindaco assumerà anche le funzioni di presidente della commissione elettorale in sostituzione del sindaco assente
(articolo ItaliaOggi del 09.11.2018).

CONSIGLIERI COMUNALI: Mancata elezione Presidente Consiglio comunale.
Sintesi/Massima
Mancata elezione Presidente Consiglio comunale.
Atteso il perdurare della mancata elezione della figura del presidente e dei suoi vice, in relazione a quanto disposto nelle norme statutarie dell’ente, le sedute del consiglio comunale successive alla prima debbono essere convocate dal Consigliere Anziano che dovrà inserire l’elezione del presidente al primo punto all’ordine del giorno.

Testo
Sono state chieste delucidazioni circa le funzioni esercitabili dal consigliere anziano, atteso il protrarsi della situazione di stallo determinata dalla mancata elezione del presidente del consiglio.
La prima seduta del consiglio comunale, eletto a seguito delle elezioni del giugno scorso, si è tenuta in data 03.08.2018.
Come previsto dagli artt. 39 e 40 del decreto legislativo n. 267/2000, tale adunanza è stata convocata dal sindaco e presieduta dal consigliere anziano. Tuttavia la votazione per l’elezione del Presidente del consiglio non ha dato esito positivo né nell’ambito della prima adunanza consiliare e neppure nelle votazioni che si sono tenute successivamente ai sensi dell’art. 8 dello statuto comunale.
Al riguardo, si rappresenta che la figura del presidente del consiglio è stata introdotta nell’ordinamento dall’art. 1 della l. n. 81/1993 al fine di assicurare, nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti, la separazione delle funzioni tra l’Ufficio di sindaco e quello di presidente del consiglio.
Ai sensi dell’art. 8 dello statuto comunale è previsto che "Il Presidente del Consiglio comunale è eletto, nella seduta di insediamento subito dopo la convalida degli eletti, con voto segreto a maggioranza dei due terzi dei componenti il Consiglio nel primo scrutinio e con la maggioranza assoluta a partire dal secondo scrutinio.
2. Qualora la maggioranza assoluta non venga conseguita entro il terzo scrutinio, la seduta è sospesa, e riprenderà secondo le modalità di cui al co. 3.
3. La votazione è ripetuta, fino ad un massimo di tre scrutini, in successive sedute, senza necessità di previa convocazione, da tenersi ogni 48 (quarantotto) ore.
4. Alle predette votazioni si procede, sempre a scrutinio segreto, fino al raggiungimento del voto favorevole della maggioranza assoluta dei componenti
.".
L’art. 9 della medesima fonte statutaria stabilisce che i Vice Presidenti, con priorità al Vice Presidente Vicario, sostituiscono il Presidente in caso di sua assenza, impedimento e vacanza. In caso di assenza, impedimento o vacanza anche dei Vice Presidenti, le funzioni di Presidente vengono svolte dal Consigliere anziano.
Dall’esame della normativa in commento emerge che lo stesso ente locale, nell’ambito della propria autonomia, si è dotato di strumenti idonei a consentire l’elezione di tale figura indefettibile nell’ambito dell’ordinamento locale, prevedendo votazioni ripetute ad oltranza, ogni 48 ore. Emerge, altresì, che in caso di vacanza delle figure di Presidente e dei Vice Presidenti sia il Consigliere Anziano a svolgere le funzioni presidenziali. Tale figura assume la totalità delle funzioni spettanti al Presidente. Circa l’eventualità che il consigliere anziano rinunci a presiedere l’assemblea, ai sensi dell’art. 12, comma 2, dello statuto comunale, tale rinuncia avrebbe effetto unicamente con riferimento ai poteri di presidenza nell’ambito della medesima seduta non potendo il consigliere anziano spogliarsi tout court di tutto il complesso dei poteri e delle funzioni attribuiti al presidente del consiglio.
Ciò premesso, atteso il perdurare della mancata elezione della figura del presidente e dei suoi vice, si rileva che, in relazione a quanto disposto nelle norme statutarie dell’ente, le sedute del consiglio comunale successive alla prima debbono essere convocate dal Consigliere Anziano che dovrà inserire l’elezione del presidente al primo punto all’ordine del giorno.
Le previsioni recate dall’art. 8, commi 2 e 3, dello statuto comunale si intendono riferite anche alle sedute successive alla prima.
Si fa presente, peraltro, che gli atti adottati da un consiglio che non sia riuscito ad eleggere il proprio presidente sono validi, tanto è vero che è lo stesso ordinamento locale a prevedere, in ipotesi, il perdurare di successive votazioni infruttuose da tenersi ogni 48 ore. Quanto al mancato giuramento del sindaco, appare utile far riferimento alle osservazioni diramate in materia da questa amministrazione con circolare n. 3 del 30.06.1999.
In tale atto fu precisato che, alla luce delle modifiche legislative intervenute ai sensi della legge n. 127/1997, i sindaci neoletti avrebbero assunto tutte le funzioni dopo la proclamazione, ivi comprese quelle di ufficiale di governo. Il giuramento del sindaco dinanzi al consiglio comunale, pur configurandosi quale adempimento solenne che individua nel rispetto alla Costituzione il parametro fondamentale dell’azione dell’organo di vertice dell’amministrazione "non può condizionare l’esercizio delle funzioni inerenti alla carica, che possono essere tutte legittimamente svolte sin dalla data della proclamazione".
Si osserva, altresì, che, nell’ambito dell’ordinamento degli enti locali, non si rinviene alcuna disposizione che attribuisca al Prefetto uno specifico potere di intervento in ordine alla problematica rappresentata (06.11.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ CONSIGLI/ Presidenti non revocabili. Sfiducia per motivi istituzionali, non politici. La figura è allontanabile se non è più super-partes.
Il Consiglio comunale può presentare una mozione di sfiducia nei confronti del proprio presidente?

Nella fattispecie in esame, la mozione di sfiducia nei confronti del presidente del consiglio è disciplinata dallo statuto. Tuttavia, il regolamento comunale limita la possibilità di un voto all'espressione di «un giudizio su mozione presentata in merito ad atteggiamenti del sindaco o della giunta comunale, ovvero un giudizio sull'intero indirizzo dell'amministrazione».
Inoltre, la disposizione regolamentare, nel disciplinare le adunanze, affida addirittura al sindaco la presidenza del consiglio e non contiene alcuna norma specifica che disciplini la sfiducia al presidente del consiglio, mentre è proprio lo statuto che prevede come meramente eventuale l'elezione di un presidente del consiglio comunale tra i propri componenti. L'articolo 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 rinvia il funzionamento del consiglio comunale alla disciplina regolamentare «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto». Il decreto legislativo n. 267/2000, in ogni caso, non prevede espressamente la possibilità di revoca del presidente del consiglio, tant'è che in carenza di una specifica previsione statutaria, la giurisprudenza tende ad affermarne costantemente l'illegittimità (v., tra l'altro, Tar Piemonte sez. I, 04.09.2009, n. 2248).
Nel caso di specie il Consiglio ha utilizzato, nonostante la mancanza di una disciplina regolamentare di dettaglio, la normativa statutaria (ritenendola sufficiente) per eleggere il presidente del consiglio; pertanto, l'applicazione di ipotetiche norme regolamentari che dovrebbero obbligatoriamente disciplinare anche la revoca, appare incoerente rispetto alla pacifica accettazione della sola norma statutaria per l'elezione del presidente del consiglio.
Ferma restando, dunque, l'applicabilità della citata disposizione statutaria che disciplina la revoca del presidente, «la giurisprudenza ha chiarito che la figura del Presidente del consiglio è posta a garanzia del corretto funzionamento di detto organo e della corretta dialettica tra maggioranza e minoranza, per cui la revoca non può essere causata che dal cattivo esercizio della funzione, in quanto ne sia viziata la neutralità e deve essere motivata, perciò, con esclusivo riferimento a tale parametro e non a un rapporto di fiducia». Peraltro, il Tar Piemonte, con la citata sentenza, ha statuito che «lo statuto comunale, tuttavia, può prevedere ipotesi e procedure di revoca del presidente del consiglio comunale, con riferimento a fattispecie che integrino comportamenti incompatibili con il ruolo istituzionale super partes che esso deve costantemente disimpegnare nell'Assemblea consiliare».
Inoltre, il Tar Campania–Napoli - sez. I, con decisione 03/05/2012 n. 2013, ribadendo che il ruolo del presidente del consiglio comunale è strumentale non già all'attuazione di un indirizzo politico di maggioranza, bensì al corretto funzionamento dell'organo stesso e, come tale, non solo è neutrale, ma non può restare soggetto al mutevole atteggiamento fiduciario della maggioranza, ha precisato che la revoca di detta carica non può essere attivata per motivazioni politiche, ma solo istituzionali, quali la ripetuta e ingiustificata omissione della convocazione del Consiglio o le ripetute violazioni dello statuto o dei regolamenti comunali (si veda anche, Consiglio di stato, sez. V, 18.01.2006, n. 114) (articolo ItaliaOggi del 02.11.2018).

ottobre 2018

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Consiglieri politici? No.
L'ordinamento vigente consente al sindaco di un comune di nominare «consiglieri politici», figure non previste dallo statuto comunale, deputate a svolgere funzioni di supporto all'azione amministrativa, assicurando maggiore incisività ed efficacia al governo della comunità locale, senza alcun onere per il comune?

L'ordinamento degli enti locali non prevede la figura del «consigliere politico»; i consiglieri, gli assessori e il sindaco, quali organi di governo degli enti locali, sono figure tipiche individuate dalla legge. L'art. 117, lettera p) della Costituzione attribuisce allo Stato la potestà legislativa esclusiva in materia di «... organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane»; all'ente locale, invece, è riconosciuta un'autonomia statutaria, normativa, organizzativa ed amministrativa, nel rispetto dei principi fissati dal decreto legislativo n. 267/2000.
Ai sensi dell'art. 6 del T.U.O.E.L., lo statuto stabilisce le norme fondamentali dell'organizzazione dell'ente e specifica le attribuzioni degli organi. L'art. 90 del citato decreto legislativo prevede, inoltre, la possibilità di istituire uffici di supporto agli organi di direzione politica; in particolare, il comma 1, demanda al regolamento degli uffici e dei servizi la possibilità di prevedere la costituzione di uffici posti alle dirette dipendenze del sindaco, della giunta o degli assessori per l'esercizio delle funzioni di indirizzo e controllo loro attribuite dalla legge.
In merito a tale istituto, la giurisprudenza contabile ha evidenziato il carattere necessariamente oneroso del rapporto con i soggetti incaricati di funzioni di staff (cfr. pronuncia Src Campania n. 155/2014/PAR).
Circa la possibilità che il sindaco deleghi proprie funzioni ai consiglieri, tali ipotesi possono ricorrere, ai sensi dell'art. 54, comma 10, per l'esercizio delle funzioni di ufficiale del governo nei quartieri e nelle frazioni e, ai sensi dell'art. 31, comma 4, in caso di partecipazioni alle assemblee consortili (articolo ItaliaOggi del 26.10.2018).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Fuori dalle commissioni. Chi si esclude dai gruppi non può farne parte. La facoltà concessa dallo Statuto desta comunque dubbi di legittimità.
Nell'ambito di una commissione consiliare consultiva, può essere sostituita, con atto del presidente del consiglio comunale, una consigliera che ha dichiarato la propria indipendenza dalla maggioranza che sostiene il sindaco?

Nella fattispecie in esame la consigliera comunale, nel dichiarare la propria indipendenza dalla maggioranza che sostiene il sindaco, si è sostanzialmente avvalsa della facoltà, prevista dallo Statuto comunale, che consente di «non appartenere ad alcun gruppo».
Il regolamento comunale, che disciplina la costituzione dei gruppi, non ripropone la medesima possibilità contenuta nello statuto di autoescludersi dai gruppi, prevedendo che, nel caso in cui una lista presentata alle elezioni abbia avuto eletto un solo consigliere, a questi sono riconosciute le prerogative e la rappresentanza spettanti a un gruppo consiliare.
In base alle norme statutarie e regolamentari dell'ente i gruppi autonomi possono essere costituiti solo se formati da almeno tre consiglieri. Inoltre, lo statuto rinvia al regolamento la disciplina del funzionamento e della composizione delle commissioni consiliari, nel rispetto del criterio proporzionale.
Il regolamento affida a «ciascun gruppo» il compito di designare i propri rappresentanti nelle singole commissioni permanenti, stabilisce che i consiglieri possono fare parte di più di una commissione e prevede che le sostituzioni siano demandate al singolo capogruppo.
Ciò posto, occorre ricordare che le commissioni consiliari previste dall'articolo 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000, una volta istituite sulla base di una facoltativa previsione statutaria, sono disciplinate dal regolamento comunale con l'unico limite, posto dal legislatore, del rispetto del criterio proporzionale nella composizione. Ciò significa che le forze politiche presenti in consiglio debbano essere il più possibile rappresentate anche nelle commissioni, in modo che in ciascuna di esse sia riprodotto il loro peso numerico e di voto.
Quanto al rispetto del criterio proporzionale previsto dal citato articolo 38, comma 6, il legislatore non precisa come lo stesso debba essere declinato in concreto. Il regolamento, a cui sono demandate la determinazione dei poteri delle commissioni, nonché la disciplina dell'organizzazione e delle forme di pubblicità dei lavori, dovrebbe stabilire anche i meccanismi idonei a garantirne il rispetto.
L'indirizzo giurisprudenziale prevalente in materia -con l'eccezione della sentenza contraria del Tar Puglia-Lecce n. 516/2013- stabilisce che il criterio proporzionale può dirsi rispettato solo ove sia assicurata, in ogni commissione, la presenza di ciascun gruppo anche se formato da un solo consigliere, presente in consiglio (Tar Lombardia Brescia 04.07.1992 n. 796; Tar Lombardia, Milano, 03.05.1996, n. 567).
Tale principio, peraltro, è stato ribadito dal Consiglio di stato il quale con parere n. 4323/2009 del 14.04.2010, ha osservato che «come da consolidata giurisprudenza dalla quale la sezione non intende discostarsi, il criterio di proporzionalità di rappresentanza della minoranza non può prescindere dalla presenza in ciascuna commissione permanente di almeno un rappresentante di ciascun gruppo consiliare. In tal caso il criterio di proporzionalità si può esplicare attraverso il voto ponderato (v. anche Tar Lombardia sez. II, 19.11.1996, n. 1661) o plurimo assegnato a ciascun componente della commissione in ragione corrispondente a quello della forza politica rappresentata nel consiglio comunale, vale a dire corrispondente al numero di voti di cui dispone il gruppo di appartenenza in seno al consiglio, diviso per il numero dei rappresentanti della stessa lista nella commissione interessata».
Dal complesso della giurisprudenza citata, nonché dalle disposizioni regolamentari dell'ente interessato, si evince che una volta ammessa la costituzione dei gruppi, questi vanno a riflettere la loro composizione all'interno delle commissioni consiliari in proporzione al loro peso complessivo.
Premesso che teoricamente, nel caso di specie, la consigliera, qualora facente parte di un gruppo unipersonale, avrebbe avuto diritto a partecipare a tutte le commissioni, tuttavia, fermi restando dubbi di legittimità in ordine alla facoltà concessa dallo Statuto comunale di escludersi da ogni gruppo, il concreto esercizio del diritto di autoesclusione da parte del consigliere comunale impedisce allo stesso, ai sensi del regolamento, di essere designato all'interno delle commissioni; ciò in quanto il diritto di designare rappresentanti all'interno delle commissioni, riservato esclusivamente ai capigruppo, può essere esercitato solo nei confronti dei consiglieri facenti parte di un «gruppo».
L'interessata, pertanto, proprio perché collocatasi all'esterno della struttura dei gruppi, non potrebbe rivendicare alcuna lesione dei propri diritti, non avendo assunto la titolarità di alcun gruppo.
Ciò, peraltro, è confermato dalle già richiamate norme che consentono la costituzione dei gruppi unipersonali solo nel caso in cui una lista presentata alle elezioni abbia avuto eletto un solo consigliere, e la costituzione di nuovi gruppi solo se formati da almeno tre consiglieri, condizioni che, dunque, non si verificano nei riguardi della fattispecie esaminata (articolo ItaliaOggi del 19.10.2018).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Delibere urgenti motivate. L’immediata eseguibilità deve essere approvata. La dichiarazione deve ricevere l’ok della maggioranza dei componenti.
È necessaria una specifica motivazione giustificativa della formula di «immediata eseguibilità» per le deliberazioni del consiglio e della giunta che, in caso di urgenza, vengono dichiarate immediatamente eseguibili con il voto espresso dalla maggioranza dei componenti, ai sensi dell'art. 134, comma 4, del decreto legislativo n. 267/2000?

In linea generale, la dichiarazione di immediata eseguibilità, come disciplinata dal citato art. 134, comma 4, del decreto legislativo n. 267/2000, risponde all'esigenza di porre in essere le deliberazioni urgenti; quindi, limitatamente a tali casi, deve scaturire da apposita separata votazione che approvi tale dichiarazione con il voto favorevole della maggioranza dei componenti del collegio, non essendo sufficiente il voto della maggioranza semplice dei votanti o dei presenti.
La decisione di attribuire a una deliberazione la connotazione dell'immediata eseguibilità assume, infatti, autonoma valenza rispetto all'approvazione del provvedimento cui si riferisce, restandone logicamente distinta.
In merito, il Tribunale amministrativo regionale della Liguria, sez. II, con decisione n. 2/2007, ha affermato che in virtù dell'art. 134, comma 4, del decreto legislativo n. 267/2000, la necessità che la dichiarazione di immediata eseguibilità, per motivi di urgenza, di una delibera di consiglio o di giunta, sia oggetto di un'autonoma votazione, fa sì che tale dichiarazione, pur accedendo alla delibera, non si identifichi con essa.
Lo stesso Tribunale ha puntualizzato che il legislatore non ha ritenuto la clausola di immediata eseguibilità quale attributo necessario di ogni delibera, ma ha inteso farla dipendere da una scelta discrezionale dell'amministrazione procedente, basata sul requisito dell'urgenza.
In merito al caso in esame, devono ritenersi condivisibili le osservazioni formulate dal Tribunale Piemonte che, nella sentenza n. 460 del 2014, in materia di indefettibilità di adeguata motivazione giustificativa della dichiarazione di immediata eseguibilità, ha ritenuto che «la clausola di immediata eseguibilità dipende da una scelta discrezionale dell'amministrazione, comunque pur sempre correlata al requisito dell'urgenza, che deve ricevere adeguata motivazione nell'ambito dello stesso atto» (articolo ItaliaOggi del 12.10.2018).

CONSIGLIERI COMUNALI - SEGRETARI COMUNALI: Verbalizzazione delle sedute del consiglio comunale.
Il verbale ha l’onere di attestare il compimento dei fatti svoltisi al fine di verificare il corretto iter di formazione della volontà collegiale e di permettere il controllo delle attività svolte, non avendo al riguardo alcuna rilevanza l’eventuale difetto di una minuziosa descrizione delle singole attività compiute o delle singole opinioni espresse.
Il Comune chiede un parere in materia di verbalizzazione delle sedute del consiglio comunale. Più in particolare, desidera sapere se un consigliere possa pretendere la verbalizzazione di alcune dichiarazioni rese dal sindaco nel corso di una seduta assembleare.
In via generale, si ricorda che il verbale, quale atto giuridico annoverabile nella più ampia categoria degli atti certificativi, è un documento finalizzato alla descrizione di atti e/o fatti rilevanti per il diritto, compiuti alla presenza di un soggetto verbalizzante, al fine di garantire la certezza della descrizione degli accadimenti constatati, documentandone l’esistenza
[1].
Il decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 recante “Testo unico sull’ordinamento degli enti locali” non contiene norme specifiche sulle modalità di redazione del verbale delle sedute degli organi collegiali dell’ente locale o circa i suoi contenuti. Uniche norme di riferimento sono l’articolo 97, comma 4, lett. a), che, nell’individuare le funzioni del segretario comunale ne indica anche la partecipazione con funzioni consultive, referenti e di assistenza alle riunioni del consiglio e della giunta e prevede che egli curi la verbalizzazione delle stesse, nonché l’articolo 38, comma 2, TUEL che rimanda al regolamento sul funzionamento dei consigli, nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto, la disciplina del funzionamento del consiglio nel cui alveo si ritiene debba ricomprendersi anche la parte sulla verbalizzazione delle sedute consiliari.
Circa la funzione ed i contenuti del verbale assembleare certa dottrina
[2] ha affermato che il verbale della seduta di un organo collegiale “rappresenta la «memoria» di quanto è accaduto e documenta i fatti salienti della seduta”.
Anche la giurisprudenza, intervenuta sull’argomento, ha affermato che: “Il verbale ha l’onere di attestare il compimento dei fatti svoltisi al fine di verificare il corretto iter di formazione della volontà collegiale e di permettere il controllo delle attività svolte, non avendo al riguardo alcuna rilevanza l’eventuale difetto di una minuziosa descrizione delle singole attività compiute o delle singole opinioni espresse
[3].
Da quanto sopra, ed al fine di fornire una risposta al quesito posto, emerge che per individuare i contenuti di un verbale è necessario, in primis, analizzare le disposizioni, eventualmente esistenti sull’argomento, del regolamento sul funzionamento del consiglio del Comune e, in subordine, avvalersi dei principi elaborati in sede giurisprudenziale e dottrinale al riguardo.
Il regolamento dell’Ente al Titolo VIII, “Verbali delle adunanze del Consiglio Comunale”, articolo 41, rubricato “I verbali delle deliberazioni: contenuto” prevede, al comma 1, che il verbale debba contenere una serie di indicazioni. Tra queste, per quel che rileva in questa sede, si riporta quella di cui alla lett. i) secondo cui il verbale deve contenere “le principali argomentazioni emerse dal dibattito con una verbalizzazione integrale dell’intervento, qualora richiesto esplicitamente da un consigliere”.
La prima parte della disposizione citata pare essere esplicativa dei principi espressi da dottrina e giurisprudenza sull’argomento ovverosia che, tendenzialmente, non tutti gli atti o fatti devono essere necessariamente documentati nel verbale, ma solo quelli che, secondo un criterio di ragionevole individuazione, assumono rilevanza proprio in relazione alle finalità cui l’attività di verbalizzazione è preposta.
Circa la seconda parte della disposizione citata, ove si prevede l’obbligo della verbalizzazione integrale dell’intervento, qualora richiesto esplicitamente da un consigliere, si evidenzia la necessità di procedere all’interpretazione della disposizione suddetta, atteso che essa potrebbe essere intesa nel senso che un consigliere può esplicitamente richiedere la verbalizzazione integrale del proprio intervento oppure, in un senso più ampio, richiedere, sempre esplicitamente, la verbalizzazione integrale anche di interventi di altri consiglieri o del sindaco stesso.
Al riguardo, si ricorda che l’interpretazione delle norme sul funzionamento del consiglio comunale compete unicamente all’organo che le ha elaborate, quindi allo stesso organo consiliare.
Ciò premesso, a meri fini collaborativi, si rileva che, ad avviso di questo Ufficio, tale disposizione sembrerebbe doversi intendere nel senso che un consigliere possa esplicitamente richiedere la verbalizzazione integrale soltanto del proprio intervento.
Ciò parrebbe porsi in linea con il principio che sembra desumersi da alcune disposizioni normative, riguardanti l’ambito civilistico, e precisamente afferenti il contenuto dei verbali, rispettivamente delle assemblee condominiali
[4] e delle società per azioni [5], le quali prevedono la possibilità di riproposizione nel verbale delle sole dichiarazioni rese dal richiedente la stessa [6].
Fermo quanto sopra si ribadisce ad ogni modo che compete esclusivamente al consiglio comunale interpretare la disposizione regolamentare in argomento, eventualmente anche nel senso di ritenere possibile che la richiesta di verbalizzazione integrale riguardi altresì interventi di altri consiglieri o del sindaco stesso.
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[1] In questi termini, si veda Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 18.07.2018, n. 4373.
[2] R. Chieppa, R. Giovagnoli, “Manuale di diritto amministrativo”, 2011, Giuffré editore, pag. 453.
[3] Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 25.07.2001, n. 4074. Nello stesso senso, Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza del 02.03.2001, n. 1189 e TAR Lazio–Roma, sez. I, sentenza del 12.03.2001, n. 1835. Si veda, anche, Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza del 14.04.2008, n. 1575 ove si afferma che: “Si deve ritenere che nell’ambito dell’attività amministrativa, il verbale non necessariamente debba contenere la descrizione minuta di ogni singola modalità di svolgimento dell’azione (finendo ciò per appesantire notevolmente la funzione verbalizzatrice senza una seria giustificazione), ma debba riportarne solo gli aspetti salienti e significativi, dovendosi configurare come tali, in particolare, quelli necessari per consentire la verifica della correttezza delle operazioni eseguite dall’organo collegiale”.
[4] In particolare, l’articolo 1130 c.c. (come sostituito dall’articolo 10, comma 1, della legge 11.12.2012, n. 220), al primo comma, num. 7) prevede che: “L’amministratore, oltre a quanto previsto dall’articolo 1129 e dalle vigenti disposizioni di legge, deve: curare la tenuta del registro dei verbali delle assemblee, del registro di nomina e revoca dell’amministratore e del registro di contabilità. Nel registro dei verbali delle assemblee sono altresì annotate: le eventuali mancate costituzioni dell’assemblea, le deliberazioni nonché le brevi dichiarazioni rese dai condomini che ne hanno fatto richiesta; […]”.
[5] L’articolo 2375, primo comma, del codice civile recita: “Le deliberazioni dell'assemblea devono constare da verbale sottoscritto dal presidente e dal segretario o dal notaio. Il verbale deve indicare la data dell'assemblea e, anche in allegato, l'identità dei partecipanti e il capitale rappresentato da ciascuno; deve altresì indicare le modalità e il risultato delle votazioni e deve consentire, anche per allegato, l'identificazione dei soci favorevoli, astenuti o dissenzienti. Nel verbale devono essere riassunte, su richiesta dei soci, le loro dichiarazioni pertinenti all'ordine del giorno.”.
[6] Benché riguardanti l’ambito civilistico, e non amministrativo, si tratta pur sempre di norme pertinenti il contenuto del verbale la cui natura giuridica non muta nei due ambiti del diritto
(10.10.2018 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ La digitalizzazione della p.a. consente l’utilizzo delle moderne tecnologie. Un diritto d’accesso 2.0. Ai consiglieri documenti in formato elettronico.
In materia di diritto di accesso dei consiglieri comunali, è legittima l'ostensione della documentazione amministrativa richiesta su supporto digitale, o eventualmente indicando il link a cui accedere nella sezione Amministrazione trasparente, in luogo del rilascio delle copie cartacee?

Il diritto di accesso dei consiglieri comunali deve essere esercitato in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali, attraverso modalità che, ai sensi dell' art. 43 del dlgs n. 267/2000, sono disciplinate dal regolamento dell'ente.
Inoltre, non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche ovvero meramente emulative, fermo restando tuttavia che la sussistenza di tali condizioni deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto stesso (Consiglio di stato, sez. V, n. 6963/2010).
La Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, al fine di evitare che le continue richieste di accesso si traducessero in un aggravio dell'ordinaria attività amministrativa dell'ente locale, ha riconosciuto la possibilità, per il consigliere comunale, di avere accesso diretto al sistema informatico interno, anche contabile, del comune attraverso l'uso della password di servizio (cfr. parere del 29/11/2009). Anche il Tar Sardegna, con sentenza n. 29/2007, ha ritenuto che «la notevole mole della documentazione da consegnare può, nel caso, giustificare la distribuzione nel tempo del rilascio delle copie richieste».
Il Consiglio di stato ha, inoltre, affermato che, «qualora si tratti di esibire documentazione complessa e voluminosa, appare, altresì, legittimo il rilascio di supporti informatici al consigliere, o la trasmissione mediante posta elettronica, in luogo delle copie cartacee» (v. Cds n. 6742/2007 del 28/12/2007).
Tale modalità è, peraltro, conforme alla vigente normativa in materia di digitalizzazione della pubblica amministrazione (dlgs n. 82 del 07.03.2005)
(articolo ItaliaOggi del 05.10.2018).

settembre 2018

CONSIGLIERI COMUNALIDelega a Presidente del consigliere comunale.
Sintesi/Massima
Il consigliere può essere incaricato di studi su determinate materie, di compiti di collaborazione circoscritti all'esame e alla cura di situazioni particolari, che non implichino la possibilità di assumere atti a rilevanza esterna, né, infine, di adottare atti di gestione spettanti agli organi burocratici.
Il Presidente del Consiglio può essere delegato dal Sindaco al pari degli altri consiglieri per la cura di affari particolari, purché non gli si attribuiscano anche poteri di gestione assimilabili a quelli degli Assessori e dei Dirigenti.

Testo
E' stato posto un quesito concernente la possibilità di conferire la delega alla protezione civile al Presidente del consiglio comunale, che riveste la qualifica di operatore di protezione civile nell'ambito del centro operativo comunale.
Secondo quanto rappresentato dal Sindaco, il servizio di protezione civile è gestito in forma associata in base ad apposite convenzioni. Lo statuto comunale prevede che il Sindaco può delegare l'esercizio di funzioni ad esso attribuite a singoli assessori ed a consiglieri nei casi previsti dalla legge.
Al riguardo, si rappresenta che nell'ambito dell'autonomia statutaria dell'ente locale, sancita dall'art. 6 del decreto legislativo n. 267/2000, è ammissibile la disciplina di deleghe interorganiche, purché il contenuto delle stesse sia coerente con la funzione istituzionale dell'organo cui si riferisce.
Occorre considerare, quale criterio generale, che il consigliere può essere incaricato di studi su determinate materie, di compiti di collaborazione circoscritti all'esame e alla cura di situazioni particolari, che non implichino la possibilità di assumere atti a rilevanza esterna, né, infine, di adottare atti di gestione spettanti agli organi burocratici.
Il consigliere, infatti, svolge la sua attività istituzionale, in qualità di componente di un organo collegiale quale il consiglio, che è destinatario dei compiti individuati e prescritti dalle leggi e dallo statuto.
Una ristrettissima serie delle funzioni sindacali può essere delegabile in virtù di specifiche previsioni normative (in particolare, le funzioni svolte dal sindaco ex art. 54 nella sua attività di Ufficiale di Governo).
Va osservato che il TAR Toscana, con decisione n. 1248/2004, ha respinto il ricorso avverso una norma statutaria concernente la delega ai consiglieri di funzioni sindacali in quanto la stessa escludeva implicitamente che potessero essere delegati compiti di amministrazione attiva, tali da comportare "l'inammissibile confusione in capo al medesimo soggetto del ruolo di controllore e di controllato".
Ciò posto per quanto concerne lo specifico quesito prospettato, si ritiene che il Presidente del Consiglio può essere delegato dal Sindaco al pari degli altri consiglieri per la cura di affari particolari, purché non gli si attribuiscano anche poteri di gestione assimilabili a quelli degli Assessori e dei Dirigenti (27.09.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALIDiritto di informazione ed accesso agli atti e documenti da parte dei consiglieri comunali.
Sintesi/Massima
Art. 43 del d.lgs. n. 267/2000.
In materia di “diritto di accesso” dei consiglieri comunali in ordine agli atti in possesso dell'Amministrazione comunale, al fine di evitare che eventuali continue richieste si trasformino in un aggravio dell'ordinaria attività amministrativa dell'ente locale, la Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi ha riconosciuto la possibilità per il consigliere comunale di avere accesso diretto al sistema informatico interno (anche contabile) del Comune attraverso l'uso della password di servizio (cfr. parere del 29.11.2009).
Conformemente alla vigente normativa in materia di digitalizzazione della pubblica amministrazione (in particolare, art. 2 del d.lgs. n. 82/2005), qualora si tratti di esibire documentazione complessa e voluminosa, è altresì legittimo il rilascio di supporti informatici al consigliere o la trasmissione mediante posta elettronica, in luogo delle copie cartacee.

Testo
E' stato posto un quesito in materia di diritto di accesso esercitabile dai consiglieri comunali. Al riguardo, si rappresenta che il "diritto di accesso" ed il "diritto di informazione" dei consiglieri comunali in ordine agli atti in possesso dell'Amministrazione comunale trovano la loro disciplina specifica nell’art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000 il quale riconosce il diritto di ottenere dagli uffici del comune, nonché dalle proprie aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato.
Il diritto dei consiglieri ha una ratio diversa da quella che contraddistingue il diritto di accesso ai documenti amministrativi riconosciuto alla generalità dei cittadini (ex articolo 10 del richiamato decreto legislativo n. 267/2000) ovvero a chiunque sia portatore di un "interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso" (ex art. 22 e ss. della legge 07.08.1990, n. 241).
Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 4525 del 05.09.2014, ha affermato che, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale (Cons. Stato, Sez. V, 17.09.2010, n. 6963; 09.10.2007, n. 5264), i consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento delle loro funzioni, ciò anche al fine di permettere di valutare -con piena cognizione- la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
Gli unici limiti all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali possono rinvenirsi nel fatto che esso deve avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali, attraverso modalità che ragionevolmente sono fissate nel regolamento dell'ente; inoltre, non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche, ovvero meramente emulative, fermo restando, tuttavia, che la sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto stesso (C.d.S. Sez. V n. 6993/2010).
In merito alle segnalate fattispecie di rilascio di ingenti copie di atti, si osserva che il diritto si esercita con l'unico limite di potere esaudire la richiesta (qualora essa sia di una certa gravosità) secondo i tempi necessari per non determinare interruzione delle altre attività di tipo corrente (cfr. C.d.S. 4855/2006)… e ciò in ragione del fatto che il consigliere comunale non può abusare del diritto all'informazione riconosciutogli dall'ordinamento, pregiudicando la corretta funzionalità amministrativa dell'ente civico con richieste non contenute entro i limiti della proporzionalità e della ragionevolezza (v. C.d.S. n. 4471/05 del 02.09.2005).
Sempre secondo il Consiglio di Stato è necessario contemperare l'esigenza dei consiglieri ad espletare il proprio mandato con quella dell'amministrazione al regolare svolgimento della propria attività, con una specifica disciplina in merito all'esercizio del diritto.
Anche la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi (Plenum 06.07.2010) ha più volte precisato che, per non impedire od ostacolare lo svolgimento dell'azione amministrativa, fermo restando che il diritto di accesso non può essere garantito nell'immediatezza in tutti i casi, o con mezzi estranei all'organizzazione attuale dell'ente, "…rientrerà nelle facoltà del responsabile del procedimento dilazionare opportunamente nel tempo il rilascio delle copie richieste, al fine di contemperare tale adempimento straordinario con l'esigenza di assicurare l'adempimento dell'attività ordinaria, mentre il consigliere avrà facoltà di prendere visione, nel frattempo, di quanto richiesto negli orari stabiliti presso gli uffici comunali competenti".
Infatti, è stata segnalata la necessità che la formulazione di richieste da parte dei consiglieri sia il più possibile precisa, riportando l'indicazione degli oggetti di interesse ed evitando adempimenti gravosi o intralci all'attività ed al regolare funzionamento degli uffici (C.d.S. sent. n. 4471/2005; n. 5109/2000; n. 6293/2002).
Pertanto, proprio al fine di evitare che le continue richieste di accesso si trasformino in un aggravio dell'ordinaria attività amministrativa dell'ente locale, la citata Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi ha riconosciuto la possibilità per il consigliere comunale di avere accesso diretto al sistema informatico interno (anche contabile) del Comune attraverso l'Uso della password di servizio (cfr. parere del 29.11.2009).
Qualora si tratti di esibire documentazione complessa e voluminosa, appare, altresì, legittimo il rilascio di supporti informatici al consigliere, o la trasmissione mediante posta elettronica, in luogo delle copie cartacee. Tale modalità, peraltro, è conforme alla vigente normativa in materia di digitalizzazione della pubblica amministrazione (decreto legislativo n. 82 del 07.03.2005), che all’articolo 2 prevede che anche "le autonomie locali assicurano la disponibilità, la gestione, l'accesso, la trasmissione, la conservazione e la fruibilità dell'informazione in modalità digitale e si organizzano ed agiscono a tale fine utilizzando con le modalità più appropriate le tecnologie dell'informazione e della comunicazione" (27.09.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALICommissioni consiliari permanenti.
Sintesi/Massima
L’articolo 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000 prevedendo con disposizione statutaria la facoltatività dell’istituzione delle commissioni, richiede il rispetto del criterio proporzionale nella loro composizione.
Sono comunque escluse artificiose creazioni di gruppi minoritari che impediscano la piena partecipazione a tutte le commissioni da parte dell’autentica minoranza.
Tuttavia, la collocazione dinamica dei consiglieri alla maggioranza o alla minoranza, ammessa in virtù del mancato vincolo relativo al mandato imperativo -anche alla luce della decisione del C.d.S. n. 4600/2003- passa attraverso i movimenti tra i gruppi.
Infatti, sono possibili i mutamenti che possono sopravvenire all’interno delle forze politiche presenti in consiglio comunale per effetto di dissociazioni dall’originario gruppo di appartenenza, comportanti la costituzione di nuovi gruppi consiliari ovvero l’adesione a diversi gruppi esistenti, con diretta influenza sulla composizione delle commissioni consiliari che deve, pertanto, adeguarsi ai nuovi assetti.

Testo
E’ stato posto un quesito in ordine alla corretta composizione delle commissioni consiliari permanenti. In particolare, è stato chiesto se, a fronte del mutamento politico intervenuto recentemente in un gruppo consiliare costituito da due consiglieri che sostenevano la maggioranza, sia necessario un riequilibrio generale delle commissioni consiliari permanenti, originariamente costituite, che consenta anche al consigliere capogruppo dissenziente di essere rappresentato nella minoranza.
Al riguardo, si richiama l’articolo 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000, che ribadisce la necessità del rispetto del criterio proporzionale nella composizione delle commissioni. Si osserva che la predetta norma, prevedendo con disposizione statutaria la facoltatività dell’istituzione delle commissioni, rinvia al regolamento consiliare la determinazione dei relativi poteri e la disciplina della loro organizzazione.
Pertanto, è anche alle disposizioni interne all'Ente che bisogna fare riferimento per la risoluzione della problematica, tenendo presente che la composizione delle commissioni non può prescindere dai gruppi consiliari al fine della distinzione tra maggioranza e minoranza.
Lo statuto del Comune in oggetto, all’art. 14 prevede l’istituzione di commissioni permanenti, ribadendo il principio della proporzionalità con la presenza di due rappresentanti della minoranza nell’ambito di ogni commissione e la garanzia della partecipazione di ogni consigliere ad almeno una commissione e demanda al regolamento, tra l’altro, la disciplina del funzionamento delle commissioni.
Il regolamento consiliare, all’art. 10, costituisce le quattro commissioni permanenti che sono nominate dal consiglio con votazione palese, prevedendo, al comma 2, che i consiglieri comunali rappresentino, con criterio proporzionale, complessivamente, tutti i gruppi.
In materia di gruppi, l’articolo 8 del regolamento comunale prevede preliminarmente che "i consiglieri eletti nella medesima lista formano di regola, un gruppo consiliare".
Il comma 2 consente i gruppi unipersonali così come eventualmente scaturiti a seguito del risultato elettorale, e prevede, comunque, la formazione di gruppi costituiti da almeno due consiglieri.
Il successivo comma 4 lascia facoltà al singolo consigliere di transitare da un gruppo ad altro (nel rispetto del requisito minimo di due consiglieri), mentre il comma 5, ferma restando la possibilità di costituire un gruppo misto ove confluiscono i consiglieri che si distacchino da gruppi precedenti, non consente al singolo consigliere, che dopo il distacco non aderisca ad altri gruppi, di acquisire le prerogative dei gruppi consiliari.
Ciò posto, alla luce proprio delle norme interne all’Ente, non è possibile la costituzione di gruppi unipersonali; pertanto i consiglieri facenti parte del gruppo in questione, qualora mantengano le divergenze politiche e sostengano tale esigenza, dovrebbero trovare collocazione in altri gruppi già esistenti.
Si osserva, inoltre, che la legge non fornisce una definizione di maggioranza o di minoranza.
In proposito, il Consiglio di Stato (sentenza n. 4600/2003) ha rilevato che "la nozione di minoranza … va definita con esclusivo riferimento alle liste collegate ad un candidato sindaco non eletto e che, quindi, nel confronto elettorale sono risultate sconfitte, risultando tale parametro preferibile a quello che ammette una qualificazione della "minoranza" con riguardo ad eventi politici successivi alle elezioni", ma è anche vero che lo stesso Giudice ammette implicitamente la possibilità di "decifrare in senso dinamico e propriamente politico la nozione di minoranza".
Il Giudice giunge, poi, alla conclusione che "si deve negare che la collaborazione con la giunta di un solo consigliere eletto in una lista inizialmente contrapposta a quella collegata al candidato sindaco risultato eletto implichi automaticamente, ed in difetto della comprovata adesione politica al governo del comune di tutti i membri della lista originariamente di opposizione, il transito di questi ultimi nella maggioranza e, quindi, la necessità della loro partecipazione in quella quota alle elezioni dei rappresentati del consiglio comunale (nel caso di specie) alla comunità montana, con voto separato".
Sono comunque escluse artificiose creazioni di gruppi minoritari che impediscano la piena partecipazione a tutte le commissioni da parte dell'autentica minoranza. Tuttavia, la collocazione dinamica dei consiglieri alla maggioranza o alla minoranza, ammessa in virtù del mancato vincolo relativo al mandato imperativo -anche alla luce della lettura della citata decisione del C.d.S. n. 4600/2003- passa attraverso i movimenti tra i gruppi.
Infatti, il caso prospettato si inquadra nell’ambito dei possibili mutamenti che possono sopravvenire all’interno delle forze politiche presenti in consiglio comunale per effetto di dissociazioni dall’originario gruppo di appartenenza, comportanti la costituzione di nuovi gruppi consiliari ovvero l'adesione a diversi gruppi esistenti con diretta influenza sulle composizione delle commissioni consiliari che deve, pertanto, adeguarsi ai nuovi assetti (26.09.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGODanno erariale al sindaco per la revoca anticipata della posizione organizzativa.
La revoca anticipata dell'incarico di posizione organizzativa di un dipendente, al di fuori delle regole legislative e contrattuali, la cui illegittimità sia stata accertata dal Tribunale del lavoro, comporta la responsabilità in capo al sindaco che l’ha adottata, con conseguente danno erariale pari alla retribuzione di posizione e di risultato riconosciuta dal giudice al dipendente estromesso.

Queste le indicazioni della sentenza 24.09.2018 n. 59 della Corte dei conti, Sez. giurisdiz. regionale per il Molise.
Il caso
Il sindaco di un Comune ha estromesso il responsabile dell'ufficio tecnico per una serie di inadempimenti. Data la mancanza di altri professionisti, prima che si svolgesse il concorso per la categoria giuridica D3 non posseduta dal dipendente, gli incarichi apicali erano stati conferiti per diversi anni a professionisti esterni mediante specifica convenzione.
Il giudice del lavoro adito dal dipendente ha riconosciuto l'illegittimità della revoca anticipata, effettuata in violazione di legge e del contratto collettivo nazionale che scandiscono procedure tipizzate, come in caso di intervenuti mutamenti organizzativi o in conseguenza di specifico accertamento di risultati negativi soggetti a valutazione annuale in base a criteri e procedure predeterminati dall'ente. Il primo cittadino è stato, pertanto, rinviato a giudizio dalla Procura per il danno erariale causato dall'illegittima estromissione del dipendente al di fuori delle procedure tipizzate previste dalla normativa.
Il sindaco si è difeso sostenendo di aver correttamente agito per il superiore pubblico interesse al fine di una gestione efficiente che avrebbe potuto essere assicurata dall'apporto di professionisti esterni convenzionati e, successivamente, mediante assunzione di uno specialista attraverso un concorso pubblico. Il sindaco ha precisato, inoltre, che lo stesso Tar ha dato ragione al Comune sull'indizione del concorso per la categoria giuridica D3, dove era richiesta la laurea non posseduta dal dipendente, e rigettato l'impugnazione da parte del dipendente che non ha potuto partecipare per mancanza del titolo di studio richiesto.
Le conclusioni del collegio contabile
Secondo i giudici contabili molisani non può non essere evidenziata la colpa grave da parte del sindaco che non ha seguito le indicazioni contrattuali, in merito alla revoca anticipata della posizione organizzativa, tanto da essere l'amministrazione condannata dal giudice del lavoro al pagamento della retribuzione di posizione e di risultato per un periodo di circa tre anni, ossia fino alla conclusione della nomina del vincitore del concorso pubblico. L'illegittimità discende, inoltre, dalla non corretta applicazione della normativa del testo unico che prevede la possibilità di conferire incarichi all'esterno solo in mancanza di professionalità interne che, nel caso di specie, vi erano.
Pertanto, conclude il collegio contabile, ferma rimanendo la contrarietà alla legge della revoca anticipata dell'incarico di posizione organizzativa, anche la sequenza di incarichi esterni affidati dall'ente risulta in contrasto con le disposizioni normative. Il danno erariale causato all'ente corrisponde alla condotta contra legem da parte del sindaco, infatti ove queste condotte non fossero state poste in essere (procedimento di cosiddetta eliminazione mentale) evidentemente non si sarebbe avuta una sentenza di condanna del Comune e dunque gli esborsi inutili non si sarebbero realizzati.
Rispetto a questi inutili esborsi il collegio contabile riconosce, tuttavia, una riduzione essendo la decisione stata presa pur sempre in ambito collegiale dalla giunta comunale pur essendo il solo sindaco l'effettivo proponente e colui che ne ha dato attuazione con i successivi provvedimenti monocratici (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.10.2018).
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DIRITTO
   [1] In via pregiudiziale, occorre innanzitutto esaminare l'eccezione di difetto di giurisdizione di questa Corte (ex art. 1, comma 1, della legge n. 20/1994), rilevabile d'ufficio sebbene tardivamente avanzata dal convenuto avuto riguardo in particolare alla rivendicata natura discrezionale della determinazione di revoca dell'incarico in danno del geom. To..
In proposito, giova innanzitutto premettere che nella specie l'Organo requirente contesta l'illecito esercizio del potere di revoca di incarico dirigenziale e successivo conferimento ad esterni, per il quale appare probabilmente più corretta una qualificazione in termini di manifestazione negoziale (determinazione datoriale) di autonomia privata ex art. 1322 c.c. (pur con gli adattamenti dogmatici conseguenti alla natura pubblica dell'Ente conferente), piuttosto che quale manifestazione di discrezionalità amministrativa, insindacabile nel merito ai sensi dell'art. 1, comma 1, della legge n. 20/1994 .
Ad ogni modo, con riguardo a quest'ultimo principio normativo, il Collegio non può che richiamare l'ormai consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui "la Corte dei Conti, nella sua qualità di giudice contabile, può e deve verificare la compatibilità delle scelte amministrative con i fini pubblici dell'ente pubblico. Infatti, se da un lato, in base all'art. 1, comma 1, della legge n. 20 del 1994, l'esercizio in concreto del potere discrezionale dei pubblici amministratori costituisce espressione di una sfera di autonomia che il legislatore ha inteso salvaguardare dal sindacato della Corte dei Conti, dall'altro lato, l'art. 1, comma 1, della legge n. 241 del 1990, stabilisce che l'esercizio dell'attività amministrativa deve ispirarsi ai criteri di economicità e di efficacia, che costituiscono specificazione del più generale principio sancito dall'art. 97 Cost., e assumono rilevanza sul piano della legittimità (non della mera opportunità) dell'azione amministrativa. Pertanto, la verifica della legittimità dell'attività amministrativa non può prescindere dalla valutazione del rapporto tra gli obbiettivi conseguiti e i costi sostenuti. Inoltre l'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali compiute dai soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei Conti non comporta la sottrazione di tali scelte ad ogni possibilità di controllo della conformità alla legge dell'attività amministrativa anche sotto l'aspetto funzionale, vale a dire in relazione alla congruenza dei singoli atti compiuti rispetto ai fini imposti, in via generale o in modo specifico, dal legislatore. Più in generale è stato altresì precisato che il comportamento contra legem del pubblico amministratore non è mai al riparo dal sindacato giurisdizionale non potendo esso costituire esercizio di scelta discrezionale insindacabile” (Cass. SS.UU. sent. n. 1979 del 2012; cfr: Cass. SS.UU., sent. n. 4283/2013).
Il Collegio ritiene dunque di dover dichiarare la sussistenza della giurisdizione di questa Corte in ordine al sindacato sulla illiceità delle menzionate determinazioni datoriali, in ordine alle quali, peraltro, l'Organo requirente ha contestato, come meglio si dirà nel prosieguo, specifiche violazioni della vigente normativa.
   [2] In via preliminare, occorre esaminare l'eccezione di nullità dell'atto di citazione per ritenuta violazione dell'art. 17, comma 30-ter, del D.L. n. 78 del 2009, avanzata dal convenuto in quanto non vi sarebbe stata, in tesi, una previa specifica e concreta notizia di danno erariale.
In proposito, il Collegio rileva l'inammissibilità dell'eccezione ex art. 90, comma 3, del d.lgs. n. 174/2016 (codice di giustizia contabile), in quanto proposta soltanto nella memoria di costituzione tardivamente depositata.
Ad ogni modo, pare utile rammentare che le SS.RR. (sent n. 12/QM/2011) di questa Corte hanno chiarito che ““Il significato da attribuire all’espressione “specifica e concreta notizia di danno”, recata dall’art. 17, comma 30-ter, in esame, è così precisato: il termine notizia, comunque non equiparabile a quello di denunzia, è da intendersi, secondo la comune accezione, come dato cognitivo derivante da apposita comunicazione, oppure percepibile da strumenti di informazione di pubblico dominio; l’aggettivo specifica è da intendersi come informazione che abbia una sua peculiarità e individualità e che non sia riferibile ad una pluralità indifferenziata di fatti, tale da non apparire generica, bensì ragionevolmente circostanziata; l’aggettivo concreta è da intendersi come obiettivamente attinente alla realtà e non a mere ipotesi o supposizioni. L’espressione nel suo complesso deve, pertanto, intendersi riferita non già ad una pluralità indifferenziata di fatti, ma ad uno o più fatti, ragionevolmente individuati nei loro tratti essenziali e non meramente ipotetici, con verosimile pregiudizio per gli interessi finanziari pubblici, onde evitare che l’indagine del PM contabile sia assolutamente libera nel suo oggetto, assurgendo ad un non consentito controllo generalizzato””.
Inoltre, le SS.RR. hanno specificato che “per “fattispecie direttamente sanzionate dalla legge” devono intendersi quelle in cui non soltanto è prevista una sanzione pecuniaria come conseguenza dell’accertamento di responsabilità amministrativa, ma in cui la norma definisce altresì l’automatica determinazione del danno, mentre va escluso che possano rientrarvi le ipotesi in cui la legge si limiti a prevedere che una certa fattispecie “determina responsabilità erariale”, o espressioni simili. In ipotesi di fattispecie direttamente sanzionate dalla legge, di cui sopra, pur escludendosi la sanzione di nullità ex art. 17, cit., in quanto l’attività istruttoria è legittimata direttamente dalla legge, restano fermi i principi fissati dalla Corte costituzionale. Ulteriore corollario di tale criterio interpretativo è che nell’ipotesi in cui è la legge stessa a imporre un obbligo di comunicazione al PM contabile, quest’ultimo resta abilitato a compiere accertamenti istruttori, tale essendo la ratio di simili prescrizioni legislative, non superate dall’art. 17 medesimo””.
Orbene, con riguardo al caso di specie, la notitia damni è consistita nella trasmissione alla Procura contabile, da parte della Sezione regionale di Controllo per il Molise (destinataria per errore di comunicazione proveniente dal Comune), della delibera consiliare n. 19 del 28/11/2013, con la quale l'Ente ha riconosciuto un debito fuori bilancio a vantaggio del suddetto dipendente, ai sensi dell'art. 194 del d.lgs. n. 167/2000.
Peraltro, il Comune ha trasmesso detta delibera di riconoscimento di debito fuori bilancio in adempimento dell'obbligo previsto dall'art. 23, comma 5, della legge n. 289/2002, ai sensi del quale "I provvedimenti di riconoscimento di debito posti in essere dalle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, sono trasmessi agli organi di controllo ed alla competente Procura della Corte dei conti" (e non già alla Sezione regionale di Controllo, n.d.r.).
Pertanto, trattandosi di ipotesi di adempimento di obbligo di comunicazione specificamente previsto dalla legge, la Procura contabile deve ritenersi legittimata, tanto più alla luce del menzionato orientamento del giudice della nomofilachia contabile, a compiere accertamenti istruttori e quindi ad esercitare, ove ne ricorrano i presupposti, l'azione di responsabilità amministrativa per danno all'erario.
   [3] Nel merito, ai fini della ricostruzione dell’elemento oggettivo dell’illecito amministrativo-contabile contestato, occorre preliminarmente riepilogare la successione dei fatti maggiormente rilevanti ai fini del giudizio.
Innanzitutto, occorre evidenziare che il sig. Ma.To., assunto con concorso pubblico come geometra part-time dall'01/01/1991 nella VI qualifica funzionale, è stato individuato come responsabile del servizio “area tecnica e gestione R.S.U. e tosap” già con delibera di Giunta comunale n. 129 del 30/10/1997.
Con successiva delibera di Giunta Comunale n. 79 del 24.09.1998, il geom. To.Ma. è stato poi inquadrato, ai sensi di legge, nel VII livello (oggi cat. D), con successivo riconoscimento della progressione cat. D3 dall'01/01/2001.
Dopo aver approvato il regolamento di organizzazione e funzionamento degli Uffici e dei Servizi (Delibera di G.M. n. 12 del 02.02.1999), il Comune, con delibera consiliare n. 23 del 18.07.1999, ha approvato uno schema di convenzione per l'eventuale conferimento a personale esterno dell'incarico, di durata annuale, di Responsabile dell'Ufficio Tecnico comunale, motivata con la asserita situazione deficitaria dell'Ufficio (ritardi nei tempi di risposta, anche in ragione del rapporto a tempo parziale del responsabile).
Quanto al ruolo svolto dal Sindaco A.P., nella delibera si legge innanzitutto che questi “ha predisposto con l’esecutivo uno schema […]” di deliberazione.
Inoltre, nell’ambito del dibattito consiliare, il consigliere Ro. faceva “rilevare che il contenuto della convenzione è illegittimo perché privo dei requisiti di legge che consentono l'eventuale attuazione della convenzione. Si precisa inoltre che le motivazioni previste in detta convenzione sono inadeguate ed insufficienti. Il servizio riguardante l'ufficio tecnico comunale è svolto da un dipendente che ha i requisiti per svolgere in maniera adeguata i compiti dell'ufficio stesso, avendone capacità professionale e l'inquadramento del relativo livello.
Non risulta agli atti presenti in questo Consiglio Comunale, che ci sia stata una adeguata ed efficace indagine da far apparire conveniente l'attribuzione dell'incarico a persone esterne, né risulta agli atti l'esserci stato un contatto con l'attuale responsabile dell'ufficio tecnico finalizzato a risolvere eventualmente quello che si intende risolvere con l'affidamento di che trattasi.
Precisa che a suo parere che le motivazioni addotte dal presidente non giustificano l'irragionevole esborso di risorse per attuare la convenzione medesima.
Preannuncia ed invita anche la minoranza a prendere tale posizione ad un eventuale ricorso alle vie legali e presso gli organi tutori per far sì l'eventuale provvedimento positivo non abbia seguito.
Fa rilevare che trattandosi di problemi che interessano il personale proporrà in prima istanza opposizione al CO.RE.CO. Sez. di Isernia per poi adire eventualmente anche gli uffici della Corte dei Conti
”.
La delibera riporta altresì che, a fronte di dette perplessità (e di quelle di un ulteriore consigliere comunale), il Sindaco ha preso la parola sostenendo l’insussistenza di aggravi di spesa e la necessità di migliorare l’andamento dell’ufficio tecnico.
A seguito di detta delibera consiliare, il CORECO di Isernia, con ordinanza n. 648 adottata nella seduta del 26/08/1999, ha invitato il Consiglio comunale di Pettoranello a procedere ad un riesame del deliberato ex art. 17, comma 39, della legge n. 127/1997, avendo rilevato i seguenti vizi di legittimità:
   - “manca il parere tecnico di cui all’art. 53 della legge n. 142/1990;
   - la funzione che si intende affidare al tecnico esterno, come rilevasi dallo schema di convenzione approvato, rientra tra i compiti istituzionali del tecnico comunale il cui posto è presente e coperto in pianta organica
”.
Tuttavia, il Consiglio comunale, con delibera n. 34 del 28/09/1999, ha riapprovato la delibera n. 23/1999, senza apportare alcuna modifica.
Ancora una volta, dal testo della delibera si evince il ruolo dominante assunto dal Sindaco A.P. (si parla di delibera assunta su “sua proposta”), che, dinanzi all'assemblea e pur a fronte di un intervento di un consigliere che evidenziava la mancata eliminazione dei vizi di legittimità evidenziati dal Co.re.co, ha giustificato la mancanza del parere del responsabile tecnico e ha ribadito la ritenuta assenza di aggravi economici per l’ente (non sarebbe stato necessario, in tesi, neppure il parere di regolarità contabile, essendo un mero atto di indirizzo).
Ad ogni modo, questa vicenda dell’adozione dello schema di delibera di approvazione di convenzione di affidamento di incarico esterno, pur essendo significativa al fine di ricostruire l’elemento soggettivo dell’illecito contestato, non risulta aver avuto seguito concreto nell’immediato (sarà solo successivamente presa a riferimento per gli incarichi esterni), in quanto parecchi mesi dopo, a seguito della delibera di Giunta n. 25 del 31/03/2000 di individuazione delle aree e dei servizi, il Sindaco A. P. ha adottato il decreto n. 930 del 03.04.2000, di nomina del geom. To.Ma. a responsabile dell'area tecnico-manutentiva.
Detto provvedimento sindacale di nomina, con efficacia “per tutta la durata del mandato amministrativo, salvo revoca”, ha espressamente provveduto ad assegnare al geom. To.Ma., quale dipendente di categoria D, la responsabilità dell’area tecnica Tosap, opere pubbliche, urbanistica, gestione del territorio, servizi tecnico-manutentivi del patrimonio e degli impianti di pubblica illuminazione, rete idrica, fognante-depurazione, P.r.g. e strumenti attuativi, protezione civile, rifiuti urbani (limitatamente al servizio di raccolta, smaltimento e predisposizione dei ruoli) e responsabile unico dei LL.PP., assegnandogli le conseguenti risorse umane, e riconoscendogli altresì la correlata retribuzione di posizione e di risultato.
Tuttavia, a soli circa due mesi e mezzo dal conferimento, il Sindaco A.P., dopo aver contestato per iscritto in data 10/06/2000 al geom. To. ritenute carenze dell'ufficio tecnico invitandolo a fornire risposta scritta in merito entro giorni 15 (dette contestazioni sono state puntualmente e documentatamente confutate dall'interessato con comunicazione prot. n. 1825 del 27/06/2000), ha adottato (addirittura prima della scadenza dei 15 giorni assegnati per la difesa dalle contestazioni) un ulteriore decreto sindacale ma di revoca, il n. 1792 del 23.06.2000, in quanto il nominato "non svolge con puntualità gli incarichi che la Giunta comunale e lo scrivente gli conferiscono".
In proposito, pare appena il caso di evidenziare la patente contrarietà alla normativa pro tempore vigente del menzionato provvedimento di revoca, come peraltro già incidentalmente accertato dalla menzionata sentenza del Tribunale di Isernia.
In particolare, l’art. 51 comma 6, della legge n. 142/1990, espressamente delimitava il potere sindacale di revoca nei seguenti termini: gli incarichi “sono revocati in caso di inosservanza delle direttive del Sindaco o del Presidente della Provincia, della Giunta o dell'assessore di riferimento, o in caso di mancato raggiungimento al termine di ciascun anno finanziario degli obiettivi loro assegnati nel piano esecutivo di gestione previsto dall'articolo 11 del decreto legislativo 25.02.1995, n. 77, e successive modificazioni, o per responsabilità particolarmente grave o reiterata e negli altri casi disciplinati dall'articolo 20 del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e dai contratti collettivi di lavoro”.
Ancora più puntualmente, il CCNL pro tempore vigente, all’articolo 9, commi 3 e seguenti, delimitava il potere di revoca degli incarichi nei seguenti termini: “3. Gli incarichi possono essere revocati prima della scadenza con atto scritto e motivato, in relazione a intervenuti mutamenti organizzativi o in conseguenza di specifico accertamento di risultati negativi. 4. I risultati delle attività svolte dai dipendenti cui siano stati attribuiti gli incarichi di cui al presente articolo sono soggetti a valutazione annuale in base a criteri e procedure predeterminati dall’ente. La valutazione positiva dà anche titolo alla corresponsione della retribuzione di risultato di cui all’art. 10, comma 3. Gli enti, prima di procedere alla definitiva formalizzazione di una valutazione non positiva, acquisiscono in contraddittorio, le valutazioni del dipendente interessato anche assistito dalla organizzazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da persona di sua fiducia; la stessa procedura di contraddittorio vale anche per la revoca anticipata dell’incarico di cui al comma 3”.
Peraltro, successivamente a detta revoca, evidentemente adottata in difetto degli stringenti presupposti previsti dalla disciplina pro tempore vigente, la Giunta comunale ha provveduto, pur avendo l’Ente a disposizione le competenze del geom. Ma.To., a conferire i seguenti incarichi esterni per la copertura del posto di responsabile dell’area tecnica (dapprima affidato per breve tempo al Segretario comunale, fatto estraneo alle contestazioni attoree):
   1) Ing. Ma. De Vi.: d.g.m. n. 64 del 30.06.2000 per il periodo 01.07.2000-30.6.2001 e n. 90 del 29.06.2001 per il periodo 01.07.2001-30.6.2002, per un compenso complessivo erogato pari a € 10.006,82;
   2) Ing. Ar.Mi.: d.g.m. n. 20 del 15.02.2002 per il periodo 15.02.2002-15.05.2002, d.g.m. n. 72 del 10.05.2002 per il periodo 16.05.2002-15.06.2002, d.g.m. n. 97 del 21.06.2002 per il periodo 16.06.2002-30.08.2002, d.g.m. n. 125 del 27.08.2002 per il periodo 01.09.2002-31.10.2002, d.g.m. n. 168 del 31.10.2002 per il periodo 01.11.2002-31.12.2002, d.g.m. n. 195 del 21.12.2002 per il periodo 01.01.2003-30.06.2003, d.g.m. n. 85 del 17.06.2003 per il periodo 01.07.2003-31.12.2003 per un compenso complessivo erogato pari a € 8.330,32;
   3) Arch. Mi.D'Am.: d.g.m. n. 112 del 31.07.2003 per il periodo 01.08.2003-30.11.2003 per un compenso complessivo erogato pari a € 2.633,93;
   4) Ing. Fr.La.: d.g.m. n. 163 dell'11.11.2003 per il periodo 13.11.2003-13.02.2004, d.g.m. n. 67 del 29.04.2004 per il periodo 13.03.2004-13.05.2004 per un compenso complessivo erogato pari a € 8.901,46.
In particolare, si osserva che nella prima delibera giuntale di conferimento di incarico esterno, poi reiterata, si motiva l’adozione del provvedimento con l’urgenza determinatasi “a causa della revoca” disposta dal Sindaco, non si riscontra il parere di regolarità tecnica (viene riportato esclusivamente il parere di regolarità contabile) e si prende a modello di conferimento lo schema di convenzione già approvato con delibera consiliare n. 23/1999.
Come evidenziato dalla menzionata sentenza del Tribunale di Isernia, il Testo Unico per gli Enti Locali (d.lgs. n. 267/2000; per il primo incarichi si veda l’art. 51 della legge n. 142/1990 nel testo pro tempore vigente, poi confluito nel T.U.) consente l’affidamento all’esterno di incarichi dirigenziali (art. 110, comma 1), solo previa previsione statutaria, ed inoltre condiziona in ogni caso l’affidamento di incarichi di responsabilità fuori dotazione organica alla “assenza di professionalità analoghe presenti nell’ente”.
Peraltro, detto limite della “assenza di professionalità analoghe presenti all’interno dell’Ente” è stato ribadito dall’art. 39 dello Statuto dell’ente approvato con deliberazione C.C. n. 16 del 05/04/2001 ed anche successivamente dall’art. 35 del regolamento uffici e servizi (senza distinzione tra incarichi ricompresi e non ricompresi nella dotazione organica) approvato con delibera di Giunta n. 138/2012, provvedimento che ha altresì determinato la nuova dotazione organica prevedendo, accanto ad un posto di istruttore direttivo D/1, un posto di responsabile del servizio D/3 (qualifica peraltro posseduta anche dal geom. To. a decorrere dal 01.01.2001; sulla unitarietà/inscindibilità, economica e giuridica, delle diverse posizioni nell’ambito della categoria D, si veda, ex pluribus, Cass. sent. n. 24356/2017).
Pertanto, ferma rimanendo la contrarietà a legge della suddetta revoca di incarico, anche la sequenza di incarichi esterni affidati dall’ente risulta in contrasto con le riferite disposizioni normative.
A seguito delle suddette condotte contra ius, il Tribunale di Isernia, con la richiamata sentenza n. 285/2012, in parziale accoglimento della domanda del geom. To., ha condannato il Comune di Pettoranello del Molise a corrispondere al dipendente l’indennità di retribuzione e l’indennità di risultato nella misura indicata nel decreto del Sindaco n. 930 del 03/04/2000, dalla data dell’01/02/2001 all’01/06/2004, oltre interessi legali.
L’importo è stato poi rideterminato a seguito di transazione stipulata tra le parti in data 20/11/2013 (conclusa nonostante il Comune avesse già proposto appello, in contrasto con la valutazione del suo stesso difensore, avverso detta sentenza del Tribunale di Isernia), concordando l'importo da riconoscere al sig. To. in euro 35.350,00 omnicomprensivi, da rateizzare in tre esercizi finanziari.
In particolare, la Procura ha documentato l’effettivo pagamento di detto importo, costituente danno erariale, secondo le modalità di seguito riportate e per un totale di euro 34.624,13:
   - per la annualità 2013 a € 11.333,15, pagati il 19.12.2013 su mandati n. 829 (€ 7.030,00), n. 830 (€ 1.865,60), n. 831 (€ 597,55) e n. 832 (€ 1.840,00) del 12.12.2013;
- per la annualità 2014 a € 11.490,98, pagati su mandati n. 703 (€ 1.673,03 pagato il 22.12.2014), n. 705 (€ 597,51 pagato il 22.12.2014), n. 706 (€ 2.190,88 pagato il 17.12.2014 del 2.12.2014, n. 787 del 17.12.2014 (€ 7.029,56 pagato il 18.12.2014);
   - per la annualità 2015 a € 11.800,00 (acconto di € 8.939,70, come da cedolino di febbraio 2016).
A detto ammontare corrisposto dal Comune al sig. To., la Procura ha ritenuto di dover assommare, ai fini della quantificazione del danno erariale, l’importo di euro 3.000,00 liquidato dal Comune con determina del responsabile del settore finanziario (mandati del 15/02/2013 n. 96 di € 2.000,00 e n. 97 € 1.000,00) a vantaggio dell’avv. Co. per la difesa dinanzi al Tribunale di Isernia, nonché l’importo di euro 345,50 a titolo di contributo unificato per il deposito del ricorso di appello avverso la più volte menzionata sentenza del Tribunale di Isernia, per un importo totale del danno contestato di euro 37.969,63 (euro 34.624,13 + euro 3.000,00 + euro 345,50).
In proposito, sul terreno della ricostruzione del nesso di causalità, non può che osservarsi, innanzitutto, che il richiamato danno all'erario risulta causalmente collegato alla riferita condotta contra ius posta in essere dal convenuto; infatti ove dette condotte non fossero state poste in essere (procedimento di c.d. eliminazione mentale) evidentemente non si sarebbe avuta una sentenza di condanna del Comune (e la transazione, pure posta in essere successivamente alla scadenza del mandato sindacale del convenuto) e dunque gli esborsi in questione (in assenza delle specifiche prestazioni direttive del geom. To.) non si sarebbero realizzati.
Nel contempo, richiamando nozioni generali relative all'illecito colposo, non può che convenirsi che l'evento dannoso si presenta ictu oculi come conseguenza prevedibile della lesione del bene giuridico tutelato dalla norma violata, essendo ovviamente preventivabile l'instaurazione di un contenzioso (e la probabile condanna dell'Ente) a seguito di provvedimento illegittimo di revoca di assegnazione di funzioni di responsabile di un servizio.
Né tanto meno può fondatamente sostenersi che l'intervenuta successiva transazione (o anche la delibera di riconoscimento di debito fuori bilancio), in quando adottate da soggetti diversi dal convenuto, abbiano prodotto l'interruzione del nesso di causalità, tenuto conto che dette condotte non costituiscono affatto comportamento da solo sufficiente a determinare l'evento (cfr. art. 41 c.p.) ed anzi non hanno neppure comportato un mero incremento del danno all'erario conseguente alla condotta contra ius dell'Ente (e alla correlata condanna patita dal Comune dinanzi al G.O.).
Tuttavia, ritiene il Collegio che non possa esser ascritto alla condotta del convenuto l’esborso relativo al contributo unificato per il ricorso in appello, considerato (non tanto che la decisione di esperire il gravame è stata assunta da soggetti diversi dal convenuto, ma) che questa è stata presa nonostante parere contrario del legale incaricato, il quale, con comunicazione datata 18.03.2013, ha fatto presente all’amministrazione pro tempore in carica che “stante l'accoglimento parziale della domanda attorea, adeguatamente motivata in sentenza, allo stato è opportuno valutare la ipotesi di non proporre appello principale avverso la predetta Sentenza”.
Pertanto, il danno eziologicamente riconducibile alla condotta del convenuto, ammonta, ad avviso del Collegio, ad euro 37.624,13.
   [4] Quanto all’elemento soggettivo dell’illecito, dall’esame degli atti emerge, ictu oculi, la gravità della colpa ascrivibile al convenuto.
Invero, l’evidenza del dato normativo relativo al conferimento e alla revoca di incarichi dirigenziali, insieme con la descritta successione di atti, evidenzia la grave colpa del Sindaco innanzitutto nell’adozione del decreto di revoca n. 1792 del 23/06/2000, assunto in carenza dei presupposti di legge, dopo soli due mesi e mezzo dal provvedimento di conferimento delle medesime funzioni, adottato dallo stesso Sindaco, nonché addirittura prima della scadenza del termine assegnato dallo stesso primo cittadino al geom. To. per la difesa dalle suddette contestazioni.
Peraltro, la gravità del comportamento colposo del convenuto riceve conferma e rafforzamento anche alla luce della coordinata vicenda relativa all’intervento del CORECO, e, comunque, al ruolo svolto dal Sindaco nei consigli comunali in questione, vicenda che evidenzia la piena consapevolezza (c.d. colpa cosciente) del sig. A.P. in ordine alla illegittimità dell’affidamento all’esterno degli incarichi in questione, avendo l’ente a disposizione la professionalità del geom. To..
   [5] Quanto alla richiesta applicazione del potere riduttivo, ritiene il Collegio di potere addivenire ad una sostanziale decurtazione dell'importo di condanna ex art. 1, comma 1-bis, della legge n. 20/1994 (e già ex art. 52 del T.U. approvato con R.D. n. 1214/1934, art. 83 del R.D. n. 2440/1923 e art. 19 del D.P.R. n. 3/1957), tenuto conto della circostanza che, ferma rimanendo la centralità eziologica della determinazione di revoca, la convenzione tipo per l'attribuzione dei futuri possibili incarichi esterni è stata adottata dal consiglio comunale (pur con il ruolo dominante del Sindaco A.P.) e che gli incarichi esterni sono stati attribuiti dalla Giunta comunale (pur presieduta dal Sindaco A.P.).
Pertanto, alla luce del complesso delle riferite argomentazioni giuridico-fattuali, il Collegio, seppure in parziale difformità rispetto al quantum del danno risarcendo richiesto dall'Organo requirente, ritiene di dover accogliere la domanda attorea con conseguente condanna del convenuto a risarcire, a beneficio del Comune di Pettoranello di Molise (IS), il danno all'erario prodotto nella misura complessiva di euro 25.000,00 (comprensiva di rivalutazione monetaria sino alla data del deposito della presente sentenza), oltre interessi come per legge.
   [6] Il regime giuridico delle spese di giudizio resta influenzato dal principio della soccombenza (art. 31 c.g.c.). Esse vengono liquidate, in favore dello Stato, con nota a margine del funzionario di segreteria.
P.Q.M.
La Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale per il Molise, disattesa ogni contraria istanza, deduzione od eccezione, definitivamente pronunciando, accoglie parzialmente la domanda attorea e per l'effetto condanna il sig. Pa.An. al risarcimento, a vantaggio del Comune di Pettoranello di Molise, del danno di euro 25.000,00 comprensivi di rivalutazione monetaria, oltre interessi dalla data di deposito della sentenza e sino all'effettivo pagamento (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Molise, sentenza 24.09.2018 n. 59).

CONSIGLIERI COMUNALIDeleghe ai consiglieri.
Sintesi/Massima
E’ ammissibile la disciplina di deleghe interorganiche ai consiglieri comunali da parte del Sindaco, purché il contenuto delle stesse sia coerente con la funzione istituzionale dell'organo cui si riferisce.
Occorre considerare, quale criterio generale, che il consigliere può essere incaricato di studi su determinate materie, di compiti di collaborazione circoscritti all'esame e alla cura di situazioni particolari, che non implichino la possibilità di assumere atti a rilevanza esterna, né, infine, di adottare atti di gestione spettanti agli organi burocratici.
Resta ferma l'inderogabilità sostanziale del limite numerico di componenti della Giunta imposto dall’art. 1, comma 135, della legge n. 56/2014 e dell’art. 1, comma 185, della legge 23.12.2009, n. 191, modificato dall’art. 1 comma 1-bis del d.l. n. 2/2010, convertito in legge n. 42/2010.

Testo
Un consigliere comunale ha segnalato l’attribuzione di deleghe, con potere di firma su atti a rilevanza esterna, ad alcuni consiglieri comunali da parte del Sindaco.
Al riguardo, fatte salve le iniziative che verranno assunte da codesta Prefettura al fine di verificare la natura delle deleghe in parola (alla luce anche dell’art. 57 dello Statuto comunale che consente invece l’affidamento di incarichi ai consiglieri da parte del sindaco) si osserva che nell'ambito dell'autonomia statutaria dell'ente locale, sancita dall'art. 6 del decreto legislativo n. 267/2000, è ammissibile la disciplina di deleghe interorganiche, purché il contenuto delle stesse sia coerente con la funzione istituzionale dell'organo cui si riferisce.
Occorre considerare, quale criterio generale, che il consigliere può essere incaricato di studi su determinate materie, di compiti di collaborazione circoscritti all'esame e alla cura di situazioni particolari, che non implichino la possibilità di assumere atti a rilevanza esterna, né, infine, di adottare atti di gestione spettanti agli organi burocratici.
Il consigliere, infatti, svolge la sua attività istituzionale in qualità di componente di un organo collegiale quale il consiglio che è destinatario dei compiti individuati e prescritti dalle leggi e dallo statuto.
Nella specie, peraltro, le funzioni del sindaco sono quelle dettate dall’art. 50 e dall’art. 54 del citato decreto legislativo n. 267/2000.
Alcune di tali funzioni possono essere delegabili in virtù delle stesse previsioni normative (in particolare, le funzioni svolte dal sindaco ex art. 54 nella sua attività di Ufficiale di Governo e quelle di cui all'art. 31 del citato Testo Unico, che consente al sindaco di trasferire proprie attribuzioni in caso di partecipazione alle assemblee consortili).
In ogni caso, occorre prestare particolare attenzione alla inderogabilità sostanziale del limite numerico di componenti della Giunta imposto dall’art. 1, comma 135, della legge n. 56/2014 e dell’art. 1, comma 185, della legge 23.12.2009, n. 191, modificato dall’art. 1, comma 1-bis, del d.l. n. 2/2010, convertito in legge n. 42/2010 (24.09.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALICommissioni consiliari permanenti.
Sintesi/Massima
Le commissioni consiliari permanenti devono rispecchiare in modo proporzionale i gruppi presenti in consiglio, pertanto, in caso di intervenuti mutamenti nella composizione dei gruppi, il consiglio dovrà procedere, con propria deliberazione, ad un riequilibrio complessivo delle commissioni consiliari permanenti al fine di garantire il rispetto del criterio proporzionale previsto dall’art. 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000.
Testo
E' stato posto un quesito in materia di commissioni consiliari permanenti.
In particolare è stato rappresentato che cinque consiglieri di maggioranza sono passati all’opposizione e quattro consiglieri di minoranza sono transitati nel gruppo di maggioranza. Ciò posto, si chiede se sia necessario provvedere ad un riequilibrio generale delle commissioni consiliari permanenti originariamente costituite al fine di rispettare il criterio proporzionale previsto ai sensi dell’art. 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000.
Il caso prospettato si inquadra nell’ambito dei possibili mutamenti che possono sopravvenire all’interno delle forze politiche presenti in consiglio comunale per effetto di dissociazioni dall’originario gruppo di appartenenza, comportanti la costituzione di nuovi gruppi consiliari ovvero l’adesione a diversi gruppi esistenti.
Va da sé che i mutamenti in parola modificano i rapporti tra le forze politiche presenti in consiglio, incidendo sul numero dei gruppi ovvero sulla consistenza numerica degli stessi, e ciò non può non influire sulla composizione delle commissioni consiliari che deve, pertanto, adeguarsi ai nuovi assetti.
Lo statuto del comune in oggetto prevede all’art. 16 la costituzione delle commissioni consiliari permanenti demandandone la composizione al regolamento del consiglio comunale, nel rispetto del criterio proporzionale fra maggioranza e minoranze. Ai sensi dell’art. 11, comma 2, del regolamento è previsto che ciascuna commissione sia composta da cinque consiglieri comunali, eletti con voto limitato dal consiglio comunale, di cui due appartenenti al gruppo di minoranza.
Pertanto si condividono le osservazioni con le quali codesta Prefettura ha rappresentato la necessità che il comune proceda, con deliberazione di consiglio, ad un riequilibrio complessivo delle commissioni consiliari permanenti al fine di garantire il rispetto del criterio proporzionale previsto dall’art. 38, comma 6, citato (24.09.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALIDiritto dei consiglieri comunali ex art. 43, comma 2, TUOEL ad accedere agli atti relativi ai servizi erogati dal Piano Sociale di Zona.
Sintesi/Massima
Nell’ipotesi in cui gli Uffici comunali non dispongano degli atti richiesti dal consigliere comunale nell'esercizio del diritto di accesso che riguardano, nella specie, una associazione in ambiti territoriali tra comuni come prevista, tra l’altro, dalla legge regionale -a cui il Comune contribuisce mediante finanziamenti a valere sui propri bilanci- che si avvale dell'Ufficio di Piano individuato quale struttura tecnica di supporto per la realizzazione del piano di zona, in carenza di specifiche disposizioni in merito che deleghino la struttura affidataria del servizio, sarà tale ultimo soggetto a corrispondere al consigliere comunale gli atti richiesti, nei tempi previsti.
Testo
E’ stato formulato un quesito in materia di accesso agli atti da parte dei consiglieri comunali. In particolare, è stato chiesto quale sia la corretta modalità di esercizio del diritto di accesso nell’ipotesi i cui gli Uffici comunali non dispongano degli atti richiesti e che, dunque, abbiano necessità di reperire i dati e le informazioni presso altro soggetto competente per la gestione del servizio.
Al riguardo, come anche osservato da codesta Prefettura, al consigliere comunale è riconosciuto dalle vigenti disposizioni (art. 43, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000) il diritto di ottenere dagli uffici del comune, nonché dalle proprie aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato.
Il comune con l’articolo 38 dello Statuto ha ribadito sostanzialmente il diritto in parola, "nel rispetto delle modalità prefissate dall’art. 43 del TUEL".
Il regolamento per il diritto di accesso adottato dal Comune contiene disposizioni di dettaglio nella materia, prevedendo all’articolo 8, comma 2, che il diritto in parola si esercita presso gli uffici dell’amministrazione comunale, nonché presso enti, istituzioni e altri enti gestori di servizi pubblici locali. "Per notizie e informazioni si intendono dati già formati ancorché non tradotti in atti o documenti amministrativi per i quali non sia richiesta alcuna elaborazione fatta salva quella di mera raccolta".
L’articolo 9 del regolamento precisa, inoltre, che l'accesso agli atti e documenti è effettuato presso il responsabile di servizio titolare o individuato su richiesta formale.
Nel caso in esame il Piano Sociale di zona a cui la documentazione richiesta farebbe riferimento, sembrerebbe corrispondere, sulla base delle indicazioni rintracciabili nel portale internet, all'Ufficio di Piano individuato quale struttura tecnica di supporto per la realizzazione del piano di zona previsto dall’art. 23, comma 1, della legge regionale n. 11/2007.
La struttura in parola è in sostanza una associazione in ambiti territoriali tra comuni come prevista, tra l’altro, dall’articolo 10 della citata legge regionale n. 11/2007.
Premesso che il Comune in parola contribuisce al funzionamento dell’Associazione mediante finanziamenti a valere sui propri bilanci, è acclarato il diritto del consigliere comunale ad accedere agli atti del Piano sociale di Zona.
Nella fattispecie, valendo l'esercizio sostanziale del diritto, qualora il Comune non sia in possesso immediato degli atti richiesti, in carenza di specifiche disposizioni in merito che deleghino la struttura affidataria del servizio, sarà il Piano Sociale di Zona a corrispondere al consigliere comunale gli atti richiesti, nei tempi previsti (24.09.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALIIrregolarità della convocazione del consiglio comunale.
Sintesi/Massima
Convocazione del consiglio. Eventuali vizi di legittimità attinenti alla convocazione del consiglio. Il vigente ordinamento, come noto, non prevede poteri di controllo di legittimità sugli atti degli enti locali in capo a questa Amministrazione.
Gli eventuali vizi di legittimità degli atti adottati possono essere fatti valere solo nelle competenti sedi amministrative ovvero giurisdizionali, secondo le consuete regole vigenti in materia.

Testo
E' stata segnalata una problematica in ordine all’applicazione della normativa sulla convocazione del consiglio comunale.
In particolare, un consigliere di opposizione ha lamentato vizi di legittimità nella procedura seguita dall’ente per l’inoltro della notifica dell’avviso di convocazione di una seduta consiliare, eccependone la tardività.
Secondo l'esponente non sarebbe stata rispettata la disposizione recata dall'art. 40, comma 2, del regolamento sul funzionamento del consiglio comunale ai sensi del quale "per le adunanze straordinarie la consegna dell’avviso deve avvenire almeno tre giorni liberi prima di quello stabilito per la riunione".
Dall’esame della nota emerge che nel contesto della seduta tenutasi in data 31.12.2017, il gruppo di minoranza, dopo aver contestato il mancato rispetto del citato art. 40, comma 2, ed aver posto la questione pregiudiziale, ha abbandonato la seduta.
Ciò posto il consigliere ha chiesto a codesta prefettura di procedere all'attivazione dei poteri sostitutivi e di provvedere, altresì, all’annullamento della seduta consiliare tenutasi in data 31.12.2017.
Al riguardo si rappresenta che è lo stesso regolamento sul funzionamento del consiglio comunale a chiarire che "l’eventuale omessa o ritardata consegna dell’avviso di convocazione è sanata quando il consigliere interessato partecipa all’adunanza del Consiglio alla quale era stato invitato" (cfr. art. 40, comma 8).
In ogni caso, si rappresenta che il vigente ordinamento, come noto, non prevede poteri di controllo di legittimità sugli atti degli enti locali in capo a questa Amministrazione.
Gli eventuali vizi di legittimità degli atti adottati, pertanto, possono essere fatti valere solo nelle competenti sedi amministrative ovvero giurisdizionali, secondo le consuete regole vigenti in materia (24.09.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - INCARICHI PROFESSIONALI - SEGRETARI COMUNALI: Non sussiste la responsabilità erariale circa l'affidamento all'esterno dell'ente dell'incarico di frazionamento catastale di una strada allorché detto incarico risulti effettivamente non affidabile all’interno dell’amministrazione per ragioni puntualmente esposte.
E’ opinione condivisa che la ratio dell’art. 7 del D.L.gs. n. 165/2001 -il quale, al comma 4, prevede che le Amministrazioni pubbliche curino la formazione e l’aggiornamento del personale e, al successivo comma 6, regolamenta i limiti entro i quali le Amministrazioni possono conferire incarichi esterni– sia quella di favorire l’efficienza degli Enti pubblici, realizzando la migliore utilizzazione delle risorse umane disponibili negli apparati amministrativi.
Giova, altresì, ricordare come la richiamata disciplina statale sia stata oggetto, nel tempo, di numerosi interventi di modifica che hanno reso sempre più stringenti tali limiti, al fine di prevenire danni all’Erario per spese improduttive o per ingiustificate erogazioni di denaro pubblico.
Pertanto, in virtù di tale normativa,
le Amministrazioni pubbliche devono avvalersi, per lo svolgimento delle proprie funzioni, delle risorse dell’apparato istituzionale, potendo derogare a tale regola solamente nei casi di assoluta impossibilità di provvedere con il personale dipendente ed a condizione che tale impossibilità risulti oggettivamente accertata con procedure formali che ne diano motivatamente conto
.
Tali prescrizioni, da rispettare obbligatoriamente al fine di una corretta gestione del capitale umano all’interno della P.A., costituiscono altrettante regole di legittimità dell’azione amministrativa, la cui inosservanza può essere oggetto di sindacato giurisdizionale da parte del Giudice contabile sotto il profilo della ragionevolezza della scelta, non configurandosi, al riguardo, il lamentato travalicamento del limite al sindacato delle scelte discrezionali previsto dall’art. 1, comma 1, della L. n. 20/1994.
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Reputa il Collegio, sulla base di una lettura letterale, logica e sistematica, nonché costituzionalmente orientata (art. 97 Cost.) della disciplina contenuta nella L.P. n. 26/1993, che le Amministrazioni Trentine, nell’espletamento delle funzioni che loro competono, debbano avvalersi, in via prioritaria, del personale tecnico al proprio servizio.

Infatti,
l’art. 20 della L.P. n. 23/1996, concernente l’affidamento degli incarichi di progettazione e di “altre attività tecniche” (tra le quali rientra il frazionamento), nella formulazione applicabile vigente ratione temporis, dispone che tali attività devono essere svolte, anche parzialmente, dal personale dipendente “compatibilmente con la quantità e la qualità di risorse professionali e tecnologiche effettivamente disponibili presso ciascuna struttura”.
Inoltre
la citata norma prevede (art. 20, comma 3) che solo nel caso di interventi tecnici comportanti la “soluzione di complesse questioni tecniche” o di “carenze anche temporanee di organico o di competenze specifiche”, che devono essere “attestate motivatamente dai dirigenti dei servizi”, gli Enti possono avvalersi di professionisti esterni.
Tanto premesso con riguardo al quadro normativo di riferimento,
appare evidente come la richiamata disciplina preveda precisi limiti all’esternalizzazione delle attività tecniche ed obblighi l’Amministrazione a motivare congruamente gli affidamenti esterni, supportando la scelta con una previa istruttoria, compiuta dal settore competente, in ordine alle oggettive carenze di organico, strumentali o alle altre specifiche ragioni che, per legge, possono giustificare la scelta di gravare l’Amministrazione di un costo aggiuntivo per svolgere un’attività rientrante nei compiti di ufficio.
Deve, altresì, rilevarsi come la giurisprudenza contabile abbia, in più occasioni, rimarcato che le lacune procedurali che inficiano gli atti di conferimento di funzioni dell’Ente a soggetti esterni alla P.A., rilevabili per il tramite della motivazione del provvedimento -allorché il Legislatore ponga agli amministratori pubblici determinati vincoli di spesa, ritenendo implicitamente non utili tutte quelle spese che non rispettino i limiti da esso posti- non rappresentano meri vizi con incidenza circoscritta alla sfera di legittimità del provvedimento, ma rendono ingiustificata e, perciò, tendenzialmente dannosa la stessa erogazione di denaro pubblico.
Ciò posto,
osserva il Collegio come la delibera di giunta municipale n. 44/2016 abbia motivato l’affidamento dell’incarico esterno di frazionamento, in ciò confortata dal parere favorevole di regolarità tecnico-amministrativa del responsabile del Settore, con riguardo ad una carenza tecnologica dell’Ufficio Tecnico Comunale (sprovvisto della stazione GPS satellitare) in base, quindi, ad una delle ipotesi astrattamente consentite dalla citata normativa provinciale per l’esternalizzazione del servizio tecnico.
In relazione alle esposte circostanze
non può, pertanto, ravvedersi in capo ai convenuti una condotta posta in essere in violazione degli obblighi di servizio o gravemente colpevole.
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2.1 La fattispecie di responsabilità amministrativa sottoposta all’attenzione del Collegio riguarda un incarico tecnico esterno affidato, secondo la tesi attorea, in violazione dei principi di cui all’art. 7, c. 6, del D.lgs. n. 165/2001.
In particolare il Requirente, nella domanda formulata in via principale, ha contestato ai convenuti –nelle qualità di componenti della Giunta comunale che ha adottato la delibera di conferimento dell’incarico (n. 44/2016) e di Segretario che ne ha avallato la legittimità– di aver cagionato il danno erariale di euro 2.325,71, pari alla spesa sostenuta dal Comune di Cavalese in relazione all’affidamento in favore di un geometra esterno dell’attività di frazionamento (inerente una strada) che avrebbe dovuto essere svolta dal personale assegnato all’U.T.C..
Parte attrice, “solo in via meramente secondaria”, ha riferito il contestato danno anche alla violazione delle regole sulla concorrenza, essendo stato l’incarico affidato a trattativa privata senza un previo confronto concorrenziale.
Avuto riguardo alla contestazione attorea principale, i difensori dei convenuti hanno affermato la conformità della delibera di Giunta comunale alla disciplina provinciale, in quanto al momento dell’adozione del provvedimento sussisteva un oggettivo deficit strumentale nell’ambito dell’Ufficio Tecnico Comunale, tale da giustificare la ragionevole scelta di esternalizzare il servizio, a fronte anche di un ingente spesa, all’incirca di 20.000,00 euro, necessaria per acquistare la particolare apparecchiatura GPS satellitare.
In relazione alla domanda risarcitoria subordinata, le stesse difese hanno poi osservato che la modalità di affidamento senza gara non contrasta con la disciplina provinciale e che la Procura, in ogni caso, non ha provato la sussistenza di un effettivo danno da concorrenza, in un contesto nel quale il professionista incaricato risulta aver operato una riduzione dei compensi rispetto alle previsioni della Tariffa professionale.
2.2 Così sintetizzate le posizioni delle parti, giova ricordare che la normativa di cui al decreto legislativo n. 165/2001 (recante “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”), nel quale è inserita la disposizione di cui all’art. 7, comma 6, richiamata dalla Procura Regionale, rappresenta per le Regioni a Statuto speciale e per le Province Autonome di Trento e di Bolzano una disciplina con “valenza di norme fondamentali di riforma economico sociale” (art. 1, comma 3, D.Lgs. n. 165/2001), con la quale il Legislatore statale ha inteso regolamentare l’organizzazione degli uffici e i rapporti di lavoro e di impiego alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche “tenuto conto delle Autonomie locali e di quelle delle Regioni e delle Province Autonome, nel rispetto dell’art. 97 comma primo della Costituzione”.
E’ opinione condivisa che la ratio dell’art. 7 del D.L.gs. n. 165/2001 -il quale, al comma 4, prevede che le Amministrazioni pubbliche curino la formazione e l’aggiornamento del personale e, al successivo comma 6, regolamenta i limiti entro i quali le Amministrazioni possono conferire incarichi esterni– sia quella di favorire l’efficienza degli Enti pubblici, realizzando la migliore utilizzazione delle risorse umane disponibili negli apparati amministrativi.
Giova, altresì, ricordare come la richiamata disciplina statale sia stata oggetto, nel tempo, di numerosi interventi di modifica che hanno reso sempre più stringenti tali limiti, al fine di prevenire danni all’Erario per spese improduttive o per ingiustificate erogazioni di denaro pubblico. Pertanto, in virtù di tale normativa,
le Amministrazioni pubbliche devono avvalersi, per lo svolgimento delle proprie funzioni, delle risorse dell’apparato istituzionale, potendo derogare a tale regola solamente nei casi di assoluta impossibilità di provvedere con il personale dipendente ed a condizione che tale impossibilità risulti oggettivamente accertata con procedure formali che ne diano motivatamente conto (cfr. ex multis, Corte conti, Sezione Seconda Giurisdizionale Centrale d’Appello n. 291/2012, id. n. 333/2014).
Tali prescrizioni, da rispettare obbligatoriamente al fine di una corretta gestione del capitale umano all’interno della P.A., costituiscono altrettante regole di legittimità dell’azione amministrativa, la cui inosservanza può essere oggetto di sindacato giurisdizionale da parte del Giudice contabile sotto il profilo della ragionevolezza della scelta (cfr. Cass., Sez. un., n. 1378/2006; id. n. 7924/2006; id. n. 4283/2013; id. n. 22228/2016; Corte conti, Sezione di Appello per la Sicilia n. 198/2015; id. Sezione Terza Centrale d’Appello n. 430/2017), non configurandosi, al riguardo, il lamentato travalicamento del limite al sindacato delle scelte discrezionali previsto dall’art. 1, comma 1, della L. n. 20/1994.
2.3 Per quanto riguarda la Provincia Autonoma di Trento va, innanzitutto, rilevato che la generale materia degli incarichi di studio, ricerca, consulenza e collaborazione è disciplinata dal Capo I-bis, della L.P. n. 23/1990 (recante “Disciplina dell’attività contrattuale e dell’amministrazione dei beni della Provincia”).
In particolare, l’art. 39-quater della citata legge dopo aver disposto, al primo comma, che le disposizioni del Capo I-bis disciplinano l’affidamento di incarichi retribuiti a soggetti esterni, finalizzati all’acquisizione di apporti professionali per il miglior perseguimento dei fini istituzionali dell’Amministrazione, ne esclude espressamente l’applicazione per taluni incarichi –quali, ad esempio, quelli della rappresentanza in giudizio e del patrocinio dell’Amministrazione– con la previsione, al quinto comma, che “rimane fermo quanto previsto dalle leggi provinciali per l’affidamento di incarichi per l’esercizio di pubbliche funzioni o per incarichi di pubblico servizio, per l’esecuzione dei lavori pubblici (…)”.
Con riferimento alla specifica materia dei lavori pubblici viene, pertanto, in rilievo anche la disciplina di settore, richiamata dalle difese dei convenuti, di cui alla legge provinciale n. 26/1993, recante “Norme in materia di lavori pubblici di interesse provinciale e per la trasparenza negli appalti”, come modificata dalla L.P. n. 10/2008.
Sotto il profilo ordinamentale, appare di interesse osservare come la citata normativa provinciale sia stata oggetto di vaglio da parte della Corte Costituzionale.
In particolare, la Consulta, nella sentenza n. 45/2010 (dal contenuto parzialmente caducatorio), ha ricordato che l’art. 8, primo comma, n. 17 del D.P.R. n. 670/1972 (Statuto speciale) attribuisce alla Provincia autonoma di Trento una competenza legislativa primaria in alcune materie specificamente enumerate, tra le quali rientra quella dei lavori pubblici di interesse provinciale.
Nell’ambito di tale decisione, il Giudice delle leggi ha osservato che tale potestà legislativa primaria si esplica nei limiti previsti dall’art. 4 dello Statuto e, quindi, in armonia con la Costituzione ed i principi dell’Ordinamento giuridico della Repubblica, con il rispetto degli obblighi internazionali, degli interessi nazionali nonché delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica (i ricordati limiti sono stati richiamati anche nella sentenza n. 187/2013 riguardante la L.P. n. 26/1993 e nella recente decisione n. 191/2017 concernente la materia delle misure di contenimento della spesa pubblica).
Ciò premesso,
reputa il Collegio, sulla base di una lettura letterale, logica e sistematica, nonché costituzionalmente orientata (art. 97 Cost.) della disciplina contenuta nella L.P. n. 26/1993, che le Amministrazioni Trentine, nell’espletamento delle funzioni che loro competono, debbano avvalersi, in via prioritaria, del personale tecnico al proprio servizio.
Infatti,
l’art. 20 della L.P. n. 23/1996, concernente l’affidamento degli incarichi di progettazione e di “altre attività tecniche” (tra le quali rientra il frazionamento), nella formulazione applicabile vigente ratione temporis, dispone che tali attività devono essere svolte, anche parzialmente, dal personale dipendente “compatibilmente con la quantità e la qualità di risorse professionali e tecnologiche effettivamente disponibili presso ciascuna struttura”.
Inoltre
la citata norma prevede (art. 20, comma 3) che solo nel caso di interventi tecnici comportanti la “soluzione di complesse questioni tecniche” o di “carenze anche temporanee di organico o di competenze specifiche”, che devono essere “attestate motivatamente dai dirigenti dei servizi”, gli Enti possono avvalersi di professionisti esterni.
2.4 Tanto premesso con riguardo al quadro normativo di riferimento,
appare evidente come la richiamata disciplina preveda precisi limiti all’esternalizzazione delle attività tecniche ed obblighi l’Amministrazione a motivare congruamente gli affidamenti esterni, supportando la scelta con una previa istruttoria, compiuta dal settore competente, in ordine alle oggettive carenze di organico, strumentali o alle altre specifiche ragioni che, per legge, possono giustificare la scelta di gravare l’Amministrazione di un costo aggiuntivo per svolgere un’attività rientrante nei compiti di ufficio.
Deve, altresì, rilevarsi come la giurisprudenza contabile abbia, in più occasioni, rimarcato che le lacune procedurali che inficiano gli atti di conferimento di funzioni dell’Ente a soggetti esterni alla P.A., rilevabili per il tramite della motivazione del provvedimento -allorché il Legislatore ponga agli amministratori pubblici determinati vincoli di spesa, ritenendo implicitamente non utili tutte quelle spese che non rispettino i limiti da esso posti- non rappresentano meri vizi con incidenza circoscritta alla sfera di legittimità del provvedimento, ma rendono ingiustificata e, perciò, tendenzialmente dannosa la stessa erogazione di denaro pubblico (Corte conti, Sezione Prima Centrale di Appello n. 224/2017; id. Sezione Appello Sicilia n. 48/2017).
Ciò posto,
osserva il Collegio come la delibera di giunta municipale n. 44/2016 abbia motivato l’affidamento dell’incarico esterno di frazionamento, in ciò confortata dal parere favorevole di regolarità tecnico-amministrativa del responsabile del Settore, con riguardo ad una carenza tecnologica dell’Ufficio Tecnico Comunale (sprovvisto della stazione GPS satellitare) in base, quindi, ad una delle ipotesi astrattamente consentite dalla citata normativa provinciale per l’esternalizzazione del servizio tecnico.
In relazione alle esposte circostanze
non può, pertanto, ravvedersi in capo ai convenuti una condotta posta in essere in violazione degli obblighi di servizio o gravemente colpevole.
Né ritiene il Collegio che le evidenze processuali dimostrino che i componenti della Giunta comunale ed il Segretario abbiano mantenuto in un voluto stato di inefficienza organizzativa l’Ufficio Tecnico comunale, secondo quanto affermato dal Pubblico Ministero, non provvedendo all’ordinaria strumentazione di un Ufficio Tecnico di rilevanti dimensioni “in concorso con il responsabile dell’Ufficio Tecnico” al fine di “compiacere la volontà di favorire professionisti esterni”.
Si osserva, in proposito, come la reiterazione degli incarichi nel biennio 2015/2016, enfatizzata dal Requirente, non sia di per sé sufficiente a provare il prospettato “concorso” illecito per favorire soggetti terzi.
Per quanto già evidenziato, deve ritenersi che all’atto dell’assunzione della delibera n. 44/2016, l’Ufficio Tecnico del Comune di Cavalese non fosse, oggettivamente, nelle condizioni di effettuare l’attività di frazionamento della strada non possedendo la necessaria strumentazione. Inoltre, le difese hanno provato –depositando il preventivo di una ditta specializzata– che tale strumentazione aveva un costo particolarmente elevato, di molto superiore a quanto corrisposto al professionista esterno per effettuare il necessario singolo frazionamento e tanto consente di escludere, in assenza di prova contraria da parte della Procura, che la scelta di esternalizzare l’incarico possa configurarsi come irragionevole e, in definitiva, dannosa per l’Ente.
Ciò posto, deve essere respinta la domanda risarcitoria formulata in via principale da parte attrice, con riguardo alla violazione della normativa in materia di incarichi esterni, non sussistendo i presupposti della responsabilità amministrativa dei convenuti.
Né può trovare accoglimento la domanda risarcitoria formulata dal P.M. “in via meramente secondaria”, in relazione al mancato rispetto delle regole della concorrenza, non risultando in alcun modo provata, anche con riguardo a tale prospettazione subordinata, la sussistenza dell’esistenza di un danno erariale.
Conclusivamente, sulla base delle esposte considerazioni, assorbita ogni altra questione e disattesa ogni contraria istanza, deduzione ed eccezione, i convenuti vanno mandati assolti dagli addebiti di responsabilità contestati nell’atto di citazione.
Avuto riguardo al proscioglimento nel merito, il Collegio deve provvedere alla liquidazione delle spese di difesa, ai sensi dell’art. 31, comma 2, del Codice di Giustizia Contabile (D.Lgs. n. 174/2016).
Ai sensi di tale disposizione, con la sentenza che esclude definitivamente la responsabilità amministrativa per accertata insussistenza del danno, ovvero della violazione degli obblighi di servizio, del nesso di causalità, del dolo o della colpa grave, il Giudice non può disporre la compensazione delle spese del giudizio e deve liquidare, a carico dell’Amministrazione di appartenenza, l’ammontare degli onorari e dei diritti spettanti alla difesa.
Sulla base della citata norma, esaminati gli atti di causa e facendo applicazione dei parametri contenuti nel D.M. n. 55/2014 (“Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense”) si quantificano le spese legali, da porre a carico del Comune di Cavalese, in favore della difesa del convenuto Gi.Ma. nell’importo di euro 270,00 per compensi oltre spese generali (15%), c.n.p.a. e I.V.A nonché in favore della difesa, unitariamente considerata, degli altri convenuti We.Si., Gi.Pa., Va.Gi., Va.Ma. e Va.Or., nell’importo complessivo di euro 486,00 per compensi oltre spese generali (15%), c.n.p.a. e I.V.A .
PER QUESTI MOTIVI
la Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale per il Trentino Alto Adige/Südtirol - sede di Trento, definitivamente pronunciando, assolve i convenuti We.Si., Gi.Pa., Va.Gi., Va.Or., Va.Ma. e Gi.Ma. (Corte dei Conti, Sez. giursidiz. Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 21.09.2018 n. 35).

CONSIGLIERI COMUNALI - INCARICHI PROFESSIONALI - SEGRETARI COMUNALI: Sussiste la responsabilità per danno erariale nel caso di affidamento, a professionista esterno all’amministrazione, di un incarico di direzione lavori e di coordinamento della sicurezza in fase esecutiva n assenza di adeguata e congrua motivazione che esponga in termini puntuali le ragioni per le quali risulta l’impossibilità di utilizzo del personale interno o dell’attrezzatura necessaria.
E’ opinione condivisa che la ratio dell’art. 7 del D.L.gs. n. 165/2001 -il quale, al comma 4, prevede che le Amministrazioni pubbliche curino la formazione e l’aggiornamento del personale e, al successivo comma 6, regolamenta i limiti entro i quali le Amministrazioni possono conferire incarichi esterni– sia quella di favorire l’efficienza degli Enti pubblici, realizzando la migliore utilizzazione delle risorse umane disponibili negli apparati amministrativi.
Giova, altresì, ricordare come la richiamata disciplina statale sia stata oggetto, nel tempo, di numerosi interventi di modifica che hanno reso sempre più stringenti tali limiti, al fine di prevenire danni all’Erario per spese improduttive o per ingiustificate erogazioni di denaro pubblico.
Pertanto, in virtù di tale normativa,
le Amministrazioni pubbliche devono avvalersi, per lo svolgimento delle proprie funzioni, delle risorse dell’apparato istituzionale, potendo derogare a tale regola solamente nei casi di assoluta impossibilità di provvedere con il personale dipendente ed a condizione che tale circostanza risulti oggettivamente accertata con procedure formali che ne diano motivatamente conto
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Tali prescrizioni, da rispettare obbligatoriamente al fine di una corretta gestione del capitale umano all’interno della P.A., costituiscono altrettante regole di legittimità dell’azione amministrativa, la cui inosservanza può essere oggetto di sindacato giurisdizionale da parte del Giudice contabile sotto il profilo della ragionevolezza della scelta, non configurandosi, al riguardo, il lamentato travalicamento del limite al sindacato delle scelte discrezionali previsto dall’art. 1, comma 1, della L. n. 20/1994.
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Reputa il Collegio, sulla base di una lettura letterale, logica e sistematica, nonché costituzionalmente orientata (art. 97 Cost.) della disciplina contenuta nella L.P. n. 26/1993, che le Amministrazioni Trentine, nell’espletamento delle funzioni che loro competono, debbano avvalersi, in via prioritaria, del personale tecnico al proprio servizio.

Infatti,
l’art. 22 della L.P. n. 26/1993 (recante “incarichi di direzione lavori”), nella formulazione applicabile e vigente ratione temporis, dispone(comma 2) che “la direzione lavori è di norma affidata ai competenti servizi tecnici delle Amministrazioni aggiudicatrici in possesso delle necessarie professionalità”, soggiungendo (comma 5) che “la direzione dei lavori può essere costituita anche nella forma del gruppo misto di direzione formato da dipendenti dell’Amministrazione e da professionisti esterni”.
Deve aggiungersi che
la normativa in riferimento prevede, in forza del richiamo contenuto nel citato art. 22 (terzo comma) alla disposizione di cui all’art. 20 (terzo comma) della medesima L.P. n. 23/1996, solo nel caso “di interventi comportanti la soluzione di complesse questioni tecniche” ovvero “in caso di esigenze organizzative delle Amministrazioni aggiudicatrici determinate da carenze anche temporanee di organico o di competenze specifiche, attestate motivatamente dai dirigenti dei servizi competenti d’intesa con il dirigente generale” la possibilità di avvalersi, anche parzialmente, di soggetti di riconosciuta e specifica competenza.
In definitiva,
solamente in presenza di comprovate carenze organizzative, da attestarsi, motivatamente, dai dirigenti dei servizi, l’Amministrazione può avvalersi di professionisti esterni, eventualmente costituendo una direzione lavori nella forma del gruppo misto di direzione, di cui all’art. 22 cit., o, nell’ipotesi non sussistano i presupposti per tale soluzione intermedia, esternalizzando totalmente l’incarico.
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Tanto premesso con riguardo al quadro normativo di riferimento, appare evidente come la richiamata disciplina preveda precisi limiti all’esternalizzazione delle attività tecniche ed obblighi l’Amministrazione a motivare congruamente gli affidamenti esterni, supportando la scelta con una previa istruttoria, compiuta dal settore competente, in ordine alle oggettive carenze di organico, strumentali o alle altre specifiche ragioni che, per legge, possono giustificare la scelta di gravare l’Amministrazione di un costo aggiuntivo per svolgere un’attività rientrante nei compiti di ufficio.
Deve, altresì, rilevarsi come la giurisprudenza contabile abbia, in più occasioni, rimarcato che le lacune procedurali che inficiano gli atti di conferimento di funzioni dell’Ente a soggetti esterni alla P.A., rilevabili per il tramite della carenza della motivazione del provvedimento -allorché il Legislatore ponga agli amministratori pubblici determinati vincoli di spesa, ritenendo implicitamente non utili tutte quelle spese che non rispettino i limiti da esso posti- non rappresentano meri vizi, con incidenza circoscritta alla sfera di legittimità del provvedimento, ma rendono ingiustificata e, perciò, tendenzialmente dannosa la stessa erogazione di denaro pubblico.
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Sul punto giova ricordare la diversità dei compiti assegnati alle figure del direttore dei lavori e del coordinatore della sicurezza, considerato che il primo è preposto alla direzione ed al controllo tecnico, contabile e amministrativo dell’esecuzione dell’intervento mentre il secondo è tenuto a verificare durante la realizzazione dell’opera, ex art. 92, comma 1, del D.lgs. n. 81/2008, l’idoneità del Piano di Sicurezza e la corretta applicazione delle relative procedure di lavoro, a controllare che le imprese esecutrici adeguino i rispettivi piani operativi, segnalando al committente ed al responsabile dei lavori le eventuali inosservanze nonché sospendendo i lavori in caso di pericolo grave ed imminente.
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La questione dedotta in giudizio integra la fattispecie esaminata dalla citata giurisprudenza, ovvero il caso di una delibera assunta in assenza di qualsiasi congrua motivazione rispetto ai vincoli espressamente previsti dal Legislatore per il conferimento di incarichi esterni.

Oltre all’indiscutibile illegittimità della delibera, e conseguente antigiuridicità della condotta dei convenuti, risulta altresì provata in atti la concreta dannosità della scelta di gravare l’Amministrazione di costi indebiti, rinunciando ad avvalersi, anche parzialmente, come consentito dalla L.P. n. 26/1993, delle prestazioni lavorative dei numerosi e qualificati dipendenti in servizio presso l’Ufficio Tecnico.
Sicché,
devono ritenersi integrati i presupposti della responsabilità amministrativa dei convenuti.
In primo luogo,
non appare revocabile in dubbio che la condotta dei componenti della Giunta comunale e dal Segretario comunale sia stata gravemente lesiva degli obblighi di servizio, contrastando non solo con la chiara normativa in materia di conferimento di incarichi esterni nell’ambito dei lavori pubblici, ma anche con il generale criterio dell’autosufficienza dell’organizzazione amministrativa e, in definitiva, con i principi di efficienza, efficacia ed economicità nonché di legalità e buon andamento dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.).
La violazione di tali basilari principi, sotto il profilo dell’elemento soggettivo, costituisce indice sintomatico di grave trascuratezza, negligenza ed imperizia nell’esercizio delle funzioni demandate agli amministratori comunali oltre che al segretario comunale, cui spetta il compito di vigilare sulla legittimità dell’azione amministrativa.

La totale mancanza di una motivazione che potesse giustificare l’affidamento dell’incarico esterno consente, invece, di ritenere provato l’elemento psicologico della colpa grave in capo ai convenuti, reso evidente dalla superficialità con la quale è stata disposta, in palese violazione degli obblighi di servizio e della normativa di riferimento, una rilevante spesa gravante sul bilancio comunale senza il preventivo accertamento dell’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane interne.
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2.1 La fattispecie di responsabilità amministrativa sottoposta all’attenzione del Collegio riguarda un incarico tecnico esterno affidato, secondo la tesi attorea, in violazione dell’art. 7, comma 6, del D.lgs. n. 165/2001.

In particolare il Requirente, nella domanda formulata in via principale, ha contestato ai convenuti -nelle qualità di componenti della Giunta comunale che ha adottato la delibera di conferimento dell’incarico (n. 19/2016) e di Segretario che ne ha avallato la legittimità- di aver cagionato il danno erariale di euro 17.472,02, pari alla spesa sostenuta dal Comune di Cavalese in relazione all’affidamento in favore di un geometra esterno della direzione lavori e del coordinamento della sicurezza in fase esecutiva delle opere concernenti la realizzazione di un nuovo tratto di fognatura comunale (in località Salanzada), che avrebbe dovuto essere svolto dal personale assegnato all’U.T.C..
Parte attrice, solo in “via meramente secondaria”, ha riferito il contestato danno alla violazione delle regole sulla concorrenza, essendo stato l’incarico affidato a trattativa privata senza previo confronto concorrenziale.
Avuto riguardo alla contestazione attorea principale, i difensori dei convenuti hanno affermato la conformità della delibera di Giunta comunale alla disciplina provinciale, in quanto al momento dell’adozione della stessa sussisteva un deficit organizzativo e strumentale, nell’ambito dell’Ufficio Tecnico Comunale, tale da giustificare la scelta di esternalizzare il servizio.
In relazione alla domanda risarcitoria subordinata, le stesse difese hanno poi osservato che la modalità di affidamento senza gara non contrasta con la disciplina provinciale e che la Procura, in ogni caso, non ha provato la sussistenza di un effettivo danno da concorrenza, in un contesto nel quale il professionista incaricato risulta aver operato una riduzione dei compensi rispetto alle previsioni della Tariffa professionale.
2.2 Così sintetizzate le posizioni delle parti, giova ricordare che la normativa di cui al decreto legislativo n. 165/2001 (recante “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”), nel quale è inserita la disposizione di cui all’art. 7, comma 6, richiamata dalla Procura Regionale, rappresenta per le Regioni a Statuto speciale e per le Province Autonome di Trento e di Bolzano una disciplina con “valenza di norme fondamentali di riforma economico sociale” (art. 1, comma 3, D.Lgs. n. 165/2001), con la quale il Legislatore statale ha inteso regolamentare l’organizzazione degli uffici e i rapporti di lavoro e di impiego alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche “tenuto conto delle Autonomie locali e di quelle delle Regioni e delle Province Autonome, nel rispetto dell’art. 97 comma primo della Costituzione”.
E’ opinione condivisa che la ratio dell’art. 7 del D.L.gs. n. 165/2001 -il quale, al comma 4, prevede che le Amministrazioni pubbliche curino la formazione e l’aggiornamento del personale e, al successivo comma 6, regolamenta i limiti entro i quali le Amministrazioni possono conferire incarichi esterni– sia quella di favorire l’efficienza degli Enti pubblici, realizzando la migliore utilizzazione delle risorse umane disponibili negli apparati amministrativi.
Giova, altresì, ricordare come la richiamata disciplina statale sia stata oggetto, nel tempo, di numerosi interventi di modifica che hanno reso sempre più stringenti tali limiti, al fine di prevenire danni all’Erario per spese improduttive o per ingiustificate erogazioni di denaro pubblico. Pertanto, in virtù di tale normativa,
le Amministrazioni pubbliche devono avvalersi, per lo svolgimento delle proprie funzioni, delle risorse dell’apparato istituzionale, potendo derogare a tale regola solamente nei casi di assoluta impossibilità di provvedere con il personale dipendente ed a condizione che tale circostanza risulti oggettivamente accertata con procedure formali che ne diano motivatamente conto (cfr. ex multis, Corte conti, Sezione Seconda Giurisdizionale Centrale d’Appello n. 291/2012, id. n. 333/2014).
Tali prescrizioni, da rispettare obbligatoriamente al fine di una corretta gestione del capitale umano all’interno della P.A., costituiscono altrettante regole di legittimità dell’azione amministrativa, la cui inosservanza può essere oggetto di sindacato giurisdizionale da parte del Giudice contabile sotto il profilo della ragionevolezza della scelta (cfr. Cass., Sez. un., n. 1378/2006; id. n. 7924/2006; id. n. 4283/2013; id. n. 22228/2016; Corte conti, Sezione di Appello per la Sicilia n. 198/2015; id. Sezione Terza Centrale d’Appello n. 430/2017), non configurandosi, al riguardo, il lamentato travalicamento del limite al sindacato delle scelte discrezionali previsto dall’art. 1, comma 1, della L. n. 20/1994.
2.3 Per quanto riguarda la Provincia Autonoma di Trento va, innanzi tutto, rilevato che la generale materia degli incarichi di studio, ricerca, consulenza e collaborazione è disciplinata dal Capo I-bis, della L.P. n. 23/1990 (recante “Disciplina dell’attività contrattuale e dell’amministrazione dei beni della Provincia”).
In particolare, l’art. 39-quater della citata legge dopo aver disposto, al primo comma, che le disposizioni del Capo I-bis disciplinano l’affidamento di incarichi retribuiti a soggetti esterni, finalizzati all’acquisizione di apporti professionali per il miglior perseguimento dei fini istituzionali dell’Amministrazione, ne esclude espressamente l’applicazione per taluni incarichi –quali, ad esempio, quelli della rappresentanza in giudizio e del patrocinio dell’Amministrazione– con la previsione, al quinto comma, che “rimane fermo quanto previsto dalle leggi provinciali per l’affidamento di incarichi per l’esercizio di pubbliche funzioni o per incarichi di pubblico servizio, per l’esecuzione dei lavori pubblici (…)”.
Con riferimento alla specifica materia dei lavori pubblici viene, pertanto, in rilievo anche la disciplina di settore, richiamata dalle difese dei convenuti, di cui alla legge provinciale n. 26/1993, recante “Norme in materia di lavori pubblici di interesse provinciale e per la trasparenza negli appalti”, come modificata dalla L.P. n. 10/2008.
Sotto il profilo ordinamentale, appare di interesse osservare come la citata normativa provinciale sia stata oggetto di vaglio da parte della Corte Costituzionale.
In particolare, la Consulta, nella sentenza n. 45/2010 (dal contenuto parzialmente caducatorio), ha ricordato che l’art. 8, primo comma, n. 17 del D.P.R. n. 670/1972 (Statuto speciale) attribuisce alla Provincia autonoma di Trento una competenza legislativa primaria in alcune materie specificamente enumerate, tra le quali rientra quella dei lavori pubblici di interesse provinciale.
Nell’ambito di tale decisione, il Giudice delle leggi ha osservato che tale potestà legislativa primaria si esplica nei limiti previsti dall’art. 4 dello Statuto e, quindi, in armonia con la Costituzione ed i principi dell’Ordinamento giuridico della Repubblica, con il rispetto degli obblighi internazionali, degli interessi nazionali nonché delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica (i ricordati limiti sono stati richiamati anche nella sentenza n. 187/2013 riguardante la L.P. n. 26/1993 e nella recente decisione n. 191/2017 concernente la materia delle misure di contenimento della spesa pubblica).
Ciò premesso,
reputa il Collegio, sulla base di una lettura letterale, logica e sistematica, nonché costituzionalmente orientata (art. 97 Cost.) della disciplina contenuta nella L.P. n. 26/1993, che le Amministrazioni Trentine, nell’espletamento delle funzioni che loro competono, debbano avvalersi, in via prioritaria, del personale tecnico al proprio servizio.
Infatti,
l’art. 22 della L.P. n. 26/1993 (recante “incarichi di direzione lavori”), nella formulazione applicabile e vigente ratione temporis, dispone(comma 2) che “la direzione lavori è di norma affidata ai competenti servizi tecnici delle Amministrazioni aggiudicatrici in possesso delle necessarie professionalità”, soggiungendo (comma 5) che “la direzione dei lavori può essere costituita anche nella forma del gruppo misto di direzione formato da dipendenti dell’Amministrazione e da professionisti esterni”.
Deve aggiungersi che
la normativa in riferimento prevede, in forza del richiamo contenuto nel citato art. 22 (terzo comma) alla disposizione di cui all’art. 20 (terzo comma) della medesima L.P. n. 23/1996, solo nel caso “di interventi comportanti la soluzione di complesse questioni tecniche” ovvero “in caso di esigenze organizzative delle Amministrazioni aggiudicatrici determinate da carenze anche temporanee di organico o di competenze specifiche, attestate motivatamente dai dirigenti dei servizi competenti d’intesa con il dirigente generale” la possibilità di avvalersi, anche parzialmente, di soggetti di riconosciuta e specifica competenza.
In definitiva,
solamente in presenza di comprovate carenze organizzative, da attestarsi, motivatamente, dai dirigenti dei servizi, l’Amministrazione può avvalersi di professionisti esterni, eventualmente costituendo una direzione lavori nella forma del gruppo misto di direzione, di cui all’art. 22 cit., o, nell’ipotesi non sussistano i presupposti per tale soluzione intermedia, esternalizzando totalmente l’incarico.
Va, poi, evidenziato come la normativa provinciale di cui alla L.P. n. 26/1993 all’art. 22, comma 6, preveda la possibilità sia di tenere unite che di separare le funzioni di direzione lavori e di coordinamento della sicurezza (mentre la successiva L.P. n. 2 del 09.03.2016, all’art. 10, recante “disposizioni per la progettazione e gli incarichi relativi all’architettura e all’ingegneria”, opta per una tendenziale separazione prevedendo che “gli incarichi di coordinatore per la sicurezza sono affidati ad un soggetto diverso dal progettista e dal direttore dei lavori, a meno che il responsabile del procedimento non ritenga opportuna la coincidenza tra queste due figure”).
Sul punto
giova ricordare la diversità dei compiti assegnati alle figure del direttore dei lavori e del coordinatore della sicurezza, considerato che il primo è preposto alla direzione ed al controllo tecnico, contabile e amministrativo dell’esecuzione dell’intervento mentre il secondo è tenuto a verificare durante la realizzazione dell’opera, ex art. 92, comma 1, del D.lgs. n. 81/2008, l’idoneità del Piano di Sicurezza e la corretta applicazione delle relative procedure di lavoro, a controllare che le imprese esecutrici adeguino i rispettivi piani operativi, segnalando al committente ed al responsabile dei lavori le eventuali inosservanze nonché sospendendo i lavori in caso di pericolo grave ed imminente.
2.4 Tanto premesso con riguardo al quadro normativo di riferimento,
appare evidente come la richiamata disciplina preveda precisi limiti all’esternalizzazione delle attività tecniche ed obblighi l’Amministrazione a motivare congruamente gli affidamenti esterni, supportando la scelta con una previa istruttoria, compiuta dal settore competente, in ordine alle oggettive carenze di organico, strumentali o alle altre specifiche ragioni che, per legge, possono giustificare la scelta di gravare l’Amministrazione di un costo aggiuntivo per svolgere un’attività rientrante nei compiti di ufficio.
Deve, altresì, rilevarsi come la giurisprudenza contabile abbia, in più occasioni, rimarcato che le lacune procedurali che inficiano gli atti di conferimento di funzioni dell’Ente a soggetti esterni alla P.A., rilevabili per il tramite della carenza della motivazione del provvedimento -allorché il Legislatore ponga agli amministratori pubblici determinati vincoli di spesa, ritenendo implicitamente non utili tutte quelle spese che non rispettino i limiti da esso posti- non rappresentano meri vizi, con incidenza circoscritta alla sfera di legittimità del provvedimento, ma rendono ingiustificata e, perciò, tendenzialmente dannosa la stessa erogazione di denaro pubblico (Corte conti, Sezione Prima Centrale di Appello n. 224/2017; id. Sezione Appello Sicilia n. 48/2017).
Ciò posto, osserva il Collegio come la delibera di Giunta municipale n. 19/2016 -votata dai convenuti We.Si., Se.Si., Gi.Pa., Va.Gi., Va.Or., Va.Ma. e la cui legittimità è stata avallata dal Segretario comunale dott. Gi.- non rechi alcuna motivazione, così come invece previsto dalla stessa L.P. n. 26/1993, in ordine all’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse interne dell’Ufficio Tecnico Comunale, risultando del tutto inconferente la circostanza, evidenziata nella parte motiva del provvedimento, che il geometra cui veniva affidato la direzione lavori ed il coordinamento della sicurezza avesse già redatto la progettazione esecutiva dell’opera in base ad un precedente incarico.
Pertanto,
la questione dedotta in giudizio integra la fattispecie esaminata dalla citata giurisprudenza, ovvero il caso di una delibera assunta in assenza di qualsiasi congrua motivazione rispetto ai vincoli espressamente previsti dal Legislatore per il conferimento di incarichi esterni.
Oltre all’indiscutibile illegittimità della delibera, e conseguente antigiuridicità della condotta dei convenuti, risulta altresì provata in atti la concreta dannosità della scelta di gravare l’Amministrazione di costi indebiti, rinunciando ad avvalersi, anche parzialmente, come consentito dalla L.P. n. 26/1993, delle prestazioni lavorative dei numerosi e qualificati dipendenti in servizio presso l’Ufficio Tecnico.
Giova, in proposito, ricordare come nei compiti ordinari di tali dipendenti rientrasse, in base alle stesse indicazioni contenute nel P.E.G. (cfr. punto E.1/Adempimenti amministrativi e tecnici) l’attività relativa al “progettare/dirigere e controllare sotto il profilo della sicurezza le opere di competenza dell’Ufficio secondo le indicazioni dell’Amministrazione”.
Al fine di provare, in giudizio, la pretesa impossibilità del personale interno di svolgere le ricordate funzioni ordinarie, i convenuti hanno prodotto le dichiarazioni rese, in data 27/09/2017, dai dipendenti dell’Ufficio Tecnico.
Questi ultimi hanno riferito, in particolare, di non disporre dell’apparecchiatura necessaria per verificare l’inclinazione delle tubature e di non aver avuto il “tempo necessario” per occuparsi della prestazione esternalizzata, in quanto tale attività li avrebbe distolti “dalle incombenze ordinarie”. Inoltre, hanno dichiarato di non aver mai acquisito le certificazioni in materia di sicurezza.
Rileva il Collegio come in tali dichiarazioni non siano state indicate dettagliatamente né le altre incombenze asseritamente preclusive dell’espletamento delle mansioni rientranti negli ordinari compiti dell’Ufficio Tecnico, né il costo dell’attrezzatura mancante, né tanto meno l’incidenza dell’utilizzo di tale strumentazione nell’ambito dell’attività esternalizzata.
Con riguardo, poi, alla dichiarazione dei dipendenti concernente la mancanza, all’atto dell’assunzione della delibera n. 19/2016, dei requisiti per svolgere il ruolo di Coordinatore della sicurezza, di cui all’art. 98 del Dlgs n. 81/2008 -non avendo i dipendenti dell’U.T.C. mai frequentato i previsti corsi e, quindi, acquisito la necessaria certificazione- deve rilevarsi come tale carenza non precludesse, vista la possibilità di separare le funzioni di D.L. e di Coordinatore della sicurezza, di affidare ad almeno uno dei numerosi professionisti interni (tre geometri ed un architetto), l’attività di direzione lavori.
In ragione di quanto innanzi esposto,
devono ritenersi integrati i presupposti della responsabilità amministrativa dei convenuti.
In primo luogo,
non appare revocabile in dubbio che la condotta dei componenti della Giunta comunale e dal Segretario comunale sia stata gravemente lesiva degli obblighi di servizio, contrastando non solo con la chiara normativa in materia di conferimento di incarichi esterni nell’ambito dei lavori pubblici, ma anche con il generale criterio dell’autosufficienza dell’organizzazione amministrativa e, in definitiva, con i principi di efficienza, efficacia ed economicità nonché di legalità e buon andamento dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.).
La violazione di tali basilari principi, sotto il profilo dell’elemento soggettivo, costituisce indice sintomatico di grave trascuratezza, negligenza ed imperizia nell’esercizio delle funzioni demandate agli amministratori comunali oltre che al segretario comunale, cui spetta il compito di vigilare sulla legittimità dell’azione amministrativa.

Non ritiene, invece, il Collegio che le evidenze processuali dimostrino che i componenti della Giunta comunale ed il Segretario abbiano mantenuto in un voluto stato di inefficienza organizzativa l’Ufficio Tecnico comunale e che, in particolare, secondo quanto affermato dal Pubblico Ministero, “la mancata acquisizione (…) dell’attestato inerente al coordinamento sicurezza (benché normale bagaglio del geometra professionista) risponda alla precisa volontà dell’Amministrazione di favorire professionisti esterni (con la connivenza delle risorse interne dell’Ufficio Tecnico Comunale)”.
Si osserva, in proposito, come la reiterazione degli incarichi nel biennio 2015/2016, enfatizzata dal Requirente, non sia di per sé sufficiente a provare il prospettato “concorso” illecito volto a favorire soggetti terzi.
La totale mancanza di una motivazione che potesse giustificare l’affidamento dell’incarico esterno consente, invece, di ritenere provato l’elemento psicologico della colpa grave in capo ai convenuti, reso evidente dalla superficialità con la quale è stata disposta, in palese violazione degli obblighi di servizio e della normativa di riferimento, una rilevante spesa gravante sul bilancio comunale senza il preventivo accertamento dell’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane interne.
Tale circostanza risulta evidenziata nella stessa relazione del dirigente del Servizio Autonomie Locali della Provincia Autonoma di Trento ed è accennata anche nelle dichiarazioni rese innanzi al P.M, in data 24/10/2017, dal consigliere comunale che ha dato avvio, con il proprio esposto, all’indagine della Procura contabile.
Reputa il Collegio che quest’ultima acquisizione istruttoria, contrariamente a quanto sostenuto dalle parti convenute, sia stata ritualmente assunta dalla Procura Regionale in piena osservanza dell’art. 67, settimo comma, del Codice di Giustizia Contabile. Disposizione, quest’ultima, che consente all’Inquirente di svolgere attività istruttoria anche successivamente all’invito a dedurre nel caso in cui, come nella fattispecie in esame, vi sia stata la necessità di compiere accertamenti su ulteriori elementi di fatto emersi a seguito delle controdeduzioni.
Vanno pertanto respinte le eccezioni delle difese in ordine all’inutilizzabilità di tale atto istruttorio, dovendo altresì rilevarsi come il contenuto di tali dichiarazioni non risulti, peraltro, determinante al fine del decidere, emergendo per tabulas l’illegittimità della delibera di Giunta.
2.5 Non è poi revocabile in dubbio il danno subito dal Comune di Cavalese che, in esecuzione dell’illegittima delibera n. 19/2016, ha sostenuto, per remunerare il professionista esterno, la complessiva spesa di euro 17.472,02, di cui euro 13.057,98 per la direzione lavori ed euro 4.414,04 per l’attività di coordinamento della sicurezza.
Ai fini della misura del risarcimento eziologicamente imputabile alla condotta dei convenuti ritiene poi il Collegio, per le considerazioni che si andranno di seguito ad esporre, di addivenire ad una minore quantificazione rispetto al petitum richiesto da parte attrice.
Giova, al riguardo, premettere che
nel giudizio di responsabilità amministrativa, ove si tratti di responsabilità per colpa grave, la natura personale e parziaria dell’obbligazione risarcitoria consente al Giudice di tener conto di eventuali comportamenti concorrenti di soggetti estranei al giudizio che costituendo, anche in parte, il motivo dell’insorgenza del nocumento lamentato dall’Amministrazione riducano la responsabilità del convenuto (Corte conti, Sezione Prima Centrale d’Appello n. 435/2015; id. Sezione Seconda Centrale d’Appello n. 156/2013; id. Sezione Terza Centrale d’Appello n. 156/2010).
Sostanzialmente ricognitiva di tale orientamento giurisprudenziale risulta la disposizione di cui all’art. 83 del Codice di Giustizia Contabile (D.L.gs. n. 174/2016) che, pur vietando la chiamata in giudizio su ordine del Giudice, gli consente di eseguire un accertamento incidentale su eventuali condotte concausali, ai soli fini dell’esatta determinazione delle quote di danno da porre a carico dei soggetti evocati in giudizio, con l’ulteriore previsione, nei casi in cui emergano fatti nuovi rispetto a quelli posti a base dell’atto introduttivo -circostanza, quest’ultima non concretatasi nel caso di specie- della trasmissione degli atti al P.M.
Nello specifico, il danno azionato in via principale da parte attrice appare il frutto del concorso di diverse responsabilità imputabili ai vari organi dell’Ente, tra le quali vanno considerate anche quelle riferibili alle evidenti disfunzioni organizzative presenti nell’Ufficio Tecnico Comunale.
A tal proposito è significativo rilevare come nessuno dei dipendenti in servizio presso tale Ufficio, in possesso dei prescritti requisiti (diploma di geometra o di laurea in architettura), abbia mai partecipato ai corsi necessari a conseguire le certificazioni in materia di coordinamento della sicurezza dei lavori pubblici, nonostante nei compiti ordinari degli stessi rientrasse quello di “controllare sotto il profilo della sicurezza le opere di competenza dell’Ufficio secondo le indicazioni dell’Amministrazione” (cfr. PEG 2015 e 2016).
A tale carenza della formazione del personale, con riguardo al delicato e rilevante settore della sicurezza delle opere comunali, così come con riferimento alla generale efficienza del Settore, avrebbero dovuto porre cura e rimedio, in primo luogo, i responsabili dell’Ufficio Tecnico.
Oltre che del cennato contributo causale da parte di soggetti estranei al giudizio, ai fini della corretta imputazione del danno ai convenuti, reputa il Collegio di considerare anche la parziale utilitas conseguita dall’Amministrazione danneggiata in relazione allo svolgimento dell’attività concernente il coordinamento della sicurezza dei lavori, remunerata al geometra incaricato con l’importo di euro 4.414,04, che i dipendenti dell’Ufficio Tecnico, oggettivamente, non potevano svolgere in relazione al provato mancato conseguimento delle necessarie certificazioni previste dall’art. 98 del D.Lgs. n. 81/2008.
Come evidenziato da recente giurisprudenza del Giudice di appello, con la norma di cui all’art. 1, comma 1-bis. della legge n. 20/1994 –secondo la quale “
nel giudizio di responsabilità, fermo restando il potere di riduzione, deve tenersi conto dei vantaggi comunque conseguiti dall’amministrazione di appartenenza o da altra amministrazione, o dalla comunità amministrata, in relazione al comportamento degli amministratori o dei dipendenti pubblici soggetti al giudizio di responsabilità”- il Legislatore ha inteso affermare la natura sostanziale, e non meramente formale, della responsabilità amministrativa, sicché il Giudice contabile non può “denegare l’ingresso alla valutazione dei vantaggi conseguiti dall’Amministrazione sul presupposto dell’illegittimità delle condotte, poiché trattasi di un ragionamento tautologico, che esclude l’inequivoca applicazione dell’art. 1-1-bis della legge n. 20 del 1994 (cfr. Sezione Prima Centrale d’Appello n. 508/2017).
Ciò posto, in accoglimento della domanda risarcitoria formulata in via principale dal Pubblico Ministero -e ritenuta assorbita la domanda subordinata prospettata dal Requirente “solo in via meramente secondaria” con riferimento al danno alla concorrenza (da ritenersi, quest’ultimo, non provato)- reputa il Collegio che il danno imputabile alle condotte gravemente colpevoli dei convenuti, con riguardo al nocumento derivato al bilancio del Comune di Cavalese per la violazione della normativa in materia di incarichi esterni, debba limitarsi, per le ragioni innanzi esposte (concorso causale nel danno da parte di soggetti estranei al giudizio e parziale utilitas conseguita dal Comune) alla quota del 50% del richiesto importo di condanna.
Non sussistono, invece, i presupposti per l’applicazione del generale potere riduttivo, in relazione all’evidente gravità delle condotte, per la macroscopica violazione delle procedure di legge concernenti l’esternalizzazione degli incarichi.
Conclusivamente, disattesa ogni contraria istanza, deduzione ed eccezione, deve disporsi la condanna dei convenuti al pagamento, in favore del Comune di Cavalese, del complessivo importo di euro 8.736,00 (ottomilasettecentotrentasei/00), da suddividersi in parti uguali fra gli stessi (per un settimo ciascuno, ovvero euro 1248,00 a carico di ogni convenuto). Tale importo va maggiorato della rivalutazione monetaria dalla data dell’indebito esborso (di cui al mandato di pagamento n. 1051 del 06/04/2017) sino alla pubblicazione della sentenza e degli interessi legali, sulla sorte capitale rivalutata, da quest’ultima data all’effettivo soddisfo.
In ragione della soccombenza in giudizio, i convenuti sono condannati al pagamento, in solido, delle spese di giudizio in favore dello Stato nella misura determinata in dispositivo.
In ordine alle statuizioni di condanna nei confronti dei convenuti si ordina, a cura della Segreteria, la spedizione di copia della presente sentenza in forma esecutiva all’ufficio del P.M., ai sensi dell’art. 212 del Codice di Giustizia Contabile (D.Lgs. n. 174/2016), per gli ulteriori incombenti di sua competenza di cui agli artt. 213 e seguenti C.G.C.
PER QUESTI MOTIVI
la Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale per il Trentino Alto Adige/Südtirol - sede di Trento, definitivamente pronunciando, condanna i convenuti We.Si., Se.Si., Gi.Pa., Va.Gi., Va.Or., Va.Ma. e Gi.Ma. al pagamento, da suddividersi in parti uguali fra gli stessi, della complessiva somma di euro 8.736,00 (ottomilasettecentotrentasei/00) in favore del Comune di Cavalese, oltre rivalutazione monetaria, per come in motivazione, ed interessi legali dalla pubblicazione della sentenza all’effettivo soddisfo e, per l’effetto, li condanna in solido al pagamento delle spese di giudizio in favore dello Stato, che sono liquidate in euro 1.083,36 (euro milleottantatre/36) (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 21.09.2018 n. 34).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Gruppi, decidono gli enti. Se possano essere costituiti da un consigliere. La materia è interamente demandata all’autonomia comunale.
La disciplina prevista dal regolamento sul funzionamento del consiglio comunale può condizionare la possibilità di costituire il gruppo misto alla circostanza che lo stesso sia composto da almeno due consiglieri, con ciò impedendo la formazione del gruppo misto monopersonale?
L'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente prevista dalla legge e la relativa materia è regolata dalle norme statutarie e regolamentari dei singoli enti locali.
In materia, il ministero dell'interno ha già avuto modo di esprimere l'orientamento, peraltro confermato, secondo cui, «in assenza di disposizioni che escludano espressamente la possibilità di istituire il gruppo misto anche con la partecipazione di un unico componente, si potrebbe accedere a un'interpretazione delle fonti di autonomia locale orientata alla valorizzazione dei diritti dei singoli di poter aderire a un gruppo consiliare».
Nel caso di specie, però, il regolamento del consiglio comunale vieta espressamente la possibilità di costituire il gruppo misto unipersonale e, pertanto, va da sé che l'avviso espresso in altra circostanza non può essere adattato al diverso contesto normativo in vigore nel comune in oggetto.
In merito, appare utile richiamare le osservazioni formulate dal Consiglio di stato con sentenza n. 3357 del 2010, in base alle quali, una volta adottato il regolamento recante le norme sul funzionamento del consiglio comunale, queste ultime non possono essere disapplicate se non previo ritiro.
Pertanto, poiché la materia dei gruppi consiliari è interamente demandata alla competenza delle fonti di autonomia locale, è in tale ambito che potrà essere valutata l'opportunità di adottare apposite modifiche alla normativa in questione
(articolo ItaliaOggi del 21.09.2018).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Il tricolore è del sindaco. Il consigliere non può indossare la fascia. Non è prevista l’istituzione di un distintivo per i componenti dell’assemblea.
I consiglieri comunali possono dotarsi di una fascia tricolore da indossare in occasione di cerimonie ed eventi civili e religiosi, quale titolo del ruolo politico e amministrativo ricoperto?
La legge non prevede nulla, per quanto riguarda i simboli da indossare, nei riguardi degli altri amministratori degli enti locali.
Il decreto legislativo n. 267/2000 all'art. 50, comma 12, infatti, dispone espressamente che «distintivo del sindaco è la fascia tricolore con lo stemma della Repubblica e lo stemma del comune, da portarsi a tracolla». La stessa disposizione prevede, altresì, che «distintivo del presidente della provincia è una fascia di colore azzurro con lo stemma della repubblica e lo stemma della provincia da portare a tracolla».
Il sistema delle autonomie ha, peraltro, un limite connaturato alla stessa essenza dell'autonomia: quello di dare luogo a ordinamenti liberi di autodeterminarsi entro la cornice ben definita di un ordinamento generale che, originario e sovrano, determina i caratteri peculiari ed il modo di tutti i soggetti che in esso si trovano a coesistere e ad operare (cfr. circolare Ministero dell'interno 04.11.1998 n. 5/98 – fascia tricolore – pubbl. G.U. n. 270/1998).
La finalità della previsione di un distintivo è quella di rendere immediatamente individuabili i titolari di determinate cariche pubbliche attraverso la prescrizione di una medesima tipologia formale per ciascuna categoria di ente.
In assenza di specifiche previsioni normative, pertanto, l'istituzione di un distintivo anche per i consiglieri comunali non può essere contemplata.
Alla luce della legge costituzionale n. 3 del 18.10.2001, esiste, tuttavia, un'ampia possibilità, per le autonomie locali, di disciplinare, con normativa regolamentare, l'utilizzo dei propri segni distintivi, anche a scopo di rappresentanza, senza così ricorrere all'impiego di un simbolo, quale la fascia tricolore, attinente nello specifico al capo dell'amministrazione ed allo svolgimento delle proprie funzioni in conformità alle indicazioni di legge
(articolo ItaliaOggi del 14.09.2018).

CONSIGLIERI COMUNALI: Relazione inizio mandato.
Domanda
Sono l’assessore al bilancio di un’amministrazione comunale insediatasi nello scorso mese di giugno. Il mio ragioniere mi ha parlato dell’obbligo di predisporre una relazione di inizio mandato.
In che cosa consiste? C’è un termine entro cui debba essere approvata?
Risposta
La relazione di cui si parla nel quesito è prevista e disciplinata dall’art. 4-bis del DLgs. n. 149 del 06/09/2011 approvato dall’allora ‘governo Monti’. La norma stabilisce che le province e i comuni sono tenuti a redigere una relazione di inizio mandato, volta a verificare la propria situazione finanziaria e patrimoniale e la misura dell’indebitamento.
Essa è finalizzata a garantire il coordinamento della finanza pubblica, il rispetto dell’unità economica e giuridica della Repubblica ed il principio di trasparenza delle decisioni di entrata e di spesa. La relazione è predisposta dal responsabile del servizio finanziario o dal segretario generale ed è sottoscritta dal presidente della provincia o dal sindaco entro il novantesimo giorno dall’inizio del mandato. Qualora ne sussistano i presupposti, e sulla base delle risultanze della relazione medesima, il presidente della provincia o il sindaco neo eletti, possono ricorrere alle procedure di riequilibrio finanziario previste dalla normativa vigente.
A differenza di quanto fatto per l’analoga relazione di fine mandato, il Legislatore non ha previsto uno schema obbligatorio per gli enti chiamati ad adottarla, ma ne ha definito soltanto gli elementi essenziali. Ogni ente è pertanto libero di decidere quali dati e informazioni riportare e quali schemi, tabelle e prospetti inserire.
E’ sicuramente opportuno produrre uno strumento snello ed essenziale, ma al tempo stesso concreto, che faccia una sorta di fotografia della situazione dell’ente ad inizio mandato, con riguardo ai seguenti aspetti della sua gestione: la struttura organizzativa; la situazione finanziaria e le politiche fiscali e tariffarie; gli equilibri di bilancio; l’ammontare e l’anzianità dei residui attivi e passivi di bilancio; i saldi di finanza pubblica; l’indebitamento, con analisi prospettica; la situazione patrimoniale; le società ed enti partecipati e il loro stato di salute.
I dati e le tabelle da inserire nella relazione possono essere mutuati dai certificati al bilancio preventivo ed al rendiconto già redatti ai sensi dell’art. 161 del Tuel e dai questionari periodicamente inviati dall’organo di revisione economico finanziario alla competente sezione regionale di controllo della Corte dei Conti, ai sensi dell’articolo 1, comma 166 e seguenti, della legge n. 266/2005.
Tali dati troveranno pertanto riscontro anche in questi documenti, oltre che nella contabilità dell’ente. Il Legislatore non ha previsto neppure alcun obbligo di invio della relazione alla sezione regionale di controllo della Corte dei conti. In caso di mancata o tardiva predisposizione non sono previste sanzioni. La magistratura contabile, tuttavia, vigilerà sul corretto adempimento dell’obbligo, anche attraverso i consueti questionari che i revisori degli enti locali sono tenuti a compilare e ad inviare.
Il DLgs. 149/2011, così come anche il più recente DLgs. 33/2013, che disciplina la trasparenza e la diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni, non prevedono nulla circa la sua diffusione verso l’esterno. Tuttavia è sicuramente opportuno provvedervi mediante la sua pubblicazione nella sezione ‘Amministrazione trasparente’ del sito web dell’ente, nella sotto-sezione denominata ‘Provvedimenti degli organi di indirizzo politico’ o nella sotto-sezione residuale denominata ‘Altri contenuti’.
Quanto ai termini, il Legislatore –come detto– ha invece stabilito un termine preciso per la sua adozione: esso è fissato in novanta giorni dalla data di inizio del mandato amministrativo. Pertanto per le amministrazioni elette al primo turno nelle elezioni del 10 giugno scorso il termine è fissato all’8 settembre prossimo; per quelle elette al secondo turno il termine è invece fissato al 22 settembre. Resta pertanto poco tempo per adempiere a questo importante obbligo di legge (03.09.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

agosto 2018

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ I gruppi cambiano nome. Anche se statuto e regolamento tacciono. La chance rientra nelle scelte proprie delle formazioni politiche.
Se le norme statutarie e regolamentari vigenti in un comune prevedono solo la modifica della composizione dei gruppi consiliari, è possibile modificarne anche la denominazione?
L'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente prevista dalla legge, ma si desume implicitamente dalle disposizioni normative che contemplano diritti e prerogative in capo ai gruppi o ai capigruppo (art. 38, comma 3, art. 39, comma 4, e art. 125 del decreto legislativo n. 267/2000).
La materia deve, comunque, essere disciplinata da apposite norme statutarie e regolamentari, adottate dai singoli enti locali nell'ambito dell'autonomia organizzativa riconosciuta ai consigli comunali dall'art. 38 del citato Testo unico degli enti locali.
È da ritenersi consentita la costituzione di nuovi gruppi consiliari, ovvero l'adesione a diversi gruppi esistenti, a seguito dei mutamenti che possono sopravvenire all'interno delle forze politiche presenti in consiglio comunale per effetto di dissociazioni dall'originario gruppo di appartenenza. Tuttavia, sono i singoli enti locali, nell'ambito della propria potestà di organizzazione, a dover dettare, in materia, norme statutarie e regolamentari.
Nel caso di specie, il mutamento di denominazione del gruppo consiliare, anche se in assenza di una specifica disposizione statutaria o regolamentare, sembra rientrare nelle scelte proprie delle formazioni politiche presenti nel consiglio che sono, in genere, da ritenersi ammissibili.
Peraltro, sebbene sia lo statuto che il regolamento dell'ente locale presentino una certa rigidità nella formazione dei gruppi, ancorandola alla denominazione della corrispondente lista di elezione, lo stesso statuto comunale consente la costituzione di gruppi non corrispondenti alle liste elettorali, purché siano composti da almeno tre membri.
Pertanto, può ritenersi che tale valore numerico costituisca il limite per la costituzione di gruppi con denominazioni diverse da quelle originarie
(articolo ItaliaOggi del 31.08.2018).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Informative in consiglio. Legittime le comunicazioni del presidente. Il loro contenuto va verbalizzato a tutela dei diritti dei consiglieri.
In materia di funzionamento del consiglio comunale, è legittima la norma regolamentare che affida al presidente del consiglio comunale la facoltà di eventuali comunicazioni proprie o della giunta sull'attività del comune e su fatti ed avvenimenti di particolare interesse per la comunità, lasciando ai singoli gruppi solo il diritto di replica, senza possibilità, per i consiglieri, di introdurre questioni nuove? Tale disposizione, consentendo al presidente di allargare l'ordine del giorno senza verificare la presenza e l'accettazione dell'unanimità degli altri componenti del consiglio, potrebbe presentare profili di illegittimità?
L'art. 38 del decreto legislativo n. 267/2000, al comma 2, stabilisce che il funzionamento dei consigli è disciplinato dal regolamento, nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto; il regolamento, in particolare, secondo la citata disposizione, deve prevedere le modalità per la presentazione e la discussione delle proposte.
L'art. 39 del citato decreto legislativo assegna al presidente del consiglio, tra gli altri, i poteri di convocazione e direzione dei lavori e delle attività del consiglio e, al comma 4, dispone l'obbligo di assicurare una adeguata e preventiva informazione ai gruppi consiliari ed ai singoli consiglieri sulle questioni sottoposte al consiglio. Su tali questioni, soggette alla deliberazione del consiglio, i consiglieri, ai sensi dell'art. 43 del citato Tuel, hanno diritto di iniziativa e possono, altresì, presentare interrogazioni e mozioni.
Nel caso di specie, la norma regolamentare affida al presidente, nella fattispecie il sindaco, la facoltà di informare il consiglio, in apertura di seduta, in merito a questioni che interessano l'operato del sindaco o della giunta o a questioni di particolare interesse per la comunità non iscritte all'ordine del giorno a cui, dunque, non dovrebbe seguire alcuna deliberazione. Ferma restando la riconosciuta potestà, in capo al presidente, di dirigere i lavori e le attività del consiglio, la norma contenuta nel regolamento non appare limitativa del diritto dei singoli consiglieri a partecipare alle decisioni nelle materie di stretta competenza del consiglio medesimo, ai sensi dell'art. 42 del richiamato decreto legislativo n. 267/2000, che si concretizzano nell'ordine del giorno formalizzato.
Il contenuto delle comunicazioni del presidente e le repliche affidate ai rappresentanti dei gruppi devono, comunque, essere riprodotti nel verbale di seduta, di libero accesso ai singoli consiglieri, ivi compresi gli assenti alla seduta.
Qualora, dalla lettura di tali verbali, emergano aspetti ritenuti di interesse, i singoli consiglieri, possono sempre utilizzare gli strumenti offerti dall'ordinamento, inducendo una eventuale deliberazione, in presenza dei relativi presupposti di competenza, con la richiesta di inserimento della questione in un successivo ordine del giorno, secondo le normali procedure regolamentari, oppure presentare mozioni o interrogazioni
(articolo ItaliaOggi del 24.08.2018).

CONSIGLIERI COMUNALIAccesso al protocollo informatico da parte dei consiglieri comunali.
Sintesi/Massima
Il “diritto di accesso” ed il “diritto di informazione” dei consiglieri comunali nei confronti della P.A. trovano la loro disciplina nell’art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000 che riconosce a questi il diritto di ottenere dagli uffici comunali, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato.
Testo
E’ stato posto un quesito circa la legittimità di una regolamentazione da parte dell’Ente dell’attività consultiva del protocollo informatico da parte dei consiglieri comunali che hanno avanzato istanza di accesso.
In merito, come osservato dal Plenum della Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, del 16.03.2010, il “diritto di accesso” ed il “diritto di informazione” dei consiglieri comunali nei confronti della P.A. trovano la loro disciplina nell’art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000 che riconosce a questi il diritto di ottenere dagli uffici comunali, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato (Confermato dal successivo parere del 23.10.2012)
Sempre secondo quanto sostenuto dalla Commissione per l’accesso con il citato parere “l’accesso diretto tramite utilizzo di apposita password al sistema informatico dell’Ente, ove operante, è uno strumento di accesso certamente consentito al consigliere comunale che favorirebbe la tempestiva acquisizione delle informazioni richieste senza aggravare l’ordinaria attività amministrativa. Ovviamente il consigliere comunale rimane responsabile della segretezza della password di cui è stato messo a conoscenza a tali fini (art. 43, comma 2, T.U.O.E.L.)”.
Anche il Garante per la protezione dei dati personali (v. relazione del 2004, pag. 19 e 20) ha specificato che “nell’ipotesi in cui l’accesso da parte dei consiglieri comunali riguardi dati sensibili, l’esercizio di tale diritto, ai sensi dell’art. 65, comma 4, lett. b), del Codice, è consentito se indispensabile per lo svolgimento della funzione di controllo, di indirizzo politico, di sindacato ispettivo e di altre forme di accesso a documenti riconosciute dalla legge e dai regolamenti degli organi interessati per consentire l’espletamento di un mandato elettivo. Resta ferma la necessità, … che i dati così acquisiti siano utilizzati per le sole finalità connesse all’esercizio del mandato, rispettando in particolare il divieto di divulgazione dei dati idonei a rivelare lo stato di salute. Spetta quindi all’amministrazione destinataria della richiesta accertare l’ampia e qualificata posizione di pretesa all’informazione ratione officii del consigliere comunale”.
Peraltro, anche la giurisprudenza ha affermato il diritto del consigliere alla visione del protocollo generale, senza alcuna esclusione di oggetti e notizie riservate e di materie coperte da segreto, posto che i consiglieri comunali sono tenuti al segreto - ai sensi del citato articolo 43 del decreto legislativo n. 267/2000.
La materia, comunque, così come richiesto, deve trovare apposita disciplina regolamentare di dettaglio per il suo esercizio nel rispetto delle prescrizioni e dei limiti sopra indicati a salvaguardia del diritto dei consiglieri (21.08.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALIModifica regolamento consiglio comunale in materia di mozioni.
Sintesi/Massima
Mozioni.
Il diritto di presentare mozioni è previsto dall’art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000, che al comma 3, demanda allo statuto ed al regolamento la disciplina concernente le modalità di presentazione degli atti di sindacato ispettivo e le relative risposte.
Ad avviso della scrivente, il consiglio comunale potrebbe adottare disposizioni regolamentari limitative del diritto di proporre emendamenti alle mozioni, tali da stravolgerne surrettiziamente il significato originario.

Testo
E’ stato chiesto un parere circa la possibilità di modificare la normativa recata dal regolamento del consiglio comunale in materia di mozioni.
In particolare si chiede se sia coerente con l’ordinamento degli enti locali una normativa regolamentare che limiti la possibilità di emendare le proposte di mozioni. La finalità di un siffatto intervento normativo sarebbe individuabile nella necessità di tutelare il diritto del consigliere firmatario della mozione a non consentire eventuali emendamenti che ne stravolgano il senso.
Al riguardo si osserva che il predetto diritto è previsto dall’art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000, che al comma 3, demanda allo statuto ed al regolamento la disciplina concernente le modalità di presentazione degli atti di sindacato ispettivo e le relative risposte.
La dottrina definisce “mozioni” gli atti approvati dal consiglio per esercitare un’azione di indirizzo, esprimere posizioni e giudizi su determinate questioni, organizzare la propria attività, disciplinare procedure e stabilire adempimenti dell’amministrazione nei confronti del Consiglio.
Il TAR Puglia –Sezione di Lecce– I Sez., sentenza n. 1022/2004, individua la mozione quale “istituto a contenuto non specificato … , trattandosi di un potere a tutela della minoranza per situazioni non predefinibili, a differenza di altri strumenti più a valenza di mera conoscenza (quali l’interrogazione o la interpellanza), essendo strumento di “introduzione ad un dibattito” che si conclude con un voto che è ragione ed effetto proprio della mozione”.
Tanto premesso, il consiglio comunale potrebbe adottare disposizioni regolamentari limitative del diritto di proporre emendamenti alle mozioni, tali da stravolgerne surrettiziamente il significato originario.
Tuttavia, rientrando la materia in esame nella competenze delle fonti di autonomia locale, spetterà alla valutazione del singolo ente determinarsi in tal senso (21.08.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Accesso senza paletti. Al riscontro fornito dal comune alla Corte conti. La conoscenza di tali atti non viola alcun segreto istruttorio.
In materia di diritto di accesso, da parte dei consiglieri comunali, è legittimo, ai sensi dell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000, il diniego espresso da un comune nei confronti di un consigliere che ha chiesto all'ente di potere acquisire «il riscontro fornito dal comune ad una nota della Corte dei conti»?
Nella fattispecie in esame il comune, che avrebbe parzialmente riscontrato la richiesta della Corte dei conti ha, precisato che trattasi di «chiarimenti e valutazioni sulle criticità emerse dall'esame delle relazioni ai rendiconti relativi ad annualità pregresse, redatte dall'organo di revisione contabile».
In particolare, i funzionari comunali che hanno negato l'accesso al consigliere, che ha diffidato il responsabile del settore ai sensi dell'art. 328, comma II, del codice penale, hanno rilevato che le richieste della Corte dei conti sono state effettuate ai sensi dell'art. 1, comma 166 e segg. della legge 23/12/2005, n. 266 e dell'art. 148-bis del dlgs 18/08/2000, n. 267 e che dunque, «il rilascio della nota di riscontro richiesta potrebbe essere di pregiudizio per l'ente e per l'attività della stessa Corte».
Invero, le citate disposizioni non disciplinano i procedimenti di natura giudiziale (rispetto ai quali la commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, con talune pronunce –v. plenum del 25/01/2005– ha optato per il rinvio dell'accesso alla conclusione delle controversie), ma affidano, invece, alla Corte dei conti il controllo sui bilanci e sui rendiconti degli enti locali, al fine della verifica del rispetto del patto di stabilità interno, dell'osservanza dei vincoli in materia di indebitamento e di ogni grave irregolarità contabile e finanziaria.
La conoscenza di tali atti non violerebbe, dunque, alcun segreto istruttorio, fermo restando, in tale ipotetico caso, l'assoggettamento del consigliere al vincolo della riservatezza.
Il plenum della commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, del 16.03.2010, ha affermato che il «diritto di accesso» ed il «diritto di informazione» dei consiglieri comunali nei confronti della p.a. trovano la loro disciplina nell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000 che riconosce a questi il diritto di ottenere dagli uffici comunali, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato.
La maggiore ampiezza di legittimazione all'accesso rispetto al cittadino (art. 10 del decreto legislativo n. 267/2000) è riconosciuta in ragione del particolare munus espletato dal consigliere comunale.
Lo stesso, infatti, deve essere posto nelle condizioni di valutare, con piena cognizione di causa, la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'amministrazione, al fine di poter esprimere un giudizio consapevole sulle questioni di competenza della p.a., opportunamente considerando il ruolo di garanzia democratica e la funzione pubblicistica esercitata.
Pertanto, il consigliere comunale non deve motivare la propria richiesta di informazioni, poiché, diversamente opinando, la p.a. si ergerebbe ad arbitro delle forme di esercizio delle potestà pubblicistiche dell'organo deputato all'individuazione e al perseguimento dei fini collettivi.
Conseguentemente, gli uffici comunali non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l'oggetto delle richieste di informazioni avanzate da un consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da questi espletato. Peraltro, in fattispecie analoga alla presente, il Consiglio di stato, Sez. IV con decisione 4829/2011 del 29/08/2011 ha confermato l'accessibilità, da parte del consigliere, al documento richiesto «sul fondamento della precisa quanto generale previsione di rango legislativo recata dall'art. 43 decreto legislativo n. 267 del 2000».
Il Consiglio di stato ha, altresì, specificato che «in assenza di precisi dati in senso contrario non può che prevalere, pertanto, il principio della libera accessibilità da parte del consigliere comunale, regola generale alla quale non risultano essere state apportate deroghe neppure in subiecta materia».
Pertanto, come affermato dalla stessa commissione per l'accesso ai documenti amministrativi (plenum del 03.10.2013), «ai sensi dell'art. 5 del decreto legislativo n. 33 del 14/03/2013, chiunque, e dunque anche i consiglieri comunali, ha diritto di ottenere l'accesso ai dati relativi ai controlli sull'organizzazione e sull'attività dell'amministrazione che la p.a. ha l'obbligo di pubblicare
».
Alla luce del quadro sopra delineato, e ferma restando l'opportunità, per l'ente, di dotarsi di apposito regolamento per la disciplina di dettaglio dell'esercizio di tale diritto, non appare, dunque, che possa negarsi l'accesso agli atti richiesti
(articolo ItaliaOggi del 17.08.2018).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Sì ai gruppi unipersonali. Se statuto e regolamento non li vietano. La materia è affidata all’autonomia organizzativa dei consigli.
Un consigliere fuoriuscito da altro gruppo preesistente può costituire un gruppo unipersonale, nel caso in cui l'ente non abbia disciplinato la fattispecie con specifiche norme regolamentari?
L'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente prevista dalla legge, ma si desume implicitamente da quelle disposizioni normative che contemplano diritti e prerogative in capo ai gruppi o ai capigruppo (art. 38, comma 3, art. 39, comma 4, e art. 125 del decreto legislativo n. 267/2000).
Nel caso di specie, lo statuto del comune si limita a stabilire che i consiglieri eletti nella medesima lista formano un gruppo consiliare, specificando, altresì, che anche nel caso in cui nella lista sia eletto un solo consigliere, questi costituisce un gruppo autonomo.
Il regolamento sul funzionamento del consiglio comunale ribadisce il contenuto dello statuto in materia di costituzione dei gruppi, ma non disciplina l'eventuale formazione di nuovi gruppi scaturenti da movimenti successivi.
Tuttavia, le disposizioni regolamentari prevedono che il consiglio comunale prenda atto, nella prima seduta utile, «della costituzione, designazione ed ogni successiva variazione dei gruppi consiliari», ammettendo, così, implicitamente, la possibilità di modifiche nei gruppi come discendenti dall'esito delle elezioni, senza però declinarne le modalità.
Considerato che la materia deve, comunque, essere regolata da apposite norme statutarie e regolamentari, adottate dai singoli enti locali nell'ambito dell'autonomia organizzativa dei consigli riconosciuta dal citato art. 38 del Testo unico sugli enti locali (dlgs n. 267/2000), la soluzione alle relative problematiche dovrebbe essere trovata dallo stesso consiglio, anche valutando l'opportunità di adottare apposite modifiche regolamentari.
Appare, comunque, corretta nella fattispecie in esame, la posizione dell'amministrazione locale che la ritiene invece possibile, a seguito dell'esercizio dell'attività di interpretazione delle proprie norme nell'ambito dell'autonomia che le viene riconosciuta dall'ordinamento, non sussistendo una esplicita disposizione statutaria o regolamentare che impedisca la formazione di nuovi gruppi
(articolo ItaliaOggi del 10.08.2018).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Consigli, prefetti in campo. Se il presidente non convoca l’assemblea. Anche la trattazione di semplici questioni attiene ai poteri dell’organo
Ai sensi dell'art. 39, comma 5, del decreto legislativo n. 267/2000, in quali casi viene attivato il potere sostitutivo del prefetto?

Nella fattispecie in esame, alcuni consiglieri comunali di minoranza hanno depositato presso il comune una mozione e una interrogazione contestualmente alla istanza di convocazione del consiglio, ai sensi dell'art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 e, a causa del mancato riscontro della richiesta nei termini indicati dalla legge, hanno chiesto l'attivazione del potere sostitutivo del prefetto ex art. 39, comma 5, del citato Tuel.
Il regolamento sul funzionamento del consiglio comunale prevede che le interrogazioni e le mozioni presentate al protocollo dell'ente devono essere iscritte all'ordine del giorno in occasione della convocazione della prima adunanza del consiglio successiva alla loro presentazione.
Inoltre, la medesima fonte normativa stabilisce che la convocazione richiesta ex art. 39, comma 2, «deve contenere in allegato, per ciascun argomento indicato da iscrivere all'ordine del giorno, il relativo schema di deliberazione».
Il sindaco, in base al combinato disposto delle citate norme regolamentari, sostiene che la richiesta di convocazione formulata da un quinto dei consiglieri non possa avere ad oggetto atti di sindacato ispettivo, dovendo ciascuna richiesta essere, indefettibilmente, corredata dal relativo «schema di deliberazione».
Ciò stante, l'orientamento che vede riconosciuto e definito dal legislatore «il potere dei consiglieri di chiedere la convocazione del Consiglio medesimo» come «diritto» è ormai ampiamente consolidato (sentenza Tar Puglia, Lecce, sez. I del 04.02.2004, n. 124). Peraltro, il diritto ex art. 39, comma 2, «è tutelato in modo specifico dalla legge con la previsione severa ed eccezionale della modificazione dell'ordine delle competenze mediante intervento sostitutorio del prefetto in caso di mancata convocazione del consiglio comunale in un termine emblematicamente breve di venti giorni» (Tar Puglia, sez. 1, 25.07.2001, n. 4278).
Il Tar Sardegna, con sentenza n. 718 del 2003, ha respinto un ricorso avverso un provvedimento prefettizio ex art. 39, comma 5, del citato decreto legislativo in quanto, ad avviso del giudice amministrativo, il prefetto non poteva esimersi dal convocare d'autorità il consiglio comunale, «essendosi verificata l'ipotesi di cui all'art. 39 del Tuel n. 267/2000».
Circa la questione della sindacabilità dei motivi che determinano i consiglieri a chiedere la convocazione straordinaria dell'assemblea, secondo l'indirizzo prevalente, al presidente del consiglio spetta solo la verifica formale della richiesta e il prescritto numero di consiglieri, non potendo comunque sindacarne l'oggetto.
La giurisprudenza in materia si è, infatti, da tempo espressa affermando che, in caso di richiesta di convocazione del consiglio da parte di un quinto dei consiglieri, «al presidente del consiglio comunale spetta soltanto la verifica formale che la richiesta provenga dal prescritto numero di soggetti legittimati, mentre non può sindacarne l'oggetto, poiché spetta allo stesso consiglio nella sua totalità la verifica circa la legalità della convocazione e l'ammissibilità delle questioni da trattare, salvo che non si tratti di oggetto che, in quanto illecito, impossibile o per legge manifestamente estraneo alle competenze dell'assemblea in nessun caso potrebbe essere posto all'ordine del giorno» (Tar Piemonte, n. 268/1996 ).
Inoltre, si è sostenuto che appartiene ai poteri sovrani dell'assemblea decidere in via pregiudiziale che un dato argomento inserito nell'ordine del giorno non debba essere discusso (questione pregiudiziale) ovvero se ne debba rinviare la discussione (questione sospensiva) (Tar Puglia, Lecce, sez. 1, 25.07.2001, n. 4278 e sempre Tar Puglia, Lecce, sez. 1, 04.02.2004, n. 124).
Nondimeno, l'art. 43 del Tuel demanda alla potestà statutaria e regolamentare dei comuni e delle province la disciplina delle modalità di presentazione delle interrogazioni, delle mozioni e di ogni altra istanza di sindacato ispettivo proposta dai consiglieri, nonché delle relative risposte, che devono comunque essere fornite entro 30 giorni.
Al riguardo, qualora l'intenzione dei proponenti non fosse diretta a provocare una delibera in merito del consiglio comunale, bensì a porre in essere un atto di sindacato ispettivo, si potrebbe ipotizzare, ai sensi dell'art. 42, comma 1, del decreto legislativo n. 267/2000, che rientri nella competenza del consiglio comunale in qualità di «organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo» anche la trattazione di «questioni» che, pur non rientrando nell'elencazione del comma 2 del medesimo art. 42, attengono comunque al suddetto ambito di controllo.
Del resto, la dizione legislativa che parla di «questioni» e non di deliberazioni o di atti fondamentali, conforta nel ritenere che la trattazione di argomenti non rientranti nella previsione del citato comma 2, dell'art. 42, non debba necessariamente essere subordinata alla successiva adozione di provvedimenti da parte del consiglio comunale.
Sulla base di tali argomentazioni, pertanto, il prefetto è tenuto alla applicazione della normativa prevista dall'art. 39, comma 5, del decreto legislativo n. 267/2000, invitando il sindaco a voler provvedere alla convocazione del richiesto consiglio comunale.
Con specifico riferimento al caso in esame, l'ente potrebbe valutare l'opportunità di modificare la normativa regolamentare dal momento che la stessa, limitando all'esame delle «deliberazioni» la possibilità di accedere all'istituto previsto dall'art. 39, comma 2, citato, restringe il perimetro dei diritti riconosciuti ai consiglieri comunali dalla legge statale
(articolo ItaliaOggi del 03.08.2018).

luglio 2018

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Commissioni di garanzia. Per verifiche e controlli sull'attività di governo. La presidenza deve essere attribuita a un consigliere di opposizione.
È legittima la convocazione della Commissione garanzia e controllo comunale, richiesta da un comitato di cittadini, per verificare l'eventuale violazione delle norme sulla sicurezza nella costruzione di un distributore di carburanti nel territorio comunale?

La questione deve essere risolta facendo riferimento alle disposizioni di legge o di regolamento, ovvero agli statuti locali.
In linea generale, nei comuni sono operanti commissioni obbligatorie (previste per legge come, per esempio, la commissione elettorale comunale) e commissioni facoltative (come le commissioni consiliari permanenti ex art. 38 del dlgs n. 267/2000); in entrambi i casi, la rispettiva composizione e il funzionamento si riconducono generalmente alla fonte normativa che le istituisce e, quindi, alle previsioni statutarie e regolamentari.
Nella fattispecie in esame, lo Statuto comunale stabilisce solo che i presidenti delle commissioni permanenti istituite con finalità di controllo sono eletti tra i rappresentanti dei gruppi consiliari di opposizione; inoltre prevede la possibilità di istituire commissioni di inchiesta e consente di istituire commissioni speciali per l'esame di problemi particolari, demandando al consiglio la composizione, l'organizzazione, le competenze, i poteri e la durata delle stesse.
Il regolamento consiliare, invece, disciplina le commissioni speciali e le commissioni di inchiesta e dispone che le commissioni con funzioni di garanzia e di controllo «effettuino verifiche sull'attività di governo, sulla programmazione e sulla pianificazione delle attività, sui risultati e sugli obiettivi raggiunti».
Le commissioni aventi funzioni di controllo e di garanzia potrebbero considerarsi, come ha sostenuto parte della dottrina, una specie del medesimo genere delle commissioni di indagine. Tale assunto è confermato dalla circostanza che la materia è trattata nello stesso art. 44 del dlgs. n. 267/2000.
Tuttavia, ferma restando la tutela della minoranza che si concretizza nell'affidamento della presidenza della commissione permanente a un consigliere dell'opposizione, una volta costituita, l'attività istituzionale di tale commissione segue la dinamica delle altre commissioni permanenti, nel rispetto comunque delle competenze amministrative demandate previamente agli uffici comunali.
Considerato che lo Statuto e il regolamento hanno previsto la possibilità di istituire anche commissioni speciali con il compito di approfondire «particolari questioni o problemi che interessino il comune», la fattispecie relativa alla presunta violazione delle norme sulla sicurezza nella costruzione di un impianto sul territorio comunale sembra incidere, in particolare, sulla competenza di tali organismi, poiché l'attività della commissione garanzia e controllo dovrà limitarsi alle verifiche sull'attività di governo
(articolo ItaliaOggi del 27.07.2018).

CONSIGLIERI COMUNALIComposizione delle Commissioni consiliari permanenti. Impossibilità di insediamento.
Sintesi/Massima
Composizione delle Commissioni consiliari permanenti. Impossibilità di insediamento.
In base a quanto disposto dall’articolo 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000, le commissioni consiliari, una volta istituite sulla base di una facoltativa previsione statutaria, sono disciplinate dall’apposito regolamento comunale con l’inderogabile limite, posto dal legislatore, riguardante il rispetto del criterio proporzionale nella composizione.
Le forze politiche presenti in consiglio devono, pertanto, essere il più possibile rappresentate anche nelle commissioni.
A fronte delIa oggettiva impossibilità di insediare validamente le commissioni a causa della indisponibilità manifestata da alcuni consiglieri di minoranza, la situazione di fatto verificatasi è tale da giustificare, in ragione del principio della continuità amministrativa, il riespandersi della competenza piena del consiglio comunale.

Testo
E’ stato formulato un quesito in materia di commissioni consiliari consultive permanenti.
L’art. 37 dello statuto comunale prevede l’istituzione delle commissioni consultive, distinte in permanenti e temporanee, “…formate da consiglieri o cittadini iscritti nelle liste elettorali del comune con esperienza e competenza utili all’espletamento dei compiti”.
Ai sensi del regolamento del funzionamento del consiglio sono previste sei commissioni consiliari permanenti composte da un massimo di cinque membri, di cui tre consiglieri in rappresentanza della maggioranza e due della minoranza.
Tuttavia nessun consigliere di minoranza ha accettato l’incarico di componente delle commissioni e, pertanto, le stesse risultano composte solamente dai tre membri di maggioranza.
Attesa la mancata designazione dei rappresentanti della minoranza, si chiede un parere in merito all’operatività delle Commissioni consiliari permanenti.
Al riguardo si osserva, in via preliminare, che in base a quanto disposto dall’articolo 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000, le commissioni consiliari, una volta istituite sulla base di una facoltativa previsione statutaria, sono disciplinate dall’apposito regolamento comunale con l’inderogabile limite, posto dal legislatore, riguardante il rispetto del criterio proporzionale nella composizione. Le forze politiche presenti in consiglio devono, pertanto, essere il più possibile rappresentate anche nelle commissioni.
In base al principio consolidato in materia di organi collegiali, secondo il quale all’atto del primo insediamento l’organo deve essere completo in tutte le sue componenti per potersi dire legittimamente costituito e poter validamente operare, si ritiene che la mancata designazione dei rappresentanti di minoranza abbia impedito, di fatto, la costituzione delle commissione in argomento.
Al riguardo, va rilevato anzitutto la natura delle commissioni consiliari. Esse non sono organi necessari dell’ente locale, cioè non sono componenti indispensabili della sua struttura organizzative, bensì organi strumentali dei consigli ed, in quanto tali, costituiscono componenti interne dell’organo assembleare, prive di una competenza autonoma e distinta da quella ad esso attribuita. In altri termini, le commissioni consiliari operano sempre e comunque nell’ambito della competenza dei consigli.
A fronte della oggettiva impossibilità di insediare validamente le commissioni a causa della indisponibilità manifestata da alcuni consiglieri di minoranza, la situazione di fatto verificatasi è tale da giustificare, in ragione del principio della continuità amministrativa, il riespandersi della competenza piena del consiglio comunale.
Ovviamente ciò non esclude che l’argomento della ricostituzione delle commissioni comunali possa essere iscritto all’ordine del giorno delle sedute consiliari fino alla sua positiva trattazione.
Per quanto concerne la previsione dello statuto comunale circa la possibilità di eleggere, quali componenti delle commissioni, anche cittadini esterni al consiglio comunale, si rappresenta che, ai sensi del citato art. 38, comma 6, lo statuto può prevedere la costituzione di commissioni consiliari, istituite dal consiglio «nel proprio seno». Pertanto, la formulazione della norma statutaria non appare coerente con la disciplina dettata dal legislatore circa la indefettibilità dello status di consigliere comunale in capo ai componenti delle commissioni consiliari ex art. 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000 (19.07.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALIUtilizzo fascia tricolore.
Sintesi/Massima
Utilizzo fascia tricolore.
Con circolare di questo Ministero n. 5/1998, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 270 del 18.11.1998, è stato evidenziato il carattere sostanziale dell’intervento normativo (art. 36, comma 7 della legge n. 142/1990 come sostituito dall’art. 4, comma 2, della legge 15.05.1997, n. 127 - ora art. 50, comma 12 del decreto legislativo n. 267/2000), con il quale è stato espressamente disposto che «distintivo del sindaco è la fascia tricolore con lo stemma della Repubblica e lo stemma del comune» e che “nell’uso corrente si è affermata la consuetudine che il sindaco indossi la fascia in tutte le occasioni ufficiali, in qualunque veste intervenga”.

Testo
E’ stato posto un quesito in ordine al corretto uso della fascia tricolore.
In particolare, è stato chiesto se l’utilizzo della predetta fascia tricolore, previa autorizzazione del Sindaco, per la partecipazione alla commemorazione dei caduti di Salò da parte di un consigliere comunale sia corretto.
Al riguardo si osserva che, con circolare di questo Ministero n. 5/98, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 270 del 18.11.1998, si sono fornite indicazioni in ordine all’utilizzo della fascia tricolore da parte del sindaci.
Nella predetta circolare viene evidenziato il carattere sostanziale dell’intervento normativo (art. 36, comma 7, della legge n. 142/1990 come sostituito dall’art. 4, comma 2, della legge 15.05.1997, n. 127 - ora art. 50, comma 12 del decreto legislativo n. 267/2000), con il quale è stato espressamente disposto che «distintivo del sindaco è la fascia tricolore con lo stemma della Repubblica e lo stemma del comune» e che “nell’uso corrente si è affermata la consuetudine che il sindaco indossi la fascia in tutte le occasioni ufficiali, in qualunque veste intervenga”.
Va da sé che, allorquando il sindaco sia assente o impedito temporaneamente ai sensi dell’art. 53, comma 2, del T.U.O.E.L., spetta solo al vice sindaco fregiarsene.
Restano validi gli utilizzi stabiliti da esplicite previsioni normative, come quella di cui all’articolo 70 del d.P.R. n. 396, del 3 novembre 2000, ove, in ragione della particolarità delle funzioni espletate, si prevede che “l’ufficiale dello stato civile, nel celebrare il matrimonio e nel costituire l’unione civile, deve indossare la fascia tricolore…”.
Pertanto, l’uso della fascia tricolore, anche per delega dello stesso sindaco, da parte di altri soggetti, seppur eventualmente incardinati nell’Amministrazione comunale o facenti parte di Organismi o Enti a cui partecipino gli Enti locali con propri rappresentanti, è ammesso solo nelle ipotesi sopra indicate.
In ogni caso, ribadendo sempre il contenuto della richiamata circolare ministeriale, ove viene precisato che “viene attribuito ad un elemento simbolico una specifica funzione che è distintiva, siccome finalizzata a rendere palese la differenza tra il sindaco e gli altri titolari di pubbliche cariche”, si ritiene che l’uso della fascia tricolore sia legato proprio alla natura delle funzioni sindacali che sono di capo dell’Amministrazione comunale e di ufficiale di Governo e che, dunque, anche il sindaco sia vincolato al suo utilizzo nei limiti previsti dalla normativa (19.07.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALIProcedimento di formazione dei gruppi consiliari.
Sintesi/Massima
Ipotesi inclusione del sindaco in un gruppo consiliare. Il sindaco, pur se membro del consiglio comunale ai sensi dell'art. 46 del T.U.O.E.L., ha, in effetti, una posizione differenziata rispetto ai singoli consiglieri comunali.
Tale disposizione lascia emergere la configurazione della posizione di terzietà del sindaco nel rapporto con i gruppi medesimi.
Ne deriva che l’iscrizione del sindaco ad un gruppo o addirittura la costituzione di un gruppo unipersonale nel corso della consiliatura da parte dello stesso sindaco può incidere sul corretto e bilanciato esercizio delle funzioni di governo dell’ente.

Testo
E’ stato trasmesso il quesito del Segretario generale del Comune di Trecate, in materia di formazione dei gruppi consiliari.
In particolare, è stato chiesto se, alla luce della vigente normativa anche regolamentare e statutaria dell’Ente, sia legittimo mantenere l’inclusione del sindaco in un gruppo consiliare e se lo stesso debba considerarsi “terzo” in tutti gli organismi consiliari e, in coerenza con tale posizione di terzietà, se il criterio di determinazione del quorum strutturale debba prescindere dal sindaco consigliere.
Al riguardo, come noto, la disciplina della materia relativa alla costituzione dei gruppi consiliari è demandata allo statuto e al regolamento del consiglio nell'esercizio della propria autonomia funzionale ed organizzativa riconosciuta in particolare dall'art. 38, comma 3, del decreto legislativo n. 267/2000.
Ne deriva che le problematiche relative alla costituzione e al funzionamento dei gruppi consiliari dovrebbero essere valutate alla stregua delle specifiche norme statutarie e regolamentari di cui l'ente locale si è dotato, competendo al consiglio comunale l'eventuale interpretazione autentica delle predette norme.
Tuttavia, si ricorda che con una serie di pareri di questa Direzione Centrale emessi nel corso degli anni alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 44/1997 (la quale afferma che il Sindaco viene computato ad ogni fine tra i componenti del Consiglio stesso) ed alla luce della decisione del C.d.S. n. 476/1998 (da cui emerge che il sindaco, essendo componente del consiglio a tutti gli effetti può astrattamente essere componente delle commissioni consiliari), si è affermata la tesi di una possibile partecipazione del sindaco sia alle commissioni consiliari e sia ai gruppi dai quali proporzionalmente scaturiscono tali commissioni.
L’attività interpretativa, nondimeno, non può essere disgiunta dall'osservanza dei principi di buona amministrazione, né possono essere utilizzate a sostegno di tale attività, massime giurisprudenziali o dottrinarie che non si adattino perfettamente alla fattispecie esaminata.
Il sindaco, pur se membro del consiglio comunale ai sensi dell'art. 46 del T.U.O.E.L., ha, in effetti, una posizione differenziata rispetto ai singoli consiglieri comunali.
Tale disposizione lascia emergere la configurazione della posizione di terzietà del sindaco nel rapporto con i gruppi medesimi.
Ne deriva che l’iscrizione del sindaco ad un gruppo o addirittura la costituzione di un gruppo unipersonale nel corso della consiliatura da parte dello stesso sindaco può incidere sul corretto e bilanciato esercizio delle funzioni di governo dell’ente.
Riguardo al quorum strutturale per la validità delle sedute, l’art. 38, comma 2, del T.U.O.E.L. demanda al regolamento l’individuazione del numero dei consiglieri necessario per la validità delle sedute, prevedendo che in ogni caso debba esservi la presenza di almeno un terzo dei consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a tale fine il sindaco e il presidente della provincia.
Fermo restando il principio generale che, nelle ipotesi in cui l'ordinamento non ha inteso annoverare il sindaco o il presidente della provincia, nel quorum richiesto per la validità delle sedute, lo ha indicato espressamente usando la formula “senza computare a tal fine il sindaco ed il presidente della provincia”, si ritiene legittimo, al di fuori del caso prospettato, includere nel calcolo dei consiglieri anche il sindaco, fatte salve le eventuali previsioni statutarie o regolamentari difformi adottate dall’ente locale nell’ambito della propria discrezionalità (19.07.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALIAtti urgenti e improrogabili. Applicazione artt. 38, comma 5, e 39 comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000.
Sintesi/Massima
Ai sensi dell’art. 38, comma 5, i consigli comunali durano in carica per un periodo di cinque anni sino all’elezione dei nuovi, limitandosi, dopo la pubblicazione del decreto di indizione dei comizi elettorali, ad adottare gli atti urgenti e improrogabili.
La previsione legislativa in esame trae la propria ratio ispiratrice dalla necessità di evitare che il consiglio comunale possa condizionare la formazione della volontà degli elettori adottando atti aventi natura cosiddetta “propagandistica”, tali da alterare la par condicio tra le forze politiche che partecipano alle elezioni amministrative.

Testo
E’ stato formulato un quesito in ordine alla portata applicativa dell’art. 38, comma 5, del decreto legislativo n. 267/2000.
In particolare, alcuni consiglieri del comune in oggetto hanno prospettato doglianze circa la prosecuzione dell’esame delle osservazioni e delle controdeduzioni al regolamento urbanistico, da parte del consiglio comunale, successivamente alla pubblicazione del decreto di convocazione dei comizi elettorali.
Secondo quanto osservato dagli esponenti, l’esame di tali atti da parte del consiglio comunale sarebbe impedito proprio dal disposto dell’art 38, comma 5, citato, stante l’assenza di un termine perentorio per l’adozione del regolamento urbanistico ed in considerazione della natura tipicamente discrezionale delle deliberazioni in parola destinate ad incidere sul futuro del territorio.
Come noto, ai sensi del richiamato art. 38, comma 5, i consigli comunali durano in carica per un periodo di cinque anni sino all’elezione dei nuovi, limitandosi, dopo la pubblicazione del decreto di indizione dei comizi elettorali, ad adottare gli atti urgenti e improrogabili. La previsione legislativa in esame trae la propria ratio ispiratrice dalla necessità di evitare che il consiglio comunale possa condizionare la formazione della volontà degli elettori adottando atti aventi natura cosiddetta “propagandistica”, tali da alterare la par condicio tra le forze politiche che partecipano alle elezioni amministrative.
La prevalente giurisprudenza precisa che la preclusione disposta dalla citata norma opera solamente con riguardo a quelle fattispecie in cui il consiglio comunale è chiamato ad operare in pieno esercizio di discrezionalità e senza interferenze con i diritti fondamentali dell’individuo riconosciuti e protetti dalla fonte normativa superiore.
Quando invece l’organo consiliare è chiamato a pronunciarsi su questioni vincolate nell’an, nel quando e nel quomodo e che, inoltre, coinvolgano diritti primari dell’individuo, l’esercizio del potere non può essere rinviato (TAR Puglia n. 382/2004).
E’ stato precisato, inoltre, che il carattere di atti urgenti e improrogabili possa essere riconosciuto agli atti “… per i quali è previsto un termine perentorio e decadenziale, superato il quale viene meno il potere di emetterli, ovvero essi divengono inutili, cioè inidonei a realizzare la funzione per la quale devono essere formati … o hanno un’utilità di gran lunga inferiore” (TAR Veneto 1118 del 2012).
In ordine alla sussistenza del presupposto della urgenza ed improrogabilità, è stato osservato che lo stesso …“costituisce apprezzamento di merito insindacabile in sede di giurisdizione di legittimità, se non sotto il limitato profilo della inesistenza del necessario apparato motivazionale, ovvero della palese irrazionalità od illogicità della motivazione addotta” (sentenza Tar Friuli Venezia Giulia n. 585 del 2006, confermata in appello dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 6543/2008).
Come indicato nella circolare di questo Ministero n. 2 del 07.12.2006, va rilevato che l’esistenza dei presupposti di urgenza ed improrogabilità deve essere valutata caso per caso dallo stesso consiglio comunale che ne assume la relativa responsabilità politica, tenendo presente il criterio interpretativo di fondo che pone, quali elementi costitutivi della fattispecie, scadenze fissate improrogabilmente dalla legge e/o il rilevante danno per l’amministrazione comunale che deriverebbe da un ritardo nel provvedere.
Per quanto concerne la specifica problematica evidenziata, si prende atto che l’organo assembleare ha motivato la necessità di proseguire i lavori propedeutici all’approvazione del regolamento urbanistico, aderendo alle osservazioni tecniche espresse dal dirigente competente circa la necessità di pervenire all’approvazione di tale regolamento entro il 24.07.2018.
Pertanto si ritengono sussistenti le ragioni giustificative della prosecuzione dei lavori assembleari successivamente alla pubblicazione del decreto di convocazione dei comizi elettorali (19.07.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Par condicio in comune. Uguali opportunità per entrambi i sessi. Il principio vale anche per i municipi con meno di 3.000 abitanti.
In tema di parità di genere, quale disciplina deve essere applicata, nella composizione della giunta comunale, ad un ente locale con popolazione inferiore a 3.000 abitanti?

Affinché sia rispettato il principio dell'equilibrio di genere, la legge n. 56 del 07.04.2014, all'art. 1, comma 137, ha previsto, per i soli comuni con popolazione superiore ai 3.000 abitanti, il quorum del 40%. Per i comuni al di sotto di tale soglia demografica resta vigente, invece, l'art. 6, comma 3, del decreto legislativo n. 267/2000.
Tale disposizione prevede che gli statuti comunali e provinciali stabiliscano norme per assicurare condizioni di pari opportunità tra uomo e donna e per garantire la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali non elettivi del comune e della provincia, nonché degli enti, aziende ed istituzioni da essi dipendenti.
Nella specie, la legge n. 215 del 2012 ha modificato la norma citata sostituendo il verbo «promuovere» con il verbo «garantire» ed ha aggiunto alla espressione «organi collegiali» la dicitura «non elettivi» (art. 1, comma 1); l'art. 1, comma 2, di tale legge, inoltre, ha previsto l'obbligo, per gli enti locali, di adeguare i propri statuti e regolamenti alle disposizioni recate dell'art. 6, comma 3, del Tuoel. entro sei mesi dall'entrata in vigore della stessa legge.
Peraltro, l'art. 2, comma 1, lett. b), della citata legge n. 215/2012 ha modificato l'art. 46, comma 2, del decreto legislativo n. 267/00, disponendo che il sindaco ed il presidente nella provincia nominano i componenti della giunta «nel rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la presenza di entrambi i sessi». Tale normativa va letta alla luce dell'art. 51 della Costituzione, come modificato dalla legge costituzionale n. 1/2003, che ha riconosciuto dignità costituzionale al principio della promozione delle pari opportunità tra donne e uomini.
Nel caso dei comuni rientranti nella sopraindicata fascia demografica, pertanto, devono trovare applicazione le disposizioni contenute nei citati articoli 6, comma 3, e 46, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 e nella legge n. 215/2012. Tali disposizioni, recependo i principi sulle pari opportunità dettati dall'art. 51 della Costituzione, dall'art. 1 del decreto legislativo dell'11.04.2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità) e dall'art. 23 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, non hanno un mero valore programmatico, ma carattere precettivo, finalizzato a rendere effettiva la partecipazione di entrambi i sessi in condizioni di pari opportunità, alla vita istituzionale degli enti territoriali
(articolo ItaliaOggi del 13.07.2018).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Seduta entro 20 giorni.
Ai sensi dell' articolo 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, entro il previsto termine di 20 giorni deve effettuarsi la materiale seduta del consiglio comunale o deve solo procedersi alla convocazione dell'assemblea?

L'articolo 39, comma 2, citato stabilisce che il presidente del consiglio comunale è tenuto a riunire il consiglio in un termine non superiore ai venti giorni, quando lo richiedano un quinto dei consiglieri o il sindaco, inserendo all'ordine del giorno le questioni richieste.
Il successivo art. 43 che enuncia i «diritti dei consiglieri», al comma 1, ribadisce, tra l'altro, che i consiglieri hanno il diritto di chiedere la convocazione del consiglio secondo le modalità dettate dal richiamato art. 39, comma 2.
Il Tar per la Puglia–Lecce, prima sezione, ha precisato che «il termine di 20 giorni deve intendersi istituito quale termine minimo oltre il quale gli interessati possono attivarsi per provocare l'intervento sostitutivo del prefetto», posto a presidio dell'effettivo diritto dei consiglieri.
Nella fattispecie esaminata dal Tribunale, la riunione del Consiglio si era tenuta dopo 23 giorni dalla presentazione della richiesta di convocazione, pertanto, secondo il Tar, si era comunque realizzato il diritto dei consiglieri alla riunione del Consiglio per la discussione di una determinata questione da essi chiesta ai sensi dell'art. 43 comma 1, del decreto legislativo n. 267/2000.
Conclusivamente è da ritenere che nell'arco temporale di venti giorni, decorrenti dalla presentazione della richiesta, debbano svolgersi tanto la convocazione che la materiale seduta consiliare finalizzata alla discussione degli argomenti proposti dal quinto dei consiglieri
(articolo ItaliaOggi del 06.07.2018).

giugno 2018

CONSIGLIERI COMUNALIRichiesta di convocazione da parte di un quinto dei consiglieri.
Sintesi/Massima
Richiesta di convocazione da parte di un quinto dei consiglieri. Art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000.
Al Presidente del Consiglio spetta solo la verifica formale della richiesta (prescritto numero di consiglieri), mentre non potrebbe essere sindacata nel merito, salvo che non si tratti di oggetto che, in quanto illecito, impossibile o per legge manifestamente estraneo alle competenze dell’assemblea.
Il Tar Puglia nella sentenza n. 1022/2004 ha precisato che appartiene ai poteri "sovrani" dell'assemblea decidere in via pregiudiziale che un dato argomento inserito nell'ordine del giorno non debba essere discusso ("questione pregiudiziale"), ovvero se ne debba rinviare la discussione ("questione sospensiva").
Il citato Tar Puglia ha sottolineato, inoltre, che "…l’ordinamento ritiene un valore essenziale del sistema democratico che alla minoranza sia assicurata effettività del diritto di iniziativa, e cioè del diritto di discussione in assemblea sull’argomento richiesto.
Ove, così non fosse, grave ed evidente sarebbe la contraddizione fra tutela rafforzata del diritto di iniziativa e mancanza di limiti per la maggioranza di metterlo nel nulla con la proposizione di una qualunque questione pregiudiziale.”.

Testo
Sono stati chiesti chiarimenti in ordine alla normativa recata dall’art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000.
Al riguardo, com'é noto, il citato art. 39 prescrive che il presidente del consiglio comunale è tenuto a riunire il consiglio, in un termine non superiore ai venti giorni, quando lo richiedano un quinto dei consiglieri o il sindaco, inserendo all’ordine del giorno le questioni richieste. La disposizione configura un obbligo del Presidente del consiglio comunale di procedere alla convocazione dell'organo assembleare senza alcun riferimento alla necessaria adozione di determinazioni, da parte del consiglio stesso.
In caso di inosservanza degli obblighi di convocazione, in base al comma 5, previa diffida, provvede il prefetto.
La dibattuta questione sulla sindacabilità, da parte del Presidente del Consiglio (o del Sindaco), dei motivi che determinano i consiglieri a chiedere la convocazione straordinaria dell’assemblea, si è orientata, sempre in base alla giurisprudenza, nel senso che allo stesso spetti solo la verifica formale della richiesta (prescritto numero di consiglieri), mentre non potrebbe essere sindacata nel merito, salvo che non si tratti di oggetto che, in quanto illecito, impossibile o per legge manifestamente estraneo alle competenze dell’assemblea in nessun caso potrebbe essere posto all’ordine del giorno (v. TAR Piemonte, Sez. II, 24.04.1996, n. 268).
Alla luce del richiamato orientamento giurisprudenziale e dottrinario, le uniche ipotesi per le quali l'organo che presiede il consiglio comunale può omettere la convocazione dell'assemblea sembrano la carenza del prescritto numero di consiglieri oppure la verificata illiceità, impossibilità o manifesta estraneità dell'oggetto alle competenze del Consiglio.
Nello stabilire se una determinata questione sia o meno di competenza del Consiglio comunale occorre aver riguardo non solo agli atti fondamentali espressamente elencati dal comma 2 dell'art. 42 del citato testo unico, ma anche alle funzioni di indirizzo e di controllo politico-amministrativo di cui al comma 1 del medesimo art. 42, con la possibilità, quindi, che la trattazione da parte del collegio non debba necessariamente sfociare nell'adozione di un provvedimento finale.
Il Consiglio comunale ha, infatti, un potere generale di indirizzo e di controllo politico-amministrativo sull'attività del Comune, nel cui ambito rientra pure quello di indirizzo, coordinamento e controllo sull'operato della Giunta (conforme, Tribunale di Giustizia Amministrativa di Trento n. 20/2010 del 14.01.2010).
L’amministrazione locale in oggetto, nel ritenere non obbligatoria la convocazione dell'assemblea per esaminare questioni considerate "estranee" alla competenza consiliare, ha richiamato le osservazioni formulate dal Tar Puglia nella sentenza n. 1022/2004. Nella citata pronuncia il giudice amministrativo ha precisato che appartiene ai poteri "sovrani" dell’assemblea decidere in via pregiudiziale che un dato argomento inserito nell'ordine del giorno non debba essere discusso ("questione pregiudiziale"), ovvero se ne debba rinviare la discussione ("questione sospensiva").
La sentenza offre, altresì, un'interessante riflessione circa il necessario bilanciamento del potere assembleare di esaminare le questioni pregiudiziali con il diritto riconosciuto alle minoranze di attivare l’istituto della convocazione dell’assemblea su richiesta di un quinto dei consiglieri.
A tale proposito, il citato Tar Puglia ha ritenuto di dover sottolineare che "…tale diritto di iniziativa è tutelato in modo specifico dalla legge con la previsione severa ed eccezionale della modificazione dell'ordine delle competenze mediante intervento sostitutorio del Prefetto in caso di mancata convocazione del consiglio comunale in un termine emblematicamente breve (venti giorni). Il significato giuridicamente utile di tale procedura rafforzata di tutela va individuato nel fatto che l'ordinamento ritiene un valore essenziale del sistema democratico che alla minoranza sia assicurata effettività del diritto di iniziativa, e cioè del diritto di discussione in assemblea sull'argomento richiesto. Ove, così non fosse, grave ed evidente sarebbe la contraddizione fra tutela rafforzata del diritto di iniziativa e mancanza di limiti per la maggioranza di metterlo nel nulla con la proposizione di una qualunque questione pregiudiziale.”.
Pertanto è nell'ambito delle descritte coordinate giurisprudenziali che il Presidente del consiglio dovrà conformare il proprio operato (28.06.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Gruppi consiliari.
Sintesi/Massima
Ai sensi dell’art. 3 dello statuto speciale della Regione Sardegna, l’ordinamento degli enti locali rientra nella competenza della legislazione regionale nel rispetto della Costituzione, dei principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica, degli obblighi internazionali e degli interessi nazionali, nonché delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica.
Testo
E’ stato formulato un quesito in materia di gruppi consiliari.
In particolare, è stato chiesto se, alla luce della normativa recata dalle fonti di autonomia locale del Comune in oggetto, due consiglieri, originariamente inseriti nel gruppo corrispondente alla lista di maggioranza, possano costituire un nuovo gruppo diverso dal gruppo misto e se, nell’ambito di un eventuale gruppo misto, possa essere designato un capogruppo.
Si osserva preliminarmente che, ai sensi dell’art. 3 dello statuto speciale della Regione Sardegna, l’ordinamento degli enti locali rientra nella competenza della legislazione regionale nel rispetto della Costituzione, dei principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica, degli obblighi internazionali e degli interessi nazionali, nonché delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica.
La normativa in materia di gruppi consiliari è prevista dall’art. 14 dello statuto comunale e dall’art. 7 del regolamento sul funzionamento del consiglio comunale.
A termini della disciplina statutaria, i consiglieri possono costituire gruppi anche non corrispondenti alle liste elettorali nelle quali sono stati eletti “purché tali gruppi risultino composti da almeno 2 membri”.
Ai sensi dell’art. 7, comma 5, del regolamento del consiglio comunale è riconosciuta la possibilità ai consiglieri che si siano distaccati dal proprio gruppo originario e che non abbiano aderito ad altro gruppo di costituire il “gruppo misto”. Il gruppo misto elegge al suo interno un capogruppo.
Dall’esame del quadro normativo delineato i due consiglieri comunali fuoriusciti dal gruppo corrispondente alla lista nella quale sono risultati eletti ben potrebbero formare un nuovo gruppo diverso dal gruppo misto. Ciò in quanto l’unico limite posto dalle fonti di autonomia locale per la formazione di un nuovo gruppo è che lo stesso sia costituito da “almeno 2 membri”.
Nell’eventualità che alcuni consiglieri decidano di formare il gruppo misto saranno tenuti ad eleggere al proprio interno il Capogruppo (28.06.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALIUso della fascia tricolore.
Sintesi/Massima
Uso della fascia tricolore.
La disciplina del suo uso è legata, dunque, alla natura delle funzioni sindacali che sono di capo dell’Amministrazione comunale e di ufficiale di Governo.
Allorquando il sindaco sia assente o impedito temporaneamente ai sensi dell’art. 53, c. 2, del T.U.O.E.L., spetta solo al vice sindaco fregiarsene.

Testo
E’ stato posto un quesito in ordine al corretto uso della fascia tricolore.
In particolare, è stato rappresentato che un consigliere comunale, delegato alla cultura, ma non membro della giunta, dovrebbe utilizzare la fascia per partecipare ad iniziative popolari in altro Paese della Regione e a un ricevimento organizzato da concittadini emigrati all’estero, mentre un assessore dovrebbe utilizzarla per rappresentare il comune in una commemorazione dei caduti in un Paese limitrofo.
Al riguardo, si osserva che con circolare di questo Ministero n. 5/98 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 270 del 18.11.1998 si sono fornite indicazioni in ordine al corretto utilizzo della fascia tricolore da parte del sindaco.
Nella circolare viene evidenziato il carattere sostanziale dell’intervento normativo (ora, art. 50, comma 12, del decreto legislativo n. 267/2000), con il quale è stato espressamente disposto che «distintivo del sindaco è la fascia tricolore con lo stemma della Repubblica e lo stemma del comune» e che “nell’uso corrente si è affermata la consuetudine che il sindaco indossi la fascia in tutte le occasioni ufficiali, in qualunque veste intervenga”.
La disciplina del suo uso è legata, dunque, alla natura delle funzioni sindacali che sono di capo dell’Amministrazione comunale e di ufficiale di Governo.
Allorquando il sindaco sia assente o impedito temporaneamente ai sensi dell’art. 53, c. 2, del T.U.O.E.L., spetta solo al vice sindaco fregiarsene.
Restano validi gli utilizzi stabiliti da esplicite previsioni normative, come quella di cui all’articolo 70 del d.P.R. n. 396, del 03.11.2000 ove, in ragione della particolarità delle funzioni espletate, si prevede che “l’ufficiale dello stato civile, nel celebrare il matrimonio, deve indossare la fascia tricolore…”.
Pertanto l’uso della fascia tricolore, anche per delega dello stesso sindaco, da parte di altri soggetti, seppur incardinati nell’Amministrazione comunale o facenti parte di Organismi o Enti a cui partecipino gli Enti locali con propri rappresentanti, non appare in linea con il dettato normativo.
Va comunque evidenziato che, alla luce della legge costituzionale n. 3 del 18.10.2001, sussiste oggi ampia possibilità per le autonomie locali di disciplinare, con normazione regolamentare, l’utilizzo dei propri segni distintivi, anche a scopo di rappresentanza, senza così ricorrere all’impiego di un simbolo, quale la fascia tricolore, attinente nello specifico al capo dell’amministrazione ed allo svolgimento delle proprie funzioni in conformità alle indicazioni di legge (28.06.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALIAccesso al sistema informativo comunale da parte di consiglieri.
Sintesi/Massima
Accesso al sistema informativo comunale da parte di consiglieri tramite password.
Come osservato dal Plenum della Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, del 16.03.2010, il “diritto di accesso” ed il “diritto di informazione” dei consiglieri comunali nei confronti della P.A. trovano la loro disciplina nell’art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000 che riconosce a questi il diritto di ottenere dagli uffici comunali, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato. (Confermato dal successivo parere del 23.10.2012).
“L’accesso diretto tramite utilizzo di apposita password al sistema informatico dell’Ente, ove operante, è uno strumento di accesso certamente consentito al consigliere comunale che favorirebbe la tempestiva acquisizione delle informazioni richieste senza aggravare l’ordinaria attività amministrativa. Ovviamente il consigliere comunale rimane responsabile della segretezza della password di cui è stato messo a conoscenza a tali fini (art. 43, comma 2, T.U.O.E.L.)”.

Testo
E’ stato chiesto un parere in materia di diritto di accesso al sistema informativo comunale.
In particolare, i consiglieri hanno avanzato al Sindaco richiesta di rendere disponibile la password al fine “di accedere anche al Protocollo informatico”.
Il Sindaco ha chiesto a codesta Prefettura se, in mancanza di un programma informatico in grado di oscurare, anche solo temporaneamente, oggetti e contenuti per i quali sia necessario il differimento, sia possibile consentire l’accesso al solo elenco del protocollo.
I medesimi consiglieri hanno chiesto anche a questo Ministero le motivazioni in ordine alla mancata autorizzazione ad accedere al “solo elenco del protocollo” per le finalità indicate dal Comune.
In merito, come osservato dal Plenum della Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, del 16.03.2010, il “diritto di accesso” ed il “diritto di informazione” dei consiglieri comunali nei confronti della P.A. trovano la loro disciplina nell’art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000 che riconosce a questi il diritto di ottenere dagli uffici comunali, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato (confermato dal successivo parere del 23.10.2012)
Sempre secondo quanto sostenuto dalla Commissione per l’accesso con il citato parere “l’accesso diretto tramite utilizzo di apposita password al sistema informatico dell’Ente, ove operante, è uno strumento di accesso certamente consentito al consigliere comunale che favorirebbe la tempestiva acquisizione delle informazioni richieste senza aggravare l’ordinaria attività amministrativa. Ovviamente il consigliere comunale rimane responsabile della segretezza della password di cui è stato messo a conoscenza a tali fini (art. 43, comma 2, T.U.O.E.L.)”.
Anche il Garante per la protezione dei dati personali (v. relazione del 2004, pag. 19 e 20) ha specificato che “nell’ipotesi in cui l’accesso da parte dei consiglieri comunali riguardi dati sensibili, l’esercizio di tale diritto, ai sensi dell’art. 65, comma 4, lett. b), del Codice, è consentito se indispensabile per lo svolgimento della funzione di controllo, di indirizzo politico, di sindacato ispettivo e di altre forme di accesso a documenti riconosciute dalla legge e dai regolamenti degli organi interessati per consentire l’espletamento di un mandato elettivo. Resta ferma la necessità, … che i dati così acquisiti siano utilizzati per le sole finalità connesse all’esercizio del mandato, rispettando in particolare il divieto di divulgazione dei dati idonei a rivelare lo stato di salute. Spetta quindi all’amministrazione destinataria della richiesta accertare l’ampia e qualificata posizione di pretesa all’informazione ratione officii del consigliere comunale”.
Peraltro, anche la giurisprudenza ha affermato il diritto del consigliere alla visione del protocollo generale, senza alcuna esclusione di oggetti e notizie riservate e di materie coperte da segreto, posto che i consiglieri comunali sono tenuti al segreto - ai sensi del citato articolo 43 del decreto legislativo n. 267/2000.
Fatto salvo il diritto dei consiglieri, la materia, comunque, dovrebbe trovare apposita disciplina regolamentare di dettaglio per il suo esercizio (28.06.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALIRiprese audiovisive delle sedute del consiglio comunale. Richiesta di annullamento.
Sintesi/Massima
Riprese audiovisive delle sedute del consiglio comunale.
Nell'ambito dell'attribuzione al consiglio comunale dell'autonomia funzionale ed organizzativa si riconduce quella potestà di regolare opportunamente, con apposite norme, ogni aspetto attinente al funzionamento dell'assemblea, tra cui anche quello della registrazione del dibattito e delle votazioni con mezzi audiovisivi, sia da parte degli uffici di supporto all'attività di verbalizzazione del segretario comunale, che da parte dei consiglieri, degli organi di informazione e dei cittadini che assistono alla sedute pubbliche.

Testo
E’ stato chiesto l’annullamento di una deliberazione con cui era stato approvato il regolamento sulle riprese audiovisive delle sedute del consiglio comunale.
Al riguardo, premesso che questo Ministero, com’è noto, non dispone di poteri di controllo sugli atti degli enti locali, si osserva che le eventuali illegittimità possono farsi rilevare in sede di giudizio da parte di chi ne abbia interesse.
Riguardo alla specifica fattispecie, si evidenzia come nell'ambito dell'attribuzione al consiglio comunale dell'autonomia funzionale ed organizzativa (art. 38, comma 3, T.U.O.E.L.) si riconduce quella potestà di regolare opportunamente, con apposite norme, ogni aspetto attinente al funzionamento dell'assemblea, tra cui anche quello della registrazione del dibattito e delle votazioni con mezzi audiovisivi, sia da parte degli uffici di supporto all'attività di verbalizzazione del segretario comunale, che da parte dei consiglieri, degli organi di informazione e dei cittadini che assistono alla sedute pubbliche.
Sulla materia è intervenuta la sentenza n. 826 del 16.03.2010 con la quale il TAR per il Veneto ha respinto un ricorso avverso il diniego opposto da un sindaco ad una richiesta di registrazione audio-video delle sedute del consiglio comunale, nella considerazione che, in assenza di un'apposita disciplina regolamentare adottata dall'ente, non possano essere garantiti i diritti previsti dal codice sul trattamento dei dati personali di cui al d.lgs. 196 del 2003 e successive modifiche.
Secondo quanto osservato nella citata pronuncia, infatti, gli adempimenti previsti dal suddetto codice “non possono per certo conseguire da estemporanei assensi alla videoregistrazione emanati dal sindaco-Presidente del consiglio comunale nel corso delle sedute del Consiglio medesimo, ma necessitano di essere disciplinati da un'apposita fonte regolamentare di competenza consiliare”.
Il citato giudice amministrativo ha ritenuto, peraltro, immediatamente concedibile da parte del Presidente del Consiglio Comunale, nei confronti di emittenti televisive nazionali e locali l'autorizzazione a riprendere, in via non sistematica, gratuitamente e senza diritti di esclusiva, talune brevi fasi delle sedute del Consiglio Comunale in quanto da tale autorizzazione non conseguono obblighi di sorta per l'Amministrazione Comunale quale 'titolare' o 'responsabile' del trattamento dei personali (28.06.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Richiesta di convocazione da parte di un quinto dei consiglieri.
Sintesi/Massima
Richiesta di convocazione da parte di un quinto dei consiglieri. Art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000.
Al Presidente del Consiglio spetta solo la verifica formale della richiesta (prescritto numero di consiglieri), mentre non potrebbe essere sindacata nel merito, salvo che non si tratti di oggetto che, in quanto illecito, impossibile o per legge manifestamente estraneo alle competenze dell’assemblea.
Il Tar Puglia nella sentenza n. 1022/2004 ha precisato che appartiene ai poteri “sovrani” dell’assemblea decidere in via pregiudiziale che un dato argomento inserito nell’ordine del giorno non debba essere discusso (“questione pregiudiziale”), ovvero se ne debba rinviare la discussione (“questione sospensiva”).
Il citato Tar Puglia ha sottolineato, inoltre, che “…l’ordinamento ritiene un valore essenziale del sistema democratico che alla minoranza sia assicurata effettività del diritto di iniziativa, e cioè del diritto di discussione in assemblea sull’argomento richiesto. Ove, così non fosse, grave ed evidente sarebbe la contraddizione fra tutela rafforzata del diritto di iniziativa e mancanza di limiti per la maggioranza di metterlo nel nulla con la proposizione di una qualunque questione pregiudiziale.”.

Testo
Sono stati chiesti chiarimenti in ordine alla normativa recata dall’art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000.
Al riguardo, com’è noto, il citato art. 39 prescrive che il presidente del consiglio comunale è tenuto a riunire il consiglio, in un termine non superiore ai venti giorni, quando lo richiedano un quinto dei consiglieri o il sindaco, inserendo all’ordine del giorno le questioni richieste. La disposizione configura un obbligo del Presidente del consiglio comunale di procedere alla convocazione dell’organo assembleare senza alcun riferimento alla necessaria adozione di determinazioni, da parte del consiglio stesso.
In caso di inosservanza degli obblighi di convocazione, in base al comma 5, previa diffida, provvede il prefetto.
La dibattuta questione sulla sindacabilità, da parte del Presidente del Consiglio (o del Sindaco), dei motivi che determinano i consiglieri a chiedere la convocazione straordinaria dell’assemblea, si è orientata, sempre in base alla giurisprudenza, nel senso che allo stesso spetti solo la verifica formale della richiesta (prescritto numero di consiglieri), mentre non potrebbe essere sindacata nel merito, salvo che non si tratti di oggetto che, in quanto illecito, impossibile o per legge manifestamente estraneo alle competenze dell’assemblea in nessun caso potrebbe essere posto all’ordine del giorno (v. TAR Piemonte, Sez. II, 24.04.1996, n. 268).
Alla luce del richiamato orientamento giurisprudenziale e dottrinario, le uniche ipotesi per le quali l’organo che presiede il consiglio comunale può omettere la convocazione dell’assemblea sembrano la carenza del prescritto numero di consiglieri oppure la verificata illiceità, impossibilità o manifesta estraneità dell’oggetto alle competenze del Consiglio.
Nello stabilire se una determinata questione sia o meno di competenza del Consiglio comunale occorre aver riguardo non solo agli atti fondamentali espressamente elencati dal comma 2 dell’art. 42 del citato testo unico, ma anche alle funzioni di indirizzo e di controllo politico-amministrativo di cui al comma 1 del medesimo art. 42, con la possibilità, quindi, che la trattazione da parte del collegio non debba necessariamente sfociare nell’adozione di un provvedimento finale.
Il Consiglio comunale ha, infatti, un potere generale di indirizzo e di controllo politico - amministrativo sull’attività del Comune, nel cui ambito rientra pure quello di indirizzo, coordinamento e controllo sull'operato della Giunta (conforme, Tribunale di Giustizia Amministrativa di Trento n. 20/2010 del 14.01.2010).
L’amministrazione locale in oggetto, nel ritenere non obbligatoria la convocazione dell’assemblea per esaminare questioni considerate “estranee” alla competenza consiliare, ha richiamato le osservazioni formulate dal Tar Puglia nella sentenza n. 1022/2004. Nella citata pronuncia il giudice amministrativo ha precisato che appartiene ai poteri “sovrani” dell’assemblea decidere in via pregiudiziale che un dato argomento inserito nell’ordine del giorno non debba essere discusso (“questione pregiudiziale”), ovvero se ne debba rinviare la discussione (“questione sospensiva”).
La sentenza offre, altresì, un’interessante riflessione circa il necessario bilanciamento del potere assembleare di esaminare le questioni pregiudiziali con il diritto riconosciuto alle minoranze di attivare l’istituto della convocazione dell’assemblea su richiesta di un quinto dei consiglieri.
A tale proposito, il citato Tar Puglia ha ritenuto di dover sottolineare che “…tale diritto di iniziativa è tutelato in modo specifico dalla legge con la previsione severa ed eccezionale della modificazione dell’ordine delle competenze mediante intervento sostitutorio del Prefetto in caso di mancata convocazione del consiglio comunale in un termine emblematicamente breve (venti giorni). Il significato giuridicamente utile di tale procedura rafforzata di tutela va individuato nel fatto che l’ordinamento ritiene un valore essenziale del sistema democratico che alla minoranza sia assicurata effettività del diritto di iniziativa, e cioè del diritto di discussione in assemblea sull’argomento richiesto. Ove, così non fosse, grave ed evidente sarebbe la contraddizione fra tutela rafforzata del diritto di iniziativa e mancanza di limiti per la maggioranza di metterlo nel nulla con la proposizione di una qualunque questione pregiudiziale.”.
Pertanto è nell’ambito delle descritte coordinate giurisprudenziali che il Presidente del consiglio dovrà conformare il proprio operato (28.06.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI - CONSIGLIERI COMUNALIPer il Comune, soggetto legittimato a stare in giudizio, ai sensi dell'art. 75 c.p.c., è soltanto il Sindaco (art. 50 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267) e non la giunta comunale, cosicché tale ultimo organo, anche laddove abbia, per statuto, il potere di autorizzare il Sindaco alla proposizione di azioni in giudizio, è privo del potere di nomina del difensore, il quale, seppure designato mediante delibera di giunta, deve nuovamente essere nominato, con conferimento di apposita procura alle liti, dal Sindaco.
La delibera della Giunta, siccome priva di valenza esterna, ha natura meramente gestionale e tecnica.

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Costituisce orientamento consolidato di questo giudice di legittimità quello secondo il quale, alla luce dei principi generali in tema di procura alle liti (artt. 83 e 365 c.p.c.) e di mandato (art. 1716 c.c., disciplinante l'ipotesi di pluralità di mandatari), ove il mandato alle liti venga conferito a più difensori, si presume che esso sia conferito disgiuntamente a ciascuno di essi, salvo inequivoca manifestazione di volontà della parte in favore del carattere congiuntivo del mandato, con la conseguenza che ciascuno dei difensori, in difetto di un'espressa ed inequivoca volontà della parte circa il carattere congiuntivo, e non disgiuntivo, del mandato medesimo, ha pieni poteri di rappresentanza processuale (Cass. 1168/2004; Cass. 13252/2006).
Ne deriva che non integra gli estremi della fattispecie normativa di cui all'art. 301 cod. proc. civ. (interruzione del processo per morte del procuratore) il decesso di uno solo dei due difensori muniti di mandato dal quale non risulti, espressamente, l'obbligo di agire congiuntamente, tanto che è stata ritenuta (Cass. 8189/1997; Cass. 8931/2000; Cass. 15293/2002) irrilevante la mancanza, nell'atto predetto, della espressione "anche disgiuntamente", la cui assenza non consente di ritenere escluso il potere di rappresentanza disgiunta in capo a ciascuno dei procuratori della parte.
Nella specie, nella procura alle liti allegata a margine dell'atto di appello era pacificamente apposta la clausola "con poteri anche disgiunti".
Ora, a fronte di ciò, il ricorrente invoca una deliberazione della Giunta comunale, con la quale, sulla base di specifica disposizione statutaria, sarebbe stato autorizzato il Sindaco a resistere in giudizio ed a proporre appello, conferendo mandato congiunto ai difensori.
Tuttavia, questa Corte ha chiarito che, per il Comune, soggetto legittimato a stare in giudizio, ai sensi dell'art. 75 c.p.c., è soltanto il Sindaco (art. 50 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267) e non la giunta comunale, cosicché tale ultimo organo, anche laddove abbia, per statuto, il potere di autorizzare il Sindaco alla proposizione di azioni in giudizio, è privo del potere di nomina del difensore, il quale, seppure designato mediante delibera di giunta, deve nuovamente essere nominato, con conferimento di apposita procura alle liti, dal Sindaco (Cass. 18062/2010).
La delibera della Giunta, siccome priva di valenza esterna, ha natura meramente gestionale e tecnica (Cass. 11516/2007; Cass. 5802/2016).
Ne consegue che assume rilievo la sola procura alle liti conferita dal Sindaco, a margine dell'atto di appello, con poteri disgiunti ai due difensori, Avv.ti Ma. ed As., non anche la delibera della Giunta del 2001, con la quale, secondo quanto ritrascritto in ricorso, venivano incaricati "in maniera congiunta" i due avvocati ad "opporsi alla sentenza" di primo grado (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 21.06.2018 n. 16459).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: Il protocollo d’intesa con cui il Comune assume impegni con un privato ha natura contrattuale.
Il protocollo d’intesa tra Comune e privato anche se origina dal perseguimento di una finalità pubblica non esclude il carattere iure privatorum degli impegni assunti tra le parti. E non si può lamentare alcuna illegittimità dell’intesa se firmata dal capo staff del sindaco e non dal dirigente competente.
La Corte di Cassazione, Sez. III civile, con la sentenza 21.06.2018 n. 16327 ha, infatti, cassato la decisione di merito che aveva ritenuto mero atto politico d’indirizzo il protocollo e privo di stringenti impegni contrattuali, che possano, in particolare determinare l’inadempimento della Pa con le normali conseguenze risarcitorie.
Il Comune di Roma aveva concluso un protocollo d’intesa con la Siae per lo sgombero di un immobile su cui la società intendeva svolgere operazioni redditizie ma che invece ne era impedita in quanto lo stabile era occupato in parte da famiglie e in parte da realtà associative. Il Comune aveva assunto la custodia del bene e soprattutto, ciò che qui rileva, l’impegno a riconsegnare entro tre mesi l’immobile «liberato» dagli occupanti senza titolo.
L’emergenza abitativa aveva posto il Comune in una posizione di tolleranza per provvedere allo sgombero delle parti dell’immobile fruite come residenze familiari solo successivamente all’aver individuato altri alloggi idonei. Impegno rispettato a metà dall’ente locale che, sebbene, fosse riuscito a sgomberare le famiglie non aveva invece restituito il pieno diritto di godimento al proprietario per quanto riguardava la realtà associativa presente al piano terra e seminterrato. Per tale inadempimento la Siae chiedeva al giudice civile il risarcimento del danno patito per non aver potuto ancora procedere a effettuare operazioni redditizie come l’affitto o la vendita sul bene.
Il giudice di secondo grado aveva negato alla Siae -che richiedeva il risarcimento dei danni al Comune- che il protocollo su cui si fondava la sua domanda fosse un negozio giuridico perfetto di diritto privato. Prima di tutto sostenevano i giudici che un protocollo d’intesa non potesse mai essere uno di quei contratti di natura privata che conclude la pubblica amministrazione, poiché per sua natura è un atto di indirizzo politico e non può determinare obbligazioni a carico della parte pubblica. E che inoltre l’atto non sarebbe perfezionato in quanto non reca la firma dell’organo gestionale, e non rappresentativo, competente per materia del Comune. La sentenza con una lunga disamina contraddice entrambe le censure della Corte di merito che aveva respinto -ribaltando il giudizio di primo grado- la domanda risarcitoria della Siae.
Prima di tutto la Cassazione affronta il tema del perfezionamento dell’impegno contrattuale del Comune verso la società e chiarisce che nei negozi giuridici di diritto privato conclusi dalla Pa va comunque apposta la firma di chi riveste il ruolo apicale di governo non bastando l’impegno sottoscritto dal solo dirigente amministrativo di settore. Non si poteva quindi negare la natura di impegno contrattuale alla determinazione presa dal Comune col Protocollo d’intesa, firmata dal capo staff del sindaco, ad assumersi la responsabilità di custode del bene al fine di provvedere allo sgombero e senza prevedere alcun compenso per la proprietà.
Il ruolo pubblico e politico del Comune nel farsi carico della vicenda nasce da una di quelle vicende che sono oggetto dell’azione di governo di un ente locale, cioè l’emergenza abitativa, cui non sapeva come far fronte se non dandosi un termine congruo per provvedervi. E qui sta la vera precisazione della Cassazione che fa notare che la natura puramente contrattuale di un rapporto giuridico in cui la pubblica amministrazione sia in una posizione di fondamentale parità col privato discenda dal fatto che il contratto non mira allo svolgimento di un’azione pubblica o al raggiungimento di un fine pubblico, come esempio nelle convenzioni o concessioni.
Che all’origine della scelta del Comune di farsi custode e carico di un impegno verso la Siae ci fosse la finalità pubblica di fronteggiare l’emergenza abitativa tenendo ferma l’occupazione per almeno altri 90 giorni dalla firma dell’intesa, nulla toglie alla natura contrattuale di quanto promesso dalla Pa. Quindi nei rapporti tra società e Comune ciò che rileva è l’adempimento o meno delle obbligazioni previste (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 22.06.2018).
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MASSIMA
2. Con il secondo motivo di impugnazione si deduce la violazione e/o falsa applicazione dell'articolo 4 D.lgs. n. 165 del 2001 ex articolo 360, numero 3, cod. proc. civ..
Ritiene la parte ricorrente che il protocollo in questione non debba essere inquadrato nella categoria dell'atto politico o di indirizzo politico poiché, per definizione, tale attività è svolta dagli organi costituzionali dello Stato e consiste nella formulazione di scelte con le quali si individuano i fini che lo Stato intende perseguire in un determinato momento storico attraverso l'attività amministrativa; inoltre, secondo la dottrina prevalente, l'attività di indirizzo politico non costituisce una quarta funzione dello Stato rispetto alle tre tradizionali (normativa, giurisdizionale, amministrativa); in più detta attività, sotto il profilo formale, si esprime attraverso una ben determinata tipologia di atti come leggi oppure risoluzioni, direttive, mozioni interrogazioni e interpellanze.
2.1.
La norma di riferimento è l'art. 4 del D.lgs. n. 165 del 2001 -contenente le norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche-, la quale, nel qualificare le attività di indirizzo politico-amministrativo, e in particolare le funzioni e responsabilità al suo interno (ex art. 3 del d.lgs. n. 29 del 1993, come sostituito prima dall'art. 2 del d.lgs n. 470 del 1993 poi dall'art. 3 del d.lgs n. 80 del 1998 e successivamente modificato dall'art. 1 del d.lgs. n. 387 del 1998) indica che gli organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi ed i programmi da attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento di tali funzioni, e verificano la rispondenza dei risultati dell'attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti. Ad essi spettano, in particolare:
   a) le decisioni in materia di atti normativi e l'adozione dei relativi atti di indirizzo interpretativo ed applicativo;
   b) la definizione di obiettivi, priorità, piani, programmi e direttive generali per l'azione amministrativa e per la gestione;
   c) la individuazione delle risorse umane, materiali ed economico-finanziarie da destinare alle diverse finalità e la loro ripartizione tra gli uffici di livello dirigenziale generale;
   d) la definizione dei criteri generali in materia di ausili finanziari a terzi e di determinazione di tariffe, canoni e analoghi oneri a carico di terzi;
   e) le nomine, designazioni ed atti analoghi ad essi attribuiti da specifiche disposizioni;
   f) le richieste di pareri alle autorità amministrative indipendenti ed al Consiglio di Stato;
   g) gli altri atti indicati dal presente decreto.
Nel secondo comma si stabilisce che «ai dirigenti spetta l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi poteri di spesa di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo. Essi sono responsabili in via esclusiva dell'attività amministrativa , della gestione e dei relativi risultati».
Al terzo comma indica inoltre che «le attribuzioni dei dirigenti indicate dal comma 2 possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative», mentre al quarto comma sancisce che «le amministrazioni pubbliche i cui organi di vertice non siano direttamente o indirettamente espressione di rappresentanza politica, adeguano i propri ordinamenti al principio della distinzione tra indirizzo e controllo, da un lato, e attuazione e gestione dall'altro».
Alla luce di questa norma,
la Corte di merito ha desunto che il protocollo d'intesa in esame, qualificandosi come atto di contenuto politico, non potesse generare un impegno negoziale nei confronti dell'ente proprietario del bene occupato preso in custodia, sull'assunto che l'atto è stato emesso dall'organo di vertice che era in grado di esprimere un'azione di indirizzo e controllo, e non di attuare e gestire i relativi risultati, mancando l'assenso dell'organo interno preposto.
2.2. La norma in esame non può valere per affermare che l'atto in questione non costituisca una valida fonte di obbligazione a carico del Comune solo perché non è stato seguito dal perfezionamento di un negozio sottoscritto dal dirigente provvisto delle necessarie competenze e funzioni:
è principio generale del diritto amministrativo (di cui si rinviene conferma nell'art. 4 del d.lgs. 30.03.2001, n. 165) che, nell'ambito delle pubbliche amministrazioni, le cui strutture siano connotate da organizzazione gerarchica, la delegabilità delle funzioni, da parte dell'organo posto al vertice, ai collaboratori dotati di adeguate qualifiche e cognizioni, costituisce la regola, salvo che la legge non disponga diversamente, prevedendo una competenza funzionale ed inderogabile dell'organo apicale (v. Cass. n. 10202/2010), evenienza, questa, non riscontrabile nella specie (v. anche Cass. 9441/2001). 
Gli enti territoriali sono certamente organismi strutturati gerarchicamente al loro interno, ma non devono ritenersi sottratti alla regola di cui all'art. 4 D.Lgs. 30.03.2001, n. 165 che dopo avere, al comma 1, riservato agli organi di Governo, le «funzioni di indirizzo politico-amministrativo», successivamente elencando una serie di atti di tal genere, al successivo comma 2 attribuisce una competenza generale residuale ai "dirigenti" per l'adozione degli «atti e provvedimenti amministrativi», comprensiva, segnatamente, di quelli che impegnano l'«amministrazione verso l'esterno», precisando poi, al comma 3, che le attribuzioni dei dirigenti possono essere «derogate soltanto espressamente ed opera di specifiche disposizioni legislative».
Pertanto,
la norma in esame non può certamente intendersi nel senso di escludere, pur in presenza di un potere di delega interna di funzioni, la sussistenza del relativo potere in capo agli organi apicali della pubblica amministrazione, essendo tale norma intesa a sancire il principio di ripartizione di competenze e di «normale delegabilità e attribuzione delle funzioni non politiche» alla base della piramide gerarchica, salvo diversa disposizione di legge.
2.3. Posta questa premessa in linea di diritto,
si rileva come il documento sottoscritto, innanzitutto, non possa sussumersi nella categoria di puro atto programmatico o politico solo perché denominato come Protocollo d'intesa e proveniente dall'organo di vertice designato ad attuare l'attività di indirizzo e controllo politico sul territorio del Comune di Roma in una situazione di emergenza abitativa.
Il documento in esame, oltre all'intento di trovare una soluzione politica e amministrativa alla situazione di tensione abitativa correlata all'occupazione abusiva da parte di terzi della proprietà immobiliare della società ricorrente, contiene una chiara e inequivocabile assunzione di puntuali e specifici impegni nei confronti della società ricorrente da parte del Comune che ha regolarmente sottoscritto l'atto; e, quanto al contenuto, è dato leggere che il Comune si è reso garante, assumendone la custodia con ogni relativa responsabilità, della liberazione dell'immobile, facendosi carico delle spese di gestione e impegnandosi entro 90 giorni a individuare spazi alternativi per le predette associazioni e a effettuare la riconsegna dei locali alla SIAE.
2.4.
Sulla nozione di atto politico si deve fare riferimento alla giurisprudenza del Consiglio di Stato secondo la quale «alla nozione legislativa di atto politico concorrono due requisiti, l'uno soggettivo e l'altro oggettivo: occorre da un lato che si tratti di atto-provvedimento emanato dal governo, e cioè dall'autorità amministrativa cui compete la funzione di indirizzo politico e di direzione al massimo livello della cosa pubblica; dall'altro, che si tratti di atto provvedimento emanato nell'esercizio del potere politico, anziché nell'esercizio di attività meramente amministrativa (Consiglio di Stato, sez. IV, 04.05.2012, n.  2588), ovverosia debba riguardare la costituzione, la salvaguardia e il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione» (v. Consiglio di Stato, sez. IV, 18.11.2011 n. 6083; Consiglio di Stato, sez. IV, 12.03.2001 n. 1397; Consiglio di Stato, 08.07.2013 n. 3609).
2.5. Alla luce di quanto sopra, il Protocollo di intesa in oggetto, sottoscritto dalla società proprietaria del bene, per la parte che inerisce agli obblighi assunti dalla PA verso quest'ultima, non si pone certamente nell'alveo dell'atto di indirizzo politico, di mero contenuto programmatico, non avendo esso alcuna attinenza con la costituzione, la salvaguardia e il funzionamento dei pubblici poteri.
All'opposto, detto documento contiene un impegno preciso dell'ente territoriale nei confronti del proprietario dei beni occupati a fronte della necessità del Comune, questa sì di rilievo pubblico, di risolvere un'emergenza abitativa che gli compete.
I due diversi piani di vincolo giuridico assunto nei confronti del proprietario del bene, da un lato, e di motivo «politico» dall'altro alla propria autodeterminazione, tuttavia, non possono confondersi, trovandosi in tale documento un contenuto inequivocabilmente negoziale e generatore di obblighi nei confronti di un soggetto privato, con specifica previsione, da parte della PA, di assumere la custodia del bene e di garantire la restituzione del bene a fronte di una rinunzia temporanea, da parte del proprietario del bene, a esercitare i propri diritti di autotutela, all'epoca già avviati mediante denunce penali e richieste d'intervento da parte della forza pubblica.
2.6. Quanto sopra considerato
permette di rilevare come sia del tutto riduttivo qualificare l'atto in questione come atto politico di contenuto programmatico solo in virtù della posizione apicale dell'organo della Pubblica Amministrazione che lo ha sottoscritto, senza tenere conto del contenuto, in esso racchiuso, di impegno formale nei confronti del soggetto proprietario del bene che, confidando nell'adempimento delle obbligazioni ivi portate, ha rinunziato ad esercitare i propri diritti, in tal modo venendo incontro all'esigenza del Comune di risolvere in via politico-amministrativa l'emergenza abitativa da cui originava l'occupazione del bene da parte di terzi.
Il Comune, invero, si è reso garante del rilascio al legittimo proprietario del bene immobile entro un determinato termine, assumendone la custodia, i relativi oneri e la responsabilità nei confronti proprietario
. A p. 29 del negozio in questione si parla di impegno negoziale e, quindi, considerando la causa sottostante e gli interessi in gioco, le circostanze del caso e la natura degli obblighi assunti depongono a favore dell' inquadramento del rapporto nell'alveo del negozio costituente fonte di obbligazioni iure privatorum.
2.7. Peraltro,
la presenza di obbligazioni di matrice contrattuale mette in rilievo anche la sussistenza della giurisdizione dell'AGO, considerato che, ai fini del suo riparto tra giudice ordinario e amministrativo, rileva non già la prospettazione delle parti, bensì il cosiddetto «petitum» sostanziale che ne è l'oggetto (cfr. Cass. S.U., sentenza n. 8227 del 03.04.2007).
Difatti, la domanda proposta concerne in via diretta e immediata non tanto l'esercizio del potere dell'autorità amministrativa di provvedere alla organizzazione e alla modalità di prestazione di un servizio pubblico, bensì la mancata osservanza entro i tempi previsti degli specifici obblighi assunti nei confronti del privato, fonte di danno per il privato.
Nell'ambito di un negozio concluso dalla pubblica amministrazione iure privatorum, con indicazione delle modalità e dei termini di adempimento tipiche di una negoziazione tra privati, non è difatti configurabile un potere discrezionale dell'amministrazione in termini di scelta sul se, come e quando adempiere l'obbligazione assunta, il cui comportamento va, quindi, valutato alla stregua di un qualsiasi privato contraente, senza alcuna limitazione, per il giudice ordinario, nella indagine diretta ad accettarne l'eventuale responsabilità per inadempimento (v. Cass., SS.UU., Sentenza n. 2618 del 22/07/1968).
2.8. Il negozio in questione, per come è strutturato, non rientra neanche nella speciale categoria delle convenzioni tra pubblica amministrazione e privati, che ricomprende i «contratti ad oggetto pubblico» e i contratti «ad evidenza pubblica», ove in quest'ultima ipotesi non è presente una regolazione degli aspetti patrimoniali dell'esercizio della potestà, ma sono presenti solo procedimenti antecedenti al contratto, volti a individuare il soggetto contraente con la pubblica amministrazione. In questi casi, una volta scelto il contraente, il negozio stipulato successivamente alla fase di evidenza pubblica non rifluisce immediatamente nella più generale disciplina del codice civile e delle ulteriori disposizioni che eventualmente regolano il rapporto patrimoniale consensualmente instaurato tra privati.
Così infatti dispone l'art. 11 della l. n. 241/1990 che prevede un regime di tipo amministrativo per tali convenzioni. Il Consiglio di Stato, difatti, ha già avuto modo di osservare (Sez. IV, 03.12.2015 n. 5510), con considerazioni riconfermate successivamente (Consiglio di Stato, sez. IV, 19/08/2016), che il rapporto amministrazione/concessionario, fondato sulle (usualmente definite) «concessioni/contratto», proprio in ragione delle sue peculiarità originate dall'inerenza all'esercizio di pubblici poteri, non ricade in modo immediato, e tanto meno integrale, nell'ambito di applicazione delle disposizioni del codice civile, le quali, se possono certamente trovare applicazione in quanto compatibili ovvero se espressamente richiamate, tuttavia non costituiscono la disciplina ordinaria di tali convenzioni, né ciò è indicato dalla l. n. 241/1990, ed in particolare dall'art. 11.
Nell'ambito dell'art. 11, sotto la comune dizione di accordi, coesistono sia contratti propriamente detti, sia accordi procedimentali, e l'applicazione dei principi in tema di obbligazioni e contratti agli accordi dell'amministrazione (riconducibili o meno alla generale figura del contratto) trova in ogni caso un limite, e dunque una conseguente necessità di adattamento, nella immanente presenza dell'esercizio di potestà pubbliche, e nelle finalità di pubblico interesse cui le stesse sono teleologicamente orientate.
Come la giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di osservare (Cons. Stato, sez. V, 05.12.2013 n. 5786; 14.10.2013 n. 5000), fermi i casi di contratti integralmente di diritto privato (per i quali trovano certamente applicazione le disposizioni del codice civile), nei casi invece di contratto ad oggetto pubblico l'amministrazione mantiene comunque la sua tradizionale posizione di supremazia; tali contratti non sono disciplinati dalle regole proprie del diritto privato, ma meramente dai principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti, sempre in quanto compatibili con essi e salvo che non sia diversamente previsto.
Ciò, ovviamente, non esclude -sussistendone i presupposti sopra delineati- che il giudice possa fare applicazione anche della disciplina dell'inadempimento del contratto, allorché una parte del rapporto contesti un inadempimento degli obblighi di fare (Cons. Stato, sez. IV, 24.04.2012 n. 2433).
2.9. Nel caso delle convenzioni che accedono all'esercizio di potestà amministrativa concessoria -dove è chiara la natura latamente contrattuale dell'atto bilaterale, stante la regolazione di aspetti patrimoniali- ben possono trovare applicazione le disposizioni in tema (di obbligazioni e contratti, nei limiti sopra descritti.
Difatti, tale applicazione non può esservi, se non considerando la persistenza (ed immanenza) del potere pubblico, dato che l'atto fondativo del rapporto tra amministrazione e concessionario non è la convenzione, bensì il provvedimento concessorio, rispetto al quale la prima rappresenta solo uno strumento ausiliario, idoneo alla regolazione (subalterna al provvedimento) di aspetti patrimoniali del rapporto. Le considerazioni espresse con riferimento particolare ai cd. «contratti ad oggetto pubblico», ben possono essere ribadite, sia pure con i necessari adattamenti di specie, alle ipotesi di contratti cd. «ad evidenza pubblica», laddove non è presente una regolazione degli aspetti patrimoniali dell'esercizio della potestà, ma sono presenti solo procedimenti antecedenti al contratto, volti a individuare il soggetto contraente con la pubblica amministrazione.
Tuttavia, anche in questi casi, una volta scelto il contraente, il contratto stipulato successivamente alla fase di evidenza pubblica non rifluisce immediatamente nella più generale disciplina del codice civile e delle ulteriori disposizioni che eventualmente regolano il rapporto patrimoniale consensualmente instaurato tra privati. Ciò è a tutta evidenza negato dalla stessa presenza di una (copiosa) disciplina speciale che normalmente assiste il momento genetico e quello funzionale del contratto, e che non può che giustificarsi se non in ragione della particolare natura dello stesso. 
Anche in tale caso, tale particolare natura non è costituita dall'essere la pubblica amministrazione quale soggetto contraente, bensì dall'essere la causa e l'oggetto del contratto differentemente conformati, in ragione delle finalità di interesse pubblico perseguite con il contratto, e dunque con l'adempimento delle obbligazioni assunte per il tramite delle rispettive prestazioni (a seconda dei casi, l'opus o il servizio). In primo luogo, dunque, vi è una disciplina speciale, che giustifica la propria ragionevolezza sulla altrettanto speciale natura del contratto; in secondo luogo, vi è una possibile applicazione delle norme del codice civile in tema di obbligazioni e contratti, che "sconta" la differente natura della causa e dell'oggetto dei medesimi contratti pubblici (Consiglio di Stato, sez. IV, 19/08/2016).
2.10. Tutto quanto sopra osservato risulta utile per tracciare la distinzione tra contratto pubblico e negozio privato alla luce dei variegati rapporti che la Pubblica Amministrazione può oggi intrattenere con i privati. La definizione del contratto quale «contratto pubblico», difatti, non indica esclusivamente (e semplicisticamente) la presenza di un soggetto pubblico quale parte contraente, bensì una oggettiva finalità di pubblico interesse perseguita per il tramite del contratto e del suo adempimento.
Tale finalità non costituisce (né lo potrebbe) una «immanenza» esterna al contratto, ma essa conforma il contratto medesimo, ed in particolare -proprio in ragione delle definizioni che il diritto privato ne offre- gli elementi essenziali della causa e dell'oggetto. Per un verso, infatti, la finalità di pubblico interesse entra nella definizione di causa, sia ove intesa quale funzione obiettiva economico- sociale del negozio, sia ove intesa quale funzione obiettiva giuridico-individuale dell'atto; per altro verso, essa conforma l'oggetto del contratto, ossia il contenuto del medesimo. Ciò comporta che, laddove l'interprete debba giudicare della illiceità o meno della causa di un contratto pubblico, ovvero della impossibilità (materiale o giuridica) o della illiceità dell'oggetto di tale contratto, non può non ricordare che tali elementi essenziali sono diversamente conformati, e dunque richiedono una verifica che tenga conto di tale loro specificità.
Allo stesso modo, quanto sin qui descritto si riflette anche sul rapporto contrattuale, sull'adempimento del contratto e sulle ipotesi di risoluzione del medesimo, così come contemplate dal codice civile. D'altra parte, è sempre la particolarità del contratto pubblico a giustificare una tutela anche penale dei contratti della Pubblica Amministrazione (art. 355, inadempimento di contratti di pubbliche forniture; art. 356, frode nelle pubbliche forniture), dove l'interesse pubblico -che, come si è detto, conforma causa ed oggetto del contratto- acquista rango di bene giuridico tutelato dalla norma penale (Cass. pen., sez. VI, 27.02.2013 n. 23819; 05.12.2007 n. 16428; 11.11.2004 n. 47194).
2.11. In definitiva,
è solo in ragione di una analisi dettagliata e specifica, che tenga conto delle considerazioni sin qui espresse, che può concludersi per la applicabilità o meno di norme ed istituti del codice civile ai contratti della pubblica amministrazione, ridenti soprattutto a quelle particolari ipotesi (contratti ad oggetto pubblico, contratti ad evidenza pubblica), in cui il contratto, dotato di «tipicità» propria conferita da norme di diritto pubblico, non risulta, fin dal suo momento genetico, regolato dal diritto privato.
2.12. Ragionando alla luce di quanto sopra detto, si rileva che il contenuto dell' atto stipulato, in quanto regolatore di un diritto di godimento di un bene privato, non presenta il contenuto di negozio ad evidenza pubblica o ad oggetto pubblico. Sotto il profilo del rapporto tra contenuto e forma, l'atto presenta la firma in calce del capo "staff" del sindaco. In aggiunta a ciò, all'atto della consegna al proprietario dell'immobile di parte dei locali sgomberati, avvenuta in data 23.02.2009, il contenuto degli impegni verso il proprietario è stato confermato sempre dallo stesso Comune in persona del dottor Cl.Co. (documento 12, pagina 2, riga 6), ove si legge che il Comune, nel riconfermare l'impegno assunto il 26.01.2009 alla restituzione del bene immobile occupato da terzi al proprietario entro 90 giorni al massimo, assume la custodia dei suddetti locali e le parti concordano con le associazioni che ne manterranno la disponibilità sino al termine pattuito scadente il 09.05.2009, sotto la responsabilità del Comune.
E' altrettanto indiscusso che il Comune ha volontariamente e tempestivamente dato esecuzione alla prima parte dell'impegno assunto, relativa al trasferimento dei nuclei familiari occupanti abusivi, provvedendo allo sgombero di gran parte dell'immobile e alla riconsegna dello stesso al ricorrente, fatta eccezione per i locali per cui è controversia, posti al piano terra e al piano interrato. Con la condotta di parziale adempimento degli obblighi assunti, gli organi gestionali del Comune hanno manifestato la volontà di tener fede agli impegni assunti «in forma di protocollo di intesa» nei confronti del privato. Il tenore del documento sottoscritto e il comportamento successivo tenuto dalla parte pubblica contraente, pertanto, sono tutti elementi incompatibili con un'attività di mero indirizzo politico o con un'attività partecipativa del privato alla realizzazione di un interesse pubblico nei termini sopra meglio specificati.
2.13. Quanto alla forma dell'atto stipulato dal privato con la pubblica amministrazione, deve osservarsi che vale il principio in base al quale «
in tema di contratti degli enti pubblici territoriali e con particolare riferimento al conferimento di incarichi professionali, la regola generale secondo la quale gli eventuali vizi della deliberazione di autorizzazione a contrarre hanno rilievo esclusivamente nell'ambito interno all'organizzazione dell'ente, ma non incidono sulla validità ed efficacia del contratto privatistico di prestazione d'opera professionale, non esclude che il legislatore possa dettare, anche in questo campo, norme imperative, le quali trovano applicazione nei rapporti intersoggettivi, e condizionano pertanto la stessa validità dei contratti di diritto privato stipulati dalla Pubblica Amministrazione. Tale è il caso dell'art. 23 del d.l. 24.04.1989, n. 66, convertito in legge 03.02.1989, n. 144, il quale, subordinando l'effettuazione di qualsiasi spesa ad una deliberazione autorizzativa adottata nelle forme di legge e divenuta o dichiarata esecutiva, nonché all'impegno contabile registrato sul competente capitolo del bilancio di previsione, da comunicare ai terzi interessati, detta una disposizione che incide anche sui rapporti tra l'Amministrazione ed i terzi» (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 2814 del 08/02/2006).
Nell'ipotesi in esame, tuttavia, il Comune non si è impegnato al versamento di alcun corrispettivo a favore dell'ente proprietario, essendosi limitato ad assumere la custodia e la gestione del bene del proprietario occupato da terzi e a garantirne il rilascio entro un determinato tempo, impegnandosi a individuare entro 90 giorni spazi alternativi per le associazioni occupanti e per effettuare la riconsegna dei locali al proprietario del bene, previo espletamento delle eventuali formalità connesse al sequestro.
Si tratta, da una parte, di una dichiarazione di pubblici intenti della pubblica amministrazione, nell'ambito dell'attività di gestione di un'emergenza che coinvolgeva le associazioni occupanti, rientrante nella competenza politico-amministrativa del territorio che gli è propria (non in grado di rilevare per il contraente, costituendo semmai un motivo interno al negozio) e, dall'altra, di una corrispondente obbligazione di presa in custodia e gestione in autonomia del bene privato, senza previsione di impegni di spesa a favore del proprietario che si è limitato ad accettare la proposta del Comune e a rinunciare alla disponibilità del bene a fronte dell'impegno assunto dal Comune.
2.14. Quanto alla necessità della sottoscrizione dell'atto da parte funzionario titolare si rammenta il precedente di questa Corte, Sez. 1, Sentenza n. 5642 del 24/06/1997, in cui è stato affermato che «
per il perfezionamento dei contratti stipulati dalle amministrazioni comunali è necessaria una manifestazione documentale della volontà negoziale da parte del sindaco, organo rappresentativo abilitato a concludere, in nome e per conto dell'ente territoriale, negozi giuridici, mentre devono ritenersi, all'uopo, inidonee le deliberazioni adottate dalla giunta o dal consiglio municipale, attesane la caratteristica di atti interni, di natura meramente preparatoria della successiva manifestazione esterna di volontà negoziale. Ne consegue che un contratto non potrà dirsi legittimamente perfezionato ove la volontà di addivenire alla sua stipula non sia, nei confronti della controparte, esternata, in nome e per conto dell'ente pubblico, da quell'unico organo autorizzato a rappresentarlo».
Nel caso di specie l'impegno assunto il 26.01.2009 nei confronti del proprietario proviene dal «capo staff del Sindaco» ed è stato riconfermato successivamente da un funzionario qualificatosi quale incaricato del Comune di Roma.
Pertanto, anche sotto il profilo funzionale, l'atto è riconducibile all'organo che rappresenta l'ente territoriale, sicché alla controparte privata non potrebbe legittimamente opporsi il mancato perfezionamento di un procedimento interno e amministrativo ai fini della sua efficacia, posto che -per i motivi anzidetti- la circostanza che il Protocollo d'intesa in questione non sia stato convalidato da un organo interno a ciò preposto non può influire sulla natura ed efficacia dell'atto, ove sussista un requisito di neutralità in termini di oneri di bilancio per l'amministrazione, come nel caso in questione.
2.15. In definitiva,
l'ipotesi de qua si configura in termini di una negoziazione e disposizione di diritti soggettivi attinenti alla proprietà di un bene con relativa assunzione di obblighi di gestione e custodia da parte del consegnatario del bene (pubblica amministrazione), e con corrispondente rinuncia del proprietario titolare all'esercizio dei diritti entro un termine pattiziamente convenuto; sul piano negoziale, e nel rispetto delle forme previste nel negozio sottoscritto, vi è dunque la stipula da parte dell'ente territoriale di un vero e proprio impegno nei confronti del proprietario, sottoscritto da soggetti formalmente abilitati a impegnare il Comune; se l'intesa convenuta appare atto programmatico e politico, lo è solo con riguardo all'organo e alle finalità pubbliche perseguite dall'ente territoriale nel volere assumere la gestione del bene privato per risolvere una questione di rilievo sociale; tuttavia tale ultimo aspetto, attinente al motivo sottostante al negozio, non vale certamente a mutare la natura degli obblighi specificamente assunti nei confronti del privato, a fronte del sacrificio imposto sui suoi diritti inerenti alla proprietà.
Il tenore del documento sottoscritto e il comportamento successivo tenuto dalla parte pubblica contraente sono tutti elementi incompatibili con un'
attività di mero indirizzo politico, la quale per sua natura ha contenuti meramente programmatici, volti ad indicare le scelte da adottare e le finalità da perseguire in relazione a questioni di carattere generale, o comunque destinate ad intere categorie o settori di interesse, rimettendo ad atti successivi la concreta attuazione in relazione alle singole fattispecie.
2.16. Tutto quanto sopra osservato conduce a ritenere che
la Corte d'appello ha erroneamente qualificato l'atto in questione come atto politico e programmatico, anziché come negozio giuridico regolato dalla disciplina generale del negozio giuridico di diritto privato (iure privatorum) con assunzioni di obblighi da parte della Pubblica Amministrazione.
Né la convenzione stipulata, come sopra visto, può rientrare nella particolare categoria dei negozi ad evidenza pubblica o ad oggetto pubblico. Ne consegue che, stante la natura contrattuale del negozio in questione, deve dichiararsi la nullità della sentenza che ha escluso l'applicazione e l'interpretazione della disciplina del contratto, in accoglimento del secondo motivo.

CONSIGLIERI COMUNALIPubblicazione dati spese rappresentanza.
Domanda
In quale sotto-sezione di Amministrazione trasparente vanno pubblicate le spese di rappresentanza sostenute dagli organi di governo, del comune?
Risposta
Nel decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, anche nella versione ampiamente modificata e integrata dal d.gs. 25.05.2016, n. 97, non compare mai la locuzione “spese di rappresentanza”, né la medesima voce è presente nel cosiddetto Albero della trasparenza, approvato, da ultimo, dall’ANAC, come allegato 1, alla deliberazione n. 1310 del 28.12.2016.
L’obbligo di pubblicare le spese di rappresentanza, sostenute dagli organi di governo degli enti locali, è previsto all’articolo 16, comma 26, del decreto legge 13.08.2011, convertito, con modificazioni ed integrazioni, dalla legge 14.09.2011, n. 148.
Il testo della disposizione recita: "26. Le spese di rappresentanza sostenute dagli organi di governo degli enti locali sono elencate, per ciascun anno, in apposito prospetto allegato al rendiconto di cui all’articolo 227 del citato testo unico di cui al decreto legislativo n. 267 del 2000. Tale prospetto è trasmesso alla sezione regionale di controllo della Corte dei conti ed è pubblicato, entro dieci giorni dall’approvazione del rendiconto, nel sito internet dell’ente locale. Con atto di natura non regolamentare, adottato d’intesa con la Conferenza Stato-città ed autonomie locali ai sensi dell’articolo 3 del decreto legislativo 28.08.1997, n. 281, il Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, adotta uno schema tipo del prospetto di cui al primo periodo.".
In pratica, il prospetto delle spese sostenute deve risultare nel rendiconto di gestione, approvato entro il 30 aprile dell’anno successivo, dal Consiglio comunale. Il prospetto deve essere trasmesso alla Sezione regionale della Corte dei conti e pubblicato entro dieci giorni dall’approvazione, su: Amministrazione trasparente > Bilanci > Bilancio preventivo e consuntivo.
Il già citato allegato 1, alla delibera ANAC n. 130/2016, per tale sezione prevede l’obbligo di pubblicare “Documenti e allegati del bilancio consuntivo, nonché dati relativi al bilancio consuntivo di ciascun anno in forma sintetica, aggregata e semplificata, anche con il ricorso a rappresentazioni grafiche” (art. 29, comma 1, d.lgs. 33/2013) ed anche “Dati relativi alle entrate e alla spesa dei bilanci consuntivi in formato tabellare aperto in modo da consentire l’esportazione, il trattamento e l’utilizzo” (art. 29, comma 1-bis, d.lgs. 33/2013).
Per completezza di informazione, si fa presente che in attuazione dell’art. 29, comma 1-bis, del d.lgs. 33/2013, è stato adottato il DPCM 22.09.2014, successivamente modificato dal DPCM 29.04.2016, recante “Definizione degli schemi e delle modalità per la pubblicazione su internet dei dati relativi alle entrate e alla spesa dei bilanci preventivi e consuntivi e dell’indicatore annuale di tempestività dei pagamenti delle pubbliche amministrazioni”.
In ultimo, si evidenzia che alcuni enti, oltre all’obbligo sopra meglio ricordato, hanno previsto la pubblicazione del prospetto delle spese di rappresentanza anche nella sezione Amministrazione trasparente > Altri contenuti > Dati ulteriori. L’obbligo è sempre relativo ai dati degli ultimi cinque anni (12.06.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALIConsiglieri, accessi on-line. LO STATO DELLA GIURISPRUDENZA.
Il diritto all'accesso e all'informazione del consigliere comunale può spingersi fino al possesso delle credenziali informatiche del protocollo dell'Ente e del programma di contabilità, per una accessibilità persino da postazioni non interne (e certificate) alla casa comunale?
Segnatamente, ai sensi dell'art. 43, co. 2, Tuel, i consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato.
A tal fine, ai sensi dell'art. 2, co. 1, del Codice della amministrazione digitale, le amministrazioni devono assicurare la disponibilità, la gestione, l'accesso, la trasmissione, la conservazione e la fruibilità dell'informazione in digitale e si organizzano e agiscono utilizzando le modalità più appropriate e adeguate al soddisfacimento degli interessi degli utenti, mediante le tecnologie dell'informazione e della comunicazione.

A giudizio del Consiglio di Stato -Sez. V- sentenza 08.06.2018 n. 3486, da tali presupposti normativi deriva che la fruibilità dei dati e delle informazioni in digitale deve essere garantita con procedure appropriate alla specifica finalità informativa e consone alla tecnologia disponibile. Grava sull'amministrazione l'approntamento e la valorizzazione di idonee risorse tecnologiche, che appaiano in grado di ottimizzare, in una logica di bilanciamento, le esigenze della trasparenza amministrativa.
Nella medesima ottica interpretativa, a giudizio del TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 31.05.2018 n. 531, la richiesta del consigliere comunale di accedere al protocollo informatico, mediante il possesso delle chiavi di accesso telematico, rappresenta condizione per l'esercizio consapevole del diritto di accesso, in modo che questo si svolga non attraverso una apprensione generalizzata e indiscriminata degli atti dell'amministrazione comunale, ma mediante una selezione degli oggetti degli atti di cui si chiede l'esibizione.
Per poter operare in tal senso la possibilità di accedere non direttamente al contenuto della documentazione, ma ai dati di sintesi ricavabili dalla consultazione telematica del protocollo è appropriata e proporzionata e, per ciò stesso, legittima
(articolo ItaliaOggi del 27.07.2018).
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MASSIMA
1.- L’appello è fondato e merita di essere accolto.
2.- Il Comune di Castellabate, con delibera di giunta comunale n. 99 del 04.06.2015, ha disciplinato le modalità di accesso ai documenti amministrativi ed al sistema informatico di contabilità comunale da parte dei consiglieri comunali, segnatamente prevedendo –al dichiarato fine di massimizzare la facilità dell’accesso secondo modalità tecniche compatibili con le risorse dell’ente– l’istituzione, all’interno della casa comunale, di una postazione telematica certificata per l’accesso ai dati contabili, come tale agevolmente consultabile da tutti i consiglieri.
3.- L’appellante assume, peraltro, l’insufficienza delle ridette modalità organizzative, rivendicando la concessione della facoltà di accesso anche da autonome postazioni remote, mediante rilascio di apposite credenziali (user id e password) e, per tal via, senza la limitazione riconnessa al necessario ricorso alla postazione fisica predisposta nei locali comunali.
A fondamento della pretesa (che –con ogni evidenza– non concerne l’an, ma esclusivamente il quomodo della ostensione) valorizza la direttiva emergente dalla complessiva digitalizzazione dei dati amministrativi (ex d.lgs. n. 82/2005) e la correlativa logica della massima semplificazione ed agevolazione delle modalità del relativo accesso, alla luce della miglior tecnologia disponibile.
4.- Per parte sua, l’Amministrazione premette, in fatto, di non disporre, allo stato, di un sistema in grado di garantire l’accesso da remoto (ciò che sarebbe confermato da apposita dichiarazione resa dalla società incaricata della gestione dei propri software) e ritiene, in ogni caso, adeguata, sufficiente e proporzionata, in diritto, la messa a disposizione in loco di postazioni dedicate.
5.- Ciò posto, in via preliminare va disattesa l’eccezione di inammissibilità, proposta ed argomentata dal Comune appellato, correlata alla mancata impugnazione della delibera di Giunta Comunale n. 99 del 04.06.2015, con cui era stato disciplinato e regolamentato il diritto di accesso agli atti.
Sul punto, giova puntualizzare che,
per comune intendimento, il giudizio in materia di accesso, anche se si atteggia come impugnatorio nella fase della proposizione del ricorso, in quanto rivolto contro l'atto di diniego o avverso il silenzio-diniego formatosi sulla relativa istanza ed il ricorso è da esperire nel termine perentorio di trenta giorni, è sostanzialmente rivolto all’accertamento la sussistenza o meno del titolo all'accesso nella specifica situazione alla luce dei parametri normativi, indipendentemente dalla maggiore o minore correttezza delle ragioni addotte dall'amministrazione per giustificarne il diniego (cfr., ex permultis, Cons. Stato, V, 07.11.2008, n. 5573).
Se ne desume che la mancata impugnazione delle disposizioni regolamentari (per giunta, suscettibili, in quanto tali di disapplicazione: cfr. Cons. Stato, IV, 23.02.2009, n. 1074), non costituisce per definizione ragione di inammissibilità del ricorso.
6.- Tanto premesso, osserva il Collegio che,
ai sensi dell’art. 43, comma 2, del d.lgs. n. 267 (recante il Testo unico degli enti locali), “i consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato”.
A tal fine, le amministrazioni “assicurano la disponibilità, la gestione, l'accesso, la trasmissione, la conservazione e la fruibilità dell'informazione in modalità digitale e si organizzano ed agiscono a tale fine utilizzando con le modalità più appropriate e nel modo più adeguato al soddisfacimento degli interessi degli utenti le tecnologie dell'informazione e della comunicazione” (cfr. art. 2, comma 1, d.lgs. n. 82/2005, recante il c.d. Codice dell’amministrazione digitale).
La direttiva emergente dalle richiamate disposizioni è senz’altro nel senso:
   a) che la fruibilità dei dati e delle informazioni in modalità digitale debba essere garantita con modalità adeguate (alla precipua finalità informativa) ed appropriate (alla tecnologia disponibile);
   b) che –secondo un corrispondente e sotteso canone di proporzionalità– grava sull’amministrazione l’approntamento e la valorizzazione di idonee risorse tecnologiche, che –senza gravare eccessivamente sulle risorse pubbliche– appaiano in grado di ottimizzare, in una logica di bilanciamento, le esigenze della trasparenza amministrativa.

In siffatta prospettiva, l’Amministrazione non ha dimostrato, neanche nella presente sede, che il costo della predisposizione di un software adeguato a consentire (mediante il rilascio di credenziali certificate e personalizzate) l’accesso da postazioni remote sia concretamente sproporzionato (a fronte dei costi comunque necessari all’approntamento ed alla conservazione di una postazione fisica dedicata, all’interno dei locali dell’ente) ed economicamente esorbitante rispetto alla rivendicata finalità informativa.
All’incontro, dovrà considerarsi che –nel complessivo quadro delle risorse finanziarie destinate ai mezzi informatici– il costo imputabile alla acquisizione ed alla implementazione di idoneo software si palesa, notoriamente, non irragionevolmente superiore ai costi delle dotazioni informatiche.
Deve, per tal via, opinarsi, in difformità della valutazione sul punto espressa dai primi giudici, che la emergente e duplice direttiva del doveroso approntamento e del costante adeguamento delle tecnologie disponibili, ai fini di un migliore, efficace e funzionale accesso ai dati, milita per il riconoscimento del carattere indebitamente compressivo della limitazione di fatto frapposta alla pretesa ostensiva della ricorrente.
In riforma della impugnata statuizione, il ricorso merita, in definitiva, di essere accolto, con consequenziale ordine alla intimata Amministrazione di apprestare, entro il termine ragionevole di sessanta giorni decorrenti dalla comunicazione della presente statuizione, le modalità organizzative per il rilascio di password per l’accesso da remoto al sistema informatico (
Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 08.06.2018 n. 3486 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Quorum, vince lo statuto. Se il regolamento è in contrasto va disapplicato. Cosa fare quando le due fonti normative dicono cose diverse.
Affinché possa essere considerata valida una seduta del consiglio comunale, convocata in seconda convocazione, come deve essere determinato il quorum strutturale?

L'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/00, demanda al regolamento comunale, «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto», la determinazione del «numero dei consiglieri necessario per la validità delle sedute» del consiglio riunito in seconda convocazione, con il limite che tale numero non può, in ogni caso, scendere sotto la soglia del «terzo dei consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a tale fine il sindaco e il presidente della provincia»; intendendosi con ciò che, limitatamente al computo del «terzo» dei consiglieri, il sindaco deve essere escluso.
Nel caso di specie, il regolamento di organizzazione e funzionamento del consiglio comunale prevede, per la validità delle sedute del consiglio comunale convocate in seconda convocazione, la presenza di almeno 14 consiglieri. Lo statuto comunale, invece, dispone che le medesime sedute siano valide con la presenza di almeno un terzo dei consiglieri assegnati, escluso il sindaco.
La discrasia tra tali norme deve ricondursi alla modifica, introdotta dalla legge n. 148/2011, che ha inciso sulla composizione dei consigli operando una riduzione del numero dei consiglieri rientranti nella fascia demografica dell'ente locale di cui trattasi.
Tuttavia, in ossequio al principio della gerarchia delle fonti, e conformemente anche all'articolo 7 del citato decreto legislativo n. 267/2000, che disciplina l'adozione dei regolamenti comunali «nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dallo statuto» (cfr. sentenza Tar Lombardia, Brescia, n. 2625 del 28.12.2009, Tar Lazio, n. 497 del 2011), prevalendo la norma statutaria, la disposizione regolamentare deve essere disapplicata.
Al fine di comporre l'evidenziata discrasia, deve considerarsi, pertanto, opportuno un intervento correttivo volto ad armonizzare le previsioni recate dalle citate fonti di autonomia locale
(articolo ItaliaOggi dell'01.06.2018).

CONSIGLIERI COMUNALIMancata convocazione consiglio comunale straordinario. Applicazione dell’art. 39 del decreto legislativo n. 267/2000.
Sintesi/Massima
Convocazione consiglio comunale ex art. 39 del decreto legislativo n. 267/2000.
 Il diritto ex art. 39, comma 2, " ... è tutelato in modo specifico dalla legge con la previsione severa ed eccezionale della modificazione dell'ordine delle competenze mediante intervento sostitutorio del Prefetto in caso di mancata convocazione del consiglio comunale in un termine emblematicamente breve di venti giorni” (TAR Puglia, Sez. 1, 25.07.2001, n. 4278).
Qualora l’intenzione dei proponenti non sia diretta a provocare una delibera in merito del Consiglio comunale, bensì a porre in essere un atto di sindacato ispettivo, si potrebbe ipotizzare, ai sensi dell’art. 42, comma 1, del decreto legislativo n. 267/2000, che rientri nella competenza del Consiglio comunale in qualità di “ … organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo” anche la trattazione di “questioni” che, pur non rientrando nell’elencazione del comma 2 del medesimo art. 42, attengono comunque al suddetto ambito di controllo.
Del resto, la dizione legislativa che parla di “questioni” e non di deliberazioni o di atti fondamentali, conforta nel ritenere che la trattazione di argomenti non rientranti nella previsione del citato comma 2, dell’art. 42, non debba necessariamente essere subordinata alla successiva adozione di provvedimenti da parte del consiglio comunale.

Testo
E’ stato chiesto un parere in ordine all’applicazione dell’art. 39 del decreto legislativo n. 267/2000.
Alcuni consiglieri del comune in oggetto, in numero superiore a un quinto, hanno segnalato la mancata convocazione del consiglio da parte del vicesindaco, nella veste di Presidente del consiglio comunale, malgrado fosse stata presentata apposita istanza ai sensi del citato art. 39, comma 2.
Il presidente del consiglio ha riferito di non aver provveduto alla convocazione dell’assemblea in quanto la relativa istanza non risultava essere corredata da una proposta di delibera, come richiesto dall’art. 24 del regolamento per il funzionamento del consiglio comunale.
Al riguardo va rilevato che il diritto ex art. 39, comma 2, "... è tutelato in modo specifico dalla legge con la previsione severa ed eccezionale della modificazione dell'ordine delle competenze mediante intervento sostitutorio del Prefetto in caso di mancata convocazione del consiglio comunale in un termine emblematicamente breve di venti giorni” (TAR Puglia, Sez. 1, 25.07.2001, n. 4278).
L'orientamento che vede riconosciuto e definito “... il potere dei consiglieri di chiedere la convocazione del Consiglio medesimo” come “diritto” dal legislatore è, quindi, ormai ampiamente consolidato (sentenza TAR Puglia, Lecce, Sez. I del 04.02.2004, n. 124).
La questione sulla sindacabilità dei motivi che determinano i consiglieri a chiedere la convocazione straordinaria dell'assemblea, si è orientata nel senso che al Presidente del Consiglio spetti solo la verifica formale della richiesta prescritto numero di consiglieri, non potendo comunque sindacarne l'oggetto.
La giurisprudenza in materia si è da tempo espressa affermando che, in caso di richiesta di convocazione del consiglio da parte di un quinto dei consiglieri, “al presidente del consiglio comunale spetta soltanto la verifica formale che la richiesta provenga dal prescritto numero di soggetti legittimati, mentre non può sindacarne l'oggetto, poiché spetta allo stesso consiglio nella sua totalità la verifica circa la legalità della convocazione e l'ammissibilità delle questioni da trattare, salvo che non si tratti di oggetto che, in quanto illecito, impossibile o per legge manifestamente estraneo alle competenze dell'assemblea in nessun caso potrebbe essere posto all'ordine del giorno” (TAR Piemonte, n. 268/1996, Tar Sardegna, n. 718 del 2003 ).
Si soggiunge che il TAR Sardegna, con la sentenza n. 718 del 2003, ha respinto un ricorso avverso un provvedimento prefettizio ex art. 39, comma 5, del citato decreto legislativo in quanto, ad avviso del giudice amministrativo, il Prefetto non poteva esimersi dal convocare d’autorità il Consiglio Comunale, “essendosi verificata l’ipotesi di cui all’art. 39 del T.U.O.E.L. n. 267/2000”.
Inoltre, si è sostenuto che appartiene ai poteri sovrani dell'assemblea decidere in via pregiudiziale che un dato argomento inserito nell'ordine del giorno non debba essere discusso (questione pregiudiziale) ovvero se ne debba rinviare la discussione (questione sospensiva) (TAR Puglia, Lecce, Sez. 1, 25.07.2001, n. 4278 e sempre TAR Puglia, Lecce, Sez. 1, 04.02.2004,n.124).
Va peraltro rilevato che l’art. 43 del T.U.O.E.L. demanda alla potestà statutaria e regolamentare dei Comuni e delle province la disciplina delle modalità di presentazione delle interrogazioni, delle mozioni e di ogni altra istanza di sindacato ispettivo proposta dai consiglieri, nonché delle relative risposte, che devono comunque essere fornite entro trenta giorni.
Con riguardo a quest’ultimo ambito, occorre osservare che, qualora l’intenzione dei proponenti non sia diretta a provocare una delibera in merito del Consiglio comunale, bensì a porre in essere un atto di sindacato ispettivo, si potrebbe ipotizzare, ai sensi dell’art. 42, comma 1, del decreto legislativo n. 267/2000, che rientri nella competenza del Consiglio comunale in qualità di “
organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo” anche la trattazione di “questioni” che, pur non rientrando nell’elencazione del comma 2 del medesimo art. 42, attengono comunque al suddetto ambito di controllo. Del resto, la dizione legislativa che parla di “questioni” e non di deliberazioni o di atti fondamentali, conforta nel ritenere che la trattazione di argomenti non rientranti nella previsione del citato comma 2, dell’art. 42, non debba necessariamente essere subordinata alla successiva adozione di provvedimenti da parte del consiglio comunale.
Sulla base di tali argomentazioni, si ritiene, pertanto, che il Prefetto sia tenuto alla applicazione della normativa prevista dall’art. 39, comma 5, del decreto legislativo n. 267/2000, invitando il presidente del consiglio comunale a voler provvedere alla convocazione dell’assemblea.
Si soggiunge, per completezza, che l’ente potrebbe valutare l’opportunità di modificare l’art. 24 del regolamento sul funzionamento del consiglio comunale nella parte in cui prevede che la richiesta di convocazione sia corredata da uno “schema di deliberazione”. Ciò in quanto la normativa in parola, limitando all’esame delle “deliberazioni” la possibilità di accedere all’istituto previsto dall’art. 39, comma 2, citato, restringe il perimetro dei diritti riconosciuti ai consiglieri comunali dalla legge statale.
Infine, si precisa che l’adozione da parte dell’ente locale di una specifica normativa regolamentare in materia di atti di sindacato ispettivo non impatta in alcun modo sul diverso istituto disciplinato dall’art. 39 citato dal momento che quest’ultimo riguarda atti esercitabili da un quinto dei consiglieri mentre il diritto di presentare interrogazioni, mozioni o ordini del giorno è riconosciuto al consigliere comunale anche singolarmente (01.06.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

maggio 2018

CONSIGLIERI COMUNALIDiritto di accesso dei consiglieri comunali.
Sintesi/Massima
Al consigliere comunale che abbia difficoltà di accesso alla strumentazione informatica non potrebbe negarsi il rilascio anche di copie cartacee (conforme, parere C.d.S. 02183/2014 del 27/06/2014) di atti che non siano complessi e voluminosi.
E’ legittima l’eventuale previsione di disposizioni che consentono l’utilizzo da parte dei consiglieri di apparecchiature di proprietà dell’Ente, al fine proprio di agevolare il corretto svolgimento delle funzioni istituzionali.

Testo
Due consiglieri del Comune di …, lamentando la presunta illegittimità delle modifiche introdotte nel nuovo regolamento del Consiglio comunale in materia di diritto al rilascio di copie di atti e documenti in favore dei consiglieri, hanno chiesto un parere da parte di questa Direzione Centrale sia in ordine alla legittimità del rifiuto dell’Amministrazione di consegnare i documenti in formato cartaceo e sia all’obbligo per l’Ente di fornire la strumentazione informatica al consigliere che ne faccia richiesta.
Al riguardo, si evidenzia che il “diritto di accesso” dei consiglieri comunali riconosciuto dall’art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000, deve avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali (attraverso modalità che ragionevolmente sono fissate nel regolamento dell’ente) e non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche ovvero meramente emulative, fermo restando tuttavia che la sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazione al diritto stesso (Consiglio di Stato, sez. V, n. 6963/2010).
Proprio al fine di evitare che le continue richieste di accesso si trasformino in un aggravio dell'ordinaria attività amministrativa dell'ente locale, la Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi ha riconosciuto la possibilità per il consigliere comunale di avere accesso diretto al sistema informatico interno (anche contabile) del Comune attraverso l'uso della password di servizio (cfr. parere del 29.11.2009). Inoltre, appare utile segnalare che il Tribunale Amministrativo Regionale della Sardegna con la sentenza n. 29/2007 ha ritenuto che “la notevole mole della documentazione da consegnare può, nel caso, giustificare la distribuzione nel tempo del rilascio delle copie richieste”.
Qualora si tratti di esibire documentazione complessa e voluminosa, appare, altresì, legittimo il rilascio di supporti informatici al consigliere, o la trasmissione mediante posta elettronica, in luogo delle copie cartacee (v. C.d.S. n. 6742/07 del 28/12/2007).
Tale modalità è conforme alla vigente normativa in materia di digitalizzazione della pubblica amministrazione (decreto legislativo n. 82 del 07.03.2005), che all'art. 2, prevede che anche “le autonomie locali assicurano la disponibilità, la gestione, l'accesso, la trasmissione, la conservazione e la fruibilità dell'informazione in modalità digitale e si organizzano ed agiscono a tale fine utilizzando con le modalità più appropriate e nel modo più adeguato al soddisfacimento degli interessi degli utenti le tecnologie dell'informazione e della comunicazione”.
Rilevata, dunque, la legittimità delle norme regolamentari che dispongono il rilascio di copie degli atti in formato digitale, parimenti, dovendosi garantire il diritto ad esercitare la propria funzione, al consigliere comunale che abbia difficoltà di accesso alla strumentazione informatica non potrebbe negarsi il rilascio anche di copie cartacee (conforme, parere C.d.S. 2183/2014 del 27/06/2014) di atti che, comunque, ad avviso di questa Direzione Centrale, non siano complessi e voluminosi.
Parimenti, in virtù dell’art. 38, comma 2 del d.lgs. n. 267/2000 che, tra l’altro, riconosce autonomia funzionale e organizzativa ai consigli, i quali con norme regolamentari fissano le modalità per acquisire servizi, attrezzature e risorse finanziarie, anche in favore dei gruppi consiliari regolarmente costituiti, appare legittima l’eventuale previsione di disposizioni che consentono l’utilizzo da parte dei consiglieri di apparecchiature di proprietà dell’Ente, al fine proprio di agevolare il corretto svolgimento delle funzioni istituzionali (30.05.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Modalità di applicazione della sospensione di diritto dalla carica elettiva ex art. 11, d.lgs 31.12.2012 n. 235 (parere 11.05.2018-253361-253362, AL 24089/2017 - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 4/2018).
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Con le note alle quali si fa riscontro codesto Ministero ha chiesto un parere in merito all'interpretazione dell'art. 11 del D.Lgs. n. 235 del 31.12.2012 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell'articolo 1, comma 63, della legge 06.11.2012, n. 190), rappresentando che il dr. (...), allorché rivestiva la carica di Assessore e Vicesindaco del Comune di (...), era stato condannato per il reato di abuso d'ufficio di cui all'art. 323 del codice penale, con sentenza non definitiva del 10.11.2016; conseguentemente il Prefetto di Reggio Calabria, con decreto del 12.11.2016, aveva accertato nei suoi confronti l'esistenza di una causa di sospensione di diritto dalla carica, ai sensi dei commi 1 e 5 del predetto art. 11.
La consiliatura nel corso della quale la sospensione aveva operato si era, però, interrotta, a seguito della sospensione del Consiglio comunale, con provvedimento prefettizio del 23.12.2016, e del suo successivo scioglimento, disposto con d.P.R. 03.02.2017, adottato ai sensi dell'art. 141, comma 1, lettera b), n. 4), del D.Lgs. 235/2012.
Poiché l'interessato si era candidato alla carica di Sindaco dell'ente nelle successive consultazioni amministrative dell'11.06.2017, codesto Ministero, rilevando che, nell'eventualità in cui egli fosse risultato eletto, il Prefetto avrebbe dovuto adottare un nuovo provvedimento accertativo dell'esistenza di una temporanea causa ostativa all'espletamento del mandato, ha formulato, nella richiesta di parere, i seguenti due quesiti: ... (...continua).

CONSIGLIERI COMUNALI: Sindaco rieletto. Aspettativa.
Il sindaco rieletto è tenuto a presentare una rinnovata istanza per il collocamento in aspettativa ex art. 81 del d.lgs. 267/2000, attesa la stretta connessione tra espletamento del singolo mandato elettivo e la facoltà, per il lavoratore dipendente, di richiedere detta aspettativa.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine all’aspettativa spettante al Sindaco ai sensi dell’art. 81 del d.lgs. 267/2000.
In particolare, l’Ente pone la questione se la domanda di collocamento in aspettativa per l’espletamento del mandato, da parte del Sindaco, lavoratore dipendente presso un’azienda privata, debba essere ripresentata in caso di rielezione al secondo mandato. L’Amministrazione istante ritiene che la disposizione legislativa in argomento, nello specifico la locuzione “per tutto il periodo di espletamento del mandato” debba essere interpretata con riferimento al singolo mandato. Conseguentemente è dell’avviso che l’interessato, Sindaco rieletto, debba presentare una nuova istanza per il collocamento in aspettativa per il secondo mandato elettivo.
Nel ritenere condivisibile l’orientamento esposto dal Comune, si esprimono le seguenti considerazioni.
Com’è noto, l’art. 81, comma 1, del d.lgs. 267/2000 dispone che i sindaci, i presidenti delle province, i presidenti dei consigli comunali e provinciali, i presidenti dei consigli circoscrizionali, i presidenti delle comunità montane e delle unioni di comuni, nonché i membri delle giunte di comuni e province, che siano lavoratori dipendenti, possono essere collocati a richiesta in aspettativa non retribuita per tutto il periodo di espletamento del mandato.
La ratio della citata norma consiste nella tutela espressamente riconosciuta dal legislatore all’amministratore locale, finalizzata a rendere concreto il precetto di cui all’art. 51, terzo comma, della Costituzione, che fa salvo il diritto di chi è chiamato a svolgere funzioni pubbliche elettive di disporre del tempo necessario al loro ottimale adempimento, conservando al contempo il posto di lavoro.
La giurisprudenza civilistica ha affermato che l’aspettativa in argomento ha lo scopo di rendere compatibile, per i lavoratori chiamati a funzioni pubbliche, l’espletamento di tali funzioni con la condizione di prestatore di lavoro subordinato
[1].
Premesso un tanto, con specifico riferimento alla durata del mandato, si rappresenta che l’art. 4, comma 1, della l.r. 19/2013 prevede che il Sindaco duri in carica per un periodo di cinque anni
[2].
La giustizia amministrativa
[3] ha affermato in proposito che, sebbene il TUEL non contenga un’espressa previsione in ordine al momento in cui entra in carica il Sindaco, non è contestabile che l’organo monocratico di vertice dell’ente locale si insedi immediatamente, per effetto della proclamazione dell’avvenuta elezione consacrata nell’apposito verbale dell’ufficio elettorale centrale e che, nel medesimo istante, cessi il mandato del predecessore [4].
E’ da considerare parimenti che il Sindaco è abilitato a compiere tutti gli atti di competenza e assume tutte le funzioni fino dal momento della proclamazione.
Pertanto, la circostanza che ad essere rieletto Sindaco sia la medesima persona
[5] appare ininfluente ai fini della fissazione dei termini di cessazione del mandato precedente e ai fini della determinazione dell’inizio del mandato elettivo successivo, in quanto è determinante l’intervenuto rinnovo degli organi amministrativi comunali.
Si noti inoltre come il legislatore, sia statale che regionale
[6], nel disciplinare la rieleggibilità alla medesima carica nello stesso ente, abbia introdotto delle particolari limitazioni riferite all’aver ricoperto, per due mandati consecutivi, la carica di sindaco. La formulazione della norma richiama espressamente la fattispecie del “secondo mandato”, a rafforzare il convincimento secondo cui ogni singolo mandato è distinto dal precedente e dal successivo, a prescindere dal soggetto che ricopre la carica elettiva [7].
Si ravvisa, pertanto una stretta connessione tra espletamento del singolo mandato elettivo e la facoltà, per il lavoratore dipendente eletto, di richiedere il collocamento in aspettativa per l’espletamento di dette funzioni.
A tal fine, quindi, il Sindaco rieletto è tenuto a presentare una rinnovata istanza, correlata al mandato conseguente alla nuova tornata elettorale.
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[1] Cfr. Cass. Civile, sentenza n. 21396 del 05.10.2006.
[2] Tale durata si riferisce alla scadenza naturale del mandato e può essere ridotta nelle ipotesi di cessazione anticipata dalla carica contemplate nella legislazione vigente. Si fa infatti riferimento, nelle due diverse fattispecie, a ipotesi di “mandato pieno” o a “mandato con durata ridotta”.
[3] Cfr. Consiglio di Stato, sez. V, sentenza n. 4694 del 2006.
[4] Cfr. anche L’ordinamento locale nel Friuli Venezia Giulia, Vademecum sui principali aspetti di interesse per gli amministratori locali, pag. 21 e circolare n. 14/EL del 06.06.2016 del Servizio Consiglio autonomie locali ed elettorale della Direzione centrale autonomie locali e coordinamento delle riforme, in cui si sottolinea che con la proclamazione degli eletti cessano dalla carica i consiglieri uscenti, il Sindaco uscente e la Giunta nominata dallo stesso.
[5] Il Sindaco uscente potrebbe anche non ricandidarsi.
[6] Cfr. art. 4, comma 2, della l.r. 19/2013.
[7] Si pensi inoltre anche ai vari adempimenti previsti dal legislatore e connessi alla durata dei singoli mandati: la relazione di inizio e fine mandato, l’indennità di fine mandato, prevista al temine dell’incarico amministrativo
(04.05.2018 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALIAgli amministratori spese legali rimborsate solo se non colpiscono l’equilibrio di bilancio.
La locuzione «senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica» contenuta nell'articolo 86, comma 5, del testo unico degli enti locali a proposito del rimborso delle spese legali agli amministratori, deve essere riferita all'aggregato delle spese di funzionamento, per cui sono possibili compensazioni interne tramite le quali garantirne la copertura qualora non previste o siano maggiori rispetto agli esercizi precedenti.

Lo afferma la Sez. regionale di controllo per il Molise della Corte dei conti con il parere 03.05.2018 n. 55.
Il tema
Diversi amministratori comunali, sottoposti a indagini penali e per i quali è poi stato dichiarato il non luogo a procedere perché il fatto non sussiste, hanno chiesto il rimborso delle spese legali. Un sindaco ha chiesto se, alla luce della locuzione «senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica» contenuta nell'articolo 86, comma 5, del Tuel, sia possibile utilizzare come parametro il complessivo equilibrio finanziario dell'ente e non l'invarianza della singola voce di spesa, non avendo mai posto in essere stanziamenti per spese legali. E se è corretto intendere la clausola di invarianza finanziaria nel senso che l'amministrazione provvede attingendo alle ordinarie risorse di cui può disporre a legislazione vigente, senza precludere spese nuove solo perché non precedentemente sostenute o maggiori rispetto alla precedente previsione.
L'articolo 86 vincola il rimborso delle spese legali per gli amministratori locali al limite massimo dei parametri stabiliti dal decreto previsto dall'articolo 13, comma 6, della legge 247/2012, nel caso di conclusione del procedimento con sentenza di assoluzione o di emanazione di un provvedimento di archiviazione, in presenza dei seguenti requisiti: assenza di conflitto di interessi con l'ente amministrato, presenza di nesso causale tra funzioni esercitate e fatti giuridicamente rilevanti e assenza di dolo o colpa grave.
Le coperture
A fronte di un diverso avviso espresso dalla sezione Basilicata, secondo cui la facoltà riconosciuta agli enti locali di rimborsare le spese legali deve trovare copertura nelle entrate attese, i magistrati contabili molisani scelgono l'opzione interpretativa secondo cui la locuzione «senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica» deve essere riferita all'aggregato delle spese di funzionamento, che nel bilancio armonizzato è identificato nelle spese della Missione 1 per «Servizi istituzionali, generali e di gestione».
L'introduzione o l'aumento della spesa per la voce in esame sono, dunque, preclusi solo qualora determinano un innalzamento delle spese relative all'organizzazione e al funzionamento complessivamente sostenute dall'ente locale rispetto a quanto appostato nel rendiconto del precedente esercizio. Sono conseguentemente possibili compensazioni interne, tramite le quali l'ente può garantire la copertura delle spese per il rimborso agli amministratori a patto che venga rispettato il complessivo aggregato di spesa.
Il fondo rischi
La sezione, poi, ricorda che nel caso in cui abbia una obbligazione passiva condizionata all'esito di un giudizio o di un ricorso, l'ente è tenuto ad accantonare le risorse necessarie per il pagamento degli oneri attraverso la costituzione di un apposito fondo rischi. Spetta alla singola amministrazione valutare se il contenzioso che potrebbe insorgere con gli amministratori aventi diritto al rimborso sia già attualizzato al momento dello stanziamento del fondo, evitando che accantonamenti stanziati per assicurarsi dal rischio di ulteriori eventi sfavorevoli possano essere utilizzati per le segnalate finalità onde evitare di depotenziare l'utilità del fondo stesso a discapito degli equilibri di bilancio (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 21.05.2018).
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MASSIMA
La Sezione -ammessa la richiesta sotto il profilo soggettivo e i primi quattro quesiti sotto il profilo oggettivo– ritiene oggettivamente i restanti quesiti estranei alla materia della contabilità pubblica e richiedenti una risposta puntuale in relazione ad aspetti operativi riconducibili esclusivamente alla sfera amministrativo-gestionale dell’Ente.
Tra le interpretazioni intervenute in ordine all’art. 86, comma 5, TUEL, il Collegio ritiene preferibile l’opzione interpretativa secondo la quale il significato della locuzione “senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”, debba essere riferito all’aggregato di spesa delle spese di funzionamento, in quanto, da un lato, comprensivo delle spese afferenti al mandato degli amministratori ma, dall’altro non così ampio da ricomprendere anche le uscite destinate a soddisfare le finalità pubbliche il cui perseguimento è demandato all’Amministrazione.
Tale aggregato interessa in particolare “tutte le voci di spesa destinate a garantire l’esistenza dell’apparato comunale e il suo funzionamento ed esclude invece quelle voci di spesa per loro natura destinate all’espletamento dei compiti di cui l’ente è intestatario, preordinati ad assicurare e contemperare gli interessi dei soggetti a cui l’azione pubblica è rivolta”. Nel bilancio armonizzato pertanto l’aggregato in questione non può che essere identificato nelle spese della Missione 1 recante “Servizi istituzionali, generali e di gestione”
(cfr. Sez. controllo Lombardia nn. 452 e 470/2015/PAR).
Non intravede ostacoli a che l’Amministrazione, nel rispetto del complessivo aggregato di spesa del precedente esercizio, provveda alle variazioni di bilancio necessarie a garantire la copertura delle spese in questione.
In ultimo, è possibile utilizzare gli importi previsti nel fondo rischi/passività future esclusivamente a fronte di sentenze sfavorevoli non definitive o non esecutive e/o di un contenzioso che si sia già manifestato nell’”an” senza tuttavia essere stato ancora definito tanto nell’esito che nel “quantum”.
L’Amministrazione valuterà pertanto se il contenzioso si fosse già attualizzato al momento dello stanziamento del Fondo in questione e, soprattutto, eviterà che accantonamenti stanziati per assicurarsi dal rischio di ulteriori eventi sfavorevoli (altri contenziosi e/o sentenze non definitive o non esecutive) possano essere utilizzati per le segnalate finalità onde evitare di depotenziare l’utilità del fondo stesso a discapito degli equilibri di bilancio.

aprile 2018

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALIPer l’omissione di atti d’ufficio bastano 30 giorni di ritardo.
Perché possa dirsi consumato il delitto di omissione di atti d'ufficio disciplinato dall’articolo 328, comma 2, del codice penale, è sufficiente che siano trascorsi 30 giorni dalla diffida rivolta dal privato alla Pa affinché adotti l'atto richiesto, senza che il pubblico ufficiale competente gli abbia almeno esplicitato le ragioni del ritardo.
Non rileva, invece, che siano già scaduti i termini per la conclusione del procedimento amministrativo dal momento che l'illecito penale prescinde dalla consumazione di un illecito amministrativo.

È questo il principio di diritto enunciato dalla sesta sezione penale della Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la sentenza 18.04.2018 n. 17536.
La vicenda
Il caso riguardava un cittadino di un Comune della provincia di Roma che aveva formalmente «messo in mora» la municipalità intimandola entro 30 giorni dalla propria richiesta a porre in essere quanto necessario per realizzare le opere di urbanizzazione (una strada).
L'ente locale non forniva nel termine indicato alcun riscontro, e il cittadino inviava al Comune un atto «di significazione e diffida». Veniva pertanto aperto un procedimento penale a carico del sindaco e del responsabile dell'ufficio tecnico.
Il Gup del Tribunale di Tivoli faceva però cadere l'accusa con la motivazione che non vi fossero gli estremi per ritenere integrato il delitto di omissione di atti d'ufficio in quanto all'attivazione del privato non poteva riconoscersi la natura di «diffida ad adempiere» ma quella di «originaria richiesta» inviata a un ente pubblico, sulla quale l'ente avrebbe dovuto provvedere nel termine previsto dall'articolo 2 della legge 241/1990 per la definizione dei procedimenti amministrativi, pari a 30 giorni salvo diverse disposizioni. Sempre ad avviso del Tribunale, decorso inutilmente il termine amministrativo, perché si perfezionasse il reato occorrevano poi l'ulteriore messa in mora della Pa e il suo persistente silenzio all'esito del decorso del termine supplementare di altri trenta giorni stabilito dalla legge penale.
La decisione
Tesi tuttavia sconfessata dai Giudici di Piazza Cavour secondo i quali i due termini (amministrativo e penale) sono pienamente sovrapponibili, sicché la mancata adozione del provvedimento da parte del funzionario pubblico entro il lasso temporale ordinario di 30 giorni sancito dalla legge 241/1990 implica sia il prodursi del silenzio-inadempimento della Pa, denunciabile al Tar, sia la consumazione della condotta omissiva penalmente rilevante secondo l’articolo 328, comma 2, del codice penale, laddove la Pa oltre a non adottare l'atto richiesto, neppure formuli una risposta negativa per spiegare le ragioni del ritardo.
Va detto che la ricostruzione della Cassazione può determinare effetti paradossali ove si consideri che la Pa, nella stragrande maggioranza dei casi, ha facoltà di concludere il procedimento in un termine superiore a trenta giorni, che a norma dell'articolo 2 della legge 241/1990 trova applicazione solo nei casi in cui l'Amministrazione interessata non abbia provveduto con regolamento a determinarne uno diverso, che normalmente è più lungo (di regola, in base alla stesso articolo 2, può raggiungere i 180 giorni).
Aderendo alla tesi della Corte di legittimità, potrebbe allora capitare che il funzionario responsabile rimasto silente a fronte di una richiesta del privato, trascorsi 30 giorni, possa essere chiamato a rispondere del reato di omissione di atti d'ufficio pur versando in una situazione assolutamente lecita sul piano amministrativo, disponendo di altro tempo per provvedere (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.04.2018).
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RITENUTO IN FATTO
1. Lu.Ch., persona offesa costituita parte civile, ricorre avverso la sentenza di cui in epigrafe emessa dal G.u.p. di Tivoli con cui, all'esito dell'udienza preliminare, ha dichiarato non doversi procedere perché il fatto non sussiste nei confronti degli imputati Ri.Ma. e Ca.Lu., rispettivamente sindaco e responsabile dell'ufficio tecnico del comune di Riano, per non aver dato seguito, nel termine di trenta giorni, all'atto di «significazione e diffida» per la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria, nonché per l'adozione di misure ex art. 53 d.lgs. n. 267/2000, nella zona della via della Valle del Fiume di Ponte Sodo, in Riano nel novembre del 2013.
2. Il ricorrente, per il tramite del difensore, deduce vizi di motivazione e violazione dell'art. 328, secondo comma, cod. pen. a mente dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen., in ordine alla ritenuta insussistenza del reato di omissione di atti d'ufficio, in presenza di un obbligo di provvedere in capo all'amministrazione su cui si sia formato il silenzio-inadempimento, nonché in relazione alla portata del requisito strutturale della diffida ad adempiere. Si cesura quanto rilevato dalla motivazione della sentenza secondo cui, dopo la richiesta di adempiere, formatosi il silenzio-inadempimento al decorso dei 30 giorni, sarebbe dovuta seguire, ai fini dell'integrazione della fattispecie contestata, una ulteriore diffida, consumandosi il reato al decorrere di ulteriori 30 giorni senza che l'amministrazione avesse provveduto o fornito al privato i motivi del ritardo.
La decisione connessa alla formazione del silenzio-inadempimento conseguente all'omessa evasione della diffida, si osserva, è situazione affatto simile all'integrazione del reato che prescinde dalla tutela amministrativa, che nel caso di specie ha condotto alla declaratoria di annullamento del silenzio-inadempimento.
Sussistendo l'obbligo da parte dell'amministrazione di provvedere in quanto direttamente derivante dalla legge, obbligo anche enunciato in diffida con pedissequa riproduzione dei profili normativi di riferimento, non era neppure necessaria la previa apertura del procedimento, con conseguente immediata consumazione del reato al decorso dei 30 giorni, senza che l'amministrazione avesse provveduto sull'stanza o comunicato le ragioni del ritardo.
Né poteva porsi un problema connesso alla qualificazione dell'atto inviato che indicava la esplicita dizione di «atto di significazione e diffida alla realizzazione di opere di urbanizzazione», atto a cui l'amministrazione non ha fornito alcun riscontro.
La sentenza è anche illogica poiché tende a differenziare la richiesta di adozione di un atto indirizzata alla P.A. dalla diffida necessaria ai fini della integrazione, facendo espresso richiamo ad un precedente di questa Corte (Sez. 6, n. 40008 del 27/10/2010) che in realtà aveva escluso che l'atto potesse essere valutato come diffida, situazione non conforme a quella decisa.
...
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.
Il ricorso è fondato e la sentenza deve essere annullata.
2. Preliminarmente deve evidenziarsi, in ordine a quanto argomentato nella memoria dai due imputati, che l'art. 428, comma 2, cod. proc. pen., nella formulazione antecedente alla riforma intervenuta con la legge 23.06.2017, n. 103, che ha espunto la possibilità di ricorrere per cassazione avverso la sentenza di non luogo a procedere del giudice delle udienza preliminare, prevede che la persona offesa possa ricorrere (a condizione che sia anche costituita parte civile), sussistendo il suo interesse ad impugnare, trattandosi di impugnazione riguardante gli effetti penali (Sez. 5, n. 41350 del 10/07/2013, P.O. in proc. Cappellato e altro, Rv. 257934).
2.1. Da tanto discende che, per il tenore dell'art. 428, comma 2, cod. proc. pen., non pertinente è il riferimento all'art. 572 cod. proc. pen. che riguarda la richiesta rivolta al P.M. affinché impugni la sentenza, mentre l'art. 577 cod. proc. pen. concerne i capi della sentenza che riguardano i soli aspetti civili.
2.2. Quanto alla dedotta carenza di interesse anche prospettata nella memoria, si osserva come irrilevante sia in questa sede stabilire se, all'esito dei vari giudizi amministrativi ed alle azioni legali intraprese dal ricorrente, sia stato soddisfatto o meno quanto oggetto dell'atto inviato all'amministrazione comunale di Riano, dovendosi unicamente valutare il motivo di ricorso che contesta l'erronea applicazione e omessa motivazione in ordine all'elemento oggettivo dell'art. 328, secondo comma, cod. pen.
2.3. Così come non rileva se il ricorrente avesse o meno diritto a conseguire «il bene della vita» che ha formato oggetto dell'istanza, poiché, incontestata la riferibilità al medesimo di una posizione soggettiva qualificata al cospetto della pubblica amministrazione, deve unicamente provvedersi ad accertare se, all'esito dell'istanza, inviata agli uffici competenti dell'amministrazione comunale, sussistesse quantomeno un suo diritto a ricevere una risposta in merito alle ragioni del ritardo.
In tal senso
è erroneo ritenere che l'"obbligo di informazione" dovuto all'interessato sia ipotizzabile solo in caso di accertata sussistenza dell'obbligo principale di compiere l'atto, poiché ciò che viene in rilievo non è tanto l'omissione dell'atto, ma l'inerzia del soggetto attivo sia nel compiere l'atto richiesto sia nello esporre le ragioni del ritardo (Sez. 6, n. 7761 del 07/07/1997, Sabatino, Rv. 209749).
3. Deve rinviarsi al principio costantemente seguito da questa Corte, che il Collegio condivide, secondo cui
l'azione tipica del delitto di cui all'art. 328, comma secondo, cod. pen., è integrata dal mancato compimento di un atto dell'ufficio da parte del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio, ovvero dalla mancata esposizione delle ragioni del ritardo, entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi ha interesse; ne consegue che il reato, omissivo proprio e a consumazione istantanea, deve intendersi perfezionato con la scadenza del predetto termine (Sez. 6, n. 27044 del 19/02/2008, Mascia, Rv. 240979).
Ai fini dell'integrazione del delitto di omissione di atti d'ufficio, è infatti irrilevante il formarsi del silenzio-inadempimento entro la scadenza del termine di trenta giorni dalla richiesta del privato che, in quanto inadempimento, integra la condotta omissiva richiesta per la configurazione della fattispecie incriminatrice (Sez. 6, n. 45629 del 17/10/2013, P.G. in proc. Giuffrida, Rv. 257706; Cass. Sez. 6, n. 7348 del 24/11/2009, dep. 2010, Di Venere, Rv. 246025; Sez. 6, n. 5691 del 06/04/2000, Scorsone, Rv. 217339).
3.1. Il contrario precedente cui ha fatto riferimento il giudice di merito, in realtà non esprime un difforme principio in quanto, come rilevato dal ricorrente, avendo avuto ad oggetto un atto non qualificato quale diffida, sulla base di tanto ha potuto ritenere non sufficiente lo stesso che, mera richiesta di sollecito, avrebbe necessitato di una autonoma diffida o messa in mora, in quel caso inesistente.
3.2. Per rinvenire un precedente di segno opposto al pacifico orientamento cui sopra si è fatto cenno, occorre risalire alla decisione di questa sezione del 06/10/1998 Rv. 212311, secondo cui, attraverso la disciplina della legge sul procedimento amministrativo, sia pure per una presunzione legale, l'atto è da considerare compiuto, in tal modo realizzandosi una situazione "concettualmente incompatibile con la inerzia della pubblica amministrazione".
3.3. In realtà
è ormai costante l'orientamento opposto secondo cui l'integrazione della fattispecie penale non interferisce con i rimedi che l'ordinamento appresta avverso l'inerzia o l'inadempimento della pubblica amministrazione che seguono canoni ed intenti di tutela distinti, certamente non esaustivi degli strumenti a disposizione del privato che potrebbe, in ipotesi, non conseguire un'adeguata tutela sol che si pensi ai limiti posti all'impugnazione degli atti, alla deducibilità dei soli vizi di legittimità (escludendosi il merito), osservandosi inoltre che, nonostante gli sforzi in tal senso operati dalla giurisdizione amministrativa, la declaratoria di annullamento non sempre soddisfa il raggiungimento degli obbiettivi che il privato intende perseguire.
3.4.
La ratio della norma che prevede l'integrazione della fattispecie nell'ipotesi di inadempimento o omessa risposta decorsi i trenta giorni dalla richiesta di chi vi ha interesse, non può fondatamente essere ulteriormente compressa attraverso una duplicazione defaticante degli adempimenti necessari per conseguire (quantomeno) una risposta formulata per iscritto sulle ragioni del ritardo; circostanza che, qualora avallata, subirebbe poi le ulteriori implicazioni direttamente connesse alla disciplina amministrativa del procedimento, tanto da determinare interferenze tra le vicende penali e quelle amministrative; situazione che, attraverso la previsione del termine di trenta giorni contemporaneamente previsto dall'art. 2 L. 241/1990 e dal secondo comma dell'art. 328 cod. pen., il legislatore ha inteso chiaramente evitare.
4. Si rileva, quindi, che
la richiesta scritta di cui all'art. 328, comma secondo, cod. pen., rilevante ai fini dell'integrazione della fattispecie, deve assumere la natura e la funzione tipica della diffida ad adempiere, dovendo la stessa essere rivolta a sollecitare il compimento dell'atto o l'esposizione delle ragioni che lo impediscono (Sez. 6, n. 40008 del 27/10/2010, brio, Rv. 248531; Sez. 6, n. 10002 del 08/06/2000, Spanò B, Rv. 218339; Sez. 6, n. 8263 del 17/05/2000, Visco, Rv. 216717).
4.1.
Ciò implica che la richiesta rivolta nei confronti della pubblica amministrazione deve atteggiarsi, seppure senza l'osservanza di particolari formalità, come una diffida o intimazione tale da costituire una messa in mora nei confronti della P.A. e del soggetto preposto al relativo procedimento in quanto responsabile.
4.2. Ne deriva che
il reato non è configurabile quando la richiesta non è qualificabile quale diffida ad adempiere, diretta alla messa in mora del destinatario e da quest'ultimo in tali termini valutabile, per il suo tenore letterale e per il suo contenuto.
Seppure, quindi, non siano necessarie frasi che riproducano pedissequamente la formulazione della legge in termini di «diffida» e «messa in mora», il contenuto della richiesta deve essere tesa a rappresentare quantomeno la cogenza delle richiesta e la sua necessità di un adempimento direttamente ricondotto alla disciplina del procedimento amministrativo, circa le conseguenze in ipotesi di non evasione o mancata risposta nei termini.
4.3.
Solo a tali condizioni può ritenersi immediatamente e chiaramente percepibile, quale diffida; atto che già a livello lessicale implica la necessità di rappresentare le conseguenze cui si incorre in caso di inadempimento, secondo la conformazione del reato, introdotto dall'art. 16 L. 26.04.1990, n. 86, che ha inteso rafforzare la tutela del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione, con la previsione di un paradigma legale che, attraverso la attivazione del diritto potestativo della istanza, conseguisse una più significativa tutela delle posizioni soggettive, la cui salvaguardia era in precedenza demandata ai soli strumenti procedimentali o giurisdizionali dinanzi al giudice amministrativo.
5. Nella sentenza impugnata si afferma che la richiesta del Ch. del 29.10.2013, non costituiva una diffida ad adempiere, ma fosse l'originaria richiesta inviata da un privato ad un ente pubblico, sulla quale l'ente avrebbe dovuto provvedere nel termine di cui all'art. 2 L. 241/1990 avverso la cui inerzia, in caso di decorso infruttuoso del termine di 30 giorni, è ammesso il ricorso al TAR, non integrando tale inadempimento gli estremi dell'art. 328, secondo comma, cod. pen., per la cui esistenza il privato avrebbe dovuto inviare una vera diffida ad adempiere con il decorso di 30 giorni senza che intervenisse l'atto richiesto o fosse stato esposto le ragioni del ritardo.
In tal modo si contesta la qualifica di diffida dell'atto ricevuto non perché non ne contenga i requisiti, quanto, piuttosto, poiché si reputa il primo atto quale meramente amministrativo utile ai soli fini della proposizione del ricorso in sede giurisdizionale per mezzo dell'impugnazione del silenzio-inadempimento, demandando al secondo atto, in tal caso qualificabile diffida, il successivo compito, al decorso degli infruttuosi 30 giorni, di integrare la fattispecie di cui all'art. 328, secondo comma, cod. pen. in caso di omessa risposta.
Da quanto sopra accennato circa i principi di diritto a cui questa Corte si riporta, in uno a quanto emerge dal provvedimento impugnato, se ne deduce la erronea applicazione della fattispecie dell'art. 328, secondo comma, cod. pen..
5.1.
Il ricorrente aveva presentato in data 29.10.2013 la diffida ad adempire con cui aveva richiesto all'amministrazione comunale di Riano di porre in essere quanto necessario al fine di realizzare le opere di urbanizzazione utili all'immobile dell'istante.
5.2.
Tale atto deve qualificarsi quale diffida in quanto contenente tutti gli elementi per ritenere cogente la richiesta sia perché si indicano le norme di legge che imponevano all'amministrazione di provvedere, sia poiché si fa riferimento al termine di trenta giorni entro il quale si sarebbe dovuta attivare la procedura, con specifica enunciazione delle conseguenze cui l'amministrazione ed i funzionari preposti sarebbero andati incontro in caso di inadempimento.
Allo scadere del termine di trenta giorni assegnato, l'amministrazione avrebbe dovuto quantomeno rispondere specificando le ragione del ritardo, risposta mai fornita neppure a seguito di impugnazione del silenzio-inadempimento in tal modo formatosi, con conseguente astratta integrazione della fattispecie prevista dall'art. 328, secondo comma, cod. pen., sotto il profilo meramente oggettivo.
6. Da quanto sopra
consegue l'annullamento della sentenza con rinvio al Tribunale di Tivoli, ufficio G.u.p. che, attenendosi ai principi di diritto sopra enunciati quanto a valenza di diffida dell'atto del 29.10.2013 e non necessità di ulteriori atti ai fini dell'integrazione del reato, valuterà se, nei limiti propri del giudizio in sede di udienza preliminare, sussistano elementi che consentano di imputare l'omissione, specie sotto il profilo del necessario elemento soggettivo, agli imputati.

CONSIGLIERI COMUNALI: Sindaco dipendente a tempo parziale. Collocamento in aspettativa ed esercizio attività professionale.
La Sezione di controllo della Corte dei conti della regione Friuli Venezia Giulia (cfr. deliberazione n. 21 del 2016) ha evidenziato che il legislatore regionale ha inteso prevedere in generale una applicazione della maggiorazione dell'indennità di funzione a tutti gli amministratori locali, ad eccezione dei casi in cui i beneficiari dell'indennità dispongano anche di redditi da lavoro dipendente o siano titolari di trattamento di quiescenza.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla possibilità, per un sindaco dipendente a tempo parziale al 50% di una pubblica amministrazione e libero professionista, di richiedere il collocamento in aspettativa presso l’ente di appartenenza, continuando in seguito a svolgere attività libero professionale (quesito sub 1.).
In caso di risposta affermativa, si è chiesto inoltre di conoscere se il sindaco libero professionista, che sia stato collocato in aspettativa come lavoratore dipendente a tempo parziale, ha diritto alla maggiorazione dell’indennità di funzione (quesito sub 2.).
Infine, si è posta la questione relativa al diritto alla predetta maggiorazione nel caso in cui l’interessato non opti per il collocamento in aspettativa e continui quindi a lavorare sia come dipendente pubblico a tempo parziale, che come libero professionista (quesito sub 3.).
In via preliminare, in relazione al collocamento in aspettativa, è doveroso sottolineare che la questione attiene a normativa statale, sulla cui applicazione ha esclusiva competenza ad esprimersi il Ministero dell’Interno, al quale si suggerisce eventualmente di rivolgersi, al fine di acquisire l’orientamento dello stesso. Pertanto, lo scrivente Ufficio ritiene di formulare le seguenti considerazioni in via meramente collaborativa.
Com’è noto, l’art. 81, comma 1, del d.lgs. 267/2000 dispone che i sindaci, i presidenti delle province, i presidenti dei consigli comunali e provinciali, i presidenti dei consigli circoscrizionali, i presidenti delle comunità montane e delle unioni di comuni, nonché i membri delle giunte di comuni e province, che siano lavoratori dipendenti, possono essere collocati a richiesta in aspettativa non retribuita per tutto il periodo di espletamento del mandato.
La ratio della citata norma consiste nella tutela espressamente riconosciuta dal legislatore all’amministratore locale, finalizzata a rendere concreto il precetto di cui all’art. 51, terzo comma della Costituzione, che fa salvo il diritto di chi è chiamato a svolgere funzioni pubbliche elettive di disporre del tempo necessario al loro ottimale adempimento, conservando al contempo il posto di lavoro.
La giurisprudenza civilistica ha affermato che l’aspettativa in argomento ha lo scopo di rendere compatibile, per i lavoratori chiamati a funzioni pubbliche, l’espletamento di tali funzioni con la condizione di prestatore di lavoro subordinato
[1].
A tal proposito si rappresenta che l’art. 86, comma 1, del d.lgs. 267/2000 dispone che l’amministrazione locale assuma a proprio carico il versamento degli oneri assistenziali, previdenziali e assicurativi per i sindaci lavoratori dipendenti che siano collocati in aspettativa.
Premesso un tanto, si osserva che il vigente ordinamento consente al lavoratore dipendente a tempo parziale al 50% di esercitare attività professionale.
Parimenti la disciplina attualmente in vigore riconosce al lavoratore dipendente/amministratore locale il diritto di richiedere il collocamento in aspettativa per tutta la durata del mandato elettivo.
Non si rinviene invece alcuna norma che vieti, in tal caso, lo svolgimento di attività professionale, né sono stati reperiti orientamenti giurisprudenziali che abbiano interpretato in maniera restrittiva la vigente disciplina.
Si segnala al riguardo un parere, pur risalente nel tempo
[2], nel quale il Ministero dell’Interno ha esaminato la situazione di un amministratore locale che, oltre ad essere pubblico dipendente in aspettativa, svolgeva anche attività autonoma, senza rilevare alcun profilo di criticità in relazione al contestuale collocamento in aspettativa e al permanere dell’esercizio dell’attività professionale.
Per quanto concerne infine i quesiti prospettati sub) 2. e 3., relativi alla spettanza della maggiorazione dell’indennità di funzione nelle diverse fattispecie, sentito il Servizio finanza locale di questa Direzione centrale, si espone quanto segue.
Al riguardo si ricorda che il punto 15 della deliberazione della Giunta regionale 24.06.2011 n. 1193, la quale determina la misura delle indennità degli amministratori locali ai sensi –per quanto qui rileva- dell’art. 3, comma 13, della legge regionale 13/2002, stabilisce che “per gli amministratori, ad eccezione dei lavoratori dipendenti non collocati in aspettativa, le indennità di funzione previste ai punti 1, 2, 3, 4, 5, 6, 11 - 1° alinea, 12, 13 e 14 sono aumentate in base” a determinate percentuali
[3].
Si rappresenta, a tal proposito, che la Sezione di controllo della Corte dei conti della regione Friuli Venezia Giulia, con deliberazione n. 21 del 2016, ha espressamente esaminato, alla luce della disciplina vigente, la problematica riguardante la compatibilità della maggiorazione dell’indennità di funzione per gli amministratori locali che dispongano anche di reddito da lavoro autonomo congiunto a reddito da lavoro dipendente.
I giudici contabili hanno evidenziato che la normativa vigente in Friuli Venezia Giulia delinea in maniera puntuale e completa l’ambito di operatività delle maggiorazioni previste per le indennità di funzione degli amministratori locali.
In tale contesto si sono richiamate nello specifico le disposizioni contenute nella deliberazione di Giunta regionale n. 1193/2011 e nella legge regionale n. 15/2014,
[4] che definiscono importi e maggiorazioni delle indennità spettanti agli amministratori degli enti locali della Regione Friuli Venezia Giulia.
In particolare –osservano i giudici contabili– l’intenzione del legislatore regionale è stata quella di prevedere in generale una applicazione della maggiorazione dell’indennità di funzione a tutti gli amministratori, ad eccezione dei casi in cui i beneficiari dell’indennità dispongano anche di redditi da lavoro dipendente
[5] o che siano titolari di trattamento di quiescenza.
In conclusione si è affermata un’interpretazione volta a limitare la maggiorazione dell’indennità di funzione a tutti gli amministratori che risultino privi di altre entrate mensili fisse, consentendo la percezione della sola indennità base agli amministratori che dispongano anche di redditi da lavoro dipendente (o da pensione)
[6].
Alla luce delle considerazioni suesposte, si ritiene pertanto che la maggiorazione dell’indennità in argomento competa soltanto nella fattispecie prospettata sub 2. di collocamento in aspettativa senza assegni.
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[1] Cfr. Cass. Civile, sentenza n. 21396 del 05.10.2006.
[2] 25.05.2005.
[3] Tale disciplina continua a trovare applicazione in via transitoria fino all’adozione della deliberazione di cui all’art. 41, comma 2, della l.r. 18/2015, come previsto dall’art. 53, comma 1, della richiamata legge regionale.
[4] L’art. 14, comma 9, della l.r. 15/2014 dispone che “non si applica agli amministratori locali, dalla data di entrata in vigore della presente legge, la maggiorazione prevista al punto 15 della deliberazione della Giunta regionale 1193/2011, qualora risultino titolari di trattamento di quiescenza”.
[5] Condizione che viene meno nel caso in cui il lavoratore dipendente abbia esercitato l’opzione per il collocamento in aspettativa senza assegni.
[6] Per completezza, si osserva che precedentemente alla pronuncia della Corte dei conti, sez. reg. di controllo per il FVG, si era delineato un orientamento interpretativo che, ai fini del diritto o meno alla maggiorazione dell’indennità per l’amministratore contemporaneamente libero professionista e lavoratore dipendente, si basava sul concetto della prevalenza, in termini di redditività e di impegno, delle due attività svolte (cfr. pareri ANCI del 24.11.2008 e dell’08.01.2009)
(10.04.2018 - link a
www.regione.fvg.it).

marzo 2018

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Consiglieri senza gruppo. Chi si autoesclude resta fuori dalle commissioni.
È corretta la sostituzione, all'interno di una commissione consiliare consultiva, di una consigliera comunale che ha dichiarato la propria indipendenza dalla maggioranza che sostiene il sindaco, disposta con atto del presidente del consiglio comunale?

Nel caso di specie la consigliera comunale, dichiarando la propria indipendenza dalla maggioranza che sostiene il sindaco, si è sostanzialmente avvalsa della facoltà, prevista dallo statuto comunale, che consente di «non appartenere ad alcun gruppo».
Il regolamento comunale, che disciplina la costituzione dei gruppi, non ripropone la medesima possibilità contenuta nello statuto di autoescludersi dai gruppi, prevedendo che, nel caso in cui una lista presentata alle elezioni abbia avuto eletto un solo consigliere, a questi sono riconosciute le prerogative e la rappresentanza spettanti a un gruppo consiliare.
In base alle norme statutarie e regolamentari dell'ente, i gruppi autonomi, invece, possono essere costituiti, solo se formati da almeno tre consiglieri.
Inoltre lo statuto rinvia al regolamento la disciplina del funzionamento e della composizione delle commissioni consiliari, nel rispetto del criterio proporzionale, e il regolamento affida a «ciascun gruppo» il compito di designare i propri rappresentanti nelle singole commissioni permanenti; per di più stabilisce che i consiglieri possono fare parte di più di una commissione e prevede che le sostituzioni siano demandate al singolo capogruppo.
Ciò posto, occorre ricordare che le commissioni consiliari previste dall'articolo 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000, una volta istituite sulla base di una facoltativa previsione statutaria, sono disciplinate dal regolamento comunale con l'unico limite, posto dal legislatore, del rispetto del criterio proporzionale nella composizione.
Ciò significa che le forze politiche presenti in consiglio debbano essere il più possibile rispecchiate anche nelle commissioni, in modo che in ciascuna di esse sia riprodotto il loro peso numerico e di voto. Quanto al rispetto del criterio proporzionale previsto dal citato articolo 38, comma 6, il legislatore non precisa come lo stesso debba essere declinato in concreto. Il regolamento, a cui sono demandate la determinazione dei poteri delle commissioni, nonché la disciplina dell'organizzazione e delle forme di pubblicità dei lavori, dovrebbe stabilire anche i meccanismi idonei a garantirne il rispetto.
L'indirizzo giurisprudenziale prevalente in materia (con l'eccezione della sentenza contraria del Tar Puglia Lecce n. 516/2013) stabilisce che il criterio proporzionale può dirsi rispettato solo ove sia assicurata, in ogni commissione, la presenza di ciascun gruppo, anche se formato da un solo consigliere, presente in consiglio (si veda Tar Lombardia Brescia 04.07.1992 n. 796; Tar Lombardia, Milano, 03.05.1996, n. 567).
Tale principio, peraltro, è stato ribadito dal consiglio di stato il quale con parere n. 4323/2009 del 14.04.2010, ha osservato che «come da consolidata giurisprudenza dalla quale la sezione non intende discostarsi, il criterio di proporzionalità di rappresentanza della minoranza non può prescindere dalla presenza in ciascuna commissione permanente di almeno un rappresentante di ciascun gruppo consiliare. In tal caso il criterio di proporzionalità si può esplicare attraverso il voto ponderato (v. anche Tar Lombardia sez. II, 19.11.1996, n. 1661) o plurimo assegnato a ciascun componente della commissione in ragione corrispondente a quello della forza politica rappresentata nel consiglio comunale, vale a dire corrispondente al numero di voti di cui dispone il gruppo di appartenenza in seno al consiglio, diviso per il numero dei rappresentanti della stessa lista nella commissione interessata».
Premesso che teoricamente la consigliera, qualora facente parte di un gruppo unipersonale, avrebbe avuto diritto a partecipare a tutte le commissioni, dal complesso della giurisprudenza citata, nonché dalle disposizioni regolamentari dell'ente interessato, si evince che una volta ammessa la costituzione dei gruppi, questi vanno a riflettere la loro composizione all'interno delle commissioni consiliari in proporzione al loro peso complessivo.
Tuttavia, fermi restando dubbi di legittimità in ordine alla facoltà concessa dallo statuto comunale di escludersi da ogni gruppo, il concreto esercizio del diritto di autoesclusione da parte del consigliere comunale impedisce allo stesso, ai sensi del regolamento, di essere designato all'interno delle commissioni; ciò in quanto il diritto di designare rappresentanti all'interno delle commissioni, riservato esclusivamente ai capigruppo, può essere esercitato solo nei confronti dei consiglieri facenti parte di un gruppo.
L'interessata, pertanto, proprio perché collocatasi all'esterno della struttura dei gruppi, non potrebbe rivendicare alcuna lesione dei propri diritti, non avendo assunto la titolarità di alcun gruppo.
Ciò, peraltro, è confermato dalle già richiamate norme che consentono la costituzione dei gruppi unipersonali solo nel caso in cui una lista presentata alle elezioni abbia avuto eletto un solo consigliere, e la costituzione di nuovi gruppi solo se formati da almeno tre consiglieri, condizioni che, dunque, non si verificano nei riguardi della fattispecie esaminata
(articolo ItaliaOggi del 30.03.2018).

ATTI AMMINISTRATIVIOSSERVATORIO VIMINALE/ L’urgenza va motivata. Per giustificare le delibere subito eseguibili. Si tratta comunque di una scelta discrezionale dell’amministrazione.
Per le deliberazioni del consiglio e della giunta che, in caso di urgenza, vengono dichiarate immediatamente eseguibili con il voto espresso dalla maggioranza dei componenti, ai sensi dell'art. 134, comma 4, del decreto legislativo n. 267/2000, è necessaria una specifica motivazione giustificativa della formula di «immediata eseguibilità»?
In linea generale, la dichiarazione di immediata eseguibilità, come disciplinata dal citato art. 134, comma 4, del decreto legislativo n. 267/2000, risponde all'esigenza di porre in essere le deliberazioni urgenti; quindi, limitatamente a tali casi, deve scaturire da apposita separata votazione che approvi tale dichiarazione con il voto favorevole della maggioranza dei componenti del collegio, non essendo sufficiente il voto della maggioranza semplice dei votanti o dei presenti.
La decisione di attribuire a una deliberazione la connotazione dell'immediata eseguibilità assume, infatti, autonoma valenza rispetto all'approvazione del provvedimento cui si riferisce, restandone logicamente distinta.
In merito, il Tar Liguria, sez. II, con decisione n. 2/2007, ha affermato che in virtù dell'art. 134, comma 4, del decreto legislativo n. 267/2000, la necessità che la dichiarazione di immediata eseguibilità (per motivi di urgenza) di una delibera di consiglio o di giunta, sia oggetto di un'autonoma votazione, fa sì che tale dichiarazione, pur accedendo alla delibera, non si identifichi con essa. Lo stesso Tribunale ha puntualizzato che il legislatore non ha ritenuto la clausola di immediata eseguibilità quale attributo necessario di ogni delibera, ma ha inteso farla dipendere da una scelta discrezionale (basata sul requisito dell'urgenza) dell'amministrazione procedente.
Circa la fattispecie in esame, devono ritenersi, pertanto, condivisibili le osservazioni formulate dal Tar Piemonte che, nella sentenza n. 460 del 2014, in materia di indefettibilità di adeguata motivazione giustificativa della dichiarazione di immediata eseguibilità, ha ritenuto che «la clausola di immediata eseguibilità dipende da una scelta discrezionale dell'amministrazione, comunque pur sempre correlata al requisito dell'urgenza, che deve ricevere adeguata motivazione nell'ambito dello stesso atto»
 (articolo ItaliaOggi del 23.03.2018).

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Nei piccoli Comuni tre strade per la gestione delle funzioni fondamentali.
Se mancano le professionalità interne, i piccoli Comuni hanno ancora la facoltà di scegliere tra la forma associata delle funzioni, il conferimento delle competenze gestionali a uno dei membri della giunta ovvero l'affidamento al segretario comunale. La scelta deve, comunque, avere a riferimento due «stelle polari»: il criterio della competenza professionale del nominato e il contenimento della spesa.

Lo asserisce la sezione regionale di controllo per il Lazio della Corte dei conti con il parere 16.03.2018 n. 5.
I quesiti
Un Comune di 551 abitanti formula alla sezione tre quesiti specifici:
   1) se nei piccoli Comuni le funzioni relative al servizio finanziario possano essere affidate a un assessore o al sindaco;
   2) se alcuni adempimenti contabili rilevanti possano essere illegittimi se effettuati dal capo dell'amministrazione in assoluta carenza di professionalità interne;
   3) se il segretario comunale, su specifico incarico del sindaco, possa assumere le funzioni gestionali in modo permanente, supplendo alle carenze di dotazione organica.
Amministratori vs gestione associata
In relazione al quesito 1), la sezione ricorda che nei Comuni con popolazione inferiore a cinquemila abitanti, la responsabilità degli uffici e dei servizi e il potere di adottare atti gestionali possono essere affidati, in deroga al generale principio di separazione di competenze tra organi politici e dirigenti, a un assessore o allo stesso sindaco, essendo ancora in vigore l'articolo 53, comma 23, della legge 388/2000 che lo consente, a condizione che l'ente abbia adottato apposite disposizioni regolamentari organizzative. Strada che può essere, dunque, percorsa anche a prescindere dalla carenza di professionalità interne, in quanto la norma non subordina la possibilità a questa condizione, che invece è richiesta per il conferimento di incarichi a soggetti esterni. Regola che, quindi, può essere applicata anche nel caso di gestione delle funzioni relative al servizio finanziario.
Ricorda però la sezione –quasi a voler proporre un consiglio– che prima di arrivare a «sacrificare» il principio di distinzione delle funzioni di indirizzo da quelle gestionali è possibile percorrere la via della gestione associata, obbligatoria per quelle fondamentali ai sensi dell'articolo 14 del Dl 78/2010.
Siccome l’obbligo è ancora condizionato dalla individuazione degli ambiti ottimali, i magistrati rimettono al singolo ente la scelta tra le due alternative «del pari giuridicamente legittime», ossia lo strumento associativo e il conferimento delle funzioni a uno dei membri della giunta, cercando comunque la soluzione che consenta di contenere maggiormente la spesa del personale e tenendo conto delle necessarie competenze richieste dall'elevato grado di tecnicità del servizio.
Il ruolo del segretario
La sezione non fornisce risposta al quesito n. 2), viziato da genericità, mentre si esprime sul n. 3), che coinvolge la figura del segretario comunale il quale, ai sensi dell'articolo 97, comma 4, lettera d), del Tuel può esercitare ogni altra funzione attribuitagli dallo statuto o dai regolamenti o conferitagli dal sindaco.
Tra queste rientra la possibilità di essere nominato responsabile degli uffici e dei servizi, evidenza che i giudici traggono dall'articolo 109, comma 2, che fa salva l'applicazione della lettera d) per l'attribuzione di questi incarichi nei Comuni privi di personale di qualifica dirigenziale; e dall'articolo 49 che, avendo abolito il parere di legittimità del segretario, valorizza il parere preventivo di regolarità dei singoli responsabili dei servizi, anch'esso affidato al segretario in via residuale nel caso l'ente non ne abbia.
Certo, avvertono i giudici, questa funzione del segretario deve essere esercitata «in relazione alle sue competenze» che, tuttavia, ritengono ampie alla luce dell'articolo 97, comma 4, del Tuel, richiamato espressamente dall'articolo 53, comma 23, della legge 388/2000, che non distingue tra funzioni assegnate in via provvisoria o permanente.
Il combinato disposto consente alla sezione di negare la sussistenza di ragioni ostative all'attribuzione al segretario di funzioni gestionali protratte, anche se ritiene «auspicabile una periodica revisione di tale incarico aggiuntivo, sia sotto il profilo dell'efficiente organizzazione interna degli uffici, anche in rapporto alla consistenza dimensionale dell'Ente, sia soprattutto in modo teso a vagliarne ciclicamente in concreto la proficuità sotto il profilo economico finanziario» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 30.03.2018).
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MASSIMA
Nei Comuni con popolazione inferiore a 5mila abitanti, in ragione delle ridotte dimensioni demografiche dell'Ente, resta oggi ancora rimessa alla scelta discrezionale dei medesimi la scelta:
   1) tra forma associata di esercizio delle funzioni fondamentali, tra cui certo rientra il servizio finanziario e di contabilità seguendo lo schema normativo della convenzione/unione di comuni (non essendo ancora operativa la obbligatorietà dello strumento associativo, nelle more della concreta attuazione dell’art. 14, comma 28, del D.L. n. 78/2010, convertito dalla L. n. 122/2010 e s.m.i.)
   2) o il conferimento ex art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000, di esse, ad uno dei membri della Giunta (Assessori o Sindaco), in deroga al generale principio di separazione di competenze tra organi politici ed organi amministrativi, con un regolamento motivato che ridisegni l’assetto organizzativo interno dell’Ente e senza che sia neppure necessario dimostrare l’assoluta carenza, all’interno dell’Ente, di professionalità adeguate, nonché fatta salva la verifica annuale del contenimento della spesa in sede di approvazione del bilancio
   3) o l’affidamento delle medesime ex art. 97, comma 4, lett. d) del Tuel al Segretario comunale che, nei comuni privi di personale di qualifica dirigenziale, può essere nominato responsabile degli uffici e dei servizi (art. 109, comma 2, T.U.E.L), mediante previsioni statutarie, regolamentari o tramite un provvedimento del Sindaco.
Tra questa rosa di possibilità andrà prescelta, da un canto quella che consente di contenere maggiormente la spesa del personale e, dall’altro, tenendo conto delle necessarie competenze richieste dall’elevato grado di tecnicità del servizio finanziario e di contabilità, la cui carenza potrebbe comportare potenziali ricadute in termini di responsabilità amministrativo-contabile.
Scelta da sottoporre a revisione periodica, sia sotto il profilo dell’efficiente organizzazione interna degli uffici, anche in rapporto alla consistenza dimensionale dell’Ente, sia onde vagliarne ciclicamente in concreto la proficuità economico-finanziaria, anche alla luce del criterio della competenza professionale del nominato per individuare il punto di equilibrio più funzionale alla soddisfazione delle necessità correlate alla peculiare struttura organizzativa interna dell’Ente.

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... il Sindaco pro tempore del Comune di Salisano-RI (551 abitanti, secondo rilevazione Istat all’01/01/2017) formula richiesta di parere, ai sensi dell’art. 7, comma 8, della L. n. 131 del 2003, con riferimento all’art. 53, comma 23, del D.Lgs. 23.12.2000, n. 388, sui seguenti quesiti:
   1. se nei Comuni aventi popolazione inferiore a 5mila abitanti le funzioni relative al servizio finanziario e contabile possano essere affidate ad un Assessore membro della Giunta o al Sindaco pro-tempore, con regolamento motivato, da cui si evincano le esigenze straordinarie di contenimento della spesa pubblica e, in particolare della spesa del personale, “anche in considerazione dell’attivazione della procedura obbligatoria del trasferimento di funzioni fondamentali di cui all’art. 14 del D.L. n. 78/2010, convertito nella legge n. 122/2010 e successive modifiche ed integrazioni” e se ciò sia “compatibile con le esigenze connesse alle sopravvenute recenti disposizioni in materia di ordinamento finanziario e contabile degli Enti locali, in attuazione dei principi di armonizzazione contabile introdotti dal D.Lgs. 118/2009 se ed in quanto presupponenti una «specifica» professionalità al riguardo;
   2. “se taluni rilevanti adempimenti contabili aventi carattere ricorrente per l’Ente possano essere inficiati di non conformità alle disposizioni vigenti in quanto effettuati dal capo dell’amministrazione in assoluta carenza di professionalità all’interno dell’Ente”;
   3. “Se il Segretario Comunale, su specifico incarico del sindaco, possa assumere dette funzioni gestionali in modo permanente, supplendo ad ordinarie carenze di dotazione organica, carenze sia pure per motivate ragioni di contenimento della spesa pubblica”.
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In relazione al primo quesito, si osserva che,
nei Comuni, quali Salisano, aventi popolazione inferiore a cinquemila abitanti, la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti, anche di natura tecnica gestionale, ben possono essere affidati, in deroga al generale principio di separazione di competenze tra organi politici (Giunta) ed organi amministrativi (Dirigenti), ad un Assessore o al Sindaco pro-tempore, purché ciò avvenga con un regolamento motivato dell’Ente che ridisegni l’assetto organizzativo interno dell’Ente, al fine di operare un contenimento della spesa, contenimento che deve essere verificato e documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio. In tal senso si è pronunziata anche la giurisprudenza amministrativa, oltre a diverse sezioni di questa Corte (TAR Toscana Firenze Sez. III, 07.01.2014, n. 3, Sez. regionale controllo per il Molise, delib. n. 167/2016/PAR).
E ciò senza che sia neppure necessario dimostrare la assoluta carenza, all’interno dell’Ente, di professionalità adeguate, in quanto la norma non subordina tale possibilità a siffatta condizione, che invece è richiesta per il conferimento di incarichi ad esterni.
A favore di ciò depone, con chiarezza il disposto dell’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000, che recita: “Gli enti locali con popolazione inferiore a cinquemila abitanti, fatta salva l'ipotesi di cui all'articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e all'articolo 107 del predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio”.
E tra tali uffici e servizi sono ricomprese, certamente, anche le funzioni relative al servizio finanziario e contabile, attribuibili ai componenti dell'organo esecutivo (Assessore e Sindaco pro-tempore) mediante disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'art. 3, commi 2, 3 e 4, del D.Lgs. 03.02.1993, n. 29 e successive modificazioni, e all'articolo 107 del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali (TUEL).
Orbene, è vero che dal combinato disposto degli artt. 50 e 107 del D.Lgs. n. 267 del 2000 e dell’art. 4 del D.Lgs. 30/03/2001, n. 165 (recante “Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”) si evince in modo inequivoco che, nel vigente ordinamento, è in auge, anche a livello locale, la netta distinzione fra atti di indirizzo politico-amministrativo (spettanti agli organi politici) ed atti di gestione (spettanti agli organi burocratici).
In altri termini, il TUEL ha devoluto, rispettivamente, agli organi politici (Consiglio Comunale, Giunta Comunale e Sindaco) la competenza ad emanare gli atti di indirizzo e, ai dirigenti amministrativi comunali, la competenza ad adottare atti di gestione.
L’art. 107, comma 4, in particolare, pone una riserva di legge a garanzia della indipendenza -sotto il profilo gestionale- dei dirigenti, dotati anche di autonomo potere di spesa, rispetto agli organi politici, laddove prevede che “4. Le attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui all'articolo 1, comma 4, possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative”.
Tuttavia l’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000 (finanziaria 2001) è proprio una specifica disposizione derogatoria, pacificamente compatibile col sistema normativo vigente (in tal senso anche Consiglio di Stato sent. n. 5296/2015, che ha ritenuto inammissibile la questione di costituzionalità sulla disposizione).
La deroga è ammessa in ragione delle ridotte dimensioni demografiche dell'Ente locale, ma va interpretata restrittivamente e non è estensibile oltre i casi e i modi espressamente regolati (Corte dei conti, sez. reg. controllo Lombardia, delib. n. 513/2012/PAR del 10.12.2012).
A latere della possibilità di attribuire a componenti della Giunta lo svolgimento di funzioni gestionali amministrative, l’ordinamento disciplina, al contempo, la possibilità -ed in taluni casi l’obbligo- di svolgere in forma associata, le medesime funzioni fondamentali: articoli 30 e 32 del Tuel e art. 14, comma 28, del D.L. n. 78/2010, convertito dalla L. n. 122/2010 e successive modifiche ed integrazioni.
Tramite il TUEL, sin dal 2000 sono state introdotte, come facoltative, forme associative, quali la stipula di apposite convenzioni onerose tra Enti locali, “al fine di svolgere in modo coordinato funzioni e servizi determinati” (art. 30) o l'Unione di Comuni, con la creazione di un Ente locale ex novo, costituito -di norma- da due o più Comuni contermini e “finalizzato all'esercizio associato di funzioni e servizi” (art. 32).
L’art. 14 del D.L. n. 78/2010, convertito dalla L. n. 122/2010 e successive modifiche ed integrazioni, ha prescritto che i Comuni con popolazione fino a 5000 abitanti “esercitano obbligatoriamente in forma associata, mediante unione di Comuni o convenzione, le funzioni fondamentali di cui al comma 27”, tra le quali rientra, certamente, la gestione finanziaria e contabile.
Senza entrare in questa sede sulla portata della regolamentazione in ordine alle dimensioni territoriali ottimali, (come previsto dall’art. 14, comma 30, del D.L. n. 78/2010),
permane un indiscusso favor legislativo per la forma associata di esercizio delle funzioni, ancorché intesa come rimessa alla mera facoltà di scelta discrezionale dell’Ente locale (Sez. Aut. Audizione alla Camera dei deputati del 01.12.2015).
Nell’attesa della concreta operatività della disposizione tesa a rendere ciò obbligatorio in risposta al primo quesito, si osserva che
al Comune è demandata oggi la scelta tra due alternative del pari giuridicamente legittime, ossia tra lo strumento associativo (convenzione/unione di comuni) o il conferimento delle funzioni del servizio finanziario e di contabilità ad uno dei membri della Giunta (Assessori o Sindaco).
L’Ente sarà tenuto ad operarla discrezionalmente ma seguendo, da un canto, la soluzione che consente di contenere maggiormente la spesa del personale e, dall’altro, tenendo conto delle necessarie competenze richieste dall’elevato grado di tecnicità del servizio finanziario e di contabilità, la cui carenza potrebbe comportare potenziali ricadute in termini di responsabilità amministrativo-contabile.
Il secondo quesito pare, invero, viziato da genericità, nella parte in cui si riferisce a “taluni rilevanti adempimenti contabili aventi carattere ricorrente”, senza specificarli ed è ritenuto dal Collegio inammissibile, anche per carenza di indicazione del riferimento normativo da interpretare in sede consultiva, ancor prima della specificazione del dubbio ermeneutico che la Sezione di controllo è chiamata a dirimere in questa sede.
Quanto al terzo quesito si richiama, in funzione di mero ausilio dell’Ente, l’articolo 97, comma 4, lett. d) del Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli Enti locali, approvato con D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 che stabilisce che il Segretario comunale “d) esercita ogni altra funzione attribuitagli dallo statuto o dai regolamenti, o conferitagli dal sindaco”.
Tra le quali rientra, come esplicitamente contemplato all’art. 109, comma 2, del T.U.E.L., la possibilità di essere nominato responsabile degli uffici e dei servizi, in quanto tale comma recita: “2. Nei comuni privi di personale di qualifica dirigenziale le funzioni di cui all'articolo 107, commi 2 e 3, fatta salva l'applicazione dell'articolo 97, comma 4, lettera d), possono essere attribuite, a seguito di provvedimento motivato del sindaco, ai responsabili degli uffici o dei servizi, indipendentemente dalla loro qualifica funzionale, anche in deroga a ogni diversa disposizione”. Applicazione che potrà avvenire mediante previsioni statutarie, regolamentari o tramite un provvedimento del Sindaco (Tar Piemonte, sent. n. 4094/2006).
Occorre anche considerare che, visto il disposto dell’art. 49 del Tuel, che ha abolito il parere di legittimità del Segretario, risulta valorizzato -ancor più nel testo complessivamente modificato a decorrere dall’11.10.2012- il parere preventivo di regolarità, obbligatorio ma non vincolante, dei singoli Responsabili dei servizi (tra cui anche quello di contabilità, chiamato a rendere un parere di regolarità -non tecnica ma contabile- su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta e al Consiglio).
La disposizione, in via residuale, individua nel Segretario comunale il soggetto titolato ad esprimere il parere “nel caso in cui l’ente non abbia i responsabili dei servizi”, con la limitazione individuata “in relazione alle sue competenze” (cit. art. 49, comma 2), che tuttavia possono ritenersi in senso ampio ex art. 97, comma 4, TUEL.
La vigenza di tale disposizione è espressamente fatta salva dall’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000, invero, senza distinguere tra funzioni assegnate in via provvisoria o permanente, per cui, pur non sembrando in astratto sussistere ragioni ostative all’attribuzione al medesimo di funzioni gestionali contabili protratte (attribuzione tanto più giustificata ove il nominato sia in possesso di specifica professionalità contabile),
pare comunque auspicabile una periodica revisione di tale incarico aggiuntivo, sia sotto il profilo dell’efficiente organizzazione interna degli uffici, anche in rapporto alla consistenza dimensionale dell’Ente, sia soprattutto in modo teso a vagliarne ciclicamente in concreto la proficuità sotto il profilo economico-finanziario.
In conclusione,
quale che sia la soluzione, tra quelle astrattamente possibili, scelta dell’Ente, essa dovrà avere come stelle polari, da un canto, il criterio della competenza professionale del nominato e, dall’altro, il criterio del contenimento della spesa, con l’esigenza di individuare, nella applicazione congiunta dei due criteri, il punto di equilibrio più funzionale alla soddisfazione delle necessità correlate alla peculiare struttura organizzativa interna dell’Ente.

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Accesso digitale agli atti. Documenti richiedibili in formato elettronico. Se la documentazione è voluminosa, le copie online sono preferibili.
Può essere esercitato, da parte dei consiglieri comunali, il diritto di accesso agli atti dell'ente locale, richiedendo che l'ostensione della documentazione amministrativa sia effettuata su supporto digitale, o eventualmente indicando il relativo link a cui accedere nella sezione «Amministrazione trasparente», in luogo del rilascio delle copie cartacee?
Il diritto di accesso dei consiglieri comunali deve essere esercitato in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali, attraverso modalità che ragionevolmente sono fissate nel regolamento dell'ente (art. 43 del Testo unico enti locali, dlgs n. 267/2000).
Inoltre non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche ovvero meramente emulative, fermo restando tuttavia che la sussistenza di tali condizioni deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto stesso (Consiglio di stato, sez. V, n. 6963/2010).
Al fine di evitare che le continue richieste di accesso si traducessero in un aggravio dell'ordinaria attività amministrativa dell'ente locale, la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi ha riconosciuto la possibilità, per il consigliere comunale, di avere accesso diretto al sistema informatico interno, anche contabile, del comune attraverso l'uso della password di servizio (si veda parere del 29/11/2009).
Anche il Tribunale amministrativo regionale della Sardegna, con la sentenza n. 29/2007, ha ritenuto che «la notevole mole della documentazione da consegnare può, nel caso, giustificare la distribuzione nel tempo del rilascio delle copie richieste».
Il Consiglio di stato ha, inoltre, affermato che, «qualora si tratti di esibire documentazione complessa e voluminosa, appare, altresì, legittimo il rilascio di supporti informatici al consigliere, o la trasmissione mediante posta elettronica, in luogo delle copie cartacee» (si veda Consiglio di stato, sentenza n. 6742/07 del 28/12/2007).
Tale modalità è, peraltro, conforme alla vigente normativa in materia di digitalizzazione della pubblica amministrazione (decreto legislativo n. 82 del 07.03.2005) che, all'art. 2, prevede che anche «le autonomie locali assicurano la disponibilità, la gestione, l'accesso, la trasmissione, la conservazione e la fruibilità dell'informazione in modalità digitale e si organizzano ed agiscono a tale fine utilizzando con le modalità più appropriate le tecnologie dell'informazione e della comunicazione»
(articolo ItaliaOggi del 16.03.2018).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Consiglieri senza fascia.
In occasione di cerimonie ed eventi civili e religiosi, i consiglieri comunali possono indossare una fascia tricolore quale titolo del ruolo politico e amministrativo ricoperto?

Il decreto legislativo n. 267/2000 all'art. 50, comma 12, dispone espressamente che «distintivo del sindaco è la fascia tricolore con lo stemma della Repubblica e lo stemma del comune, da portarsi a tracolla». La stessa disposizione prevede, altresì, che «distintivo del presidente della provincia è una fascia di colore azzurro con lo stemma della repubblica e lo stemma della provincia da portare a tracolla».
La legge, pertanto, non prevede nulla, per quanto riguarda i simboli da indossare, nei riguardi degli altri amministratori degli enti locali.
Il sistema delle autonomie ha, peraltro, un limite connaturato alla stessa essenza dell'autonomia che è quello di dare luogo ad ordinamenti liberi di autodeterminarsi entro la cornice ben definita di un ordinamento generale che, originario e sovrano, determina i caratteri peculiari ed il modo di tutti i soggetti che in esso si trovano a coesistere e ad operare (cfr. circolare Ministero dell'interno 04.11.1998 n. 5/98 – fascia tricolore – pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 270/1998).
La finalità della previsione di un distintivo è quella di rendere immediatamente individuabili i titolari di determinate cariche pubbliche attraverso la prescrizione di una medesima tipologia formale per ciascuna categoria di ente. In assenza di specifiche previsioni normative, quindi, l'istituzione di un distintivo anche per i consiglieri comunali non può essere contemplata.
Alla luce della legge costituzionale n. 3 del 18.10.2001, sussiste, tuttavia, ampia possibilità per le autonomie locali di disciplinare, con normativa regolamentare, l'utilizzo dei propri segni distintivi, anche a scopo di rappresentanza, senza così ricorrere all'impiego di un simbolo, quale la fascia tricolore, attinente nello specifico al capo dell'amministrazione e allo svolgimento delle proprie funzioni in conformità alle indicazioni di legge
(articolo ItaliaOggi del 09.03.2018).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Sindaci negli uffici tecnici. Possono presiedere la commissione edilizia. Nei piccoli comuni è ammessa la deroga alla separazione dei poteri.
Un ente locale con popolazione inferiore ai 5 mila abitanti può affidare al sindaco la presidenza della commissione edilizia comunale, e nominare il responsabile dell'ufficio tecnico quale componente della stessa, avvalendosi della facoltà di derogare al principio della separazione di poteri e previa modifica del regolamento edilizio?

L'art. 33 della legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150, secondo cui la costituzione della Commissione edilizia costituiva parte del contenuto obbligatorio del regolamento edilizio comunale, è stato abrogato dall'art. 136 del dpr 06.06.2001, n. 380 e successive modificazioni, che ha, peraltro, dettato una nuova disciplina dei regolamenti; l'art. 4, comma 2, del citato dpr ha, inoltre, reso facoltativa l'istituzione della commissione edilizia, confermandone il ruolo di organo consultivo.
La facoltatività dell'istituzione della commissione edilizia è coerente con l'art. 41 della legge 27.12.1997, n. 449 che, imponendo all'organo di direzione politica di individuare ogni organo collegiale con funzioni amministrative ritenuto indispensabile per la realizzazione dei fini istituzionali dell'amministrazione, prevede la relativa soppressione di quelli non identificati come indispensabili.
La Commissione speciale del Consiglio di stato, con parere n. 492/99 in data 21.05.2003, diramato con la circolare ministeriale n. 1/2005, ha precisato che «la presenza di organi politici nella Commissione edilizia, deputata a pronunciarsi su richieste di autorizzazioni e concessioni, non è più consentita dall'assetto normativo attuale» e che «qualora tale presenza sia espressamente prevista da regolamenti comunali, gli enti locali dovranno provvedere alle necessarie modifiche» (in conformità alla previsione del comma 4, dell'art. 4 del dlgs n. 165/2001).
Sebbene in tale enunciato si esponga un principio generale applicabile in materia, va parimenti osservato che l'art. 53, comma 23, della legge n. 388/2000, come modificato dall'art. 29, comma 4 della legge 448/2001, ha previsto una deroga all'applicazione del principio di netta separazione delle funzioni di indirizzo politico-amministrativo da quelle di gestione, sul quale è basato il richiamato orientamento del Consiglio di Stato.
Tale norma, infatti, dispone che «gli enti locali con popolazione inferiore a cinquemila abitanti, fatta salva l'ipotesi di cui all'art. 97, comma 4, lettera d), del Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3, 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni e all'art. 107 del citato testo unico, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio».
In tal senso, il richiamato art. 107 prevede, al comma 4, che «le attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui all'articolo 1, comma 4, possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative» ed è indubbio che la citata norma della legge finanziaria 2001 ha esplicitamente inteso introdurre una deroga alle attribuzioni degli organi burocratici.
Nella specie, il Consiglio di stato in sede giurisdizionale (sezione Terza) con sentenza n. 3490 del 26/06/2013 ha ritenuto che «il sindaco potesse legittimamente presiedere la Commissione edilizia integrata, in virtù della specifica previsione in tal senso posta nel regolamento edilizio comunale e che trova il supporto normativo anche nel citato articolo 53, comma 23, della legge 388/2000, indirizzato proprio ai comuni con popolazione inferiore a 5 mila abitanti, e nella stessa legge costituzionale n. 3/2001, recante la riforma del titolo V della Costituzione, che attribuisce potestà regolamentare ai comuni circa la disciplina della organizzazione e delle funzioni proprie».
Del resto, lo stesso Consiglio di stato, con la medesima sentenza, richiamando la decisione della IV sezione n. 1070/2009, che si è pronunciata su analoga questione, ha ritenuto che «è proprio la complessità della normativa, in materia urbanistica ed edilizia nonché in quella di impianti radioelettrici, a consentire a quei comuni, nell'ambito dell'autonomia statutaria e regolamentare loro attribuita, l'adozione di disposizioni che deroghino ai principi generali della separazione di cui al Tuel (dlgs n. 267/2000)».
Nel caso di specie, pertanto, trattandosi di un comune con popolazione inferiore a 5 mila abitanti, è applicabile la richiamata disciplina derogatoria qualora l'ente in questione abbia preventivamente adottato disposizioni regolamentari che affidano espressamente ad un componente della giunta (nella specie, il sindaco) la responsabilità dell'ufficio tecnico preposto alla gestione del settore edilizio
(articolo ItaliaOggi del 02.03.2018 - tratto da www.centrostudicni.it).

febbraio 2018

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Informative in consiglio. Ammesse le comunicazioni del presidente. Il loro contenuto, e quello delle repliche dei consiglieri, va verbalizzato.
È legittima la norma regolamentare che, in materia di funzionamento del consiglio comunale, affida al presidente del consiglio comunale (sindaco) la facoltà di eventuali comunicazioni proprie o della giunta sull'attività del comune e su fatti e avvenimenti di particolare interesse per la comunità, lasciando ai singoli gruppi solo il diritto di replica, senza possibilità, per i consiglieri, di introdurre questioni nuove? Tale disposizione, consentendo al sindaco di allargare l'ordine del giorno senza verificare la presenza e l'accettazione dell'unanimità degli altri componenti del consiglio, potrebbe presentare profili di illegittimità?

L'art. 38 del decreto legislativo n. 267/2000, al comma 2, stabilisce che il funzionamento dei consigli è disciplinato dal regolamento, nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto; il regolamento, in particolare, secondo la citata disposizione, deve prevedere le modalità per la presentazione e la discussione delle proposte.
L'art. 39 del citato decreto legislativo assegna al presidente del consiglio, tra gli altri, i poteri di convocazione e direzione dei lavori e delle attività del consiglio e, al comma 4, dispone l'obbligo di assicurare una adeguata e preventiva informazione ai gruppi consiliari e ai singoli consiglieri sulle questioni sottoposte al consiglio.
u tali questioni, soggette alla deliberazione del consiglio, i consiglieri, ai sensi dell'art. 43 del citato Tuel, hanno diritto di iniziativa; gli stessi hanno, altresì, diritto di presentare interrogazioni e mozioni. Nel caso di specie, la norma regolamentare affida al presidente la facoltà di informare il consiglio, in apertura di seduta, in merito a questioni che interessano l'operato del sindaco o della giunta o a questioni di particolare interesse per la comunità non iscritte all'ordine del giorno a cui, dunque, non dovrebbe seguire alcuna deliberazione.
Ferma restando la riconosciuta potestà, in capo al presidente, di dirigere i lavori e le attività del consiglio, la norma contenuta nel regolamento non appare limitativa del diritto dei singoli consiglieri a partecipare alle decisioni nelle materie di stretta competenza del consiglio medesimo, ai sensi dell'art. 42 del richiamato decreto legislativo n. 267/2000, che si concretizzano nell'ordine del giorno formalizzato.
Il contenuto delle comunicazioni del presidente e le repliche affidate ai rappresentanti dei gruppi devono, comunque, essere riprodotti nel verbale di seduta, di libero accesso ai singoli consiglieri, ivi compresi gli assenti alla seduta.
Dalla lettura di tali verbali, qualora emergano aspetti ritenuti di interesse, i singoli consiglieri, possono sempre utilizzare gli strumenti offerti dall'ordinamento, stimolando una eventuale deliberazione (in presenza dei relativi presupposti di competenza), con la richiesta di inserimento della questione in un successivo ordine del giorno, secondo le normali procedure regolamentari, oppure presentare mozioni o interrogazioni (articolo ItaliaOggi del 16.02.2018).

CONSIGLIERI COMUNALI: Versamento degli oneri previdenziali a favore degli amministratori locali.
L'art. 86, comma 1, del TUEL accolla all'ente locale l'onere di effettuare, ai rispettivi istituti, il versamento degli oneri assistenziali, previdenziali e assicurativi a favore degli amministratori locali, ivi indicati, lavoratori dipendenti (pubblici o privati) collocati in aspettativa per lo svolgimento del mandato, sulla base della retribuzione virtuale che spetterebbe loro se fossero effettivamente in servizio.
Pertanto, di tale retribuzione non dovrebbe logicamente far parte il trattamento correlato ad un incarico di posizione organizzativa, nel periodo successivo alla scadenza dello stesso.

Il Comune
[1] ha chiesto un parere in ordine ad una problematica concernente il versamento degli oneri previdenziali/contributivi relativi ad un assessore, dipendente di altro Comune della Regione Friuli Venezia Giulia, collocato in aspettativa non retribuita per l’espletamento del mandato politico, ai sensi dell’art. 81 del d.lgs. 267/2000.
In particolare, considerato che presso l’Ente di appartenenza l’interessato risultava titolare di un incarico di posizione organizzativa in scadenza al 31.12.2017, si è posta la questione sul riconoscimento, o meno, della retribuzione dovuta per il suddetto incarico nell’imponibile previdenziale, anche a decorrere dal 01.01.2018.
Com’è noto, l’art. 86, comma 1, del TUEL accolla all’ente locale l’onere di effettuare, ai rispettivi istituti, il versamento degli oneri assistenziali, previdenziali e assicurativi a favore degli amministratori locali lavoratori dipendenti (pubblici o privati), collocati in aspettativa per lo svolgimento del mandato
[2].
Si osserva a tal proposito che l’INPDAP, a suo tempo, ha ritenuto utile rammentare che “la quantificazione degli oneri contributivi
[3] deve essere effettuata sulla retribuzione virtuale corrispondente a quella che il dipendente avrebbe percepito se fosse stato in servizio attivo[4].
Secondo quanto prospettato, a partire dal 01.01.2018 l’amministratore/dipendente non è più titolare dell’incarico di posizione organizzativa che, in virtù di specifiche previsioni contrattuali
[5], gli avrebbe in precedenza dato diritto, qualora non collocato a richiesta in aspettativa, alla corresponsione del relativo trattamento economico (retribuzione di posizione).
Fermo che la soluzione delle questioni relative al versamento degli oneri in argomento spetta all’Istituto previdenziale competente, si esprimono, in via meramente collaborativa, le seguenti considerazioni.
Atteso che, come sopra precisato, la determinazione degli oneri da versare dovrebbe essere effettuata sulla base della retribuzione che spetterebbe al dipendente se fosse effettivamente in servizio (retribuzione virtuale), si osserva che di tale retribuzione non dovrebbe logicamente far parte il trattamento correlato all’incarico scaduto il 31.12.2017: se il dipendente fosse in servizio attivo, non avrebbe infatti diritto al trattamento economico relativo ad un incarico di cui non risulta più titolare.
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[1] Si tratta di Comune con popolazione superiore a 10.000 abitanti.
[2] La giurisprudenza contabile (cfr. Corte dei conti, sez. reg. di controllo per la Lombardia, deliberazione n. 274/2014) ha evidenziato come la ratio del collocamento in aspettativa consista nel concedere all’amministratore la possibilità di dedicarsi a tempo pieno allo svolgimento del mandato istituzionale, garantendogli al contempo il mantenimento dei propri diritti di lavoratore.
[3] Ai fini che ci interessano.
[4] Cfr. Nota operativa 18.07.2008, n. 6.
[5] Cfr. art. 41, comma 6, e art. 44 del CCRL del 07.12.2006
(13.02.2018 - link a
www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ La risposta è trasparente. Accessibile il riscontro alla Corte dei conti. Errato il diniego opposto dal comune alla richiesta del consigliere.
È legittimo, ai sensi dell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000, in materia di diritto di accesso da parte dei consiglieri comunali, il diniego espresso da un Comune nei confronti di un consigliere che ha chiesto all'Ente di potere acquisire «il riscontro fornito dal Comune ad una nota della Corte dei conti»?

Nel caso di specie, a seguito del diniego all'accesso, l'interessato ha diffidato il responsabile del Settore ai sensi dell'art. 328, comma II, del codice penale. Il Comune, che avrebbe parzialmente riscontrato la richiesta della Corte dei conti, ha, per converso, precisato che trattasi di «chiarimenti e valutazioni sulle criticità emerse dall'esame delle relazioni ai rendiconti relativi ad annualità pregresse, redatte dall'Organo di revisione contabile».
In merito, il Plenum della Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, del 16.03.2010, ha affermato che il «diritto di accesso» e il «diritto di informazione» dei consiglieri comunali nei confronti della p.a. trovano la loro disciplina nell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000 che riconosce a questi il diritto di ottenere dagli uffici comunali, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato.
La maggiore ampiezza di legittimazione all'accesso rispetto al cittadino (art. 10 del decreto legislativo n. 267/2000) è riconosciuta in ragione del particolare munus espletato dal consigliere comunale. Lo stesso, infatti, deve essere posto nelle condizioni di valutare, con piena cognizione di causa, la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, al fine di poter esprimere un giudizio consapevole sulle questioni di competenza della p.a., opportunamente considerando il ruolo di garanzia democratica e la funzione pubblicistica esercitata.
Pertanto, il consigliere comunale non deve motivare la propria richiesta di informazioni, poiché, diversamente opinando, la p.a. si ergerebbe ad arbitro delle forme di esercizio delle potestà pubblicistiche dell'organo deputato all'individuazione e al perseguimento dei fini collettivi. Conseguentemente, gli Uffici comunali non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l'oggetto delle richieste di informazioni avanzate da un consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da questi espletato.
Nella fattispecie, i funzionari comunali che hanno negato l'accesso hanno rilevato che le richieste della Corte dei conti sono state effettuate ai sensi dell'art. 1, commi 166 e segg., della legge 23/12/2005, n. 266 e dell'art. 148-bis del dlgs 18/08/2000, n. 267 e che dunque, «il rilascio della nota di riscontro richiesta potrebbe essere di pregiudizio per l'Ente e per l'attività della stessa Corte».
Invero, le citate disposizioni non disciplinano i procedimenti di natura giudiziale (rispetto ai quali la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, con talune pronunce –v. plenum del 25/01/2005– ha optato per il rinvio dell'accesso alla conclusione delle controversie), ma affidano, invece, alla Corte dei conti il controllo sui bilanci e sui rendiconti degli enti locali, al fine della verifica del rispetto del patto di stabilità interno, dell'osservanza dei vincoli in materia di indebitamento e di ogni grave irregolarità contabile e finanziaria.
La conoscenza di tali atti non violerebbe, dunque, alcun segreto istruttorio, fermo restando, in tale ipotetico caso, l'assoggettamento del consigliere al vincolo della riservatezza.
Peraltro, in fattispecie analoga alla presente, il Consiglio di stato, sez. IV con decisione 4829/2011 del 29/08/2011 ha confermato l'accessibilità, da parte del consigliere, al documento richiesto «sul fondamento della precisa quanto generale previsione di rango legislativo recata dall'art. 43 decreto legislativo n. 267 del 2000». Il Consiglio di stato ha, altresì, specificato che «in assenza di precisi dati in senso contrario non può che prevalere, pertanto, il principio della libera accessibilità da parte del consigliere comunale, regola generale alla quale non risultano essere state apportate deroghe neppure in subiecta materia».
Talché, come affermato sempre dalla Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi (plenum del 03.10.2013), «ai sensi dell'art. 5 del decreto legislativo n. 33 del 14/03/2013, chiunque -e dunque anche i consiglieri comunali- ha diritto di ottenere l'accesso ai dati relativi ai controlli sull'organizzazione e sull'attività dell'amministrazione che la p.a. ha l'obbligo di pubblicare».
Pertanto, alla luce del quadro sopra delineato, e ferma restando l'opportunità, per l'Ente, di dotarsi di apposito regolamento per la disciplina di dettaglio dell'esercizio di tale diritto, non appare che possa negarsi l'accesso agli atti richiesti (articolo ItaliaOggi del 09.02.2018).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Gruppi unipersonali ok. Se statuto e regolamento non li vietano. La materia è affidata all'autonomia delle amministrazioni locali.
È ammissibile la costituzione di un gruppo unipersonale, da parte di un consigliere fuoruscito da altro gruppo preesistente, nel caso in cui l'ente non abbia disciplinato la fattispecie con specifiche norme regolamentari?

L'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente prevista dalla legge, ma si desume implicitamente da quelle disposizioni normative che contemplano diritti e prerogative in capo ai gruppi o ai capigruppo (art. 38, comma 3, art. 39, comma 4 e art. 125 del decreto legislativo n. 267/2000).
Nella fattispecie in esame lo statuto del comune si limita a stabilire che i consiglieri eletti nella medesima lista formano un gruppo consiliare, specificando, altresì, che anche nel caso in cui nella lista sia eletto un solo consigliere, questi costituisce un gruppo autonomo.
Il regolamento sul funzionamento del consiglio comunale ribadisce il contenuto dello statuto in materia di costituzione dei gruppi, ma non disciplina l'eventuale formazione di nuovi gruppi scaturenti da movimenti successivi.
Tuttavia, le disposizioni regolamentari prevedono che il Consiglio comunale prenda atto, nella prima seduta utile, «della costituzione, designazione e ogni successiva variazione dei gruppi consiliari», ammettendo, così, implicitamente, la possibilità di modifiche nei gruppi come discendenti dall'esito delle elezioni, senza però declinarne le modalità.
Posto che la materia deve, comunque, essere regolata da apposite norme statutarie e regolamentari, adottate dai singoli enti locali nell'ambito dell'autonomia organizzativa dei consigli riconosciuta dal citato art. 38 del Tuel, la soluzione alle relative problematiche dovrebbe essere trovata dallo stesso consiglio, anche valutando l'opportunità di adottare apposite modifiche regolamentari.
Nel caso specifico, comunque, non sussistendo una esplicita disposizione statutaria o regolamentare che impedisca la formazione di nuovi gruppi, appare corretta la posizione dell'amministrazione locale che la ritiene invece possibile a seguito dell'esercizio dell'attività di interpretazione delle proprie norme nell'ambito dell'autonomia che le viene riconosciuta dall'ordinamento (articolo ItaliaOggi del 02.02.2018).

gennaio 2018

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Gestione associata. Sindaco/dipendente. Oneri assenza per mandato.
Nel caso in cui un dipendente di un ente locale sia sindaco di altro ente locale, e risulti assegnato alla gestione associata in essere fra le due amministrazioni, l'onere retributivo relativo all'assenza dal servizio per l'espletamento del mandato, che costituisce spesa di personale, è soggetto alla ripartizione proporzionale, tra gli enti interessati, in base ai criteri definiti nella convenzione stipulata.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla problematica di seguito riassunta.
Preliminarmente si precisa che, nell’ambito di una gestione associata di servizi tra i comuni A e B, le spese del personale assegnato vengono ripartite tra gli enti interessati in base al criterio proporzionale stabilito nella convenzione. Il Sindaco del comune A è dipendente del comune B e risulta assegnato alla gestione associata. Pertanto, si è posto il dubbio se il costo corrispondente alle ore di assenza dal servizio dell’amministratore, per motivi connessi al mandato, debba rimanere in carico esclusivamente al comune B e quindi scorporato dalle spese di personale che fanno carico alla gestione associata, o vada comunque ripartito tra i due enti.
Sentito il Servizio finanza locale, si espongono le seguenti osservazioni.
La norma di riferimento è rappresentata dall’art. 80, comma 1, del d.lgs. 267/2000, che dispone che le assenze dal servizio di cui ai commi 1, 2 3 e 4, dell’articolo 79 del medesimo decreto
[1] sono retribuite al lavoratore dal datore di lavoro. Gli oneri per i permessi retribuiti dei lavoratori dipendenti da privati o da enti pubblici economici sono invece a carico dell’ente presso il quale gli stessi lavoratori esercitano le funzioni pubbliche di cui all’articolo 79 citato.
Il lavoratore che si assenti dal lavoro per partecipare alle attività istituzionali in forza di incarichi politico-elettivi ha diritto comunque ad essere retribuito. L’onere relativo, anticipato dal datore di lavoro, è poi rimborsato dall’ente locale solo ove si tratti di lavoratori dipendenti da privati o da enti pubblici economici.
Si è rilevato
[2] come la ratio della disposizione in esame sia quella di porre a carico delle finanze pubbliche i costi derivanti dall’esercizio dei diritti politici costituzionalmente tutelati, senza che gli stessi gravino sugli enti di diritto privato e sugli enti pubblici economici (che agiscono in regime di diritto privato). La finalità della norma è infatti quella di evitare che l’esercizio di funzioni pubbliche elettive presso gli enti locali vada a gravare sui datori di lavoro “privati”, anziché a carico delle risorse pubbliche e segnatamente del bilancio dell’ente che beneficia di tali funzioni, in ossequio al generale principio del divieto di indebito arricchimento.
Premesso quanto sopra, si osserva che, in relazione alla fattispecie, quale quella in esame, in cui il datore di lavoro è un ente locale, i giudici contabili, nello specifico, hanno rimarcato il particolare rilievo che assume la problematica dell’imputazione soggettiva degli oneri per i permessi retribuiti in argomento, non essendo ininfluente che essi “rimangano a carico, quali spese di personale assoggettate a contenimento, del bilancio dell’ente datore di lavoro
[3] ovvero vengano addossate, quali spese per il funzionamento degli organi politici, all’ente [4] presso il quale il dipendente è chiamato a svolgere funzioni politiche”.
Preme sottolineare che la magistratura contabile
[5], pur rilevando l’opportunità di considerare la norma in esame alla luce di un’interpretazione evolutiva [6], in ragione del reciproco grado di autonomia finanziaria riconosciuto agli enti pubblici istituzionali dall’ordinamento, ha tuttavia concluso che l’attuale quadro normativo –il dato testuale dell’art. 80 del TUEL– osta in concreto alla riconoscibilità di un diritto al rimborso –relativo agli oneri sostenuti per i permessi retribuiti in esame– in favore del comune il cui dipendente svolga una delle attività previste dai commi 1-4 dell’articolo 79 del TUEL presso altro ente locale.
Pertanto, nel caso di specie, trattandosi di due enti locali, rileva il fatto che gli oneri derivanti dai permessi retribuiti del lavoratore/sindaco non sono a carico dell’ente presso cui è svolto il mandato elettivo ma, quali spese di personale, restano a carico del datore di lavoro, che provvede a retribuire le relative assenze.
Considerato poi che il dipendente in questione risulta assegnato alla gestione associata, l’onere retributivo, che costituisce spesa di personale, è soggetto alla ripartizione proporzionale, tra i Comuni interessati, in base ai criteri definiti nella convenzione in essere.
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[1] Permessi concessi agli amministratori locali, lavoratori pubblici e privati, per partecipare alle sedute degli organi e per esercitare il loro mandato.
[2] Cfr. Corte dei conti, sez. reg. di controllo per la Campania, n. 198/2014/PAR e sez. reg. di controllo per la Lombardia, n. 297/2016/PAR.
[3] Qualora si tratti di dipendente di un ente pubblico.
[4] Comunque ente pubblico, nel caso si tratti di dipendente di privati o enti pubblici economici.
[5] Cfr. Corte dei conti, sez. reg. di controllo per la Lombardia, n. 297/2016/PAR e sez. reg. di controllo per il Lazio, n. 182/2013/PAR.
[6] Interpretazione che sarebbe volta a garantirne la compatibilità con l’attuale sistema policentrico di finanza pubblica
(31.01.2018 - link a
www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Incompatibilità di un consigliere comunale per lite pendente.
   1) Affinché possa ravvisarsi la causa di incompatibilità di cui all’art. 63, co. 2, n. 4, TUEL per lite pendente, l’amministratore locale deve essere parte, in senso processuale, in un procedimento civile o amministrativo con il comune, con la conseguenza che l’intervenuta rinuncia alla lite, non oggetto di opposizione da parte del comune, fa venir meno la sussistenza dell’indicata causa di incompatibilità.
   2) Affinché possa ravvisarsi la causa di incompatibilità di cui all’art. 63, co. 2, n. 6, TUEL l’amministratore locale deve avere un debito liquido ed esigibile verso il comune e da questi deve essere stato messo legalmente in mora per la medesima fattispecie debitoria.

Il Comune chiede un parere in materia di incompatibilità degli amministratori locali per lite pendente. Più in particolare, desidera sapere se possa essere contestata la sussistenza dell’indicata causa di incompatibilità ad un consigliere comunale in relazione ad una articolata vicenda che lo vede coinvolto nei confronti dell’amministrazione comunale.
Di seguito, si riportano alcuni elementi della fattispecie in essere, descritti nel quesito, che pare possano fornire indicazioni utili ai fini della disamina della questione posta.
La vicenda trae origine dall’emissione, nei confronti dell’attuale consigliere comunale
[1], di una ordinanza sindacale di rimozione di rifiuti e ripristino dello stato dei luoghi per deposito incontrollato di rifiuti, da questi impugnata nelle competenti sedi giurisdizionali. A seguito di rinuncia al ricorso, alla quale il Comune non ha fatto opposizione, il giudice ha dichiarato estinto il giudizio.
L’Ente, attesa la sussistenza di “spese rinvenienti dai giudizi ed alle quali è stato fornito solo parziale ristoro” ha provveduto a mettere in mora il soggetto in riferimento per la somma ancora da rifondere all’Ente.
Successivamente alla chiusura del procedimento giudiziario, all’ordinanza del sindaco non risulta essere stata data attuazione nonostante i diversi solleciti ed istanze in tal senso promossi dall’Ente, gli ultimi dei quali contenenti l’avviso che il Comune avrebbe proceduto alle opere di rimozione e di ripristino dello stato dei luoghi, in danno del soggetto obbligato, in conformità alle disposizioni di legge vigenti in materia.
Nelle more dell’indizione della gara volta all’individuazione della ditta cui affidare i predetti lavori si sono tenute le elezioni amministrative comunali, all’esito delle quali il soggetto in riferimento ha assunto la qualità di consigliere comunale.
Tutto ciò premesso si osserva quanto segue.
L’articolo 63, comma 1, num. 4) del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 stabilisce che non può ricoprire la carica di consigliere comunale colui che ha lite pendente, in quanto parte di un procedimento civile od amministrativo con il comune.
La giurisprudenza
[2] ha chiarito che “la ratio dell'incompatibilità risiede nell'esigenza che il consigliere dell'ente territoriale eserciti sempre le funzioni pubbliche in modo trasparente ed imparziale, senza prestare il fianco al sospetto che la sua condotta possa essere, in qualche modo, orientata dall'intento di tutelare il suo interesse contrapposto a quello dell'ente che è stato chiamato ad amministrare”.
Nello stesso senso, il Ministero dell’Interno, ha rilevato che: “In siffatte ipotesi, l'incompatibilità trova fondamento e giustificazione nel pericolo che il conflitto di interessi determinativo della lite medesima possa orientare le scelte dell'eletto in pregiudizio dell'ente amministrato, o comunque possa ingenerare, all'esterno, sospetti al riguardo; donde risponde ad una scelta del legislatore di sacrificio del diritto alla carica a fronte di detta eventualità.”
[3].
L’articolo 63, comma 1, num. 4), TUEL esplicita il concetto di “lite pendente” che consiste nell’essere “parte in un procedimento civile o amministrativo con la regione, la provincia o il comune”, con la conseguenza che per potersi ravvisare l'incompatibilità di che trattasi occorre che i soggetti in conflitto di interessi siano divenuti parti contrapposte in un procedimento, e cioè abbiano assunto la qualità di parti in senso processuale
[4].
Con riferimento alla questione in esame, la lite insorta tra le parti (che indubbiamente rientra nella nozione di lite fatta propria dal legislatore) è stata oggetto di rinuncia
[5] e il giudizio è stato dichiarato estinto dal giudice, ai sensi dell’articolo 35, comma 2, lett. c) del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104 [6], tra l’altro, prima ancora che il soggetto in questione assumesse la carica di amministratore locale.
Segue che nessuna lite può dirsi pendente tra l’amministrazione comunale e il consigliere, con conseguente insussistenza della causa di incompatibilità di cui all’articolo 63, comma 1, num. 4), TUEL.
Per completezza espositiva si segnala, altresì, la norma di cui all’articolo 63, comma 1, num. 6, del D.Lgs. 267/2000 ai sensi della quale non può ricoprire la carica di consigliere comunale colui che, avendo un debito liquido ed esigibile verso il comune è stato legalmente messo in mora.
Come rilevato anche dal Ministero dell’Interno, la liquidità esprime “la certezza del debito e del suo ammontare”, l’esigibilità “che lo stesso debito non sia soggetto a termini o condizioni e, quindi, la disponibilità immediata del denaro
[7]. Circa, invece, la definizione di “legale messa in mora” si rileva che l’articolo 1219 del c.c. stabilisce che: “Il debitore è costituito in mora mediante intimazione o richiesta fatta per iscritto[8].
Con riferimento alla fattispecie in essere, se la sussistenza del debito relativamente ai lavori che dovessero essere eseguiti dalla ditta assegnataria degli stessi verrà ad esistenza solo all’esito del loro compimento, nel momento in cui il Comune si rivarrà sul soggetto obbligato mediante messa in mora, a diverse conclusioni potrebbe addivenirsi circa le somme di cui il consigliere risulti eventualmente debitore nei confronti del Comune per “spese rinvenienti dai giudizi”.
A tale ultimo riguardo il consiglio comunale
[9], qualora ricorrano tutti i requisiti richiesti dall’articolo 63, comma 2, num. 6) TUEL per l’insorgenza della causa di incompatibilità e consistenti nella certezza, liquidità del debito e nell’avvenuta legale messa in mora del debitore relativamente alle somme dovute, dovrà procedere alla relativa contestazione, ai sensi dell’articolo 69 TUEL.
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[1] Si precisa che al tempo dell’instaurazione del procedimento amministrativo a suo carico il soggetto in riferimento non rivestiva alcuna carica politica all’interno del comune.
[2] Corte di Cassazione, sez. I, sentenza del 04.05.2002, n. 6426.
[3] Ministero dell’Interno, parere del 09.10.2009.
[4] In questo senso si veda Ministero dell’Interno, parere del 24.04.2015.
[5] L’articolo 84 del D.Lgs. 104/2010 al comma 1 recita: “La parte può rinunciare al ricorso in ogni stato e grado della controversia, mediante dichiarazione sottoscritta da essa stessa o dall’avvocato munito di mandato speciale e depositata presso la segreteria, o mediante dichiarazione resa in udienza e documentata nel relativo verbale”. Il successivo comma 3 prevede, poi, che: “La rinuncia deve essere notificata alle altre parti almeno dieci giorni prima dell’udienza. Se le parti che hanno interesse alla prosecuzione non si oppongono, il processo si estingue”.
[6] L’articolo 35, comma 2, lett. c), del D.Lgs. 104/2010 recita: “Il giudice dichiara estinto il giudizio: omissis; c) per rinuncia”.
[7] Ministero dell’Interno, parere del 16.03.2007.
[8] Il secondo comma dell’articolo 1219 c.c. stabilisce, poi, che: “Non è necessaria la costituzione in mora: 1) quando il debito deriva da fatto illecito; 2) quando il debitore ha dichiarato per iscritto di non volere eseguire l’obbligazione; 3) quando è scaduto il termine, se la prestazione deve essere eseguita al domicilio del creditore. […]”.
[9] Si ricorda, al riguardo, che la valutazione della sussistenza delle cause di ineleggibilità o di incompatibilità dei componenti di un organo elettivo amministrativo è attribuita dalla legge all’organo medesimo. È, infatti, principio di carattere generale del nostro ordinamento che gli organi elettivi debbano esaminare i titoli di ammissione dei propri componenti. Così come, in sede di esame della condizione degli eletti (art. 41 del D.Lgs. 267/2000), è attribuito al consiglio comunale il potere-dovere di controllare se nei confronti dei propri membri esistano condizioni ostative all’esercizio delle funzioni, qualora venga successivamente attivato il procedimento di contestazione di una causa di incompatibilità, a norma dell’art. 69 del D.Lgs. 267/2000, spetta al consiglio, al fine di valutare la sussistenza di detta causa, esaminare le osservazioni difensive formulate dall’amministratore e, di conseguenza, adottare gli atti che siano ritenuti necessari
(26.01.2018 - link a
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CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Prefetti in campo.
In quali casi viene attivato il potere sostitutivo del prefetto previsto dall'art. 39, comma 5, del decreto legislativo n. 267/2000?

Nel caso di specie, alcuni consiglieri comunali di minoranza hanno depositato presso il comune una mozione ed una interrogazione contestualmente alla istanza di convocazione, ai sensi dell'art. 39, comma 2, del Tuel e, a causa del mancato riscontro della richiesta nei termini indicati dalla legge, hanno chiesto l'attivazione del potere sostitutivo del prefetto ex art. 39, comma 5, del citato Tuel.
Il regolamento sul funzionamento del consiglio comunale prevede che le interrogazioni e le mozioni presentate al protocollo dell'ente devono essere iscritte all'ordine del giorno in occasione della convocazione della prima adunanza del consiglio successiva alla loro presentazione. Inoltre, la medesima fonte normativa stabilisce che la convocazione richiesta ex art. 39, comma 2, «deve contenere in allegato, per ciascun argomento indicato da iscrivere all'ordine del giorno, il relativo schema di deliberazione».
Il sindaco, in base al combinato disposto delle citate norme regolamentari, sostiene che la richiesta di convocazione formulata da un quinto dei consiglieri non possa avere ad oggetto atti di sindacato ispettivo, dovendo ciascuna richiesta essere, indefettibilmente, corredata dal relativo «schema di deliberazione». Ciò stante, l'orientamento che vede riconosciuto e definito «il potere dei consiglieri di chiedere la convocazione del consiglio medesimo» come «diritto» dal legislatore è ormai ampiamente consolidato (sentenza Tar Puglia, Lecce, sez. 1 del 04.02.2004, n. 124).
Peraltro, il diritto ex art. 39, comma 2, «è tutelato in modo specifico dalla legge con la previsione severa ed eccezionale della modificazione dell'ordine delle competenze mediante intervento sostitutorio del prefetto in caso di mancata convocazione del consiglio comunale in un termine emblematicamente breve di venti giorni» (Tar Puglia, sez. 1, 25.07.2001, n. 4278). Circa la questione della sindacabilità dei motivi che determinano i consiglieri a chiedere la convocazione straordinaria dell'assemblea, secondo l'indirizzo prevalente, al presidente del consiglio spetta solo la verifica formale della richiesta e il prescritto numero di consiglieri, non potendo comunque sindacarne l'oggetto.
La giurisprudenza in materia si è, infatti, da tempo espressa affermando che, in caso di richiesta di convocazione del consiglio da parte di un quinto dei consiglieri, «al presidente del consiglio comunale spetta soltanto la verifica formale che la richiesta provenga dal prescritto numero di soggetti legittimati, mentre non può sindacarne l'oggetto, poiché spetta allo stesso consiglio nella sua totalità la verifica circa la legalità della convocazione e l'ammissibilità delle questioni da trattare, salvo che non si tratti di oggetto che, in quanto illecito, impossibile o per legge manifestamente estraneo alle competenze dell'assemblea in nessun caso potrebbe essere posto all'ordine del giorno» (Tar Piemonte, n. 268/1996, Tar Sardegna, n. 718 del 2003).
Il Tar Sardegna, con la citata sentenza n. 718 del 2003, ha respinto un ricorso avverso un provvedimento prefettizio ex art. 39, comma 5, del citato decreto legislativo in quanto, ad avviso del giudice amministrativo, il prefetto non poteva esimersi dal convocare d'autorità il consiglio comunale, «essendosi verificata l'ipotesi di cui all'art. 39 del Tuel n. 267/2000».
Inoltre, si è sostenuto che appartiene ai poteri sovrani dell'assemblea decidere in via pregiudiziale che un dato argomento inserito nell'ordine del giorno non debba essere discusso (questione pregiudiziale) ovvero se ne debba rinviare la discussione (questione sospensiva). Nondimeno, l'art. 43 del Tuel demanda alla potestà statutaria e regolamentare dei comuni e delle province la disciplina delle modalità di presentazione delle interrogazioni, delle mozioni e di ogni altra istanza di sindacato ispettivo proposta dai consiglieri, nonché delle relative risposte, che devono comunque essere fornite entro trenta giorni.
Al riguardo, qualora l'intenzione dei proponenti non fosse diretta a provocare una delibera in merito del consiglio comunale, bensì a porre in essere un atto di sindacato ispettivo, si potrebbe ipotizzare, ai sensi dell'art. 42, comma 1, del decreto legislativo n. 267/00, che rientri nella competenza del consiglio comunale in qualità di «organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo» anche la trattazione di «questioni» che, pur non rientrando nell'elencazione del comma 2 del medesimo art. 42, attengono comunque al suddetto ambito di controllo.
Del resto, la dizione legislativa che parla di «questioni» e non di deliberazioni o di atti fondamentali, conforta nel ritenere che la trattazione di argomenti non rientranti nella previsione del citato comma 2, dell'art. 42, non debba necessariamente essere subordinata alla successiva adozione di provvedimenti da parte del consiglio comunale. Sulla base di tali argomentazioni, pertanto, il prefetto è tenuto alla applicazione della normativa prevista dall'art. 39, comma 5, del decreto legislativo n. 267/2000, invitando il sindaco a voler provvedere alla convocazione del richiesto consiglio comunale (articolo ItaliaOggi del 26.01.2018).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGOSussistenza di una situazione di incompatibilità, ai sensi dell’articolo 12, co. 4, del d.lgs. 39/2013 tra l’incarico di responsabile di area in un ente locale, ex articolo 109, co. 2, d.lgs. 267/2000 e quello di assessore in un comune con popolazione superiore ai 15.000 abitanti (delibera 24.01.2018 n. 68 - link a www.anticorruzione.it).
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Il Consiglio dell’Autorità nazionale anticorruzione ...
DELIBERA
   • nel caso esaminato sussiste una situazione di incompatibilità, ai sensi dell’art. 12, comma 4, lett. b), del D.lgs. n. 39/2013, tra l’incarico di responsabile di area nel Comune di Camposampiero (Padova) e la nomina di assessore nel Comune di Castelfranco Veneto (Treviso);
   • il RPCT del Comune di Camposampiero (Padova), preso atto della rilevata situazione di incompatibilità, diffida, senza indugio, l’interessato ad optare tra i due incarichi incompatibili entro i 15 giorni successivi alla sua comunicazione;
   • ove l’opzione non sia effettuata entro il termine perentorio di quindici giorni, ai sensi dell’art. 19 del d.lgs. n. 39/2013, il RPCT dichiara la decadenza dall’incarico di responsabile di area e la risoluzione del relativo contratto;
   • di dare comunicazione della presente al RPCT ed al sindaco del Comune di Castelfranco Veneto (Treviso), nonché al RPCT ed al sindaco del Comune di Camposampiero (Padova), con richiesta di dare comunicazione a questa Autorità degli esiti del procedimento.

CONSIGLIERI COMUNALIComposizione delle Commissioni consiliari permanenti. Impossibilità insediamento.
Sintesi/Massima
Commissioni consiliari permanenti.
E’ stato chiesto un parere in merito alla impossibilità di insediamento delle commissioni consiliari a causa della mancata designazione dei rappresentanti di uno dei due gruppi di minoranza presenti in consiglio.
Al riguardo, si fa presente che le commissioni consiliari non sono organi necessari dell’ente locale, bensì organi strumentali dei consigli ed, in quanto tali, costituiscono componenti interne dell’organo assembleare, prive di una competenza autonoma e distinta da quella ad esso attribuita.
A fronte della oggettiva impossibilità di insediare validamente le commissioni a causa della indisponibilità manifestata da alcuni consiglieri di minoranza, la situazione di fatto verificatasi è tale da giustificare, in ragione del principio della continuità amministrativa, il riespandersi della competenza piena del consiglio comunale.

Testo
E’ stato prospettato un quesito in materia di commissioni consiliari permanenti.
A seguito delle elezioni amministrative dello scorso giugno, il consiglio comunale risulta composto da un gruppo di maggioranza formato da 11 consiglieri, da un gruppo di minoranza di 4 consiglieri e da un secondo gruppo di minoranza a cui appartiene un solo consigliere.
Ai sensi del regolamento del funzionamento del consiglio del Comune in oggetto sono previste tre commissioni consiliari permanenti a cui sono assegnate funzioni consultive. Il Consiglio ha fissato il numero complessivo dei componenti delle tre commissioni permanenti e indicato il numero di rappresentanti da designarsi da parte di ciascun gruppo presente in consiglio.
Tuttavia il gruppo di minoranza composto da 4 consiglieri non ha provveduto a nominare i propri rappresentanti in seno alle citate commissioni adducendo presunte illegittimità nell’iter amministrativo seguito dal comune.
Nella seduta di insediamento delle commissioni si è proceduto alla nomina dei rispettivi Presidenti e Vice Presidenti ma gli organi in parola non hanno ancora iniziato a svolgere le attività di competenza loro assegnate dalle fonti di autonomia locale.
Attesa la mancata designazione dei rappresentanti di uno dei due gruppi di minoranza presenti in consiglio, si chiede un parere in merito all’operatività delle Commissioni consiliari permanenti.
Al riguardo si osserva, in via preliminare, che in base a quanto disposto dall’articolo 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000, le commissioni consiliari, una volta istituite sulla base di una facoltativa previsione statutaria, sono disciplinate dall’apposito regolamento comunale con l’inderogabile limite, posto dal legislatore, riguardante il rispetto del criterio proporzionale nella composizione. Le forze politiche presenti in consiglio devono, pertanto, essere il più possibile rappresentate anche nelle commissioni.
Ai sensi dell’art. 22, comma 2, lett. c), del regolamento sul funzionamento del consiglio del comune in oggetto è previsto che “ogni gruppo, in linea di principio, partecipa alla composizione delle commissioni in proporzione alla sua rappresentanza consiliare. Deve essere comunque garantita la presenza di tutti i gruppi in ciascuna commissione….”.
In base al principio consolidato in materia di organi collegiali, secondo il quale all’atto del primo insediamento l’organo deve essere completo in tutte le sue componenti per potersi dire legittimamente costituito e poter validamente operare, e alla luce di quanto riferito dal sindaco, si ritiene che la mancata designazione dei rappresentanti di uno dei due gruppi di minoranza abbia impedito, di fatto, la costituzione delle commissione in argomento.
In assenza di specifiche previsioni recate dalle fonti di autonomia locale la questione deve essere esaminata alla luce di quei principi generali dai quali trarre utili orientamenti nel caso di specie.
Al riguardo, rileva anzitutto la natura delle commissioni consiliari. Esse non sono organi necessari dell’ente locale, cioè non sono componenti indispensabili della sua struttura organizzative, bensì organi strumentali dei consigli ed, in quanto tali, costituiscono componenti interne dell’organo assembleare, prive di una competenza autonoma e distinta da quella ad esso attribuita. In altri termini, le commissioni consiliari operano sempre e comunque nell’ambito della competenza dei consigli.
A fronte della oggettiva impossibilità di insediare validamente le commissioni a causa della indisponibilità manifestata da alcuni consiglieri di minoranza, la situazione di fatto verificatasi è tale da giustificare, in ragione del principio della continuità amministrativa, il riespandersi della competenza piena del consiglio comunale.
Ovviamente ciò non esclude che l’argomento della ricostituzione delle commissioni comunali possa essere iscritto all’ordine del giorno delle sedute consiliari fino alla sua positiva trattazione (24.01.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Sì ai gruppi unipersonali. Se il regolamento non lo vieta espressamente. La materia è interamente demandata alle fonti di autonomia locale.
Il regolamento sul funzionamento del consiglio comunale può, di fatto, impedire la formazione del gruppo misto monopersonale, disciplinando la costituzione del gruppo misto nel senso di prevedere che lo stesso sia composto da almeno due consiglieri?

L'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente prevista dalla legge e la relativa materia è regolata dalle norme statutarie e regolamentari dei singoli enti locali.
Il ministero dell'interno ha già in precedenza espresso il proprio orientamento in materia, evidenziando che, in assenza di disposizioni che escludano espressamente la possibilità di istituire il gruppo misto anche con la partecipazione di un unico componente, si potrebbe accedere ad un'interpretazione delle fonti di autonomia locale orientata alla valorizzazione dei diritti dei singoli di poter aderire a un gruppo consiliare.
Nel caso di specie, il regolamento del consiglio comunale vieta espressamente la possibilità di costituire il gruppo misto uni personale; è, pertanto, evidente che tale avviso non possa essere adattato al diverso contesto normativo in vigore nel comune in esame.
A tal proposito il Consiglio di stato, con sentenza n. 3357 del 2010, ha affermato che, una volta adottato il regolamento recante le norme sul funzionamento del consiglio comunale, queste ultime non possono essere disapplicate se non previo ritiro.
Di conseguenza, poiché la materia dei «gruppi consiliari» è interamente demandata alla competenza delle fonti di autonomia locale, è in tale ambito che potrà essere valutata l'opportunità di adottare apposite modifiche alla normativa in questione (articolo ItaliaOggi del 19.01.2018).

CONSIGLIERI COMUNALI: Taglio 10 per cento indennità amministratori e gettoni presenza.
Domanda
La mancata proroga per il 2018 del taglio del 10% di cui all’art. 6, comma 3, del d.l. 78/2010 riguarda anche le indennità degli amministratori (sindaco e assessori) ed i gettoni dei consiglieri comunali?
Risposta
No, l’art. 6, comma 3, del d.l. 78/2010 non riguarda le indennità di funzione di sindaco e assessori.
Il d.l. 78/2010 disciplinava la riduzione dei compensi di questa tipologia all’art. 5, comma 7, demandandone l’attuazione all’adozione di un successivo decreto del Ministro dell’interno, ai sensi dell’art. 82, comma 8, del TUEL 267/2000.
Dunque, la materia delle indennità di funzione e dei gettoni di presenza degli amministratori degli enti locali trova la sua disciplina nell’art. 82 del TUEL che rinvia ad apposito decreto ministeriale la determinazione degli emolumenti in questione sulla base di criteri predeterminati.
Il decreto ministeriale avrebbe dovuto essere rinnovato ogni tre anni, tuttavia, quello vigente è tutt’ora il d.m. 04.04.2000, n. 119, che rappresenta ancora oggi la fonte che disciplina la misura dell’indennità in quanto, non solo non è stato aggiornato ai sensi del comma 10 dell’art. 82, ma neppure è stato sostituito da un nuovo decreto del Ministro dell’interno, previsto dal comma 7 dell’art. 5 del d.l. 78/2010.
Oltre a ciò permane ovviamente la riduzione strutturale delle indennità di funzione imposta dall’art. 1, comma 54, della l. 266/2005 (e non il comma 58 come riportato nella norma citata che, invece, si riferisce ad altra tipologia di organi collegiali), cioè la riduzione del 10 per cento rispetto all’ammontare delle indennità in godimento alla data del 31.12.2005.
Infine, occorre fare riferimento alle disposizioni introdotte dalla successiva legge “Delrio” n. 56/2014, che con i commi 135 e 136, è intervenuta sulla composizione numerica di consigli e giunte e ha introdotto misure di invarianza della spesa rispetto al sistema previgente (18.01.2018 - link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Ballottaggi senza quorum. Per eleggere il presidente del consiglio. Spetta al regolamento disciplinare il funzionamento dell'assemblea.
Quale normativa deve essere applicata, in materia di elezione del presidente del consiglio comunale, qualora emergano differenze tra la disciplina statutaria e quella regolamentare dell'ente locale?

Nel caso di specie, lo statuto comunale prevede che il presidente sia eletto a maggioranza dei due terzi dei componenti l'assemblea. Se, dopo due scrutini, da tenersi in due distinte sedute, nessun candidato ottiene la maggioranza prevista, nella terza votazione si effettua il ballottaggio a maggioranza semplice fra i due candidati che hanno riportato il maggior numero di voti nella seconda votazione.
Il regolamento del consiglio comunale prevede, invece, un'ulteriore votazione successiva alla terza risultata infruttuosa, in quanto stabilisce che, qualora nessun candidato ottenga, dopo due scrutini, la maggioranza qualificata prevista dallo statuto, si debba procedere, nella terza votazione, al ballottaggio a maggioranza semplice fra i due candidati che hanno riportato il maggior numero di voti nella seconda votazione e che le votazioni vengano ripetute nella seduta successiva.
Considerato che, ai sensi dell'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, il funzionamento dei consigli, nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto, è disciplinato dal regolamento, pertanto la disciplina del numero legale per la validità delle adunanze (cosiddetto «quorum strutturale») e delle votazioni (cosiddetto «quorum funzionale o deliberativo») è stata delegificata, nella fattispecie in esame non si ravvisa la discrasia tra le due fonti di autonomia locale. Ciò in quanto la normativa regolamentare si limita a disciplinare un'ulteriore votazione di cui non si fa menzione nello statuto.
In altri termini, il regolamento del consiglio comunale non contrasta con nessuna norma statutaria poiché, in quanto fonte abilitata a porre norme sul funzionamento del consiglio, aggiunge un ulteriore passaggio alla procedura prevista dallo statuto per l'elezione del presidente del consiglio comunale.
Pertanto, le disposizioni normative recate dalle citate fonti di autonomia locale, con riferimento al ballottaggio da tenersi nella terza votazione, ancorché formulate in maniera piuttosto confusa, dovrebbero essere interpretate in coerenza con la ratio che, normalmente, ispira il sistema di ballottaggio, e cioè quella di considerare eletto colui tra i candidati che abbia ottenuto il più alto numero di voti, a prescindere dal numero dei votanti (articolo ItaliaOggi del 12.01.2018).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Commissioni di garanzia. Niente regole speciali sull'attività istituzionale. La presidenza deve essere attribuita a un consigliere di opposizione.
Un comitato di cittadini può chiedere la convocazione della Commissione garanzia e controllo comunale, al fine di verificare l'eventuale violazione delle norme sulla sicurezza nella costruzione di un distributore di carburanti nel territorio comunale?

La questione deve essere risolta facendo riferimento alle disposizioni di legge o di regolamento, ovvero agli statuti locali. In linea generale, nei comuni sono operanti commissioni obbligatorie (previste per legge come, per esempio, la commissione elettorale comunale) e commissioni facoltative (come, le cosiddette commissioni consiliari permanenti ex art. 38 del Tuel, dlgs n. 267/2000); in entrambi i casi, la rispettiva composizione e il funzionamento si riconducono generalmente alla fonte normativa che le istituisce e, quindi, alle previsioni statutarie e regolamentari.
Nel caso di specie, lo Statuto comunale stabilisce solo che i presidenti delle commissioni permanenti istituite con finalità di controllo sono eletti tra i rappresentanti dei gruppi consiliari di opposizione; inoltre prevede la possibilità di istituire commissioni di inchiesta e consente di istituire commissioni speciali per l'esame di problemi particolari, demandando al Consiglio la composizione, l'organizzazione, le competenze, i poteri e la durata. Il regolamento consiliare, invece, disciplina le commissioni speciali e le commissioni di inchiesta e dispone che le commissioni con funzioni di garanzia e di controllo «effettuano verifiche sull'attività di governo, sulla programmazione e sulla pianificazione delle attività, sui risultati e sugli obiettivi raggiunti».
Ebbene, le commissioni aventi funzioni di controllo e di garanzia potrebbero considerarsi, come ha sostenuto parte della dottrina, una specie del medesimo genere delle commissioni di indagine. Tale assunto è confermato dalla circostanza che la materia è trattata nello stesso art. 44 del dlgs. n. 267/2000.
Tuttavia, ferma restando la tutela della minoranza che si concretizza nell'affidamento della presidenza della commissione permanente ad un consigliere dell'opposizione, una volta costituita, l'attività istituzionale di tale commissione segue la dinamica delle altre commissioni permanenti, nel rispetto comunque delle competenze amministrative demandate previamente agli uffici comunali.
Considerato che lo Statuto e il regolamento hanno previsto la possibilità di istituire anche commissioni speciali con il compito di approfondire «particolari questioni o problemi che interessino il comune», la fattispecie relativa alla presunta violazione delle norme sulla sicurezza nella costruzione di un impianto sul territorio comunale sembra incidere, in particolare, sulla competenza di tali organismi, poiché l'attività della commissione garanzia e controllo deve limitarsi alle verifiche sull'attività di governo (articolo ItaliaOggi del 05.01.2018).

CONSIGLIERI COMUNALIDeleghe ai consiglieri.
Sintesi/Massima
Il conferimento di deleghe ai consiglieri comunali ed al Presidente del Consiglio comunale da parte del sindaco, fatta salva una ristrettissima serie di funzioni sindacali delegabile in virtù di specifiche previsioni normative (in particolare, le funzioni svolte dal sindaco ex art. 54 nella sua attività di Ufficiale di Governo), sono ammissibili sulla base di norme statutarie dell'ente locale, che stabiliscano il riparto di attribuzioni tra gli organi di governo dell'ente, integrando ma non derogando alle vigenti norme di legge.
Pertanto, potrebbe essere configurabile la mancata conformità dell’atto di delega alle disposizioni specifiche dettate in materia dagli articoli 42 e 48 del T.U.O.E.L. n. 267/2000 solo in carenza di una espressa indicazione dei limiti in ordine all’esercizio delle predette deleghe che escludano compiti di amministrazione attiva.

Testo
E’ stato chiesto un parere in ordine alla legittimità dei decreti con cui il Sindaco ha conferito deleghe ai consiglieri comunali ed al Presidente del Consiglio comunale.
In merito, ribadendo quanto sostenuto dall’esponente nelle premesse della propria nota –il quale ha fatto proprie alcune considerazioni già espresse da questo Ufficio in ordine alla disciplina delle deleghe interorganiche- va detto, altresì, che una ristrettissima serie di funzioni sindacali può essere delegabile in virtù di specifiche previsioni normative (in particolare, le funzioni svolte dal sindaco ex art. 54 nella sua attività di Ufficiale di Governo).
Va osservato, ancora, che il TAR Toscana, con decisione n. 1248/2004, ha respinto il ricorso avverso una norma statutaria concernente la delega ai consiglieri di funzioni sindacali in quanto la stessa escludeva implicitamente che potessero essere delegati compiti di amministrazione attiva, tali da comportare “l'inammissibile confusione in capo al medesimo soggetto del ruolo di controllore e di controllato”.
Il Consiglio di Stato, con parere n. 4883/2011 (4992/2012) in data 17.10.2012, ha ritenuto fondato un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica in quanto l'atto sindacale impugnato, nel prevedere la delega ai consiglieri comunali di funzioni di amministrazione attiva, determinava “una situazione, per lo meno potenziale, di conflitto di interesse”.
Pertanto, la normativa statutaria dell'ente locale, nel disciplinare la materia de qua, potrebbe prevedere disposizioni che stabiliscano il riparto di attribuzioni tra gli organi di governo dell'ente, integrando ma non derogando alle vigenti norme di legge.
Nel caso specifico, anche secondo quanto riferito dall’esponente, il vigente statuto del comune di … prevede la possibilità di conferire anche ai consiglieri incarichi per attività di istruzione e di studio per determinati problemi e progetti… che non costituiscono delega di competenza ... e che non siano conclusi con un atto amministrativo ad efficacia esterna.
Al riguardo, premesso che il decreto n. 2453/2017 è stato revocato dal decreto n. 2627/2017, si osserva che con il successivo decreto n. 2629 il sindaco ha puntualizzato che l’incarico non costituisce delega di funzioni e deve intendersi esclusa l’adozione di atti a rilevanza (esterna) o atti di gestione spettanti agli organi burocratici e che il consigliere comunale incaricato non ha poteri decisionali di alcun tipo diversi o ulteriori rispetto a quelli che derivano dallo status di consigliere.
Ciò posto, ad avviso di questa Direzione Centrale, potrebbe essere configurabile la mancata conformità dell’atto alle disposizioni specifiche dettate in materia dagli articoli 42 e 48 del TUEL n. 267/2000 solo in carenza di una espressa indicazione dei limiti in ordine all’esercizio delle predette deleghe.
Tali limiti, nel caso specifico sembrano invece esplicitati chiaramente nell’ambito del decreto sindacale n. 2629 del 17.07.2017 di conferimento delle deleghe ai consiglieri comunali (05.01.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALIDeleghe ai consiglieri.
Sintesi/Massima
Deleghe ai consiglieri.
Nell'ambito dell'autonomia statutaria dell'ente locale, sancita dall'art. 6 del citato decreto legislativo n. 267/2000, è ammissibile la disciplina di deleghe interorganiche, purché il contenuto delle stesse sia coerente con la funzione istituzionale dell'organo cui si riferisce.
Occorre considerare che il consigliere può essere incaricato di studi su determinate materie e di compiti di collaborazione circoscritti all'esame e alla cura di situazioni particolari, che non implichino la possibilità di assumere atti a rilevanza esterna, né di adottare atti di gestione spettanti agli organi burocratici.

Testo
E’ stato formulato un quesito in ordine alla attuazione dell’art. 22, comma 10, dello statuto del comune di …. recante il potere del Sindaco di attribuire ai singoli consiglieri “incarichi temporanei per affari determinati”.
In particolare è stato rappresentato che il sindaco, ai sensi della citata normativa, ha assegnato a diversi consiglieri incarichi di collaborazione in ordine a specifiche materie. Nel decreto è precisato che gli incarichi in questione non costituiscono delega di funzione, non attribuiscono alcun potere a rilevanza esterna né comportano incarichi gestionali. Ciò posto, si chiede di conoscere se siffatto decreto sia compatibile con la disciplina dettata in materia dal decreto legislativo n. 267/2000.
Al riguardo si rappresenta che nell'ambito dell'autonomia statutaria dell'ente locale, sancita dall'art. 6 del citato decreto legislativo n. 267/2000, è ammissibile la disciplina di deleghe interorganiche, purché il contenuto delle stesse sia coerente con la funzione istituzionale dell'organo cui si riferisce. Occorre considerare che il consigliere può essere incaricato di studi su determinate materie e di compiti di collaborazione circoscritti all'esame e alla cura di situazioni particolari, che non implichino la possibilità di assumere atti a rilevanza esterna, né di adottare atti di gestione spettanti agli organi burocratici.
Il consigliere, infatti, svolge la sua attività istituzionale, in qualità di componente di un organo collegiale quale il consiglio, che è destinatario dei compiti individuati e prescritti dalle leggi e dallo statuto.
Atteso che il consiglio svolge attività di indirizzo e controllo politico-amministrativo, partecipando "…alla verifica periodica dell'attuazione delle linee programmatiche da parte del Sindaco … e dei singoli assessori" (art. 42, comma 3, del T.U.O.E.L.), ne scaturisce l'esigenza di evitare una incongrua commistione nell'ambito dell'attività di controllo.
In proposito, va osservato che il TAR Toscana, con decisione n. 1284/2004, ha respinto il ricorso avverso una norma statutaria concernente la delega ai consiglieri di funzioni sindacali in quanto la stessa escludeva implicitamente che potessero essere delegati compiti di amministrazione attiva, tali da comportare “…l’inammissibile confusione in capo al medesimo soggetto del ruolo di controllore e di controllato…”.
Si aggiunge, altresì, che il Consiglio di Stato, con parere n. 4883/2011 reso in data 17.10.2012, ha ritenuto fondato un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica in quanto l’atto sindacale impugnato, nel prevedere la delega ai consiglieri comunali di funzioni di amministrazione attiva, determinava “…una situazione, per lo meno potenziale, di conflitto di interesse.”.
Tanto premesso, il decreto sindacale in questione sembrerebbe essere stato adottato in coerenza con la normativa vigente nonché con le elaborazioni giurisprudenziali in materia (05.01.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALIMancata attuazione normativa in tema di parità di genere nelle giunte comunali.
Sintesi/Massima
Parità di genere nelle giunte comunali.
Il comma 137, dell’art. 1 della legge n. 56/2014 dispone che “nelle giunte dei comuni con popolazione superiore a 3000 abitanti, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura inferiore al 40%, con arrotondamento aritmetico”.
Al riguardo, si osserva che il Consiglio di Stato, sez. V, n. 4626 del 05/10/2015, ha precisato che tutti gli atti adottati nella vigenza dell’art. 1, comma 137, citato trovano in esso “un ineludibile parametro di legittimità” e, pertanto, un’interpretazione che riferisse l’applicazione della norma alle sole nomine assessorili effettuate all’indomani delle elezioni e non anche a quelle adottate in corso di consiliatura consentirebbe un facile aggiramento della suddetta normativa.
Circa l’adeguatezza dell’istruttoria effettuata dal sindaco e del corredo motivazionale addotto quale giustificazione del mancato rispetto della normativa in questione, appare utile richiamare la sentenza n. 1 del 2015 con la quale il Tar Calabria, Sez. Catanzaro, nel pronunciarsi per l’annullamento del decreto di nomina della giunta, ha ritenuto che l’atto impugnato fosse sprovvisto di adeguata istruttoria finalizzata al reperimento di “… idonee personalità di sesso femminile nella società civile, nell’ambito del bacino territoriale di riferimento, limitandosi a comprovare soltanto la rinuncia di due consigliere.”. (cfr Tar Calabria sentenze nn. 2, 3 e 4 del 2015).

Testo
E’ stato chiesto l’intervento della scrivente amministrazione in merito alla mancata attuazione della vigente normativa in tema di parità di genere nella composizione delle giunte.
In particolare, è stato segnalato che il sindaco del Comune in oggetto, nel prendere atto delle dimissioni di un assessore di genere femminile, ha provveduto alla nomina di un assessore uomo. Tale sostituzione, non corredata da alcuna motivazione in ordine alla difficoltà riscontrata nell’attuazione della normativa in parola, ha alterato l’equilibrio di genere della compagine giuntale, riducendo la rappresentanza del genere femminile ad un solo componente.
Come noto, il comma 137, dell’art. 1 della legge n. 56/2014 dispone che “nelle giunte dei comuni con popolazione superiore a 3000 abitanti, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura inferiore al 40%, con arrotondamento aritmetico”.
Al riguardo, si osserva che il Consiglio di Stato, sez. V, n. 4626 del 5/10/2015, ha precisato che tutti gli atti adottati nella vigenza dell’art. 1, comma 137, citato trovano in esso “un ineludibile parametro di legittimità” e, pertanto, un’interpretazione che riferisse l’applicazione della norma alle sole nomine assessorili effettuate all’indomani delle elezioni e non anche a quelle adottate in corso di consiliatura consentirebbe un facile aggiramento della suddetta normativa.
Circa l’adeguatezza dell’istruttoria effettuata dal sindaco e del corredo motivazionale addotto quale giustificazione del mancato rispetto della normativa in questione, appare utile richiamare la sentenza n. 1 del 2015 con la quale il Tar Calabria, Sez. Catanzaro, nel pronunciarsi per l’annullamento del decreto di nomina della giunta, ha ritenuto che l’atto impugnato fosse sprovvisto di adeguata istruttoria finalizzata al reperimento di “… idonee personalità di sesso femminile nella società civile, nell’ambito del bacino territoriale di riferimento, limitandosi a comprovare soltanto la rinuncia di due consigliere.”. (cfr Tar Calabria sentenze nn. 2, 3 e 4 del 2015).
Da ultimo, il Consiglio di Stato, con sentenza n. 406/2016, ha osservato che l’effettiva impossibilità di assicurare nella composizione della giunta comunale la presenza dei due generi nella misura stabilita dalla legge deve essere “adeguatamente provata”.
Nella citata pronuncia, il Supremo Consesso Amministrativo ha, inoltre, dato conto della ragionevolezza delle indicazioni fornite dalla scrivente amministrazione nella circolare n. 6508 del 24.04.2014 laddove si fa presente che occorre lo svolgimento di una preventiva e necessaria attività istruttoria preordinata ad acquisire la disponibilità dello svolgimento delle funzioni assessorili da parte di persone di entrambi i generi e di fornire un’adeguata motivazione sulle ragioni della mancata applicabilità del principio di pari opportunità.
Tanto premesso, si osserva che, come noto, il vigente ordinamento non prevede poteri di controllo di legittimità sugli atti degli enti locali in capo a questa Amministrazione e, pertanto, gli eventuali vizi di legittimità degli atti adottati potranno essere fatti valere nelle competenti sedi (05.01.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALIRichiesta di parere sui locali di seduta del Consiglio comunale.
Sintesi/Massima
Previa disciplina regolamentare di dettaglio, nell’ambito delle previsioni statutarie, non sussiste un impedimento in ordine allo svolgimento delle adunanze del consiglio comunale anche in locali diversi rispetto alla ordinaria aula sita presso la sede comunale.
Tuttavia, ferma restando la verifica dell’opportunità di sostenere i relativi costi aggiuntivi, è necessario non arrecare disagi ai consiglieri partecipanti e che anche la non ordinaria sala sia fornita della dotazione tecnico-logistica occorrente per il corretto svolgimento delle riunioni consiliari.

Testo
E’ stato posto un quesito in ordine alla legittimità dello svolgimento delle sedute consiliari all’interno di una villa, di proprietà di un consorzio di cui l’Ente fa parte con quota non di maggioranza, ubicata nel territorio del Comune ma distante dalla sede comunale.
Al riguardo, si osserva che secondo quanto stabilito dall’articolo 3, comma 4, del d.lgs. n. 267/2000, “i comuni hanno autonomia statutaria, normativa, organizzativa e amministrativa”.
Secondo la previsione dell’articolo 6 del citato d.lgs. n. 267/2000, lo statuto stabilisce anche “i criteri generali in materia di organizzazione dell’Ente”.
L’articolo 7, infine, conferisce al comune, nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dallo statuto, la potestà regolamentare “in particolare per l’organizzazione e il funzionamento delle istituzioni… per il funzionamento degli organi…”.
La materia è, dunque soggetta all’autorganizzazione dell’ente.
Lo statuto comunale prevede all’articolo 3, comma 4, che le adunanze degli organi collegiali si svolgono normalmente nella sede del Comune di …, lasciando altresì la possibilità di riunione in luoghi diversi in caso di necessità o per particolare esigenze.
Ciò posto, ferma restando l’opportunità dell’adozione di una disciplina regolamentare di dettaglio, alla luce del disposto statutario non sembra che vi sia un impedimento assoluto in ordine allo svolgimento delle adunanze del consiglio comunale anche in locali diversi rispetto alla ordinaria aula sita presso la sede comunale.
Tuttavia, resta ferma la necessità di non arrecare disagi ai consiglieri partecipanti e che anche la non ordinaria sala sia fornita della dotazione tecnico-logistica occorrente per il corretto svolgimento delle riunioni consiliari.
Ritenendo, altresì che debbano osservarsi anche i principi generali relativi al contenimento della spesa pubblica, si demanda alla valutazione diretta del Comune –che andrà a verificare i relativi costi aggiuntivi- l’opportunità del mantenimento della duplicazione della sede consiliare (05.01.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALIProcedura approvazione modifiche statutarie.
Sintesi/Massima
Procedura approvazione modifiche statutarie.
L'approvazione dello statuto, attesa la natura di atto normativo "fondamentale" sua propria, comporta che su di esso converga il più elevato numero di consensi attraverso un'ampia discussione e comparazione d'interessi da parte della maggioranza e dell'opposizione consiliare. Tale particolare esigenza ha determinato, conseguentemente, la previsione di maggioranze speciali disponendo che i quorum, rispettivamente della prima e delle altre votazioni, siano ragguagliati ai due terzi o alla maggioranza assoluta dei consiglieri assegnati.
Pertanto, l'iter deliberativo di approvazione dello statuto e delle sue modifiche comporta che in sede di prima votazione la delibera sia approvata con il voto favorevole dei due terzi dei consiglieri assegnati ivi compreso il sindaco, che è componente del consiglio comunale ai sensi dell'art. 37 del citato testo unico. Si osserva, infatti, che nelle ipotesi in cui l'ordinamento non ha inteso computare il sindaco, o il presidente della provincia, nel quorum richiesto per la validità di una seduta, lo ha indicato espressamente usando la formula “senza computare a tal fine il sindaco ed il presidente della provincia".
Ove tale quorum non venga raggiunto, si apre un’ulteriore fase procedimentale per la quale lo statuto è approvato “se ottiene per due volte il voto favorevole dalla maggioranza assoluta dei consiglieri assegnati”. Si precisa che, nell’ipotesi in cui lo statuto non sia approvato alla prima votazione con il voto favorevole dei due terzi dei consiglieri assegnati, è sempre necessario procedere alle previste ulteriori due votazioni a “maggioranza assoluta”, con la conseguenza che, complessivamente, le votazioni assommeranno al numero di tre.
Circa il rispetto del termine di trenta giorni previsto dal citato art. 6, comma 4, giova richiamare il contenuto del parere n. 291 del 2010 reso dal Consiglio di Stato su ricorso Straordinario al Capo dello Stato, laddove è stato osservato che “…la non perentorietà del termine sopra detto vanificherebbe la finalità della norma che è diretta a prevedere un tempo determinato entro il quale deve concludersi la procedura di approvazione dello statuto”.

Testo
Un consigliere comunale ha lamentato asserite irregolarità concernenti la procedura di approvazione delle modifiche dello statuto del comune in oggetto.
In particolare, l’esponente ha rappresentato che il consiglio comunale, con deliberazione n. 56 del 28.07.2017, ha approvato, con il voto favorevole di 11 consiglieri su 15 presenti, una modifica allo statuto comunale. Tale deliberazione è stata considerata quale approvazione delle modifiche statutarie, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del decreto legislativo n. 267/2000, in base al criterio dell’arrotondamento per difetto della cifra decimale.
Il consiglio, con deliberazione n. 67 del 30.09.2017, ritenendo il criterio dell’arrotondamento per difetto non aderente al dettato legislativo, ha approvato l’annullamento parziale della precedente deliberazione nella parte in cui aveva proclamato l’avvenuta modifica statutaria. Con la medesima delibera ha inoltre convalidato la votazione tenutasi in data 28.07.2017 avente ad oggetto “approvazione modifica allo statuto comunale” per mancato raggiungimento del quorum richiesto in prima votazione.
Sempre in data 30.9.2017, durante la medesima seduta consiliare, è stata adottata la seconda delibera di approvazione della modifica statutaria mentre in data 31.10.2017, è stata adottata la terza ed ultima delibera.
Entrambe le deliberazioni, identificate rispettivamente con i numeri 68 e 79, risultano adottate a maggioranza assoluta dei componenti, avendo ottenuto il voto favorevole di 10 consiglieri.
Ad avviso del consigliere esponente, la procedura seguita per l’approvazione delle modifiche statutarie sarebbe viziata atteso che la delibera n. 68 del 2017 sarebbe intervenuta il 30.09.2017, ovvero nello stesso giorno della delibera n. 67, violando il consolidato indirizzo giurisprudenziale in base al quale le eventuali ulteriori votazioni successive alla prima devono intervenire in sedute diverse. Inoltre, la deliberazione n. 79 del 31.10.2017 sarebbe stata adottata oltre il termine di trenta giorni previsto dall’art 6, comma 4, del decreto legislativo n. 267/2000.
Al riguardo, si rappresenta che la normativa in esame ha previsto un “procedimento aggravato" per l'approvazione delle norme statutarie, nonché delle relative modifiche, sia disponendo che, in caso di mancata approvazione dei due terzi dell'assemblea si debba ripetere la votazione entro 30 giorni, che prescrivendo che lo statuto sia approvato se ottiene per due volte - in sedute successive - il voto favorevole della maggioranza assoluta dei membri assegnati al collegio.
L'approvazione dello statuto, pertanto, attesa la natura di atto normativo "fondamentale" sua propria, comporta che su di esso converga il più elevato numero di consensi attraverso un'ampia discussione e comparazione d'interessi da parte della maggioranza e dell'opposizione consiliare. Tale particolare esigenza ha determinato, conseguentemente, la previsione di maggioranze speciali disponendo che i quorum, rispettivamente della prima e delle altre votazioni, siano ragguagliati ai due terzi o alla maggioranza assoluta dei consiglieri assegnati.
Pertanto, l'iter deliberativo di approvazione dello statuto e delle sue modifiche comporta che in sede di prima votazione la delibera sia approvata con il voto favorevole dei due terzi dei consiglieri assegnati ivi compreso il sindaco, che è componente del consiglio comunale ai sensi dell'art. 37 del citato testo unico.
Si osserva, infatti, che nelle ipotesi in cui l'ordinamento non ha inteso computare il sindaco, o il presidente della provincia, nel quorum richiesto per la validità di una seduta, lo ha indicato espressamente usando la formula “senza computare a tal fine il sindaco ed il presidente della provincia". Ove tale quorum non venga raggiunto, si apre un’ulteriore fase procedimentale per la quale lo statuto è approvato “se ottiene per due volte il voto favorevole dalla maggioranza assoluta dei consiglieri assegnati”. Si precisa che, nell’ipotesi in cui lo statuto non sia approvato alla prima votazione con il voto favorevole dei due terzi dei consiglieri assegnati, è sempre necessario procedere alle previste ulteriori due votazioni a “maggioranza assoluta”, con la conseguenza che, complessivamente, le votazioni assommeranno al numero di tre.
Con riferimento alla doglianza concernente la contestualità dell’approvazione delle deliberazioni n. 67 e n. 68, entrambe adottate il 30.9.2017, si osserva che la data a cui occorre fare riferimento per computare il termine di inizio della procedura di approvazione delle modifiche statutarie è il 28.07.2017 e non il 30.09.2017. Ciò in quanto la convalida operata con la deliberazione n. 67 dell’atto consiliare n. 56 del 28.07.2017 configura un provvedimento nuovo ma che si collega all’atto convalidato al fine di mantenerne fermi gli effetti fin dal momento in cui questo venne emanato (efficacia ex tunc).
Circa il rispetto del termine di trenta giorni previsto dal citato art. 6, comma 4, giova richiamare il contenuto del parere n. 291 del 2010 reso dal Consiglio di Stato su ricorso Straordinario al Capo dello Stato, laddove è stato osservato che “…la non perentorietà del termine sopra detto vanificherebbe la finalità della norma che è diretta a prevedere un tempo determinato entro il quale deve concludersi la procedura di approvazione dello statuto” (05.01.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).