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62-INCARICHI PROFESSIONALI E PROGETTUALI
63-INCENTIVO PROGETTAZIONE (ora INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE)
64-INDUSTRIA INSALUBRE
65-L.R. 12/2005
66-L.R. 23/1997
67-L.R. 31/2014
68-LEGGE CASA LOMBARDIA
69-LICENZA EDILIZIA (necessità)
70-LOTTO EDIFICABILE - ASSERVIMENTO AREA - CESSIONE CUBATURA
71-LOTTO INTERCLUSO
72-MAPPE e/o SCHEDE CATASTALI (valore probatorio o meno)
73-MOBBING
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75-OPERE PRECARIE
76-PARERE DI REGOLARITA' TECNICA, CONTABILE E DI LEGITTIMITA'
77-PATRIMONIO
78-PERGOLATO e/o GAZEBO e/o BERCEAU e/o DEHORS e/o POMPEIANA e/o PERGOTENDA e/o TETTOIA
79-PERMESSO DI COSTRUIRE (annullamento e/o impugnazione)
80-PERMESSO DI COSTRUIRE (decadenza)
81-PERMESSO DI COSTRUIRE (deroga)
82-PERMESSO DI COSTRUIRE (legittimazione richiesta titolo)
83-PERMESSO DI COSTRUIRE (parere commissione edilizia)
84-PERMESSO DI COSTRUIRE (prescrizioni)
85-PERMESSO DI COSTRUIRE (proroga)
86-PERMESSO DI COSTRUIRE (verifica in istruttoria dei limiti privatistici al rilascio)
87
-
PERMESSO DI COSTRUIRE (volturazione)
88-
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89-PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI
90-PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI (aree a standard)
91-PIF (Piano Indirizzo Forestale)
92-PISCINE
93-PUBBLICO IMPIEGO
94-PUBBLICO IMPIEGO (quota annuale iscrizione ordine professionale)
95-RIFIUTI E BONIFICHE
96-
RINNOVO/PROROGA CONTRATTI
97-RUDERI
98-
RUMORE
99-SAGOMA EDIFICIO
100-SANATORIA GIURISPRUDENZIALE E NON (abusi edilizi)
101-SCOMPUTO OO.UU.
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105-SICUREZZA SUL LAVORO
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dossier CONDOMINIO

per approfondimenti vedi anche:

Legge 11.12.2012 n. 220 - Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici
* * *
Regio Decreto 16.03.1942 n. 262 - Approvazione del testo del Codice civile ("del condominio negli edifici": dall'art. 1117 all'art. 1139)
* * *
Regio Decreto 30.03.1942 n. 318 - Disposizioni per l'attuazione del Codice civile e disposizioni transitorie

anno 2022
dicembre 2022

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAIl condòmino disabile può predisporre l’ascensore sulla facciata del palazzo anche senza l’ok dell’assemblea. La tutela del diritto alla salute e il prinicipio di solidarietà sociale consentono minime compromissioni del decoro architettonico.
L’ascensore esterno, installato sulla facciata condominiale a cura e spese del disabile e volto a eliminare le barriere architettoniche, deve considerarsi indispensabile ai fini della accessibilità e abitabilità dell’appartamento.
È il chiarimento reso dal TRIBUNALE di Roma, Sez. V civile, con la sentenza 30.12.2022 n. 19186.

---------------
SENTENZA
La domanda merita accoglimento.
Il presente giudizio ha ad oggetto l’accertamento del diritto dell’attore, in quanto condòmino, peraltro affetto da gravi patologie che ne impediscono la deambulazione, all’installazione (sulla facciata esterna dell’edificio condominiale di via … n. … in Roma) di un elevatore, diritto già in passato negato dall’assemblea dei condòmini.
Sul punto deve subito osservarsi come l’assemblea di condominio abbia certamente il potere di decidere, nell’interesse collettivo, le modalità concrete di utilizzazione dei beni comuni, nella specie ai fini di autorizzare l’installazione di un ascensore in area condominiale, come anche quello di modificare –revocando una o più precedenti delibere, benché non impugnate da alcuno dei partecipanti, e stabilendone liberamente gli effetti– quelle in atto, ove intenda rivalutare la corrispondenza dell’innovazione ai limiti segnati dagli artt. 1120 e 1121 c.c. Non ha, tuttavia, il potere di impedire tale installazione laddove essa non comporti il superamento i limiti imposti dalla coesistenza di beni comuni e sia in ogni caso volta ad eliminare le barriere architettoniche presenti nell’edificio.
In particolare, l’installazione di un ascensore su parte di aree condominiali, diretta ad eliminare le barriere architettoniche, ai sensi della L. 02.01.1989, n. 13, art. 2 può essere approvata dall’assemblea con la maggioranza prescritta dall’art. 1136 c.c., comma 2, oppure, nel caso in cui il condominio rifiuti di adottare la relativa delibera, essere realizzata dai condòmini richiedenti, a proprie spese e con l’osservanza dei limiti previsti dagli artt. 1120 e 1121 c.c.
Alla eventuale “autorizzazione” concessa dall’assemblea ad apportare tale modifica su iniziativa dei soli condòmini richiedenti e sulla base di uno specifico progetto può, quindi, attribuirsi il valore di mero riconoscimento dell’attuale inesistenza di un contrario interesse o di concrete (e legittime) pretese da parte degli altri condòmini a questo tipo di utilizzazione delle parti comuni.
Una tale delibera autorizzativa della realizzazione dell’impianto, pur vincolante nei confronti di tutti i condòmini (art. 1137 c.c., comma 1), non può ritenersi, perciò, simmetricamente produttiva di un autonomo diritto già spettante ai condòmini (rimanendo, peraltro, detta delibera revocabile dalla medesima assemblea sulla base di una rivalutazione di dati ed apprezzamenti obiettivamente rivolti alla realizzazione degli interessi comuni ed alla buona gestione dell’amministrazione; sarebbe del resto precluso al giudice un sindacato nel merito circa l’uso, da parte dell’assemblea dei condòmini, di detta facoltà di nuovo apprezzamento, se non nei limiti consentiti dall’indagine per l’accertamento dell’eccesso di potere, e cioè di un grave pregiudizio, in tal senso, cfr. Cass. civ., Sez. II, 04.02.2021, n. 2636)
Come chiarito dall’ormai consolidata giurisprudenza, anche di legittimità, quindi, l’installazione di un ascensore, o di un impianto avente analoga funzione, può avvenire per iniziativa assembleare (con imputazione dell’opera all’intera collettività, anche con riferimento alla ripartizione di costi) o anche di uno o più condòmini: in questo caso con attribuzione dell’opera e dei relativi costi ai soli condòmini “promotori” e nel rispetto dei limiti di cui all’art. 1102 c.c. quanto all’utilizzo di parti comuni per la realizzazione dei manufatti (Cass. n. 24006/2004).
Orbene, le innovazioni che incidano sulla cosa comune (tra cui rientra anche l’installazione di un ascensore che apporti modifiche alle parti condominiali), richiedono, di regola, ai sensi dell’art. 1120 c.c. la maggioranza qualificata, ove comportino una spesa da ripartire fra tutti i condòmini su base millesimale; qualora invece (come nella specie) non debba farsi luogo ad un riparto di spesa, trova applicazione la norma di cui all’art. 1102 c.c. E’, infatti, evidente come le modificazioni eseguibili sulla cosa comune in forza dell’art. 1102 c.c. possano costituire anche un’innovazione ex art. 1120 c.c.; in tal caso esse sono consentite anche al singolo condòmino, o ad un gruppo di condòmini, se:
   1) non alterino la destinazione della cosa e non ne impediscano il pari uso agli altri partecipanti al condominio;
   2) rispettino il disposto di cui all’art. 1120, ultimo comma, c.c., perché detta norma (nel vietare le innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato ovvero ne alterino il decoro architettonico o rendano talune parti dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condòmino) ha portata generale ed è collocata nell’articolo in esame al fine di rendere evidente che essa costituisce un limite invalicabile anche per la maggioranza dei condòmini.
Nel caso in esame, l’opera proposta dal condòmino consiste in un elevatore (modello Ecovimec Heavy Load), il quale, tenuto conto della grave compromissione della capacità deambulatoria dell’attore, risulta essere –come anche confermato dal CTU nel presente giudizio- l’unico modello realizzabile per consentire l’ingresso su un lato della cabina e l’uscita sul lato opposto, eliminando le barriere architettoniche costituite dalla scalinata che conduce dalla strada al piano di ingresso su via …. .
Come emerso dalla CTU, le cui risultanze devono ritenersi pienamente condivisibili, anche per il rigore metodologico che la caratterizza, l’elevatore, pur incidendo sulla corte comune e sul prospetto anteriore dell’edificio, non muta la destinazione d’uso dei beni comuni: nel primo caso (corte), l’ascensore non occlude direttamente le vedute e le luci dei varchi di ingresso dei negozi, i quali non vedranno invasa la loro proprietà privata, essendo la corte esterna ad essi di uso comune.
Nel secondo caso (prospetto edificio) il vano corsa non impedisce né limita le vedute delle finestre degli appartamenti privati e non comporta alcun pregiudizio relativo all’illuminazione del vano scala posto che, sotto tale profilo, il progetto prevede un vano corsa interamente vetrato, proprio per consentire alla luce solare di penetrare all’interno del vano scala e non limitare eccessivamente le vedute dall’interno del vano scala. Le funzioni originariamente svolte dalle finestre, dunque, non vengono mutate dall’opera de qua, essendo la torre dell’ascensore completamente trasparente.
Né, tanto meno, si ravvisano altri elementi che possano indurre a ritenere che vi sia un pregiudizio per la staticità dell’edificio: trattasi, infatti, di struttura in metallo che, benché ancorata all’edificio, è “autoportante” e contiene un ascensore che grava sulle fondazioni della torre metallica, senza alcun aggravio di peso alla struttura dell’edificio.
Neppure può dirsi, inoltre, sotto un più ampio profilo di “destinazione” della facciata, rilevante anche nell’ipotesi di suo utilizzo ex art. 1102 c.c., che la realizzazione dell’impianto venga a ledere il decoro architettonico dell’edificio. Come è dato, infatti, apprezzare dalle fotografie versate in atti, lo stabile non presenta particolari pregi architettonici, né rivela specifica ricerca di euritmia di linee, donde l’inserimento di una struttura in vetro non comporta un pregiudizio estetico ovvero un’alterazione delle linee dello stabile suscettibili di apprezzamento oggettivo.
Peraltro, nell’ottica del contemperamento degli opposti interessi, anche laddove vi fosse un interesse estetico, esso sarebbe sicuramente recessivo rispetto alla tutela del diritto alla salute, in quanto, nel caso di specie, tenuto conto delle condizioni personali dell’attore, la realizzazione dell’ascensore risulta essere necessaria al fine di garantire il rispetto della dignità umana e del principio di non discriminazione, di tal ché bisognerebbe, comunque, ritenere tollerabile una minima compromissione dell’integrità del decoro architettonico.
Per tali ragioni, in accoglimento della domanda attorea, deve ritenersi accertato il diritto dell’attore di procedere, senza alcuna preventiva autorizzazione assembleare, all’installazione dell’elevatore con le caratteristiche e secondo le modalità meglio specificate nella c.t.u. alla quale si rinvia (tenuto conto che:
   1) il nuovo progetto “garantisce la totale accessibilità all’edificio” da parte dell’attore “sin dal piano strada”;
   2) “le linee architettoniche prescelte sono più coerenti con la linearità dell’edificio esistente”;
   3) “la nuova struttura non interferirà con quella dell’edificio e ciò eviterà di dovere eseguire delle verifiche e degli eventuali adeguamenti sismici su di esso”).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Laddove gli abusi edilizi rilevati risultino realizzati su parti comuni, l’ordinanza di ripristino non può essere rivolta all’amministratore pro tempore del condominio ma deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle stesse.
Con riferimento alla disciplina previgente (rispetto alla riforma recata dalla legge 11.12.2012, n. 220, Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici), era prevalente in giurisprudenza la tesi della qualificazione del condominio come ente di gestione -che opera in rappresentanza e nell'interesse comune dei partecipanti e limitatamente all'amministrazione e al buon uso della cosa comune senza interferire nei diritti autonomi di ciascun condomino- privo di personalità giuridica.
Inoltre, sempre secondo la giurisprudenza formatasi prima della novella del 2012, il condominio “non è titolare di un patrimonio autonomo, né di diritti e di obbligazioni: la titolarità dei diritti sulle cose, gli impianti e i servizi di uso comune, in effetti, fa capo ai singoli condomini”.
La giurisprudenza di legittimità, inoltre, ha costantemente qualificato il condominio “come un ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei singoli condomini”.
---------------
L’avversata ordinanza di demolizione si rivela illegittima in quanto:
   - ove gli abusi rilevati risultino realizzati su parti di proprietà esclusiva, l’ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi abusivamente modificati non poteva essere rivolta all’amministratore pro tempore del condominio, non risultando lo stesso qualificato come “responsabile dell’abuso”;
   - anche ove gli abusi rilevati risultino realizzati su parti comuni, l’ordinanza di ripristino non poteva essere rivolta all’amministratore pro tempore del condominio, atteso “che le parti comuni dell'edificio non sono di proprietà dell'ente condominio, ma dei singoli condomini. A tanto consegue che la misura volta a colpire l'abuso realizzato sulle parti comuni deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle stesse”.
---------------

... per l'annullamento dell’ordinanza prot. n. -OMISSIS- del 30.11.2011, registrata al n. -OMISSIS- del 13.12.2011, notificata il 20.01.2012, con la quale il dirigente del Dipartimento Attività Edilizie e Repressione Abusivismo del Comune di Messina ha ordinato al ricorrente nella qualità di provvedere, entro il termine di 90 giorni dalla notificazione dell’ordinanza medesima, al ripristino quo-ante dello stato dei luoghi abusivamente modificati, con l’avvertimento che, decorso infruttuosamente il predetto termine, il bene e l’area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive, verranno acquisite di diritto al patrimonio comunale;
...
Il deducente avvocato -OMISSIS-, nella qualità di amministratore del condominio dell’isolato 248 in via -OMISSIS-, Messina, ha sottoscritto per la presentazione al Comune intimato una d.i.a., prot. n. -OMISSIS- dell’01.12.2009, relativa al progetto per il restauro dell’organismo architettonico dell’isolato che amministra.
Nel prescritto termine di legge -giorni trenta dalla presentazione- non è pervenuto alcun provvedimento inibitorio dell’attività edilizia oggetto della d.i.a. e, quindi, sono stati regolarmente intrapresi i lavori.
Successivamente, tra fine settembre ed inizio ottobre del 2011, sono stati effettuati due accertamenti da parte dell’Ufficio tecnico comunale, all’esito dei quali il Dipartimento Attività Edilizie e Repressione Abusivismo, senza alcuna preliminare contestazione o comunicazione di avvio del procedimento, ha adottato due distinte ordinanze repressive, aventi entrambe per destinatario il predetto amministratore pro tempore, con le quali, rispettivamente, gli si ordinava
   - il pagamento di una sanzione pecuniaria di € 516,00 (ordinanza prot. n. -OMISSIS- del 30.11.2011) per la realizzazione di opere abusive in assenza di autorizzazione o d.i.a. nonché
   - (ordinanza prot. n. -OMISSIS- del 30.11.2011, in questa sede impugnata) di procedere al ripristino dello stato dei luoghi, secondo il Comune abusivamente modificati, per alcune “altre” opere, di proprietà esclusiva di alcuni condomini, avvertendo che in caso di inottemperanza il bene e l’area di sedime (non specificamente indicati) nonché quella necessaria alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sarebbero stati acquisiti al patrimonio comunale.
Il ricorrente ha contestato, con memoria trasmessa al Comune di Messina l’01.03.2012, entrambi i provvedimenti, evidenziando che l’eventuale pagamento della sanzione pecuniaria irrogata con la prima ordinanza non avrebbe costituito, comunque, acquiescenza alle contestazioni mosse e che, per la seconda ordinanza, non sussistevano le condizioni l’applicazione della sanzione della rimessione in pristino e l’acquisizione al patrimonio comunale e che, comunque, egli non poteva essere destinatario di una tale ordinanza (riguardante pretesi abusi su immobili di proprietà privati), chiedendone l’annullamento in autotutela ed avvertendo che, in mancanza, si sarebbe visto costretto a proporre azione giurisdizionale.
Nel silenzio dell’Amministrazione comunale il deducente ha proposto l’azione di annullamento.
...
2. Il ricorso merita di essere accolto, nei sensi e nei termini in appresso specificati.
Con riferimento alla disciplina previgente (rispetto alla riforma recata dalla legge 11.12.2012, n. 220, Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici), era prevalente in giurisprudenza la tesi della qualificazione del condominio come ente di gestione -che opera in rappresentanza e nell'interesse comune dei partecipanti e limitatamente all'amministrazione e al buon uso della cosa comune senza interferire nei diritti autonomi di ciascun condomino- privo di personalità giuridica (cfr. Cass. civ., sez. II, 03.04.2003, n. 5147; Cass. civ., sez. II, 09.06.2000, n. 7891; Cass. civ., sez. II, 14.12.1993, n. 12304).
Inoltre, sempre secondo la giurisprudenza formatasi prima della novella del 2012, il condominio “non è titolare di un patrimonio autonomo, né di diritti e di obbligazioni: la titolarità dei diritti sulle cose, gli impianti e i servizi di uso comune, in effetti, fa capo ai singoli condomini” (cfr. Cass. civ., Sez. Un., 08.04.2008, n. 9148).
La giurisprudenza di legittimità, inoltre, ha costantemente qualificato il condominio “come un ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei singoli condomini” (cfr., ex plurimis, Cass. civ. sez. III, 16.05.2011, n. 10717; Cass. civ. sez. II, 26.03.2010, n. 7300; Cass. civ. sez. III, 18.02.2010, n. 3900; Cass. civ. sez. II, 21.01.2010, n. 1011; Cass. civ., sez. trib., 07.12.2004, n. 22942; l’orientamento giurisprudenziale in questione, peraltro, è stato più di recente ribadito da, ex plurimis, Cass. civ., sez. II, 06.10.2021, n. 27080; Cass. civ., sez. II, 26.09.2018, n. 22911; Cass. civ., sez. III, 31.10.2017, n. 25855).
Orbene, l’avversata ordinanza di demolizione ex art. 7 della legge 28.02.1985, n. 47 si rivela illegittima in quanto:
   - ove gli abusi rilevati risultino realizzati su parti di proprietà esclusiva, l’ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi abusivamente modificati non poteva essere rivolta all’amministratore pro tempore del condominio, non risultando lo stesso qualificato come “responsabile dell’abuso”;
   - anche ove gli abusi rilevati risultino realizzati su parti comuni, l’ordinanza di ripristino non poteva essere rivolta all’amministratore pro tempore del condominio, atteso “che le parti comuni dell'edificio non sono di proprietà dell'ente condominio, ma dei singoli condomini. A tanto consegue che la misura volta a colpire l'abuso realizzato sulle parti comuni deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle stesse” (cfr. TAR Lazio, Roma, sez. II-quater, 18.05.2022, n. 6276; cfr. anche TAR Basilicata, sez. I, 14.01.2022, n. 14; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 10.07.2020, n. 3005).
3. In conclusione, previo assorbimento delle restanti censure, il ricorso merita di essere accolto per le ragioni sopra evidenziate con conseguente annullamento dell’ordinanza impugnata (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 01.12.2022 n. 3130 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

giugno 2022

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Per l’ascensore l’iter è facilitato. È ammessa l’installazione senza via libera dall’assemblea. Una pronuncia della Cassazione conferma la liberalizzazione dell’uso delle parti comuni.
I condomini interessati possono installare a proprie spese e senza l'autorizzazione assembleare l'impianto di ascensore nell'edificio che ne sia privo, anche se quest'ultimo non rispetta le misure minime previste dalla normativa sull'abbattimento delle barriere architettoniche e anche se ne deriva un disagio minimo nell'utilizzo delle scale.

Questo quanto deciso dalla II Sez, civile della Corte di Cassazione, nella recente ordinanza 14.06.2022 n. 19087, che rappresenta, per così dire, l'ultima frontiera in tema di liberalizzazione dell'uso delle parti comuni per la costruzione di un impianto di ascensore senza il via libera dell'assemblea condominiale.
Il caso. Alcuni condomini avevano agito in giudizio per sentire accertare il proprio diritto a installare a proprie spese un ascensore all'interno dell'edificio, realizzato nell'anno 1960, che ne era sprovvisto. Questi ultimi intendevano utilizzare allo scopo una parte delle aree comuni, ossia la tromba delle scale e una piccola porzione degli scalini, che avrebbero dovuto essere occupati con il vano dell'impianto.
Si erano costituiti in giudizio gli altri condomini, eccependo che l'edificio difettava di uno spazio idoneo ad alloggiare l'ascensore all'interno del vano scala, poiché non vi era la tromba delle scale. I medesimi inoltre avevano rilevato che, a fronte di una larghezza delle scale di 1,20 metri, con il taglio parziale dei gradini si sarebbe realizzata una ulteriore riduzione dello spazio utile a deambulare.
Era stato poi anche contestato il fatto che la cabina dell'ascensore avrebbe dovuto avere una profondità minima di 1,20 metri e una larghezza minima di 0,80 metri, ai sensi della legge n. 13/1989 e del dm n. 236/1989, dimensioni che non sarebbero state rispettate dall'opera avuta in mente dai condomini attori.
Infine, era stato eccepito che l'installazione dell'ascensore avrebbe gravemente compromesso l'uso delle scale e della cabina a uno dei condomini, in ragione della sua grossa corporatura.
Nel corso del giudizio era stata effettuata una consulenza tecnica d'ufficio sulle modalità di realizzazione dell'impianto e a seguito di essa il tribunale aveva autorizzato la realizzazione dell'impianto. La sentenza era stata confermata in appello.
L'evoluzione della giurisprudenza di legittimità. I giudici di legittimità negli ultimi anni si sono pronunciati sempre più spesso in merito all'installazione dell'impianto di ascensore con utilizzo delle parti comuni e, facendo leva sul disposto di cui all'art. 1102 c.c., sono giunti a inquadrare detto intervento come indispensabile ai fini dell'accessibilità dell'immobile e della reale ed effettiva abitabilità del medesimo.
Con sentenza n. 20713/2017 è stato così precisato che l'installazione dell'ascensore nell'edificio che ne sia privo può essere effettuata anche da una parte dei condomini, a condizione che gli stessi ne sopportino per intero la relativa spesa. Tuttavia, gli altri condomini, ove in prosieguo intendano utilizzarlo a loro volta, saranno legittimati a farlo, ma saranno tenuti a rifondere ai primi una quota delle spese sostenute, opportunamente rivalutata, divenendo così a loro volta comproprietari dell'impianto.
Con sentenza n. 7938/2017 è stato quindi ribadito come il tema dell'accessibilità degli edifici e dell'eliminazione delle barriere architettoniche costituisce espressione di un principio di solidarietà sociale e persegue finalità di carattere pubblicistico. Detto principio implica il contemperamento di vari interessi, tra i quali deve includersi anche quello delle persone disabili all'eliminazione delle barriere architettoniche, trattandosi di un diritto fondamentale che prescinde dall'effettiva utilizzazione, da parte di costoro, degli edifici e che conferisce comunque legittimità all'intervento innovativo, purché lo stesso sia idoneo, anche se non a eliminare del tutto, quantomeno ad attenuare le condizioni di disagio nella fruizione del bene primario dell'abitazione (si vedano anche le decisioni nn. 6129/2017 e 18334/2012).
Del resto, nei casi in cui non debba procedersi a una ripartizione tra tutti i condomini della spesa di installazione dell'impianto, trova in ogni caso applicazione il ricordato art. 1102 c.c., in forza del quale ciascun partecipante può servirsi del bene comune, a condizione che non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri condomini di farne parimenti uso, apportandovi quindi a proprie spese le modificazioni necessarie per il suo miglior godimento (si vedano le decisioni nn. 16815/2022, 4439/2020, 25872/2010 e 24006/2004).
L'ultima decisione della Suprema corte. La Suprema corte, nel dare continuità all'orientamento teso a facilitare l'installazione degli impianti di ascensore negli edifici che ne siano privi, si è occupata in questo caso proprio di contemperare gli opposti interessi dei condomini favorevoli alla realizzazione dell'impianto e di quelli che, viceversa, si lamentavano delle ricadute di tale intervento sulla fruibilità delle parti comuni.
La larghezza delle scale si sarebbe, infatti, ridotta a 77 centimetri, al netto del corrimano, per tutte le rampe, e addirittura a 74 centimetri per la prima rampa, così impedendo il passaggio contemporaneo di due persone e il passaggio orizzontale di una barella, in spregio alla obbligatorietà della larghezza minima delle scale comuni di almeno 120 centimetri.
I condomini contrari all'intervento avevano anche obiettato che l'ascensore avrebbe avuto una cabina di soli 58 centimetri, contro la prescrizione normativa minima di 80 centimetri, con la conseguenza che il relativo uso sarebbe stato limitato alle persone normodotate e di medio-piccola corporatura, dovendosi tra l'altro rilevare che, come riportato dal consulente tecnico d'ufficio, all'interno della cabina avrebbe potuto accedere solo un portatore di handicap in grado di alzarsi dalla carrozzina, ma non certamente anche la carrozzina stessa.
La Cassazione si è quindi richiamata alle valutazioni di merito condotte dai giudici di appello. Nel caso di specie è evidente che era di fatto impossibile contemperare gli opposti interessi, poiché, a fronte dell'installazione di un ascensore, sia pure di dimensioni estremamente ridotte e non in grado di rimuovere in modo completo le barriere architettoniche, sarebbe stato indispensabile ridurre sensibilmente la larghezza delle scale, e viceversa, ove si fosse inteso conservare quest'ultima, sarebbe stato inevitabile rinunciare all'impianto. Che fare?
Secondo i giudici di merito, considerate le abitudini di vita e le esigenze degli abitanti delle grandi città, nonché le attuali caratteristiche della popolazione italiana, composta in misura di gran lunga prevalente da persone non giovani, il sacrificio minore si sarebbe realizzato proprio incidendo sulla larghezza delle scale.
A orientare nel senso della prevalenza del vantaggio connesso all'installazione dell'ascensore erano poi state le fotografie dell'edificio gemello a quello in cui abitavano i contendenti, nel quale era stato già installato un impianto di ascensore identico a quello di cui al progetto, ricavandosi da tali riproduzioni fotografiche che la posizione del vano ascensore avrebbe implicato un disagio veramente minimo nell'uso quotidiano della scala, tanto che una persona di corporatura media avrebbe potuto affrontarle con normale facilità, pur rimanendo precluso il contemporaneo passaggio di due persone, con la conseguenza che la limitata lunghezza delle rampe e le buone condizioni di luminosità, anche in presenza dell'ascensore, avrebbero ridotto al minimo il disagio che la riduzione dei gradini avrebbe comportato.
La Suprema corte a questo proposito ha ricordato come il concetto di inservibilità del bene comune non può consistere nel semplice disagio subito rispetto alla sua normale utilizzazione, coessenziale al concetto di innovazione di cui all'art. 1120 c.c., ma è costituito dalla sua concreta inutilizzabilità.
I giudici di legittimità hanno infine chiarito che le prescrizioni di cui alla legge n. 13/1989 si applicano, conformemente al principio di irretroattività, ai soli edifici realizzati successivamente all'entrata in vigore della normativa. In ogni caso le stesse sono derogabili, seppure entro i ristretti limiti consentiti.
Infatti, in tema di accessibilità degli edifici e di eliminazione delle barriere architettoniche, le prescrizioni tecniche dettate dall'art. 8 del dm n. 236/1989, in ordine alla larghezza minima delle rampe delle scale, possono essere derogate mediante scrittura privata (articolo ItaliaOggi Sette del 04.07.2022).
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Il principio
In tema di condominio negli edifici, nell’identificazione del limite all’immutazione della cosa comune, disciplinato dall’art. 1120 c.c.), il concetto di inservibilità della stessa non può consistere nel semplice disagio subito rispetto alla sua normale utilizzazione, coessenziale al concetto di innovazione, ma è costituito dalla sua concreta inutilizzabilità, secondo la sua naturale fruibilità.
Inoltre, in tema di accessibilità degli edifici e di eliminazione delle barriere architettoniche, le prescrizioni tecniche dettate dall’art. 8 del dm 236/1989, in ordine alla larghezza minima delle rampe delle scale, possono essere derogate mediante scrittura privata, poiché l’art. 7 del medesimo decreto consente, in sede di progetto, di adottare soluzioni alternative alle suddette specificazioni e soluzioni tecniche, purché rispondenti alle esigenze sottintese dai criteri di progettazione

maggio 2022

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAAffinché un bene immobile abusivo possa legittimamente essere oggetto dell'ulteriore sanzione costituita dall'acquisizione gratuita al patrimonio comunale, ai sensi dell'art. 31 d.P.R. n. 380/2001, occorre che il presupposto ordine di demolizione sia stato notificato a tutti i comproprietari, al pari anche del provvedimento acquisitivo.
Ciò poiché risponde ad ovvi principi di tutela del diritto di difesa e di partecipazione procedimentale il non riconoscere idoneità fondativa dell'irrogazione della sanzione dell'acquisizione al patrimonio nei riguardi dei comproprietari che non abbiano ricevuto regolare notifica dell'ordinanza di demolizione, l'inottemperanza alla quale costituisce presupposto per l'irrogazione della sanzione acquisitiva; nonché perché con la sanzione dell'acquisizione si viene a pregiudicare definitivamente il soggetto già titolare del diritto di proprietà sui beni confiscati (e cioè il fabbricato e le aree circostanti, nella misura indicata dalla legge), per cui necessariamente tale provvedimento ablatorio, a contenuto sanzionatorio, deve essere notificato a tutti, atteso che non sarebbe possibile una spoliazione solo pro quota.
...
Nel caso di specie, di tale notifica, indirizzata a tutti i comproprietari, il Comune non ha offerto prova. Si tratta, perciò, di valutare se possa ritenersi equipollente ad essa la notifica indirizzata al condominio.
Sul punto, è già stato affermato che, secondo una consolidata giurisprudenza, il condominio è un mero ente di gestione, privo di personalità giuridica.
Siffatto principio è stato peraltro confermato anche dopo le modifiche introdotte nel codice civile dalla legge n. 220 del 2012 (Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici), poiché quest'ultima, pur avendo attribuito un attenuato grado di soggettività al condominio, non lo ha comunque fatto assurgere al rango di ente dotato di vera e propria personalità giuridica.
Da tutto quanto sopra si ricava che le parti comuni dell'edificio non sono di proprietà dell'ente condominio, ma dei singoli condomini. A tanto consegue che la misura volta a colpire l'abuso realizzato sulle parti comuni deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle stesse.

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Con ricorso notificato il 19.07.2021 e tempestivamente depositato, i ricorrenti, comproprietari del fondo sito presso il Comune di Ariccia, via ... n. 2/F, (fg 19, part. 343), hanno impugnato la determina comunale n. 472 del 2021, con la quale è stata disposta l’acquisizione al patrimonio comunale del bene, a causa della inottemperanza all’ordine di demolizione n. 150 del 10.07.2015.
Quest’ultimo, a sua volta, era stato emesso a seguito di annullamento, da parte del Comune, del permesso di costruire in sanatoria n. 13 del 2013, e notificato al condominio di via ... n. 2F.
In seguito, con verbale del 03.05.2021, il Comune ha accertato l’inottemperanza, e adottato, a causa di ciò, l’atto oggetto di ricorso.
Con un unico motivo i ricorrenti denunciano la violazione dell’art. 31 del T.U. dell’edilizia e dell’art. 15 della legge regionale n. 15 del 2008, perché l’acquisizione al patrimonio pubblico del bene non è stata preceduta da notifica ai comproprietari dell’ordine di demolizione.
In via preliminare, e superando l’eccezione di inammissibilità avanzata dalla difesa comunale, va rimarcato che l’atto impugnato non si limita a dar conto della inottemperanza all’ordine di demolizione, ma dispone l’acquisizione gratuita del bene al patrimonio comunale. Esso è perciò senza dubbio lesivo, con riferimento ad eventuali vizi suoi propri.
Inoltre, lo stesso Comune ammette di avere notificato l’ordine di demolizione al solo amministratore del condominio.
Sul punto, la giurisprudenza ha chiarito, in linea generale, che perché un bene immobile abusivo possa legittimamente essere oggetto dell'ulteriore sanzione costituita dall'acquisizione gratuita al patrimonio comunale ai sensi dell'art. 31 d.P.R. n. 380/2001, occorre che il presupposto ordine di demolizione sia stato notificato a tutti i comproprietari, al pari anche del provvedimento acquisitivo.
Ciò poiché risponde ad ovvi principi di tutela del diritto di difesa e di partecipazione procedimentale il non riconoscere idoneità fondativa dell'irrogazione della sanzione dell'acquisizione al patrimonio nei riguardi dei comproprietari che non abbiano ricevuto regolare notifica dell'ordinanza di demolizione, l'inottemperanza alla quale costituisce presupposto per l'irrogazione della sanzione acquisitiva; nonché perché con la sanzione dell'acquisizione si viene a pregiudicare definitivamente il soggetto già titolare del diritto di proprietà sui beni confiscati (e cioè il fabbricato e le aree circostanti, nella misura indicata dalla legge), per cui necessariamente tale provvedimento ablatorio, a contenuto sanzionatorio, deve essere notificato a tutti, atteso che non sarebbe possibile una spoliazione solo pro quota (da ultimo, Tar Napoli, n. 4616 del 2021).
Nel caso di specie, di tale notifica, indirizzata a tutti i comproprietari, il Comune non ha offerto prova, come si è visto. Si tratta, perciò, di valutare se possa ritenersi equipollente ad essa la notifica indirizzata al condominio.
Sul punto, è già stato affermato che, secondo una consolidata giurisprudenza, il condominio è un mero ente di gestione, privo di personalità giuridica (cfr. Cass. civ., II, 16.12.2015, n. 25288; 06.08.2015, n. 16562; VI, 22.05.2015, n. 10679; TAR Lombardia, Milano, II, 05.12.2016, n. 2302).
Siffatto principio è stato peraltro confermato anche dopo le modifiche introdotte nel codice civile dalla legge n. 220 del 2012 (Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici), poiché quest'ultima, pur avendo attribuito un attenuato grado di soggettività al condominio, non lo ha comunque fatto assurgere al rango di ente dotato di vera e propria personalità giuridica (Cass. civ., SS.UU., 18.09.2014, n. 19663).
Da tutto quanto sopra si ricava che le parti comuni dell'edificio non sono di proprietà dell'ente condominio, ma dei singoli condomini. A tanto consegue che la misura volta a colpire l'abuso realizzato sulle parti comuni deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle stesse (Tar Napoli, n. 3005 del 2020; Tar Milano, n. 1764 del 2019).
Né rileva in senso contrario la sentenza n. 4303 del 2011 di questo Tribunale, che si limita a riconoscere all’amministratore la legittimazione ad impugnare atti repressivi in ordine ad abusi commessi sulle parti comuni dell’edificio, e non vale, perciò, a superare la necessità della notifica ad ogni condomino dell’ordine di demolizione, nel caso in cui si intenda dichiarare l’effetto ablativo della proprietà.
Infine, non è conferente l’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990 richiamato dalla difesa comunale, atteso che non si è in presenza di un vizio formale del procedimento, ma della carenza del presupposto stesso perché possa operare la sanzione della acquisizione gratuita.
Di conseguenza, l’atto impugnato va annullato (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 18.05.2022 n. 6276 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

febbraio 2022

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAL’installazione di un ascensore all’interno di un cortile condominiale è qualificabile in termini di “innovazione” in quanto, in violazione di quanto previsto dall’art. 1102 c.c., determina una modifica strutturale del cortile medesimo rispetto alla sua primitiva configurazione, risultandone nel contempo alterata la sua naturale funzione e destinazione comune, che è quella di dare luce ed aria alle unità immobiliari che compongono l’edificio.
Sicché, la decisione di assoggettare il cortile condominiale a siffatta “innovazione” deve essere assunta, necessariamente, dal Condominio, sia pure con le maggioranze di cui all’art. 2, comma 1, l. n. 13/1989 (nel testo modificato dall'articolo 27, comma 1, della Legge 11.12.2012 n. 220 e successivamente dall'articolo 10, comma 3, lettera a), del D.L. 16.07.2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla Legge 11.09.2020, n. 120) a norma del quale:
   «1. Le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni da attuare negli edifici privati dirette ad eliminare le barriere architettoniche di cui all'articolo 27, primo comma, della legge 30.03.1971, n. 118, ed all'articolo 1, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 27.04.1978, n. 384, nonché la realizzazione di percorsi attrezzati e la installazione di dispositivi di segnalazione atti a favorire la mobilità dei ciechi all'interno degli edifici privati, sono approvate dall'assemblea del condominio, in prima o in seconda convocazione, con le maggioranze previste dal secondo comma dell' articolo 1120 del codice civile. Le innovazioni di cui al presente comma non sono considerate in alcun caso di carattere voluttuario ai sensi dell'articolo 1121, primo comma, del codice civile. Per la loro realizzazione resta fermo unicamente il divieto di innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, di cui al quarto comma dell'articolo 1120 del codice civile».
In proposito, l’art. 1120, comma II, del codice civile prevede che:
«[II]. I condòmini, con la maggioranza indicata dal secondo comma dell'articolo 1136, possono disporre le innovazioni che, nel rispetto della normativa di settore, hanno ad oggetto:
   1) le opere e gli interventi volti a migliorare la sicurezza e la salubrità degli edifici e degli impianti;
   2) le opere e gli interventi previsti per eliminare le barriere architettoniche, per il contenimento del consumo energetico degli edifici e per realizzare parcheggi destinati a servizio delle unità immobiliari o dell'edificio, nonché per la produzione di energia mediante l'utilizzo di impianti di cogenerazione, fonti eoliche, solari o comunque rinnovabili da parte del condominio o di terzi che conseguano a titolo oneroso un diritto reale o personale di godimento del lastrico solare o di altra idonea superficie comune;
   3) l'installazione di impianti centralizzati per la ricezione radiotelevisiva e per l'accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino alla diramazione per le singole utenze, ad esclusione degli impianti che non comportano modifiche in grado di alterare la destinazione della cosa comune e di impedire agli altri condòmini di farne uso secondo il loro diritto».
In assenza di siffatta delibera condominiale, giusta il disposto di cui al secondo comma del citato art. 2 L. n. 13/1989, i condòmini interessati all’adozione di strumenti di superamento delle cd. barriere architettoniche sono, dunque, legittimati esclusivamente ad «installare, a proprie spese, servoscala nonché strutture mobili e facilmente rimovibili» o «modificare l'ampiezza delle porte d'accesso, al fine di rendere più agevole l'accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe dei garages».
In altri termini, per come del resto ribadito dall’art. 10, comma 3, del DL n. 76/2020, ciascun partecipante alla comunione o al condominio può sì realizzare a proprie spese ogni opera di cui agli articoli 2 della legge 09.01.1989, n. 13, e 119 del decreto-legge 19.05.2020, n. 34, anche servendosi della cosa comune ma pur sempre “nel rispetto dei limiti di cui all'articolo 1102 del codice civile” e, quindi, laddove siffatti limiti non vengano rispettati –come nel caso in esame- e ci si trovi dinnanzi ad una “innovazione”, deve necessariamente intervenire una delibera assembleare.
Le disposizioni sopra citate sono, peraltro, conferma nel disposto di cui all’art. 78 D.P.R. n. 380/2001, secondo cui:
   «1. Le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni da attuare negli edifici privati dirette ad eliminare le barriere architettoniche di cui all'articolo 27, primo comma, della legge 30.03.1971, n. 118, ed all'articolo 1 del decreto del Presidente della Repubblica 24.07.1996, n. 503, nonché la realizzazione di percorsi attrezzati e la installazione di dispositivi di segnalazione atti a favorire la mobilità dei ciechi all'interno degli edifici privati, sono approvate dall'assemblea del condominio, in prima o in seconda convocazione, con le maggioranze previste dall'articolo 1136, secondo e terzo comma, del codice civile.
   2. Nel caso in cui il condominio rifiuti di assumere, o non assuma entro tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le deliberazioni di cui al comma 1, i portatori di handicap, ovvero chi ne esercita la tutela o la potestà di cui al titolo IX del libro primo del codice civile, possono installare, a proprie spese, servoscala nonché strutture mobili e facilmente rimovibili e possono anche modificare l'ampiezza delle porte d'accesso, al fine di rendere più agevole l'accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe delle autorimesse».
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... per l'annullamento, previa sospensione dell’efficacia
quanto al ricorso n. 9236 del 2020:
   - dell’Autorizzazione con prescrizioni rilasciata dalla Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma del 25.07.2020 protocollo n. 30888, notificata a mezzo pec in pari data avente ad oggetto l’installazione di un ascensore per il superamento delle Barriere Architettoniche nel cortile condominiale del fabbricato in Roma via -OMISSIS-;
   - di ogni altro atto presupposto preparatorio, connesso e consequenziale con quello impugnato e, in particolare, per quanto occorrer possa, dell’Autorizzazione con prescrizioni rilasciata dalla Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma, del 22.06.2020, prot. n. 26449;
nonché per la condanna al rilascio di provvedimento di autorizzazione ex art. 21 D.Lgs. 42/2004, emendato dalle prescrizioni illegittime impugnate, in conformità all'istanza ed al progetto in atti, come in narrativa;
quanto al ricorso n. 9622 del 2020:
   - dell'autorizzazione con prescrizioni rilasciata dalla Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma del 25.07.2020, prot. n. 30888 avente ad oggetto l’installazione di ascensore per il superamento delle Barriere Architettoniche nel cortile condominiale del fabbricato in Roma, via -OMISSIS-;
   - dell'autorizzazione con prescrizioni rilasciata dalla Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma, del 22.06.2020, prot. n. 26449
...
Con ricorso notificato in data 22.10.2020 e depositato in data 11.11.2020, i ricorrenti -OMISSIS-., in qualità di condòmini del fabbricato multiscale (Scala “A” e Scala “B”), sito in Roma, via -OMISSIS-, censito al -OMISSIS-, risalente al 1700 e sottoposto a vincolo culturale diretto ex L. n. 1089/1939 e D.M. del 10.07.1957, hanno impugnato il provvedimento prot. n. 30888 del 25.07.2020, con cui la Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma -in adesione all’istanza ex art. 21 D.lgs. n. 42/2004, presentata in data 07.11.2018 al prot. n. 28749 e, successivamente, integrata- ha autorizzato il richiedente condòmino arch. -OMISSIS- all’installazione, nel cortile condominiale del fabbricato in parola, di un ascensore per il superamento delle Barriere Architettoniche a condizione, per quanto di interesse, che:
   a) l’ascensore venga realizzato solamente fino al quinto piano, escludendo lo sbarco al piano delle terrazze;
   b) sia garantito il distacco minimo dell’ascensore e dei pianerottoli dalle finestre che affacciano sulla corte interna.
I ricorrenti hanno, altresì, impugnato anche la precedente autorizzazione del 22.06.2020, prot. n. 26449 -pur ritenendola superata da quella prot. n. 30888 del 25.07.2020– con cui la Soprintendenza aveva imposto quale unica condizione che venisse garantito il distacco minimo dell’ascensore e dei pianerottoli dalle finestre che affacciano sulla corte interna.
A sostegno del gravame, affidato a plurimi motivi di diritto (“I. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 2 E 7 DELLA LEGGE 241/1990, DELL’ART. 5 DELLA LEGGE 09.01.1989, N. 13 E DELL’ART. 21 E 22 DEL D.LGS. 42/2004. ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI LEGITTIMAZIONE E DI ISTRUTTORIA. ILLOGICITÀ DELLA MOTIVAZIONE”;
   “II. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 21 E 22 DEL D.LGS. 42/2004, DELL’ART. 2 DELLA LEGGE N. 13/1989 E DELL’ART. 78 DEL D.P.R. N. 380/2001. ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI LEGITTIMAZIONE E DI ISTRUTTORIA, TRAVISAMENTO DEI FATTI, DIFETTO DEI PRESUPPOSTI, INCOERENZA DELLA MOTIVAZIONE, IN CONSIDERAZIONE DELLA NON COINCIDENZA SOGGETTIVA TRA RICHIEDENTE E BENEFICIARI DELL’IMPIANTO, IN CONSIDERAZIONE DELLA VALUTAZIONE DELL’INTERESSE ALLA REALIZZAZIONE DELL’IMPIANTO SULLA SCORTA DI DOCUMENTI SANITARI DI UN SOGGETTO DIVERSO DAL RICHIEDENTE ED IN CONSIDERAZIONE DELLA MANCATA PREVISIONE DELLO SBARCO NEGLI APPARTAMENTI DEI BENEFICIARI POTENZIALI”;
   “III VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 2 E 4 DELLA LEGGE N. 13/1989 E DELL’ART. 78 DEL D.P.R. N. 380/2001. ECCESSO DI POTERE PER ASSENZA DEI PRESUPPOSTI, DIFETTO DI ISTRUTTORIA, CONTRADDITTORIETÀ”;
   “IV) VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 21 E 22 DEL D.LGS. N. 42/2004. ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI ISTRUTTORIA, DIFETTO DI LEGITTIMAZIONE E TRAVISAMENTO DEI FATTI
”;
   “V. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 3 DELLA LEGGE N. 241/1990 PER GENERICITÀ DELLA MOTIVAZIONE. ECCESSO DI POTERE PER TRAVISAMENTO DEI FATTI, DIFETTO DI ISTRUTTORIA”), i ricorrenti, sostanzialmente interessati -al pari del sig. Pi., dichiarato invalido- al procedimento avviato in data 07.11.2018 (prot. n. 28749), dall’arch. -OMISSIS-, hanno dedotto la necessità che la Soprintendenza approvasse il progetto così come da quest’ultimo presentato e, quindi, senza le condizioni sopra specificate, in quanto unica soluzione possibile al fine di superare adeguatamente le barriere architettoniche esistenti presso l’edificio condominiale.
In particolare, il progetto in questione prevedeva che l’ascensore venisse realizzato nell’ambito della chiostrina condominiale, in corrispondenza della Scala “B” (rampa di piani 5, con larghezza di appena 80 cm, tale da non consentire neanche l'ubicazione di un montascale per le persone anziane più disagiate), con sbarco sul terrazzo di copertura comune.
In tal modo, l’impianto in parola, senza alcun modo pregiudicare i valori culturali sottesi al vincolo imposto sul fabbricato condominiale, sarebbe stato idoneo a soddisfare le esigenze non solo dei condòmini della Scala “B”, ma anche dei proprietari degli appartamenti posti ai piani alti della Scala “A” (rampa di quattro piani, che va restringendosi, in corrispondenza del quinto piano, fino ad arrivare a cm 70 e conduce, tramite una ulteriore ed impervia scala a chiocciole al terrazzo condominiale), nella quale non sarebbe possibile installare alcun impianto ascensore, avendo la stessa valore artistico e monumentale.
Ad avviso dei ricorrenti, quindi, il posizionamento dell’ascensore nel sito proposto e la previsione dello sbarco dello stesso sul terrazzo condominiale costituirebbero condizioni indispensabili per superare le barriere architettoniche e consentire, quindi, l’accesso alla propria abitazione ai condòmini proprietari di appartamenti siti ai piani alti della Scala “A” mediante l’ascensore, tra cui la sig.ra -OMISSIS-.
La previsione progettuale dello sbarco dell’impianto sul terrazzo, lungi dal costituire un mero quid pluris, finalizzato a recare utilità aggiuntive ed accessorie, si inserirebbe, in modo organico ed indefettibile nel disegno finalizzato a risolvere i gravi ed insuperabili disagi costituiti dalla presenza di autentiche barriere architettoniche per l’intero stabile.
Le condizioni apposte dalla Soprintendenza all’autorizzazione prot. n. 30888 del 25.07.2020, consistenti tanto nell’inibizione del predetto sbarco quanto nel mantenimento del distacco minimo dell’ascensore e dei pianerottoli dalle finestre che affacciano sulla corte interna, renderebbero non fattibile e non utile l’intervento, così di fatto vanificandolo, senza alcun vantaggio per gli interessi pubblici sottesi al vincolo.
Con atto di intervento ad opponendum depositato in data 19.11.2020, i condòmini -OMISSIS-, dopo aver rappresentato, in fatto:
   a) di aver proposto autonomo ricorso avverso l’autorizzazione oggetto del presente giudizio (ricorso n. 9622/2020 R.R.);
   b) l’inesistenza di una delibera condominiale che avesse approvato i lavori di installazione dell’impianto in contestazione, hanno contestato, sotto vari profili, tanto l’ammissibilità quanto la fondatezza del gravame.
Il -OMISSIS-, costituitosi in giudizio, dopo aver rappresentato di non essere stato mai informato né coinvolto nel procedimento da cui sono derivati i provvedimenti oggetto di gravame, ha sotto vari profili dedotto l’inammissibilità/infondatezza del gravame.
Ciascuna delle parti costituite, con successive memorie difensive e di replica, corredate da corposa documentazione, ha insistito nelle proprie ragioni.
Con successivo ricorso notificato in data 19.11.2020 e depositato in data 20.11.2020, assunto al n. 9622/2020 R.R., riunito a quello precedente giusta ordinanza collegiale n. 7259 del 17.06.2021, i condòmini -OMISSIS-, -OMISSIS- hanno impugnato tanto l’Autorizzazione con prescrizioni rilasciata dalla Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma del 25.07.2020, prot. n. 30888, conosciuta in data 10.10.2020, quanto la precedente Autorizzazione con prescrizioni prot. n. 26449 del 22/06/2020, rilasciata dalla medesima Soprintendenza e conosciuta in data 22.10.2020.
I condòmini in parola hanno evidenziato, in fatto:
   - di non aver partecipato all’iniziativa sostanzialmente assunta, per come evincibile dagli atti istruttori del procedimento culminato con l’adozione degli atti impugnati, dai condòmini -OMISSIS-
   - di essere contrari a tale installazione, essendo quest’ultima unicamente diretta ad incrementare il valore del patrimonio immobiliare di alcuni dei beneficiari (molti dei quali neppure abiterebbero nel fabbricato ed avrebbero destinato i loro immobili ovvero intenderebbero destinarli a Bed and Breakfast o affittacamere) a danno degli altri condòmini.
Siffatta installazione, per come autorizzata dalla Soprintendenza, arrecherebbe serio pregiudizio al fabbricato perché, essendo ancorato alla parete della facciata ed alle logge, pregiudicherebbe non soltanto il decoro architettonico ma anche la staticità dell’edificio, già oggetto alla fine del 1800 di un intervento di sopraelevazione, scaricando il suo peso sulla (antica) muratura del piano interrato (sorreggente l’intero fabbricato).
L’ascensore de quo vulnererebbe, inoltre, la sicurezza e l’agibilità di alcune unità immobiliari, a causa della sottrazione di parte del già piccolo cortile, privandole dell’aria e della luce ed inoltre precluderebbe ai ricorrenti sia l’uso futuro della nuova opera, che di installare un altro ascensore all’interno del cortile condominiale.
Il ricorso in questione risulta affidato ad una pluralità di motivi di diritto tra cui, il primo, per come appresso rubricato:
   - “I. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 2 E 7 DELLA LEGGE 241/1990, DELL’ART. 5 DELLA LEGGE 09.01.1989, N. 13 E DELL’ART. 21 E 22 DEL D.LGS. 42/2004. ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI LEGITTIMAZIONE E DI ISTRUTTORIA. ILLOGICITÀ DELLA MOTIVAZIONE”.
I provvedimenti autorizzativi oggetto di impugnazione sarebbero illegittimi per violazione degli artt. 1120, 1121 c.c. e dell’art. 2 della Legge n. 13/1989 in quanto rilasciati dalla Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma ad esclusiva istanza di alcuni condòmini e non anche previa delibera dell’Assemblea Condominiale, quest’ultima deputata -per come imposto dalla normativa summenzionata e con le maggioranze ivi previste, trattandosi dell’autorizzazione di vere e proprie “innovazioni” della cosa comune- ad impegnare la volontà di tutti i partecipanti al condominio.
Sono stati, altresì, proposti gli ulteriori motivi di gravame appresso sintetizzati.
   - “II. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 21 E 22 DEL D.LGS. 42/2004, DELL’ART. 2 DELLA LEGGE N. 13/1989 E DELL’ART. 78 DEL D.P.R. N. 380/2001. ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI LEGITTIMAZIONE E DI ISTRUTTORIA, TRAVISAMENTO DEI FATTI, DIFETTO DEI PRESUPPOSTI, INCOERENZA DELLA MOTIVAZIONE, IN CONSIDERAZIONE DELLA NON COINCIDENZA SOGGETTIVA TRA RICHIEDENTE E BENEFICIARI DELL’IMPIANTO, IN CONSIDERAZIONE DELLA VALUTAZIONE DELL’INTERESSE ALLA REALIZZAZIONE DELL’IMPIANTO SULLA SCORTA DI DOCUMENTI SANITARI DI UN SOGGETTO DIVERSO DAL RICHIEDENTE ED IN CONSIDERAZIONE DELLA MANCATA PREVISIONE DELLO SBARCO NEGLI APPARTAMENTI DEI BENEFICIARI POTENZIA”;
   - “III. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 2 E 4 DELLA LEGGE N. 13/1989 E DELL’ART. 78 DEL D.P.R. N. 380/2001. ECCESSO DI POTERE PER ASSENZA DEI PRESUPPOSTI, DIFETTO DI ISTRUTTORIA, CONTRADDITTORIETÀ”;
   - “IV) VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 21 E 22 DEL D.LGS. N. 42/2004. ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI ISTRUTTORIA, DIFETTO DI LEGITTIMAZIONE E TRAVISAMENTO DEI FATTI”;
   - “V. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 3 DELLA LEGGE N. 241/1990 PER GENERICITÀ DELLA MOTIVAZIONE. ECCESSO DI POTERE PER TRAVISAMENTO DEI FATTI, DIFETTO DI ISTRUTTORIA”;
...
1. Per ragioni di priorità logico-giuridica, ritiene il Collegio di dover principiare dallo scrutinio del ricorso n. 9622/2020 R.R. il quale è fondato e, come tale, deve essere accolto.
2. Coglie, più precisamente, nel segno la censura preliminare ed assorbente rispetto a tutte le altre, secondo cui i provvedimenti autorizzativi oggetto di gravame sono stati rilasciati dalla Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma in favore di soggetti non legittimati, dovendosi ritenere tale esclusivamente il Condominio di Via -OMISSIS- il quale, per come dallo stesso affermato in seno al ricorso n. 9236/2020 R.R., non ha mai deliberato l’installazione dell’impianto in contestazione.
3. L’apprezzamento della carenza di legittimazione a richiedere l’autorizzazione in parola in capo al sig. -OMISSIS-, così come agli altri condòmini sostanzialmente intervenuti nel corso del procedimento, passa dalla preliminare valutazione circa la natura giuridica dell’intervento edilizio in contestazione, coincidente con l’installazione di un ascensore all’interno di un cortile condominiale.
Siffatta valutazione, trattandosi di una questione pregiudiziale involgente diritti soggettivi la cui risoluzione è necessaria per la definizione dell’odierna res controversa, ben può essere effettuata dal Tribunale, ancorché senza efficacia di giudicato, secondo quanto espressamente previsto dall’art. 8, comma 1, c.p.a.
3.1 Orbene l’installazione di un ascensore all’interno di un cortile condominiale è qualificabile, ad avviso del Collegio, in termini di “innovazione”, in quanto, in violazione di quanto previsto dall’art. 1102 c.c., determina una modifica strutturale del cortile medesimo rispetto alla sua primitiva configurazione, risultandone nel contempo alterata la sua naturale funzione e destinazione comune, che è quella di dare luce ed aria alle unità immobiliari che compongono l’edificio (cfr. Cassazione civile sez. II, 21.01.2022 n. 1849; Cassazione civile sez. II, 24.12.2021 n. 41490).
Ebbene, la decisione di assoggettare il cortile condominiale a siffatta “innovazione” avrebbe dovuto essere assunta, necessariamente, dal Condominio, sia pure con le maggioranze di cui all’art. 2, comma 1, l. n. 13/1989 (nel testo modificato dall'articolo 27, comma 1, della Legge 11.12.2012 n. 220 e successivamente dall'articolo 10, comma 3, lettera a), del D.L. 16.07.2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla Legge 11.09.2020, n. 120) a norma del quale:
   «1. Le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni da attuare negli edifici privati dirette ad eliminare le barriere architettoniche di cui all'articolo 27, primo comma, della legge 30.03.1971, n. 118, ed all'articolo 1, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 27.04.1978, n. 384, nonché la realizzazione di percorsi attrezzati e la installazione di dispositivi di segnalazione atti a favorire la mobilità dei ciechi all'interno degli edifici privati, sono approvate dall'assemblea del condominio, in prima o in seconda convocazione, con le maggioranze previste dal secondo comma dell' articolo 1120 del codice civile. Le innovazioni di cui al presente comma non sono considerate in alcun caso di carattere voluttuario ai sensi dell'articolo 1121, primo comma, del codice civile. Per la loro realizzazione resta fermo unicamente il divieto di innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, di cui al quarto comma dell'articolo 1120 del codice civile».
In proposito, l’art. 1120, comma II, del codice civile prevede che:
«[II]. I condòmini, con la maggioranza indicata dal secondo comma dell'articolo 1136, possono disporre le innovazioni che, nel rispetto della normativa di settore, hanno ad oggetto:
   1) le opere e gli interventi volti a migliorare la sicurezza e la salubrità degli edifici e degli impianti;
   2) le opere e gli interventi previsti per eliminare le barriere architettoniche, per il contenimento del consumo energetico degli edifici e per realizzare parcheggi destinati a servizio delle unità immobiliari o dell'edificio, nonché per la produzione di energia mediante l'utilizzo di impianti di cogenerazione, fonti eoliche, solari o comunque rinnovabili da parte del condominio o di terzi che conseguano a titolo oneroso un diritto reale o personale di godimento del lastrico solare o di altra idonea superficie comune;
   3) l'installazione di impianti centralizzati per la ricezione radiotelevisiva e per l'accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino alla diramazione per le singole utenze, ad esclusione degli impianti che non comportano modifiche in grado di alterare la destinazione della cosa comune e di impedire agli altri condòmini di farne uso secondo il loro diritto
».
In assenza di siffatta delibera condominiale, giusta il disposto di cui al secondo comma del citato art. 2 L. n. 13/1989, i condòmini interessati all’adozione di strumenti di superamento delle cd. barriere architettoniche sono, dunque, legittimati esclusivamente ad «installare, a proprie spese, servoscala nonché strutture mobili e facilmente rimovibili» o «modificare l'ampiezza delle porte d'accesso, al fine di rendere più agevole l'accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe dei garages».
4. In altri termini, per come del resto ribadito dall’art. 10, comma 3, del DL n. 76/2020, ciascun partecipante alla comunione o al condominio può sì realizzare a proprie spese ogni opera di cui agli articoli 2 della legge 09.01.1989, n. 13, e 119 del decreto-legge 19.05.2020, n. 34, anche servendosi della cosa comune ma pur sempre “nel rispetto dei limiti di cui all'articolo 1102 del codice civile” e, quindi, laddove siffatti limiti non vengano rispettati –come nel caso in esame- e ci si trovi dinnanzi ad una “innovazione”, deve necessariamente intervenire una delibera assembleare.
4.1 Le disposizioni sopra citate sono, peraltro, conferma nel disposto di cui all’art. 78 D.P.R. n. 380/2001, secondo cui:
   «1. Le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni da attuare negli edifici privati dirette ad eliminare le barriere architettoniche di cui all'articolo 27, primo comma, della legge 30.03.1971, n. 118, ed all'articolo 1 del decreto del Presidente della Repubblica 24.07.1996, n. 503, nonché la realizzazione di percorsi attrezzati e la installazione di dispositivi di segnalazione atti a favorire la mobilità dei ciechi all'interno degli edifici privati, sono approvate dall'assemblea del condominio, in prima o in seconda convocazione, con le maggioranze previste dall'articolo 1136, secondo e terzo comma, del codice civile.
   2. Nel caso in cui il condominio rifiuti di assumere, o non assuma entro tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le deliberazioni di cui al comma 1, i portatori di handicap, ovvero chi ne esercita la tutela o la potestà di cui al titolo IX del libro primo del codice civile, possono installare, a proprie spese, servoscala nonché strutture mobili e facilmente rimovibili e possono anche modificare l'ampiezza delle porte d'accesso, al fine di rendere più agevole l'accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe delle autorimesse
».
5. L’esegesi della normativa di riferimento sopra trascritta consente, quindi, di affermare che il Condominio di -OMISSIS- costituiva l’unico soggetto giuridico abilitato a chiedere alla Soprintendenza, ai sensi dell’art. 21 D.lgs. n. 42/2004, l’autorizzazione all’installazione dell’ascensore nel cortile condominiale.
In assenza di siffatta deliberazione, l’Autorità tutoria del vincolo culturale cui il fabbricato condominiale risulta assoggettato non avrebbe potuto rilasciare le autorizzazioni oggetto di impugnazione che, per l’effetto, si appalesano illegittime per difetto di legittimazione dei richiedenti (cfr. TAR Trentino-Alto Adige, Trento, sez. I, 13/08/2020, n. 138).
6. In conclusione, il ricorso n. 9622/2020 è fondato e, come tale, deve essere accolto, in adesione alla preliminare ed assorbente censura sopra scrutinata.
Ne consegue l’annullamento dell'autorizzazione, con prescrizioni, prot. n. 30888, rilasciata dalla Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma in data 25.07.2020 e della precedente autorizzazione del 22.06.2020, prot. n. 26449.
6.1 Il ricorso n. 9236/2020, in disparte le plurime questioni di ammissibilità dello stesso sulle quali è possibile soprassedere, è, dunque, improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, avendo ad oggetto provvedimenti amministrativi di cui è stato disposto l’annullamento per i motivi sopra indicati (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 21.02.2022 n. 2061 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

gennaio 2022

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA Ai sensi dell'art. 34 del D.P.R. n. 380/2001, "Gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire sono rimossi o demoliti a cura e spese dei responsabili dell'abuso".
Costituisce, inoltre, ius receptum che l'ordine di demolizione in questione può essere adottato nei confronti dell’attuale proprietario, anche se non responsabile dell'abuso edilizio, perché l'abuso costituisce illecito permanente e tali misure hanno carattere ripristinatorio, né la loro irrogazione esige l'accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la realizzazione dell'abuso.
...
In specie, l’ordine impugnato è stato ingiunto (unicamente) nei confronti di un soggetto (i.e. il condominio):
      i) che non rientra in nessuna delle due esposte categorie, dovendosi precisare al riguardo che il condominio costituisce un mero ente di gestione, privo di personalità giuridica, spettando la proprietà dei beni comuni ai singoli condomini;
      ii) che, dunque, non può dirsi passivamente legittimato rispetto all’ordine stesso. Ciò conclamando, secondo quanto già statuito da condivisibile giurisprudenza, la sua illegittimità per violazione dell’invocato paradigma normativo.
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1. Con il ricorso in esame, depositato in data 07/12/2021, il Condominio deducente (in persona del legale rappresentante pro tempore) ha impugnato il provvedimento del Comune di Potenza, in epigrafe specificato, recante l’ordine di demolizione di un manufatto abusivo ad esso afferente.
1.1. L’impugnazione è affidata a plurimi motivi, tra cui in particolare la deduzione del difetto di legittimazione passiva della parte ricorrente.
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4. Il ricorso è fondato nei sensi appresso specificati.
Coglie nel segno il primo motivo di impugnazione –con assorbimento di ogni altra censura– atteso che:
   - ai sensi dell'art. 34 del D.P.R. n. 380/2001, "Gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire sono rimossi o demoliti a cura e spese dei responsabili dell'abuso". Costituisce, inoltre, ius receptum che l'ordine di demolizione in questione può essere adottato nei confronti dell’attuale proprietario, anche se non responsabile dell'abuso edilizio, perché l'abuso costituisce illecito permanente e tali misure hanno carattere ripristinatorio, né la loro irrogazione esige l'accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la realizzazione dell'abuso;
   - in specie, l’ordine impugnato è stato ingiunto (unicamente) nei confronti di un soggetto:
      i) che non rientra in nessuna delle due esposte categorie, dovendosi precisare al riguardo che il condominio costituisce un mero ente di gestione, privo di personalità giuridica, spettando la proprietà dei beni comuni ai singoli condomini (cfr. Cassazione civile, sez. un., 18/09/2014, n. 19663);
      ii) che, dunque, non può dirsi passivamente legittimato rispetto all’ordine stesso. Ciò conclamando, secondo quanto già statuito da condivisibile giurisprudenza (cfr. TAR Campania, sez. VIII, 10/07/2020, n. 3005; TAR Lombardia, sez. II, 29/07/2019 n. 1764; TAR Campania, Salerno, sez. II, 29/11/2019, n. 2126), la sua illegittimità per violazione dell’invocato paradigma normativo.
5. In conclusione, il ricorso merita accoglimento per le ragioni esposte e, per l’effetto, va disposto l’annullamento del provvedimento impugnato (TAR Basilicata, sentenza 14.01.2022 n. 14 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2021
agosto 2021

CONDOMINIO: Vicini di casa, vademecum anti-liti. Rumori, immissioni, condizionatori, animali: come affrontare i conflitti che più spesso ostacolano la convivenza.
Rumori e schiamazzi, specie adesso che con l’estate è ripresa la vita notturna, disturbi provenienti dagli animali domestici, ma anche scarso rispetto delle regole condominiali e di civile convivenza.
Sono queste le principali cause di lite tra i vicini. Secondo una recente ricerca dell’Osservatorio Sara Assicurazioni, ben un proprietario su cinque sarebbe persino disposto a cambiare casa pur di risolvere il problema che lo affligge.
Tuttavia per una persona su due la soluzione migliore è il dialogo, mentre soltanto il 5% del campione ricorrerebbe a un avvocato. Vediamo allora quali sono e come si possono affrontare i dissidi che più spesso ostacolano la pacifica convivenza nello stesso caseggiato o in edifici limitrofi. (...continua)
 (articolo ItaliaOggi Sette del 23.08.2021).

luglio 2021

CONDOMINIO: APPALTI – Contratto di appalto – Risarcimento danni per l’esecuzione di lavori su parti comuni di un edificio condominiale – CONDOMINIO – Omessa vigilanza da parte del condominio nell’esecuzione dei lavori – Responsabilità dell’appaltatore, del condominio e dell’amministratore – RISARCIMENTO DEL DANNO – Pretesa risarcitoria nei confronti dell’amministratore in qualità di rappresentante del condominio – Diritto di rivalsa contro l’appaltatore.
In tema di risarcimento danni per l’esecuzione di lavori su parti comuni di un edificio condominiale, poiché il condominio è un ente di gestione privo di personalità giuridica distinta da quella dei singoli condomini, il condòmino che ritenga di essere stato danneggiato da un’omessa vigilanza da parte del condominio nell’esecuzione dei lavori dovrà rivolgere la propria pretesa risarcitoria nei confronti dell’amministratore, in qualità di rappresentante del condominio, il quale, a sua volta, valuterà se agire in rivalsa contro l’appaltatore stesso (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 16.07.2021 n. 20322 - link a www.ambientediritto.it).

anno 2020
luglio 2020

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza ha osservato che l'art. 1117 cod. civ. stabilisce che le parti comuni dell'edificio sono oggetto di proprietà comune dei condomini, con la conseguenza che il Condominio non vanta alcun diritto reale sulle stesse.
Secondo una consolidata giurisprudenza, difatti, il Condominio è un mero ente di gestione, privo di personalità giuridica.
Siffatto principio è stato peraltro confermato anche dopo le modifiche introdotte nel codice civile dalla legge n. 220 del 2012 (Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici), poiché quest'ultima, pur avendo attribuito un attenuato grado di soggettività al condominio, non lo ha comunque fatto assurgere al rango di ente dotato di vera e propria personalità giuridica.
Da tutto quanto sopra si ricava che le parti comuni dell'edificio non sono di proprietà dell'ente condominio, ma dei singoli condomini. A tanto consegue che la misura volta a colpire l'abuso realizzato sulle parti comuni deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle stesse.

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Ai sensi dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 la demolizione delle opere abusivamente realizzate è ingiunta dal Comune al “proprietario e al responsabile dell’abuso”.
Nella fattispecie, la sanzione ripristinatoria è stata rivolta nei confronti del Condominio ... il quale sicuramente non può essere individuato come proprietario nemmeno delle parti comuni del complesso immobiliare (al netto del fatto che l’ordinanza non chiarisce affatto se gli abusi riguardano parti di proprietà esclusiva dei singoli condomini ovvero parti comuni).
La giurisprudenza citata dal ricorrente (TAR Lombardia, Milano n. 1774/2019) che il Collegio condivide ha osservato che l'art. 1117 cod. civ. stabilisce che le parti comuni dell'edificio sono oggetto di proprietà comune dei condomini, con la conseguenza che il Condominio non vanta alcun diritto reale sulle stesse.
Secondo una consolidata giurisprudenza, difatti, il Condominio è un mero ente di gestione, privo di personalità giuridica (cfr. Cass. civ., II, 16.12.2015, n. 25288; 06.08.2015, n. 16562; VI, 22.05.2015, n. 10679; TAR Lombardia, Milano, II, 05.12.2016, n. 2302).
Siffatto principio è stato peraltro confermato anche dopo le modifiche introdotte nel codice civile dalla legge n. 220 del 2012 (Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici), poiché quest'ultima, pur avendo attribuito un attenuato grado di soggettività al condominio, non lo ha comunque fatto assurgere al rango di ente dotato di vera e propria personalità giuridica (Cass. civ., SS.UU., 18.09.2014, n. 19663).
Da tutto quanto sopra si ricava che le parti comuni dell'edificio non sono di proprietà dell'ente condominio, ma dei singoli condomini. A tanto consegue che la misura volta a colpire l'abuso realizzato sulle parti comuni deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle stesse (TAR Lombardia, Milano, II, 05.12.2016, n. 2302) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 10.07.2020 n. 3005 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2019
novembre 2019

ATTI AMMINISTRATIVI - CONDOMINIOL'ordinanza di demolizione adottata nei confronti dell'amministratore del condominio è illegittima poiché non risulta essere né proprietario del bene su cui gli abusi sono stati commessi e neppure il responsabile degli stessi.
Invero,
“…la misura volta a colpire l’abuso realizzato sulle parti comuni deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle stesse”.
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... per l’annullamento dell’ordinanza di demolizione n. 49/URB data 28.06.2019 emessa dal Comune di Roccapiemonte;
...
1. Con l’ordinanza di demolizione n. 49/URB del 01.07.2019, l’ente locale indicato in epigrafe, constata la sussistenza di “variazioni del perimetro dell’edificio, nonché modifica del prospetto e diversa sistemazione esterna, comportanti una difformità plani-volumetrica rispetto ai titoli edilizi rilasciati”, con riferimento all’edificio ubicato nel medesimo Comune, in via ..., n. 104/106, ha ingiunto la demolizione delle opere abusive.
L’ordinanza in questione è stata rivolta ai proprietari delle singole porzioni immobiliari dell’edificio, alla società che ha presumibilmente realizzato l’immobile e, infine, “all’amministratore del Condominio nella persona di Al.Li. …”.
2. Contro questa ordinanza ha proposto ricorso proprio quest’ultimo destinatario dell’ordine di demolizione, il quale, con il primo motivo, ha dedotto il suo difetto di legittimazione passiva.
3. Si è costituito in giudizio il Comune intimato, il quale ha contestato il ricorso ex adverso proposto, senza però argomentare alcunché circa la censura appena riassunta.
4. All’udienza del 20.11.2019, constatata la completezza del contraddittorio e degli altri presupposti di legge, il Collegio, previo avviso alle parti ai sensi dell’art. 60 c.p.a., ha trattenuto la causa in decisione.
Ai sensi dell’art. 31 D.P.R. n. 380 del 2001 “Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell'articolo 32, ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l'area che viene acquisita di diritto, ai sensi del comma 3”.
La norma è chiara, nel suo dato testuale, nell’individuazione dei possibili destinatari dell’ordine di demolizione, individuandoli nel proprietario del bene sul quale è stata commessa la violazione edilizia e nel responsabile della stessa, ove le due persone non coincidano.
Rispetto a tale inequivocabile dato normativo risulta alquanto inspiegabile la ragione per la quale il Comune di Roccapiemonte abbia rivolto la sua attività provvedimentale nei confronti di un soggetto che non rientra in nessuna delle due categorie prese in considerazione dalla norma di legge. La motivazione del provvedimento non chiarisce, infatti, la ragione di una simile, improvvida iniziativa.
L’assunto appena esposto è confermato anche da alcuni precedenti del G.A., citati nel proprio ricorso dall’odierno ricorrente.
In particolare, il TAR Lombardia–Milano, sez. II, 29.07.2019 n. 1764 rileva che “…la misura volta a colpire l’abuso realizzato sulle parti comuni deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle stesse”.
5. Il provvedimento adottato risulta allora illegittimo in parte qua, ossia nella misura in cui individua quale destinatario del comando anche l’odierno ricorrente, che non risulta essere né proprietario del bene su cui gli abusi sono stati commessi e neppure il responsabile degli stessi.
Conseguentemente, va accolto il primo motivo di ricorso, con assorbimento delle altre ulteriori doglianze, e va disposto l’annullamento del provvedimento, limitatamente all’interesse dell’odierno ricorrente (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 29.11.2019 n. 2126 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

luglio 2019

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Abuso realizzato su parti comuni di un edificio.
Le parti comuni dell’edificio non sono di proprietà dell’ente condominio, ma dei singoli condomini; a tanto consegue che la misura volta a colpire l’abuso realizzato sulle parti comuni deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle stesse (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 29.07.2019 n. 1764 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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SENTENZA
2.1. La doglianza è fondata.
Come già evidenziato da questa Sezione, l’art. 1117 cod. civ. stabilisce che le parti comuni dell’edificio sono oggetto di proprietà comune dei condomini, con la conseguenza che il Codominio non vanta alcun diritto reale sulle stesse.
Secondo una consolidata giurisprudenza, difatti, il Condominio è un mero ente di gestione, privo di personalità giuridica (cfr. Cass. civ., II, 16.12.2015, n. 25288; 06.08.2015, n. 16562; VI, 22.05.2015, n. 10679; TAR Lombardia, Milano, II, 05.12.2016, n. 2302). Siffatto principio è stato peraltro confermato anche dopo le modifiche introdotte nel codice civile dalla legge n. 220 del 2012 (Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici), poiché quest’ultima, pur avendo attribuito un attenuato grado di soggettività al condominio, non lo ha comunque fatto assurgere al rango di ente dotato di vera e propria personalità giudica (Cass. civ., SS.UU., 18.09.2014, n. 19663).
Da tutto quanto sopra si ricava che le parti comuni dell’edificio non sono di proprietà dell’ente condominio, ma dei singoli condomini.
A tanto consegue che la misura volta a colpire l’abuso realizzato sulle parti comuni deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle stesse (TAR Lombardia, Milano, II, 05.12.2016, n. 2302).
L’ordine rivolto al Condominio risulta quindi illegittimo, in ragione del difetto di legittimazione passiva dello stesso con riguardo alla repressione degli abusi edilizi.

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: L’installazione di un ascensore di un condominio non richiede il permesso di costruire, trattandosi della realizzazione di un volume tecnico, necessario per apportare un’innovazione allo stabile, e non di una costruzione strettamente intesa.
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Le dimensioni minime di un ascensore sono quelle prescritte dall’art. 8.1.12, lett. c), del d.m. LL.PP. n. 236/1989 recante "Prescrizioni tecniche necessarie a garantire l'accessibilità, l'adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e dell'eliminazione delle barriere architettoniche".
Tale disciplina trova applicazione non solo per nuove costruzioni, ma anche per quelle preesistenti, discorrendosi nel testo delle disposizioni del richiamato d.m. di “adeguamento” (art. 8.1.12, lett. c) e di “spazi costruiti” (art. 2, lett. m).
Quella appena cennata è, invero, l’unica normativa dedicata all’istallazione degli impianti ascensore, mancando ogni riferimento al tema nel corpus normativo sull’edilizia (T.U. Edilizia e altre fonti normative connesse).
Tuttavia, la normativa di cui al d.m. richiamato è derogabile –nel senso che si può richiedere di realizzare al di sotto delle dimensioni minime prescritte– solo nei termini di cui al d.p.r. 19/01/2015 n. 8, premunendosi di titolo autorizzatorio ad hoc di competenza ministeriale.
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Venendo all’esame del merito dell’impugnativa, il Collegio osserva che il ricorso è infondato e va respinto.
Nella narrativa in fatto dell’atto introduttivo il Condominio ricorrente allega che l’impianto ascensore, alla cui realizzazione il Comune resistente ha negato l’assenso mediante la declaratoria di inefficacia della SCIA presentata in data 10/05/2018 qui impugnata, era sottodimensionato rispetto a quelle “convenzionali”, id est rispetto alla dimensioni minime prescritte dall’art. 8.1.12, lett. c), del d.m. LL.PP. n. 236/1989 recante "Prescrizioni tecniche necessarie a garantire l'accessibilità, l'adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e dell'eliminazione delle barriere architettoniche", disciplina che –contrariamente a quanto opinato dalla difesa attorea, trova applicazione non solo per nuove costruzioni, ma anche per quelle preesistenti, discorrendosi nel testo delle disposizioni del richiamato d.m. di “adeguamento” (art. 8.1.12, lett. c) e di “spazi costruiti” (art. 2, lett. m).
Quella appena cennata è, invero, l’unica normativa dedicata all’istallazione degli impianti ascensore, mancando ogni riferimento al tema nel corpus normativo sull’edilizia (T.U. Edilizia e altre fonti normative connesse). Peraltro, secondo il più recente indirizzo giurisprudenziale, l’installazione di un ascensore di un condominio non richiede il permesso di costruire, trattandosi della realizzazione di un volume tecnico, necessario per apportare un’innovazione allo stabile, e non di una costruzione strettamente intesa (cfr. TAR Abruzzo, Pescara, 09.04.2018, n. 134; TAR Lombardia, Milano, II, 30.06.2017, n. 1479; TAR Liguria, I, 29.01.2016, n. 97).
La normativa di cui al d.m. richiamato è peraltro derogabile –nel senso che si può richiedere di realizzare al di sotto delle dimensioni minime prescritte– solo nei termini di cui al d.p.r. 19/01/2015 n. 8, premunendosi di titolo autorizzatorio ad hoc di competenza ministeriale, del tutto mancante nel caso di specie (cfr. motivazione dell’atto impugnato).
Sulla base dei soli due rilievi appena svolti (insussistenza delle dimensioni minime prescritte per gli impianti ascensori e assenza della deroga) –senza necessità, dunque, di approfondire la tematica, molto controversa tra le parti e di certo non trascurabile ai fini delle esigenze di sicurezza, sulla necessità di assicurare il cd. “giro barella” nella cassa scale– il ricorso può ritenersi infondato (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 22.07.2019 n. 4025 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAAscensore esterno, meno vincoli. Impianto anti-barriere a meno di 10 metri dalle finestre. La giurisprudenza: opere che eliminano ostacoli architettonici realizzabili in deroga alle norme.
Sì all'ascensore esterno all'edificio da costruire molto vicino alle finestre degli appartamenti. E ciò perché le opere che eliminano le barriere architettoniche ben possono essere realizzate in deroga ai regolamenti e agli atti di normazione primaria, dunque anche all'art. 9 del dm 1444/1968 che prescrive la «distanza minima assoluta di dieci metri tra pareti finestrate». Il tutto grazie alla sentenza costituzionale 251/2008, che ha indicato i problemi dei diversamente abili come «nodi dell'intera collettività».
È quanto emerge dalla
sentenza 17.07.2019 n. 1659 pubblicata dalla II Sez. del TAR Lombardia-Milano.
Combinato disposto. Accolto il ricorso dell'invalido dopo che il dirigente dello sportello unico per l'edilizia del Comune ha bloccato la Scia per la realizzazione dell'impianto di sollevamento.
L'anziano, che vive al quarto piano con la moglie, risulta inabile al lavoro al 35% ed è disponibile a realizzare un servoscala: risulta impossibile portare la cabina al livello del pianerottolo. Sbaglia l'ente locale quando nega il titolo abilitativo in deroga alla distanza tra pareti finestrate.
Non c'è dubbio che anche l'ascensore esterno sia un'opera che abbatte le barriere architettoniche, al di là del fatto che sia un disabile a servirsene. E dopo l'intervento della Consulta deve ritenersi che il combinato disposto degli articoli 78 e 79 del Tu per l'edilizia consenta di realizzare anche l'impianto esterno al di là delle distanze previste dai regolamenti e pure dall'art. 9 del dm 1444/1968, a patto che siano rispettate quelle indicate dagli articoli 873 e 907 c.c.
Non conta che l'ascensore serva un solo piano dell'edificio: si può fare in modo che l'impianto risulti utile anche ad altri.
Senza discrezionalità. Possono derogare alle distanze dei regolamenti edilizi non solo gli impianti tecnologici ma anche i volumi tecnici per favorire la mobilità dei disabili: sono opere che consentono di superare le barriere architettoniche. Via libera, dunque, al progetto che prevede sia l'ascensore sia la scala esterni all'immobile realizzati in deroga alle norme sulle distanze minime tra fabbricati previste dai regolamenti edilizi.
È quanto emerge dalla sentenza 27.03.2018 n. 809, pubblicata dalla I Sez. del TAR Lombardia-Milano.
Bocciato il ricorso del vicino: lecito il piano che prevede la realizzazione dei manufatti che si trovano a nove metri invece di dieci rispetto alla costruzione confinante. Parla chiaro il dm 236/1989 all'articolo 2, lettera A), punti a) e b): sono barriere architettoniche gli ostacoli fisici che costituiscono fonte di disagio per la mobilità di chiunque e in particolare per chi ha capacità motoria ridotta o impedita.
L'intervento è realizzato proprio per adeguare l'edificio di tre piani alla normativa pro disabili: accanto alla costruzione dell'ascensore e della scala esterna sono demolite le vecchie scale condominiali interne troppo strette per montare il servoscala. In tal caso è automatica e specifica la deroga alle distanze fra costruzioni previste dagli strumenti urbanistici, senza la necessità di valutazioni discrezionali da parte dell'amministrazione.
Ma devono essere rispettate le distanze ex articoli 873 e 907 Cc. Il confinante non riesce a dimostrare che vi sarebbero valide alternative al progetto presentato né che i manufatti costituirebbero un'ingiusta servitù a carico della sua proprietà: l'art. 79 del Tu dell'edilizia non esclude il principio di reciprocità nell'applicazione della normativa in deroga al regime sulle distanze.
Bilanciamento inadeguato. Il legislatore guarda con favore alle persone che hanno difficoltà a muoversi. Basta la Scia per realizzare in condominio l'ascensore che serve a superare le barriere: il permesso di costruire è superfluo perché l'impianto rappresenta un mero volume tecnico. Il Comune non può bocciare il progetto dell'ente sul rilievo che non rispetta le dimensioni minime senza verificare se c'è possibilità di deroga o suggerire alternative.
È quanto emerge dalla sentenza 11.01.2019 n. 175 del TAR Campania-Napoli, Sez. IV.
Il ricorso del condominio viene accolto perché risulta insufficiente la motivazione del provvedimento di stop. Da una parte la Scia è sufficiente in quanto l'ascensore serve ad apportare un'innovazione allo stabile che non costituisce una costruzione in senso stretto; dall'altra l'amministrazione viene meno alla necessità di un bilanciamento fra l'interesse pubblico all'osservanza della normativa di riferimento e l'interesse del condominio a limitare l'impatto delle barriere architettoniche.
È lo stesso dm 236/1986, nel dare attuazione alla legge 13/1989, a prescrivere che l'ascensore vada installato negli edifici con più di tre livelli. E l'articolo 7.5 autorizza il sindaco del Comune a concedere una deroga quando per motivi strutturali l'impianto non può rispettare gli standard dimensionali prescritti. Insomma: l'ente deve motivare in modo rigoroso le condizioni che impediscono l'installazione nel vano scale.
Bene primario. Il Comune non può limitarsi a stoppare i lavori se la Scia per l'ascensore a spese del disabile risulta protocollata da più di un mese: è invece tenuto a ricorrere all'autotutela perché il titolo deve ritenersi consolidato. L'autorizzazione al progetto non può essere ostacolata dalle questioni di natura privatistica poste dai condomini contro la realizzazione dell'impianto. Anzi, la giurisprudenza della Cassazione richiede «attenzione civile» nei confronti delle persone con problemi di deambulazione che si fanno carico delle spese laddove l'elevatore può attenuare la loro condizione di disagio.
È quanto emerge dalla sentenza 07.01.2019 n. 9, pubblicata dalla III Sez. del TAR Puglia-Bari.
Accolto il ricorso della signora con difficoltà di movimento che abita al terzo piano e vuole realizzare l'impianto nel pozzo della luce condominiale.
Alcuni proprietari esclusivi lamentano che ne sarebbe compromesso il loro godimento delle parti comuni dell'edificio perché la cabina può limita la visibilità e toglie aria al cavedio. Ma sono doglianze da rivolgere al giudice civile. E in ogni caso è l'inerzia dell'amministrazione che consente al privato di eseguire l'intervento edilizio in base all'art. 23, comma 6, dpr 380/2001: per un solo giorno di ritardo il provvedimento dell'ente locale risulta illegittimo.
L'istruttoria degli uffici, poi, è lacunosa: non emergono elementi secondo i quali l'ascensore può incidere su stabilità e sicurezza dell'edificio, mentre la relazione tecnica di parte attesta il contrario. E soprattutto le sentenze di legittimità sono dalla parte delle opere che agevolano la fruizione del bene primario dell'abitazione da parte di chi si trova in condizioni di disabilità.
Pregiudizio e serietà. Il favore del legislatore vuol dire anche meno vincoli. La Soprintendenza non può bocciare il progetto dell'ascensore esterno che serve alla persona anziana solo perché la realizzazione dell'impianto in cortile può arrecare un pregiudizio all'immobile vincolato: la legge contro le barriere architettoniche impone all'amministrazione di valutare i rischi che corre il bene tutelato considerando anche la situazione del richiedente, che ha problemi di mobilità.
È quanto emerge dalla sentenza 25.09.2018 n. 9557, Sez. II-quater del TAR Lazio-Roma.
Accolto il ricorso della signora che chiede di installare l'elevatore nel cortile di un edificio di pregio nel centro storico della Capitale.
La vicenda è finita al Consiglio di stato che ha annullato il parere negativo Mibact: in seguito le Belle Arti si dichiarano disponibili a valutare l'installazione di un montascale invece che dell'ascensore.
Il punto è che in base al regolamento di attuazione della legge 13/1989 il primo tipo d'impianto non equivale al secondo: può essere utilizzato come alternativa solo negli interventi di adeguamento o per superare modeste differenze di quota. Soprattutto l'amministrazione non effettua alcun bilanciamento degli interessi: troppo generico il riferimento alle dimensioni del cortile e alle aperture esistenti, mentre non risulta spesa una parola sulla salute della richiedente.
Normativa di favore anche per le persone non disabili ma solo anziane con disagi fisici e difficoltà motorie: l'amministrazione deve verificare la serietà del pregiudizio all'immobile e l'impatto del progetto rispetto al fabbricato in relazione alle esigenze di tutela richieste dall'interessata. Insomma: i vincoli non possono essere superati in automatico ma il Mibac deve motivare in modo adeguato il diniego (articolo ItaliaOggi Sette del 19.08.2019).

marzo 2019

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAPaletti anti-sosta, basta la Scia. Non serve il permesso di costruire. Stop alle demolizioni. Lo indica una sentenza del Tar Campania sui dissuasori per auto e rifiuti in condominio.
Tornano a sperare i condomini assediati dalle auto e dal deposito incontrollato di rifiuti. Non vanno abbattuti i paletti anti-sosta e immondizia selvaggi perché la demolizione è la sanzione che colpisce le opere realizzate senza permesso di costruire, mentre per i dissuasori basta la segnalazione certificata d'inizio attività.

È quanto emerge dalla sentenza 05.03.2019 n. 1255, pubblicata dalla III Sez. del TAR Campania-Napoli, che spezza una lancia per gli edifici dei centri storici ostaggio di auto, moto e immondizia.
Secondo la giurisprudenza amministrativa il comune non può ignorare le richieste del condominio che vuole mettere un divieto di sosta con dissuasori, tutelare con paletti il passo carrabile o allargare il marciapiede all'ingresso del comprensorio. Ma se l'immobile è di pregio niente paletti in ferro. Senza dimenticare che l'amministrazione può far rimuovere le opere abusive dal parcheggio condominiale anche se la strada è chiusa da un lato.
Restano dove sono i paletti piantati dal condominio: sbaglia l'ente locale a ordinarne la rimozione. Per i dissuasori basta la semplice Scia perché contano soltanto natura e dimensioni delle opere e dopo la posa dei manufatti l'area resta accessibile a tutti, in primis ai pedoni, tranne che alle macchine.
Il ricorso dell'ente di gestione contro il comune del Napoletano è accolto perché l'installazione dei paletti rientra nell'inserimento degli elementi accessori ex articolo 3, lettera c), del Testo unico dell'edilizia: l'unica sanzione che può scattare è quella pecuniaria di cui all'articolo 37, comma primo, dello stesso dpr 308/2001. I paletti «incriminati» dalla polizia municipale, in effetti, sono alti soltanto un metro e hanno un diametro di dieci centimetri per dieci: non si tratta di manufatti in grado di incidere in modo permanente sull'assetto del territorio perché possono essere facilmente rimossi.
D'altronde neppure l'amministrazione locale contesta che facciano da dissuasori al parcheggio non autorizzato e all'abbandono dei rifiuti. Né conta che l'area sia soggetta a vincolo paesaggistico: l'ente locale non indica in modo esplicito quale sarebbe l'incidenza negativa delle opere.
I precedenti.
Nuovo contraddittorio. È illegittimo il silenzio-inadempimento serbato dal comune sulla segnalazione dei condomini che chiedono sia allargato il marciapiede oppure installato un divieto di sosta con dissuasori: così neppure riescono a entrare nel palazzo. Il parcheggio selvaggio si trasforma in barriera architettonica e l'amministrazione locale ha l'obbligo almeno di pronunciarsi sull'istanza del condominio sulla base dei poteri che gli derivano dal codice della strada sulla gestione della circolazione stradale dei veicoli e dei pedoni in città.
È quanto emerge dalla sentenza 423/2018, pubblicata dalla I Sez. del Tar Toscana.
Accolto il ricorso dell'ente di gestione e dei singoli condomini: non giova al comune obiettare che nell'edificio non risultano residenti che abbiano difficoltà motorie. Il punto è che il condominio è certificato contro le barriere architettoniche interne, ma risulta difficilmente accessibile da fuori: a impedire il passaggio sul marciapiede poco profondo sono le auto parcheggiate l'una a ridosso dell'altra e i bauletti che sporgono dagli scooter.
Ed è dalle stesse relazioni depositate dall'amministrazione che emerge come siano fondate le istanze del condominio. In effetti gli uffici dell'ente stanno valutando l'allargamento del marciapiede e l'installazione del divieto di sosta, ma senza dissuasori. Su questo il giudice non può intervenire, ma la scelta discrezionale che sarà adottata dall'ente dovrà di nuovo essere vagliata nel contraddittorio.
Obbligo di manutenzione. Il comune non può far finta di niente anche quando è il passo carrabile dello stabile nella strada stretta a essere schiavo del parcheggio selvaggio: deve rispondere entro un mese all'istanza dei condomini che chiedono l'installazione di paletti o di un divieto di sosta all'altezza del numero civico in modo da poter entrare e uscire dal palazzo usando anche loro l'auto. E se l'amministrazione non provvede in tempo arriva il commissario indicato dal prefetto.
Lo stabilisce la sentenza 4280/2015, pubblicata dalla I Sez. del Tar Campania.
La grana scoppia perché uno dei condomini in preda a una colica non può uscire dal cancello con la macchina per essere accompagnato al pronto soccorso. La polizia municipale conferma: lo spazio di manovra davanti al passo carrabile è troppo angusto anche a causa dei veicoli parcheggiati sul marciapiede. E in caso di emergenza un'ambulanza avrebbe difficoltà a intervenire in zona. L'ente locale, dunque, non può rimanere inerte: ha un preciso obbligo di vigilanza sulle strade e sulle relative pertinenza in quanto proprietaria delle infrastrutture, ne deve garantire «la destinazione pubblica e il pacifico utilizzo da parte degli utenti».
Ed è lo stesso codice della strada a imporre al comune di installare la segnaletica stradale a partire dal divieto di sosta (articolo 37) e i paletti dissuasori autorizzati dal ministero dei Trasporti da «utilizzare come impedimento materiale alla sosta abusiva» dei veicoli (art. 42). Se l'amministrazione locale non provvede, a rispondere all'istanza dei cittadini sarà un funzionario dell'ufficio territoriale del governo indicato dal prefetto.
Utilizzo legittimo. Bisogna fare i conti anche con le Soprintendenze, però. Il comune non può vietare al condominio di utilizzare il cortile come parcheggio dei veicoli di proprietari e inquilini anche se l'edificio in pieno centro storico risulta sottoposto a vincolo dai Beni culturali. E ciò perché lo stabile si trova in un'area che è «residenziale» secondo il piano regolatore generale: la destinazione indicata dalle norme di attuazione prg risulta estesa agli spazi di pertinenza. L'ente di gestione, tuttavia, non può delimitare l'area di sosta con paletti di ferro perché rovinano l'acciottolato di pregio, come ha stabilito la Soprintendenza.
È quanto emerge dalla sentenza 98/2019, pubblicata dalla II Sez. del Tar Piemonte.
Il condominio fa annullare l'ordinanza del dirigente del servizio edilizia che vieta di parcheggiare in cortile. Pesa l'esposto di uno dei proprietari esclusivi che denuncia il posteggio selvaggio sotto il suo balcone. L'amministrazione minaccia di applicare sanzioni all'ente di gestione in caso d'inottemperanza ex articolo 7-bis primo comma Tuel. In realtà sono più di quarant'anni che le macchine vengono parcheggiate in cortile con il permesso dell'assemblea: l'impiego dell'area risulta legittimo in quanto costituisce una delle possibili forme ordinarie utilizzazione dell'area di pertinenza all'edificio residenziale.
Il condominio, comunque, deve provvedere a delimitare gli spazi della sosta con elementi a terra come stalli o strisce dipinte perché i paletti stop-auto sono incompatibili con il decoro architettonico dell'edificio.
Apertura sufficiente. Attenzione, infine, ai paletti in ferro nel parcheggio condominiale. La rimozione ordinata dal comune scatta anche se l'area su cui i dissuasori sono installati risulta proprietà dell'edificio: ciò che conta è l'uso pubblico della strada su cui affaccia il caseggiato, mentre il fatto che la via sia chiusa da un lato non basta a renderla privata.
È quanto emerge dalla sentenza 1224/2015, pubblicata dalla II Sez. del Tar Sicilia.
Niente da fare, stavolta, per il condominio: deve rassegnarsi a far sparire catene e lucchetti che blindano le auto parcheggiate sotto il palazzo come ha ordinato il servizio edilizia pubblica e privata del comune. All'amministrazione non può disconoscersi il potere di far abbattere le opere abusive. E i dissuasori messi a bordo strada ostacolano il passaggio di eventuali mezzi di soccorso.
È poi escluso che la strada dove sorge il fabbricato possa davvero essere ritenuta privata: inutile eccepire il fatto che la via sia chiusa da un lato e non metta in comunicazione due pubbliche vie, risulta infatti sufficiente che l'apertura da un lato consenta l'accesso da e per una strada pubblica.
Affinché una strada possa rientrare nella categoria vicinale pubblica è prevista una serie di requisiti, fra i quali il passaggio esercitato a titolo di servitù da una collettività di persone appartenenti a un gruppo territoriale. E il diritto di uso pubblico può ben essere affermato solo perché l'utilizzo si protrae da tempo (articolo ItaliaOggi Sette del 18.03.2019).
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MASSIMA
Il ricorso è fondato alla stregua delle seguenti considerazioni.
In primo luogo, diversamente da quanto sostiene parte ricorrente
l’intervento effettuato non ricade tra le attività libere (indicate tra l’altro in modo tassativo all’art. 6 del t.u. n. 380 del 2001, in deroga al generale obbligo di munirsi di un titolo abilitativo per eseguire interventi edilizi, ciò di cui occorre tenere conto per una corretta lettura e interpretazione dello stesso art. 6), avendo riguardo da un lato alle tipologie delle fattispecie liberalizzate e, dall’altro, all’entità dell’opera posta in essere, che non corrisponde alla descrizione delle attività di cui alle lettere c) e d) del citato art. 6.
Tuttavia coglie nel segno il profilo di censura con cui parte ricorrente ritiene che nel caso qui in esame non venga in discussione un’ipotesi di trasformazione edilizio–urbanistica, o di alterazione permanente dell’assetto del territorio, o di nuova costruzione, tale da esigere il previo rilascio del permesso di costruire ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 10 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Deve invece ritenersi, sulla falsariga di quanto affermato dal Giudice di appello in una fattispecie del tutto simile a quella oggetto di causa, che l’intervento ricada nel campo di applicazione dell’art. 22 del d.P.R. n. 380/2001, in tema di SCIA (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 16.07.2015, n. 3554).
Sulla questione, intuitivamente affine, dell’assoggettamento, o meno, delle recinzioni, a permesso di costruire, la giurisprudenza amministrativa di primo grado, afferma che
la valutazione sulla necessità, o meno, del permesso di costruire, va compiuta in base ai parametri della natura e delle dimensioni delle opere, e della loro destinazione e funzione (si vedano, tra le altre, TAR Campania, n. 3328/2013 e n. 1542/2012, TAR Lombardia, n. 6266/2009, TAR Lazio, n. 8644/2009, TAR Veneto, n. 1215/2011, TAR Calabria, n. 1299/2014, TAR Lombardia–Brescia, n. 118/2013 e altre), sicché quando, ad esempio, vengono eseguite opere in muratura e la recinzione non è facilmente rimuovibile, l’intervento, essendo idoneo a incidere in modo permanente sull’assetto edilizio del territorio, esige il previo rilascio del permesso di costruire, ma a tal fine occorre avere riguardo a tutte le opere realizzate nel loro complesso.
Invero questa Sezione di recente ha ritenuto che: <<
la posa di sei paletti infissi nel suolo, destinati a sorreggere una recinzione di rete metallica senza opere murarie, costituisce un manufatto di limitato impatto urbanistico e visivo, essenzialmente destinato al solo scopo di delimitare la proprietà per separarla dalle altre, per cui l’intervento non richiede il rilascio di un permesso di costruire, fatta salva ovviamente l’osservanza dei vincoli paesaggistici (cfr. TAR Brescia, sez. II, 25/09/2018, n. 907; TAR Roma, sez. II, 04/09/2017, n. 9529; Cons. St., sez. IV, 15/12/2017, n. 5908)>> (cfr. TAR Campania, Sez. III, 24.12.2018, n. 7333).
Ciò posto,
l’intervento in argomento, alla luce delle caratteristiche e delle dimensioni dello stesso (10 paletti dell’altezza di mt. 1 ciascuno e diametro 10x10, si vedano le foto prodotte in giudizio), ricade nel campo di applicazione dell’art. 22 del d.P.R. n. 380/2001, cioè, tra quelli realizzabili con il regime semplificato della d.i.a., la cui mancanza non è sanzionabile con la rimozione o la demolizione, previste dall'art. 31 del d.P.R. n. 380/2001 per l'esecuzione di interventi in assenza del permesso di costruire, o in totale difformità del medesimo ovvero con variazioni essenziali, ma con l'applicazione della mera sanzione pecuniaria prevista dal successivo art. 37 per l'esecuzione di interventi in assenza della prescritta denuncia di inizio di attività.
In primo luogo, non è stata eseguita nessuna opera muraria significativa. I paletti apposti, uniti al suolo mediante un basamento di calcestruzzo assai sottile, risultano distanziati tra loro in modo tale da consentire un facile accesso pedonale all’area ed effettivamente sembrano svolgere una funzione, non contestata dal Comune, di dissuasori della sosta e dell’abbandono dei rifiuti. Viene in rilievo, nel complesso, un’opera finalizzata a delimitare la proprietà del condominio ricorrente (non si tratta neppure di una recinzione, essendo l’area “tuttora liberamente accessibile a tutti, salvo che alle autovetture”), rimovibile in maniera tutt’altro che disagevole e, come tale, inidonea a incidere sull’assetto edilizio del territorio.
Non vi è poi alcun concreto elemento, a parte la generica e immotivata asserzione del Comune resistente, di incidenza negativa sul paesaggio nei termini di cui all’art. 146 del d.lgs. n. 42/2004, come invece addotto nel gravato provvedimento, laddove la limitata evidenza dell’intervento avrebbe richiesto una più esplicita indicazione in tal senso.
Poiché dunque la realizzazione dei paletti per cui è causa doveva farsi rientrare nella fattispecie dell’inserimento di elementi accessori di cui all’art. 3, comma 1, lett. c), del t.u. n. 380 del 2001, ne consegue che l’intervento eseguito in assenza di titolo ex art. 22 d.P.R. n. 380/2001 porterebbe alla sanzione pecuniaria di cui all’art. 37, co. 1 d.P.R. n. 380/2001.
In definitiva il ricorso deve essere accolto e l’ordinanza impugnata conseguentemente deve essere annullata.

anno 2018
settembre 2018

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAAscensore in cortile, più tutele. Condomino risarcito se l’installazione toglie luce e aria. La Cassazione su una fattispecie ante riforma applicabile anche nel nuovo regime.
Il proprietario di un immobile può sempre chiedere il risarcimento del danno al condominio per l'ascensore installato in cortile se questo toglie aria e luce al suo appartamento e lo priva dei diritti su una parte comune dell'edificio. L'azione di risarcimento, infatti, è un'opzione del tutto autonoma rispetto alla richiesta di demolizione e non è subordinata all'impugnazione della delibera, dal momento che la decisione che ha disposto la realizzazione del manufatto è nulla e la sua invalidità può essere rilevata d'ufficio dal giudice.

È quanto emerge dalla sentenza 26.09.2018 n. 23076 della II Sez. civile della Corte di Cassazione che è intervenuta in una fattispecie anteriore alla riforma del condomino ma che, in base all'ultimo comma dell'articolo 1120 del cc, trova applicazione anche nel nuovo regime.
Il caso. Una signora ha convenuto in giudizio il condominio chiedendo il risarcimento dei danni subiti a causa della realizzazione di un ascensore nella corte interna dell'edificio, danno consistente nella riduzione di aria e luce al suo appartamento posto al piano terra e nell'impedimento all'uso di una rilevante porzione della corte occupata dalla nuova struttura.
I giudici di merito hanno respinto la domanda sul presupposto che le delibere che avevano deciso l'installazione dell'impianto di ascensore non erano state impugnate. La vertenza è così giunta in Cassazione.
Le motivazioni. I giudici di legittimità hanno ricordato che l'installazione di un ascensore su area comune costituisce innovazione che è vietata se rende talune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso e al godimento anche di un solo condomino, comportandone una sensibile menomazione dell'utilità, secondo l'originaria costituzione della comunione.
Tale concetto di inservibilità non può consistere nel semplice disagio subito ma è costituito dalla concreta inutilizzabilità della res communis secondo la sua naturale fruibilità, ovvero dalla sensibile menomazione dell'utilità che il condomino precedentemente ricavava dal bene.
Nella specie, la ricorrente affermava che la realizzazione dell'impianto di ascensore le aveva impedito di far uso di una rilevante porzione di tale area comune e le aveva altresì ridotto sensibilmente la luce e l'aria fruibili dal suo appartamento. La delibera dell'assemblea, pertanto, ha affermato la Cassazione, avendo leso i diritti individuali del singolo, doveva essere considerata nulla e non semplicemente annullabile.
L'irrilevanza della preventiva impugnazione. La nullità di una delibera condominiale comporta che la stessa, a differenza delle ipotesi di annullabilità, non implichi la necessità di tempestiva impugnazione nel termine di trenta giorni previsto dall'articolo 1137 del codice civile.
Una deliberazione nulla non può, pertanto, finché (o perché) non impugnata nel termine di legge, ritenersi valida ed efficace nei confronti di tutti i partecipanti. Un conto, infatti, sono le delibere annullabili e un altro le nulle: nel primo caso l'amministratore è tenuto a darvi attuazione fino a quando non sono rimosse con l'accoglimento dell'impugnazione; nel secondo non sorge in capo all'organo di gestione il potere-dovere di eseguire la decisione e la nullità può essere rilevata d'ufficio dal giudice, come avviene per i contratti ex articolo 1421 Cc, quando l'invalidità rientra fra gli elementi costitutivi della domanda su cui bisogna decidere.
L'accertamento dell'invalidità, in sostanza, è pregiudiziale rispetto al risarcimento soltanto in caso di delibere annullabili ma non vale nei casi di nullità.
Il principio. La Suprema corte, alla luce di quanto sopra indicato, ha formulato il principio di diritto secondo cui la delibera dell'assemblea di condominio, che privi un singolo partecipante dei propri diritti individuali su una parte comune dell'edificio, rendendola inservibile all'uso e al godimento dello stesso, integra un fatto potenzialmente idoneo ad arrecare danno al condomino medesimo; quest'ultimo, lamentando la nullità della suddetta delibera, ha perciò la facoltà di chiedere una pronuncia di condanna del condominio al risarcimento del danno, dovendosi imputare alla collettività condominiale gli atti compiuti e l'attività svolta in suo nome, nonché le relative conseguenze patrimoniali sfavorevoli, e rimanendo il singolo condomino danneggiato distinto dal gruppo ed equiparato a tali effetti a un terzo.
Essendo la nullità della delibera dell'assemblea fatto ostativo all'insorgere del potere-dovere dell'amministratore di eseguire la stessa, l'azione risarcitoria del singolo partecipante nei confronti del condominio è ravvisabile non soltanto come scelta subordinata alla tutela demolitoria ex articolo 1137 del codice civile, ma anche come opzione del tutto autonoma.
La rimozione del manufatto che viola la privacy. L'ascensore esterno al palazzo può «inciampare» però anche nella violazione della privacy. Infatti una struttura realizzata davanti alle finestre di un appartamento va rimossa se limita la proprietà immobiliare di un altro condomino quanto a soleggiamento, aerazione e, soprattutto, riservatezza.
Ad affermarlo anche questa volta è stata la Corte di Cassazione con la sentenza 23.10.2017 n. 24972 che ha respinto il ricorso di una donna chiamata in giudizio dalla proprietaria dell'appartamento sottostante per aver realizzato un ascensore esterno al fabbricato.
La limitazione della proprietà. Secondo i giudici di legittimità l'installazione dell'ascensore aveva prodotto una grave limitazione della proprietà della ricorrente, costretta a tenere spesso le finestre chiuse per non subire «intrusioni visive».
Inoltre la scomparsa del coniuge della controparte, portatore di handicap motorio, aveva determinato l'inesistenza di quella «situazione esistenziale» che si voleva porre a fondamento della legittimità dell'installazione dell'ascensore.
Né migliore fortuna poteva avere la circostanza che in precedenza era stata piantata nello stesso luogo una siepe, dal momento che, ha concluso la Cassazione, l'aver piantato una siepe è cosa ben diversa dalla realizzazione di un ascensore.
Stop all'ascensore che ostacola i traslochi. È da annullare inoltre la delibera condominiale che approva i lavori di installazione di un ascensore nel palazzo se l'opera impedisce anche a un solo condomino i trasporti di mobili o un trasloco.
L'impianto sicuramente aumenta la comodità d'uso e valorizza l'immobile ma non si può realizzare quando riduce l'utilità ricavata dal singolo proprietario.
A stabilirlo è stato il Tribunale di Roma con la sentenza n. 379/2018 della V Sez. civile secondo il quale non esiste un diritto assoluto a costruire l'ascensore.
Una compromissione ingiustificata. Per stabilire che l'opera non era fattibile è bastata una perizia che ha accertato l'esistenza di spazi angusti una volta realizzata l'opera.
Nel caso in esame le scale dell'edificio avevano un andamento circolare e il progetto ne riduceva la larghezza a soli ottanta centimetri.
In questo modo uno dei condomini sarebbe stato «prigioniero» in casa, senza la possibilità di farsi consegnare un frigorifero o un letto nuovo e, dunque, il progetto va rifatto perché compromette in modo eccessivo e non giustificabile il diritto del singolo proprietario esclusivo, anche se l'installazione dell'impianto ben può comportare alcune limitazioni sulle parti comuni del palazzo.
Gli interventi consentiti a spese di uno solo. Non tutte le installazioni degli ascensori sono però contrarie alla legge o necessitano del consenso della maggioranza condominiale.
Non può infatti essere demolito il vano ascensore realizzato in cortile a spese di un solo proprietario, senza il consenso degli altri, quando l'opera non pregiudica i diritti di godimento altrui sulle parti comuni.
A stabilirlo è stata la Corte di Cassazione con la sentenza 12.10.2017 n. 23995 (articolo ItaliaOggi Sette del 08.10.2018).

CONDOMINIOAscensore, spese divise tra tutti. Inclusi nel riparto anche negozi e locali del piano terra. Una pronuncia della Cassazione in merito al rifacimento dell’impianto condominiale.
Anche i proprietari dei negozi o dei locali siti al piano terra con accesso diretto dalla strada sono tenuti a concorrere nelle spese di manutenzione straordinaria o di sostituzione dell'impianto di ascensore.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con l'ordinanza 12.09.2018 n. 22157.
Il caso concreto. Nella specie una condomina proprietaria di alcuni locali posti al piano terra e con accesso dalla pubblica via si era rifiutata di sostenere la quota di spese condominiali richiestale in occasione del rifacimento dell'impianto di ascensore. La stessa era quindi stata raggiunta da un decreto ingiuntivo ottenuto dall'amministratore, verso il quale aveva spiegato opposizione.
La condomina, richiamato il contenuto del regolamento condominiale (di natura contrattuale), il quale prevedeva l'appartenenza dell'impianto di ascensore in comproprietà pro indiviso e indivisibile a tutti i proprietari di unità immobiliari, ponendo a loro carico in proporzione dei rispettivi valori delle singole porzioni le spese per il rinnovamento o la manutenzione straordinaria, ed esonerando viceversa dalla contribuzione nelle spese ordinarie e di esercizio i condomini che non potessero servirsene, riteneva infatti che dal medesimo non si potesse desumere l'obbligo di partecipazione alle spese anche di quei condomini proprietari di soli locali aventi accesso dalla strada pubblica.
In primo grado l'opposizione era stata accolta, ma la sentenza era stata prontamente appellata dal condominio, il quale era invece risultato vincitore nel giudizio di secondo grado. La Corte di appello, infatti, aveva ritenuto legittima la ripartizione delle spese deliberata dall'assemblea per i lavori di sostituzione dell'impianto e che aveva incluso fra i debitori anche la condomina opponente. Quest'ultima aveva quindi deciso di impugnare la sentenza di secondo grado dinanzi alla Corte di cassazione.
La decisione della Suprema corte. I giudici di legittimità, nel respingere il ricorso in questione, confermando quindi il riparto delle spese operato dal condominio, hanno quindi avuto modo di chiarire meglio quali siano i criteri che presiedono alla suddivisione dei costi degli interventi sull'impianto di ascensore.
Già prima della riformulazione dell'art. 1124 c.c. a opera della legge n. 220/2012 di riforma del condominio la giurisprudenza aveva chiaramente distinto l'ipotesi dell'installazione ex novo di un impianto di ascensore nell'edificio che ne fosse privo da quella della manutenzione straordinaria e/o della sostituzione del medesimo. Mentre nella prima ipotesi la relativa spesa andava suddivisa secondo il tradizionale criterio di cui all'art. 1123 c.c., ovvero proporzionalmente al valore dei millesimi di proprietà di ciascun condomino, nel secondo caso essa andava ripartita secondo il criterio indicato dall'art. 1124 c.c. per la manutenzione straordinaria delle scale.
Ora, come si diceva, detta conclusione è stata per così dire ratificata dal legislatore, poiché il nuovo art. 1124 c.c. fin dalla sua rubrica chiarisce che la disposizione si applica sia alle scale che agli ascensori. La disposizione in questione contiene quindi una deroga al criterio generale di riparto di cui all'art. 1123 c.c., poiché dispone che la relativa spesa debba essere ripartita per metà in base ai millesimi di proprietà e per l'altra metà esclusivamente in ragione dell'altezza di ciascun piano dal suolo.
La medesima disposizione chiarisce che ove l'edificio condominiale sia composto da più scale e impianti di ascensore, gli stessi debbano essere mantenuti soltanto dai condomini al servizio dei quali gli stessi sono stati previsti. L'art. 1124 c.c., inoltre, dispone espressamente che per piano debbano intendersi anche le cantine, o palchi morti, le soffitte o camere a tetto e i lastrici solari, ovviamente quando gli stessi non siano di proprietà comune.
Nell'ordinanza in questione viene evidenziato come l'impianto di ascensore debba quindi essere accomunato, per identità di funzione, alle scale, in quanto anch'esso mezzo indispensabile per accedere al tetto e al terrazzo di copertura (come anticipato, detta parificazione è ora anche di tipo normativo).
Trattasi infatti di parte indiscutibilmente comune, tanto è vero che l'art. 1117 c.c. annovera espressamente detto impianto fra i beni e i servizi che si presumono comuni a tutti i condomini, salvo risulti diversamente dal titolo. Di conseguenza l'ascensore appartiene in comproprietà anche ai condomini proprietari di negozi o locali posti al piano terreno e con accesso dalla via pubblica, poiché anche essi ne fruiscono, «quanto meno», si legge nell'ordinanza, «in ordine alla conservazione e manutenzione della copertura dell'edificio».
Ne discende che anche i predetti condomini devono concorrere alle spese di manutenzione straordinaria e/o sostituzione dell'impianto in rapporto e in proporzione all'utilità che possono in ipotesi trarne, salvo esista un titolo contrario.
Come si è ripetuto più volte, la regola di cui sopra può essere derogata da un titolo contrario. «Come tutti i criteri legali di ripartizione delle spese condominiali», si legge nell'ordinanza in questione, «anche quello di ripartizione delle spese di manutenzione e sostituzione degli ascensori può essere derogato, ma la relativa convenzione modificatrice della disciplina legale deve essere contenuta o nel regolamento condominiale (che perciò si definisce di natura contrattuale) o in una deliberazione dell'assemblea che venga approvata all'unanimità, ovvero con il consenso di tutti i condomini».
Per questo motivo i giudici di legittimità hanno ritenuto corretta la decisione della corte di appello, la quale aveva valutato che nel regolamento condominiale in questione non vi era alcuna disposizione derogatoria del regime legale di ripartizione delle spese dell'impianto di ascensore.
In altri termini, secondo la sesta sezione civile della Cassazione, nella specie la ricorrente era caduta in una sorta di errore di prospettiva, contestando che nel regolamento non vi fosse una disposizione sulla quale si potesse fondare il proprio obbligo di contribuzione alle spese, laddove quest'ultimo, come visto, discende direttamente dalla legge e il regolamento può se mai disporre una deroga, circostanza che comunque non ricorreva nel caso concreto.
L'opposizione al decreto ingiuntivo condominiale. Visto che nella specie si trattava di un procedimento di opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto dal condominio verso un comproprietario in mora nel pagamento delle spese comuni, i giudici di legittimità hanno avuto anche il modo di ribadire alcuni principi validi in questo tipo di contenzioso in rapporto alla perdurante efficacia della delibera condominiale sulla quale si fondi l'obbligo impositivo e che non sia stata nel frattempo giudizialmente sospesa.
In detto giudizio, infatti, il condomino che contesti l'ordine giudiziale di pagamento non può far utilmente valere questioni attinenti alla mera annullabilità della delibera assembleare di ripartizione della spesa.
«Tale delibera», spiega la Cassazione, «costituisce infatti titolo sufficiente del credito del condominio e legittima non solo la concessione del decreto ingiuntivo, ma anche la condanna del condomino a pagare le somme nel processo oppositorio a cognizione piena ed esauriente, il cui ambito è dunque ristretto alla verifica della (perdurante) esistenza della deliberazione assembleare di approvazione della spesa e di ripartizione del relativo onere».
Un diverso comportamento da parte del giudice dell'opposizione è dunque ammissibile soltanto ove si dia la prova che l'efficacia della predetta deliberazione sia stata giudizialmente sospesa o che la stessa sia stata addirittura annullata.
La VI Sez. civile della Suprema corte ha tuttavia a sua volta ribadito il recente orientamento di legittimità per cui, fermo quanto sopra, il giudice dell'opposizione può rilevare, anche d'ufficio, eventuali vizi di legittimità della sottostante delibera assembleare ove gli stessi ne implichino la nullità e non la semplice annullabilità, trattandosi dell'applicazione di atti la cui validità rappresenta un elemento costitutivo della domanda (articolo ItaliaOggi Sette del 24.09.2018).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Sopraelevazioni e decoro architettonico: chiarimenti dalla Cassazione.
Sulla distinzione tra aspetto architettonico e decoro architettonico.

Con l'ordinanza 12.09.2018 n. 22156, la Corte di Cassazione (VI Sez. civile) ricorda che “l'art. 1127 c.c. sottopone il diritto di sopraelevazione del proprietario dell'ultimo piano dell'edificio ai limiti dettati dalle condizioni statiche dell'edificio che non la consentono, ovvero dall'aspetto architettonico dell'edificio stesso, oppure dalla conseguente notevole diminuzione di aria e luce per i piani sottostanti”.
L'aspetto architettonico, cui si riferisce l'art. 1127, comma 3, c.c., quale limite alle sopraelevazioni, “sottende, peraltro, una nozione sicuramente diversa da quella di decoro architettonico, contemplata dagli artt. 1120, comma 4, 1122, comma 1, e 1122-bis c.c., dovendo l'intervento edificatorio in sopraelevazione comunque rispettare lo stile del fabbricato e non rappresentare una rilevante disarmonia in rapporto al preesistente complesso, tale da pregiudicarne l'originaria fisionomia ed alterare le linee impresse dal progettista, in modo percepibile da qualunque osservatore. Il giudizio relativo all'impatto della sopraelevazione sull'aspetto architettonico dell'edificio va condotto, in ogni modo, esclusivamente in base alle caratteristiche stilistiche visivamente percepibili dell'immobile condominiale, e verificando l'esistenza di un danno economico valutabile, mediante indagine di fattodemandata al giudice del merito, il cui apprezzamento sfugge al sindacato di legittimità, se, come nel caso in esame, congruamente motivato”.
D'altro canto”, ricorda la Cassazione, “questa Corte ha anche affermato che le nozioni di aspetto architettonico ex art. 1127 c.c. e di decoro architettonico ex art. 1120 c.c., pur differenti, sono strettamente complementari e non possono prescindere l'una dall'altra, sicché anche l'intervento edificatorio in sopraelevazione deve rispettare lo stile del fabbricato, senza recare una rilevante disarmonia al complesso preesistente, sì da pregiudicarne l'originaria fisionomia ed alterarne le linee impresse dal progettista”.
Ora, “perché rilevi la tutela dell'aspetto architettonico di un fabbricato, agli effetti, come nella specie, dell'art. 1127, comma 3, c.c., non occorre che l'edificio abbia un particolare pregio artistico, ma soltanto che questo sia dotato di una propria fisionomia, sicché la sopraelevazione realizzata induca in chi guardi una chiara sensazione di disarmonia. Perciò deve considerarsi illecita ogni alterazione produttiva di tale conseguenza, anche se la fisionomia dello stabile risulti già in parte lesa da altre preesistenti modifiche, salvo che lo stesso, per le modalità costruttive o le modificazioni apportate, non si presenti in uno stato di tale degrado complessivo da rendere ininfluente allo sguardo ogni ulteriore intervento” (commento tratto da www.casaeclima.com).
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MASSIMA
E' noto come l'art. 1127 c.c. sottopone il diritto di sopraelevazione del proprietario dell'ultimo piano dell'edificio ai limiti dettati dalle condizioni statiche dell'edificio che non la consentono, ovvero dall'aspetto architettonico dell'edificio stesso, oppure dalla conseguente notevole diminuzione di aria e luce per i piani sottostanti.
L'aspetto architettonico, cui si riferisce l'art. 1127, comma 3, c.c., quale limite alle sopraelevazioni, sottende, peraltro, una nozione sicuramente diversa da quella di decoro architettonico, contemplata dagli artt. 1120, comma 4, 1122, comma 1, e 1122-bis c.c., dovendo l'intervento edificatorio in sopraelevazione comunque rispettare lo stile del fabbricato e non rappresentare una rilevante disarmonia in rapporto al preesistente complesso, tale da pregiudicarne l'originaria fisionomia ed alterare le linee impresse dal progettista, in modo percepibile da qualunque osservatore.
Il giudizio relativo all'impatto della sopraelevazione sull'aspetto architettonico dell'edificio va condotto, in ogni modo, esclusivamente in base alle caratteristiche stilistiche visivamente percepibili dell'immobile condominiale, e verificando l'esistenza di un danno economico valutabile, mediante indagine di fatto demandata al giudice del merito, il cui apprezzamento sfugge al sindacato di legittimità, se, come nel caso in esame, congruamente motivato
(cfr. Cass. Sez. 6-2, 28/06/2017, n. 16258; Cass. Sez. 2, 15/11/2016, n. 23256; Cass. Sez. 2, 24/04/2013, n. 10048; Cass. Sez. 2, 07/02/2008, n. 2865; Cass. Sez. 2, 22/01/2004, n. 1025; Cass. Sez. 2, 27/04/1989, n. 1947).
D'altro canto, questa Corte ha anche affermato che
le nozioni di aspetto architettonico ex art. 1127 c.c. e di decoro architettonico ex art. 1120 c.c., pur differenti, sono strettamente complementari e non possono prescindere l'una dall'altra, sicché anche l'intervento edificatorio in sopraelevazione deve rispettare lo stile del fabbricato, senza recare una rilevante disarmonia al complesso preesistente, sì da pregiudicarne l'originaria fisionomia ed alterarne le linee impresse dal progettista (Cass. Sez. 6 - 2, 25/08/2016, n. 17350).
Ora,
perché rilevi la tutela dell'aspetto architettonico di un fabbricato, agli effetti, come nella specie, dell'art. 1127, comma 3, c.c., non occorre che l'edificio abbia un particolare pregio artistico, ma soltanto che questo sia dotato di una propria fisionomia, sicché la sopraelevazione realizzata induca in chi guardi una chiara sensazione di disarmonia.
Perciò deve considerarsi illecita ogni alterazione produttiva di tale conseguenza, anche se la fisionomia dello stabile risulti già in parte lesa da altre preesistenti modifiche, salvo che lo stesso, per le modalità costruttive o le modificazioni apportate, non si presenti in uno stato di tale degrado complessivo da rendere ininfluente allo sguardo ogni ulteriore intervento
(Corte di Cassazione, Sez. VI civile, ordinanza 12.09.2018 n. 22156).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Tutela dell'aspetto architettonico di un fabbricato - Nozioni di aspetto architettonico e di decoro architettonico - Diversità e complementarietà - Qualifiche e limiti alle sopraelevazioni - Distonia con i ritmi architettonici del fabbricato - Fattispecie: Demolizione di una veranda costruita sul terrazzo di copertura - Giurisprudenza - Artt. 1120 e 1127 c.c..
Le nozioni di aspetto architettonico ex art. 1127 c.c. e di decoro architettonico ex art. 1120 c.c., pur differenti, sono strettamente complementari e non possono prescindere l'una dall'altra, sicché anche l'intervento edificatorio in sopraelevazione deve rispettare lo stile del fabbricato, senza recare una rilevante disarmonia al complesso preesistente, sì da pregiudicarne l'originaria fisionomia ed alterarne le linee impresse dal progettista (Cass. Sez. 6 - 2, 25/08/2016, n. 17350).
Pertanto, l'aspetto architettonico, cui si riferisce l'art. 1127, comma 3, c.c., quale limite alle sopraelevazioni, sottende, peraltro, una nozione sicuramente diversa da quella di decoro architettonico, contemplata dagli artt. 1120, comma 4, 1122, comma 1, e 1122-bis c.c., dovendo l'intervento edificatorio in sopraelevazione comunque rispettare lo stile del fabbricato e non rappresentare una rilevante disarmonia in rapporto al preesistente complesso, tale da pregiudicarne l'originaria fisionomia ed alterare le linee impresse dal progettista, in modo percepibile da qualunque osservatore.
Il giudizio relativo all'impatto della sopraelevazione sull'aspetto architettonico dell'edificio va condotto, in ogni modo, esclusivamente in base alle caratteristiche stilistiche visivamente percepibili dell'immobile condominiale, e verificando l'esistenza di un danno economico valutabile, mediante indagine di fatto demandata al giudice del merito, il cui apprezzamento sfugge al sindacato di legittimità, se, come nel caso in esame, congruamente motivato
(cfr. Cass. Sez. 6-2, 28/06/2017, n. 16258; Cass. Sez. 2, 15/11/2016, n. 23256; Cass. Sez. 2, 24/04/2013, n. 10048; Cass. Sez. 2, 07/02/2008, n. 2865; Cass. Sez. 2, 22/01/2004, n. 1025; Cass. Sez. 2, 27/04/1989, n. 1947).
Ora, perché rilevi la tutela dell'aspetto architettonico di un fabbricato, agli effetti, come nella specie, dell'art. 1127, comma 3, c.c., non occorre che l'edificio abbia un particolare pregio artistico, ma soltanto che questo sia dotato di una propria fisionomia, sicché la sopraelevazione realizzata induca in chi guardi una chiara sensazione di disarmonia. Perciò deve considerarsi illecita ogni alterazione produttiva di tale conseguenza, anche se la fisionomia dello stabile risulti già in parte lesa da altre preesistenti modifiche, salvo che lo stesso, per le modalità costruttive o le modificazioni apportate, non si presenti in uno stato di tale degrado complessivo da rendere ininfluente allo sguardo ogni ulteriore intervento
(Corte di Cassazione, Sez. VI civile, ordinanza 12.09.2018 n. 22156 - link a www.ambientediritto.it).

giugno 2018

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Sulla riconducibilità, o meno, del pianerottolo, sito sulle scale condominiali, ad una pertinenza dell'abitazione.
Secondo la giurisprudenza di legittimità, rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi, senza il consenso del titolare, compresi i luoghi destinati all'esercizio di attività lavorativo o professionale; ed infatti, per "luogo aperto al pubblico", deve intendersi quello al quale chiunque può accedere a determinate condizioni, ovvero quello frequentabile da un'intera categoria di persone o comunque da un numero indeterminato di soggetti, che abbiano la possibilità giuridica e pratica di accedervi, senza la legittima opposizione di chi sul luogo esercita un potere di fatto o di diritto.
Acclarate tali nozioni, di "luogo aperto al pubblico" e, a contrario, di "privata dimora", è conseguenziale ritenere il pianerottolo, antistante l'abitazione, come riconducibile alla prima categoria, e non ad un luogo, rientrante nel concetto di abitazione ovverosia luogo di privata dimora.
Conferma specifica si ricava da altre pronunce, secondo le quali, ai fini dell'integrazione del reato di interferenze illecite nella vita privata (art. 615-bis cod. pen.), deve escludersi che le scale condominiali ed i relativi pianerottoli siano "luoghi di privata dimora" cui estendere la tutela penalistica alle immagini ivi riprese, trattandosi di zone che non assolvono alla funzione di consentire l'esplicazione della vita privata al riparo di sguardi indiscreti, essendo destinate all'uso di un numero indeterminato di soggetti.
Ed ancora, il pianerottolo delle scale di un fabbricato in condominio costituisce luogo aperto al pubblico in quanto consente l'accesso ad un'indistinta categoria di persone e non soltanto ai condomini.
Il discrimine fra le due figure è rappresentato, pertanto, dalla possibilità di accesso da parte di un'intera categoria di persone o comunque da un numero indeterminato di soggetti che abbiano la possibilità giuridica e pratica di accedere senza legittima opposizione di chi sul luogo esercita un potere di fatto o di diritto.
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1. Il ricorso è fondato e merita accoglimento.
La problematica centrale riguarda la nozione di luogo pubblico o aperto al pubblico, posto che il reato contravvenzionale, ex art. 4 legge n. 110/1975, implica il porto in luogo pubblico o aperto al pubblico.
Ed invero, nell'ambito del presente procedimento, il contrasto è insorto, proprio a seguito dell'affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, circa la riconducibilità del pianerottolo, sito sulle scale condominiali, ad una pertinenza dell'abitazione dell'imputato.
Secondo la giurisprudenza di legittimità, rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi, senza il consenso del titolare, compresi i luoghi destinati all'esercizio di attività lavorativo o professionale (Sez. U, n. 31345 del 23/03/2017 - dep. 22/06/2017, D'Amico, Rv. 270076); ed infatti, per "luogo aperto al pubblico", deve intendersi quello al quale chiunque può accedere a determinate condizioni, ovvero quello frequentabile da un'intera categoria di persone o comunque da un numero indeterminato di soggetti, che abbiano la possibilità giuridica e pratica di accedervi, senza la legittima opposizione di chi sul luogo esercita un potere di fatto o di diritto (Sez. 3, n. 29586 del 17/02/2017 - dep. 14/06/2017, C., Rv. 270251).
Acclarate tali nozioni, di "luogo aperto al pubblico" e, a contrario, di "privata dimora", è conseguenziale ritenere il pianerottolo, antistante l'abitazione, come riconducibile alla prima categoria, e non ad un luogo, rientrante nel concetto di abitazione ovverosia luogo di privata dimora.
Conferma specifica si ricava da altre pronunce, secondo le quali, ai fini dell'integrazione del reato di interferenze illecite nella vita privata (art. 615-bis cod. pen.), deve escludersi che le scale condominiali ed i relativi pianerottoli siano "luoghi di privata dimora" cui estendere la tutela penalistica alle immagini ivi riprese, trattandosi di zone che non assolvono alla funzione di consentire l'esplicazione della vita privata al riparo di sguardi indiscreti, essendo destinate all'uso di un numero indeterminato di soggetti (Sez. 5, n. 34151 del 30/05/2017 - dep. 12/07/2017, P.C. in proc. Tinervia, Rv. 270679).
Ed ancora, il pianerottolo delle scale di un fabbricato in condominio costituisce luogo aperto al pubblico in quanto consente l'accesso ad un'indistinta categoria di persone e non soltanto ai condomini. (applicazione in tema di porto abusivo di armi) (Sez. 1, n. 934 del 28/09/1982 - dep. 03/02/1983, CHIAPPERO, Rv. 157237).
Il discrimine fra le due figure è rappresentato, pertanto, dalla possibilità di accesso da parte di un'intera categoria di persone o comunque da un numero indeterminato di soggetti che abbiano la possibilità giuridica e pratica di accedere senza legittima opposizione di chi sul luogo esercita un potere di fatto o di diritto (Sez. 5, n. 22890 del 10/04/2013 - dep. 27/05/2013, Ambrosio, Rv. 256949) (Corte di Cassazione, Sez. V penale, sentenza 01.06.2018 n. 24755).

marzo 2018

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Il Collegio è propenso ad accogliere l’opinione che, per la costituzione di un condominio, si possa prescindere da un atto formale qualora sussistano più parti di un edificio in comunione pro indiviso, essendo l’istituto configurabile anche tra edifici strutturalmente autonomi, appartenenti ciascuno a singoli soggetti, tra i quali vi siano opere comuni, pur se distaccate, destinate al loro godimento e servizio.
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In tema di condominio, l’art. 1127, comma 1, del c.c. prevede che “il proprietario dell’ultimo piano dell'edificio può elevare nuovi piani o nuove fabbriche, salvo che risulti altrimenti dal titolo. La stessa facoltà spetta a chi è proprietario esclusivo del lastrico solare”.
I commi 2 e 3 prevedono quanto segue: “La sopraelevazione non è ammessa se le condizioni statiche dell'edificio non la consentono. I condomini possono altresì opporsi alla sopraelevazione, se questa pregiudica l'aspetto architettonico dell'edificio ovvero diminuisce notevolmente l'aria o la luce dei piani sottostanti”.
La nozione di sopraelevazione, oggetto della disciplina appena riportata, trova applicazione nei casi in cui il proprietario dell’ultimo piano dell’edificio condominiale esegua nuovi piani o nuove fabbriche, ovvero trasformi locali preesistenti aumentandone le superfici e le volumetrie.
La ratio giustificatrice della norma va ricercata nel fatto che la sopraelevazione sfrutta lo spazio sovrastante l'edificio ed occupa la colonna d'aria su cui esso insiste, per cui l’esercizio di tale diritto non resta subordinato alla prestazione del consenso da parte degli altri condomini purché non sia compromessa la statica e l'architettura dello stabile e non siano presenti limitazioni alla luce o all'aria del sottostante appartamento.
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La giurisprudenza amministrativa si è pronunciata sul diritto del condomino, proprietario dell’ultimo piano, di sopraelevare come disciplinato dall'art. 1127 c.c., in quanto la questione non ha carattere solo civilistico, ma incide sulle condizioni per il rilascio del titolo abilitativo.
In proposito, ha puntualizzato che, se si ritiene, come precisato dalla Corte di Cassazione, che il proprietario dell'ultimo piano possa sopraelevare senza il consenso degli altri condomini, “ne deriva che anche l'autorizzazione alla costruzione dell'antenna possa prescindere dalla prova della proprietà esclusiva del tetto, essendo necessario e sufficiente che l'istante sia proprietario dell'ultimo piano, ….”.
Più in generale, la facoltà di sopraelevare spetta ex lege al proprietario dell’ultimo piano dell'edificio (o al proprietario esclusivo del lastrico solare) e il suo esercizio, che non necessita di alcun riconoscimento da parte degli altri condomini, può essere precluso soltanto in forza di un'espressa pattuizione che, in sostanza, costituisca una servitù altius non tollendi a favore degli stessi.
Nel caso di specie, da un lato non sussiste tra i condomini un precedente accordo in senso contrario, e dall’altro non viene dimostrato –in positivo– un pregiudizio statico o di decoro (la Commissione per il Paesaggio ha emesso parere positivo) o di igiene dell’edificio.
Pertanto, gli odierni controinteressati erano titolari del diritto a sopraelevare.
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La Società ricorrente censura il provvedimento comunale 18/03/2015, di rilascio del permesso di costruire in sanatoria per la realizzazione del sopralzo di un sottotetto e di un balcone.
...
2. Anche la seconda censura non è passibile di positivo scrutinio.
2.1 Il Collegio è propenso ad accogliere l’opinione che, per la costituzione di un condominio, si possa prescindere da un atto formale qualora sussistano più parti di un edificio in comunione pro indiviso, essendo l’istituto configurabile anche tra edifici strutturalmente autonomi, appartenenti ciascuno a singoli soggetti, tra i quali vi siano opere comuni, pur se distaccate, destinate al loro godimento e servizio (cfr. Corte di Cassazione, sez. II civile – 14/12/2017 n. 30046 che richiama Corte di Cassazione, sez. II civile – 12/11/1998 n. 11407): come hanno sottolineato i controinteressati, nel caso di specie sussistono tutti i presupposti sostanziali per definire “condominio” il complesso composto dall’edificio le cui unità immobiliari appartengono ad -OMISSIS- S.r.l. e ai Sig.ri -OMISSIS- e -OMISSIS-, nonché ad altri soggetti.
Infatti, anche se il compendio contempla gli appartamenti in blocchi separati e autonomi tra loro, nell’atto notarile 30/12/2010 (doc. 3 ricorrente - pagina 1) si dà atto della comproprietà delle corti comuni (sub. 5, 18 e 19 del mappale 58).
2.2 Sotto altro versante, appare acclarato in base alle deduzioni delle parti e agli atti di causa che l’assemblea è stata convocata e che la ricorrente non vi ha partecipato, dopo aver ricevuto l’avviso oltre il termine minimo (pari a 5 giorni) normativamente previsto. In ogni caso, è pacifico che -OMISSIS- non ha manifestato alcun consenso alla realizzazione dell’intervento.
Sul punto, a prescindere dalla perdurante impugnabilità della deliberazione assembleare, si tratta di chiarire se è necessario il consenso unanime dei condomini o comunque l’approvazione del soggetto che può ricevere un incisivo pregiudizio (come il ricorrente, immediato confinante che occupa i piani immediatamente inferiori dell’edificio oggetto di sopraelevazione).
Il Collegio ritiene di dare al quesito risposta negativa.
2.3 In tema di condominio, l’art. 1127, comma 1, del c.c. prevede che “il proprietario dell’ultimo piano dell'edificio può elevare nuovi piani o nuove fabbriche, salvo che risulti altrimenti dal titolo. La stessa facoltà spetta a chi è proprietario esclusivo del lastrico solare”.
I commi 2 e 3 prevedono quanto segue: “La sopraelevazione non è ammessa se le condizioni statiche dell'edificio non la consentono. I condomini possono altresì opporsi alla sopraelevazione, se questa pregiudica l'aspetto architettonico dell'edificio ovvero diminuisce notevolmente l'aria o la luce dei piani sottostanti”.
La nozione di sopraelevazione, oggetto della disciplina appena riportata, trova applicazione nei casi in cui il proprietario dell’ultimo piano dell’edificio condominiale esegua nuovi piani o nuove fabbriche, ovvero trasformi locali preesistenti aumentandone le superfici e le volumetrie. La ratio giustificatrice della norma va ricercata nel fatto che la sopraelevazione sfrutta lo spazio sovrastante l'edificio ed occupa la colonna d'aria su cui esso insiste (Tribunale di Trento – 11/07/2017), per cui l’esercizio di tale diritto non resta subordinato alla prestazione del consenso da parte degli altri condomini purché non sia compromessa la statica e l'architettura dello stabile e non siano presenti limitazioni alla luce o all'aria del sottostante appartamento (Consiglio di Stato, sez. IV – 09/05/2017 n. 2118).
2.4 La giurisprudenza amministrativa si è pronunciata sul diritto del condomino, proprietario dell’ultimo piano, di sopraelevare come disciplinato dall'art. 1127 c.c., in quanto la questione non ha carattere solo civilistico, ma incide sulle condizioni per il rilascio del titolo abilitativo.
In proposito, TAR Calabria Catanzaro, sez. I – 19/11/2015 n. 1749 ha puntualizzato che, se si ritiene, come precisato dalla Corte di Cassazione, che il proprietario dell'ultimo piano possa sopraelevare senza il consenso degli altri condomini, “ne deriva che anche l'autorizzazione alla costruzione dell'antenna possa prescindere dalla prova della proprietà esclusiva del tetto, essendo necessario e sufficiente che l'istante sia proprietario dell'ultimo piano, ….”.
Più in generale, la facoltà di sopraelevare spetta ex lege al proprietario dell’ultimo piano dell'edificio (o al proprietario esclusivo del lastrico solare) e il suo esercizio, che non necessita di alcun riconoscimento da parte degli altri condomini, può essere precluso soltanto in forza di un'espressa pattuizione che, in sostanza, costituisca una servitù altius non tollendi a favore degli stessi (TAR Liguria, sez. I – 09/07/2015 n. 651, che richiama TAR Sardegna, sez. II – 14/03/2013 n. 224).
Nel caso di specie, da un lato non sussiste tra i condomini un precedente accordo in senso contrario, e dall’altro non viene dimostrato –in positivo– un pregiudizio statico o di decoro (la Commissione per il Paesaggio ha emesso parere positivo) o di igiene dell’edificio. Ulteriori riflessioni su tali aspetti saranno sviluppate con l’esame dell’ultimo motivo di ricorso. Pertanto, gli odierni controinteressati erano titolari del diritto a sopraelevare.
2.5 La mancata indicazione, nell’accordo del 16/02/2015 (doc. 1-L ricorrente), del diritto di proprietà esclusiva di -OMISSIS- sulla striscia contigua al muro perimetrale in lato sud-ovest interessato dal sopralzo (e della comproprietà della corte comune) integra indubbiamente una lacuna, le cui conseguenze saranno esaminate in raccordo con le successive doglianze. Per il momento, non affiora un dolo evidente nella rappresentazione dello stato dei luoghi, che possa ex se insinuare un vizio nel titolo edilizio rilasciato (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 26.03.2018 n. 341 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: La Corte di Cassazione –sulla questione relativa al rispetto delle distanze all'interno di un condominio– ha richiamato il condiviso principio di diritto secondo il quale <<Le norme sulle distanze sono applicabili anche tra i condomini di un edificio condominiale, purché siano compatibili con la disciplina particolare relativa alle cose comuni, cioè quando l'applicazione di quest'ultima non sia in contrasto con le prime; nell'ipotesi di contrasto, la prevalenza della norma speciale in materia di condominio determina l'inapplicabilità della disciplina generale sulle distanze che, nel condominio degli edifici e nei rapporti tra singolo condomino e condominio, è in rapporto di subordinazione rispetto alla prima. Pertanto, ove il giudice constati il rispetto dei limiti di cui all'art. 1102 c.c. , deve ritenersi legittima l'opera realizzata anche senza il rispetto delle norme dettate per regolare i rapporti tra proprietà contigue, sempre che venga rispettata la struttura dell'edificio condominiale>>.
La Corte di Cassazione ha poi statuito che “In tema di condominio, ai sensi dell'art. 1102 c.c., comma 1, ciascun condomino è libero di servirsi della cosa comune, anche per fine esclusivamente proprio, traendo ogni possibile utilità, purché non alteri la destinazione della cosa comune e consenta un uso paritetico agli altri condomini. …”.
In buona sostanza, le norme in tema di distanze legali recedono quando sono in contrasto con i principi fondamentali sui quali si regge il condominio, per cui sarebbe possibile aprire una finestra sul cortile comune anche senza rispettare le distanze dall’appartamento di un altro condomino, in quanto la funzione del cortile è quella di dare luce ad aria.
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L’art. 90 del DPR 380/2001 consente le sopraelevazioni nel rispetto degli strumenti urbanistici vigenti, mentre l’art. 1127 del c.c. permette di sopraelevare sull'ultimo piano dell'edificio, ma non esonera certo dall'osservanza delle norme in materia di distanze tra costruzioni.
Sempre ai fini del rispetto delle distanze legali tra costruzioni, va osservato che la sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando un incremento della volumetria del fabbricato, va qualificata come nuova costruzione, sicché deve rispettare la normativa sulle distanze vigente al momento della sua realizzazione, non potendosi automaticamente giovare del diritto di prevenzione caratterizzante la costruzione originaria, che si esaurisce con il completamento, strutturale e funzionale, di quest'ultima.
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La Società ricorrente censura il provvedimento comunale 18/03/2015, di rilascio del permesso di costruire in sanatoria per la realizzazione del sopralzo di un sottotetto e di un balcone.
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3.4 Non sussiste neppure la dedotta violazione dell’altezza massima, prevista in metri 10,5 dalle NTA.
Il limite –che lo strumento urbanistico riferisce all’altezza “media” quando il solaio di copertura non sia orizzontale e quando il terreno o la strada siano in pendenza– risulta infatti rispettato dall’intervento dei controinteressati, come si evince dai disegni e dalle tavole esibite. Emerge chiaramente che l’altezza media dell’edificio – pari a 10,31 metri – rispetta la previsione di cui all’art. 5 del Piano delle Regole di -OMISSIS- (cfr. allegati n. 4 e n. 5 controinteressati).
Non è sufficiente, al riguardo, lamentare una mancata “verifica in loco” da parte dei tecnici del Comune, visto che il meccanismo di calcolo non è stato contestato dalla parte ricorrente attraverso la produzione di una perizia ovvero l’elaborazione di cifre differenti.
Infine, i vani ricavati nel sottotetto aventi altezza media ponderale non superiore a 1,80 metri sono esclusi dal computo dell’altezza, e non vi sono ragioni per ritenere inapplicabile la disposizione (ancorché siano stati effettuati interventi pregressi, non affiorando il complessivo superamento del limite).
3.5 Viceversa, i Sigg.ri -OMISSIS- e -OMISSIS- hanno indebitamente violato, con la creazione del sopralzo, la distanza minima di 5 metri dal confine con la striscia di area di proprietà della Società ricorrente, che corre in adiacenza lungo il muro perimetrale sud ovest.
3.6 La Corte di Cassazione (sez. II civile – 27/02/2014 n. 47471) –sulla questione relativa al rispetto delle distanze all'interno di un condominio– ha richiamato il condiviso principio di diritto, affermato anche con la propria sentenza n. 6546 del 18/03/2010, secondo il quale <<Le norme sulle distanze sono applicabili anche tra i condomini di un edificio condominiale, purché siano compatibili con la disciplina particolare relativa alle cose comuni, cioè quando l'applicazione di quest'ultima non sia in contrasto con le prime; nell'ipotesi di contrasto, la prevalenza della norma speciale in materia di condominio determina l'inapplicabilità della disciplina generale sulle distanze che, nel condominio degli edifici e nei rapporti tra singolo condomino e condominio, è in rapporto di subordinazione rispetto alla prima. Pertanto, ove il giudice constati il rispetto dei limiti di cui all'art. 1102 c.c. , deve ritenersi legittima l'opera realizzata anche senza il rispetto delle norme dettate per regolare i rapporti tra proprietà contigue, sempre che venga rispettata la struttura dell'edificio condominiale>>.
La Corte di Cassazione, sez. II civile – 11/6/2013 n. 14652, ha poi statuito che “In tema di condominio, ai sensi dell'art. 1102 c.c., comma 1, ciascun condomino è libero di servirsi della cosa comune, anche per fine esclusivamente proprio, traendo ogni possibile utilità, purché non alteri la destinazione della cosa comune e consenta un uso paritetico agli altri condomini. …”.
3.7 In buona sostanza, le norme in tema di distanze legali recedono quando sono in contrasto con i principi fondamentali sui quali si regge il condominio, per cui sarebbe possibile aprire una finestra sul cortile comune anche senza rispettare le distanze dall’appartamento di un altro condomino, in quanto la funzione del cortile è quella di dare luce ad aria.
Tuttavia, nella fattispecie all’esame del Collegio, la distanza rileva rispetto a un’area pacificamente di proprietà esclusiva del confinante.
L’art. 90 del DPR 380/2001 consente le sopraelevazioni nel rispetto degli strumenti urbanistici vigenti, mentre l’art. 1127 del c.c. permette di sopraelevare sull'ultimo piano dell'edificio, ma non esonera certo dall'osservanza delle norme in materia di distanze tra costruzioni (Corte di cassazione, sez. II civile – 25/07/2016 n. 15295).
Sempre ai fini del rispetto delle distanze legali tra costruzioni, va osservato che la sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando un incremento della volumetria del fabbricato, va qualificata come nuova costruzione, sicché deve rispettare la normativa sulle distanze vigente al momento della sua realizzazione, non potendosi automaticamente giovare del diritto di prevenzione caratterizzante la costruzione originaria, che si esaurisce con il completamento, strutturale e funzionale, di quest'ultima (TAR Campania Napoli, sez. VIII – 14/03/2017 n. 1465 e la giurisprudenza civile ivi menzionata).
3.8 Non è in altri termini appropriato il richiamo al principio dell'inoperatività, nel condominio, della normativa sulle distanze legali, dal momento che tale principio è valido con riferimento alle opere eseguite sulle parti comuni e non si estende invece ai rapporti fra i singoli condomini e le rispettive proprietà esclusive.
Si concorda dunque con quanto affermato dalla parte ricorrente nella memoria di replica per cui, nel caso specifico, le unità immobiliari delle parti in causa sono perfettamente autonome e ciò che risulta violata è la distanza del sopralzo –qualificabile come “nuova costruzione”– rispetto alla porzione esclusiva di area scoperta di proprietà della ricorrente (e non rispetto ad una porzione di area condominiale).
3.9 Da ultimo, la ricorrente lamenta che il balcone sarebbe stato realizzato sul muro perimetrale in lato sud-ovest in violazione dell’art. 905 del c.c., che pone il divieto di aprire vedute dirette verso il fondo del vicino a meno di 1 metro e mezzo di distanza dal medesimo fondo.
La prospettazione non convince.
Nella memoria finale, i controinteressati hanno efficacemente affermato (senza contestazione sul punto della parte avversaria) che il balcone costruito sul lato sud-ovest non crea alcun affaccio sulla striscia di proprietà di -OMISSIS- S.r.l., dal momento che i poggioli del piano secondo ne impediscono la vista. Con gli altri proprietari limitrofi, i Sigg.ri -OMISSIS- e -OMISSIS- hanno sottoscritto la scrittura privata del 16/02/2015 (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 26.03.2018 n. 341 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2017
ottobre 2017

CONDOMINIOTelecamere, meglio il fai-da-te. Sulle posizioni incerte prevale l'autoregolamentazione. Discordanti le tesi di garante privacy, giudici penali e civili sulle riprese: ecco la via d'uscita.
Telecamere sulle parti comuni: sì, no, forse. Il garante dice di no, il giudice penale dà l'ok; il giudice civile non ha ancora una posizione univoca.
Nel frattempo o si sceglie l'alea giudiziaria o ci si mette d'accordo tra privati.

L'ultimo caso è stato affrontato dal TRIBUNALE di Avellino (sentenza 30.10.2017, solo ora resa nota).
Il vicino installa all'esterno del suo cancello una telecamera, puntata sulla proprietà esclusiva dei dirimpettai, che si sentono costantemente spiati. La telecamera è puntata sul vialetto di accesso alle abitazioni.
Chi ha installato la telecamera ha subito furti di appartamento e intende tutelare la propria sicurezza.
Il vicino non gradisce che siano prese le immagini sugli spostamenti suoi e di chi lo viene a trovare.
Garante contro giudici. Per il fatto non c'è una sola regola, ma più regole in conflitto tra loro.
Una regola fa prevalere la sicurezza; l'altra la riservatezza. La seconda viene applicata dal garante della privacy; la prima viene applicata, ma non in maniera concorde, dai giudici dei tribunali.
In attesa che una delle autorità si adegui all'orientamento dell'altra, bisogna sapere a cosa si va incontro se si va dall'una o dall'altra.
Se si va dal garante è molto probabile ricevere un ordine di non trattare dati con la telecamera sul vialetto; ma non bisogna dimenticare che i provvedimenti sono impugnabili davanti al giudice.
Se si va dal giudice penale è molto probabile che chi ha messo la telecamera sul vialetto sarà assolto dal reato di interferenze illecite sulla vita privata; se si va dal giudice civile (subito o in opposizione a provvedimenti del garante), bisogna considerare che qualche giudice di merito ritiene vincolanti il provvedimento del garante (divieto di riprese delle parti comuni) e che qualche altro giudice si pronuncia indipendentemente dal provvedimento di garante (e quindi dà il via libere alle telecamere sul vialetto).
Facile constatare un groviglio di incertezze, rispetto al quale l'unica soluzione ragionevole sarebbe l'autoregolamentazione: gli interessati si siedono attorno al tavolo e, cercando di capire le rispettive ragioni, stilano il loro regolamento sulla videosorveglianza del vialetto.
Magari riusciranno a darsi delle regole (contrattuali) sull'oggetto della ripresa, sui tempi delle riprese, sulla conservazione e sulla cancellazione delle immagini, sui costi da condividere e in che misura, ecc.
Se questo non è possibile, allora via libera al contenzioso. Ma non dimentichiamo che nelle more di una legge o di un orientamento consolidato della giurisprudenza, qualcuno potrà mettere le telecamere e qualcun altro no, qualcuno dovrà subire di essere ripreso mentre dal cancello di ingresso percorre il vialetto che porta all'uscio di casa sua e qualcun altro, invece, no.
Ma passiamo a esaminare i vari passaggi e le varie tesi contrapposte, che sono, tra l'alto, riepilogate dalla sentenza del Tribunale di Avellino.
Non è penale. Non c'è responsabilità penale per interferenze alla vita privata (articolo 615-bis del codice penale): le scale di un condominio e i pianerottoli delle scale condominiali non assolvono la funzione di consentire l'esplicazione della vita privata al riparo da sguardi indiscreti, perché sono, in realtà, destinati all'uso di un numero indeterminato di soggetti. Di conseguenza, per i giudici penali, non comportano interferenze illecite nella vita privata le videoriprese del «pianerottolo» di un'abitazione privata, oltre che dell'area antistante all'ingresso di un garage condominiale; le videoregistrazioni dell'ingresso e del piazzale di accesso a un edificio sede dell'attività di una società commerciale; l'area condominiale destinata a parcheggio e del relativo ingresso.
La legge sulla privacy. L'articolo 5, comma 3, del dlgs 196/2003 dispone che «il trattamento di dati personali effettuato da persone fisiche per fini esclusivamente personali è soggetto all'applicazione del codice della privacy solo se i dati sono destinati a una comunicazione sistematica o alla diffusione».
Alla ripresa di immagini del vialetto non si applica il codice della privacy, perché il trattamento è eseguito dal resistente per finalità esclusivamente personali, relative alla tutela dell'incolumità della famiglia e della proprietà.
Posizione garante privacy. Il garante per la protezione dei dati personali nel suo provvedimento in materia di videosorveglianza dell'08/04/2010 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 99 del 29/4/2010), quanto ai trattamenti effettuati per finalità esclusivamente personali, non accompagnati da comunicazione sistematica o diffusione di dati, ha preso una posizione di cautela.
Anche se non si applica la disciplina del codice della privacy, al fine di evitare di incorrere nel reato di interferenze illecite nella vita privata (articolo 615-bis codice penale), ha scritto il garante, l'angolo visuale delle riprese deve essere comunque limitato ai soli spazi di propria esclusiva pertinenza (per esempio antistanti all'accesso alla propria abitazione) escludendo ogni forma di ripresa, anche senza registrazione di immagini, relativa ad aree comuni (cortili, pianerottoli, scale, garage comuni) oppure ad ambiti antistanti all'abitazione di altri condomini.
La posizione del tribunale. Se non è penale, siano di fronte a un illecito civile?
Alcuni tribunali, come quello di Avellino, che è in buona compagnia, prendono le distanze dal garante.
Le indicazioni dettate dal garante, dicono i sostenitori di questo orientamento, non tengono conto, del fatto che le aree comuni non rientrano nei concetti di domicilio, di privata dimora e di appartenenza di essi.
Inoltre, per essere al riparo da occhi indiscreti non basta che un certo comportamento venga tenuto in luoghi di privata dimora, ma occorre altresì che esso avvenga in condizioni tali da renderlo tendenzialmente non visibile ai terzi: se l'azione può essere liberamente osservata dai terzi senza dover ricorrere a particolari accorgimenti, il titolare del domicilio non può avanzare una pretesa di riservatezza.
Quindi, secondo questo filone, le parti comuni di un edificio ben possono essere oggetto di sorveglianza video, contrariamente a quanto affermato nel citato provvedimento del garante.
In sostanza, il garante, nel momento in cui ha dato le indicazioni sopra riportate su quale angolo visuale dovrebbero tenere le telecamere, ha affermato che seguire tale indicazioni è necessario al fine di «evitare di incorrere nel reato di interferenze illecite nella vita privata» (articolo 615-bis codice penale).
Però le sentenze penali, hanno escluso che la ripresa relativa ad aree comuni (cortili, pianerottoli, scale, garage comuni) oppure ad ambiti antistanti all'abitazione di altri condomini integri di per sé reato, ogniqualvolta si tratti di spazio fisico direttamente e materialmente accessibile nonché visibile da parte di chiunque, senza che sia necessario il consenso di nessuno.
Quindi, nota il tribunale di Avellino, il garante, per mezzo delle indicazioni da lui fornite con il provvedimento del 2010 (relative a evitare che l'angolo visuale della telecamera riprenda «aree comuni (cortili, pianerottoli, scale, garage comuni) ovvero ad ambiti antistanti all'abitazione di altri condomini» ha fornito un'interpretazione del reato di cui all'art. 615-bis c.p. in buona parte smentita dalla giurisprudenza di legittimità.
Quindi se le indicazioni del Garante non sono corrette, allora non possono in alcun modo vincolare o condizionare il giudice civile.
I passaggi del giudice civile sono i seguenti:
   1. il trattamento di dati effettuato da chi riprende il vialetto, oltre a non essere penalmente rilevante, non è neppure soggetto al codice della privacy;
   2. il vialetto oggetto di ripresa da parte della telecamera è spazio fisico direttamente e materialmente accessibile da parte di chiunque (non essendovi alcun cancello o altro ostacolo apposto all'inizio di esso), senza che sia necessario il consenso di nessuno;
   3. bisogna tener conto del diritto alla tutela dell'incolumità fisica;
   4. ritenere che la telecamera dovrebbe avere un angolo visuale tale da escludere del tutto la ripresa del vialetto di accesso significherebbe frustare del tutto lo scopo dell'apposizione della telecamera, la quale potrebbe a questo punto essere rivolta solo verso l'interno della dimora dell'interessato, senza poter in alcun modo identificare chi percorra il vialetto anche con scopi eventualmente illeciti o penalmente rilevanti di aggressione all'incolumità fisica;
   5. l'apposizione della telecamera con angolo visuale relativo al solo vialetto è proporzionata a quanto sia necessario per la tutela dell'incolumità fisica e non viola, nell'ambito del necessario bilanciamento da operare tra diritti aventi entrambi fondamento costituzionale, il diritto alla riservatezza altrui (articolo ItaliaOggi Sette del 22.01.2018).

settembre 2017

CONDOMINIOAscensore, subentro possibile. I nuovi comproprietari devono rifondere i costi agli altri. La Cassazione: impianti installabili anche solo a carico di una parte dei condomini.
L'installazione dell'ascensore nell'edificio che ne sia privo può essere effettuata anche da una parte dei condomini, che ne sopporteranno per intero la relativa spesa. Gli altri condomini, ove in prosieguo volessero utilizzare a loro volta l'impianto, saranno tenuti a rifondere ai primi una quota delle spese sostenute, opportunamente rivalutata, divenendone così comproprietari.

Lo ha chiarito la II Sez. civile della Corte di Cassazione nella recente sentenza 04.09.2017 n. 20713.
Il caso concreto. Nella specie alcuni condomini avevano citato in giudizio i comproprietari che avevano provveduto a installare l'ascensore nel fabbricato per sentire accertare il costo dell'impianto e le relative quote di contribuzione nelle spese di gestione e manutenzione.
Il tribunale, espletata la consulenza tecnica d'ufficio, ritenuta implicita nella domanda svolta quella di riconoscimento del diritto degli attori all'acquisizione della comproprietà dell'impianto, aveva dunque accertato il costo complessivo dell'installazione e aveva determinato la quota di contribuzione di ciascuno di essi nelle relative spese.
La sentenza era però stata appellata dai condomini che avevano originariamente provveduto all'installazione dell'ascensore, i quali avevano contestato la mancanza di interesse ad agire degli attori, che non avevano espressamente richiesto l'accertamento del proprio diritto di partecipare alla comunione dell'impianto. Inoltre, secondo gli appellanti, i giudici di primo grado avevano errato nell'applicare al caso in questione la disciplina delle innovazioni di cui all'art. 1121 c.c., trattandosi di un'opera privata.
La Corte di appello aveva però integralmente confermato la decisione. Di qui il ricorso in Cassazione.
L'installazione dell'ascensore nell'edificio che ne sia privo. Nella sentenza n. 20713/2017 i giudici di legittimità hanno in primo luogo evidenziato come gli impianti suscettibili di utilizzazione separata, casistica nella quale rientra sicuramente l'ascensore, possano essere realizzati ex novo nell'edificio condominiale anche senza la relativa approvazione assembleare, ovvero a cura e spese di alcuni condomini soltanto.
Infatti l'installazione di un ascensore nel fabbricato che ne sia privo costituisce un'innovazione delle parti comuni, in quanto realizza una modificazione materiale del vano scale. L'opera andrebbe quindi deliberata in assemblea con il quorum di cui al quinto comma dell'art. 1136 c.c., ovvero dalla maggioranza degli intervenuti, che rappresentino almeno i due terzi dei millesimi totali di valore dell'edificio.
Tuttavia, proprio perché trattasi di impianti suscettibili di utilizzazione separata, anche uno solo dei condomini può provvedervi a sua cura e spese. La base normativa di tale conclusione, come evidenziato dalla Suprema corte nella sentenza in questione, deve rintracciarsi nell'art. 1102 c.c., disposizione che fonda il relativo diritto e ne circoscrive i limiti e le modalità di esplicazione. In base a essa, infatti, ciascun partecipante alla comunione può servirsi del bene comune, anche apportandovi a proprie spese le modificazioni necessarie per un migliore godimento, a condizione che non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il proprio diritto.
In questo caso le spese di installazione dell'impianto, diversamente da quelle relative alla manutenzione e alla ricostruzione dell'ascensore già esistente, non vanno ripartite ai sensi dell'art. 1124 c.c., bensì secondo gli ordinari criteri di cui all'art. 1123 c.c., ovvero secondo il valore proporzionale della proprietà di ciascuno dei compartecipanti. I condomini inizialmente non interessati all'innovazione possono infatti successivamente cambiare idea e, in questo caso, hanno il diritto di usare a loro volta dell'impianto, partecipando alla relativa spesa e diventandone quindi comproprietari.
La ripartizione delle spese tra i vecchi e i nuovi comproprietari. Quindi l'ascensore installato nell'edificio che ne sia privo per iniziativa di uno o più condomini non rientra nella proprietà comune di tutti i partecipanti al condominio (non è un bene condominiale), ma è oggetto di comunione (comproprietà) fra i soli condomini che ne abbiano sopportato le relative spese.
Tuttavia, come detto, l'art. 1121, comma 3, c.c. fa espressamente salva la facoltà per i condomini estranei alla comunione dell'impianto di entrare a farne parte e di utilizzare a propria volta l'ascensore. Da qui però l'obbligo degli stessi sia di rifondere agli altri comproprietari i costi sostenuti per l'originaria installazione dell'impianto e per gli interventi di manutenzione nel frattempo effettuati sia di contribuire nelle successive spese di conduzione (energia elettrica e manutenzione).
Il criterio di riparto della compartecipazione alle spese di installazione, come già preannunciato, è quello ordinario di cui all'art. 1123 c.c., ovvero quello del valore proporzionale delle rispettive proprietà dei condomini che utilizzano l'impianto. La spesa inizialmente sostenuta dai condomini che abbiano provveduto a installare ex novo l'impianto (e sulla quale andrà quindi calcolata la quota che il nuovo comproprietario dovrà rifondere agli originari comunisti) deve essere però aggiornata al suo valore attuale, per evitare ingiustificati arricchimenti in favore del nuovo arrivato. Solitamente per la rivalutazione si fa riferimento agli indici Istat dei prezzi al consumo. Occorre però anche tenere conto del naturale degrado dell'ascensore, normalmente individuato nel deprezzamento dell'impianto causato dagli anni trascorsi dalla sua installazione.
Il procedimento di calcolo utilizzato per l'individuazione della somma dovuta dal condomino subentrante agli originari comproprietari dell'impianto è quello di detrarre dalla somma dei costi di installazione e di manutenzione dell'opera già sostenuti, rivalutata in base agli indici Istat e integrata con gli interessi legali, il valore del deprezzamento subito dal medesimo a seguito dell'utilizzo continuato e della naturale obsolescenza. L'importo così determinato, che rappresenta il valore dell'impianto, dovrà quindi essere moltiplicato per i millesimi di proprietà del condomino subentrante e il relativo risultato dovrà essere diviso per la somma dei millesimi di tutti i nuovi comproprietari (originari e subentrante).
Ciò sulla base di una semplice equazione, nella quale il valore dell'impianto sta ai millesimi totali dei condomini comproprietari (originari e subentrante) come l'importo da rifondere (incognita) sta ai millesimi del solo condomino che chieda di entrare a far parte della comunione.
La somma che ne risulta sarà quella che il nuovo comproprietario dovrà versare ai condomini che si erano inizialmente presi carico dell'installazione dell'ascensore. La stessa dovrà quindi essere ripartita fra questi ultimi sulla base dei rispettivi millesimi di proprietà (si veda la tabella in pagina) (articolo ItaliaOggi Sette del 18.09.2017).
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MASSIMA
L’installazione “ex novo” di un ascensore in un edificio in condominio (le cui spese, a differenza di quelle relative alla manutenzione e ricostruzione dell’ascensore già esistente, vanno ripartite non ai sensi dell’art. 1124 c.c., ma secondo l’art. 1123 c.c., ossia proporzionalmente al valore della proprietà di ciascun condomino) costituisce innovazione che può essere deliberata dall’assemblea condominiale con le maggioranze prescritte dall’art. 1136 c.c., oppure direttamente realizzata con il consenso di tutti i condomini, così divenendo l’impianto di proprietà comune.
Trattandosi, tuttavia, di impianto suscettibile di utilizzazione separata, proprio quando l’innovazione, e cioè la modificazione materiale della cosa comune (nella specie, il vano scale) conseguente alla realizzazione dell’ascensore, non sia stata approvata in assemblea (lo stesso art. 1121 c.c., al comma 2, parla di maggioranza dei condomini che abbia “deliberata o accettata” l’innovazione), essa può essere attuata anche a cura e spese di uno o di taluni condomini soltanto (con i limiti di cui all’art. 1102 c.c.), salvo il diritto degli altri di partecipare in qualunque tempo ai vantaggi dell’innovazione, contribuendo nelle spese di esecuzione e di manutenzione dell’opera.
L’ascensore, installato nell’edificio dopo la costruzione di quest’ultimo per iniziativa di parte dei condomini, non rientra nella proprietà comune di tutti i condomini, ma appartiene in proprietà a quelli di loro che l’abbiano impiantato a loro spese.
Ciò dà luogo nel condominio ad una particolare comunione parziale dei proprietari dell’ascensore, analoga alla situazione avuta a mente dall’art. 1123, comma 3, c.c., comunione che è distinta dal condominio stesso, fino a quando tutti i condomini non abbiano deciso di parteciparvi.
L’art. 1121, comma 3, c.c. fa, infatti, salva agli altri condomini la facoltà di partecipare successivamente all’innovazione, divenendo partecipi della comproprietà dell’opera, con l’obbligo di pagarne pro quota le spese impiegate per l’esecuzione, aggiornate al valore attuale
(tratta da https://renatodisa.com).

giugno 2017

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Per approvare le innovazioni che sono dirette ad eliminare le barriere architettoniche negli edifici privati basta il voto favorevole di tanti condomini che rappresentino almeno metà del valore dell’intero edificio (cfr. art. 1120 c.c. che rinvia al secondo comma dell’art. 1136 c.c.).
Nella fattispecie de qua, la ricorrente ha affermato di essere proprietaria della metà dell’immobile su cui andrebbe a poggiarsi il montapersone e, quindi, ciò conferma la sussistenza di un titolo idoneo per ottenere il rilascio del permesso di costruire per la realizzazione dell’ascensore.
Difatti, “l’installazione di un ascensore rientra fra le opere dirette ad eliminare le barriere architettoniche, di cui all’art. 27, comma 1, della legge 03.03.1971, n. 118, e all’art. 1, comma 1, del d.P.R. 27.04.1978, n. 384, e perciò costituisce innovazione che, ai sensi dell’art. 2, legge 02.01.1989, n. 13, è approvata dall’assemblea con la maggioranza prescritta dall’art. 1136, comma 2, c.c..
Lo stesso art. 2, legge n. 13/1989, stabilisce che, nel caso in cui il condominio rifiuti di assumere, o non assuma entro tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le deliberazioni aventi per oggetto le innovazioni volte all’eliminazione delle barriere architettoniche, i portatori di handicap possono installare, a proprie spese, le strutture occorrenti al fine di rendere più agevole l’accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe dei garages, fermo quanto disposto dagli articoli 1120, comma 4, e 1121, comma 3, c.c. (all’esito delle modifiche introdotte dalla legge 11.12.2012, n. 220)”.
Pertanto, il rigetto del permesso di costruire appare illegittimo in relazione alla normativa che regola l’attività comunale in materia di rilascio dei titoli edilizi, secondo l’interpretazione giurisprudenziale consolidata.
Difatti sulla base dell’art. 11 del D.P.R. n. 380 del 2001, il Comune nel verificare l’esistenza in capo al richiedente un permesso edilizio di un idoneo titolo di godimento sull’immobile, non deve risolvere eventuali conflitti di interesse tra le parti private in ordine all’assetto proprietario, ma deve accertare soltanto il requisito della legittimazione soggettiva di colui che richiede il permesso.
In tal senso, l’Amministrazione è tenuta a svolgere un livello minimo di istruttoria che comprende l’acquisizione di tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra chi propone l’istanza e il bene giuridico oggetto dell’autorizzazione, senza che l’esame del titolo di godimento operato dalla p.a. costituisca un’illegittima intrusione in ambito privatistico, essendo finalizzato soltanto ad assicurare un ordinato svolgimento delle attività sottoposte al controllo autorizzatorio.
Dunque, sebbene si debba escludere, anche al fine di non aggravare il procedimento, che l’Amministrazione sia tenuta a svolgere complessi e laboriosi accertamenti, non si può prescindere da una verifica minima e di immediata realizzazione, pena un’insufficiente istruttoria.
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Quanto alle caratteristiche dell’ascensore e alla sua facile rimovibilità si deve altresì sottolineare come l’eliminazione delle barriere architettoniche che impediscono la piena accessibilità degli edifici, limitando la possibilità per le persone affette da handicap di svolgere pienamente la propria personalità e di avere una normale vita di relazione, attiene ad esigenze di rilievo costituzionale primario, riconducibili anzitutto alle previsioni degli artt. 2 e 3 della Costituzione.
A fronte della rilevanza di tali interessi, è compito del Comune evidenziare l’eventuale sussistenza di alternative praticabili rispetto all’intervento proposto, altrimenti il diniego puro e semplice risulta illegittimo, tenuto conto del contenuto derogatorio della normativa ordinaria delle disposizioni in materia di abbattimento delle barriere architettoniche.
Del resto, la giurisprudenza di legittimità ha recentemente affermato che “l’installazione di un ascensore, allo scopo dell’eliminazione delle barriere architettoniche, realizzata su parte di aree comuni (nella specie, un’area destinata a giardino), deve considerarsi indispensabile ai fini dell’accessibilità dell’edificio e della reale abitabilità dell’appartamento, e rientra, pertanto, nei poteri spettanti ai singoli condomini ai sensi dell’art. 1102 c.c..
Di talché, nel valutare il contrasto delle opere, cui fa riferimento l’art. 2 della legge n. 13/1989, con la specifica destinazione delle parti comuni, sulle quali esse vanno ad incidere, occorre tenere conto altresì del principio di solidarietà condominiale, secondo il quale la coesistenza di più unità immobiliari in un unico fabbricato implica di per sé il contemperamento, al fine dell’ordinato svolgersi di quella convivenza che è propria dei rapporti condominiali, di vari interessi, tra i quali deve includersi anche quello delle persone disabili all’eliminazione delle barriere architettoniche, oggetto di un diritto fondamentale che prescinde dall’effettiva utilizzazione, da parte di costoro, degli edifici interessati”.
Infine, secondo il più recente indirizzo giurisprudenziale, l’installazione di un ascensore all’esterno di un condominio non richiederebbe nemmeno il permesso di costruire, trattandosi della realizzazione di un volume tecnico necessario per apportare un’innovazione allo stabile e non di una costruzione strettamente intesa.
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4. Con la seconda censura si assume l’illegittimità del diniego comunale, in quanto la ricorrente avrebbe dimostrato la sussistenza di un idoneo titolo giuridico per procedere all’installazione del manufatto, peraltro caratterizzato da un limitato impatto strutturale e dalla sua facile rimovibilità.
4.1. La doglianza è fondata.
L’art. 78 del D.P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che “1. Le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni da attuare negli edifici privati dirette ad eliminare le barriere architettoniche di cui all’articolo 27, primo comma, della legge 30.03.1971, n. 118, ed all’articolo 1 del decreto del Presidente della Repubblica 24.07.1996, n. 503, nonché la realizzazione di percorsi attrezzati e la installazione di dispositivi di segnalazione atti a favorire la mobilità dei ciechi all’interno degli edifici privati, sono approvate dall’assemblea del condominio, in prima o in seconda convocazione, con le maggioranze previste dall’articolo 1136, secondo e terzo comma, del codice civile.
2. Nel caso in cui il condominio rifiuti di assumere, o non assuma entro tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le deliberazioni di cui al comma 1, i portatori di handicap, ovvero chi ne esercita la tutela o la potestà di cui al titolo IX del libro primo del codice civile, possono installare, a proprie spese, servoscala nonché strutture mobili e facilmente rimovibili e possono anche modificare l’ampiezza delle porte d’accesso, al fine di rendere più agevole l’accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe delle autorimesse.
3. Resta fermo quanto disposto dagli articoli 1120, secondo comma, e 1121, terzo comma, del codice civile
”.
La predetta disposizione è pressoché identica a quella contenuta nell’art. 2 della legge n. 13 del 1989, come modificata con l’art. 27 della legge n. 220 del 2012.
In primo luogo, va evidenziato che per approvare le innovazioni che sono dirette ad eliminare le barriere architettoniche negli edifici privati basta il voto favorevole di tanti condomini che rappresentino almeno metà del valore dell’intero edificio (cfr. art. 1120 c.c. che rinvia al secondo comma dell’art. 1136 c.c.).
Nella fattispecie de qua, la ricorrente ha affermato –senza smentita sul punto né da parte comunale né dai controinteressati, che hanno però sostenuto di essere proprietari di due terzi del giardino comune (cfr. pag. 2 della memoria difensiva)– di essere proprietaria della metà dell’immobile su cui andrebbe a poggiarsi il montapersone e, quindi, ciò conferma la sussistenza di un titolo idoneo per ottenere il rilascio del permesso di costruire per la realizzazione dell’ascensore (sull’applicabilità della disciplina condominiale anche al c.d. condominio minimo, cfr. Cass. civ., II, 02.03.2017 n. 5329; VI, 03.04.2012, n. 5288).
Difatti, “l’installazione di un ascensore rientra fra le opere dirette ad eliminare le barriere architettoniche, di cui all’art. 27, comma 1, della legge 03.03.1971, n. 118, e all’art. 1, comma 1, del d.P.R. 27.04.1978, n. 384, e perciò costituisce innovazione che, ai sensi dell’art. 2, legge 02.01.1989, n. 13, è approvata dall’assemblea con la maggioranza prescritta dall’art. 1136, comma 2, c.c. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 28920 del 27/12/2011; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8286 del 20/04/2005; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 14384 del 29/07/2004).
Lo stesso art. 2, legge n. 13/1989, stabilisce che, nel caso in cui il condominio rifiuti di assumere, o non assuma entro tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le deliberazioni aventi per oggetto le innovazioni volte all’eliminazione delle barriere architettoniche, i portatori di handicap possono installare, a proprie spese, le strutture occorrenti al fine di rendere più agevole l’accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe dei garages, fermo quanto disposto dagli articoli 1120, comma 4, e 1121, comma 3, c.c. (all’esito delle modifiche introdotte dalla legge 11.12.2012, n. 220)
” (Cass. civ., VI, 09.03.2017, n. 6129).
Pertanto, il rigetto del permesso di costruire appare illegittimo in relazione alla normativa che regola l’attività comunale in materia di rilascio dei titoli edilizi, secondo l’interpretazione giurisprudenziale consolidata.
Difatti sulla base dell’art. 11 del D.P.R. n. 380 del 2001, il Comune nel verificare l’esistenza in capo al richiedente un permesso edilizio di un idoneo titolo di godimento sull’immobile, non deve risolvere eventuali conflitti di interesse tra le parti private in ordine all’assetto proprietario, ma deve accertare soltanto il requisito della legittimazione soggettiva di colui che richiede il permesso.
In tal senso, l’Amministrazione è tenuta a svolgere un livello minimo di istruttoria che comprende l’acquisizione di tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra chi propone l’istanza e il bene giuridico oggetto dell’autorizzazione, senza che l’esame del titolo di godimento operato dalla p.a. costituisca un’illegittima intrusione in ambito privatistico, essendo finalizzato soltanto ad assicurare un ordinato svolgimento delle attività sottoposte al controllo autorizzatorio.
Dunque, sebbene si debba escludere, anche al fine di non aggravare il procedimento, che l’Amministrazione sia tenuta a svolgere complessi e laboriosi accertamenti, non si può prescindere da una verifica minima e di immediata realizzazione, pena un’insufficiente istruttoria (ex multis, Consiglio di Stato, V, 17.06.2014, n. 3096; IV, 06.03.2012, n. 1270; TAR Lombardia, Milano, II, 31.01.2017, n. 235; TAR Campania, Napoli, VIII, 05.11.2015, n. 5137).
Nel caso di specie, quanto evidenziato dalla parte ricorrente in sede procedimentale non poteva che determinare l’Amministrazione a rilasciare il richiesto di permesso di costruire.
4.2. Quanto alle caratteristiche dell’ascensore e alla sua facile rimovibilità, oltre a ciò che è stato evidenziato nella Relazione tecnica allegata al ricorso –in cui si è specificato che il posizionamento e la sua struttura ne rendono agevole la rimozione e non determinano un rilevante sull’immobile (all. 23 al ricorso)– si deve altresì sottolineare come l’eliminazione delle barriere architettoniche che impediscono la piena accessibilità degli edifici, limitando la possibilità per le persone affette da handicap di svolgere pienamente la propria personalità e di avere una normale vita di relazione, attiene ad esigenze di rilievo costituzionale primario, riconducibili anzitutto alle previsioni degli artt. 2 e 3 della Costituzione (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 167 del 10.05.1999).
A fronte della rilevanza di tali interessi, è compito del Comune evidenziare l’eventuale sussistenza di alternative praticabili rispetto all’intervento proposto, altrimenti il diniego puro e semplice risulta illegittimo, tenuto conto del contenuto derogatorio della normativa ordinaria delle disposizioni in materia di abbattimento delle barriere architettoniche (TAR Lombardia, Milano, II, 03.07.2015, n. 1541).
Del resto, la giurisprudenza di legittimità ha recentemente affermato che “l’installazione di un ascensore, allo scopo dell’eliminazione delle barriere architettoniche, realizzata su parte di aree comuni (nella specie, un’area destinata a giardino), deve considerarsi indispensabile ai fini dell’accessibilità dell’edificio e della reale abitabilità dell’appartamento, e rientra, pertanto, nei poteri spettanti ai singoli condomini ai sensi dell’art. 1102 c.c. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 14096 del 03/08/2012).
Di talché, nel valutare il contrasto delle opere, cui fa riferimento l’art. 2 della legge n. 13/1989, con la specifica destinazione delle parti comuni, sulle quali esse vanno ad incidere, occorre tenere conto altresì del principio di solidarietà condominiale, secondo il quale la coesistenza di più unità immobiliari in un unico fabbricato implica di per sé il contemperamento, al fine dell’ordinato svolgersi di quella convivenza che è propria dei rapporti condominiali, di vari interessi, tra i quali deve includersi anche quello delle persone disabili all’eliminazione delle barriere architettoniche, oggetto di un diritto fondamentale che prescinde dall’effettiva utilizzazione, da parte di costoro, degli edifici interessati (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 18334 del 25/10/2012)
” (Cass. civ., VI, 09.03.2017, n. 6129).
Infine, secondo il più recente indirizzo giurisprudenziale, l’installazione di un ascensore all’esterno di un condominio non richiederebbe nemmeno il permesso di costruire, trattandosi della realizzazione di un volume tecnico necessario per apportare un’innovazione allo stabile e non di una costruzione strettamente intesa (cfr. TAR Liguria, I, 29.01.2016, n. 97).
4.3. Ciò determina l’accoglimento anche della predetta censura.
5. In conclusione, il ricorso introduttivo deve essere dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, mentre il ricorso per motivi aggiunti deve essere accolto, con il conseguente annullamento del diniego comunale del 27.06.2016, prot. n. 14981U (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 30.06.2017 n. 1479 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Si possono installare antenne per radioamatori su tetti condominiali senza titolo edilizio.
Le antenne come quella di cui si è dotato il ricorrente possono essere installate senza che sia necessario il rilascio di un titolo edilizio, una nozione che si può derivare con maggiore precisione dopo l’entrata in vigore del d.lvo 2003, n. 259.
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A diversa conclusione non può indurre la menzione operata in motivazione di due norme del regolamento edilizio comunale che imporrebbero l’acquisizione di un titolo edilizio per legittimare l’installazione del manufatto di che si tratta.
Al riguardo va considerato innanzitutto che l’art. 3, comma 2, del dpr 06.06.2001, n. 380 spiega un effetto sulla gerarchia delle fonti del diritto in materia edilizia che inibisce la possibilità di ritenere che un regolamento locale possa considerare un’attività costruttiva in modo differente rispetto ai principi generali posti dalla norma di legge citata.
Oltre a ciò il collegio deve richiamare adesivamente la motivazione della propria ordinanza cautelare (2000, n. 1167) nella parte in cui essa evidenziava l’impossibilità di derivare dalla lettura delle norme di regolamento l’obbligo di acquisizione del titolo edilizio per l’installazione dell’antenna.
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L’impugnazione è relativa ad un atto con cui il comune di Genova ha ingiunto all’interessato la rimozione dell’antenna per radioamatore installata sulla copertura dell’immobile condominiale ubicato in via ... 19. Il bene si eleva per circa undici metri.
In relazione alle censure proposte il collegio deve premettere una considerazione generale e assorbente in ordine alla situazione soggettiva dedotta: risulta infatti dall’esame della prevalente giurisprudenza in argomento (tar Lazio, Latina, 2011/861, tar Abruzzo, Pescara, 2009, n. 207, tar Piemonte, 2002, n. 2156) che le antenne come quella di cui si è dotato il ricorrente possono essere installate senza che sia necessario il rilascio di un titolo edilizio, una nozione che si può derivare con maggiore precisione dopo l’entrata in vigore del d.lvo 2003, n. 259.
La tesi è poi corroborata e non già smentita dalla giurisprudenza citata dalla difesa comunale, posto che le pronunce allegate presuppongono l’intervento autorizzativo della p.a. solo nel caso in cui l’impianto riguardi un sito paesisticamente rilevante, cosa che l’atto in questione non allega si sia verificato.
Ne deriva che, al di là delle censure dedotte, il provvedimento è carente nel presupposto che lo fonda, posto che esso non specifica la ragione per cui in una zona paesisticamente non significativa sarebbe necessario munirsi di un titolo edilizio per installare un’antenna da radioamatore.
A diversa conclusione non può indurre la menzione operata in motivazione di due norme del regolamento edilizio comunale che imporrebbero l’acquisizione di un titolo edilizio per legittimare l’installazione del manufatto di che si tratta.
Al riguardo va considerato innanzitutto che l’art. 3, comma 2, del dpr 06.06.2001, n. 380 spiega un effetto sulla gerarchia delle fonti del diritto in materia edilizia che inibisce la possibilità di ritenere che un regolamento locale possa considerare un’attività costruttiva in modo differente rispetto ai principi generali posti dalla norma di legge citata. Oltre a ciò il collegio deve richiamare adesivamente la motivazione della propria ordinanza cautelare (2000, n. 1167) nella parte in cui essa evidenziava l’impossibilità di derivare dalla lettura delle norme di regolamento l’obbligo di acquisizione del titolo edilizio per l’installazione dell’antenna.
Il ricorso è pertanto fondato e va accolto, conseguendo da ciò la condanna del comune soccombente alle spese di lite sostenute dall’interessato, oneri che vengono liquidati equamente date la natura della controversia e la lontananza nel tempo dei fatti per cui è lite (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 20.06.2017 n. 540 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

febbraio 2017

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATATra soletta e travi lo spazio non è comune. Cassazione. Quando il piano di sopra «occupa» il controsoffitto di quello sottostante deve risarcire il danno e il valore diminuito.
Lo spazio tra le travi e la soletta non è comune: il proprietario di un’unità immobiliare non può occupare con propri manufatti la parte sottostante la sua soletta e invadere lo spazio vuoto esistente tra questa e le travi lignee che la sorreggono. Questo spazio infatti non fa parte integrante del solaio e dunque non è in comunione tra i due appartamenti, l’uno sovrastante all’altro.
Così hanno deciso i giudici supremi della Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 14.02.2017 n. 3893, stabilendo che detto spazio è una volumetria che può essere utilizzata solo da parte del proprietario del piano sottostante: così come il pavimento che si poggia sul solaio appartiene esclusivamente al proprietario dell’abitazione sovrastante, che lo può utilizzare come meglio crede, il volume invece esistente tra le travi e la soletta è parte del soffitto dell’unità sottostante e può dunque essere liberamente utilizzato dal proprietario di questa.
Era successo che a seguito di importanti lavori di ristrutturazione eseguiti in un appartamento, consistiti anche nella sostituzione dell’esistente solaio in legno con altro in latero-cemento, si era abbassato il livello del soffitto del locale sottostante. Il che aveva comportato l’invasione degli spazi vuoti tra l’originario solaio e le travi a vista su cui questo gravava.
S u tale presupposto i giudici di primo e secondo grado, pur riconoscendo l’avvenuto abbassamento della soletta, avevano escluso che ciò avesse comportato una diminuzione della volumetria del locale sottostante in quanto il nuovo solaio aveva occupato il solo comune spazio tra le travi lignee e lo spazio vuoto tra una trave e l’altra.
Di diverso avviso la Cassazione, che ha affermato che la comunione della soletta tra le due unità immobiliari, mentre si estende alle travi aventi la funzione di sostegno e che fanno parte della struttura portante del solaio, non va invece ad interessare lo spazio ricompreso tra queste ed il solaio stesso, che resta pertanto nella piena disponibilità del piano sottostante. Alla riduzione della volumetria del locale corrisponde naturalmente il diritto del suo proprietario di vedersi risarcito il danno, anche in relazione alla riduzione del valore del locale.
La questione risolta dalla Suprema Corte è di frequente ricorrenza nei casi in cui, nel procedere alla ristrutturazione delle cosiddette “abitazioni di ringhiera”, si ricavano all’interno di esse i servizi igienici dapprima esistenti solo in comune con altre abitazioni. Il minimo spessore delle solette in legno non lascia spazio alla posa di tubature, talché queste vengono spesso posizionate nell’intercapedine che si crea tra la soletta e la controsoffittatura che il proprietario della sottostante unità ha ben fissato sulle travi portanti.
I problemi sorgono quando si decide di portare a vista la travatura che caratterizza il soffitto ed ecco che riappare tutto ciò che arbitrariamente è stato posizionato al di sotto della comune soletta. Da qui la decisione della Cassazione
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.02.2017).
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MASSIMA
Il terzo motivo è fondato.
Ed invero, come questa Corte ha già affermato,
il solaio esistente fra i piani sovrapposti di un edificio è oggetto di comunione fra i rispettivi proprietari per la parte strutturale che, incorporata ai muri perimetrali, assolve alla duplice funzione di sostegno del piano superiore e di copertura di quello inferiore, mentre gli spazi pieni o vuoti che accedono al soffitto od al pavimento, e non sono essenziali all'indicata struttura rimangono esclusi dalla comunione e sono utilizzabili rispettivamente da ciascun proprietario nell'esercizio del suo pieno ed esclusivo diritto dominicale (Cass. 2868/1978).
Deve dunque escludersi che la comunione si estenda oltre che alle travi, aventi funzione di sostegno del solaio e che, pacificamente, fanno parte di detta struttura portante (Cass. 13606/2000), allo spazio esistente tra le stesse, integrante volumetria di esclusiva utilizzazione da parte del proprietario del piano sottostante.
Ed invero,
come dal solaio deve essere distinto il pavimento che poggia su di esso, che appartiene esclusivamente al proprietario dell'abitazione sovrastante e che può essere, quindi, da questo liberamente rimosso o sostituito secondo la sua utilità e convenienza (Cass. 7464/1994), cosi pure dev'essere distinto il volume esistente tra le travi, che costituisce il soffitto dell'appartamento sottostante ed è dunque liberamente utilizzabile dal proprietario di questo.

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Assenso dei condomini per sopraelevare l’ultimo piano di un edificio condominiale.
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Concessione edilizia – Sopraelevazione ultimo piano di un edificio condominiale – Assenso proprietari dei piani sottostanti – Non occorre.
Per la sopraelevazione dell'ultimo piano di un edificio condominiale non è necessario l'assenso dei proprietari dei piani sottostanti (1).
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   (1) Ha chiarito il Trga Trento che il diritto di sopraelevare (art. 1127 cod. civ.) spetta ex lege al proprietario dell’ultimo piano dell’edificio, o al proprietario esclusivo del lastrico solare, e non necessita di alcun riconoscimento da parte degli altri condomini. L'art. 1120 cod. civ. trova unicamente applicazione alle innovazioni dirette al miglioramento o all’uso più comodo, ovvero al maggior rendimento, delle cose comuni, regolando le questioni relative alle maggioranze necessarie per la loro approvazione, ma non disciplina affatto il diritto di sopraelevare.
Tale diritto, ricomprendente sia l’esecuzione di nuovi piani sia la trasformazione di locali preesistenti con aumento delle superfici e delle volumetrie (Cass. n. 2865 del 2008), spetta -ove l’ultimo piano appartenga pro diviso a più proprietari- a ciascuno di essi nei limiti della propria porzione di piano, con utilizzazione dello spazio aereo sovrastante la stessa (Cass. n. 4258 del 2006).
I limiti al diritto di sopraelevazione, previsti nei commi 2 e 3 dell’art. 1127 cod. civ., assumono carattere assoluto solo per quanto concerne il profilo statico (nella fattispecie non in discussione) dell’edificio, residuando la possibilità di eventuali opposizioni dei condomini per le diverse ragioni di ordine architettonico o di notevole diminuzione di aria o di luce ai piani sottostanti (Cass. n. 2708 del 1996), in ordine alle quali, tuttavia, le controversie ricadono nella giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di questioni prettamente civilistiche (Cass., S.U., n. 1552 del 1986; Cons. St., sez. V, 21.11.2003, n. 7539), senza compromissioni nella sede amministrativa, ove il rilascio del titolo abilitativo edilizio deve ritenersi conseguibile, nella materia in esame, fatti salvi i diritti dei terzi (Tar Catanzaro, sez. I, 19.11.2015, n. 1749) (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 06.02.2017 n. 45 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
... per l'annullamento del provvedimento a firma del segretario comunale del Comune di Primiero San Martino di Castrozza prot. n. 5892/P di data 15.06.2016 avente ad oggetto “variante alla ce n. n. 18/2012 del 13.04.2012 inerente il progetto di rifacimento e risanamento della copertura della p.m. 4 p.ed. 164 sita in Val di Roda - CC. Tonadico II - esito cec – sospensione del procedimento”, nonché del presupposto parere del 09.06.2016 della Commissione per la pianificazione territoriale e il paesaggio della Comunità di Primiero, nella parte in cui prescrive la produzione del c.d. "Allegato A" per il rilascio del permesso di costruire in variante richiesto dalla ricorrente;
...
La ricorrente, proprietaria di un’unità immobiliare (p.m. 4 p.ed. 167) sita all’ultimo piano di un edificio condominiale, impugna –previa richiesta di sospensione- il provvedimento in epigrafe con cui il Comune di Primiero San Martino di Castrozza ha sospeso la trattazione della domanda di variante -ad una precedente concessione edilizia- inoltrata dall’interessata per la sopraelevazione della porzione di piano che le appartiene.
Il provvedimento di sospensione è stato adottato dall’amministrazione comunale sulla scorta del parere della commissione edilizia con cui l’organo consultivo ha ritenuto necessario l’acquisizione “della liberatoria dei soggetti aventi diritto sulle parti oggetto di intervento in quanto l’intervento proposto si configura nella fattispecie dell’innovazione, così come definita dall’articolo 1120 del codice civile in quanto le modifiche richieste sulla parte comune comportano una trasformazione radicale della medesima, con esecuzione di opere che eccedono il limite della conservazione, dell’ordinaria amministrazione e del godimento della cosa, importandone una modificazione tale che può incidere sull’interesse di tutti i condomini”.
...
2. Ciò posto, il Collegio ritiene che il ricorso sia fondato per le seguenti ragioni.
2.1.
Il diritto di sopraelevare (art. 1127 cod. civ.) spetta ex lege al proprietario dell’ultimo piano dell’edificio, o al proprietario esclusivo del lastrico solare, e non necessita di alcun riconoscimento da parte degli altri condomini. Peraltro, l’art. 1120 cod. civ. trova unicamente applicazione alle innovazioni dirette al miglioramento o all’uso più comodo, ovvero al maggior rendimento, delle cose comuni, regolando le questioni relative alle maggioranze necessarie per la loro approvazione, ma non disciplina affatto il diritto di sopraelevare (cfr. Cass. n. 15504/2000).
2.2.
Tale diritto, ricomprendente sia l’esecuzione di nuovi piani sia la trasformazione di locali preesistenti con aumento delle superfici e delle volumetrie (cfr. Cass. n. 2865/2008), spetta -ove l’ultimo piano appartenga pro diviso a più proprietari- a ciascuno di essi nei limiti della propria porzione di piano, con utilizzazione dello spazio aereo sovrastante la stessa (cfr. Cass. n. 4258/2006).
2.3.
I limiti al diritto di sopraelevazione, previsti nel secondo e terzo comma dell’art. 1127 cod. civ., assumono carattere assoluto solo per quanto concerne il profilo statico (nella fattispecie non in discussione) dell’edificio, residuando la possibilità di eventuali opposizioni dei condomini per le diverse ragioni di ordine architettonico o di notevole diminuzione di aria o di luce ai piani sottostanti (cfr. Cass. n. n. 2708/1996), in ordine alle quali, tuttavia, le controversie ricadono nella giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di questioni prettamente civilistiche (cfr. Cass. SU, n. 1552/1986; Cons. di Stato, n. 7539/2003), senza compromissioni nella sede amministrativa, ove il rilascio del titolo abilitativo edilizio deve ritenersi conseguibile, nella materia in esame, fatti salvi i diritti dei terzi (cfr. Tar Calabria Catanzaro n. 1749/2015).
3. Applicando le surriferite coordinate alla fattispecie, il ricorso si appalesa fondato, anzitutto, per la mancata considerazione ed applicazione, da parte dell’amministrazione, della peculiare disciplina regolante il diritto alla sopraelevazione.
4. Inoltre, dalla disamina dell’estratto progettuale della variante richiesta (doc. 7 fasc. ricorrente) non emerge una soluzione realizzativa contrastante con il diritto a sopraelevare riconosciuto dall’art. 1127 cod. civ., nel mentre i motivi addotti nel parere della Commissione edilizia - su cui è basato il provvedimento di sospensione impugnato - circa una pretesa, e del tutto genericamente esposta, trasformazione radicale della parte comune, non sono corredati da alcuna (necessaria) spiegazione, e sono rimasti viepiù indimostrati nel corso dell’intero giudizio.
5. All’accoglimento del ricorso per le suesposte ragioni consegue l’annullamento degli atti impugnati.

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATANel rilascio di titoli edilizi può ritenersi sufficiente che l’Amministrazione verifichi in capo all’istante l’esistenza di un titolo che formalmente lo legittimi al rilascio del titolo abilitante a suo favore, senza dover procedere ad una accurata e approfondita disamina dei rapporti civilistici o a svolgere complesse ricognizioni giuridico-documentali sul titolo di proprietà o di altro diritto reale che si estenda fino alla ricerca di eventuali fattori limitativi, preclusivi o estintivi del titolo di disponibilità necessario all’intervento, allegato da chi presenta istanza edilizia, ed è proprio questa la ragione per la quale i titoli edilizi vengono rilasciati con la formula "fatti salvi i diritti dei terzi".
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La giurisprudenza, al fine di escludere la sussistenza di una lesione al decoro dell’edificio, ritiene sufficiente che l’innovazione non comporti una rilevante disarmonia al complesso preesistente e che non pregiudichi l'originaria fisionomia estetica dell’edificio determinandone un deprezzamento.
Tali elementi non appaiono sussistere nel caso all’esame atteso che l’ascensore è stato collocato nel punto di minor impatto sull’edificio e dalla strada, mediante il prolungamento di uno sporto già presente nella muratura, con un intervento che non si rivela incompatibile con le caratteristiche e la tipologia edilizia preesistente.

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Con il secondo motivo il ricorrente sostiene che i controinteressati erano privi di legittimazione nel richiedere ed ottenere il titolo edilizio necessario ad intervenire su parti comuni dell’edificio condominiale, perché l’intervento, alterando il decoro dell’immobile, non avrebbe dovuto essere approvato a maggioranza, come è avvenuto nel caso all’esame (è stato approvato a maggioranza di due terzi del condominio rappresentanti complessivi 689,75 millesimi dell’intero edificio, del condominio), ma all’unanimità.
Al fine di comprovare la lesione al decoro il ricorrente allega una relazione del 25.01.2016 dagli stessi commissionata del Prof. Arch. Gi.Gi..
Anche tali censure non possono essere condivise.
Va premesso che nel rilascio di titoli edilizi può ritenersi sufficiente che l’Amministrazione verifichi in capo all’istante l’esistenza di un titolo che formalmente lo legittimi al rilascio del titolo abilitante a suo favore, senza dover procedere ad una accurata e approfondita disamina dei rapporti civilistici o a svolgere complesse ricognizioni giuridico-documentali sul titolo di proprietà o di altro diritto reale che si estenda fino alla ricerca di eventuali fattori limitativi, preclusivi o estintivi del titolo di disponibilità necessario all’intervento, allegato da chi presenta istanza edilizia, ed è proprio questa la ragione per la quale i titoli edilizi vengono rilasciati con la formula "fatti salvi i diritti dei terzi" (ex pluribus cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 04.09.2012, n. 4676; Consiglio di Stato, Sez. IV, 08.06.2011, n. 3508).
Il provvedimento impugnato in ogni caso non si è limitato a considerare l’esistenza della deliberazione condominiale che a maggioranza ha approvato l’intervento, ma, con considerazioni motivate e che appaiono prive di vizi logici, si è spinto ad indicare quali sono i motivi per i quali il Comune ritiene insussistente una lesione al decoro dell’immobile, precisando che si tratta di un edificio che non presenta un particolare pregio e che non è sottoposto né a tutela monumentale, né a grado di protezione dallo strumento urbanistico comunale in base alla caratterizzazione dei valori storici, architettonici, tipologici ed ambientali, che per gli interventi è stata ottenuta l’autorizzazione paesaggistica e che non risultano snaturate le caratteristiche dell’edifico.
La relazione commissionata dal ricorrente del 25.01.2016 del Prof. Arch. Gi.Gi. accede invece ad una non condivisibile nozione di “decoro architettonico” talmente ampia da comportare che ogni modifica alle parti comuni dell’edificio costituisce di per sé un pregiudizio al decoro dello stesso.
Una tale conclusione tuttavia non è in linea con la giurisprudenza, la quale, al fine di escludere la sussistenza di una lesione al decoro dell’edificio, ritiene sufficiente che l’innovazione non comporti una rilevante disarmonia al complesso preesistente e che non pregiudichi l'originaria fisionomia estetica dell’edificio determinandone un deprezzamento, elementi questi che non appaiono sussistere nel caso all’esame atteso che l’ascensore è stato collocato nel punto di minor impatto sull’edificio e dalla strada, mediante il prolungamento di uno sporto già presente nella muratura, con un intervento che non si rivela incompatibile con le caratteristiche e la tipologia edilizia preesistente (peraltro va rilevato che in tal senso sono le conclusioni formulate dal consulente tecnico d’ufficio nel giudizio civile pendente tra le parti: cfr. doc. 1 depositato in giudizio dai controinteressati il 20.10.2016).
L’assunto secondo il quale l’intervento avrebbe dovuto essere approvato all’unanimità anziché a maggioranza dei condomini è pertanto privo di riscontri e deve essere respinto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 10.01.2017 n. 23 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: La lamentata violazione delle distanze dai confini da parte dell’ascensore esterno deve essere respinta.
Invero, trattasi di un vano tecnico necessario al superamento delle barriere architettoniche, cui risulta applicabile la deroga di cui all’art. 79 del DPR 06.06.2001, n. 380, la quale, in base ai criteri interpretativi elaborati dalla giurisprudenza, deve ritenersi applicabile, nella parte in cui prevede interventi volti alla eliminazione delle barriere architettoniche, indipendentemente dalla effettiva utilizzazione degli edifici stessi da parte delle persone in possesso di apposita certificazione di handicap grave, e che rientra anche nella deroga di cui all’art. 12, comma 2, della l.r. 29.11.2013, n. 32, per la quale “gli ascensori esterni e i sistemi di sollevamento realizzati al fine di migliorare l’accessibilità agli edifici sono da considerarsi volumi tecnici, esclusi pertanto dal calcolo del volume o della superficie e soggetti alle norme del codice civile in materia di distanze”.
Parimenti da respingere è la doglianza con la quale il ricorrente lamenta la violazione delle distanze previste dall’art. 907 c.c. dalla propria veduta, in quanto, come è noto, tale norma non trova applicazione in ambito condominiale.

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Anche il terzo motivo con il quale il ricorrente lamenta la violazione delle distanze dai confini da parte dell’ascensore esterno deve essere respinto.
Si tratta infatti di un vano tecnico necessario al superamento delle barriere architettoniche, cui risulta applicabile la deroga di cui all’art. 79 del DPR 06.06.2001, n. 380, la quale, in base ai criteri interpretativi elaborati dalla giurisprudenza, deve ritenersi applicabile, nella parte in cui prevede interventi volti alla eliminazione delle barriere architettoniche, indipendentemente dalla effettiva utilizzazione degli edifici stessi da parte delle persone in possesso di apposita certificazione di handicap grave (in tali termini cfr. Corte Costituzionale 10.05.1999, n, 167; Tar Veneto, Sez. II, 05.04.2007, n. 1122), e che rientra anche nella deroga di cui all’art. 12, comma 2, della legge regionale 29.11.2013, n. 32, per la quale “gli ascensori esterni e i sistemi di sollevamento realizzati al fine di migliorare l’accessibilità agli edifici sono da considerarsi volumi tecnici, esclusi pertanto dal calcolo del volume o della superficie e soggetti alle norme del codice civile in materia di distanze”.
Parimenti da respingere è la doglianza con la quale il ricorrente lamenta la violazione delle distanze previste dall’art. 907 c.c. dalla propria veduta, in quanto, come è noto, tale norma non trova applicazione in ambito condominiale (ex pluribus cfr. Cassazione civile, Sez. II, 30.06.2014, n. 14809).
In definitiva il ricorso e la domanda risarcitoria devono essere respinte (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 10.01.2017 n. 23 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2016
maggio 2016

CONDOMINIOIl lastrico solare resta comune. Condominio. Bocciata la pretesa di un proprietario che reclamava la proprietà esclusiva dopo aver sbarrato l’accesso agli altri.
Per escludere la natura di «parte comune» del lastrico solare non è sufficiente che chi ne reclama la proprietà esclusiva ne avesse precluso l’accesso agli altri condòmini.
Questo il principio espresso dalla Corte di Cassazione -Sez. II civile- con la sentenza 05.05.2016 n. 9035.
La vicenda prende le mosse da una coppia di coniugi che, dopo aver acquistato alcuni appartamenti, conveniva in giudizio la società venditrice, chiedendo che alla stessa venisse ordinata la remissione in pristino del lastrico solare che aveva riservato a sé.
La causa arrivava alla Cassazione che affermava che la natura comune del bene non potesse essere esclusa in alcun modo dal fatto che la società (ora condòmino) avesse privato da alcuni anni gli altri condòmini dell’accesso diretto al bene tramite le scale.
La Corte ricordava anzitutto come il lastrico solare sia inserito esplicitamente tra le «parti comuni» elencate dall’articolo 1117 del Codice civile, e che, in particolare, già una recente decisione (la 4501/2015) della Cassazione aveva così affermato: «La natura condominiale del lastrico solare, affermata dall’art. 1117 Cod. civ., può essere esclusa soltanto da uno specifico titolo in forma scritta, essendo irrilevante che il singolo condòmino non abbia accesso diretto al lastrico, se questo riveste, anche a beneficio dell’unità immobiliare di quel condòmino, la naturale funzione di copertura del fabbricato comune”.
Quindi è stato ribadito che il diritto di condominio sulle parti comuni (quali appunto il lastrico solare) può essere escluso se per le obbiettive caratteristiche del bene serve in modo esclusivo all’uso al godimento di un solo condòmino.
Nel caso affrontato, invece, il lastrico solare non aveva perso la propria natura condominiale, rimanendo infatti “al servizio” quale copertura del fabbricato comune nonostante un solo condòmino avesse materialmente privato gli altri condomini della possibilità di accedervi.
Secondo la Cassazione, inoltre, per vincere la presunzione di comunione delle parti comuni elencate dall’articolo 1117 del Codice civile occorre verificare se se nel primo atto di trasferimento di un unità immobiliare la proprietà del bene potenzialmente rientrante tra le parti comuni sia stata o meno riservata ad uno solo dei contraenti. Cosa che non era affatto avvenuta in questo caso
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

aprile 2016

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAParcheggi, vendite dal 2005. Resta il vincolo pertinenziale se ultimati prima del 16 dicembre.
Spazi privati. Per la Cassazione cessioni vietate a chi è estraneo al condominio.

Il problema dei parcheggi nelle aree urbane continua ad assumere primaria importanza, se si considera anche il susseguirsi di disposizioni normative riguardanti la materia e le molteplici pronunce da parte dei giudici.
Non possono, in ogni caso, essere autorizzate nuove costruzioni se queste non vengono corredate di aree destinate a parcheggio. La misura dell’area da destinare a parcheggio è quella prevista dall’articolo 41-sexies della legge 1150/1942 (e successive modifiche): un metro quadrato ogni dieci metri cubi di costruito.
Spetta alla pubblica amministrazione accertare la conformità degli spazi così destinati alla misura proporzionale stabilita dalla legge.
Con l’entrata in vigore della legge 246/2005 è venuto meno il vincolo di pertinenzialità tra parcheggi costruiti nell’immobile (o nelle aree a esso pertinenti) e le unità immobiliari site nell’immobile stesso, avendo l’articolo 12 della legge eliminato il diritto reale a favore di queste. Così le aree di parcheggio si possano vendere liberamente anche a soggetti estranei al condominio. Tale disposizione conferma comunque l’obiettivo di imporre ai costruttori di unità immobiliari di realizzare adeguati spazi di parcheggio, senza alcun vincolo soggettivo di destinazione in favore di queste.
La norma non è applicabile alle costruzioni e ai relativi parcheggi realizzati prima del 16.12.2005, data di entrata in vigore della legge, perché alla stessa non può attribuirsi alcune effetto retroattivo. In tal senso si è espressa la recente sentenza 22.04.2016 n. 8220 della Corte di Cassazione, Sez. II civile (relatore Antonio Scarpa), sul presupposto che l’articolo 12 della legge 246/2005 «non ha effetto retroattivo, né natura imperativa; ne consegue che nei casi in cui, al momento dell’entrata in vigore della nuova disciplina risultassero già stipulati gli atti di vendita delle singole unità immobiliari, trova applicazione la disciplina anteriore di cui al citato articolo 41-sexies delle legge 1150 del 1942».
Quest’ultima imponeva, per le nuove costruzioni, un vincolo soggettivo di destinazione fra le unità immobiliari e gli spazi di parcheggio, vincolo che impediva la circolazione libera di questi ultimi: box e spazi di parcheggio già di pertinenza di un appartamento sono destinati a restare così per sempre.
La sentenza, soffermandosi in modo analitico sull’operatività dell’articolo 41-sexies e riprendendo concetti già affermati dalla Suprema Corte, ribadisce che si tratta di una norma imperativa e inderogabile, in correlazione degli interessi pubblicistici da essa perseguiti, che opera non soltanto nel rapporto fra il costruttore o proprietario di edificio e l’autorità competente in materia urbanistica, ma anche nei rapporti privatistici riguardanti questi spazi, nel senso di imporre la loro destinazione a uso diretto delle persone che stabilmente occupano le costruzioni o a esse abitualmente accedono.
Non sono ammesse deroghe mediante atti privati di disposizione degli stessi spazi, le cui clausole difformi sono perciò sostituite di diritto dalla medesima norma imperativa, al punto che nel giudizio intercorrente tra gli acquirenti degli immobili illegittimamente privati del diritto all’uso dell’area a parcheggio e i terzi che abbiano acquistato porzioni di tale area, la nullità di cui all’articolo 1418 del Codice civile dei negozi stipulati dai primi, nella parte in cui ha omessa tale inderogabile destinazione, è rilevabile d’ufficio anche in via incidentale.
Sotto tale profilo però precisa che si può giungere alla nullità solo se, al momento della realizzazione degli edifici, il costruttore ha fatto riserva di una ben determinata e identificata area da destinare a parcheggio e sempre che manchi un successivo trasferimento del medesimo spazio su altre aree comunque idonee a tale utilizzazione al momento del rilascio della nuova concessione in variante.
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Usucapione possibile per le aree di sosta. Il caso. Usi non contestati.
La proprietà delle aree interne e circostanti ai fabbricati di nuova costruzione, su cui grava il vincolo pubblicistico di destinazione a parcheggio, può essere acquistata anche per usucapione. Il principio è confermato dalla sentenza 8820/16 con cui i giudici di legittimità confermano che il «possesso utile ai fini di usucapione decorre in danno del proprietario dal momento dell’atto di acquisto, essendo soltanto a far tempo da esso possibile considerare distintamente il diritto dominicale (trasferito) e quello al parcheggio (non trasferito) sull’area destinata a parcheggio».
Per la Cassazione l’usucapione in favore degli acquirenti ha effetto estintivo anche del vincolo pubblicistico di destinazione, stante l’efficacia retroattiva reale dell’usucapione stessa.
Per gli acquisti «a titolo derivativo» invece opera il principio per cui il vincolo di destinazione impresso alle aree destinate a parcheggio non impedisce che il proprietario dell’area possa riservare a sé, o trasferire a terzi, il diritto di proprietà sull’area o su parti di essa, fermo però il succitato diritto d’uso da parte dei proprietari delle unità immobiliari site nel fabbricato
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.05.2016).
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MASSIMA
IV. E' dapprima infondato il decimo motivo di ricorso.
Basta ribadire, in proposito, come, secondo il costante orientamento di questa Corte,
la Part. 12, comma 9, della legge 28.11.2005, n. 246, che ha modificato l'art. 41-sexies della legge 17.08.1942, n. 1150, ed in base al quale gli spazi per parcheggio possono essere trasferiti in modo autonomo rispetto alle altre unità immobiliari, non ha effetto retroattivo, né natura imperativa; ne consegue che nei casi in cui, come quello in esame, al momento dell'entrata in vigore della nuova disciplina risultassero già stipulati gli atti di vendita delle singole unità immobiliari, trova applicazione la disciplina anteriore, di cui al citato art. 41-sexies della legge n. 1150 del 1942 (Cass. 05.06.2012, n. 9090; Cass. 01.08.2008, n. 21003).
V. Il primo ed il secondo motivo del ricorso principale, la cui trattazione unitaria risulta opportuna per la loro connessione, sono invece fondati, per quanto di ragione.
Entrambi i motivi sono radicati sul presupposto della decisività del riscontro dell'efficacia di giudicato (diretto o riflesso) da attribuire alla sentenza della Corte d'Appello di Roma n. 388/1992 (intervenuta a suo tempo tra gli acquirenti degli appartamenti compresi negli edifici siti in Roma, Via ..., n. 685, Via ..., n. 16, e Via ..., n. 4 e la costruttrice S.r.l. Ed.Eg.), nei confronti degli attuali ricorrenti, i quali avevano a loro volta acquistato i posti auto, box e negozi realizzati nell'area da destinare a parcheggio.
A proposito di tale pronuncia, la Corte di merito ha affermato che la stessa non avesse efficacia in senso stretto di giudicato, ma comunque rivelasse "effetto riflesso nei confronti degli appellati, che, pur essendo rimasti estranei al detto giudizio, sono titolari di diritti ed obblighi, dipendenti dalla situazione giuridica definitiva in quel processo".
Ora, è vero che questa Corte ha più volte affermato che una sentenza passata in giudicato, anche quando non possa avere l'effetto vincolante di cui all'art. 2909 c.c., può avere comunque l'efficacia riflessa di prova o di elemento di prova documentale in ordine alla situazione giuridica che abbia formato oggetto dell'accertamento giudiziale, e che tale efficacia indiretta può essere invocata da chiunque vi abbia interesse, spettando al giudice di esaminare la sentenza prodotta a tale scopo e valutarne liberamente il contenuto, anche in relazione agli altri elementi di giudizio rinvenibili negli atti di causa (da ultimo, Cass. 20.02.2013, n. 4241).
Quel che tuttavia fa difetto nel caso in esame, per ravvisare, come fatto dalla Corte di Roma, un'efficacia riflessa della sentenza n. 388/1992 riguardo alle parti di questo giudizio, che a quello culminato nell'invocata pronuncia non parteciparono, è il presupposto della titolarità in capo a questi ultimi di diritti ed obblighi dipendenti dalla situazione giuridica definita in quel primo processo. L'assunto a base della statuizione qui impugnata evidente postula che solo l'efficacia ultra partes di quella sentenza del 1992 possa rendere opponibile agli attuali ricorrenti l'ivi conseguita declaratoria del diritto reale ex lege all'uso del parcheggio.
Vale, all'opposto, un diverso principio, conforme al consolidato orientamento di questa Corte, e nella sostanza seguito dalla stessa pronuncia qui impugnata, per il quale
il vincolo di destinazione impresso agli spazi per parcheggio dall'art. 41-sexies della legge 17.08.1942, n. 1150, secondo il testo introdotto dalla legge 06.08.1967 n. 765, art. 18, norma di per sé imperativa, non può subire deroghe mediante atti privati di disposizione degli stessi spazi, le cui clausole difformi sono perciò sostituite di diritto dalla medesima norma imperativa. Tale vincolo si traduce in una limitazione legale della proprietà, che può essere fatta valere, con l'assolutezza tipica dei diritti reali, nei confronti dei terzi che ne contestino l'esistenza e l'efficacia.
Pertanto
coloro che abbiano acquistato le singole unità immobiliari dall'originario costruttore-venditore, il quale, eludendo il vincolo, abbia riservato a sé la proprietà di detti spazi, ben possono agire per il riconoscimento del loro diritto reale d'uso direttamente nei confronti dei terzi ai quali l'originario costruttore abbia alienato le medesime aree destinate a parcheggio.
In un tale giudizio (qual è quello in esame), intercorrente tra gli acquirenti degli immobili illegittimamente privati del diritto all'uso dell'area pertinente a parcheggio ex art. 18 della legge 06.08.1967, n. 765, ed i terzi che abbiano acquistato porzioni di tale area, la nullità dei negozi stipulati dai primi, nella parte in cui sia stata omessa tale inderogabile destinazione, con conseguente loro integrazione "ope legis", è rilevabile anche "incidenter tantum", sicché non deve necessariamente correlarsi alla verifica della sussistenza e dell'opponibilità, in via immediata o, appunto, riflessa, di un giudicato conseguito nei confronti dell'originario costruttore-venditore.
Come pure,
in un giudizio così congegnato, non si impone nemmeno che sia convenuto il costruttore-venditore, pur spettando a questo l'eventuale diritto (personale) a conseguire l'integrazione del prezzo di acquisto da coloro che agiscano per ottenere il riconoscimento del loro diritto d'uso sugli spazi vincolati a parcheggio (Cass. 14.11.2000, n. 14731; Cass. 25.03.2004, n. n. 5755).
VI. Può poi passarsi all'analisi congiunta del quarto e dell'ottavo motivo di ricorso, anch'essi in logica connessione.
Questi criticano la sentenza della Corte di Roma, ai sensi dell'art. 360, n. 3, 4 e 5, c.p.c., per non aver dato sufficiente rilievo nel suo ragionamento alle concessioni in variante ed in sanatoria, ed ai conseguenti certificati di abitabilità, che accompagnavano i titoli di acquisto degli attuali ricorrenti, provvedimenti che comprovavano il rispetto della destinazione a parcheggio dell'area riservata; e per aver determinato l'asservimento a parcheggio di un'area di mq. 7.354,90, anziché di mq. 6.354,90.
In particolare, è oggetto di doglianza la frase della pronuncia d'appello secondo la quale l'art. 41-sexies della legge n. 1150/1942 "opera nel rapporto tra il costruttore o proprietario di edificio e l'autorità competente in materia urbanistica", sicché quest'ultima "non può porre nel nulla gli atti d'obbligo, formati col Comune dal costruttore, al fine del rilascio della licenza edilizia". Tali patti d'obbligo, secondo quanto illustra la stessa sentenza impugnata a pagina 32, individuavano in mq. 6.354,90 l'area da destinare a parcheggio. Il Tribunale ha invece determinato in mq. 7.354,90 la stessa area, disponendo il prosieguo istruttorio per individuare tramite CTU consistenza e posizione di quest'area.
I due motivi sono parzialmente fondati, per quanto di ragione.
Non esiste il denunciato vizio di ultrapetizione in quanto la normativa urbanistica, dettata dall'art. 41-sexies della legge n. 1150 del 1942, si limita a prescrivere, per i fabbricati di nuova costruzione, una misura proporzionale alla cubatura totale dell'edificio da destinare obbligatoriamente a parcheggi, pari ad un metro quadrato per ogni venti metri cubi di costruito, secondo i parametri applicabili per l'epoca dell'edificazione. Tale misura proporzionale è imposta dalla legge, sicché l'eventuale metratura prospettata dalla parte con l'atto introduttivo di un giudizio volto al riconoscimento del diritto d'uso a parcheggio ha solo valore indicativo, per cui non incorre in ultrapetizione il giudice che, sulla base delle risultanze processuali, determini l'estensione della relativa area in misura pure diversa e maggiore da quella inizialmente quantificata dall'istante.
Per la concreta attuazione, invece, della costituzione del diritto reale di uso per parcheggio, soltanto in assenza di relativa previsione nell'atto concessorio, o nel regolamento condominiale, o negli atti di acquisto dei singoli appartamenti, è consentito chiedere al giudice tale identificazione (Cass. 11.08.1997, n. 7474). Ai fini del rispetto del vincolo di destinazione impresso agli spazi per parcheggio dall'art. 41-sexies citato, infatti, il rapporto tra la superficie delle aree destinate a parcheggio e la volumetria del fabbricato, così come richiesto dalla legge, va effettivamente verificato a monte dalla P.A. nel rilascio della concessione edilizia.
La rimozione del vincolo a parcheggio sulle aree individuate in sede di rilascio della concessione edilizia come condizione essenziale per lo stesso rilascio, può tuttavia avvenire tramite una nuova concessione in variante, al fine di trasferirlo su altre zone riconosciute idonee. L'art. 41-sexies della Legge urbanistica opera, pertanto, come norma di relazione nei rapporti privatistici e come norma di azione nel rapporto pubblicistico con la P.A., la quale non può autorizzare nuove costruzioni che non siano corredate di dette aree, costituendo l'osservanza della norma condizione di legittimità della licenza (o concessione) di costruzione, e alla quale esclusivamente spetta l'accertamento della conformità degli spazi alla misura proporzionale stabilita dalla legge e della loro idoneità ad assicurare concretamente la prevista destinazione.
Manca, pertanto, nel ragionamento seguito dalla Corte di Roma, la verifica, sollecitata dagli appellanti, dell'eventuale adeguato trasferimento dello spazio destinato a parcheggio, inizialmente fissato coi patti d'obbligo ed impressa nella concessione, su altre aree comunque idonee a tale utilizzazione, il che, come ora ricordato, ben può avvenire mediante il rilascio di una nuova concessione in variante (quali quelle dedotte dagli attuali ricorrenti), non avendo il giudice ordinario il potere di attribuire agli acquirenti di singole unità immobiliari il diritto di impiegare come parcheggio uno spazio, pur se di proprietà del costruttore-venditore, in tutto o in parte diverso da quello destinato a tale uso, secondo la prescrizione della concessione edilizia, originaria o in variante (cfr. Cass. 30.07.1999, n. 6894; Cass. 14.11.2000, n. 14731; Cass. 05.05.2003, n. 6751; Cass. 13.01.2010, n. 378).
Sempre questa Corte ha affermato come
gli spazi che debbono essere riservati a parcheggio ex art. 41-sexies possono essere ubicati indifferentemente nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle stesse, trattandosi di modalità entrambe idonee a soddisfare l'esigenza, costituente la "ratio" della norma, di deflazione della domanda di spazi per parcheggio nelle aree destinate alla pubblica circolazione, non essendo, peraltro, consentito al giudice di sindacare le scelte compiute in proposito dalla P.A. (Cass. 22.02.2006, n. 3961).
Quanto, infine, alla rilevanza da attribuire nella presente lite agli atti d'obbligo intercorsi tra la società costruttrice e il Comune di Roma, torna utile richiamare l'insegnamento espresso reiteratamente da questa Corte, in forza del quale l'atto con il quale un proprietario-costruttore si sia impegnato nei confronti del Comune, ai fini del rilascio della concessione edilizia, a conferire una particolare destinazione a determinate superfici, non è riconducibile alla figura del contratto a favore di terzi, di cui all'art. 1411 c.c., sia perché non costituisce un contratto di diritto privato, sia perché non ha neppure la specifica autonomia e natura di fonte negoziale di un regolamento dei contrapposti interessi delle parti stipulanti, caratterizzandosi, piuttosto, come atto intermedio del procedimento amministrativo volto al conseguimento del provvedimento concessorio finale, dal quale promanano soltanto poteri autoritativi della P.A. e non la possibilità per i terzi privati di accampare diritti sulla sua base.
Ne consegue che,
per il rispetto dell'obbligo di destinazione assunto dal proprietario-costruttore, salva l'ipotesi che esso sia stato trasfuso in una disciplina negoziale all'atto del trasferimento della singola unità immobiliare da lui realizzata, i singoli condomini non hanno alcuna azione, fermo il diritto al risarcimento del danno qualora l'inosservanza dell'obbligo concreti una violazione delle norme urbanistiche (Cass. 20.11.2006, n. 24572; Cass. 23.02.2012, n. 2742).
VII. Sono parzialmente fondati, per quanto di ragione, altresì, il terzo, il sesto ed il settimo motivo di ricorso, da trattare congiuntamente sempre perché connessi.
La Corte d'appello ha, in estrema sintesi e facendo salve le diversità delle singole posizioni scrutinate, riconosciuto in favore degli appellanti principali ed incidentali l'acquisto dei rispettivi beni per usucapione decennale, fermo restando il vincolo di destinazione a parcheggio.
Ora, questa Corte ha effettivamente più volte riconosciuto come "
la proprietà delle aree interne o circostanti ai fabbricati di nuova costruzione, su cui grava il vincolo pubblicistico di destinazione a parcheggio, può essere acquistata per usucapione, non comportandone tale vincolo indisponibilità, inalienabilità e incommerciabilità" (Cass. 15.11.2002, n. 16053; Cass. 07.06.2002, n. 8262).
Tale possesso utile a fini di usucapione decorre in danno del proprietario dal momento dell'atto di acquisto, essendo soltanto a far tempo da esso possibile considerare distintamente il diritto dominicale (trasferito) e quello al parcheggio (non trasferito) sull'area destinata a parcheggio.
Non è stata oggetto di censura la sentenza impugnata nella parte in cui la stessa ha riconosciuto l'usucapione abbreviata ex art. 1159 c.c. in favore degli appellanti. La soluzione adottata avrebbe dovuto indurre, in verità, ad affrontare il profilo della configurabilità dell'usucapione decennale, ai sensi dell'art. 1159 c.c., in favore di colui che abbia acquistato, come nella specie, un'area di parcheggio asseritamente vincolata al diritto d'uso "ex lege", quanto, in particolare, alla sussistenza del requisito del titolo idoneo a trasferire la proprietà, trattandosi di atto nullo per contrarietà a norme imperative (cfr., in senso contrario all'ammissibilità, Cass. 24.05.2013, n. 12996).
La questione è tuttavia sottratta all'esame di questa Corte giacché, come detto, non oggetto di gravame. Ora, è evidente che la ravvisata usucapione in favore dei terzi acquirenti dell'area di parcheggio, a differenza di quanto afferma la sentenza della Corte di Roma, avrebbe effetto estintivo anche del vincolo pubblicistico di destinazione, in forza dell'efficacia retroattiva reale dell'usucapione stessa.
Quanto, viceversa, agli acquisti a titolo derivativo, opera davvero il principio per cui
il vincolo di destinazione impresso alle aree destinate a parcheggio, interne o circostanti ai fabbricati di nuova costruzione, di cui all'art. 41-sexies, legge n. 1150 del 1942, non impedisce che il proprietario dell'area possa riservare a sé, o trasferire a terzi, il diritto di proprietà sull'intera area, o su parti di essa, fermo restando il succitato diritto d'uso da parte dei proprietari delle unità immobiliari site nel fabbricato (Cass. 24.11.2003, n. 17882;  Cass. 27.12.2011, n. 28950).
Tuttavia, nella vicenda oggetto di questo giudizio, perché si possa correttamente affermare la nullità ex art. 1418 c.c. di quella parte dei contratti di compravendita immobiliare nella quale al trasferimento della proprietà sulle singole porzioni dell'edificio non si era accompagnato anche quello della proprietà o, quanto meno, del diritto reale d'uso sulle pertinenziali porzioni dello spazio riservato al parcheggio degli edifici di Via ..., n. 685, Via ..., n. 16, e Via ..., n. 4, occorre accertare:
   1) l'avvenuta riserva, al momento della realizzazione di tali edifici, all'interno degli atti d'obbligo intercorsi tra la società costruttrice e il Comune di Roma, se richiamati dagli atti di trasferimento delle singola unità immobiliari, e della concessione edilizia, di una determinata ed identificata area da destinare a parcheggio, come richiesto dalla Legge urbanistica;
   2) il mancato successivo trasferimento del medesimo spazio destinato a parcheggio nei patti d'obbligo e nella concessione, su altre aree comunque idonee a tale utilizzazione al momento del rilascio della nuova concessione in variante.
Solo, infatti, la determinazione di uno preciso spazio, interno od esterno agli edifici, idoneo ad essere utilizzato a scopo di parcheggio, e la successiva stipulazione d'atti di compravendita delle singole porzioni immobiliari con espressa esclusione o mancata menzione del contestuale trasferimento della proprietà o del diritto reale d'uso sulle pertinenziali porzioni del detto spazio riservato, consentono di pervenire alla dichiarazione di nullità di quegli atti.
Ove sia, diversamente, accertato che, pur previsto negli atti d'obbligo e nella concessione edilizia, lo spazio da adibire a parcheggio non sia stato affatto riservato a tal fine in corso di costruzione e sia stato impiegato, invece, per realizzarvi manufatti od opere d'altra natura (quali, nella specie, negozi) da destinare a diversa utilizzazione (ipotesi, cioè diversa, da quella in cui allo spazio realizzato conformemente al progetto sia stata successivamente data una diversa destinazione in sede di vendita), non può dirsi nemmeno mai costituito il rapporto di pertinenzialità ex lege voluto dalla legge urbanistica, sicché non può ravvisarsi la nullità parziale dei contratti di vendita aventi ad oggetto quei diversi manufatti, né farsi luogo a tutela ripristinatoria per ottenere la realizzazione ex novo dello spazio da destinare a parcheggio non riservato in corso d'edificazione, ammettendosi unicamente una tutela risarcitoria (Cass. 18.04.2003, n. 6329; Cass. 05.05.2009, n. 10341).
Secondo i principi generali di allocazione dell'onere istruttorio, spetta in ogni caso agli attori, i quali deducano la nullità degli atti di acquisto da parte di terzi di un'area di parcheggio vincolata al diritto d'uso ex art. 41-sexies Legge urbanistica, di provare che i beni oggetto di tali alienazioni siano compresi nell'ambito ben delimitato da tale norma (ovvero nell'apposito spazio riservato per parcheggio in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni venti metri cubi di costruzione, concretamente destinato a tal fine in sede di realizzazione del fabbricato), in quanto elemento costitutivo del loro asserito diritto, giacché ogni spazio ulteriore è completamente svincolato da detta disciplina e può, quindi, essere liberamente venduto, locato o costituire oggetto di altri negozi giuridici (Cass. 23.01.2006, n. 1221).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAIl condominio stoppa la Scia. No all'ok al locale hot travestito da circolo culturale. I casi in cui i rapporti di vicinato arrivano davanti al Tar a causa di atti del comune.
Il Tar riporta la pace in condominio. Le liti fra vicini finiscono davanti al giudice amministrativo, invece che ordinario, quando un provvedimento del comune può mettere fine ai litigi nello stabile. Ma può anche darsi che a far scoppiare la guerra sia stato proprio un atto dell'ente, per esempio la Scia troppo frettolosa che dà l'ok a operare nel palazzo a un inquilino davvero scomodo: il night a luci rosse travestito da circolo culturale.
Ecco allora che il condominio fa annullare la verifica di inizio attività del locale perché il sopralluogo dell'amministrazione è stato insufficiente.

È quanto emerge dalla sentenza 12.04.2016 n. 4333, pubblicata della Sez. II-ter del TAR Lazio-Roma.
Interessi delicati. Al piano terra del fabbricato si è installato un vero e proprio sexy night club, con tanto di lap dance. Ma il condominio impugna la Scia di trasferimento del presunto circolo, che nella sede precedente era qualificato anche formalmente come locale pubblico. I residenti sospettano che il tesseramento all'ingresso sia solo un espediente per bypassare il regolamento condominiale e il suo divieto di affittare locali nel palazzo a chi fa spettacoli.
Eppure dopo le verifiche del comune le attività svolte nei locali sono state dichiarate compatibili con la natura di associazione culturale. Il ricorso del condominio è accolto perché l'amministrazione deve accertare se al piano più basso dell'edificio si tengono davvero show senza autorizzazioni e licenze di polizia.
Controlli a sorpresa. Decisive le prove portate dal condominio: è massiccia la campagna pubblicitaria dell'associazione che promuove i numeri di strip tease anche su internet. Sussiste dunque l'offerta al pubblico di un genere di intrattenimento riconducibile alla nozione di pubblico spettacolo, con l'inevitabile corollario di un rumoroso pubblico sgradito ai residenti.
Il comune non riesce a smentire l'attendibilità delle indicazioni provenienti dalla controparte. E invia anche controlli a sorpresa: gli interessi in gioco sono molto delicati per la natura dell'attività che si tiene nei locali e l'intervento dell'amministrazione risulta doveroso perché si tratta di questioni che investono la pubblica sicurezza. All'ente locale non resta che pagare le spese di lite.
Sfera giuridica. Passiamo a un altro vicino sgradito: l'autolavaggio. Fra spazzoloni e lance a spruzzo i residenti non ce la fanno più. Chi vive o lavora in zona ha diritto di verificare se l'impianto è autorizzato a svolgere attività tanto rumorose. E il comune deve mettere a disposizione dei confinanti il titolo in base al quale opera l'impresa che disturba il riposo e le occupazioni: non risulta necessaria l'intenzione di fare causa all'azienda.
È quanto emerge dalla sentenza 01.04.2015 n. 4909, pubblicata dalla Sez. II-bis del TAR Lazio-Roma.
Già in passato si è scoperto che l'autolavaggio fracassone non aveva diritto a utilizzare l'aspirapolvere. Ora i confinanti vogliono sapere se l'impianto ha ricevuto qualche altro permesso o continua a operare nell'illegalità. E non c'è bisogno di scomodare «l'informazione ambientale» di cui al decreto legislativo 195/2005: basta la legge sulla trasparenza così come modificata nel 2009. Chi abita vicino all'impianto ha un interesse qualificato ad accedere ai documenti per evitare un danno alla sua sfera giuridica.
Addio barbecue. Infine: il giudice spegne il barbecue. Stop al forno del confinante che è stato realizzato senza permesso di costruire ma solo con la Scia in sanatoria: il vicino ottiene l'annullamento del provvedimento autorizzatorio mettendo fine ai fumi molesti che invadono casa sua, specie nel weekend.
È quanto emerge dalla sentenza 24.09.2015 n. 900, pubblicata dal TAR Calabria-Reggio Calabria.
In ambito urbanistico il concetto di pertinenza del cespite risulta più restrittivo che in campo civile e non si può invocare quando manca un rapporto di stretta consequenzialità con l'immobile principale: la fornace è una costruzione autonoma che ha bisogno della concessione (articolo ItaliaOggi Sette del 09.05.2016).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAIl posto auto spetta solo se previsto nel progetto edilizio. Contenzioso. I diritti di chi acquista.
Chi compra un appartamento in condominio ha diritto all’area parcheggio solamente se questa esiste nella struttura, altrimenti gli spetta un risarcimento.
La sentenza 11.04.2016 n. 7065, Sez. II civile della Corte di Cassazione, è intervenuta sul caso di due fratelli, convenuti in giudizio da un terzo condòmino, che affermava come –in una compravendita tra gli stessi– essi avessero illegittimamente occupato tutta l’area parcheggio condominiale.
I due proprietari chiamati in giudizio si difendevano specificando come, in base alle leggi, all’acquisto di un immobile in condominio un’area andasse destinata a parcheggio esclusivo, a prescindere dalla sua preesistenza.
La Suprema Corte ha chiarito l’applicabilità al caso concreto della legge 765/1967 che all’articolo 18 afferma che «nelle nuove costruzioni e anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore a un metro quadrato per ogni 20 metri cubi di costruzione» e specifica che l’eventuale contratto di compravendita di un immobile in condominio sprovvisto dell’area parcheggio sarebbe stato affetto da nullità parziale.
La disciplina dei parcheggi condominiali prevede svariati oneri: in capo al venditore, quello di prevedere questa pertinenza nel contratto di vendita (Cassazione, sentenza 5755/2004), per il costruttore del palazzo, invece, di dotare il condominio di una serie di parcheggi di metratura sufficiente a servire tutte le abitazioni (Cassazione, sentenza 3961/2006) e –da ultimo– per la pubblica amministrazione, di effettuare un controllo sui progetti di costruzione degli stabili e verificare se essi hanno predisposto parcheggi sufficienti a servire le costruende unità immobiliari (Cassazione, sentenza 378/2010).
In conclusione, quindi, l’acquirente ha diritto a vedersi riconosciuto il diritto all’area parcheggio, a condizione però che essa esista, dato che, come specifica la Cassazione «l’effettiva esistenza di uno spazio destinato a parcheggio proporzionato alla cubatura totale dell’edificio nel provvedimento abilitativo all’edificazione è condizione per il riconoscimento giudiziale del diritto reale al suo uso da parte degli acquirenti delle singole unità immobiliari del fabbricato».
In caso, quindi, di mancanza dell’area non si potrà domandare al giudice una tutela reale, ma solo risarcitoria verso il proprio venditore, il costruttore dello stabile o –addirittura– verso la pubblica amministrazione in caso si sia resa colpevole di un mancato controllo sui progetti e abbia autorizzato la costruzione del palazzo condominiale senza le aree parcheggio previste dalla legge
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.05.2016).
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MASSIMA
10. I primi due motivi, congiuntamente esaminati per la loro connessione, si rivelano 'infondati'.
10.1. Quanto al primo rilievo dedotto, il motivo non attinge la ratio decidendi sottesa alla sentenza impugnata.
Invero, la corte d'appello salernitana, prendendo le mosse dal tenore dell'atto di compravendita intercorso tra La.Vi. ed El.Gi. (il quale prevedeva, tra l'altro, che il trasferimento avesse altresì ad oggetto, oltre all'appartamento, "ogni accessorio, accessione, dipendenza, pertinenza ... così come pervenuto alla parte venditrice"), ha dato per assodato che la quota parte dell'area destinata a parcheggio trasferita dalla Immobiliare Fi. alla El. fosse pari, a seguito dell'atto di rettifica del 22.11.1972, a mq. 21,24 (anziché a mq. 52,14, come concordato con l'atto notarile del 27.10.1972).
Tanto è vero che, con riferimento esclusiva a questa ridotta area, ha riconosciuto al La. il diritto reale d'uso sulla quota parte di dimensioni di mq. 14,58 di pertinenza dell'appartamento acquistato con l'atto pubblico del 20.12.1990 (quale porzione del più ampio box di mq. 21,24).
Da ciò consegue che non ricorrevano i presupposti affinché il La. individuasse nei contraenti del contratto di compravendita del 27.10.1972 i soggetti legittimati sul piano passivo a soddisfare la sua pretesa.
In ogni caso, il Tribunale di Salerno, per come riportato nello stesso ricorso, si era limitato ad affermare che fu proprio l'atto di rettifica del 22.11.1972 ad aver concretato un "atto contra legem", e che "la palese nullità di esso andava dedotta .... nei confronti di diversi soggetti, e comunque non solo della El.Gi.". Si trattava, pertanto, di affermazione resa "incidenter tantum" e quindi sottratta all'efficacia del giudicato, anche perché la necessità di statuire con tale efficacia sul punto avrebbe comportato l'esigenza di integrità del contraddittorio, invece esclusa dal Tribunale proprio in relazione all'oggetto della domanda proposta.
D'altro canto, ed ancora, la preventiva declaratoria di nullità dell'atto di rettifica del 22.11.1972 non è condizione indispensabile per pervenire alla conseguente invalidità della compravendita stipulata il 10.12.1990, oggetto di questa causa.
Il vincolo di destinazione impresso agli spazi per parcheggio dall'art. 41-sexies della legge 17.08.1942, n. 1150, secondo il testo introdotto dall'art. 18 della legge 06.08.1967, n. 765, norma di per sé imperativa, non può subire deroghe mediante atti privati di disposizione degli stessi spazi, le cui clausole difformi sono perciò sostituite di diritto dalla medesima norma imperativa.
Tale vincolo si traduce in una limitazione legale della proprietà, che può essere fatta valere, con l'assolutezza tipica dei diritti reali, nei confronti dei terzi che ne contestino l'esistenza e l'efficacia. Pertanto in un giudizio (qual è quello in esame), intercorrente tra l'acquirente di un immobile che si assume illegittimamente privato del diritto all'uso dell'area pertinente a parcheggio ex art. 18 della legge 06.08.1967, n. 765, ed un terzo che abbia acquistato porzione di tale area, la nullità del negozio stipulato da quest'ultimo, nella parte in cui sia stata omessa tale inderogabile destinazione, con conseguente integrazione "ope legis", non deve necessariamente correlarsi alla preventiva dichiarazione di nullità dell'atto di vendita intercorso con l'originario costruttore-venditore (argomenta da Cass. 14.11.2000, n. 14731; Cass. 25.03.2004, n. n. 5755).
10.2. Con riferimento all'asserito giudicato formatosi sulla statuizione del Tribunale in virtù della quale comunque al La. sarebbe stato trasferito il diritto di usufruire del parcheggio nell'area comune condominiale (id est, della quota condominiale dell'area di parcheggio), va ricordato che il giudicato non si estende ad ogni proposizione contenuta in una sentenza con carattere di semplice affermazione incidentale, atteso che per aversi giudicato implicito è necessario che tra la questione decisa in modo espresso e quella che si vuole tacitamente risolta sussista un rapporto di dipendenza indissolubile, e dunque che l'accertamento contenuto nella motivazione della sentenza attenga a questioni che ne costituiscono necessaria premessa ovvero presupposto logico indefettibile (Cass. 05.07.2013, n. 16824).
Nel caso di specie, anche a voler prescindere dal fatto che lo stesso Tribunale di Salerno ha espressamente (cfr. pag. 10 del ricorso) chiarito che "per inciso" formulava l'ulteriore considerazione secondo cui l'area di parcheggio, all'origine, era stata compresa tra i beni condominiali poi ceduti pro quota al La. con l'atto del 1994, è evidente che tra questa affermazione e la questione assorbente che aveva indotto il giudice di primo grado a rigettare la domanda attorea (quella per cui l'attore avrebbe dovuto semmai chiedere -nei confronti di altri soggetti- la nullità dell'atto di rettifica con il quale la sua dante causa aveva accettato la riduzione della quota ideale dell'area di parcheggio spettante ai due appartamenti da lei originariamente acquistati) non è configurabile alcun rapporto di dipendenza indissolubile.
L'affermazione del Tribunale di Salerno "sinallagma contrattuale che comunque, per inciso, non deve essere riequilibrato, in quanto l'area di parcheggio, all'origine, fu compresa tra i beni condominiali, che risultano ceduti pro quota al La." appare enunciazione puramente incidentale, ovvero considerazione priva di relazione causale col deciso, e perciò sottratta all'autorità del giudicato, la quale è circoscritta oggettivamente in conformità alla funzione della pronunzia giudiziale, diretta a dirimere la lite nei limiti delle domande proposte.
11. Il terzo ed il quarto motivo, anch'essi esaminati congiuntamente per evidenti ragioni di connessione, risultano, invece, fondati per quanto di ragione.
Quanto al primo profilo, va rilevato che la corte d'appello ha considerato che la dante causa aveva legittimamente alienato al germano l'intera area parcheggio in precedenza acquistata, e per questa ragione ha dichiarato la nullità, sia pure parziale, della compravendita intercorsa tra i due germani.
Secondo la consolidata elaborazione di questa Corte, invero,
nel fabbricato condominiale di nuova costruzione ed anche nelle relative aree di pertinenza, ove il godimento dello spazio per parcheggio -nella misura di un metro quadrato per ogni venti metri cubi di costruito, ai sensi della norma imperativa ed inderogabile di cui all'art. 41-sexies della legge n. 1150 del 1942, introdotto dall'art.18 della legge n. 765 del 1967- non sia assicurato in favore del singolo condomino, essendovi un titolo contrattuale che attribuisca ad altri la proprietà dello spazio stesso, si ha nullità di tale contratto, nella parte in cui sia omessa tale inderogabile destinazione, con integrazione "ope legis" del contratto tramite riconoscimento di un diritto reale di uso di detto spazio in favore del condomino, nella misura corrispondente ai parametri della disciplina normativa applicabile per l'epoca dell'edificazione (Cass. 24.11.2003, n. 17882; Cass. 27.12.2011, n. 28950).
Alla nullità del contratto di compravendita di unità immobiliari, nella parte in cui risulti sottratta (mediante riserva al venditore o trasferimento a terzi) la superficie destinata all'inderogabile funzione di parcheggio, consegue l'integrazione della convenzione negoziale "ope legis", con l'attribuzione, in favore dell'acquirente dell'unità immobiliare, del diritto reale d'uso di tale area, e, in favore dell'alienante, del corrispettivo ulteriore (da concordarsi tra le parti, o, in difetto, da determinarsi dal giudice), così ripristinando direttamente l'equilibrio del sinallagma contrattuale (Cass. 18.04.2000, n. 4977).
Coerentemente con tale impostazione, la corte di merito ha dichiarato la nullità parziale dell'atto del 10.12.1990 nella parte relativa al trasferimento "integrale" dell'area destinata a parcheggio all'acquirente El.Li.
D'altra parte, la ricorrente evidenzia (cfr. pagg. da 7 a 9 del ricorso) che il Ctu nominato dal Tribunale, le cui conclusioni venivano accolte nella sentenza di primo grado, avesse accertato che l'area da riservare a parcheggio proporzionata alla volumetria dei due appartamenti interno 10 e interno 11, in origine acquistati da Gi.El., doveva essere pari a mq. 34,80, mentre la zona coperta da questa ricevuta era pari soltanto a mq. 21,24, perciò mancando mq. 13,56 alla quota di legge. Lo stesso perito aveva quindi stimato in mq. 10,90 il diritto alla quota ideale dell'area di parcheggio spettante ad El.Li., traendo la conseguenza che, almeno con riferimento ai residui mq. 10,34, El.Gi. avesse sottratto l'area alla sua destinazione per quanto concerne l'altro appartamento di cui si era riservata la proprietà (e che poi ha ceduto al La.).
E' quindi incontroverso che l'area residua riconosciuta a Giuliana Elefante con l'atto di rettifica del 22.11.1972 (pari complessivamente a mq. 21,24) non garantisse a nessuno dei due appartamenti, poi da questa alienati a diversi soggetti, i parametri plano-volumetrici previsti dalla legge urbanistica. Il controricorrente ribadisce in questa sede come tale area di parcheggio, per quanto insufficiente rispetto ai criteri di legge, non fosse stata asservita in quell'atto di rettifica all'uno o all'altro degli appartamenti, e perciò ne pretende una quota.
Ora, secondo consolidata interpretazione giurisprudenziale,
la norma dettata dall'art. 41-sexies della legge n. 1150 del 1942, si limita a prescrivere, per i fabbricati di nuova costruzione, una misura proporzionale alla cubatura totale dell'edificio da destinare obbligatoriamente a parcheggi, pari ad un metro quadrato per ogni venti metri cubi di costruito, secondo i parametri applicabili per l'epoca dell'edificazione.
Per la concreta attuazione, invece, della costituzione del diritto reale di uso per parcheggio, soltanto in assenza di relativa previsione nell'atto concessorio, o nel regolamento condominiale, o negli atti di acquisto dei singoli appartamenti, è consentito chiedere al giudice tale identificazione (Cass. 11.08.1997, n. 7474).
Ai fini del rispetto del vincolo di destinazione impresso agli spazi per parcheggio dall'art. 41-sexies citato, infatti, il rapporto tra la superficie delle aree destinate a parcheggio e la volumetria del fabbricato, così come richiesto dalla legge, va effettivamente verificato a monte dalla P.A. nel rilascio della concessione edilizia (cfr. Cass. 30.07.1999, n. 6894; Cass. 14.11.2000, n. 14731; Cass. 05.05.2003, n. 6751; Cass. 13.01.2010, n. 378).
Sempre questa Corte ha affermato come gli spazi che debbono essere riservati a parcheggio ex art. 41-sexies possono essere ubicati indifferentemente nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle stesse, trattandosi di modalità entrambe idonee a soddisfare l'esigenza, costituente la "ratio" della norma, di deflazione della domanda di spazi per parcheggio nelle aree destinate alla pubblica circolazione, non essendo, peraltro, consentito al giudice di sindacare le scelte compiute in proposito dalla P.A. (Cass. 22.02.2006, n. 3961).
Ed allora, nella vicenda oggetto di questo giudizio, perché si possa correttamente affermare la nullità parziale ex art. 1418 c.c. dell'atto pubblico del 10.12.1990, come affermato dalla Corte d'Appello di Salerno, riconoscendo al La. il diritto reale d'uso sull'area di parcheggio occorre accertare l'avvenuta riserva, al momento della realizzazione dell'edificio di via ..., n. 21, di Salerno, all'interno della concessione edilizia, di una sufficiente ed individuata area da destinare a parcheggio, come richiesto dalla Legge urbanistica.
Solo, infatti, la determinazione di uno preciso spazio, interno od esterno all'edificio, idoneo ad essere utilizzato a scopo di parcheggio, e la successiva stipulazione di un atto di compravendita della singola porzione immobiliare con espressa esclusione o mancata menzione del contestuale trasferimento della proprietà o del diritto reale d'uso sulle pertinenziali porzioni del detto spazio riservato, consentono di pervenire alla dichiarazione di nullità di quell'atto.
Ove sia, diversamente, accertato che, pur previsto nella concessione edilizia, lo spazio sufficiente da adibire a parcheggio secondo le proporzioni di legge, non fosse stato affatto riservato in corso di costruzione o fosse stato impiegato, invece, per realizzarvi opere d'altra natura da destinare a diversa utilizzazione (ipotesi, cioè diversa, da quella in cui allo spazio realizzato conformemente al progetto fosse stata successivamente data una diversa destinazione in sede di vendita), non può dirsi nemmeno mai costituito il rapporto di pertinenzialità ex lege voluto dalla legge urbanistica, sicché non può ravvisarsi la nullità parziale dei contratti di vendita aventi ad oggetto quello spazio, né farsi luogo a tutela ripristinatoria per ottenere la realizzazione ex novo dello spazio da destinare a parcheggio non riservato in corso d'edificazione, ammettendosi unicamente una tutela risarcitoria.
In sostanza,
l'effettiva esistenza di uno spazio destinato a parcheggio proporzionato alla cubatura totale dell'edificio nel provvedimento abilitativo all'edificazione è condizione per il riconoscimento giudiziale del diritto reale al suo uso da parte degli acquirenti delle singole unità immobiliari del fabbricato (Cass. 18.04.2003, n. 6329; Cass. 22.02.2006, n. 3961; Cass. 07.05.2008, n. 11202; Cass. 11.02.2009, n. 3393; Cass. 05.05.2009, n. 10341; Cass. 08.08.2014, n. 17813).
Non è corretto, quindi, riconoscere un diritto reale di uso in favore del La. in una misura comunque non corrispondente ai parametri di cui all'art. 41-sexies della legge n. 1150 del 1942, in modo soltanto da condividere i disagi dell'insufficienza dell'area di parcheggio con Li.El., altro subacquirente di Gi.El., in quanto l'integrazione "ope legis" del contratto di acquisto del ricorrente non può che avvenire, sussistendone le specificate condizioni di fatto, nella proporzione aritmetica stabilita dalla citata norma imperativa ed inderogabile.
Né nella motivazione della corte d'appello risulta esplicitato se il diritto reale d'uso in favore di Lauriello Vincenzo sul sufficiente spazio destinato a parcheggio potesse trovare pieno esercizio sulle aree esterne al fabbricato comunque idonee a garantire la prescrizione normativa della legge urbanistica.
Secondo i principi generali di allocazione dell'onere istruttorio, spetta in ogni caso all'attore, il quale deduca la nullità dell'atto di acquisto da parte di terzi di un'area di parcheggio vincolata al diritto d'uso ex art. 41-sexies Legge urbanistica, di provare che il bene oggetto di tale alienazione sia compreso nell'ambito ben delimitato da tale norma (ovvero nell'apposito spazio riservato per parcheggio in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni venti metri cubi di costruzione, concretamente destinato a tal fine in sede di realizzazione del fabbricato), in quanto elemento costitutivo del suo asserito diritto (Cass. 23.01.2006, n. 1221).

AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI - CONDOMINIO: Climatizzatori, l'Arpa deve comunicare i dati sul rumore.
Fuori i decibel dell'impianto «fracassone», nero su bianco. Il singolo condomino ha diritto di conoscere dall'Agenzia regionale che tutela l'ecosistema a quanto ammontano le immissioni sonore prodotte dell'impianto di condizionamento dell'aria attivo nello stabile: si tratta infatti di una vera e propria informazione ambientale, in base alla direttiva Ue recepita in Italia con il decreto legislativo 195/2005, che ha una portata più ampia rispetto alla mera normativa sulla trasparenza di cui agli articoli 22 e seguenti della legge 241/1990.

È quanto emerge dalla sentenza 04.04.2016 n. 4018, pubblicata dalla Sez. I-ter del TAR Lazio-Roma.
Interesse qualificato. L'impianto rumoroso è al servizio di alcuni negozi. E ora l'Agenzia di protezione ambientale ha trenta giorni di tempo per fornire al condomino i dati che ha rilevato sul frastuono prodotto dal climatizzatore. La norma ex articolo 3, comma 1, del decreto legislativo 195/2005 parla chiaro: «L'autorità pubblica rende disponibile l'informazione ambientale detenuta a chiunque ne faccia richiesta, senza che questi debba dichiarare il proprio interesse».
Nel nostro caso non c'è dubbio che il condomino sia invece portatore di un interesse qualificato: anzitutto perché che vive nello stabile e poi perché le rilevazioni Arpa sono state compiute proprio dall'appartamento di sua proprietà esclusiva.
Né la richiesta può ritenersi irragionevole: si tratta di informazioni di competenza sulle misure che deve adottare l'Agenzia. Che dunque paga le spese di lite (articolo ItaliaOggi Sette del 25.04.2016).
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MASSIMA
... per l'annullamento del silenzio-diniego sulla richiesta di accesso ai documenti amministrativi.
...
Con il presente ricorso, proposto ai sensi dell'art. 116 c.p.a., la ricorrente contesta il silenzio serbato dall'ARPA Lazio sulla propria istanza di accesso a documenti rilevanti in tema di accertamento delle immissioni sonore provocate dall’impianto di condizionamento all’interno del condominio di via ... n. 26.
In primo luogo occorrere premettere che,
secondo il disposto dell'art. 3, comma 1, del D.Lgs. n. 195/2005, “l'autorità pubblica rende disponibile... l'informazione ambientale detenuta a chiunque ne faccia richiesta, senza che questi debba dichiarare il proprio interesse”.
Da ciò deriva che l'accesso alle informazioni ambientali ha una portata ben più ampia rispetto a quello ai sensi degli artt. 22 e ss. della legge n. 241/1990.

Deve poi aggiungersi che la ricorrente è residente all’interno dello stesso condominio e gli accertamenti risultano eseguiti proprio nella abitazione ove abita la ricorrente.
È evidente, dunque, che si tratta di "informazioni ambientali" e che la odierna ricorrente risulti portatrice di un interesse giuridicamente qualificato all’ottenimento della richiesta documentazione.
Va inoltre considerato che l'oggetto della richiesta di accesso è puntualmente indicato, per cui allo stesso non osta l'impedimento di cui all'art. 5, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 195/2005, rappresentato dalla sua eccessiva genericità.
Né può ritenersi che tale istanza sia irragionevole rispetto alle finalità di cui all'art. 1: si tratta di atti recanti informazioni ambientali relative all'adozione di misure, di competenza dell'interpellata ARPA Lazio.
Infine non si rinviene alcuna delle ragioni di riservatezza individuate all’art. 5 D.Lgs. 195/2005.
Ne deriva che il ricorso è fondato e deve essere accolto, con obbligo di ostensione, mediante visione ed estrazione di copia, dei suindicati documenti, oggetto dell'istanza di accesso, in capo ad ARPA Lazio, entro il termine di 30 giorni, decorrente dalla comunicazione in via amministrativa o, se anteriore, dalla notificazione della presente sentenza.

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha condivisibilmente negato la natura di costruzione all’ascensore realizzato all’esterno di un caseggiato, in quanto l’aggiunta di tale manufatto non avrebbe potuto essere ammessa dalla conformazione della tromba delle scale o degli altri ambienti interni.
Tale orientamento è giunto all’esito di una riflessione che ha portato a delineare la nozione di volume tecnico come quell'opera edilizia priva di alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, che viene destinata a contenere gli impianti serventi di una costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali della costruzione medesima. Si tratta di quegli impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che tuttavia non possono essere ubicati all'interno di questa, come quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore.
La nozione così introdotta è derivata appunto dalla consapevolezza maturata in giurisprudenza relativamente al significato della proprietà, soprattutto condominiale, in una società che è mutata anche anagraficamente, e che considera l’ascensore come un bene indispensabile non solo alla vita delle persone con problemi di deambulazione, ma anche di coloro che trovano sempre più difficoltoso salire e scendere i numerosi piani di scale che li separano dalle vie pubbliche (nel caso in questione sino a quattro livelli sopra quello terreno).
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N
el conflitto tra le esigenze dei condòmini disabili abitanti ad un piano alto e quelle degli altri partecipanti al condominio, per i quali il pregiudizio derivante dall'installazione di ascensore si risolverebbe non già nella totale impossibilità di un ordinario uso della scala comune ma soltanto in disagio e scomodità derivanti dalla relativa restrizione e nella difficoltà di usi eccezionali della stessa, vanno privilegiate le prime, adottando una soluzione conforme ai principi costituzionali della tutela della salute (art. 32) e della funzione sociale della proprietà (art. 42), rimuovendo un grave ostacolo alla fruizione di un primario bene della vita, quello dell'abitazione, da parte di persone versanti in condizioni di minorazione fisica e riconoscendo la facoltà, agli stessi, di apportare a proprie spese una modifica alla cosa comune, sostanzialmente e nel complesso migliorativa, in quanto suscettibile di utilizzazione anche da parte degli altri condomini.
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... per l'annullamento provvedimento n. 8806/2014 avente ad oggetto istanza per realizzazione ascensore per abbattimento barriere architettoniche con richiesta di immediata sospensione dei lavori.
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Con il ricorso introduttivo del giudizio il condominio odierno ricorrente e altri proprietari impugnavano gli atti di cui in epigrafe, contenenti le note comunali che hanno escluso un intervento inibitorio dei lavori assentiti di realizzazione di un ascensore esterno inteso a superare le barriere architettoniche di accesso, nonché il relativo assenso paesaggistico.
Nel ricostruire in fatto e in diritto la vicenda, all'atto impugnato si muovevano pertanto le seguenti censure:
   - in tema di edilizia, violazione degli artt. 3 l. 241/1990 e 37 tu edilizia, 6 d.l. 138/2011, eccesso di potere per difetto di motivazione e di istruttoria, per mancato esame delle diffide di parte ricorrente;
   - violazione degli artt. 97 Cost., 10, 11 e 27 tu edilizia, 2 ss. l. 13/1989, 1120 s. c.c., eccesso di potere sotto diversi profili, per assenza di legittimazione a richiedere tale tipologia di intervento;
   - in tema di paesaggio, violazione degli artt. 136 e 146 d.lgs. 42/2004 e diversi profili di eccesso di potere, basandosi l’assenso paesaggistico su di un presupposto errato quale la pretesa invisibilità da visuali prospettiche pubbliche.
Parte controinteressata si costituiva in giudizio e, controdeducendo punto per punto, concludeva per la declaratoria di tardività e per il rigetto del gravame. Il Comune intimato non si costituiva in giudizio.
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Peraltro, il ricorso appare comunque infondato nel merito, anche in relazione ai dedotti profili edilizi, in specie alla luce della recente giurisprudenza fatta propria dalla Sezione rispetto alla quale, anche per esigenze di certezza del diritto, non sussistono ragioni di mutamento.
In analoga fattispecie (cfr. sent. 1002/2015), è stato evidenziato che “la giurisprudenza (Cass. n. 2566/2011 e CdS n. 6253/2012) ha condivisibilmente negato la natura di costruzione all’ascensore realizzato all’esterno di un caseggiato, in quanto l’aggiunta di tale manufatto non avrebbe potuto essere ammessa dalla conformazione della tromba delle scale o degli altri ambienti interni. Tale orientamento è giunto all’esito di una riflessione che ha portato a delineare la nozione di volume tecnico come quell'opera edilizia priva di alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, che viene destinata a contenere gli impianti serventi di una costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali della costruzione medesima. Si tratta di quegli impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che tuttavia non possono essere ubicati all'interno di questa, come quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore. La nozione così introdotta è derivata appunto dalla consapevolezza maturata in giurisprudenza relativamente al significato della proprietà, soprattutto condominiale, in una società che è mutata anche anagraficamente, e che considera l’ascensore come un bene indispensabile non solo alla vita delle persone con problemi di deambulazione, ma anche di coloro che trovano sempre più difficoltoso salire e scendere i numerosi piani di scale che li separano dalle vie pubbliche (nel caso in questione sino a quattro livelli sopra quello terreno)".
Sulla scorta di tale orientamento, appaiono prima facie infondati i rilievi dedotti.
Sia il primo motivo, avendo in ogni caso parte ricorrente formulato le proprie osservazioni, oggetto di valutazione negativa in sede di risposta.
In proposito, va fatto ulteriore riferimento a quell’orientamento prevalente a mente del quale l'obbligo dell'Amministrazione di prendere in considerazione gli scritti defensionali di parte nell'ambito del procedimento amministrativo, non si traduce in puntuale confutazione della mera rimostranza negativa, essendo sufficiente la completezza motivazionale dell'atto complessivamente valutato, allorché da esso possano agevolmente e unicamente desumersi comunque le ragioni giuridiche ed i presupposti di fatto posti a base della decisione.
Sia il secondo motivo, con cui vengono dedotti rilievi di carattere parzialmente civilistico.
In proposito, per un verso va ulteriormente richiamata la giurisprudenza civile predetta, a mente della quale nel conflitto tra le esigenze dei condòmini disabili abitanti ad un piano alto e quelle degli altri partecipanti al condominio, per i quali il pregiudizio derivante dall'installazione di ascensore si risolverebbe non già nella totale impossibilità di un ordinario uso della scala comune ma soltanto in disagio e scomodità derivanti dalla relativa restrizione e nella difficoltà di usi eccezionali della stessa, vanno privilegiate le prime, adottando una soluzione conforme ai principi costituzionali della tutela della salute (art. 32) e della funzione sociale della proprietà (art. 42), rimuovendo un grave ostacolo alla fruizione di un primario bene della vita, quello dell'abitazione, da parte di persone versanti in condizioni di minorazione fisica e riconoscendo la facoltà, agli stessi, di apportare a proprie spese una modifica alla cosa comune, sostanzialmente e nel complesso migliorativa, in quanto suscettibile di utilizzazione anche da parte degli altri condomini.
Nella specie parte ricorrente, nei limiti di sindacato propri della presente sede di legittimità, non ha fornito elementi tali da integrare la violazione dell’uso della cosa comune che va garantito a tutti, invocando questioni tipiche di una controversia civilistica.
Sul restante versante, amministrativo, le censure appaiono generiche –costituenti in prevalenza in un collage di massime giurisprudenziali privo di un concreto riferimento alla fattispecie in esame- e non tali da scalfire i principi di recente espressi dalla sezione (TAR Liguria, Sez. II, sentenza 29.01.2016 n. 97 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

marzo 2016

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATANiente dehors per il bar senza sì del condominio.
Addio dehors per il bar se il titolare non ha fatto i conti con il condominio prima di rivolgersi al comune per il permesso. Stop all'autorizzazione unica concessa all'esercizio pubblico dallo sportello attività produttive dell'ente locale: la struttura a padiglione, infatti, va considerata aderente alla facciata dello stabile e dunque non può essere installata su una parete dell'edificio senza prima ottenere il nulla osta di tutti coloro che risultano proprietari del muro perimetrale.

È quanto emerge dalla
sentenza 04.03.2016 n. 379, pubblicata dalla II Sez. del TAR Toscana.
È proprio il regolamento comunale a imporre il previo nulla osta dei proprietari o dell'amministratore dell'edificio quando si verifica il «contatto-aderenza» con la superficie esterna di un fabbricato: sbaglia dunque l'amministrazione laddove interpreta le norme ritenendo necessaria l'autorizzazione preventiva solo se i tiranti della struttura a padiglione devono essere agganciati alla parete.
Al comune non resta che pagare le spese di giudizio (articolo ItaliaOggi Sette del 09.05.2016).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Per il dehors serve il sì del condominio. Poteri di veto. I proprietari devono dare il consenso alla realizzazione del manufatto in aderenza alla facciata.
Il conduttore di un immobile destinato ad uso birreria che intende realizzare nell’area antistante il locale un dehors che verrà montato solo in aderenza alla facciata non può essere autorizzato dal comune a realizzare l’opera se non dimostra di aver ottenuto il consenso della collettività condominiale.

È questo il principio affermato dal TAR Toscana -Sez. II- nella sentenza 04.03.2016 n. 379.
La vicenda prendeva l’avvio quando il titolare di un locale birreria, facente parte di un caseggiato, decideva di realizzare, nello spazio antistante il locale condotto in locazione, un dehors temporaneo con possibilità di chiusura stagionale in cui installare tavoli, sedie.
Il progetto definitivo prevedeva che la struttura portante del dehors non fosse ancorata alla parete condominiale, ma fosse realizzata soltanto in aderenza del muro perimetrale con montanti verticali in acciaio indipendenti.
L’opera, quindi, veniva autorizzata, ma una condòmina richiedeva al comune l’annullamento in via di autotutela del provvedimento autorizzatorio, per la mancanza di nulla osta da parte del condominio. La richiesta veniva respinta, anche perché tutti gli altri condomini (compreso il proprietario del locale-birreria) con apposita comunicazione, avevano confermato l’autorizzazione ad occupare l’area privata antistante il pubblico esercizio.
La questione, poi, è stata sottoposta all’attenzione del Tar che ha dato torto al titolare della birreria, rilevando che la domanda volta ad ottenere la concessione e/o l’autorizzazione per la costruzione di spazi di ristoro all’aperto annessi a locali di pubblico esercizio, con occupazione di tutta l’area esterna condominiale, richiede il consenso degli altri condòmini (inclusa la ricorrente che non ha mai prestato il suo assenso), anche nel caso in cui la struttura venga posta solo a contatto dell’edificio.
A diversa conclusione si potrebbe arrivare, però, se il dehors fosse realizzato con le stesse modalità ma con occupazione parziale del cortile: in tal caso, infatti, se si considera che i rapporti condominiali richiedono il continuo rispetto del principio di solidarietà, il quale richiede un costante equilibrio fra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione, qualora sia prevedibile (come nel caso in questione) che gli altri partecipanti alla comunione non possano fare un pari uso della cosa comune, la modifica apportata alla stessa dal condomino potrebbe ritenersi legittima
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.04.2016).
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MASSIMA
... per l'annullamento:
- del provvedimento Autorizzativo Unico n. 152 del 29.07.2013 con cui il Dirigente del Settore Urbanistica e Suap ha autorizzato il Sig. Er.Si., nella sua qualità di legale rappresentante dell’impresa “Pi. Bar di Er.Si. & C. <<ad occupare l’area privata antistante il pubblico esercizio denominato “Bar Lume” posto in via Rinchiosa, angolo Via Garibaldi al fine di poter installare tavoli, sedie e strutture a padiglione con temporanea possibilità di chiusura stagionale […]>>, nonché degli atti connessi, presupposti e conseguenti nonché per il risarcimento:
- dei danni subiti e subendi dalla ricorrente per effetto degli illegittimi provvedimenti impugnati;
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2. Il primo motivo del ricorso introduttivo del presente giudizio è fondato.
La circostanza, infatti, che “la struttura portante del dehors da installare non verrà agganciata alla parete condominiale, ma sostenuta da montanti verticali in acciaio indipendenti, come si legge nel provvedimento autorizzativo impugnato, non esonerava dalla necessità di ottenere il previo consenso da parte dei proprietari della facciata medesima.
A riguardo va rilevato come sia incontestato che il progetto per la realizzazione del dehors di cui si discute sia quello graficamente rappresentato nel documento prodotto dalla ricorrente come all. 18, consegnato al Comune nell’aprile del 2013, nel quale si trova espressamente scritto “Dehors distaccato 1 cm dalla facciata con struttura indipendente”.
Ora, l’Allegato L del Regolamento edilizio comunale al punto 2.8 prevede, con riferimento alle “strutture a padiglione temporanee con possibilità di chiusura stagionale”, il generale divieto di ogni infissione al suolo e alla parete dell’edificio di pertinenza.
Tuttavia, il quarto comma del citato punto 2.8 stabilisce che “
nel caso di presenza di marciapiede sopraelevato di larghezza tale da consentire la coesistenza del manufatto e del percorso pedonale, il manufatto stesso può essere collocato in aderenza alla facciata a condizione che venga comunque garantita una striscia libera di almeno 2 metri di larghezza a partire dal filo esterno del marciapiede”.
Ed è questa la fattispecie in cui rientra, secondo il progetto di cui si è detto, la struttura per cui è causa, per la quale, dunque, viene consentita la collocazione in aderenza alla facciata, mentre rimane vietata ogni infissione alla stessa.
Inoltre, il citato Allegato L del Regolamento edilizio comunale al punto 1.2 lett. c richiede in via generale, per tutte le domande volte ad ottenere la concessione e/o l’autorizzazione per la costruzione di spazi di ristoro all’aperto annessi a locali di pubblico esercizio di somministrazione, il “nulla-osta del proprietario o dell’amministratore dell’immobile qualora la struttura venga posta a contatto dell’edificio”; ciò in piena coerenza con la disciplina del condominio negli edifici (artt. 1117 e ss. cod. civ.).
Ne discende che,
oltre al divieto di infissione-aggancio alla parete condominiale, viene stabilito altresì che il contatto-aderenza –essendo i due termini sinonimi– dell’edificio richiede il previo nulla-osta dei proprietari o dell’amministratore dell’immobile.
Ciò significa che
l’amministrazione non avrebbe dovuto ridurre la questione di cui si controverte all’esistenza o meno dell’”aggancio” alla parete, ma avrebbe dovuto prendere in considerazione la specifica disciplina regolamentare del “contatto-aderenza” con l’edificio per dedurne la necessità del suddetto nulla-osta dei proprietari.
E’ evidente, infatti, che la progettata struttura, proprio in quanto distaccata di un solo centimetro dalla facciata, non può non essere considerata come aderente alla facciata stessa, con la conseguenza che la sua collocazione richiedeva il previo nulla-osta di tutti i proprietari della medesima, in quanto muro perimetrale condominiale ai sensi dell’art. 1117 cod. cic., ivi incluso quello della ricorrente che non risulta, invece, aver mai prestato il suo assenso a tal fine.

febbraio 2016

AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAFogne, allaccio senza permessi. Tar Campania. Non serve l’autorizzazione del condominio.
L’ente locale non deve acquisire l’assenso del condominio o degli altri condòmini, se l’opera che il singolo vuole realizzare riguarda parti comuni dell’edificio strettamente pertinenziali alla propria unità immobiliare. Tali opere, del resto, rientrano negli interventi che il condòmino, titolare del provvedimento abilitativo, ha piena facoltà di eseguire.
Lo puntualizza il TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, con la sentenza 26.02.2016 n. 1077.
Apre il caso, il proprietario di un appartamento che –comunicata al Comune l’intenzione di voler effettuare interventi di ordinaria manutenzione relativi alla ritinteggiatura, sostituzione e riparazione dei rivestimenti di cucina e bagno, con sostituzione degli igienici– collegava, in realtà, l’impianto igienico-sanitario al sottoservizio fognario nel cortile condominiale. Di qui, il provvedimento comunale di sospensione dei lavori e ripristino dello stato dei luoghi, seguito dall’ordine di sgombero.
Provvedimenti impugnati dal condòmino in quanto l’intervento consiste nella posa di una tubatura in Pvc per collegare un impianto igienico alla rete fognaria preesistente senza l’esecuzione di opere murarie, e in quanto tale non è soggetto al regime della Dia, rientrando nell’attività libera edilizia che non necessita di alcun titolo abilitativo.
Ricorso accolto. Il provvedimento gravato –afferma il Tribunale– è illegittimo. La posa in opera della conduttura in Pvc per il collegamento di un impianto igienico alla rete fognante rientra nell’ambito dell’attività libera di cui all’articolo 6 del Dpr 380/2001.
E dato che ai sensi dell’articolo 3, comma 1, lettera b), della stessa norma si trattava di manutenzione straordinaria, che non aveva inciso su parti strutturali dell’edificio, né comportato l’aumento delle unità immobiliari o l’incremento dei parametri urbanistici, l’opera non necessitava di Dia.
Irrilevante, anche la critica mossa dal Comune circa l’assenza di previa autorizzazione degli altri condòmini. Consenso che, concludono i giudici amministrativi, non occorreva: «esclusa la necessità di un titolo abilitativo edilizio, l’indispensabilità del consenso dei condòmini per la realizzazione dell’opera diviene una questione relativa all’esercizio del diritto di proprietà o, comunque, inerente ai rapporti civilistici tra condòmini»
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.08.2016).
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MASSIMA
La posa in opera della conduttura in PVC per il collegamento di un impianto igienico alla rete fognante rientra nell’ambito dell’attività libera ex art. 6 D.P.R. n. 380/2001.
Ai sensi dell'articolo 3, comma 1, lettera b), di quest’ultimo D.P.R., sono ricomprese nella categoria degli interventi di manutenzione straordinaria “
le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non comportino modifiche delle destinazioni di uso”.
L’opera posta in essere rientra in quest’ultima categoria. La stessa è, infatti, volta a realizzare o integrare i servizi igienico-sanitari e non ha alterato volumi o superfici.
Il citato art. 6 del D.P.R. n. 380/2001, nel testo vigente ratione temporis, prevedeva che potessero essere eseguiti senza alcun titolo abilitativo “gli interventi di manutenzione straordinaria di cui all'articolo 3, comma 1, lettera b), ivi compresa l'apertura di porte interne o lo spostamento di pareti interne, sempre che non riguardino le parti strutturali dell'edificio, non comportino aumento del numero delle unità immobiliari e non implichino incremento dei parametri urbanistici”.
Nel caso di specie l’intervento non riguarda parti strutturali dell'edificio, né comporta aumento del numero delle unità immobiliari o incremento dei parametri urbanistici.
L’opera in esame non necessitava, pertanto, della D.I.A., e risulta, pertanto, illegittima la sanzione comminata ex art. 37 D.P.R. n. 380/2001, riservata all’omissione di tale titolo edilizio.
Inoltre, il Collegio rileva per completezza come, in ogni caso, l’omissione della D.I.A. avrebbe potuto comportare l’applicazione della sanzione pecuniaria ma non di quella ripristinatoria adottata invece dal Comune, peraltro sommandola a quella pecuniaria.
Fermo quanto indicato,
si rileva ancora come da accogliere risulti anche la censura relativa alla mancanza della necessità del consenso di tutti i condomini per l’esecuzione dell’opera.
Ciò in primo luogo perché, una volta esclusa la necessità di un titolo abilitativo edilizio,
l’indispensabilità del consenso dei condomini per la realizzazione dell’opera diviene una questione relativa all’esercizio del diritto di proprietà o, comunque, inerente ai rapporti civilistici tra condomini.
L’eventuale necessità del consenso, e la pretesa alla stessa connessa, sarà quindi nel caso tutelabile ad opera degli interessati dinanzi alla competente autorità giudiziaria ordinaria, ma non riguarderà l’esercizio del potere autorizzatorio o sanzionatorio del Comune in materia di governo del territorio e, in particolare, in materia urbanistica ed edilizia.
Il Collegio, inoltre, ritiene di poter applicare quella giurisprudenza amministrativa secondo cui,
in caso di realizzazione di un'opera da parte di un singolo sulle parti comuni dell'edificio, ma strettamente pertinenziale alla propria unità immobiliare, l'ente locale non è tenuto a richiedere il previo assenso del condominio interessato, ovvero degli altri condomini (TAR Campania-Salerno, Sez. II, Sent., 28.02.2011, n. 367), assumendosi che il singolo condomino ha facoltà di eseguire opere che, ancorché incidano su parti comuni dell'edificio, siano strettamente pertinenti alla sua unità immobiliare, sotto i profili funzionale e spaziale, con la conseguenza che egli va considerato come soggetto avente titolo per ottenere il provvedimento abilitativo e che il mancato assenso del condominio concerne esclusivamente tematiche privatistiche, cui resta estranea l'amministrazione (Cons. Stato Sez. VI, 09.02.2009, n. 717).
Il suddetto principio costituisce evidentemente applicazione della norma contenuta nell'articolo 1102 c.c., in base al quale "
ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto".
Il ricorso principale va quindi accolto.

CONDOMINIO: Amministratori senza incarico. Se manca la delibera, la nomina può essere tacita. La Cassazione sulla gestione di fatto del condominio e sulla durata del mandato.
Per amministrare un condominio non occorre necessariamente un incarico formale. Ove, infatti, manchi la delibera assembleare di nomina dell'amministratore (e, quindi, anche l'annotazione delle generalità del medesimo nello speciale registro di cui all'art. 1130, comma 1, n. 7, c.c.), lo stesso può considerarsi in carica per tacito rinnovo del mandato, ove risulti un comportamento concludente da parte dei condomini, che lo abbiano considerato tale a tutti gli effetti, rivolgendosi abitualmente al medesimo in detta veste e senza mai metterne in discussione i poteri di gestione e la rappresentanza del condominio.

Questo il principio che emerge dalla sentenza 04.02.2016 n. 2242 della II Sez. civile della Corte di Cassazione.
La decisione in questione arriva tra l'altro proprio nel momento in cui più ferve il dibattito sulla durata del mandato dell'amministratore condominiale a seguito della nuova disposizione introdotta dalla legge n. 220/2012 di riforma del condominio (si veda ItaliaOggi Sette dell'08.02.2016) e potrebbe aggiungere ulteriori elementi di riflessione.
Il caso concreto. Nella specie un condominio aveva presentato opposizione nei confronti del decreto ingiuntivo ottenuto nei suoi confronti dal condominio per il mancato pagamento dei relativi oneri. L'opposizione era stata respinta e il condomino aveva allora impugnato la sentenza dinanzi alla Corte di appello, contestando in via pregiudiziale, per la prima volta, il difetto di legittimazione attiva del condominio, poiché la procura rilasciata in relazione al procedimento monitorio era stata rilasciata da un soggetto che non risultava essere formalmente l'amministratore.
I giudici di secondo grado avevano però evidenziato come l'eccezione in questione fosse tardiva, non essendo stata proposta nel giudizio di prime cure, e comunque infondata nel merito, in quanto nel corso del procedimento era emerso che il soggetto di cui si contestava la qualifica di amministratore avesse svolto varie attività in rappresentanza del condominio, per esempio partecipando alle assemblee per l'approvazione del riparto delle spese e inviando la diffida di pagamento al condomino opponente. Anche l'appello era stato dunque rigettato e il condomino aveva allora deciso di ricorrere in Cassazione.
La decisione della Suprema corte. Anche la Cassazione ha però rigettato l'eccezione pregiudiziale in questione, chiarendo meglio i contorni della questione ed esprimendo interessanti considerazioni in tema di nomina dell'amministratore condominiale.
I giudici di legittimità hanno in primo luogo chiarito come l'eccezione in questione non riguardasse propriamente il difetto di legittimazione attiva del condominio, quanto piuttosto il preteso difetto del potere di rappresentanza di quest'ultimo in capo al soggetto che aveva fornito il mandato al legale incaricato di richiedere l'emissione del decreto ingiuntivo per il mancato pagamento delle spese comuni.
La seconda sezione civile della Cassazione, nel fare proprie le conclusioni alle quali erano pervenuti i giudici di merito, ha quindi evidenziato come alla nomina dell'amministratore, giusto il rapporto contrattuale di mandato che regolamenta i rapporti di quest'ultimo con la compagine condominiale, sia applicabile l'art. 1392 c.c., che disciplina i requisiti di forma della procura, ovvero dell'atto con cui un soggetto conferisce a un terzo il potere di compiere atti giuridici in nome proprio e dal quale sorge il diritto di rappresentanza.
Detta disposizione codicistica prevede che la procura sia efficace soltanto laddove abbia la forma prescritta per l'atto che il procuratore (rappresentante) è chiamato a concludere. Ne discende, quindi, che la stessa deve avere necessariamente forma scritta soltanto laddove l'atto da compiere necessiti a sua volta, per esplicare i propri effetti, della medesima forma. In caso contrario la procura potrà anche essere verbale o tacita, ovvero desunta da comportamenti concludenti.
Sulla base di questa disposizione i giudici di legittimità hanno quindi concluso che la nomina dell'amministratore, anche in mancanza di una specifica delibera assembleare (e della conseguente annotazione delle generalità del medesimo nello speciale registro di cui all'art. 1130, comma 1, n. 7, c.c.), possa desumersi dal comportamento concludente dei condomini che abbiano considerato una data persona quale amministratore condominiale, rivolgendosi abitualmente a questa per il disbrigo delle varie questioni legate alla gestione del condominio, senza mai metterne in discussione i relativi poteri e la rappresentanza.
Si tratta, a ben vedere, del riconoscimento della figura dell'amministratore condominiale di fatto, figura generalmente ritenuta non configurabile dalla dottrina. A maggior ragione dopo la riforma del 2012, che ha preteso una maggiore formalizzazione del rapporto tra amministratore e condomini, sia prevedendo una sorta di accettazione della nomina assembleare, sia richiedendo come obbligatorio, a pena di nullità della delibera, la presentazione di un preventivo relativo al compenso richiesto, sia ammettendo che la nomina possa essere subordinata dall'assemblea alla stipula di una polizza assicurativa per la responsabilità civile, sia ancora indicando una serie di requisiti necessari per tale nomina, la verifica dei quali è nuovamente lasciata all'assemblea. Questi e ulteriori adempimenti connessi alla designazione dell'amministratore sembrano infatti difficilmente conciliabili con una nomina tacita.
La questione della durata del mandato dell'amministratore condominiale. La posizione espressa dalla Suprema corte sulle modalità di nomina dell'amministratore potrebbe quindi incidere anche sul dibattito in corso relativamente alla durata dell'incarico, alle modalità del suo rinnovo e alla permanenza dell'istituto della c.d. prorogatio.
Non è chiaro, infatti, quale sia la durata del mandato dell'amministratore condominiale. Il vecchio art. 1129 c.c. si limitava a stabilire che quest'ultimo restasse in carica per un anno. Si riteneva, quindi, per il combinato disposto di cui agli artt. 66 disp. att. c.c. e 1135 c.c., che lo stesso dovesse sempre ottenere la conferma dell'incarico annuale da parte dell'assemblea (con le stesse maggioranze previste per la prima nomina, salvo qualche isolata decisione di merito di segno contrario), ossia una nuova nomina della durata di un anno. Nel caso in cui non fosse stata raggiunta la necessaria maggioranza, si ricorreva quindi generalmente all'applicazione analogica dell'istituto della c.d. prorogatio, in base al quale l'amministratore era temporaneamente legittimato a curare gli interessi del condominio in attesa della decisione assembleare sulla conferma del suo incarico o sulla nomina di un nuovo mandatario.
Con il nuovo art. 1129, comma 10, c.c., il legislatore ha quindi confermato che la durata dell'incarico dell'amministratore è annuale, ma ha altresì sibillinamente aggiunto che il relativo incarico si intende rinnovato per eguale durata. Di qui l'incertezza interpretativa sulla reale durata del mandato. Il dibattito si è quindi incentrato da una parte sul funzionamento di detto meccanismo di rinnovo automatico ex lege e, dall'altra, sulla necessità o meno di inserire all'ordine del giorno dell'assemblea la questione della nomina/conferma dell'amministratore.
Sul primo tema vi è chi sostiene la tesi dell'indeterminatezza temporale di tale meccanismo di rinnovo, nel senso che il mandato continuerebbe tacitamente anno dopo anno, salvo che ne intervenga la revoca. Un altro orientamento, recentemente fatto proprio dai tribunali di Milano e Cassino, ritiene invece che il rinnovo automatico valga soltanto per il primo biennio di durata in carica dell'amministratore.
Il secondo aspetto sul quale si è acceso il dibattito è stato quindi quello relativo all'obbligo di continuare a indicare tra le questioni all'ordine del giorno dell'assemblea ordinaria quella relativa alla conferma/revoca dell'amministratore. I menzionati precedenti giudiziali di Milano e Cassino hanno infatti avallato la prassi di non indicare più tale questione all'ordine del giorno, anche se soltanto per il primo rinnovo biennale.
Detta omissione da parte dell'amministratore è infatti stata giudicata conforme alla nuova disciplina condominiale, secondo la quale la durata annuale dell'incarico è tacitamente prorogabile per un altro anno, salvo delibera di revoca assunta dall'assemblea (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.04.2016).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Aree vincolate a parcheggio, chiarimenti sul calcolo delle superfici. Cassazione: misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni dieci metri cubi di costruzione.
Dal vincolo di destinazione degli spazi a parcheggio sorge un automatico diritto reale d'uso in capo all'acquirente delle unità immobiliari interne all'edificio, restando nulla ogni clausola contraria.
Lo ha confermato la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 04.02.2016 n. 2236.
La suprema Corte ricorda che il vincolo di destinazione è inderogabile, ma opera in favore della indifferenziata comunità dei condòmini, tanto che, se per l'attuazione di esso è necessario identificare la superficie da assoggettare all'uso normativamente previsto, secondo le misure ("non inferiore ad un metro quadrato per ogni metro cubo di costruzione") dalla stessa norma stabilite, il condominio, in assenza di relativa previsione o nell'atto concessorio, o nel regolamento condominiale, o negli atti d acquisto dei singoli appartamenti, deve chiedere al giudice tale identificazione, e pertanto non può ex se, con delibera, costituire il vincolo pubblicistico di destinazione predetta, scegliendo l'ubicazione degli appositi spazi su più ampia area del costruttore-venditore.
Peraltro, qualora ad attivarsi non sia il condominio o un gruppo di condòmini, anche un singolo condòmino può farlo.
UN METRO QUADRATO PER OGNI DIECI METRI CUBI DI COSTRUZIONE. La Cassazione rammenta inoltre che la legge urbanistica -art. 41-sexies Legge 1150/1942- conteneva all'epoca la previsione in base alla quale "nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni venti (successivamente ex art. 2 l. n. 122 del 1989: dieci) metri cubi di costruzione".
La Corte di legittimità precisa che la nozione di costruzione, che è diversa da quella di volume o volumetria, suscettibile di margini di opinabilità, implica indefettibilmente il riferimento anche ai muri esterni, giacché non può concepirsi costruzione senza i muri perimetrali che la delimitano (commento tratto da www.casaeclima.com).

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2) Con i primi due motivi di ricorso viene denunciata violazione e falsa applicazione degli artt. 18 L. 765/1967 (cd L. ponte), 26 L. 47/1985 e art. 818 cc e dell'art. 12 della legge 246/2005.
Parte ricorrente realisticamente ammette che la Corte di appello ha applicato un orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui
dal vincolo di destinazione degli spazi a parcheggio sorge un automatico diritto reale d'uso in capo all'acquirente delle unità immobiliari interne all'edificio, restando nulla ogni clausola contraria.
In forza di tali principi (riassunti da Cass. 23845/2013; v. poi esemplificativamente 4733/2015)
il vincolo di destinazione è inderogabile, ma opera in favore della indifferenziata comunità dei condòmini, tanto che, come è noto, se per l'attuazione di esso è necessario identificare la superficie da assoggettare all'uso normativamente previsto, secondo le misure ("non inferiore ad un metro quadrato per ogni metro cubo di costruzione") dalla stessa norma stabilite, il condominio, in assenza di relativa previsione o nell'atto concessorio, o nel regolamento condominiale, o negli atti d acquisto dei singoli appartamenti, deve chiedere al giudice tale identificazione, e pertanto non può, ex se, con delibera, costituire il vincolo pubblicistico di destinazione predetta, scegliendo l'ubicazione degli appositi spazi su più ampia area del costruttore-venditore (Cass. 7474/1997).
Peraltro, qualora ad attivarsi non sia il condominio o un gruppo di condòmini, anche un singolo condòmino può farlo.
2.1) Parte ricorrente, dopo un'ampia ricostruzione, chiede alla Corte di Cassazione (cfr. pag. 23 in principio) il mutamento dell'orientamento consolidatosi e attacca la sentenza sulla base di due preminenti considerazioni:
a) la circostanza che dal regime creato in giurisprudenza, che può portare alla proprietà comune dell'area (v Cass. 730/2008, ma non è questo il caso), potrebbe derivare un utilizzo, da parte dei condòmini, in violazione della norma imperativa, perché essi potrebbero decidere di vendere o dare in locazione a terzi i posti auto; ovvero un paradossale non utilizzo, qualora essi, privi di autovetture lasciassero liberi gli spazi.
b) il contrasto tra il principio della destinazione ad area di parcheggio indifferenziata e la parte della sentenza in cui "accerta il diritto d'uso della sig. Ri., sull'area di parcheggio di 74,88 mq individuata quale integrazione di quella già destinata allo scopo rispetto ai parametri normativi".
2.2) La Corte reputa che
non vi siano ragioni per discostarsi dall'orientamento giurisprudenziale dominante e osserva che gli inconvenienti ipotizzati in ricorso non siano plausibile chiave per modificare l'interpretazione da tempo data alla materia.
Il legislatore ha inteso attribuire alla comunità condominiale la disponibilità di una superficie a parcheggio stabilita sulla base di una principio di rilevazione della realtà sociale che non è certo smentito dall'evoluzione di questi decenni di applicazione della Legge Ponte, giacché corrisponde a comune esperienza che quel rapporto volumi/superficie conduce semmai a insoddisfacente risposta alle esigenze condominiali. Queste ultime, inoltre, sono quanto mai mutevoli dal punto di vista soggettivo, cosicché non si può far dipendere da circostanze casuali il senso del dictum legislativo.
Va escluso inoltre che la sentenza impugnata si sia posta in contrasto con i principi generali cui si è fatto riferimento. Ancorché sia vero che al punto 3) del dispositivo si dica che viene "assegnata in uso" a Ri.Vi. l'area per parcheggio vetture di 74,88 mq da staccarsi dalla maggior proprietà del piano cantinato di Se.Fi., tale disposizione va letta unitamente alla motivazione e avendo riguardo alla domanda iniziale e al senso complessivo dei termini usati.
Ora, se si considera:
- che l'attrice chiese (sentenza pag. 5) la "restituzione a parcheggio condominiale delle aree descritte" e quindi non un attribuzione in proprietà o in uso personale;
- che la motivazione della sentenza di appello ha chiaramente parlato di area da restituire alla "sua destinazione di parcheggio condominiale, con vincolo reale";
- che essa ha stabilito la facoltà del convenuto di scegliere la porzione di mq 74,88 che avrà la funzione di assicurare l'effettività della destinazione «a uso di parcheggio
»>;
- che la giurisprudenza di questa Corte (Cass. 1214/2012) ha già avuto modo di riconoscere che ove l'azione per il riconoscimento del diritto reale d'uso sia stata proposta da uno solo dei condomini, il giudice di merito può addirittura individuare un preciso spazio fisico per la sosta dei veicoli di proprietà del condòmino istante, senza che di tale decisione possa dolersi il costruttore del complesso immobiliare;
- che tutto il giudizio è stato istruito non in vista esclusiva della realizzazione del diritto del singolo, ma del rispetto della complessiva proporzione tra volume edificato e area destinata,
se ne desume che la sentenza di appello abbia solo inteso riconoscere il diritto condominiale e pronunciato in dispositivo in favore della istante, solo quale parte che ha agito per far valere un diritto proprio ma che vanta quale condòmina, il cui accertamento ridonda a beneficio di tutto il condominio; grazie al richiamo contenuto in sentenza il diritto riconosciuto può inoltre essere fatto valere anche esecutivamente dalla stessa parte attrice direttamente.
Non vi è quindi alcuna contraddizione tra quanto accertato sulla base della normativa vigente (che regola diritti sorti all'epoca) e quanto stabilito in dispositivo.
3) Il secondo motivo, come si è accennato, sollecita una rivisitazione della interpretazione consolidata, nella parte in cui non adopera l'art. 12 della L. 246/2005, che ha liberalizzato (secondo parte istante in modo "assoluto") la commerciabilità degli spazi di parcheggio.
Orbene,
è vero che la disposizione di cui all'art. 12, nono comma, della legge n. 246 del 2005 ha modificato l'art. 41-sexies della legge n. 1150 del 1942 inserendo un secondo comma all'art. 41-sexies e stabilendo che gli spazi per parcheggio possono essere trasferiti in modo autonomo rispetto alle altre unità immobiliari. Tuttavia rimane insuperabile la lettura datane da Cass. 4264/2006, a mente della quale la nuova norma trova applicazione soltanto per il futuro, vale a dire per le sole costruzioni non realizzate o per quelle per le quali, al momento della sua entrata in vigore, non erano ancora state stipulate le vendite delle singole unità immobiliari. <<L'efficacia retroattiva della norma va infatti esclusa, in quanto, da un lato, non ha natura interpretativa, per mancanza del presupposto necessario a tal fine, costituito dalla incertezza applicativa della disciplina anteriore, e, dall'altro, perché le leggi che modificano il modo di acquisto dei diritti reali o il contenuto degli stessi non incidono sulle situazioni maturate prima della loro entrata in vigore>>.
Nonostante siano trascorsi circa dieci anni da tale lettura, il legislatore non è intervenuto per modificarla, restando così rafforzate le rationes decidendi.

4) Il terzo motivo lamenta violazione e falsa applicazione artt. 978 e 979 c.c. e art. 1026 cc.
La censura contesta la ricostruzione giurisprudenziale del diritto reale d'uso sulle aree di parcheggio e chiede che esso sia legato alla vita dell'usufruttuario, restando altrimenti privo di durata e tale da espropriare il proprietario costruttore, la proprietà del quale sarebbe compromessa, in violazione della disciplina costituzionale.
La censura non merita soverchia considerazione, sol che si consideri che
il riconoscimento al condòmino del diritto reale d'uso costituisce reazione dell'ordinamento a una scelta, in parte illegittima, del proprietario costruttore. Questi avrebbe dovuto alienare l'area di parcheggio insieme alle unità abitative: avendo voluto riservarsi la proprietà si è volontariamente esposto alla limitazione posta a suo carico dalla legge urbanistica, che, nella specie, è stato necessario imporgli per via giudiziaria.
5) Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 18 L. 765/1967, art. 26 L. 47/1985 e art. 818 c.c. - errata determinazione del calcolo dello spazio di parcheggio ex art. 18.
Parte ricorrente sostiene che la sentenza erroneamente non ha conteggiato i 32 mq di garage venduti ai signori Ca.-Ca. e i 49 mq di altro garage rimasto al ricorrente e poi trasferito a terzi unitamente agli uffici.
Si duole del fatto che la sentenza abbia ritenuto necessario che gli spazi di parcheggio siano vincolati all'uso diretto e indifferenziato degli occupanti l'edificio.
Afferma che in tal modo si nega la possibilità di trasferire con i singoli atti i posti auto agli acquirenti degli appartamenti, eventualità da ritenere legittima, con possibilità di libera rivendita.
Il quinto motivo (violazione e falsa applicazione art. 18 L. 765/1967, art. 26 L. 47/1985 e art. 818 cc e vizi di motivazione) verte sullo stesso punto attaccato nel precedente e torna a lamentare la contraddizione che sarebbe insita nell'avere affermato l'uso indifferenziato sulle aree a parcheggio e nell'avere poi assegnato alla Ricupero i 74,88 mq mancanti (profilo b). In ogni caso vi sarebbe contraddizione tra detta assegnazione individuale e il non avere considerato i metri quadrati di area che il proprietario aveva assegnato a sé e ai Ca.Ca..
Le due doglianze sono destituite di fondamento, in considerazione di quanto già spiegato sub 2.2).
Invano parte ricorrente fa leva sulla fraseologia usata nel dispositivo della sentenza. Essa non ha trasferito la titolarità della proprietà alla Ri. personalmente, come ha invece fatto il Fi. nel vendere a terzi le due aree che vorrebbe conteggiare; ha solo riconosciuto l'estendersi del diritto indifferenziato dei condomini sull'area che era stata esclusa e ha (con la imprecisa formula "assegna in uso") riconosciuto all'attrice il potere di far valere su detta area (che peraltro secondo la Corte d'appello potrà essere scelta dal convenuto ricorrente) la destinazione a parcheggio condominiale che era stata chiesta e che è stata chiaramente sancita in motivazione.
E' implicito nella giurisprudenza confermata, e invano criticata, che il costruttore non può far conteggiare nell'area vincolata i parcheggi che costruisce e aliena liberamente, senza riguardo al vincolo. Tale regime di libera vendita è compatibile con le costruzioni post 1967, ma solo quanto alle aree di parcheggio eccedenti il limite delle aree da sottoporre al vincolo legale, le quali per essere riconosciute devono essere identificabili dai singoli atti di vendita.
Per la superficie vincolata ex lege 765/1967 il proprietario, che voglia riservarsi la proprietà o cederla a terzi (v. Cass. 11261/2003), deve comunque salvaguardare con tali atti che sia rispettata la destinazione di legge, che riserva stabilmente (come sottolinea la sentenza, pag. 31) i relativi spazi all'uso delle persone che stabilmente abitano le singole unità immobiliari del fabbricato, limite che nel ricorso il Fi. non dichiara e documenta di aver posto, nei sensi di cui si è prima discusso, ai terzi da lui aventi causa.
La violazione del vincolo è implicita nella sua scelta di dividere l'area vincolata più vasta da queste piccole aree riservate e nel suo intendimento di considerare queste aree liberamente rivendibili dagli acquirenti.
6) Il sesto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 18 L. 765/1967 e dell'art. 9 circolare LLPP n. 3210/1967 nonché vizi di motivazione.
Viene qui riproposta la questione relativa al calcolo della superficie da destinare a parcheggio e quindi della correlata cubatura al netto o al lordo dei muri perimetrali dell'edificio.
Parte ricorrente reputa, citando la circolare ministeriale, che la cubatura debba essere computata detraendo i muri perimetrali esterni.
La censura è infondata.
Il testo normativo, che prevale sulle letture che possono aver fornito datate circolari, anteriori alla vita dell'istituto e alla sua elaborazione nel mondo giuridico, depone nel senso voluto dalla sentenza impugnata.
La legge urbanistica (art. 41-sexies Legge 1150/1942) conteneva all'epoca la previsione in base alla quale "nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni venti (successivamente ex art. 2 l. n. 122 del 1989: dieci) metri cubi di costruzione".
La nozione di costruzione, che è diversa da quella di volume o volumetria, suscettibile di margini di opinabilità, implica indefettibilmente il riferimento anche ai muri esterni, giacché non può concepirsi costruzione senza i muri perimetrali che la delimitano.

La doglianza va quindi respinta.
6.1) Il motivo presenta un altro profilo, concernente la mancata considerazione, nella superficie a suo tempo effettivamente vincolata, degli spazi (un'area di 33,22 mq, ricorso pag. 39) «occupati da "muro di confine", "marciapiede e gabbia cancello" e "gradini interno cortile"», manufatti considerati dalla Corte di appello quali "ostacoli fissi".
Secondo il ricorrente trattasi invece di spazi funzionali al parcheggio e come tali da conteggiare.
La questione è posta anche nel settimo motivo, in cui si deduce che questi ostacoli fissi erano descritti in progetto ed erano ormai goduti dai condòmini.
Anche questa doglianza merita il rigetto.
Con apprezzamento di merito incensurabile in sede di legittimità, la Corte di appello ha ritenuto che i manufatti non fossero da includere nel computo del parcheggio e che l'area da essi occupata fosse "superficie effettivamente non disponibile". Invano il ricorso invoca il diverso parere del consulente sulla loro funzionalità e la inclusione dei manufatti nel progetto approvato: la descrizione dei manufatti conforta l'opinione della Corte, facendola apparire congrua e logica, dunque, si ripete, non sindacabile dal giudice di legittimità (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 04.02.2016 n. 2236).

gennaio 2016

CONDOMINIO - VARI: Il gattaro deve ripulire il terrazzo.
Gli animali domestici che fanno litigare i condomini danno filo da torcere anche ai comuni. Non saranno quarantaquattro, ma i gatti del confinante sporcano e fanno rumore: si tratta di una vera colonia felina che l'amante degli animali sfama ogni giorno sul terrazzo di casa sua. Che dopo, però, è un vero e proprio campo di battaglia, disseminato di piatti di plastica sporchi e altri rifiuti.
Il vicino non ce la fa più e chiama la Municipale: scatta l'ispezione Asl. Allora il sindaco del comune impone al «gattaro» di ripulire il terrazzo e far vaccinare e sterilizzare gli animali. E l'ordinanza è legittima perché l'interessato, pur non proprietario dei gatti, ne risulta comunque «tenutario» sulla base della legge 201/2010 sulla tutela degli animali di compagnia.

Lo stabilisce la sentenza 12.01.2016 n. 3, pubblicata dal TAR Sicilia-Catania, III Sez..
Finalità e qualità. Il gattaro deve ridurre entro il limite di legge il numero di animali della colonia nel suo terrazzo. Ciò che conta è il potere di fatto esercitato sui gatti, determinato dalla volontà dell'uomo di occuparsi degli animali, tanto da dar loro da mangiare nella sua proprietà, per quanto a intervalli non regolari.
Non rileva allora la finalità, tanto meno di lucro, del rapporto con la colonia felina. Fondamentale invece è la qualità dell'interessato, definito nell'ordinanza sindacale «tenutario», conformemente alle norme della Convenzione del Consiglio d'Europa recepita con la legge 201/2010, dove è presente più volte la locuzione «ogni animale tenuto o destinato a essere tenuto dall'uomo» (articolo ItaliaOggi Sette del 25.04.2016).

anno 2015
dicembre 2015

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAAscensore, all’esterno meno limiti. Deroga a distanze e vedute se il manufatto è classificabile come «volume tecnico».
Barriere architettoniche. Le condizioni della giurisprudenza amministrativa e di legittimità per superare i vincoli all’installazione.
Posizionare un ascensore all’esterno di un edificio può costituire una scelta tecnica obbligata specie nei centri storici, dove gli immobili più antichi di solito non consentono di realizzare l’impianto all’interno del caseggiato. Da questa scelta obbligata possono però derivare una serie di problematiche, soprattutto in materia di distanze, di titoli abilitativi e di autorizzazioni paesaggistiche, che la giurisprudenza ha risolto in relazione alla natura giuridica del manufatto.
Il volume tecnico
Il TAR Liguria, Sez. I, con la sentenza 03.12.2015 n. 1002, ha respinto il ricorso con cui un confinante aveva impugnato il provvedimento comunale che assentiva al condominio proprietario del palazzo di fronte la realizzazione di un ascensore esterno. I giudici liguri hanno affermato la natura di volume tecnico del manufatto e hanno di conseguenza escluso la violazione delle norme in tema di vedute e di distanze tra costruzioni (articoli 907 e 873 del Codice civile).
Nella sentenza si ricorda innanzitutto che per volume tecnico deve intendersi quell’opera edilizia priva di una autonomia funzionale, anche potenziale, destinata a contenere gli impianti serventi di una costruzione principale per soddisfarne le esigenze tecniche. In questa nozione rientrano anche gli impianti che non possono essere ubicati all’interno della costruzione, ma che devono considerarsi necessari per il pieno utilizzo dell’abitazione, tra cui, appunto, l’ascensore.
La decisione condivide sul punto l’orientamento già espresso dalla Cassazione (n. 2566/2011) secondo cui questa nozione di volume tecnico rispecchia il mutamento anche demografico della nostra società, che ormai «considera l’ascensore come un bene indispensabile non solo alla vita delle persone con problemi di deambulazione, ma anche di coloro che trovano sempre più difficoltoso salire e scendere i numerosi piani di scale che li separano dalle vie pubbliche».
Il Tar ha inoltre escluso la violazione dell’articolo 79, comma 2, del Dpr n. 380/2001, che impone il rispetto delle distanze anche nel caso di opere finalizzate alla eliminazione di barriere architettoniche, nell’ipotesi in cui tra queste ed gli altri fabbricati «non sia interposto alcuno spazio o alcuna area di proprietà o di uso comune». Viene richiamata al riguardo la pronuncia del Consiglio di Stato n. 6253/2012, secondo cui nell’interpretazione di tale norma va dato rilievo al Dm n. 236/1989, ovvero il regolamento di attuazione della legge sulle barriere architettoniche. L’articolo 2 del decreto, infatti, qualifica come spazio esterno «l’insieme degli spazi aperti, anche se coperti, di pertinenza dell’edificio o di più edifici» e come parti comuni dell’edificio «quelle unità ambientali che servono o che connettono funzionalmente più unità immobiliari».
Applicando questo criterio interpretativo all’ultima parte dell’articolo 79, comma 2, appare chiaro che il legislatore, nel far riferimento a spazi o aree «di proprietà o di uso comune», ha inteso richiamare non solo il dato giuridico dell’esistenza di una comproprietà o di una servitù di uso comune, ma anche il semplice elemento materiale dell’esistenza di uno spazio comunque denominato, che per le sue caratteristiche si presti a essere impiegato dai residenti di entrambi gli immobili confinanti.
Inoltre la definizione di parte comune non presuppone che le unità immobiliari siano parte di un medesimo edificio; anzi, dal combinato disposto con la definizione di spazio esterno si ricava che uno spazio esterno comune può certamente interessare anche più edifici.
Il vincolo paesaggistico
Sempre in relazione alla natura di volume tecnico, il Tar Campania, con la sentenza n. 6431/2014, ha poi ricordato che in base all’articolo 7, comma 2, della legge n. 13/1989 sull’eliminazione delle barriere architettoniche, gli ascensori esterni ai manufatti anche se alterano la sagoma dell’edificio sono soggetti a mera autorizzazione (oggi sostituita dalla Dia), grazie all’articolo 48 della legge n. 457/1978.
I giudici napoletani hanno anche evidenziato come la stessa ratio che in materia urbanistica porta a escludere i volumi tecnici dal calcolo della volumetria edificabile induce ugualmente a escludere gli stessi dal divieto di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria.
Dunque per i giudici gli interventi che abbiano dato luogo alla realizzazione di soli volumi tecnici, quali gli ascensori, rientrano nell’eccezione di cui all’articolo 167, comma 4, lettera a), del Codice dei beni culturali (Dlgs n. 42/2004) e sono pertanto suscettibili di accertamento della compatibilità paesaggistica (anche se, in senso contrario si è espresso il Consiglio di Stato, sezione IV, con la sentenza n. 2222 del 29.04.2014).
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In condominio via libera possibile con 500 millesimi. Gli spazi comuni. I contrari possono non pagare.
L’installazione di un ascensore in un edificio che ne è sprovvisto costituisce un’innovazione, quindi in condominio la delibera deve essere assunta in assemblea con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno 2/3 del valore millesimale dell’edificio (articolo 1136, comma 5, del Codice civile).
È ritenuta una innovazione utile, ma consentita soltanto se non arrechi pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, non alteri il decoro architettonico o non renda talune parti dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino, da intendersi come sensibile menomazione dell’utilità che costui può trarre dalla cosa comune.
L’uso delle parti comuni
Il concetto di inservibilità della cosa comune non può però consistere nel semplice disagio subìto rispetto alla sua nomale utilizzazione, ma è costituito dalla sua concreta inutilizzabilità secondo la sua naturale fruibilità (Cassazione, sentenza n. 18334/2012).
La valutazione è senza dubbio più severa nel caso in cui l’ascensore sia installato all’interno dell’edificio, dove il sacrificio che subiscono le dimensioni delle scale o dell’atrio è più sentito. Ma anche quando l’impianto viene posizionato all’esterno possono insorgere problemi, fermi restando gli identici presupposti per ritenere legittima l’opera.
Esiste in ogni caso un “principio di solidarietà condominiale” che ha un peso nelle decisioni tra vicini di casa, soprattutto se agevolano chi è disabile oppure semplicemente anziano.
Il principio è stato recepito, oltre che da consolidata giurisprudenza (vedi da ultimo Cassazione, n. 16486/2015), anche dalla riforma del condominio (legge n. 220/2012), che modificando l’articolo 1120 del Codice civile ha disposto che le innovazioni dirette ad eliminare le barriere architettoniche, tra cui appunto l’installazione dell’ascensore, possono essere deliberate con il voto favorevole della maggioranza degli intervenuti in assemblea portatori di almeno la metà del valore millesimale.
La disciplina si applica in via generale a tutti gli edifici, non necessariamente solo a quelli in cui dimorino soggetti affetti da menomazioni o limitazioni funzionali permanenti, perché la norma serve a consentire la “visitabilità” degli edifici da parte di tutti coloro che hanno occasione di accedervi, compresi eventuali portatori di handicap.
Le spese
Si tratta comunque di una innovazione voluttuaria, nel senso che la decisione della maggioranza non obbliga i contrari a partecipare alla spesa. Paga solo chi intende usufruire del servizio.
Nulla vieta ad alcuni condomini di esprimersi favorevolmente all’installazione e di dichiarare di non volersi avvantaggiare dell’ascensore, con la conseguenza che coloro che invece si servono dell’impianto dovranno sopportare anche la quota di spesa dei condomini non aderenti.
I contrari possono sempre, anche in tempi successivi, entrare a far parte della comunione, rimborsando le spese sostenute dai proprietari dell’impianto, versando cioè una quota comprensiva del costo dell’installazione e della manutenzione straordinaria eventualmente eseguita nel corso degli anni: il tutto tenendo magari presente, da un lato, la svalutazione della moneta nel frattempo intervenuta e, dall’altro, il minor valore dell’opera per vetustà, uso e obsolescenza
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.01.2016).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: L'ascensore è un bene necessario.
L'ascensore esterno all'edificio non è una vera e propria costruzione: il condominio ben può realizzarlo a meno di tre metri dal confine con la proprietà del vicino, a patto che la tromba delle scale sia troppo stretta per ospitare la cabina. E ciò perché la popolazione italiana invecchia sempre di più e l'impianto va considerato come un bene necessario per evitare agli anziani di fare le scale a piedi.

È quanto emerge dalla sentenza 03.12.2015 n. 1002, pubblicata dalla I Sez. del TAR Liguria, la regione del nostro Paese dove la crescita zero si fa sentire di più.
Il ricorso del confinante è accolto, ma per un vizio procedurale sul titolo edilizio e non per la lamentata violazione delle norme sulle distanze fra edifici. Secondo la giurisprudenza della Cassazione deve essere considerato ogni opera edilizia priva di alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, che risulta destinata a contenere gli impianti serventi di una costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali.
Nella categoria rientrano le condotte idriche e termiche che non è possibile realizzare all'interno dello stabile. E altrettanto vale per l'ascensore: anche i piccoli spazi previsti appunto per la salita e la discesa dei passeggeri non possono far mutare l'opinione in materia.
Insomma: il computo delle distanze tra le proprietà non può tener conto dell'innovazione rappresentata dalla colonna dell'ascensore progettato dal condominio. Spese del giudizio compensate appunto perché il ricorso è in parte respinto (articolo ItaliaOggi del 12.01.2016).
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MASSIMA
L’ingegner Lu.Be. si ritenne leso dalle determinazioni indicate nell’epigrafe per il cui annullamento notificò l’atto 29.07.2015, depositato il 04.08.2015, affidato alle seguenti censure:
- violazione dell’art. 7 della legge 07.08.1990, n. 241 in tema di partecipazione, imparzialità, pubblicità e trasparenza dell’azione amministrativa, eccesso di potere per contraddittorietà tra provvedimenti, illogicità, erroneità manifesta, ingiustizia grave e manifesta.
- Violazione dell’art. 3 della legge 07.08.1990, n. 241, dell’art. 9, comma 1, del dm 1444 del 1968, dell’art. 79 del dpr 06.06.2001, n. 380, degli artt. 873 e 907 cod. civ., eccesso di potere per insufficiente istruttoria e motivazione, travisamento dei fatti e dei presupposti, erroneità manifesta.
Si è costituito in causa il condominio di Recco in via Cavour 52 che ha chiesto respingersi la domanda.
Con atto debitamente notificato è intervenuta in causa la signora Ch.No. che ha chiesto respingersi la domanda.
Con atto notificato il 16.10.2015, depositato il 26.10.2015, il ricorrente ha dedotto il seguente ulteriore motivo:
- violazione dell’art. 3 della legge 07.08.1990, n. 241, dell’art. 9, comma 1, del dm 1444 del 1968, dell’art. 79 del dpr 06.06.2001, n. 380, degli artt. 873 e 907 cod. civ., della normativa in tema di superamento delle barriere architettoniche, omessa motivazione, travisamento dei fatti e degli atti presupposti.
Le parti hanno depositato memorie e documenti.
L’impugnazione è rivolta contro gli atti del comune di Recco che hanno assentito la realizzazione dell’ascensore con sporti di uscita sulla facciata a settentrione del condominio resistente: si tratta di un immobile elevato per cinque piani fuori terra che dalla documentazione risulta non avere altre possibilità di installare l’ascensore al servizio dei suoi abitanti. Il fabbricato di proprietà dell’interessato è ubicato in posizione retrostante rispetto al condominio, sì che si pongono questioni soprattutto sulle distanze tra il bene in progetto e l’abitazione del ricorrente.
L’amministrazione condominiale presentò perciò la d.i.a. che preannunciava l’inizio delle opere, il ricorrente intervenne nel procedimento, ottenne la sospensione dei lavori, la cui esecuzione è stata invece legittimata dall’impugnata revoca della citata sospensione.
Con il primo motivo l’interessato denuncia la violazione procedimentale che vizierebbe la revoca impugnata, in quanto trattasi di un atto che incide su una pregressa situazione tutelata, sì che la sua perdita di efficacia può essere decisa solo previo il rispetto delle garanzie procedimentali; nella specie tale osservanza non vi sarebbe stata, posto che l’atto con cui l’amministrazione preannunciava l’intendimento di revocare la precedente sospensione dell’efficacia della d.i.a. è stato inviato il 06.05.2015, che tale comunicazione venne ricevuta dall’odierno ricorrente il 13.05.2015, e che l’atto lesivo è datato 18.05.2013.
Su tali presupposti il collegio deve convenire con la censura, posto che la revoca della sospensione dell’efficacia della d.i.a. che era stata decisa informava favorevolmente la situazione giuridica del ricorrente, sì che egli avrebbe avuto titolo ad avere per tempo la comunicazione ed a controdedurre.
Il motivo è pertanto fondato, ma la sua attitudine a comportare l’annullamento delle determinazioni impugnate (art. 21-octies della legge 07.08.1990, n. 241) potrà essere apprezzata all’esito dell’esame degli ulteriori profili dedotti.
Con la seconda articolata censura il ricorrente lamenta nell’ordine la violazione:
- dell’art. 9 del dm 02.04.1968, n. 1444;
- dell’art. 79 del dpr 06.06.2001, n. 380;
- degli artt. 873 e 907 del codice civile.
La norma di cui al decreto 1444/1968 sarebbe violata in quanto non intercorrerebbe il necessario distacco tra la parete finestrata dell’immobile di proprietà dell’interessato e la cabina dell’ascensore che è prevista in vetro con poggioli installati ai diversi piani, così da permettere il transito degli utenti verso gli appartamenti posti ai vari livelli.
La violazione denunciata deriverebbe dalla misurazione operata dal tecnico officiato dal ricorrente, che tuttavia ha considerato le distanze esistenti tra i due fabbricati tracciando una linea in diagonale, e con ciò violando le regole che la condivisa giurisprudenza ha istituito al riguardo (cass. 25.06.1993, n. 7048, tar Sardegna, 14.05.2014, n. 335) che ritiene invece illegittimo l’apprezzamento dei distacchi tra gli edifici avvalendosi del criterio radiale. Ne consegue che non avendo i due immobili una diretta frontistanza la misura indicata è erronea e non può essere condivisa.
Con un successivo profilo di impugnazione il ricorrente lamenta che la cabina dell’ascensore sarà posta a meno di tre metri dal muro confinario esistente tra le due proprietà, bene su cui è tra l’altro edificato un parapetto che consente la vista sul condominio, sì che la nuova edificazione si porrebbe in violazione degli artt. 873 e 907 cod. civ..
In ordine alla prima delle norme citate si osserva che
la giurisprudenza (cass. 03.02.2011, n. 2566 e cons. Stato, 6253 del 2012) ha condivisibilmente negato la natura di costruzione all’ascensore realizzato all’esterno di un caseggiato, in quanto l’aggiunta di tale manufatto non avrebbe potuto essere ammessa dalla conformazione della tromba delle scale o degli altri ambienti interni.
La decisione soprattutto della corte di cassazione è giunta all’esito di una riflessione che ha portato a delineare la nozione di volume tecnico come quell'opera edilizia priva di alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, che viene destinata a contenere gli impianti serventi di una costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali della costruzione medesima. Si tratta di quegli impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che tuttavia non possono essere ubicati all'interno di questa, come quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore.
La nozione così introdotta è derivata appunto dalla consapevolezza maturata in giurisprudenza relativamente al significato della proprietà, soprattutto condominiale, in una società che è mutata anche anagraficamente, e che considera l’ascensore come un bene indispensabile non solo alla vita delle persone con problemi di deambulazione, ma anche di coloro che trovano sempre più difficoltoso salire e scendere i numerosi piani di scale che li separano dalle vie pubbliche (nel caso in questione sino a quattro livelli sopra quello terreno).
L’applicazione dei condivisi principi giurisprudenziali al caso di specie comporta la dichiarazione di infondatezza del motivo in esame, posto che
il computo delle distanze tra le proprietà non può tener conto dell’innovazione rappresentata dalla colonna dell’ascensore in progetto, non dovendosi mutare tale opinione solo perché la rappresentazione grafica del manufatto erigendo prefigura degli spazi destinati allo sbarco degli utenti ai diversi livelli; si tratta infatti degli accessori di un manufatto che non va considerato volume tecnico per le ragioni esposte, sì che anche i piccoli spazi previsti appunto per la salita e la discesa dei passeggeri non possono far mutare l’opinione al riguardo.
Un’ulteriore censura va esaminata, benché essa presupponga la disattesa considerazione dell’ascensore come costruzione, e come tale ne afferma la soggezione alla disciplina sulle distanze legali.
Rileva al riguardo il ricorrente che il vano ascensore in progetto fronteggerà la parete rocciosa che si contrappone alla facciata nord del condominio controinteressato, e che venne scavata alla base al tempo della costruzione del caseggiato.
La deduzione è corroborata dalla citazione della giurisprudenza che, ai fini del controllo del rispetto delle distanze legali, considera i rilievi di terra creati dall’opera dell’uomo alla stregua di una costruzione, così come può dirsi almeno in parte per la parete posta a settentrione del condominio.
L’assunto è ulteriormente sviluppato con la considerazione della proprietà del muro o parete in capo al ricorrente, ovvero con quella della comproprietà del versante tra le parti in causa, cosa che legittimerebbe comunque l’interessato a dedurre il vizio in considerazione.
Il tribunale non può condividere neppure questo motivo.
Non è infatti prodotto alcun documento che permetta di ritenere che la proprietà del ricorrente si estenda sino al muro, dovendosi per ciò ritenere la carenza di idonei titoli a dar la prova del diritto affermato.
Per sostenere la tesi in esame nel corso dell’udienza per la discussione della causa il difensore del ricorrente ha fatto riferimento a quanto si deduce dai documenti nn. 12 e 13 prodotti dal condominio il 16.10.2015 per affermare che il confine tra le proprietà in contestazione passa sul colmo della parete, restando così insufficiente il distacco tra la facciata della casa ed il fronte roccioso.
Anche in questo caso è possibile rilevare che l’interessato nulla ha allegato in ordine al diritto vantato sui beni in questione, sì che la mera produzione ad opera della controparte di una raffigurazione dello stato dei luoghi può difficilmente essere ricondotta alla nozione di asserzione fatta contra se.
Appare piuttosto corretto l’esame della situazione in fatto alla luce della norme che il codice civile dedica al rapporto tra proprietà vicine, risultando corretto affermare che la specie è regolata dall’art. 881 c.c., in quanto la stessa memoria notificata contenente i motivi aggiunti espone che in caso di pioggia l’acqua scorre sulla parete di che si tratta e così in direzione del fondo condominiale. Ciò configura la situazione del piovente, terminologia utilizzata dalla norma citata per attribuire la titolarità esclusiva del diritto reale sul muro a colui che deve sopportare la caduta delle acque da un tetto o appunto lungo un muro.
Deve pertanto concludersi che anche a voler considerare l’ascensore alla stregua di una costruzione non è dal muro divisorio che possono misurarsi le distanze di legge, trattandosi di un bene che, allo stato delle produzioni e nei limiti della cognizione prevista dall’art. 8 c.p.a., va attribuito in piena proprietà al condominio controinteressato.

E’ poi dedotta l’illegittimità degli atti impugnati, nella parte in cui integrano la violazione dell’art. 907 cc che deriverebbe dalla vicinanza tra la cabina dell’ascensore in progetto ed il prospetto da cui il ricorrente dichiara di esercitare il diritto di veduta sul fondo del condominio sottostante.
La censura è pertanto nel senso che il prospetto (ad esempio immagine di cui al doc. 11 della produzione del condominio 16.10.2015) posto sulla sommità della parete o muro che suddivide i rispettivi fondi aggetta sul condominio, sì che risulterebbero illegittimi gli atti impugnati nella parte in cui hanno ammesso la possibilità di apporre la cabina dell’ascensore ad una distanza inferiore a quella prevista dalla norma denunciata, che a sua volta richiama la modalità di misurazione del distacco che è prevista dall’art. 905 cc.
Il motivo così formulato peraltro collide con la
condivisa giurisprudenza (ad esempio cass. 07.04.2015, n. 6927) che nega la possibilità di configurare l’esistenza del diritto di veduta quando il suo esercizio sia previsto dalla sommità di un muro che costituisce elemento divisorio tra due o più fondi: nella specie sì è già rilevata la scarsa chiarezza circa il confine tra i fondi, ma è certo che la doglianza si basa sulla violazione del diritto che il ricorrente ritrarrebbe dagli atti impugnati ove l’ascensore fosse posto a distanza inferiore a quella di legge rispetto al punto sommitale della parete.
La tutela legale di una consimile situazione di fatto è peraltro esclusa dalla lettura data dalla corte di cassazione alla norme denunciate, con che anche questo motivo non può trovare favorevole considerazione.
Tali conclusioni inducono a ritenere inammissibili anche le censure proposte con i motivi aggiunti, posto che la mancata prova della posizione differenziata in capo al ricorrente esclude che egli possa legittimamente censurare l’inserimento del nuovo ascensore nella facciata nord del condominio resistente.
In conclusione l’infondatezza o l’inammissibilità di tutti i rilievi sollevati dal ricorrente esclude l’incidenza dell’omissione procedimentale rilevata nel corso dell’esame del primo motivo di impugnazione sulla legittimità dei provvedimenti (art. 21-octies citato).
Il ricorso va pertanto accolto in parte, in parte respinto o dichiarato inammissibile, ma gli atti impugnati non possono essere annullati (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 03.12.2015 n. 1002 - link a www.giustizia-amministratva.it).

novembre 2015

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAIl magazzino non può usare la canna fumaria. Impianti. Per la Cassazione occorre il legame di accessorietà dell’unità immobiliare.
Il ripristino dell’impianto di riscaldamento centralizzato non può essere rivendicato dalle unità immobiliari che per loro conformazione non sono servite da tale impianto.
La Corte di Cassazione, con sentenza 27.11.2015 n. 24296, ha affermato che il proprietario di un magazzino non servito dall’impianto di riscaldamento centralizzato, per ragioni di conformazione dell’edificio, non può legittimamente vantare un diritto di condominio sull’impianto medesimo, perché questo non è legato all’unità immobiliare da una relazione di accessorietà (che si configura come il fondamento tecnico del diritto di condominio), ossia da un collegamento strumentale, materiale e funzionale consistente nella destinazione all’uso o al servizio della medesima.
In sostanza, un condòmino agiva in giudizio chiedendo che fosse dichiarata la nullità della delibera con la quale l’assemblea condominiale aveva disposto la demolizione della parte finale della canna fumaria e la sua chiusura, con ciò pregiudicando il suo diritto all’utilizzo di tale impianto. In realtà, il condòmino la usava dal 1993 come canna fumaria del camino posto in un locale al piano terra di sua proprietà. Ma quella canna era stata abbandonata sin dal 1985, per effetto della trasformazione dell’impianto di riscaldamento centralizzato in autonomo. Il condominio aveva poi deciso la demolizione a causa del pericolo di crollo.
La Corte di cassazione, confermando la decisione del giudice distrettuale, ha evidenziato che il collegamento è stato operato tra la canna fumaria e il camino posto nel locale magazzino al piano terra di proprietà del ricorrente, sicché è irrilevante che all’interno dello stabile la parte istante fosse proprietaria di un’altra unità immobiliare.
Infatti, la relazione di accessorietà, che si configura come il fondamento tecnico del diritto di condominio, va considerata su base reale, in relazione a ciascun piano o porzione di piano in proprietà esclusiva, senza che a tal fine abbia rilievo il vincolo pertinenziale creato dal singolo condomino tra più unità immobiliari di sua esclusiva proprietà all’interno dello stesso edificio condominiale. Il presupposto per l’attribuzione della proprietà comune in favore di tutti i compartecipi viene meno se le cose, gli impianti, i servizi di uso comune, per oggettivi caratteri strutturali e funzionali, siano necessari per l’esistenza o per l’uso (ovvero siano destinati all’uso o al servizio) di alcuni soltanto dei piani o porzioni di piano dell’edificio.
Rispetto all’impianto di riscaldamento centralizzato, il proprietario del magazzino non può dunque rivendicare la natura condominiale del bene
 (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.12.2015).
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MASSIMA
Va in primo luogo osservato che, contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente, non ha rilievo la titolarità, in capo al Do., anche di un appartamento (al quinto piano) nell'ambito dello stesso fabbricato condominiale, perché nella specie la controversia attiene all'utilizzo della canna fumaria per il tramite del collegamento operato con il camino posto nel locale magazzino al piano terra di proprietà del medesimo Do..
E la relazione di accessorietà, che si configura come il fondamento tecnico del diritto di condominio, va considerata, su base reale, in relazione a ciascun piano o porzione di piano in proprietà esclusiva, senza che a tal fine abbia rilievo il vincolo pertinenziale creato dal singolo condomino tra più unità immobiliari di sua esclusiva proprietà all'interno dello stesso edificio condominiale.
Occorre prendere le mosse dagli accertamenti compiuti dalla Corte d'appello:
(a) il locale magazzino di cui il ricorrente è proprietario e a tutela del quale ha agito per vedersi riconosciuto il diritto all'utilizzo della canna fumaria non era servito dall'impianto termico centralizzato quando questo era in esercizio;
(b) il Do. ha realizzato all'interno del locale un caminetto che ha provveduto a collegare alla canna fumaria.
Ritiene il Collegio, in conformità della propria giurisprudenza (Cass., Sez. II, 07.06.2000, n. 7730), che
il proprietario dell'unità immobiliare (nella specie, magazzino) che, per ragioni di conformazione dell'edificio, non sia servita dall'impianto di riscaldamento centralizzato, non può legittimamente vantare un diritto di condominio sull'impianto medesimo, perché questo non è legato alla detta unità immobiliari da una relazione di accessorietà (che si configura come il fondamento tecnico del diritto di condominio), e cioè da un collegamento strumentale, materiale e funzionale consistente nella destinazione all'uso o al servizio della medesima.
Il presupposto per l'attribuzione della proprietà comune in favore  di tutti i compartecipi viene meno, difatti, se le cose, gli impianti, i servizi di uso comune, per oggettivi caratteri strutturali e funzionali, siano necessari per l'esistenza o per l'uso (ovvero siano destinati all'uso o al servizio) di alcuni soltanto dei piani o porzioni di piano dell'edificio.
Correttamente, pertanto, la Corte d'appello ha escluso che l'utilizzazione della canna fumaria, per lo scarico dei fumi dal camino realizzato nel magazzino a piano terra, rientrasse in un'ipotesi di uso frazionato della cosa comune, non essendo l'impianto termico e la canna fumaria, per oggettivi caratteri strutturali e funzionali, a servizio di quel locale. Cade anche la premessa della censura di violazione degli artt. 1120 e 1136 cod. civ., prospettata sul presupposto di una condominialità rispetto a quel bene che invece non sussiste.

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAIl disabile ha diritto al «prolungamento» dell’ascensore. Condominio. Tribunale di Milano.
Un milanese ultraottantenne, residente al quinto piano, vince in tribunale la causa contro il condominio che gli bocciava la richiesta di far arrivare fino al suo piano, a proprie spese, l’ascensore che aveva capolinea solo al quarto. Il prolungamento è invece un suo pieno diritto secondo il Tribunale di Milano (XIII sezione civile, giudice monocratico Giacomo Rota), che gli ha dato ragione con la sentenza 12.11.2015 n. 12791.
Il contenzioso prende le mosse dalla proposta dell’anziano condòmino di innalzare il vano dell’impianto di un ulteriore piano, fino al suo alloggio, il tutto a sue spese. E correda la richiesta con pareri tecnici e progetto.
Infine (maggio 2014) si arriva all’assemblea, che boccia il prolungamento perché i lavori potrebbero ledere il decoro del palazzo (di notevole pregio architettonico) e la stabilità e sicurezza dell’immobile. La delibera è quindi impugnata in Tribunale.
Entrano in scena l’articolo 1120 del Codice civile, che riguarda le innovazioni vietate (legittimabili solo all’unanimità), e il 1102, che autorizza gli interventi che il singolo può realizzare a sue spese, purché non alterino la destinazione della cosa comune e non impediscano agli altri un pari uso.
Il giudice monocratico ha chiarito che il singolo non ha bisogno di chiedere autorizzazioni all’assemblea per realizzare innovazioni che rimangano nei binari di entrambi gli articoli: nei limiti di legge, è un inalienabile diritto soggettivo, salvo eventuali circostanziati limiti precisati nel regolamento contrattuale.
In ogni caso, spetta ai dissenzienti dimostrare, in concreto, i motivi che ostano all’innovazione. Ma l’assemblea, osserva il giudice, ha respinto la proposta senza fornire l’onere della prova dell’asserito rischio per la stabilità. E ha sostenuto che i lavori avrebbero impedito l’uso dell’ascensore per un po’ di tempo: un problema, dato il grave stato di salute di alcuni condomini. Ma la circostanza è stata ritenuta dal giudice ininfluente per valutare la legittimità del diniego, e ha accertato il diritto del condòmino a fare i lavori, condannando il condominio alle spese di giudizio
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.12.2015).

ottobre 2015

CONDOMINIOLe «varie ed eventuali» non ammettono delibere. Prevale l’obbligo di preventiva informazione.
Assemblee. Vademecum sull’uso dello spazio aperto nell’ordine del giorno.

A fine assemblea, l’ultimo punto dell’ordine del giorno presenta invariabilmente la dicitura “varie ed eventuali”. Ma cosa può concretamente significare? E cosa si può decidere davvero?
I giuristi che hanno indagato la formula sono concordi nel ritenere che la voce in esame sia volta a individuare:
1) comunicazioni rese dall’amministratore o dai condomini senza l’impegno di spesa, salvo il caso di minimi esborsi;
2) suggerimenti e raccomandazioni rivolte dai condomini alla persona dell’amministratore;
3) richieste di chiarimenti allo stesso amministratore al fine di ottenere indicazioni operative in ordine a particolari condotte o prassi applicative;
4) richieste di inserimento di una determinata questione o argomento all’ordine del giorno di una prossima assemblea;
5) relazioni di aggiornamento su questioni già oggetto di precedente discussione all’esito di mandati esplorativi o di attività di scrutinio e selezione di preventivi di spesa;
6) argomenti di secondaria importanza e di minimo rilievo pratico e comunque tali da non richiedere una specifica menzione nell’ordine del giorno e di essere oggetto di una deliberazione assembleare.
Ma quali criticità può sollevare l’eventuale inserimento di questa voce, apparentemente innocente, nell’ordine del giorno?
La questione principale è data dalle conseguenze che possono determinarsi a fronte di una eventuale discussione e deliberazione da parte dell’organo assembleare. Infatti, le delibere assunte sotto la voce in esame, potendo violare l’obbligo di preventiva informazione dei condomini convocati in assemblea, si prestano a essere impugnate al fine di farne accertare la loro invalidità.
Tale voce, infatti «non può tradursi in un contenitore eterogeneo, da cui far scaturire argomenti a sorpresa per gli ignari condomini» (così afferma il Tribunale di Roma, sentenza del 19.06.2012, n. 12684). Ciò ha condotto parte della dottrina e della giurisprudenza a orientarsi per una tesi decisamente restrittiva, la quale ritiene che, pur consentendo tale voce la discussione in sede assembleare di qualsiasi argomento, ancorché lo stesso non figuri espressamente nell’ordine del giorno, nessuna deliberazione, a pena di annullabilità, può invece essere assunta all’esito della discussione medesima.
Ne consegue che se, a seguito dell’informazione e della relativa discussione sul punto, emerga la necessità di adottare una decisione in merito a qualche argomento ritenuto particolarmente rilevante e bisognoso di una più approfondita valutazione, la delibera dovrà necessariamente essere rimandata a una successiva riunione, nella quale sarà inserito tale argomento nell’ordine del giorno con una voce specifica.
La giurisprudenza, soprattutto di merito, ha segnato i limiti di impiego della formula di stile offrendo un ventaglio di fattispecie concrete senza dubbio idonee a orientare la condotta dell’amministratore e della stessa assemblea dei condòmini.
In particolare, tra le deliberazioni assunte dall’assemblea che risultano non idonee a essere inserite sotto la dizione “varie ed eventuali” si segnalano:
1) l’esecuzione di lavori di rifacimento della facciata dell’edificio condominiale, precisandosi, al riguardo, che il relativo argomento debba al contrario essere specificamente inserito nell’avviso di convocazione dell’assemblea, in quanto attinente alla materia dell’amministrazione straordinaria del bene comune;
2) la diffida assembleare alla rimozione di piante posizionate sul balcone di un condomino;
3) la costituzione di un fondo speciale finalizzato a fronteggiare spese condominiali urgenti;
4) il pagamento del compenso a un professionista il quale abbia prestato la propria opera a vantaggio del condominio, laddove tale spesa non sia contemplata nell’ordine del giorno e ove non sia raggiunta la prova circa il conferimento dell’incarico stesso;
5) la decisione di abbattimento di un albero proposta dal condomino quale utilizzatore esclusivo di un giardinetto condominiale;
6) la decisione di stipulare un contratto di assicurazione contro gli incendi;
7) l’autorizzazione concessa a un condomino per la realizzazione di una pensilina;
8) la decisione di diniego all’installazione da parte di un condomino di una canna fumaria sul muro perimetrale dello stabile condominiale
(articolo Il Sole 24 Ore del 27.10.2015).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATALibertà di parabola, limiti all’installazione. Tlc. Sul tetto solo se non c’è spazio nei locali privati.
L’installazione di una parabola o antenna sul terrazzo condominiale può essere effettuata dal condòmino non arbitrariamente, ma tenendo conto del libero uso della proprietà comune da parte degli altri condòmini, nel rispetto del decoro architettonico e se non c’è la possibilità di utilizzare spazi propri.
L’applicazione di tali regole, fissate dall’articolo 1122-bis del Codice civile, sono state ribadite dal TRIBUNALE di Roma con la sentenza n. 9279/2015.
A fronteggiarsi sono un condominio e una società conduttrice di un ampio locale commerciale all’interno del fabbricato. La società chiede all’amministratore una copia delle chiavi di accesso al terrazzo condominiale, per poter installare un’antenna parabolica per la ricezione del segnale satellitare, utile per lo svolgimento della propria attività lavorativa, comprendente gestione di attività di front e back office, recapito corrispondenza e sorveglianza non armata. L’amministratore si rifiuta di consegnare le chiavi, negando il diritto all’uso del bene comune.
La disputa, dopo l’esito negativo della procedura di mediazione, arriva in Tribunale dove la società ribadisce il suo diritto all’installazione della parabola, che le avrebbe fatto risparmiare anche 84 euro al mese rispetto all’abbonamento Adsl che aveva in essere. Il condominio, dal canto suo, sostiene che il diritto vantato dalla società non sia assoluto, ma che deve invece «considerarsi subordinato alla condizione della impossibilità di utilizzare spazi propri»: condizione che nel caso non sussisteva, potendo la società «installare l’antenna sulle mura del fabbricato da essa condotto in locazione».
Il Tribunale ha rigettato la richiesta della società, alla luce del costante indirizzo giurisprudenziale che riconosce l’esistenza del diritto a installare parabole e antenne sul terrazzo condominiale, prevedendo però alcuni limiti: l’impianto non deve impedire il libero uso della proprietà comune da parte degli altri condomini; non deve recar danno alla proprietà comune, specie sotto il profilo del decoro architettonico; e deve risultare l’impossibilità per il condomino di utilizzare spazi propri.
E in riferimento a tale ultimo limite, la non adeguatezza degli spazi propri deve essere provata. Nel caso di specie, la società non solo non ha fornito la prova della impossibilità di installare l’impianto sull’immobile da essa condotto in locazione, ma la parabola, come affermato dalla Ctu, avrebbe potuto effettivamente essere installata sulla porzione di fabbricato della stessa società
(articolo Il Sole 24 Ore del 27.10.2015).

luglio 2015

AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIO: Cassonetti solo in cortile se c’è il «porta a porta». Raccolta rifiuti. Tar Piemonte.
I cassonetti vanno messi nei cortili condominiali nel caso di raccolta di rifiuti “porta a porta”.
Il TAR Piemonte, Sez. I, con la sentenza 10.07.2015 n. 1169 ha ritenuto che i condòmini sono tenuti a posizionare i cassonetti della raccolta differenziata all’interno dei cortili quando in ambito cittadino siano attuati i sistemi di raccolta differenziata “porta a porta”.
Il condominio ricorrente aveva impugnato l’atto con cui il gestore del servizio pubblico di raccolta, trasporto e smaltimento dei rifiuti urbani del Comune di Torino, aveva imposto al condominio di procedere alla collocazione dei cassonetti della raccolta differenziata all’interno del cortile condominiale, con l’obbligo di esporli sulla pubblica via nelle aree e nei giorni stabiliti dal gestore. A parere del condominio l’internalizzazione dei rifiuti non costituirebbe un principio di carattere generale, e in ogni caso ne consentirebbe la derogabilità in presenza di specifici presupposti .
Il Tar non ha condiviso l’argomentazione, ritenendo che il regolamento comunale di gestione dei rifiuti urbani prevedesse la collocazione dei cassonetti sul suolo pubblico salvo che non fossero attuati in ambito cittadino sistemi di raccolta differenziata “porta a porta”, nel qual caso scatterebbe il diverso principio secondo cui i proprietari privati hanno l’obbligo di posizionare i cassonetti della raccolta differenziata all’interno degli spazi pertinenziali di proprietà e di esporli su suolo pubblico nei giorni e nelle ore di raccolta stabiliti dal gestore del servizio pubblico.
Pertanto, avendo il Comune di Torino introdotto già da tempo il sistema di raccolta differenziata “porta a porta” in ambito cittadino, estendendolo gradualmente nel corso del tempo alle diverse zone cittadine, il principio generale applicabile risultava quello della collocazione dei cassonetti all’interno degli spazi pertinenziali di proprietà privata.
Il Tar, pur riconoscendo che la circolare del presidente della giunta regionale n. 3 del 25.07.2005 ammetteva delle deroghe nel caso in cui l’internalizzazione dei cassonetti poteva costituire intralcio o ostacolo al passaggio nelle stesse pertinenze dei fabbricati o dare luogo a problemi igienici, ha ritenuto che nel caso di specie il gestore non aveva imposto al condominio una precisa collocazione dei cassonetti, ma i suoi dipendenti si erano limitati ad individuare quella collocazione come la più confacente.
In altre parole, il contenuto dell’imposizione del gestore era limitato all’obbligo del condominio di collocare i cassonetti all’interno del cortile condominiale. Restava in facoltà del condominio proporre al gestore una diversa collocazione dei cassonetti all’interno del cortile condominiale che arrecasse minor pregiudizio alle ragioni dei condomini e che nel contempo fosse tecnicamente attuabile senza pregiudizio per l’efficace gestione del servizio pubblico di raccolta dei rifiuti urbani.
La circostanza poi che l’internalizzazione dei cassonetti avrebbe sottratto dei posti già adibiti a parcheggio, a parere del Tribunale era irrilevante, trattandosi di meri interessi privati destinati a recedere a fronte dell’interesse pubblico alla corretta realizzazione del sistema di raccolta dei rifiuti “porta a porta
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.12.2015).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATADisabili, va concesso il nullaosta comunale alla piattaforma. Condominio. Andrebbe indicata l’alternativa praticabile.
Se un condòmino richiede al comune la possibilità di installare, nel vano scale condominiale, una piattaforma elevatrice, anche in deroga al regolamento edilizio, la domanda non può essere rifiutata per l’esistenza in astratto di soluzioni tecnicamente praticabili ma deve fondarsi sull’indicazione di reali alternative concretamente praticabili.
Questo il principio contenuto nella motivazione della sentenza 03.07.2015 n. 1541 del TAR Lombardia-Milano, Sez. II.
La vicenda che ha portato alla decisione citata prende l’avvio quando due condòmini chiedevano al Comune il permesso per installare nel vano scale una piattaforma elevatrice necessaria per il superamento delle barriere architettoniche presenti nell’edificio, opera che peraltro l’assemblea del caseggiato con apposita delibera (allegata alla domanda) aveva autorizzato.
Il Comune, però, con due note, sottolinea la necessità di modificare il progetto in quanto non idoneo ad assicurare la larghezza minima della rampa di scale e delle porte interne della piattaforma di elevazione prevista dal regolamento edilizio. E in ogni caso sarebbe impossibile concedere deroghe ai regolamenti comunali per la praticabilità dell’alternativa tecnica consistente nella realizzazione di un montascale (che non avrebbe richiesto l’assenso del comune e del condominio).
I condòmini protestano ma il Comune non tiene conto delle ragioni chiarite dal tecnico dei condòmini, per le quali veniva ritenuta non praticabile l’installazione di un montascale. E nega il permesso di costruire, ribadendo la possibilità di realizzare soluzioni alternative.
Secondo il Tar Lombardia, che ha annullato provvedimento del Comune, il rigetto della domanda di permesso di costruire, con la quale è stata chiesta la deroga alle norme regolamentari, non può fondarsi sulla semplice esistenza in astratto di ulteriori soluzioni tecnicamente praticabili, ma richiede la precisa indicazione di reali alternative concretamente praticabili.
Questa rigorosa conclusione è pienamente giustificabile se si considera che l’interesse del disabile all’eliminazione delle barriere architettoniche è tutelato da diverse norme, anche costituzionali.
Del resto l’esistenza solo in astratto di altre possibili soluzioni, potrebbe spingere il cittadino ad individuare altri progetti, che potrebbero però poi a loro volta risultare non realizzabili. In ogni caso, come precisano i giudici amministrativi, la “soluzione montascale” non può rappresentare un’alternativa tecnica effettivamente praticabile e rispettosa del regolamento edilizio, bensì una soluzione utile solo per evitare il rilascio di un titolo edilizio e l’assenso dell’assemblea condominiale
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.10.2015).
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MASSIMA
2. Venendo al merito, deve preliminarmente scrutinarsi il primo motivo del ricorso per motivi aggiunti, avente carattere potenzialmente assorbente delle ulteriori censure, con il quale si allega l’illegittimità del diniego di permesso di costruire, in quanto intervenuto dopo la ritenuta formazione del silenzio-assenso.
Il motivo è infondato, per un duplice ordine di ragioni.
2.1 Sotto un primo profilo, risulta comprovato in atti che
l’intervento progettato prevedeva anche l’installazione di una pedana all’esterno dell’edificio e, quindi, richiedeva, sotto questo profilo, l’autorizzazione paesaggistica, stante il vincolo cui è sottoposto l’intero complesso immobiliare.
La formazione del silenzio-assenso è, quindi, espressamente esclusa ai sensi dell’articolo 20, comma 8, del d.P.R. n. 380 del 2001 e dell’articolo 38, comma 10, della legge regionale n. 12 del 2005.

2.2 Deve, poi, rilevarsi che –anche prescindendo dalle considerazioni sopra svolte– il silenzio-assenso non avrebbe potuto in ogni caso formarsi, essendo intervenuto in data 28.11.2013 il preavviso di provvedimento negativo.
Contrariamente a quanto ritenuto dalla difesa dei ricorrenti,
l’interruzione dei termini procedimentali a seguito del preavviso di diniego costituisce istituto di portata generale e, come tale, da ritenere applicabile anche con riferimento al permesso di costruire (v. Cons. Stato, Sez. IV, 19.03.2015, n. 1515, ove, in fattispecie analoga alla presente, concernente l’allegata formazione per silenzio-assenso di un permesso di costruire soggetto alla disciplina dell’articolo 13 della legge regionale dell’Emilia Romagna 25.11.2002, n. 31, si rileva la mancata prospettazione di ragioni convincenti per ritenere non applicabile l’articolo 10-bis della legge n. 241 del 1990).
Nel caso di specie, dopo l’emissione del preavviso di provvedimento negativo, il diniego del permesso di costruire è intervenuto entro i termini previsti dall’articolo 38 della legge regionale n. 12 del 2005, peraltro inferiori rispetto a quelli previsti dall’articolo 20 del d.P.R. n. 380 del 2001.
In particolare, il termine per la conclusione del procedimento ha ripreso a decorre alla scadenza del termine di sette giorni assegnato nel preavviso di diniego per la presentazione di osservazioni (05.12.2013). E’ quindi intervenuta, il 09.01.2014 –ossia dopo trentacinque giorni– la relazione del responsabile del procedimento, che è quindi tempestiva rispetto al termine di quarantacinque giorni cui al comma 3 dell’articolo 38 della legge regionale n. 12 del 2005. Il provvedimento finale è stato emesso, infine, il 16.01.2014, ossia dopo sette giorni, nel rispetto del termine di quindici giorni previsto per l’ultimo segmento procedimentale dall’articolo 38, comma 7, della legge regionale n. 12 del 2005.
2.3 E’, infine, da escludersi che la nota comunale del 16.01.2014 possa rilevare quale (illegittimo) atto di autotutela, trattandosi del diniego con cui si è concluso il procedimento avviato con la presentazione dell’istanza di permesso di costruire e –come detto– di provvedimento intervenuto nei termini e non successivamente alla prospettata formazione del titolo per silentium.
2.4 In definitiva, per le suesposte ragioni, deve respingersi il primo mezzo del ricorso per motivi aggiunti.
3. Possono quindi esaminarsi le censure articolate con il primo motivo del ricorso introduttivo, con le quali i ricorrenti si dolgono delle affermazioni contenute nella comunicazione comunale del 10.10.2013 e nel preavviso di provvedimento negativo, laddove vi si afferma che l’intervento progettato non sarebbe conforme alle disposizioni del Regolamento edilizio e del Regolamento locale di igiene (affermazione, questa, che è richiamata anche dal provvedimento finale di diniego, nel quale si evidenzia che “l’intervento così come proposto non è comunque conforme al vigente Regolamento Edilizio”).
3.1 A riguardo, ritiene il Collegio di non poter accedere alla tesi dei ricorrenti, secondo i quali le disposizioni regolamentari richiamate dal Comune –recanti le regole tecniche sulla larghezza delle scale e delle porte degli ascensori– non sarebbero applicabili nel caso di specie e, quindi, l’intervento proposto potrebbe essere realizzato senza alcuna deroga alle disposizioni del Regolamento edilizio e del Regolamento locale di igiene.
3.2 Viene anzitutto in considerazione l’articolo 139, comma 1 del Regolamento edilizio, ove si legge che “Le scale di uso comune sono disciplinate, quanto a lunghezza, dimensioni e chiusure dalla normativa vigente in materia. Deve in ogni caso essere garantita la possibilità del trasporto di soccorso delle persone”.
Il rinvio alla “normativa vigente in materia” è stato correttamente inteso dal Comune come volto a determinare il richiamo dell’articolo 3.6.10 del Regolamento locale di igiene, il quale prevede che “La larghezza della rampa e dei pianerottoli deve essere commisurata al numero dei piani, degli alloggi e degli utenti serviti, comunque non deve essere inferiore a m. 1,20 riducibili a m. 1,00 per le costruzioni fino a due piani e/o ove vi sia servizio di ascensore. Nei casi di scale che collegano locali di abitazioni, o che collegano vani abitativi con cantine, sottotetti dello stesso alloggio, ecc. può essere consentita una larghezza di rampa inferiore e comunque non minore di m. 0,80”.
Ora, i ricorrenti ritengono che le suddette disposizioni non possano trovare applicazione nel caso di specie.
3.2.1 Quanto all’articolo 139 del Regolamento edilizio, esso è contenuto nel Capo III, rubricato “Gli edifici”, che si apre con l’articolo 135, il quale –secondo i ricorrenti– delimiterebbe l’ambito di applicazione dell’intero Capo ai soli “interventi di nuova costruzione”.
Al riguardo, deve tuttavia evidenziarsi che l’articolo 135 del Regolamento edilizio si riferisce alle “Distanze e altezze”. Non a caso, le parole “Negli interventi di nuova costruzione” sono seguite dall’indicazione della distanza minima dal confine con proprietà di terzi da osservarsi nelle costruzioni. La disposizione non risulta, quindi, aver inteso delimitare l’ambito applicativo dell’intero Capo, ma si riferisce solo alle regole sulle distanze applicabili alle nuove costruzioni.
D’altro canto, deve pure tenersi presente che l’articolo 181 del Regolamento edilizio dispone che “Il presente regolamento si applica ai progetti edilizi presentati a far data dalla sua entrata in vigore”. Le disposizioni contenute nel Regolamento sono, quindi, applicabili in linea di massima –e salva la concessione di deroghe– a tutti gli interventi successivi, a prescindere dalla circostanza che abbiano ad oggetto edifici esistenti o nuove costruzioni.
A tale conclusione non osta la previsione dell’articolo 123 del medesimo Regolamento edilizio, concernente “Eliminazione e superamento delle Barriere Architettoniche”, il quale stabilisce che: “1. Nell’ambito dell’ambiente costruito e non costruito devono essere realizzati tutti gli interventi atti a favorirne la massima fruibilità da parte di tutte le persone disabili, colpite da handicap sia temporaneo che permanente, con ridotte o impedite capacità motorie, sensoriali, mentali e psichiche, per garantire loro una migliore qualità della vita col superamento di ogni forma di emarginazione e di esclusione sociale.
2. A tal fine negli edifici e negli spazi esterni, in tutti gli interventi edilizi, nonché nei cambi di destinazione, devono essere previste e realizzate tutte le soluzioni conformi alla disciplina vigente in materia di eliminazione e superamento delle barriere architettoniche.
3. I progettisti, in armonia col contesto più ampio in cui si inserisce l’intervento, possono proporre soluzioni innovative e alternative a quelle usuali, che, debitamente documentate, dimostrino comunque il rispetto delle finalità stabilite dalle specifiche leggi vigenti in materia di superamento e abbattimento di barriere, per un utilizzo ampliato ed in piena autonomia e sicurezza dell’ambiente da parte di tutte le persone, in special modo per i portatori di handicap.
4. In particolare, a partire dalle modalità e caratteristiche indicate dalle norme vigenti al momento della realizzazione dell’opera e in condizioni di adeguata sicurezza ed autonomia, devono essere garantiti i requisiti di adattabilità, visitabilità, accessibilità
.”.
L’articolo 123 non costituisce, invero, una disposizione alternativa rispetto a quella dell’articolo 139, ma sancisce un generale favor –in conformità ai principi costituzionali e alle previsioni della disciplina normativa nazionale e regionale– nei confronti degli interventi di abbattimento delle barriere architettoniche.
La disposizione, quindi, non detta regole esaustive e alternative per la realizzazione degli interventi volti a realizzare tale finalità, ma enuncia principi e criteri rilevanti al fine della eventuale concessione di deroghe alle altre previsioni del Regolamento, proprio in vista del conseguimento dell’obiettivo della piena accessibilità degli edifici da parte dei portatori di handicap (v. in particolare il comma 3).
3.2.2 Quanto all’articolo 3.6.10 del Regolamento locale di igiene, la non applicabilità nel caso di specie deriverebbe –secondo i ricorrenti– dalle previsioni dell’articolo 3.0.0 del medesimo Regolamento, ove si stabilisce che “Le norme del presente Titolo non si applicano alle situazioni fisiche esistenti e già autorizzate o comunque conformi alla previgente normativa” (primo comma).
Ritiene tuttavia il Collegio che
la prevista inapplicabilità alle previsioni del Regolamento locale di igiene alle situazioni preesistenti e già autorizzate debba essere letta unicamente come affermazione dell’inesistenza di un obbligo di adeguamento alle nuove regole degli edifici già realizzati in conformità alla disciplina previgente. Ciò, però, fermo restando che le previsioni del Regolamento debbano essere osservate –in linea di massima, e fatta salva la possibilità di concessione di deroghe– anche in tutti i casi di interventi da eseguire sulle costruzioni esistenti.
Tali conclusioni sono confermate dai successivi commi del medesimo articolo 3.0.0, ove si legge che:
- “Le norme si applicano, per gli aspetti inerenti l’igiene e la sanità pubblica, a tutti i nuovi interventi soggetti al rilascio di concessione o autorizzazione da parte del Sindaco” (secondo comma):
- “Agli edifici esistenti o comunque autorizzati all’uso, per interventi anche parziali di ristrutturazione, ampliamenti e comunque per tutti gli interventi di cui alle lettere b), c) e d) dell’art. 31 della Legge 05.08.1978, n 457, si applicheranno le norme del presente Titolo fermo restando che per esigenze tecniche documentabili saranno ammesse deroghe agli specifici contenuti in materia di igiene della presente normativa purché le soluzioni comportino oggettivi miglioramenti igienico sanitari” (terzo comma);
- “A motivata e documentata richiesta possono adottarsi soluzioni tecniche diverse da quelle previste dalle norme del presente Titolo, purché tali soluzioni permettano comunque il raggiungimento dello stesso fine della norma derogata” (quinto comma).
In altri termini, l
a disposizione del Regolamento locale di igiene non può essere interpretata come volta a consentire, in via generale, di apportare, senza alcun limite, modifiche alle costruzioni esistenti e oggi conformi alla normativa vigente, in modo da renderle difformi da tali nuovi standard.
La possibilità di non applicare le previsioni del regolamento di igiene –in linea di principio operanti anche per gli interventi da eseguire su costruzioni già autorizzate– è, invece, prevista e subordinata alla concessione di apposite deroghe.
3.3 Analoghe considerazioni valgono anche con riferimento all’articolo 131, comma 2, primo periodo del Regolamento edilizio, il quale dispone che “La larghezza di passaggio netto delle porte esterne non deve essere inferiore a 90 cm e per le porte interne non inferiore a cm 80”.
Secondo l’avviso dei ricorrenti, tale previsione non dovrebbe trovare applicazione nel caso di specie, poiché l’unica disciplina cui il Comune avrebbe dovuto fare riferimento sarebbe quella dell’articolo 127 del Regolamento edilizio, il quale prevede la realizzazione di piattaforme elevatrici o servoscala “solo nel caso di interventi in edifici esistenti nei quali vi sia comprovata impossibilità tecnica di superamento di dislivelli mediante la realizzazione di rampe”.
E invero, la circostanza che debba trovare applicazione il predetto articolo 127 non esclude, di per sé, l’applicabilità anche delle disposizioni in materia di larghezza delle porte, contenute all’articolo 131, posto che l’intervento di che trattasi ha ad oggetto proprio la realizzazione di una piattaforma elevatrice dotata di porte, e considerato che nessuna previsione concernente la larghezza delle porte è contenuta all’articolo 127.
3.4 In definitiva, deve concludersi rilevando che
all’intervento proposto sono applicabili –in linea di principio– le previsioni degli articoli 131 e 139 del Regolamento edilizio e 3.6.0 del Regolamento locale di igiene. Nella specie, poiché il progetto presentato dai ricorrenti non consente di assicurare la larghezza minima della rampa di scale e la larghezza minima delle porte della piattaforma elevatrice previste dalle suddette previsioni, lo stesso può essere realizzato solo subordinatamente alla concessione di una deroga ai regolamenti comunali.
L’immediata applicabilità delle disposizioni richiamate dal Comune risulta, del resto, essere stata riconosciuta anche dagli stessi ricorrenti, i quali hanno proposto espressa istanza di deroga alle norme regolamentari.
Per tutte le suesposte ragioni, devono conseguentemente rigettarsi le censure articolate dai ricorrenti con il primo motivo del ricorso introduttivo, con le quali si afferma la possibilità di assentire l’intervento senza necessità di derogare ai vigenti regolamenti comunali.
4. Ciò posto, al fine di esaminare le residue censure proposte dai ricorrenti con il secondo motivo del ricorso introduttivo (attinente alla mancata considerazione delle possibilità di deroga alle previsioni regolamentari), e con il secondo motivo del ricorso per motivi aggiunti (attinente alla mancanza di corrispondenza tra le ragioni ostative al rilascio del permesso di costruire indicate nel preavviso di diniego e quelle poi enunciate nel provvedimento finale di rigetto della domanda) occorre premettere che tutte le disposizioni regolamentari richiamate dal Comune e ostative alla realizzazione dell’intervento risultano essere suscettibili di deroga.
4.1 Si è già detto della derogabilità delle norme del Regolamento locale di igiene, prevista dalle richiamate previsioni dei commi terzo e quinto dell’articolo 3.0.0.
4.2 Quanto agli articoli 131 e 139 del Regolamento edilizio, la derogabilità delle relative previsioni discende dal disposto dell’articolo 182 del medesimo Regolamento, in base al quale “Salvo quanto previsto nei precedenti articoli, eventuali deroghe al presente Regolamento possono essere consentite esclusivamente con deliberazione del Consiglio Comunale, fatti comunque salvi i pareri obbligatori per l’esecuzione degli interventi edilizi da parte della Commissione Edilizia, della Commissione del Paesaggio e degli Organi di Vigilanza”.
4.3 Deve poi soggiungersi, per completezza, che non è invece rilevante, nella specie, la previsione dell’articolo 3, comma 1, della legge 09.01.1989, n. 13 –richiamata dai ricorrenti– in quanto la disposizione si riferisce alla possibilità di realizzare interventi di abbattimento delle barriere architettoniche in deroga “alle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi (...)”.
Non risulta rilevante neppure la previsione dell’articolo 20 della legge regionale 20.02.1989, n. 6 (“Norme sull'eliminazione delle barriere architettoniche e prescrizioni tecniche di attuazione”), poiché la disposizione in questione, pure richiamata dai ricorrenti, si riferisce alla possibilità di concedere deroghe –in presenza di vincoli culturali o paesaggistici o di “impossibilità tecnica connessa agli elementi statici ed impiantistici degli edifici oggetto dell'intervento”– rispetto alle sole norme volte all’abbattimento delle barriere architettoniche contenute nell’allegato alla stessa legge.
Potrebbe, semmai, avere un ambito applicativo in parte rilevante ai fini del presente giudizio la disposizione dell’articolo 19, comma 1, della stessa legge regionale n. 6 del 1989, che prevede espressamente la possibilità di concedere deroghe in favore di interventi specificamente finalizzati all'abbattimento delle barriere architettoniche e localizzative; sennonché anche tale disposizione si riferisce alla sola deroga “agli standard, limiti o vincoli previsti dagli strumenti urbanistici vigenti”, e non quindi alle previsioni dei regolamenti comunali, rilevanti nel caso di specie.
4.4 In definitiva, la derogabilità tanto del Regolamento edilizio, quanto del Regolamento locale di igiene risulta dalle stesse previsioni dei suddetti regolamenti.
5. Venendo quindi all’esame delle modalità per la concessione di deroghe alle previsioni dei regolamenti comunali invocate dal -OMISSIS- nel caso oggetto del presente giudizio, deve tenersi presente che, sulla base del quadro normativo sopra ricostruito:
-
la concessione di eventuali deroghe al Regolamento locale di igiene risulta essere subordinata all’accertamento che “le soluzioni comportino oggettivi miglioramenti igienico-sanitari (nelle fattispecie di cui al terzo comma dell’articolo 3.0.0, sopra riportato) e che le soluzioni tecniche diverse da quelle previste dal Regolamento “permettano comunque il raggiungimento dello stesso fine della norma derogata (articolo 3.0.0, quinto comma);
-
la deroga alle previsioni del Regolamento edilizio è invece subordinata a un’apposita deliberazione del Consiglio comunale (articolo 182), il quale dovrà peraltro tenere conto delle finalità di piena accessibilità degli edifici da parte delle persone portatrici di handicap (finalità richiamate dall’articolo 123 del Regolamento, e riconducibili ai principi enunciati dalla Costituzione e attuati dalla disciplina legislativa statale e regionale).
6. Ciò posto, deve osservarsi che le ragioni poste alla base del diniego di permesso di costruire consistono, in buona sostanza:
(i) nella ritenuta impossibilità di concedere deroghe ai regolamenti comunali per la praticabilità dell’alternativa tecnica consistente nella realizzazione di un montascale;
(ii) nella realizzabilità di tale soluzione alternativa senza alcun atto di assenso del Comune e del condominio;
(iii) nella mancanza di autorizzazione paesaggistica.
6.1 Di tali ragioni, solo quella sub (ii) risulta essere stata effettivamente preannunciata nel preavviso di provvedimento negativo.
E invero, nella relazione del tecnico dei ricorrenti, depositata agli atti del procedimento in data 08.11.2013, era stata illustrata, con dovizia di argomenti, la necessità di prescegliere la soluzione progettuale consistente nella realizzazione di una piattaforma elevatrice, indicando le ragioni per le quali veniva ritenuta non praticabile l’installazione di un montascale (v. doc. 9 dei ricorrenti).
A fronte di tale dettagliata relazione, nella comunicazione di motivi ostativi il Comune non ha indicato la soluzione consistente nella realizzazione di un montascale quale alternativa tecnica rispetto all’intervento proposto dai ricorrenti. L’Ente si è, infatti, limitato a richiamare la previsione dell’articolo 78 del d.P.R. n. 380 del 2001, ossia una disposizione che si riferisce alle possibilità di libera installazione di “servoscala nonché strutture mobili e facilmente rimovibili”. Tali soluzioni non sono state, quindi, indicate quali alternative tecniche effettivamente praticabili e idonee a consentire il rispetto della disciplina regolamentare, bensì quali soluzioni che avrebbero consentito di evitare tanto la necessità del rilascio di un titolo edilizio, quanto quella dell’assenso dell’assemblea condominiale.
Soltanto nella “Relazione finale e proposta di provvedimento per la pratica n. 215/2013-0”, richiamata nel provvedimento di diniego (doc. 15 del controinteressato), viene effettivamente presa in considerazione la praticabilità tecnica della soluzione consistente nella realizzazione di un montascale, e tale soluzione viene indicata quale alternativa praticabile.
Le suddette valutazioni sono state, però, poste alla base del diniego senza consentire alla parte di controdedurre in merito ai dati fattuali presi in considerazione dal Comune e alle considerazioni tecniche svolte dal Responsabile del procedimento.
6.2 Ora, quanto alla predetta motivazione sub (ii), deve osservarsi che –come osservato dai ricorrenti nel secondo motivo del ricorso introduttivo– tale ragione, pur ritualmente preannunciata nel preavviso di provvedimento negativo, non può di per sé fondare il diniego del permesso di costruire.
L’esistenza di una astratta ipotesi progettuale tale da non richiedere alcun titolo edilizio né l’assenso del condominio potrebbe, invero, formare oggetto di un mero “suggerimento” informale al richiedente da parte dell’Ufficio tecnico. L’Amministrazione non può, tuttavia, esimersi dal verificare se sussistono le condizioni per assentire l’intervento richiesto, sia quanto alla legittimazione del soggetto richiedente, sia con riguardo al merito della soluzione progettuale proposta.
Nel caso di specie, il primo di tali profili (legittimazione) avrebbe dovuto essere verificato in concreto dal Comune, posto che la domanda di permesso di costruire era corredata dalla delibera condominiale di assenso all’intervento, solo successivamente sospesa nell’ambito del giudizio civile promosso dal sig. -OMISSIS-.
D’altro canto, la circostanza che l’installazione di un montascale non richieda il rilascio del titolo edilizio di per sé non consente di ritenere che tale soluzione possa essere realizzabile anche in violazione della normativa tecnica sulla larghezza delle scale, in assenza di apposita deroga.
In definitiva, la (teorica) libera realizzabilità della soluzione “montascale” non fa di tale opzione, di per sé, un’alternativa tecnica effettivamente praticabile rispetto al progetto presentato dai richiedenti.
6.3 Quanto alle ulteriori ragioni sub (i) e sub (iii), la loro mancata evidenziazione nel preavviso di diniego non assume, nella specie, rilevanza meramente formale, ma riveste carattere sostanziale, per le ragioni che seguono.
6.3.1 Per ciò che attiene alla motivazione sub (iii), i ricorrenti, ove fossero stati portati a conoscenza della necessità dell’autorizzazione paesaggistica, avrebbero potuto presentare la relativa domanda.
In alternativa, sarebbe stata possibile anche la modifica dell’istanza di permesso di costruire, con rinuncia all’installazione della modesta opera consistente nella pedana esterna, volta al superamento di pochi gradini. E invero –come chiarito da Cons. Stato, Sez. VI, 05.03.2014, n. 1032–
l’abbattimento delle barriere architettoniche può essere realizzato anche in modo parziale e tale da non soddisfare completamente le esigenze di soggetti non deambulanti in modo autonomo, i quali non sono gli unici destinatari della normativa, che fa riferimento anche ai soggetti a “capacità motoria ridotta”, come tali in grado di superare alcuni gradini, ma non diversi piani di scale.
6.3.2 Per ciò che attiene alla motivazione sub (i), la mancata indicazione, nel preavviso di diniego, delle ragioni in base alle quali il Comune ha ritenuto che l’installazione di un montascale possa costituire un’alternativa praticabile, ha impedito ai ricorrenti di prendere in esame le considerazioni tecniche poste alla base di tale valutazione e di interloquire eventualmente con il Comune in merito alla effettiva praticabilità della prospettata soluzione alternativa, fornendo elementi fattuali e valutativi in relazione agli elementi contenuti nella relazione finale del Responsabile del procedimento.
Al riguardo, il Collegio condivide bensì quanto affermato nel provvedimento impugnato, ossia che
la possibilità di concedere deroghe ai regolamenti edilizi debba ammettersi soltanto in assenza di alternative valide ed effettivamente praticabili.
Tuttavia, è proprio nel modus procedendi attraverso il quale il Comune ha ritenuto di poter ravvisare l’esistenza di una alternativa tecnica che l’intero iter procedimentale, e il provvedimento comunale, manifestano i vizi allegati dai ricorrenti.
Occorre invero tenere presente che
l’eliminazione delle barriere architettoniche che impediscono la piena accessibilità degli edifici, limitando la possibilità per le persone affette da handicap di svolgere pienamente la propria personalità e di avere una normale vita di relazione, attiene ad esigenze di rilievo costituzionale primario, riconducibili anzitutto alle previsioni degli articoli 2 e 3 della Costituzione.
A fronte della rilevanza di tali interessi, la sussistenza di alternative praticabili rispetto all’intervento proposto –ossia il presupposto per la concessione della deroga alle previsioni dei regolamenti comunali– costituisce una legittima ragione di diniego del permesso di costruire solo laddove l’individuazione di tali alternative emerga e rilevi in concreto, alla luce di tutti i dati fattuali rilevanti nel caso di specie.
In altri termini,
il rigetto della domanda di permesso di costruire, con la quale sia stata chiesta la deroga alle norme regolamentari, non può fondarsi sulla mera esistenza in astratto di ulteriori soluzioni tecnicamente praticabili, ma –laddove il richiedente abbia illustrato, come nella specie, la non praticabilità, a suo avviso, di altre idonee soluzioni– deve muovere dall’evidenziazione di soluzioni che, sulla base delle circostanze fattuali note, siano da ritenere come reali alternative, ossia come possibilità effettivamente e concretamente praticabili.
E invero,
laddove si ritenesse che l’esistenza solo in astratto di altre possibili soluzioni costituisca una ragione sufficiente per il rigetto dell’istanza di deroga alle norme regolamentari, si finirebbe con il frustrare le finalità stesse della deroga, oltre che i principi costituzionali sopra richiamati, esponendo il richiedente a elaborare altre soluzioni progettuali, che potrebbero però poi a loro volta risultare non effettivamente fattibili.
Proprio per tali ragioni
è necessario che la valutazione tecnica del Comune in merito all’idoneità della soluzione proposta dal richiedente, in deroga ai regolamenti comunali, sia compiuta con il pieno coinvolgimento nell’istruttoria procedimentale del soggetto istante, il cui apporto può consentire la piena acquisizione di tutti gli elementi fattuali e valutativi rilevanti nel caso di specie.
6.4 In conclusione, sul punto, le censure articolate dai ricorrenti con il secondo motivo del ricorso introduttivo e con il secondo motivo del ricorso per motivi aggiunti devono essere accolte, nei sensi e nei termini di quanto fin qui esposto, con assorbimento degli ulteriori profili di censura articolati negli stessi motivi, e non rilevanti ai fini della decisione del ricorso.
7. L’accoglimento delle domande di annullamento proposte dai ricorrenti comporta, per l’effetto, l’annullamento della nota comunale datata 14.11.2013 e del provvedimento di diniego del permesso di costruire.
8.
Non può, invece, trovare accoglimento la domanda di risarcimento del danno, poiché i ricorrenti non hanno fornito alcuna prova del pregiudizio subito, laddove il relativo onere, per consolidato orientamento giurisprudenziale, ricade interamente sulla parte che si assume danneggiata (cfr., tra le più recenti, Cons. Stato, Sez. IV, 26.08.2014, n. 4293).
D’altro canto,
l’annullamento del permesso di costruire lascia residuare un ampio margine di valutazione al Comune al fine di verificare la sussistenza dei presupposti per il rilascio del permesso di costruire in deroga ai regolamenti, per cui –mancando un accertamento in ordine all’effettiva spettanza del bene della vita richiesto– l’accoglimento dell’impugnazione non può costituire il presupposto per l'accoglimento della domanda di risarcimento del danno (v. Cons. Stato, Ad. Plen., 03.12.2008 n. 13; Id., Sez. IV, 04.09.2013 n. 4439; TAR Lombardia, Sez. II, 16.03.2015, n. 729).

aprile 2015

CONDOMINIOImpianti, chi si distacca paga. Il condominio non può sopportare i costi di adattamento. La Cassazione sul riparto spese di riscaldamento autonomo e valvole termostatiche.
Nel caso in cui un condomino abbia provveduto a installare nel proprio appartamento un impianto autonomo di riscaldamento aggiuntivo a quello centralizzato, la successiva installazione delle valvole termostatiche che comporti la difficoltà di tenere distinti i consumi relativi ai diversi impianti può essere corretta dal punto di vista tecnico, ma gli eventuali maggiori costi derivanti da tale adattamento rimangono interamente a carico del condomino che vi ha dato causa.

Questo il principio che si può evincere dalla sentenza 29.04.2015 n. 8724 della II Sez. civile della Corte di Cassazione.
Nel caso di specie un condomino aveva impugnato la delibera con cui l'assemblea aveva deciso di installare le valvole termostatiche sui singoli elementi radianti collegati al riscaldamento centralizzato e di ripartire i consumi annuali per il 20% in base alla tabella millesimale e per l'80% secondo i consumi effettivi rilevati dai contatori. Il condomino, che sosteneva di avere installato un impianto aggiuntivo autonomo nel proprio appartamento, si lamentava del fatto che così facendo sarebbe stato tecnicamente impossibile distinguere i consumi dell'impianto comune da quelli dell'impianto autonomo, così di fatto privandolo del diritto di utilizzare anche quest'ultimo in alternativa a quello centralizzato, pena l'addebito di spese ingiustificate e comunque non controllabili.
L'impugnazione, disattesa in primo grado, era invece stata accolta dai giudici di appello, costringendo quindi il condominio a portare la questione dinanzi alla Suprema corte.
I giudici di legittimità hanno quindi avuto modo di chiarire in primo luogo il fatto che la scelta (libera) di ogni condomino di distaccarsi dall'impianto centralizzato, oltre a dover essere esercitata con le modalità volta per volta previste dalla normativa temporalmente e territorialmente applicabile, non può mai concretarsi in un aggravio di costi per la collettività condominiale, essendo finalizzata a soddisfare interessi personali. Tuttavia, ferma restando la legittimità della delibera condominiale con la quale si adotti il sistema di termoregolazione, la Cassazione ha parimenti osservato come sia nel diritto del condomino che si sia distaccato dall'impianto centralizzato ottenere, ove tecnicamente possibile, di eliminare il rischio di una sovrapposizione dei consumi con soluzioni che non comportino maggiori costi per la compagine condominiale.
Di qui la decisione di cassare la sentenza impugnata e di rinviarla ad altra sezione della corte di appello, proprio allo scopo di appurare nello specifico la possibilità tecnica di installare, a parità di spesa, le valvole termostatiche con modalità tali da rendere trasparenti i consumi dell'impianto centralizzato e di quello autonomo. In caso contrario, infatti, ove cioè detta soluzione comporti maggiori spese per gli altri condomini, i giudici sono stati chiari nell'evidenziare come i relativi costi non possano che essere sopportati dal condomino nell'interesse esclusivo del quale sia stato installato l'impianto autonomo.
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L'iter corretto da seguire.
La riforma del condominio ha inserito nell'ambito della normativa condominiale una nuova disposizione che consente il distacco dall'impianto centralizzato. Questa possibilità era già stata ammessa dai giudici, che avevano anche precisato le condizioni per distaccarsi dall'impianto comune.
La legge di riforma si è limitata a recepire i principi affermati dalla giurisprudenza, senza precisare però il corretto iter da seguire per evitare un distacco illegittimo. Si deve considerare, infatti, che l'impianto di riscaldamento viene dimensionato e progettato per servire un determinato numero di unità immobiliari. Di conseguenza il distacco (soprattutto se multiplo) può determinare problemi tecnici tali da non garantire condizioni climatiche adeguate nei vari alloggi. Il problema è che la legge non prevede l'obbligo di preventiva informazione all'amministratore o all'assemblea.
Tuttavia, se si vuole scongiurare il pericolo di interminabili liti giudiziarie, il condomino che intende distaccarsi (prima di iniziare le operazioni) dovrà informare l'amministratore (che a questo punto dovrà rimettere la questione all'assemblea), dimostrando la sussistenza delle condizioni di legge e, cioè, l'assenza di notevole squilibrio termico e la mancanza di aggravio delle spese.
In ogni caso il condomino rinunciante, mentre è esonerato dal dover sostenere le spese per l'uso del servizio centralizzato, è invece obbligato a concorrere nelle spese di conservazione e manutenzione (e messa a norma) dell'impianto centralizzato. È vero, infatti, che il condomino non perde la proprietà proporzionale dell'impianto, bensì ne rinuncia al solo godimento.
- Il notevole squilibrio termico. Bisogna rilevare che se l'abitazione del condominio che si vuole distaccare si trova, per esempio, al primo piano dello stabile, confinante sopra e sotto e su tutti i lati con vani di proprietà di altri condomini che usufruiscono dello stesso impianto di riscaldamento, ne deriva, per immediata percezione, che l'interruzione del riscaldamento nei locali al primo piano comporterà per i vicini una diminuzione di calore.
Come hanno chiarito i giudici, però, la diminuzione di calore che subiscono i condomini confinanti con il distaccato non può essere considerata come notevole squilibrio termico. Tuttavia se lo squilibrio può non essere notevole con un distacco o due, potrebbe quasi sicuramente esserlo al terzo o al quarto (dipendendo dal numero delle unità servite). Pertanto i primi condomini potranno distaccarsi, mentre quelli successivi, incorrendo nel divieto, dovranno astenersene. Occorrerà pertanto valutare caso per caso a seconda dei singoli impianti interessati.
- L'aggravio delle spese. Secondo la legge è sufficiente l'aumento di pochi centesimi di spesa a carico degli altri condomini perché si concretizzi l'aggravio di spesa e quindi il distacco sia da considerarsi illegittimo. Pertanto, seppure lo squilibrio funzionale fosse minimo, ma il distacco determinasse un piccolo aumento di spesa, la rinuncia al servizio sarebbe illegittima. Di conseguenza i soggetti che si distaccano rimangono obbligati alla corresponsione anche delle spese di esercizio (carburante, corrente elettrica ecc.) se e nella misura in cui dal loro distacco non consegua una diminuzione di tali oneri a carico degli altri condomini: se le spese rimangono uguali non è corretto che i rimanenti fruitori del servizio si facciano carico anche delle spese di chi non ne fruisce.
- Il problema del contrasto tra legislazione nazionale e regionale. La legge di riforma del condominio si è quindi preoccupata che dall'intervento non derivino squilibri all'impianto termico o aggravi di spesa per gli altri condomini, ma ha totalmente ignorato di considerare se l'intervento (o gli interventi nel medesimo palazzo) non vadano a inquinare o a consumare di più rispetto a quanto già faceva l'impianto centralizzato.
In altre parole, la nuova norma che consente il distacco non è inserita in una disciplina organica avente a oggetto il contenimento dei consumi energetici e, pertanto, non è preordinata al perseguimento di finalità di risparmio energetico né di riduzione delle emissioni inquinanti. Tutto questo in controtendenza rispetto a quanto prevede quella diversa legislazione nazionale che ha recepito le direttive europee in materia di contenimento de consumi energetici, la quale preferisce il mantenimento degli impianti centralizzati rispetto alla creazione di nuovi impianti autonomi.
Del resto, emerge come anche nella disciplina regionale si ritenga preferibile -dal punto di vista tecnico- il mantenimento degli impianti centralizzati negli edifici esistenti, impedendo la loro trasformazione in impianti autonomi, a meno che non esistano cause tecniche o di forza maggiore che rendono necessaria tale trasformazione. In particolare le regioni più virtuose, esercitando la concorrente potestà legislativa loro spettante in materia, hanno introdotto da tempo divieti o limitazioni all'installazione di impianti termici individuali.
Così la regione Piemonte ha ritenuto, nell'ambito della sua potestà legiferante, di vietare, in un'ottica di salvaguardia dell'aria e del miglioramento delle prestazioni energetiche degli edifici piemontesi, gli interventi finalizzati al distacco e alla trasformazione di impianti centralizzati in autonomi negli edifici che hanno più di 4 unità abitative.
Nella legislazione della regione Lombardia, nel caso di edifici costituiti da o più unità immobiliari nelle quali si sia optato per l'installazione di impianti termici indipendenti per ciascuna unità immobiliare, anche a seguito di decisione condominiale di dismissione dell'impianto termico centralizzato o di decisione autonoma del singoli, permane invece l'obbligo di produrre, oltre a una relazione tecnica, l'attestato di prestazione energetica.
In altre parole è fatto obbligo al responsabile dell'impianto autonomo di realizzare preliminarmente una verifica energetica che metta a confronto diverse soluzioni impiantistiche, redigendo altresì una relazione con le motivazioni della soluzione prescelta. E quando la somma dei singoli impianti è uguale o maggiore di 100 kW, oltre alla relazione tecnica e all'Ace, bisogna produrre anche la diagnosi energetica (articolo ItaliaOggi Sette del 18.05.2015).

gennaio 2015

CONDOMINIOLa scala di accesso al tetto resta comune. Condominio. Occorre un titolo valido per poter «inglobare» gli spazi dell’ultimo piano.
La scala per raggiungere il tetto del condominio non si tocca. Anche se gli spazi comuni usati per l’accesso sono ormai in uso esclusivo a un condòmino.
Il caso è abbastanza frequente, soprattutto in città: la fame di terrazzi e sottotetti ha portato in molti casi all’acquisto di quelli che erano beni comuni, o alla loro concessione in uso esclusivo a chi possiede l’appartamento dell’ultimo piano.
In molte situazioni, però, l’accesso al tetto è assicurato da una scala che, partendo dall’ultimo piano (di regola dal pianerottolo) esce sul tetto o sbuca su un terrazzo comune da cui si accede al tetto con un’ulteriore scala. Quando il terrazzo o il lastrico solare vengono però ceduti in esclusiva, spesso l’idea che questi accessi vengano usati impropriamente dai condòmini, attraversando uno spazio che ormai si considera di proprietà, spinge i concessionari del diritto a rendere difficile o addirittura impossibile l’accesso. Si tratta, ovviamente, di un comportamento illegittimo, di cui la Corte di Cassazione, Sez. II civile, si è occupata da ultimo con la sentenza 08.01.2015 n. 40.
Nel caso affrontato dalla Corte la proprietaria dell’unità immobiliare all’ultimo piano aveva anche un terrazzo in uso esclusivo e la mansarda con una servitù di accesso a favore del condominio per la manutenzione del tetto. Al terrazzo si accedeva con una scala condominiale. La condòmina, però, inglobava il volume scala nel suo appartamento, installando una scaletta verticale disagevole e pericolosa.
Il condominio inziava un contenzioso che lo vedeva vittorioso in primo e secondo grado ma la condòmina non si arrendeva. La Cassazione le ha dato a sua volta torto, affermando che i motivi da lei dedotti sono infondati: «poiché nella specie l’area in contestazione riguarda parte del vano scala e gli ultimi tre gradini della originaria scala in legno che collegava, assieme al pianerottolo, il vano alla porta d’accesso al terrazzo condominale, vale, ai fini della prova della proprietà comune in capo ai condòmini, la norma dell’articolo 1117 del Codice civile, relativa alle parti dell’edificio che, in difetto di prova contraria (da fornirsi a opera del condòmino) debbono presumersi comuni».
E dato che dai titoli non era emerso un diritto ma al contrario l’inglobamento era solo una «mera circostanza di fatto», la Cassazione ha confermato la condanna della condòmina a ripristinare a sue spese la «situazione dei luoghi quale esistente prima dei lavori di ristrutturazione entro 120 giorni»; in mancanza, veniva autorizzato il condominio a provvedere e ad addebitare i costi alla condòmina inadempiente
 (articolo Il Sole 24 Ore del 09.01.2015).

anno 2014
novembre 2014

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATABed & breakfast senza permessi. Non è cambio di destinazione d’uso, niente stop per regolamento. Spazi privati. Anche gli asili nido possono essere allestiti nell’appartamento nel rispetto delle regole comuni.
Aguzzare l'ingegno e inventarsi un mestiere, soprattutto quando le offerte di lavoro sono ridotte al lumicino, può rivelarsi la scelta giusta. Se poi l'impiego in questione si svolge direttamente a casa e comporta investimenti contenuti, l'idea comincia a essere davvero appetibile. È il caso dei bed and breakfast e degli asili nido famiglia, due modi intelligenti per guadagnare utilizzando l'alloggio in cui si risiede, sia esso di proprietà o in affitto.
Il bed and breakfast è un'attività a carattere saltuario, svolta a conduzione familiare da privati che utilizzano parte della propria casa per offrire un servizio di alloggio e prima colazione. In condominio non è necessaria l'approvazione dell'assemblea, a meno che gli atti notarili di acquisto o il regolamento condominiale non vietino espressamente questo tipo di attività, differente dalla pensione o dall'affittacamere.
Con la sentenza 20.11.2014 n. 24707, confermando la decisione della Corte d'appello, la Corte di Cassazione -Sez. II civile- ha inoltre stabilito che l'attività di b&b è consentita anche in presenza di un regolamento condominiale che vieti, come nel caso specifico, di «destinare gli appartamenti a uso diverso da quello di civile abitazione o di ufficio professionale privato». Secondo il giudice di appello «l'utilizzo degli appartamenti a tale scopo non comporta il cambio di destinazione d'uso ai fini urbanistici» e, cosa ancora più importante, proprio la definizione di “civile abitazione” citata nel regolamento, risulta essere un presupposto fondamentale per lo svolgimento dell'attività di b&b.
Il condòmino può anche realizzare tutte le opere che ritiene opportune, a patto che non provochino danni alle cose comuni o pregiudizi alle proprietà esclusive altrui.
Per prima cosa, occorre recarsi allo Sportello unico della attività produttive del Comune d'appartenenza e compilare la Scia, la segnalazione certificata di inizio attività. Non serve nessuna iscrizione alla sezione speciale del registro delle imprese, mentre devono essere rispettati alcuni requisiti, come quelli igienico-sanitari previsti dal regolamento edilizio e dal regolamento d'igiene comunale, oltre alla normativa vigente in materia di sicurezza e di somministrazione di cibi e bevande. In linea di massima, anche se ogni regione detta le proprie regole, è necessario che le stanze abbiano dimensioni adeguate e siano presenti due servizi igienici (se l'attività si svolge in più di una stanza). E ancora occorre garantire: l'accesso diretto alle camere da letto destinate agli ospiti; il cambio di biancheria almeno tre volte alla settimana (e all'arrivo do ogni nuovo ospite) e la pulizia quotidiana dei servizi.
Il responsabile dell'attività, oltre a registrare le presenze e comunicarle alle autorità di pubblica sicurezza, è tenuto a sottoscrivere una polizza assicurativa di responsabilità civile, per eventuali danni arrecati agli ospiti. Le tariffe, sono decise liberamente e vanno comunicate alla Provincia, che ogni anno redige un elenco dettagliato con le strutture ricettive operanti nel territorio di competenza.
Per quanto riguarda gli asili nido in famiglia, bisogna prestare un po' più di attenzione al regolamento condominiale. Qualora, ad esempio, non siano consentiti «assembramenti o passaggi più o meno consistenti di persone che possano determinare un disturbo per la collettività condominiale», anche se non esplicitamente indicato il servizio può essere vietato.
Appurata la possibilità di iniziare l'attività in condominio, occorre presentare il progetto a Comune e Asl, con la descrizione dettagliata della propria attività. Anche in questo caso ci sono dei requisiti da rispettare e, come per i b&b, ogni regione ha dettato le proprie norme. A cominciare dai locali in cui si svolge il servizio: c'è bisogno di uno spazio per l'accoglienza; un'area gioco protetta; una zona riposo con lettini separata dal resto della casa; un bagno con fasciatoio e una cucina dove preparare i pasti.
In Trentino, la regione italiana dove il nido famiglia è più diffuso, il responsabile dell'attività è obbligato a seguire un corso di formazione da 250 ore, con lezioni in aula e tirocinio pratico. Solitamente, si possono accudire fino a un massimo di sei bambini e i costi variano dai 3 ai 6 euro all'ora, senza nessuna quota d'iscrizione.
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In sintesi
01 IL REGOLAMENTO
Con la sentenza 24707 del 20.11.2014 la Cassazione ha inoltre stabilito che l’attività di b&b è consentita anche in presenza di un regolamento condominiale che vieti, come nel caso specifico, di «destinare gli appartamenti a uso diverso da quello di civile abitazione o di ufficio professionale privato»
02 NIENTE PARTITA IVA
L’attività di bed and breakfast non è considerata un vero e proprio lavoro e quindi non necessita di iscrizione alla Camera di Commercio e apertura di partita Iva
03 LA SOSPENSIONE
Il responsabile dell’attività è però obbligato a sospenderla per tre mesi l’anno, anche non consecutivi, e affittare un numero massimo di tre camere per sei posti letto.
04 L’ASILO NIDO
Un po’ più complesso è avviare un nido famiglia. In molti casi è obbligatorio un titolo di studio, in altri è sufficiente seguire un corso ad hoc
Non è sempre necessario costituire un’impresa o far parte di una cooperativa: se, ad esempio, ad avviare l’asilo è una famiglia, basterà una scrittura privata tra le famiglie associate. Attenzione al regolamento: se, esempio, non siano consentiti «assembramenti o passaggi più o meno consistenti di persone che possano determinare un disturbo per la collettività condominiale», anche se non esplicitamente indicato il servizio può essere vietato
 (articolo Il Sole 24 Ore del 02.12.2014).
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MASSIMA
Non è illegittimo adibire l’abitazione privata condominiale ad attività commerciale di “affitta camere”, purché non si dimostri l’effettivo pregiudizio in danno ai vicini di casa.
Le disposizioni contenute nel regolamento condominiale che si risolvano nella compressione delle facoltà e dei poteri inerenti al diritto di proprietà dei singoli partecipanti, devono essere espressamente e chiaramente manifestate dal testo o, comunque, devono risultare da una volontà desumibile in modo non equivoco da esso.
L’interpretazione del giudice di merito del regolamento condominiale è insindacabile dalla Cassazione salvo vizi logici. E il giudice di appello, nel caso di specie, con ragionamento «coerente» e «logico» ha ritenuto che il regolamento non vietasse l’attività ricettiva «tenuto conto che la destinazione a civile abitazione costituisce il presupposto per la utilizzazione di una unità abitativa ai fini dell’attività di bed and breakfast».
Una affermazione coerente anche con il regolamento regionale del Lazio n. 16 del 2008, in cui si chiarisce che l’utilizzo degli appartamenti a tale scopo non comporta il cambio di destinazione d’uso ai fini urbanistici
(link a http://renatodisa.com).

ottobre 2014

CONDOMINIO: Animali e condominio.
Domanda
Il divieto di tenere animali è una regola legittima da inserire nel regolamento di condominio?
Risposta
Il quinto comma dell'art. 1138 del cod. civ., introdotto dalla legge di riforma del condominio n. 220/2012, efficace dal 17/6/2013, dispone che «le norme del regolamento non possono vietare di possedere o detenere animali domestici».
Pur non mancando opinioni di segno opposto, la tesi più accreditata -conforme agli orientamenti manifestatisi in passato in seno alla Corte di cassazione, che si ritengono essere stati deliberatamente recepiti dal legislatore nella riforma del condominio- è che tale preclusione (quella, appunto, di vietare gli animali in condominio) operi soltanto con riferimento ai regolamenti di tipo assembleare approvati a partire dal 18.06.2013 e non per quelli assembleari già in vigore prima di tale data, né per quelli di tipo «contrattuale» posto che con riferimento a questi ultimi il 4° comma dello stesso art. 1138 da sempre dispone che «le norme del regolamento non possono in alcun modo menomare i diritti di ciascun condomino, quali risultano dagli atti di acquisto e dalle convenzioni» -intendendosi per tali anche i regolamenti contrattuali– «e in nessun caso possono derogare alle disposizioni degli artt. 1118, 2° comma, 1119, 1120, 1129, 1131, 1132, 1136 e 1137» (articolo ItaliaOggi Sette del 13.10.2014).

luglio 2014

CONDOMINIO: Ascensore installabile autonomamente.
Domanda
Sono l'amministratore di un condominio, un condomino del quale intende realizzare un ascensore a proprie spese e ritiene non necessaria l'autorizzazione dell'assemblea. Vorrei conoscere quale è l'orientamento della giurisprudenza in materia.
Risposta
La pretesa del condomino appare fondata. Anche di recente la Cassazione ha affermato (sent. n. 10582/2014, che ha confermato la sentenza della Corte di appello) che è legittima l'installazione di un ascensore esterno a servizio e a spese di un solo condomino, senza previa autorizzazione dell'assemblea.
L'installazione dell'ascensore esterno a servizio esclusivo di un'unità immobiliare costituisce un'innovazione legittima che può essere eseguita a spese del proprietario (pertanto non richiede l'autorizzazione del condominio) se non pregiudica la stabilità o il decoro architettonico dell'edificio.
In base alla propria giurisprudenza (Cass. n. 14096/2012), la Suprema corte ha affermato che «in tema di condominio, l'installazione di un ascensore, al fine dell'eliminazione delle barriere architettoniche, realizzata da un condomino su parte di un cortile e di un muro comuni, deve considerarsi indispensabile ai fini dell'accessibilità dell'edificio e della reale abitabilità dell'appartamento, e rientra, pertanto, nei poteri spettanti ai singoli condomini ai sensi dell'art. 1102 c.c., senza che, ove siano rispettati i limiti di uso delle cose comuni stabiliti da tale norma, rilevi, la disciplina dettata dall'art. 907 c.c. sulla distanza delle costruzioni dalle vedute, neppure per effetto del richiamo ad essa operato nell'art. 3, 2° c., della legge n. 13/1989, non trovando detta disposizione applicazione in ambito condominiale»
(articolo ItaliaOggi Sette del 07.07.2014).

giugno 2014

CONDOMINIOParti comuni, cambi difficili. La convocazione deve arrivare per raccomandata o per mail certificata. I locali accessori. Per variare la destinazione l'avviso di assemblea va affisso almeno 30 giorni prima.
Maggioranza speciale e regole di convocazione dell'assemblea differenti rispetto a quelle ordinarie per il cambio di destinazione d'uso in condominio.

Con la riforma (la legge 11.12.2012, n. 220, entrata in vigore il 18.06.2013) è diventato più difficile che in passato variare la finalità a cui sono adibiti locali e porzioni di immobili comuni. Si pensi, ad esempio, al cambio di destinazione d'uso dei locali di portineria e alloggio del portiere, quando sia stato soppresso il servizio di portierato.
Partiamo dalle regole per approvare la variazione. Nel regime anteriore alla legge 220/2012, la modifica avveniva con la stessa maggioranza prevista dall'articolo 1136, quinto comma del Codice civile, per le innovazioni. Cioè la maggioranza dei condomini oltre ai due terzi dei millesimi. Da un anno il quadro è cambiato. L'articolo 1117-ter del Codice civile, introdotto dalla legge di riforma, stabilisce infatti che la destinazione d'uso delle parti comuni possa essere modificata «con un numero di voti che rappresenta i quattro quinti dei partecipanti al condominio e i quattro quinti del valore dell'edificio».
Pertanto è necessaria la maggioranza per i cambi di destinazione d'uso.
Anche la nuova norma, comunque, ribadisce comunque che il cambio è permesso solo se non reca pregiudizio alla stabilità o sicurezza del fabbricato, al pari godimento di tutti i condomini e a patto che non ne alteri il decoro.
Comunque si sia arrivati alla versione finale del testo dell'articolo 1136, il risultato è che oggi il riuso di spazi condominiali non più utilizzati è ostacolato, piuttosto che agevolato.
Oltre alle maggioranze, sono più stringenti rispetto alla situazione antecedente anche i termini di convocazione dell'assemblea.
L'avviso d'indizione deve essere affisso per non meno di 30 giorni consecutivi nei «locali di maggior uso comune o negli spazi a tale fine destinati».
La comunicazione ai singoli proprietari, invece, deve arrivare mediante lettera raccomandata o mezzi telematici equipollenti con almeno 20 giorni di anticipo. Ciò significa che non dovrebbe essere ammesso un semplice fax o la consegna a mano.
Infine, all'interno della convocazione è necessario indicare quali siano le parti comuni oggetto della modificazione e quale la nuova destinazione d'uso proposta. Pena la nullità della convocazione.
Sulla conseguente e logica nullità anche della delibera (eventualmente approvata nel corso di una riunione nulla) non c'è, invece, ancora chiarezza. Ma quasi certamente toccherà alla magistratura offrire, di fronte al presentarsi di casi concreti, le prime indicazioni sul punto.
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Passo per passo
01|LA MAGGIORANZA
Per approvare un cambio di destinazioni d'uso, dopo la riforma, occorre il consenso dei quattro quinti dei partecipanti al condominio, che rappresenti almeno i quattro quinti dei millesimi
02|I LIMITI
Il cambio è permesso solo se non reca pregiudizio alla stabilità o sicurezza del fabbricato, al pari godimento di tutti i condomini e a patto che non ne alteri il decoro.
03|L'ASSEMBLEA
L'avviso di convocazione deve essere affisso per non meno di 30 giorni consecutivi nei locali di maggior uso comune o negli spazi a tale fine destinati mentre la comunicazione ai singoli proprietari deve arrivare per raccomandata o mezzi telematici equipollenti con almeno 20 giorni di anticipo. Quindi risultano inammissibili il fax o la consegna a mano.
04|I CONTENUTI
Nella convocazione è necessario indicare quali siano le parti comuni oggetto della modificazione e quale la nuova destinazione d'uso proposta, pena la nullità della convocazione
 (articolo Il Sole 24 Ore del 17.06.2014).

CONDOMINIOL'antenna satellitare ammessa nel rispetto del decoro della casa.
Che cosa fare se un condomino ha installato un'antenna satellitare facendo passare i cavi in ogni dove e i suoi vicini se ne lamentano? In casi del genere, l'assemblea potrebbe risolvere il problema.

Nel marasma di «padelloni» che spesso infestano le facciate interne degli edifici, la lamentela principale ha riguardato l'alterazione del decoro. All'amministratore spetta la prima valutazione dello stato dei luoghi e un compito: spiegare ai condomini che il decoro architettonico cede il passo al diritto all'informazione. Non solo: è sempre utile ricordare che la valutazione della lesione del decoro architettonico dev'essere eseguita tenendo in considerazione la percezione comune di determinate opere ed installazioni (giudice di pace di Grosseto, sentenza 1038 del 19.08.2011); parabole, condizionatori e simili, dice la sentenza, sono percepiti come normali impianti che non sono in grado d'incidere oltremodo sull'aspetto del condominio.
Insomma considerare violazione del decoro l'installazione di un'antenna parabolica non è cosa così scontata.
In questo contesto la riforma del condominio ha previsto un rimedio, passato sotto silenzio: l'articolo 155-bis delle Disposizioni di attuazione del Codice civile. Partiamo dall'articolo 1122-bis del Codice. Tale norma riguarda gli impianti installati dopo il 18.06.2013 (entrata in vigore della legge 220/2012 di riforma del condominio). Per quelli installati prima di tale data, però, le norme codicistiche prevedono un rimedio specifico; è qui che assume rilievo l'articolo 155-bis delle Disposizioni.
La norma, infatti, consente all'assemblea di deliberare –con le maggioranze semplici previste per la prima e seconda convocazione– le prescrizioni necessarie a far sì che gli impianti non centralizzati per la ricezione radiotelevisiva e per l'accesso a qualunque altro genere di flusso informativo (anche da satellite e via cavo) non rechino pregiudizio alla sicurezza, alla stabilità e al decoro dell'edificio. In sostanza, per tutti i casi analoghi, l'assemblea può imporre l'adozione di accorgimenti con spese a carico del condomino interessato. L'amministratore cui è stata segnalata una situazione simile, quindi, avrà il compito di convocare l'assise per le più opportune decisioni in merito.
Si badi che le prescrizioni assembleari devono attenere all'uso delle cose comuni sicuro e alla salvaguardia del decoro senza mai potersi spingere al dettato di accorgimenti che, di fatto, vanificherebbero il diritto d'uso del singolo. Quindi al condomino che ritiene le prescrizioni lesive dei propri diritti spetta sempre il rimedio dell'impugnazione della delibera assembleare.
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I punti chiave
01|I RISCHI
Le antenne televisive poste a servizio delle singole unità immobiliari sono in grado di alterare il decoro architettonico dell'edificio
02|IL RIMEDIO
Le norme permettono di ovviare al problema anche per gli impianti installati prima dell'entrata in vigore della riforma; l'amministratore convoca l'assemblea e la stessa, a maggioranza semplice, può deliberare l'adeguamento degli impianti
03|L'IMPUGNAZIONE
Il condomino cui sono rivolte le prescrizioni può contestarle in assemblea e comunque impugnare la deliberazione
 (articolo Il Sole 24 Ore del 17.06.2014).

maggio 2014

CONDOMINIO: D. de Paolis, Assemblee condominiali. Tabella completa ed aggiornata delle maggioranze per deliberare (Bollettino di Legislazione Tecnica n. 5/2014).

marzo 2014

CONDOMINIO: Impermeabilizzazione soletta.
Domanda
In caso d'infiltrazione dal giardino di proprietà esclusiva soprastante verso la sottostante autorimessa condominiale, come va ripartita la spesa?
Risposta
Per la più recente giurisprudenza della Corte di cassazione (sent. 15841/2011 e 2243/2012) occorre fare applicazione dell'art. 1125 c.c. («Manutenzione e ricostruzione dei soffitti, delle volte e dei solai»), ai sensi del quale «Le spese per la manutenzione e ricostruzione dei soffitti, delle volte e dei solai sono sostenute in parti eguali dai proprietari dei due piani l'uno all'altro sovrastanti, restando a carico del proprietario del piano superiore la copertura del pavimento e a carico del proprietario del piano inferiore l'intonaco, la tinta e la decorazione del soffitto».
Così facendo, le spese relative alla manutenzione e nuova impermeabilizzazione della struttura portante che funge da base del giardino esclusivo e da copertura dell'autorimessa sono ripartite in parti uguali fra il proprietario del giardino, da un lato, e i comproprietari dell'autorimessa dall'altro. A carico dei comproprietari dell'autorimessa resta invece la spesa per l'intonaco e la tinteggiatura della facciata inferiore della struttura. L'eventuale pavimentazione superiore sarà invece a carico del proprietario del giardino (articolo ItaliaOggi Sette del 31.03.2014).

CONDOMINIO: Risparmio energetico.
Domanda
Quali sono le maggioranze che in assemblea possono approvare interventi di risparmio energetico?
Risposta
La materia è stata modificata anche di recente e, allo stato, è regolata da due diverse norme (art. 1120, 2° c., cod. civ. e art. 26, 2° c., L. 10/1091), il cui rapporto non è del tutto chiaro.
La prima norma sembra richiedere che gli interventi costituenti innovazioni «per il contenimento del consumo energetico» siano approvati «con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio», e ciò sempre, tanto in prima quanto in seconda convocazione (art. 1136, 4° c).
L'art. 26, 2° c., citato, invece, stabilisce che «Per gli interventi sugli edifici e sugli impianti volti al contenimento del consumo energetico e all'utilizzazione delle fonti di energia di cui all'articolo 1, individuati attraverso un attestato di certificazione energetica o una diagnosi energetica realizzata da un tecnico abilitato, le pertinenti decisioni condominiali sono valide se adottate con la maggioranza degli intervenuti, con un numero di voti che rappresenti almeno un terzo del valore dell'edificio».
Questa seconda disposizione, caratterizzata da un più basso quorum, sembra differire dalla prima ed essere applicabile in funzione del fatto che l'intervento, a prescindere dalla sua natura di innovazione, sia assistito da «un attestato di certificazione energetica o una diagnosi energetica» (articolo ItaliaOggi Sette del 31.03.2014).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Si intendono per barriere architettoniche –ai sensi dell’art. 2, lett. A), punti a) e b) del d.m. n. 236/1989–
   - “gli ostacoli fisici che sono fonte di disagio per la mobilità di chiunque ed in particolare di coloro che, per qualsiasi causa, hanno una capacità motoria ridotta o impedita, in forma permanente o temporanea”, ovvero
   - “gli ostacoli che limitano o impediscono a chiunque la comoda e sicura utilizzazione di parti, attrezzature e componenti”
sicché, appare evidente che fra tali ostacoli debbano annoverarsi le scale dei palazzi a più piani, non affrontabili in assoluto da soggetti deambulanti con sussidi ortopedici, o comunque fonte di affaticamento –e, dunque, di “disagio”– per chiunque, a causa dell’età o di patologie di varia natura, abbia ridotte capacità di compiere sforzi fisici.
Non può ragionevolmente negarsi, pertanto, che l’installazione di ascensori –certamente fonte di maggiore comodità per chiunque utilizzi un immobile– costituisca anche rimozione di barriere architettoniche, fonte di difficoltà crescente, a seconda del grado di disabilità: non a caso, detti impianti sono espressamente considerati nell’art. 7, comma 2, della legge n. 13/1989.

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Con sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Roma, sez. II-quater, n. 4347/2007 del 14.05.2007 (che non risulta notificata) è stato in parte accolto ed in parte (limitatamente alla domanda risarcitoria) dichiarato inammissibile il ricorso proposto dalla CO. s.p.a. (Co.Se.As.Pu.), per l’annullamento della nota della Soprintendenza n. 16267/B del 18.02.2004, con cui veniva ordinata la sospensione dei lavori, per l’installazione di ascensori nel vano scala dei complessi edilizi siti in Latina, piazza ... nn. 1 e 9, nonché di ogni atto presupposto (ivi compresa la nota n. prot. 6567/B del 06.08.2003) e per l’accertamento del silenzio-assenso, formatosi ai sensi degli articoli nn. 4 e 5 della legge n. 13/1989 e della circolare del Ministero dei Lavori Pubblici n. 1669/U.L. del 22.06.1989, sull’istanza di N.O. presentata il 21.12.2002.
Nella citata sentenza –disposta l’estromissione di due soggetti intervenuti in giudizio– erano ritenute fondate le prospettazioni difensive, riferite ad intervenuto superamento dei termini perentori, imposti dalla citata legge n. 13/1989 per la rimozione delle barriere architettoniche, a tutela dei soggetti disabili.
Avverso la pronuncia in questione proponevano appello (n. 7966/07, notificato il 04.10.2007) il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e la Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio del Lazio, in base alle seguenti argomentazioni difensive:
   I) Sulla normativa applicabile: le opere di cui trattasi non sarebbero rientrate nell’ambito degli interventi per il superamento delle barriere architettoniche, soggetti alla disciplina della legge n. 13/1989 –tenuto conto anche del regolamento di attuazione, emanato con d.m. n. 236 del 14.06.1989– in quanto la quota di prima fermata degli ascensori –coincidendo con il piano rialzato– avrebbe comunque lasciato sussistere sette gradini, non superabili autonomamente da persone disabili, con conseguente applicabilità della disciplina generale, contenuta nel d.lgs. n. 490/1999; il silenzio assenso, di cui all’art. 4 della citata legge n. 13/1989, non si sarebbe comunque formato, non avendo la Co. ottemperato a richieste di integrazione documentale e dovendo ritenersi necessario l’esplicito assenso della Soprintendenza;
   II) Sulla mancata partecipazione al procedimento: con motivazione, “sufficientemente espressa nel provvedimento” l’immediata sospensione dei lavori in corso sarebbe stata giustificata con riferimento all’irreversibile compromissione delle “peculiarità formali e sostanziali di parti del compendio architettonico, sottoposto ad azione di tutela”;
   III) Considerazioni finali: pur non volendo ostacolare l’abolizione delle barriere architettoniche, l’Amministrazione avrebbe inteso tutelare il vincolo artistico gravante sul bene interessato, in rapporto al quale i lavori di cui trattasi sarebbero stati fonte di grave alterazione dello stile e della funzionalità del complesso architettonico tutelato, in presenza di soluzioni alternative, che avrebbero consentito di conciliare gli interessi contrapposti.
La società appellata, costituitasi in giudizio, presentava articolate controdeduzioni in rapporto alle tesi difensive sopra sintetizzate e su tale base la causa è passata in decisione.
Premesso quanto sopra, il Collegio ritiene che l’appello non possa trovare accoglimento, con riferimento alla duplice ed assorbente questione sottoposta a giudizio: la riconducibilità di lavori –finalizzati all’installazione di ascensori nei vani scala di alcuni immobili– alla normativa vigente sul superamento delle barriere architettoniche e, in caso affermativo, la conformità dell’atto impugnato a detta normativa.
Sotto il primo profilo, la risposta non può che essere affermativa, tenuto conto della nozione, deducibile dalla legge 09.01.1989, n. 13 (“Disposizioni per favorire il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati”), nonché dalle relative norme attuative, approvate con d.m. 14.06.1989, n. 236 (“Prescrizioni tecniche necessarie a garantire l’accessibilità, l’adattabilità, e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e della eliminazione delle barriere architettoniche”), ma anche ricorrendo a dati di comune esperienza (rilevanti per il giudizio, sul piano probatorio, ex art. 115, comma 2, c.p.c.).
Si intendono infatti per barriere architettoniche –ai sensi dell’art. 2, lettera A), punti a) e b) del citato d.m. n. 236/1989– “gli ostacoli fisici che sono fonte di disagio per la mobilità di chiunque ed in particolare di coloro che, per qualsiasi causa, hanno una capacità motoria ridotta o impedita, in forma permanente o temporanea”, ovvero “gli ostacoli che limitano o impediscono a chiunque la comoda e sicura utilizzazione di parti, attrezzature e componenti”: appare evidente che fra tali ostacoli debbano annoverarsi le scale dei palazzi a più piani, non affrontabili in assoluto da soggetti deambulanti con sussidi ortopedici, o comunque fonte di affaticamento –e, dunque, di “disagio”– per chiunque, a causa dell’età o di patologie di varia natura, abbia ridotte capacità di compiere sforzi fisici.
Non può ragionevolmente negarsi, pertanto, che l’installazione di ascensori –certamente fonte di maggiore comodità per chiunque utilizzi un immobile– costituisca anche rimozione di barriere architettoniche, fonte di difficoltà crescente, a seconda del grado di disabilità: non a caso, detti impianti sono espressamente considerati nell’art. 7, comma 2, della citata legge n. 13/1989.
Al fine di confutare le conclusioni sopra esposte, l’appellante si limita a segnalare, nel primo ordine di censure, che nel caso di specie la quota di prima fermata degli ascensori di cui trattasi “coincide sempre con il piano rialzato e mai con il piano terreno, mantenendo, in tal modo, rampe di sette gradini non superabili autonomamente da persone disabili”, senza “realizzazione contestuale di strumenti alternativi per il superamento di queste barriere”: l’infondatezza di tali argomentazioni emerge con chiarezza dal testo delle norme regolamentari in precedenza riportate, che non impongono la totale rimozione delle barriere architettoniche, cessando di considerarle tali qualora –per le condizioni esistenti nell’immobile interessato– detta rimozione possa essere soltanto parziale e non soddisfare, quindi, pienamente le esigenze di soggetti non deambulanti in modo autonomo. Questi ultimi, tuttavia, non sono gli unici destinatari della norma, che fa riferimento anche a “capacità motoria ridotta”, riconducibile a soggetti in grado di superare sette gradini, ma non anche quattro o più piani di scale.
Posto, dunque, che deve ritenersi positivamente accertata l’applicabilità della legge n. 13/1989 alla installazione di ascensori, resta da stabilire se detta normativa risulti violata, o meno, con l’emanazione degli atti impugnati in primo grado di giudizio. Anche a tale quesito la risposta non può che essere affermativa, a conferma delle conclusioni raggiunte nella sentenza appellata.
Deve essere sottolineato al riguardo che quando, come nel caso di specie, l’immobile sia stato oggetto di notifica ai sensi dell’art. 2 della legge 01.06.1939, n. 1089 (sostituito, alle date che qui interessano, dall’art. 23 del d.lgs. 29.10.1999, n. 490), poiché ritenuto di interesse artistico o storico, il parere della Soprintendenza –prescritto per “opere di qualunque genere che si intendano eseguire” sul medesimo– viene sottoposto ad una disciplina acceleratoria speciale, nel caso appunto che dette opere siano finalizzate a rimuovere barriere architettoniche: l’art. 5 della citata legge n. 13/1989 prescrive infatti che la Soprintendenza debba pronunciarsi entro 120 giorni, “anche impartendo, ove necessario, apposite prescrizioni” e richiamando il precedente articolo 4, nelle parti (commi 2, 4 e 5) in cui la mancata pronuncia nel termine prescritto “equivale ad assenso”, con possibile diniego “solo ove non sia possibile realizzare le opere senza serio pregiudizio del bene tutelato”, specificando nella motivazione “la natura e la serietà del pregiudizio….in rapporto al complesso in cui l’opera si colloca e con riferimento a tutte le alternative eventualmente prospettate dall’interessato”.
Nella situazione in esame, non sembra si possa dubitare che la procedura descritta non sia stata rispettata, in presenza di una richiesta di autorizzazione, inoltrata dal professionista incaricato alla Soprintendenza il 21.12.2002 (che nell’atto di appello si afferma ricevuta –senza mutare i termini della questione– in data 08.01.2003), con successiva nota della medesima Soprintendenza del 06.08.2003 (n. prot. 6567/B, che la società interessata, peraltro, afferma di non avere ricevuto) intesa a comunicare lo stato di sospensione della pratica, in attesa di documentazione integrativa.
Nel frattempo, il Comune di Latina aveva prima (il 04.02.2003) diffidato Co. s.p.a. dal dare inizio ai lavori, oggetto di DIA presentata il 15.01.2003, e poi revocato tale diffida, avendo preso atto dell’iter autorizzativo avviato e da ritenere, ormai, concluso per silenzio assenso.
Avuta notizia della revoca il 16.06.2003, la Soprintendenza emetteva quindi il provvedimento di sospensione dei lavori n. prot. 16267/B del 14.02.2004, citando la precedente nota del 06.08.2003: entrambi tali atti erano oggetto di impugnativa da parte di Co. s.p.a., che negava di avere avuto conoscenza prima di allora della richiesta di documentazione integrativa.
In tale contesto, lo stesso atto di appello non contiene alcun riferimento a provvedimenti –anche istruttori– emanati nel termine perentorio previsto dalla legge, limitandosi ad affermare genericamente che le integrazioni documentali sarebbero state richieste al professionista incaricato da Co., ing. St., in un incontro svoltosi nel febbraio del 2003.
Tale operato, privo di qualsiasi riscontro documentale, non può ritenersi conforme alla normativa speciale in precedenza citata, che –in considerazione dei delicati interessi, sottostanti alla rimozione delle barriere architettoniche– non condizionava affatto i lavori all’approvazione espressa del Soprintendente, ma consentiva di ritenere acquisita detta approvazione per silenzio assenso dopo 120 giorni dalla presentazione dell’istanza, delimitando in modo rigoroso le ipotesi di diniego.
La formulazione della norma, che prevede la possibilità di assenso con prescrizioni, o il diniego motivato, ma solo in presenza di “serio pregiudizio” del bene tutelato, rende realmente marginale la possibilità di sospendere il termine perentorio in questione, se non nell’ipotesi eccezionale di istanza gravemente incompleta e inidonea a consentire l’avvio di qualsiasi istruttoria.
Anche detta sospensione, ove pure ritenuta ammissibile, avrebbe dovuto essere disposta con provvedimento circostanziato e motivato, che la stessa Amministrazione non afferma di avere emesso. Ove poi fossero state acquisite in sede di sopralluogo, nel febbraio 2003, informazioni tali da far ravvisare –come si legge nell’atto di appello– “l’impossibilità”, per le caratteristiche formali e per le dimensioni dei vani scala, di inserire impianti elevatori “senza procurare nocumento a parti strutturali di beni tutelati”, appare singolare l’omessa tempestiva adozione di un atto di diniego motivato e l’adozione a circa un anno di distanza di un ordine di sospensione di lavori, che la documentazione fotografica in atti mostra pressoché ultimati, senza che sui problemi strutturali anzidetti venga fornita ulteriore documentazione tecnica.
In tale contesto, il Collegio ritiene che l’Amministrazione abbia esercitato tardivamente –e quindi, data la sussistenza di un termine perentorio non rispettato, illegittimamente– il proprio potere interdittivo, potendo la stessa fare ricorso, dopo la maturazione del silenzio assenso, solo all’esercizio della potestà di autotutela, purché ne sussistessero i presupposti, anche in rapporto all’art. 21-nonies della legge n. 241/1990.
Le medesime ragioni, che nei termini sopra precisati consentono di respingere le argomentazioni difensive, contenute nel primo ordine di censure, giustificano il rigetto anche delle considerazioni successive, in cui si prospettano, in modo del tutto apodittico, “irreversibile compromissione”, o “grave alterazione” dello stile e della funzionalità dell’immobile tutelato, senza che risultino comprensibili, ancora una volta, i motivi per cui un simile negativo apprezzamento non abbia dato luogo a tempestivo provvedimento di diniego.
In base alle argomentazioni svolte, in conclusione, il Collegio ritiene che l’impugnativa debba essere respinta; quanto alle spese giudiziali, tuttavia, la delicatezza degli interessi coinvolti ne rende equa, ad avviso del Collegio stesso, la compensazione (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.03.2014 n. 1032 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIOCanne fumarie, pochi vincoli. È consentita l'installazione sul muro perimetrale. La Cassazione: il manufatto non è equiparabile a una costruzione, ma a un accessorio.
Il singolo condomino può utilizzare il muro condominiale per installare una canna fumaria anche ove la stessa venga collocata a ridosso del terrazzo di proprietà di un altro condomino, poiché detto manufatto non è equiparabile a una costruzione, ma costituisce un semplice accessorio di un impianto, non essendo quindi sottoposto alla disciplina legale sulla distanza delle costruzioni previste.

È il principio espresso dalla Corte di Cassazione, Sez. II civile, nella sentenza 03.03.2014 n. 4936.
Il fatto. Un condomino del piano terra chiedeva all'assemblea di poter installare sul muro perimetrale dell'edificio una canna fumaria necessaria per l'evacuazione dei fumi del camino collocato all'interno del suo appartamento. L'assemblea, dopo aver valutato la situazione, autorizzava con due diverse delibere l'installazione e, in entrambe le riunioni, il verbale veniva sottoscritto da tutti i condomini presenti. Il condomino del piano terra procedeva quindi all'esecuzione dell'opera, che veniva realizzata in conformità alle prescrizioni del regolamento edilizio comunale. Successivamente, però, il proprietario dell'attico, che aveva prestato il consenso sottoscrivendo i verbali assembleari, cambiava opinione e si rivolgeva all'autorità giudiziaria, sostenendo che la canna fumaria impediva il suo diritto di veduta dal parapetto del terrazzo di sua esclusiva pertinenza.
Il tribunale però riteneva l'installazione della canna fumaria legittima. Rigettato in primo grado, il ricorso veniva accolto dalla Corte d'appello, che ordinava al condomino del piano terra di demolire la canna fumaria di sfogo del camino realizzato nell'appartamento di sua proprietà, condannandolo al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio. Per i giudici di secondo grado anche la canna fumaria poteva, infatti, essere fatta rientrare nella categoria delle costruzioni e quindi doveva rispettare le distanze legali. Del resto dal contratto di compravendita, osservava la Corte d'appello, risultava che il terrazzo davanti al quale era stata collocata la canna fumaria fosse di proprietà esclusiva del proprietario dell'attico. Ragion per cui quest'ultimo aveva diritto di fruirne e di esercitare la veduta, diretta e obliqua, come previsto dalla normativa in materia di distanze legali fra costruzioni. Contro tale decisione il condomino del piano terra ricorreva in Cassazione, ritenendo errata la sentenza d'appello nella parte in cui aveva applicato la disciplina generale delle distanze anziché le norme speciali in tema di condominio che consentono al singolo condomino di realizzare opere sulle parti comuni. In ogni caso il ricorrente obiettava pure che il terrazzo era connaturale alla struttura di copertura dell'edificio ed era quindi di natura condominiale.
La decisione della Suprema corte. La Cassazione ha quindi confermato la legittimità dell'installazione della canna fumaria in questione sulla base di un articolato ragionamento. In primo luogo i giudici hanno confermato come la terrazza a livello, quale accessorio rispetto all'alloggio posto allo stesso piano, prevalga su quella di copertura dell'appartamento sottostante e, se dal titolo non risulti il contrario, la terrazza medesima debba ritenersi appartenente al proprietario dell'attico, di cui strutturalmente e funzionalmente è parte.
Confermata la proprietà esclusiva del terrazzo, la Corte ha concentrato la propria attenzione sul rapporto intercorrente tra le norme generali in tema di distanze e la disciplina del condominio. In particolare la Cassazione ha precisato come ciascun condomino abbia il diritto di utilizzare la parete perimetrale dell'edificio, avente natura condominiale, per l'apposizione della canna fumaria, anche senza alcuna autorizzazione da parte degli altri condomini, purché, come nel caso in esame, si rispettino i limiti previsti dalla legge, cioè non si alteri la destinazione del muro e non si impedisca agli altri partecipanti di farne ugualmente uso, a nulla rilevando la disciplina sulla distanza delle costruzioni dalle vedute.
In altre parole, se sono stati rispettati i limiti sopra detti previsti dalla normativa condominiale, deve ritenersi legittima l'opera che sia stata realizzata in violazione delle norme dettate per regolare i rapporti tra proprietà esclusive, distinte e contigue. Del resto, come conclude la Cassazione, la canna fumaria (che è un tubo in metallo) non è una costruzione, ma un semplice accessorio di un impianto, e quindi la sua installazione sul muro perimetrale deve sempre ritenersi consentita, a meno che la stessa abbia dimensioni del tutto abnormi e superiori alla media (articolo ItaliaOggi Sette del 07.04.2014).

CONDOMINIOCanna fumaria, limiti solo dal regolamento. Condominio. Solo l'accordo contrattuale può stabilire divieti all'uso delle parti comuni che non siano previsti dal Codice civile.
Quando si tratta di installare una nuova canna fumaria (in genere per esercizi pubblici di ristorazione) occorre fare i conti con i divieti imposti dal regolamento di condominio e con le caratteristiche minime di funzionalità e di efficienza fissati da ponderose normative di sicurezza e di igiene.
Superati tutti questi ostacoli, spesso scatta l'opposizione del vicino che lamenta la violazione delle distanze legali e invoca il proprio diritto di condomino.

La materia era stata perfettamente illustrata dalla giurisprudenza dei nostri Tribunali, in particolare dal Tribunale di Milano (sentenza dell'08.02.2013) che hanno dettato princìpi condivisi dalla Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la recentissima sentenza 03.03.2014 n. 4936.
Appunto la sentenza della Corte di Cassazione permette di fornire un chiaro vademecum.
In primo luogo, è stato ribadito che le canne fumarie non hanno natura di costruzione e quindi non sono soggette alle precisa distanza legale di cui all'articolo 907 del Codice civile (tre metri dal fondo del vicino).
L'indicazione è puntuale e merita di essere ribadita, per evitare inutili contenziosi: in materia di canne fumarie, si possono individuare ed invocare le norme richiamate più avanti ma non può invocarsi il rispetto della distanza di tre metri che riguarda le vere e proprie costruzioni suscettibili di determinare intercapedine e non i semplici impianti tecnologici, accessori di unità immobiliari.
In secondo luogo, è stato ribadito che l'installazione di una canna fumaria lungo il muro perimetrale di un edificio condominiale non è in contrasto con la natura del muro comune e quindi può essere attuata dal singolo condomino, purché nel rispetto dell'articolo 1102 del Codice civile, per il quale il nuovo manufatto deve rispettare il decoro architettonico dell'edificio e non violare il pari diritto degli altri condòmini ad usare la parete comune. E deve superare la doverosa comparazione tra i diritti chiamati in discorso (bilanciamento degli interessi).
Da ultimo, poiché la canna fumaria comporta anche emissioni di fumi o di vapori, occorrerà avere attenzione per la salubrità e per l'eliminazione di odori.
Succinto è il compendio finale: non entra in discorso una distanze legale fissa ma la disciplina che i condomini si siano data in virtù del regolamento contrattuale.
In difetto di regolamento contrattuale la canna fumaria può dirsi illegittima soltanto se viola apprezzabilmente i diritti degli altri partecipanti al condominio al decoro architettonico ed alla salubrità
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.03.2014).

febbraio 2014

CONDOMINIO: M. Pugliese, Nell’assemblea condominiale, quando deve essere convocato il nudo proprietario? E quando invece deve essere convocato l’usufruttuario? (28.02.2014 - link a www.diritto.it).

CONDOMINIO: D. Gambetta, Nullità della clausola del regolamento condominiale con previsione di sanzioni non pecuniarie: integrità dell’ordinamento e necessaria limitazione dell’autotutela nei rapporti tra privati. Nota alla sentenza della Corte Cass. n. 820 del 16/01/2014 (28.02.2014 - link a www.diritto.it).

gennaio 2014

CONDOMINIOTerrazze, più equità nelle spese. I proprietari pagano in base ai metri quadrati coperti. Sentenza della Cassazione sulla ripartizione dei costi di ricostruzione dei lastrici solari.
Maggiore equità nella suddivisione delle spese di riparazione o ricostruzione del lastrico solare.
Secondo la sentenza 23.01.2014 n. 1451 della Corte di Cassazione, Sez. II civile, gli appartamenti sottostanti devono contribuire nei due terzi delle spese di cui all'art. 1126 c.c. sulla base dei metri quadrati che risultano effettivamente coperti e non per l'intero valore millesimale attribuito all'unità immobiliare.
Secondo il codice civile quando l'uso dei lastrici solari non è comune a tutti i condomini, quelli che ne hanno l'uso o la proprietà esclusivi sono, infatti, tenuti a contribuire per un terzo nelle predette spese, mentre gli altri due terzi sono a carico di tutti gli altri proprietari delle unità sottostanti. Quanto sopra vale anche per la cosiddetta terrazza a livello (di proprietà o uso esclusivo del proprietario dell'ultimo piano) che svolge la stessa funzione di copertura. In ogni caso rimangono a carico del proprietario le spese attinenti alle parti che non svolgono funzione di copertura (si pensi alla manutenzione dei parapetti, alle ringhiere ecc.).
La ripartizione della parte di spesa di 1/3. La ripartizione della spesa di un terzo non presenta particolare difficoltà. Tuttavia nel caso in cui il lastrico sia comune a due o più condomini la quota andrà divisa sulla base delle relative percentuali di comproprietà o uso esclusivo.
La ripartizione della parte di spesa di 2/3: i soggetti interessati. L'obbligo di pagare le spese dei due terzi del lastrico non deriva dalla sola generica qualità di condomino, ma anche dal fatto di essere proprietario di una unità immobiliare compresa nella colonna d'aria sottostante a esso.
Il criterio della doppia contribuzione. Può capitare che il condomino che ha l'uso esclusivo del lastrico solare sia contemporaneamente proprietario di un appartamento sottostante o di una parte di esso (se, come nel caso risolto dalla Cassazione, sia a due livelli): in tal caso questi è soggetto alla cosiddetta doppia contribuzione. In pratica sarà tenuto al pagamento per intero della quota di 1/3, nonché di una quota aggiuntiva dei 2/3.
Il problema degli appartamenti parzialmente coperti: la ripartizione per millesimi. È anche possibile che tra gli appartamenti sottostanti al lastrico ve ne sia qualcuno coperto solo in parte. Tuttavia, secondo alcuni precedenti giurisprudenziali, l'art. 1126 c.c. farebbe riferimento alla porzione di piano intesa non come parte della proprietà, ma come intera unità immobiliare (anche perché detta disposizione non distingue in alcun modo tra immobili totalmente e parzialmente coperti dal lastrico). Secondo questa interpretazione sarebbe quindi sufficiente che si trovi sotto il lastrico solare anche una piccola parte di un appartamento perché il proprietario debba concorrere alla ripartizione dei 2/3 delle spese con tutti i millesimi attribuiti alla relativa unità immobiliare (tra le altre, Trib. Pescara 05/10/2006).
Appartamenti parzialmente coperti: la ripartizione in base ai millesimi di proprietà effettivamente interessati dalla copertura. In questi casi, tuttavia, come sostenuto anche dalla Cassazione, sembra maggiormente equo procedere a una ripartizione basata sulle effettive quote millesimali delle porzioni di piano coperte, quindi opportunamente rapportata (ovvero ridotta) alla quantità di superficie dell'unità immobiliare posta realmente al di sotto del lastrico.
In altre parole il criterio più idoneo per suddividere questo tipo di oneri sarebbe quello di rapportarli all'utilità che ogni proprietario trae dalla funzione di copertura del lastrico: le unità immobiliari coperte solo in parte non dovranno partecipare alla ripartizione della spesa sulla base di tutti i millesimi di competenza, ma solo con una parte determinata tenendo conto dei metri quadrati coperti (trib. Milano 07/11/1994) (articolo ItaliaOggi Sette del 17.02.2014).

anno 2013
dicembre 2013

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Se è vero che il Comune ha l'obbligo di verificare il rispetto da parte dell'istante dei limiti privatistici, è anche vero che il controllo da parte dell'Ente locale consiste in una semplice presa d'atto dei titoli, senza che vi sia alcuna necessità di procedere ad un’accurata e approfondita disamina dei rapporti tra condomini.
In particolare deve del tutto escludersi l’obbligo del Comune di effettuare complessi accertamenti diretti a ricostruire tutte le vicende riguardanti la titolarità dell'immobile, ovvero di prodigarsi nella ricerca di eventuali limitazioni negoziali al diritto di costruire.
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Le innovazioni sulle parti comuni dell'edificio condominiale, per essere rilevanti, devono essere infatti “significative”, cioè devono alterare la particolare struttura e la complessiva armonia che conferiscono al fabbricato una propria specifica identità e, comunque, non devono risolversi in apprezzabili limitazioni del normale godimento della parte di bene di proprietà esclusiva.
Il profilo del decoro architettonico va poi valutato con riferimento all'intero edificio condominiale, ed anche al riguardo l'alterazione deve risultare “apprezzabile” alla luce della necessità di trovare una situazione di equilibrio tra i contrapposti interessi della comunità condominiale e del singolo condomino.

Al riguardo, se è vero che il Comune ha l'obbligo di verificare il rispetto da parte dell'istante dei limiti privatistici, è anche vero che il controllo da parte dell'Ente locale consiste in una semplice presa d'atto dei titoli, senza che vi sia alcuna necessità di procedere ad un’accurata e approfondita disamina dei rapporti tra condomini (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI 20/12/2011 n. 6731).
In particolare deve del tutto escludersi l’obbligo del Comune di effettuare complessi accertamenti diretti a ricostruire tutte le vicende riguardanti la titolarità dell'immobile, ovvero di prodigarsi nella ricerca di eventuali limitazioni negoziali al diritto di costruire (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV 08/06/2011 n. 3508).
Le innovazioni sulle parti comuni dell'edificio condominiale, per essere rilevanti, devono essere infatti “significative”, cioè devono alterare la particolare struttura e la complessiva armonia che conferiscono al fabbricato una propria specifica identità e, comunque, non devono risolversi in apprezzabili limitazioni del normale godimento della parte di bene di proprietà esclusiva (arg. Cassazione Civile, ord. 30.01.2012, n. 1326). Il profilo del decoro architettonico va poi valutato con riferimento all'intero edificio condominiale, ed anche al riguardo l'alterazione deve risultare “apprezzabile” alla luce della necessità di trovare una situazione di equilibrio tra i contrapposti interessi della comunità condominiale e del singolo condomino (cfr. Cassazione Civile, Sezione 2, 27.12.2011, n. 28919).
Nella medesima scia ricostruttiva si osserva che non è compito del Comune indagare se, ai sensi dell'art. 1102 c.c., l’innovazione alterasse o meno la destinazione della porzione di giardino, o si risolvesse in una rilevante limitazione dell’uso degli altri partecipanti al condominio
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 20.12.2013 n. 6165 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Sebbene sia condivisibile l’orientamento giurisprudenziale secondo cui il Comune non è tenuto a “procedere ad un’accurata ed approfondita disamina dei rapporti tra i condomini”, altrettanto lo è anche l’ulteriore specificazione secondo cui, “qualora vi sia un conclamato dissidio fra i comproprietari in ordine all'intervento progettato, la scelta dell'amministrazione di assentire comunque le opere (in base al mero riscontro della conformità agli strumenti urbanistici) evidenzia un grave difetto istruttorio e motivazionale, perché non dà conto dell'effettiva corrispondenza tra l'istanza edificatoria e la titolarità del prescritto diritto di godimento”.
A tale proposito il Collegio ritiene che, sebbene sia condivisibile l’orientamento giurisprudenziale secondo cui il Comune non è tenuto a “procedere ad un’accurata ed approfondita disamina dei rapporti tra i condomini” (Cons. Stato, IV, 04.05.2010, n. 2546), altrettanto lo sia anche l’ulteriore specificazione secondo cui, “qualora vi sia un conclamato dissidio fra i comproprietari in ordine all'intervento progettato, la scelta dell'amministrazione di assentire comunque le opere (in base al mero riscontro della conformità agli strumenti urbanistici) evidenzia un grave difetto istruttorio e motivazionale, perché non dà conto dell'effettiva corrispondenza tra l'istanza edificatoria e la titolarità del prescritto diritto di godimento” (cfr TAR Campania Napoli Sez. II, Sent., 07.06.2013, n. 3019) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 18.12.2013 n. 1145 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

novembre 2013

CONDOMINIOTerzo responsabile, restano escluse le società di persone. Condominio. Impianti di riscaldamento.
LE RESTRIZIONI/ Potranno svolgere la funzione solo le società per azioni e in accomandita per azioni, le Srl e le Coop a responsabilità limitata.

Il «terzo responsabile» per il riscaldamento non potrà essere una società di persone.
Dal 12.07.2013 (data di entrata in vigore del Dpr 16.04.2013 n. 74, attuativo del Dlgs 192/2005) sono cambiate le competenze del terzo responsabile. Queste risultano ora essere: esercizio, conduzione, controllo, manutenzione dell'impianto termico, rispetto delle disposizioni di legge in materia di efficienza energetica, sicurezza e tutela dell'ambiente. La nomina è una facoltà e non un obbligo.
Nel caso di impianti termici con potenza nominale superiore a 350 kW è necessario essere in possesso di certificazione UNI EN ISO 9001 relativa all'attività di gestione e manutenzione degli impianti termici, o attestazione rilasciata ai sensi del Dpr 207/2010.
La delega non è consentita nel caso di singole unità immobiliari residenziali in cui il generatore o i generatori non siano installati in locale tecnico esclusivamente dedicato.
Il ruolo di terzo responsabile di un impianto è incompatibile con il ruolo di venditore di energia per il medesimo impianto, e con le società a qualsiasi titolo legate al ruolo di venditore, in qualità di partecipate o controllate o associate in Associazione Temporanea di Impresa o aventi stessa partecipazione proprietaria o aventi in essere un contratto di collaborazione, a meno che la fornitura sia effettuata nell'ambito di un contratto di «servizio energia» (Dlgs 115/2008).
Cosa diversa è, invece, la conduzione degli impianti termici civili. Nel caso in cui la potenza termica sia superiore a 0.232 MW, l'incaricato deve essere munito di un patentino di abilitazione.
Ma l'individuazione del soggetto che può assumere l'incarico è determinato dall'allegato A del Dlgs 192/2005, recentemente modificato dal Dm del 22.11.2012. Secondo la norma il terzo responsabile dell'impianto termico è una «persona giuridica» in possesso dei requisiti. Ma se la precedente versione comprendeva anche le "persone fisiche", queste, ora, sono escluse. Il termine "persona giuridica" sta ad indicare un complesso organizzato di persone e di beni al quale l'ordinamento giuridico attribuisce la capacità giuridica, cioè la possibilità per un soggetto di essere titolare di diritti e doveri. E secondo il codice civile, sono persone giuridiche solo le Società a Responsabilità Limitata, le Società per Azioni, le Società in Accomandita per Azioni e le Società Cooperative a Responsabilità limitata.
Quindi non possono assumere l'incarico di terzo responsabile le imprese individuali, le Società in Nome Collettivo, le Società Semplici e le Società in Accomandita Semplice. È stata operata una restrizione di non poco conto, andando a escludere molte attività dalla possibilità di ricoprire l'incarico che, sino a pochi mesi addietro, hanno svolto. Soprattutto considerando che nell'ambito dell'artigianato, quindi con organizzazioni societarie personali e non giuridiche, non sono poche le realtà imprenditoriali che svolgono attività di «terzo responsabile» dell'impianto di riscaldamento.
Tra le associazioni che si sono poste la questione, l'Anaci (Associazione degli amministratori condominiali) è arrivata alla conclusione di dare indicazione agli associati di non stipulare contratti con soggetti diversi dalle persone giuridiche (articolo Il Sole 24 Ore del 26.11.2013).

CONDOMINIOEx amministratore, carte da consegnare. Condominio. Sì alla tutela d'urgenza.
È ammissibile il ricorso al procedimento d'urgenza previsto dall'articolo 700 del Codice di procedura civile per ottenere la consegna dei documenti relativi al condominio dall'amministratore cessato dall'incarico.

Lo sostiene il Tribunale di Reggio Calabria (giudice Minutoli) in un'ordinanza del 4 novembre.
Nei fatti, il condominio aveva chiesto che al proprio precedente amministratore, a cui era stato revocato il mandato, fosse ordinato di restituire la documentazione sulla gestione dello stabile; questo per proporre un'azione di merito per accertare l'inadempimento contrattuale e ottenere il risarcimento del danno.
Il tribunale, «pur nella consapevolezza di contrarie opinioni giurisprudenziali (che prospettano, ad esempio, la possibilità del ricorso al procedimento per decreto ingiuntivo)», premette che si può ritenere consentito agire in via d'urgenza. Infatti, «in relazione alle notorie incombenze del l'amministrazione di un condominio», la mancata disponibilità della documentazione contabile può determinare, per il condominio e per ciascun condomino, un grave pregiudizio «non agevolmente commisurabile né dunque facilmente riparabile, se non altro per la possibilità che essa determini una situazione di impasse durevole nel tempo».
Circa la verosimile fondatezza del diritto (fumus boni iuris), il giudice osserva che l'amministratore ricopre «un ufficio di diritto privato assimilabile al mandato con rappresentanza» e deve quindi rendere in originale ciò che ha ricevuto per conto del condominio (articolo 1713 del Codice civile), con responsabilità per i danni che derivino dall'omessa o tardiva restituzione.
Quanto al pregiudizio nel ritardo (periculum in mora), il giudice riconosce che si rischiano danni di natura pecuniaria, non tutelabili, di per sé, in via d'urgenza. Ma, aggiunge, la condotta omissiva del precedente amministratore può comportare anche danni che trascendono i profili economici. In altri termini, il tempo necessario per il giudizio a cognizione piena potrebbe pregiudicare il diritto alla conoscenza di crediti o provocare decadenze o altre conseguenze legate a mancate iniziative processuali o extragiudiziali.
In accoglimento della domanda, all'ex amministratore è quindi ordinata la consegna dei documenti amministrativo-contabili relativi alla sua gestione condominiale. La questione è stata più volte trattata dalla giurisprudenza di merito, che perlopiù l'ha risolta come il tribunale reggino. E la riforma del condominio (legge 220/2012), nel riscrivere l'articolo 1129 del Codice civile, ha previsto che, alla cessazione del l'incarico, l'amministratore deve consegnare tutta la documentazione in suo possesso afferente al condominio e ai singoli condomini e a eseguire le attività urgenti per evitare pregiudizi agli interessi comuni (articolo Il Sole 24 Ore del 25.11.2013).

CONDOMINIO: Vizi «noti» anche senza perizia. Gravi difetti dell'opera commissionata in appalto.
Il termine di prescrizione dell'azione di garanzia, prevista  dall'articolo 1667, comma 3, del Codice civile, nel caso di opere realizzate in appalto e affette da vizi occulti o non conoscibili, perché non apparenti all'esterno, decorre dalla scoperta dei vizi, che è da ritenersi acquisita dal giorno in cui il committente abbia avuto conoscenza degli stessi. E la conoscenza dei vizi si può ritenere comunque acquisita quando al committente sono stati comunicati in qualsiasi modo, senza che sia necessaria una verifica tecnica dei vizi stessi.

Con queste motivazioni la Corte di Cassazione, Sez. III civile, con la sentenza 22.11.2013 n. 26233, ha respinto il ricorso presentato da un condominio che aveva citato in giudizio l'impresa cui furono commissionati i lavori, perché fosse dichiarato risolto il contratto d'appalto del 22.06.1993 per grave inadempimento del convenuto e perché fossero accertati i gravi difetti dell'opera commissionata in appalto, siccome causati dalla cattiva e superficiale esecuzione del lavori.
Ma il tribunale dichiarò il condominio decaduto dall'azione, in base all'articolo 1667 del Codice civile, con sentenza poi confermata dalla Corte d'appello. ... (articolo Il Sole 24 Ore del 09.12.2013 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIOAutoclave, caldaie, cancelli: il problema va segnalato all'amministratore.
Una delle principali fonti di discussione tra condomini è rappresentata dal rumore proveniente dai vicini. Ma accade spesso che il singolo condomino sia disturbato anche dal rumore eccessivo proveniente dagli impianti comuni (ascensore, autoclave, caldaia, scatto automatico del cancello comune ecc.).

In tale ultimo caso è opportuno denunciare il problema al responsabile della gestione degli impianti comuni, cioè all'amministratore di condominio. Quest'ultimo, al fine di verificare il rispetto dei limiti massimi di rumorosità, si può rivolgere a un tecnico competente in acustica (o al comune, che inoltra la richiesta all'Arpa, Agenzia regionale protezione ambiente).
Se l'amministratore non interviene o non prende provvedimenti in un tempo ragionevole non resta che ricorrere all'autorità giudiziaria (competente in questa materia è il giudice di pace) con una causa che va intentata contro il condominio.
Quando il rumore degli impianti è intollerabile.
Il condomino che è disturbato dai rumori provenienti dagli impianti condominiali si può tutelare chiedendo al condominio il rispetto del limite della cosiddetta normale tollerabilità prevista dalla legge. Stabilire quando tale limite è superato non è facile perché lo stesso è variabile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona. In ogni caso se il rumore degli impianti rimane entro i livelli massimi fissati dalle normative di tutela ambientale ciò non costituisce circostanza sufficiente a escludere in concreto l'intollerabilità delle immissioni mentre, al contrario, il superamento di detti livelli deve ritenersi senz'altro illecito.
Secondo i giudici, però, per valutare se un rumore supera o meno il limite di legge è necessario effettuare due misurazioni: quella relativa all'immissione di rumore, quando la sorgente in esame è funzionante, e quella del cosiddetto rumore di fondo, quando detta sorgente non è funzionante. L'immissione di rumore non deve superare il limite massimo della normale tollerabilità, che è uguale a 3 decibel oltre il rumore di fondo. Da sottolineare che se questo limite in una prima rilevazione non risulta superato non è detto che invece risulti intollerabile poco tempo dopo.
Come hanno spiegato recentemente i giudici, infatti, i rumori degli impianti possono cambiare nel tempo in relazione a una molteplicità di fattori (frequenza d'uso della fonte, sua manutenzione, intensità volumetrica, additivi di ogni tipo, modifica del rumore di fondo ecc.). In altre parole il funzionamento per lunghi periodi degli impianti rende inevitabile il deteriorarsi di meccanismi, cuscinetti e guarnizioni che assicurano nei macchinari la riduzione del rumore metallico.
La stanza da letto del condomino vicino alla caldaia.
Non c'è dubbio, per esempio, che un condomino abbia il pieno diritto di godere secondo le sue personali abitudini ed esigenze la propria camera da letto, anche se questa sia confinante con il vano caldaia che emette rumori fastidiosi anche di notte. In tal caso, come già accaduto, il giudice può ordinare, invece che il divieto dell'uso dell'impianto, l'esecuzione di opere atte a eliminare i rumori o a ricondurli nei limiti della tollerabilità.
Così, per esempio, la centrale termica può essere collocata su un pavimento galleggiante, si possono installare giunti elastici sulle tubazioni, elementi antivibranti di supporto delle pompe di circolazione, una cuffia sul bruciatore ecc. Se però tali rimedi non sono sufficienti è possibile pure ordinare al condominio la rimozione della centrale termica condominiale dal luogo in cui era stata installata in altro locale insonorizzato.
Il problema dell'autoclave e dell'ascensore
Un disturbo insopportabile può provenire anche da un'autoclave o dall'ascensore condominiale, anche se tali impianti producono una rumorosità discontinua dovuta agli avviamenti e alle fermate: in tal caso il livello sonoro che meglio rappresenta il disturbo è rappresentato dai picchi massimi raggiunti. Tuttavia anche in queste ipotesi le immissioni intollerabili, seppure discontinue, sono da considerare certamente dannose.
Per l'ascensore è possibile eliminare il disturbo imponendo al condominio di intervenire con l'installazione di supporti antivibranti dell'argano-motore, l'insonorizzazione del locale tecnico e, negli ascensori vecchi, di attutire l'impatto della chiusura delle ante della cabina. Per quanto riguarda l'autoclave, se il ricorso all'installazione di pannelli isolanti o rimedi simili non risolve i problemi del singolo condomino, non rimane che ordinare la rimozione dell'autoclave da collocare poi in altro luogo (articolo ItaliaOggi Sette del 18.11.2013).

CONDOMINIOVia rapida per riscuotere le spese condominiali. Prima applicazione dell'obbligo di agire entro sei mesi. Dopo la riforma. All'amministratore non serve più l'autorizzazione dell'assemblea.
Corsia rapida per recuperare i contributi dai condomini morosi. L'amministratore, infatti, può ottenere un decreto di ingiunzione al pagamento immediatamente esecutivo in base allo stato di ripartizione approvato dall'assemblea senza che ci sia bisogno di un'autorizzazione ad hoc da parte dell'assemblea stessa. Né è necessario mettere in mora preventivamente il condomino inadempiente, neanche quando lo preveda una clausola del regolamento di condominio.

Sono questi alcuni dei profili precisati dalla giurisprudenza negli ultimi mesi, dopo l'entrata in vigore, lo scorso 18 giugno, delle novità introdotte dalla riforma del condominio (legge 220 del 2012).
Inoltre, sempre secondo la riforma, l'amministratore deve agire entro sei mesi dalla chiusura dell'esercizio nel quale il credito esigibile è compreso. Attenzione: nel caso –piuttosto comune– degli esercizi scaduti al 30 giugno, al termine mancano poche settimane.
La riscossione
In particolare, la riforma ha modificato l'articolo 63 delle disposizioni di attuazione del Codice civile, in parte ricalcando una prassi condominiale consolidata. Il nuovo articolo 63 chiarisce, appunto, che all'amministratore non occorre l'autorizzazione dell'assemblea per ottenere un decreto ingiuntivo, immediatamente esecutivo nonostante opposizione, per riscuotere i crediti dai condomini morosi.
Ma il decreto non può essere emesso se la spesa non è stata prima approvata dall'assemblea. Infatti, perché il giudice pronunci ingiunzione di pagamento, in base all'articolo 633 del Codice di procedura civile, è necessario che sia dia prova scritta del diritto fatto valere. Questa prova scritta, nel caso dei contributi condominiali, è costituita dal documento da cui risulta l'approvazione da parte dell'assemblea della relativa spesa.
Il mancato puntuale pagamento delle quote da parte dei condomini potrebbe creare problemi all'amministratore, non essendo in grado di fronteggiare gli impegni assunti per conto dei condòmini. Tuttavia, l'amministratore che non avvia la procedura esecutiva per riscuotere gli oneri condominiali dai condomini morosi non commette automaticamente un atto di cattiva gestione. Infatti, l'amministratore non è responsabile se prova di avere notificato ai condomini gli atti di precetto. Poi, il fatto di non avere intrapreso la procedura esecutiva vera e propria si giustifica –secondo l'ordinanza 20100 del 2 settembre scorso della Cassazione– sulla base della non sicura solvibilità dei condomini.
I rapporti con i terzi
La tempestività nella riscossione forzosa delle somme da parte dell'amministratore, che –in base al nuovo testo dell'articolo 1129, comma 9, del Codice civile– deve essere fatta entro sei mesi dalla chiusura del l'esercizio nel quale il credito esigibile è compreso, evita di esporre i condomini morosi alle azioni di recupero da parte dei terzi creditori.
In passato, la responsabilità dei condomini per le obbligazioni assunte dal condominio seguiva la regola della solidarietà verso i creditori e della parziarietà nei rapporti interni. In caso di morosità nei pagamenti di alcuni condomini per un debito del condominio verso terzi (ad esempio, per lavori), il creditore poteva agire, per il recupero del suo credito, per l'intero importo direttamente nei confronti di un solo condomino il quale, a sua volta, poteva agire, in via di regresso, pro quota, nei confronti dei morosi.
La situazione è cambiata dopo la sentenza 9148 del 2008 delle Sezioni unite della Cassazione, che ha introdotto il principio della parziarietà, per cui le obbligazioni e la conseguente responsabilità dei condomini sono passate a essere governate dal criterio della parziarietà: vale a dire che ogni condomino risponde soltanto per la propria quota di competenza. Secondo le Sezioni unite, infatti, «considerato che l'obbligazione ascritta a tutti i condomini, ancorché comune, è divisibile trattandosi di somma di denaro, che la solidarietà nel condominio non è contemplata da nessuna disposizione di legge e che l'articolo 1123 del Codice civile non distingue il profilo esterno da quello interno (...), le obbligazioni e la susseguente responsabilità dei condomini sono governate dal criterio della parziarietà».
La riforma del condominio ha ora reintrodotto la solidarietà del debito del condominio, precisando, però, che i creditori non possono agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti, se non dopo l'escussione degli altri condomini. I creditori devono cioè dimostrare di avere agito nei confronti del moroso che non vuole pagare e di non potersi soddisfare sul patrimonio di quest'ultimo prima di rivolgersi ai condomini in regola.
Inoltre, per rendere il quadro trasparente, l'amministratore è tenuto a comunicare ai creditori non ancora soddisfatti che lo interpellino i dati dei condomini morosi (articolo Il Sole 24 Ore del 18.11.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIOBloccato l'ascensore rumoroso. Stop all'impianto che produce immissioni intollerabili. La Cassazione conferma le ragioni di una condomina e la condanna del condominio.
Stop agli impianti di ascensore rumorosi in condominio. La Cassazione ha infatti individuato nelle disposizioni speciali a tutela dell'ambiente i parametri oggettivi per valutare la soglia di normale tollerabilità delle immissioni rumorose anche nei rapporti tra i privati.

Questa l'interessante conclusione contenuta nella sentenza 06.11.2013 n. 25019 pronunciata dalla II Sez. civile della Suprema.
Il caso concreto. Nella specie una condomina aveva citato dinanzi al giudice di pace di Ancona il proprio condominio, in persona dell'amministratore pro tempore, perché fossero dichiarate illegittime le immissioni acustiche provenienti dall'ascensore condominiale e perché, conseguentemente, ne fosse ordinata la cessazione con condanna alla realizzazione di tutte le conseguenti opere necessarie. Nonostante le eccezioni difensive formulate dal condominio costituitosi in giudizio, il giudice, in parziale accoglimento della domanda della condomina, aveva riconosciuto l'illegittimità delle immissioni acustiche provenienti dall'ascensore, ordinandone la cessazione e demandando all'assemblea, sulla scorta della relazione resa dal consulente tecnico d'ufficio, di provvedere all'attuazione dei rimedi indispensabili allo scopo.
Il condominio, per nulla soddisfatto dell'esito del procedimento, aveva quindi impugnato la sentenza dinanzi al tribunale. Anche detto giudice, tuttavia, accogliendo pienamente le valutazioni operate dal consulente tecnico d'ufficio, il quale aveva rilevato che l'ascensore produceva emissioni rumorose superiori ai limiti imposti dalla legge, aveva confermato la valutazione di intollerabilità di queste ultime.
La decisione della Suprema corte. La seconda sezione civile della Cassazione, nel respingere a sua volta l'impugnazione proposta dal condominio avverso la sentenza di appello, ha chiarito che i criteri per la determinazione dei limiti massimi di esposizione al rumore indicati dal dpcm del 01.03.1991, ancorché dettati per la tutela generale del territorio, possono essere utilizzati come parametro di riferimento anche per stabilire l'intensità e quindi la soglia di tollerabilità delle immissioni rumorose nei rapporti tra privati, dunque anche in ambito condominiale.
Tuttavia i giudici di legittimità hanno ritenuto che tali criteri debbano essere considerati come un limite minimo e non massimo, dato che gli stessi sono meno rigorosi di quelli applicabili nei singoli casi ai sensi dell'art. 844 c.c., norma generale sulle immissioni, con la conseguenza che, in difetto di altri eventuali elementi, il loro superamento è idoneo a determinare la violazione della predetta disposizione codicistica.
Nella specie, sulla base delle risultanze della consulenza tecnica d'ufficio, era stato accertato il superamento della normale tollerabilità delle emissioni provenienti dall'ascensore condominiale prendendo come parametro di riferimento il criterio comparativo tra il rumore con e senza la sorgente disturbante nella differenza massima di 3 decibel. La Suprema corte ha comunque inteso chiarire come i parametri di cui al dpcm del 01.03.1991, pur potendo essere considerati come criteri minimali di partenza al fine di stabilire l'intollerabilità delle emissioni che li eccedano, non siano vincolanti per il giudice civile che, nell'accertamento discrezionale dell'entità delle immissioni nell'ambito privatistico, può anche motivatamente discostarsene, pervenendo a un giudizio di intollerabilità ex art. 844 c.c. anche nelle ipotesi in cui i limiti minimi di legge non siano stati superati (articolo ItaliaOggi Sette del 18.11.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIOIl rumore si valuta con criteri ampi. Condominio. Cassazione su decibel e ascensore.
Se l'ascensore è rumoroso, il problema è condominiale e non del singolo proprietario.

La II Sez. civile della Corte di Cassazione, presieduta da Roberto Triola, ha depositato ieri la sentenza 06.11.2013 n. 25019, con la quale ha esaminato il caso di una condòmina che chiedeva che venissero dichiarate illegittime le immissioni acustiche dell'ascensore e che il condominio provvedesse a realizzare «tutte le conseguenti opere necessarie».
Il Giudice di pace di Ancona dichiarava effettivamente l'illegittimità delle immissioni. L'appello del condominio veniva rigettato dal Tribunale di Ancona, che lo condannava anche alle spese.
La Cassazione ha anzitutto ricordato che i criteri adottati per definire la normale tollerabilità, cioè quelli definiti dal Dpcm del 01.03.1991, essendo meno rigorosi di quelli desumibili dall'articolo 844 del Codice civile, sono comunque accettabili. Possono cioè essere utilizzati anche per individuare la soglia di tollerabilità delle immissioni rumorose nei rapporti tra privati purché, però, considerati come un limite minimo e non massimo.
Ma il Tribunale di Ancona aveva preso a parametro proprio il superamento di 3 decibel del rumore di fondo ma ampliando anche il dettato dell'articolo 844 del Codice civile con la valutazione del livello medio dei rumori di zona (a carattere residenziale e con scarsa presenza di attività commerciali e di servizi), alle rilevazioni e agli accertamenti delle Asl e al riconoscimento della loro rumorosità (non fisiologica) da parte della stessa assemblea condominiale. E in ogni caso, ha ricordato la Cassazione, il giudice di merito può discostarsi dalle norme dettate a tutela dell'ambiente, secondo il suo «prudente apprezzamento», e utilizzare il criterio dell'articolo 844 del Codice civile, senza che questo sia oggetto di sindacato di legittimità.
La Cassazione ha quindi rigettato tutti i motivi di ricorso indicato dal condominio e confermando anche la condanna al pagamento di tutte le spese che il Tribunale di Ancona aveva espresso ribaltando quanto disposto al riguardo dal Giudice di Pace (articolo Il Sole 24 Ore del 07.11.2013).

ottobre 2013

CONDOMINIO: Il riscaldamento non si taglia. Nessun blocco dall'amministratore contro il condominio moroso. Giustizia. Per il tribunale di Milano l'interruzione del servizio lede il diritto costituzionale alla salute.
Il servizio di riscaldamento non si tocca anche se il condomino è moroso: lo ha stabilito il Tribunale di Milano nel procedimento (ruolo generale 72656/13, sezione XIII civile) promosso in via d'urgenza da un condominio che, sul presupposto dell'esistenza di una sua morosità nel pagamento delle quote dovute, si era visto sospendere l'erogazione del riscaldamento da parte di altro condominio tenuto per contratto a fornirgliela.
Tra le due parti era sorta contestazione circa l'ammontare del debito dell'una verso l'altra proprio in relazione al riscaldamento erogato e così all'amministratore del condominio erogante non era parso vero di dare esecuzione al nuovo disposto dell'articolo 63, terzo comma, delle disposizioni attuative del Codice civile che lo autorizza, pur in difetto di qualsivoglia autorizzazione contenuta nel regolamento (invece richiesta nel vecchio testo pre-riforma) a sospendere il condominio moroso dalla fruizione dei servizi suscettibili di godimento separato e di quello del riscaldamento. Detto e fatto e un elevato numero di famiglie si è trovata all'improvviso al freddo, senza alcun preavviso e/o avvertimento.
Il ricorso al giudice è stato fulmineo proprio per ottenere la ripresa del servizio e altrettanto rapida è stata la decisione del giudice.
«La privazione di una fornitura essenziale per la vita, quale il riscaldamento in periodo invernale, è suscettibile di ledere diritti fondamentali delle persone, di rilevanza costituzionale, quale il diritto alla salute (articolo 32 Costituzione)», argomenta il giudice. Comunque, «il diritto che con la sospensione del servizio si intende tutelare è puramente economico e sempre riparabile». Di qui, ricorrendo i presupposti di pericolo di danno grave ed irreparabile alla salute dei condomini, l'ordine impartito all'amministratore di provvedere subito a garantire l'erogazione del servizio di riscaldamento ai presunti morosi.
È vero che la legge consente all'amministratore, nel caso di morosità del condomino che si protrae per un semestre, di sospendergli l'erogazione di quei servizi che possono essere da lui goduti separatamente, fermo comunque il diritto del condominio di procedere per il recupero della morosità maturata e che eventualmente andrà a maturare. Altrettanto vero è, però, che il terzo comma dell'articolo 63 delle disposizione attuative del Codice civile va applicato con estrema prudenza da parte dell'amministratore e in situazioni talmente gravi da non consentirgli diversa soluzione, proprio per il rispetto dovuto verso coloro che invece adempiono con regolarità i propri obblighi pecuniari verso il condominio.
Rimane dunque preferibile che il regolamento, o in ultima analisi l'assemblea, continui a indicare le modalità ed i casi in presenza dei quali l'amministratore può avvalersi del rimedio in esame, ad esempio individuando una soglia minima di mora in presenza della quale scatta la sospensione dal servizio. Nel silenzio, è chiaro però che il nuovo potere discrezionale conferito all'amministratore dal nuovo terzo comma dell'articolo 63 deve essere da lui dosato con la diligenza del buon padre di famiglia, rimanendo comunque salvo il sindacato dell'autorità giudiziaria sul suo operato e dunque sulla sua personale responsabilità.
Resta poi da stabilire, nel silenzio della legge, da quando decorre il semestre scaduto il quale si possa procedere alla sospensione della fruizione dei servizi comuni
 (articolo Il Sole 24 Ore del 29.10.2013).

CONDOMINIODelibere dal giudice solo con citazione. Le conseguenze della riforma.
Per impugnare una delibera assembleare occorre l'atto di citazione e non più il ricorso.

È uno degli effetti della riforma del condominio (legge 220/2012) e, in particolare, delle modifiche all'articolo 1137 del Codice civile.
Lo ha chiarito il Tribunale di Milano (giudice Giacomo Rota) che, con il provvedimento del 21.10.2013 nel procedimento 56369/2013, ha dichiarato inammissibile l'impugnazione della delibera proposta da un condomino con ricorso anziché con atto di citazione.
Il ragionamento del giudice milanese si fonda sul presupposto che nel nuovo testo dell'articolo 1137 del Codice civile, secondo cui contro le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento ogni condomino assente, dissenziente o astenuto può adire l'autorità giudiziaria chiedendo l'annullamento, è stato espunta la formula «fare ricorso», sostituita con la più generica frase «adire l'autorità giudiziaria». Il che significa che il condomino, per impugnare le delibere dell'assemblea, deve avvalersi solo dell'atto di citazione, essendo il ricorso un mezzo eccezionale per radicare un giudizio il cui uso, in quanto tale, deve essere espressamente indicato dalla legge.
Il nuovo articolo 1137 del Codice civile ha recepito il principio già dettato dalla Cassazione (sentenza 8491/2011), che aveva individuato nell'atto di citazione l'unico strumento di gravame. Va dunque abbandonata la teoria dell'equipollenza degli strumenti di impugnazione, sostenuta in precedenza (si veda la sentenza 8440/2011 della Cassazione), che permetteva l'indistinto utilizzo della citazione a udienza fissa oppure del ricorso.
Il ricorso non è di per sé idoneo a radicare il giudizio di impugnazione e nemmeno a determinare l'effettivo contraddittorio con il condominio convenuto, perché è sprovvisto sia dell'indicazione dell'udienza fissa alla quale quest'ultimo dovrà costituirsi, sia degli avvertimenti previsti dagli articoli 163 e 164 del Codice di procedura civile.
Né è possibile fare leva sul principio della conservazione degli atti e del raggiungimento dello scopo, essendo il ricorso privo della "chiamata in giudizio" perché appunto manca, al momento della presentazione, l'indicazione dell'udienza, elemento a cui deve poi provvedere il giudice investito della controversia.
Nel caso deciso dal tribunale di Milano, il ricorso era stato tempestivamente depositato presso la cancelleria del giudice nei termini previsti dalla legge, ma nulla era stato notificato al condominio entro 30 giorni, così che lo stesso, nella persona del suo amministratore, aveva già maturato un legittimo affidamento circa l'acquisita esecutività della delibera impugnata.
Il giudice milanese recepisce la necessità di rispettare le esigenze di certezza delle situazioni giuridiche di natura condominiale, che non consentono di allungare i termini di impugnazione e, anzi, impongono una rapida cristallizzazione delle decisioni assembleari.
Quindi, dopo l'entrata in vigore della legge 220/2012 (il 18 giugno scorso), per introdurre il giudizio di impugnazione di delibera assembleare occorre l'atto di citazione, che ha lo scopo di proporre una domanda giudiziale e, contestualmente, di chiamare in giudizio il convenuto affinché possa difendersi. Solo così l'amministratore, presso il cui domicilio va notificato l'atto di impugnazione, può sapere se la delibera dell'assemblea, decorsi 30 giorni dal voto o, per gli assenti, da quando hanno ricevuto il verbale, si può ritenere definitiva (articolo Il Sole 24 Ore del 28.10.2013).

CONDOMINIOSottotetto, rigore sui divieti. Clausole regolamentari inderogabili da leggi regionali. Gli effetti di una sentenza della Corte di cassazione sull'utilizzo delle parti comuni.
I divieti contenuti nel regolamento condominiale sull'utilizzo delle parti comuni rimangono impermeabili anche a eventuali disposizioni di favore contenute nelle leggi regionali. E così, in materia di destinazione dei sottotetti, le clausole regolamentari non possono essere derogate dai condomini nemmeno facendosi scudo delle leggi emanate a livello regionale per favorire il recupero delle soffitte.

Lo ha chiarito la II Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 24.10.2013 n. 24125.
Nella specie alcuni condomini avevano chiesto che il tribunale inibisse la prosecuzione di opere iniziate nell'appartamento sito al piano solaio del medesimo edificio, opere che avrebbero concretato violazione del regolamento condominiale, che vietava la trasformazione d'uso del sottotetto, con conseguenti ripercussioni sulla struttura e sul decoro architettonico dell'immobile. Visto l'esito negativo del giudizio di primo grado, i medesimi condomini avevano quindi provveduto ad appellare la sentenza di rigetto emessa dal tribunale, senza però ottenere il risultato sperato. Di qui il successivo ricorso in Cassazione.
In sede di legittimità i supremi giudici, nel cassare la sentenza impugnata, hanno però correttamente evidenziato la portata del divieto contenuto nel regolamento del condominio in questione –regolamento di natura contrattuale– nel quale di disponeva espressamente che i condomini non potessero mutare la destinazione del sottotetto a uso deposito. A questo proposito la Cassazione ha ribadito come le norme contenute nei regolamenti condominiali posti in essere per contratto possano imporre limitazioni al godimento e alla destinazione di uso degli immobili in proprietà esclusiva dei singoli condomini, disposizioni che si risolvono nella compressione delle facoltà e dei poteri inerenti al diritto di proprietà dei singoli partecipanti e, in quanto costituiscono oneri reali o servitù reciproche, afferiscono immediatamente al bene immobile, purché espressamente e chiaramente manifestate dal documento contrattuale.
Ma nel caso in questione i giudici di legittimità hanno anche bacchettato i giudici di appello per avere attribuito efficacia di ius superveniens alla legge regionale per il recupero dei sottotetti che, secondo la sentenza impugnata, avrebbe avuto la meglio sui principi previsti in tema di interpretazione del regolamento condominiale e sugli specifici divieti previsti da quest'ultimo. Anche in questo caso la Cassazione ha ribadito la propria giurisprudenza formatasi in materia, secondo la quale anche la regolarizzazione di una costruzione mediante il c.d. condono delle violazioni di norme urbanistiche perpetrate nel realizzarla esplica effetti soltanto sul piano pubblicistico, precludendo alla pubblica amministrazione l'applicazione delle previste sanzioni, ma non incide in alcun modo sui diritti dei terzi direttamente pregiudicati dall'attività costruttiva oggetto di sanatoria.
In particolare i giudici hanno chiarito che una eventuale legge regionale finalizzata al recupero ai fini abitativi dei sottotetti con l'obiettivo di contenere il consumo di nuovo territorio e favorire la messa in opera di interventi tecnologici per il contenimento dei consumi energetici, pur evidentemente autorizzando e anzi auspicando gli interventi di recupero dei sottotetti, non può mai produrre l'effetto di sanare le conseguenze della violazione del regolamento contrattuale condominiale commessa dai condomini, con connessa caducazione del diritto spettante agli altri condomini di pretenderne la puntuale osservanza.
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Sì alla trasformazione in abitazione se non ci sono rischi per la sicurezza.
Accade spesso che un condomino, titolare del sottotetto, decida di trasformarlo in abitazione. Se nel regolamento o successiva delibera non è previsto alcun limite alla facoltà di utilizzazione e destinazione di questa particolare parte comune, i singoli condomini non possono opporsi alla trasformazione in locale abitabile, a meno che non vi sia il rischio di pregiudizi alla sicurezza o alla stabilità dell'edificio.
La trasformazione (lecita) del sottotetto: i diritti del singolo condomino
Se i pericoli sopra detti non esistono, il singolo condomino può procedere alla trasformazione. Da notare che, qualora un sottotetto venga trasformato in vani abitabili, ciò non comporta l'insorgere di alcun diritto in capo agli altri condomini, a nulla rilevando che le opere siano o non siano legittime nei confronti della pubblica amministrazione, in relazione agli strumenti urbanistici vigenti. In ogni caso è possibile richiedere l'allaccio ai servizi condominiali: l'allaccio di nuove utenze a una rete di servizi (fognaria, elettrica, idrica o di altro tipo) è, infatti, per sua natura capace di accogliere nuove utenze.
Tuttavia è possibile negare l'autorizzazione all'allaccio se il condominio dimostra che, per motivi tecnici, l'allaccio di una sola nuova utenza incide sulla funzionalità dell'impianto. In caso contrario, però, l'assemblea non può ostacolare l'uso di quei servizi comuni indispensabili alla trasformazione con il preciso intento di impedire mutamenti di destinazione. Del resto il condomino ha molte più possibilità di intervenire sulle parti comuni di quanto normalmente si pensi. Così, ad esempio, può installare un'autoclave per portare l'acqua fino all'ultimo piano, creare un'apertura sul pianerottolo comune, modificare l'andamento del tetto ecc.
Sottotetto e regolamento di condominio
Non è raro trovare nel regolamento una norma che prevede il divieto di utilizzo delle unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli condomini per fini diversi da quelli previsti al momento della costruzione e dell'acquisto del caseggiato. L'obiettivo di tali divieti è quello di evitare un godimento e un uso di servizi e parti comuni eccedenti le facoltà del condomino che operi la trasformazione di locali. In tal caso il divieto della norma regolamentare è applicabile anche a un bene (sottotetto) che, pur se di pertinenza dell'appartamento di un condominio, risulti costruito, realizzato e acquistato non come vano abitabile ma come deposito e, in quanto tale, destinato a un utilizzo (diverso da quello di abitazione) non modificabile in virtù del divieto previsto dal regolamento condominiale.
Ma non è possibile trasformare il sottotetto in vano abitabile neppure se il regolamento contenga una clausola contrattuale che impedisce di compiere qualsiasi opera interna. Quanto sopra vale però solo nel caso in cui dette clausole siano valide. A tale proposito bisogna ricordare che tali norme del regolamento se predisposte dall'originario proprietario dello stabile devono essere accettate dai condomini nei rispettivi atti di acquisto o con atti separati. Se deliberate, invece dall'assemblea, esse debbono essere approvate all'unanimità, dovendo in mancanza considerarsi nulle, perché eccedenti i limiti dei poteri dell'assemblea.
In ogni caso, se il regolamento è trascritto o richiamato nei singoli atti di acquisto, anche gli acquirenti sono tenuti a osservare scrupolosamente queste limitazioni alle proprietà esclusive. Queste considerazioni valgono anche per quelle disposizioni del regolamento che permettono la trasformazione del sottotetto soltanto nel caso in cui le opere necessarie siano autorizzate dall'assemblea dei condomini.
Anche tali clausole hanno natura contrattuale e, quindi, sono valide solo se sono state predisposte dall'originario proprietario del caseggiato e accettate nei singoli atti d'acquisto, oppure se sono state deliberate all'unanimità in un'assemblea.
La violazione del regolamento
Nella ristrutturazione di un sottotetto si pongono una serie di problemi in misura molto superiore a quello che accade in una normale ipotesi di ristrutturazione, problemi che consigliano di operare con una certa accortezza. È quindi consigliabile, prima di mettersi all'opera, richiedere un consiglio all'amministratore, il quale conosce eventuali divieti contenuti nel regolamento di condominio. Se però un condomino, ignorando la presenza di particolari divieti regolamentari, trasforma illecitamente il sottotetto in abitazione è inevitabile la reazione del condominio.
In particolare, a fronte del mutamento di destinazione abusivo del sottotetto che il proprietario esclusivo del locale realizzi mediante opere esclusivamente interne, in violazione di un vincolo imposto dal regolamento del condominio, deve escludersi che gli altri condomini possano conseguire l'eliminazione di dette opere interne, potendo soltanto ottenere l'inibizione del diverso uso. Si potrebbe ad esempio sostenere che il titolare del sottostante appartamento risulti danneggiato a causa dei maggiori rumori derivanti dalla destinazione ad abitazione del sottotetto, prima utilizzato solo saltuariamente come soffitta (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.11.2013).

CONDOMINIOIl regolamento blocca la mansarda. Il patto contrattuale può vietare le modifiche alle destinazioni d'uso «non conformi». Cassazione. La Corte si pronuncia sulla libertà del singolo di intervenire sulla sua unità immobiliare nell'ambito del condominio.
Il sottotetto non può diventare una mansarda se il regolamento condominiale contrattuale lo vieta: e a nulla vale l'uso comune di trasformare quei locali in abitazioni se non c'è il via libera dell'assemblea che consente di cambiare la destinazione d'uso.

La Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 24.10.2013 n. 24125, accoglie il ricorso di alcuni condomini che non volevano concedere agli acquirenti di un sottotetto adibito a stenditoio-magazzino la possibilità di farne un'abitazione bohèmienne.
Un desiderio che era stato avallato nei primo grado di giudizio dai giudici di merito che avevano consentito agli acquirenti di proseguire i lavori di adeguamento alla nuova destinazione, basandosi sulla «intrinseca destinazione abitativa delle mansarde», come previsto anche dalla legge regionale 15/1996 che poneva il solo vincolo di non alterare la volumetria. La Cassazione però prende le distanze dalla lettura del tribunale e della Corte d'appello e invita al rispetto della destinazione naturale dei locali di proprietà esclusiva. Nel contratto di compravendita, infatti, l'ambìto spazio era descritto come un locale rustico appartenente alla categoria catastale C/2 che notoriamente destina l'immobile ad essere utilizzato come magazzino. La stessa cosa era prevista nel regolamento condominiale.
La Suprema corte ricorda quindi che «le norme contenute nei regolamenti condominiali posti in essere per contratto possono imporre limitazioni al godimento e alla destinazione d'uso degli immobili di proprietà esclusiva dei condomini».
Più in dettaglio, la Cassazione ha osservato che, secondo il costante orientamento della stessa, il canone ermeneutico da usare nell'esame di un contratto (quale il regolamento condominiale contrattuale) è quello del senso letterale delle parole e delle espressioni usate nel testo; tuttavia, il rilievo da assegnare alla formulazione letterale deve essere verificato alla luce dell'intero contesto contrattuale e non in una parte soltanto. Proprio per questo, prosegue la Cassazione, la decisione della Corte di merito (La Corte d'appello di Milano) è sbagliata: per non aver tenuto conto dell'intero contenuto della clausola contrattuale «il cui spirito è volto a imporre a ciascun condomino il rispetto della destinazione naturale dei locali di proprietà esclusiva».
Nel rogito, infatti, l'unità era descritta locale rustico, di categoria catastale C/2 (magazzini e locali di deposito), mentre la Corte di merito si è basata sulla «circostanza astratta che i locali venduti avessero come loro destinazione naturale quella abitativa», senza accertare quale fosse l'effettiva destinazione dell'immobile ma considerando solo la «potenziale vocazione delle mansarde a essere abitate». La Cassazione ha quindi introdotto un importante richiamo alla destinazione catastale quale elemento scriminante nell'individuazione della destinazione, soprattutto quando le variazioni fossero state espressamente vietate dal regolamento condominiale contrattuale.
Inoltre, la Corte d'appello è stata censurata anche per aver attribuito l'efficacia di ius superveniens alla legge della Regione Lombardia 15/1996, che aveva facilitato la trasformazione di mansarde in sottotetti: questa norma avrebbe caducato le conseguenze della violazione del regolamento contrattuale, regolarizzando la situazione a priori.
La Suprema Corte, però, ha distinto tra i due piani di rapporti: uno pubblicistico, tra il privato e l'amministrazione, e l'altro privatistico, tra il soggetto che ha operato la violazione e gli altri titolari di diritti soggettivi (tutelati dal regolamento condominiale contrattuale): la previsione di regolarizzazione delle opere (in questo caso il cambio di destinazione d'uso) dal punto di vista urbanistico «attiene al punto di vista amministrativo, penale e fiscale ma non pure ai fini privatistici, cosicché nelle controversie tra privati detta regolarizzazione non può incidere negativamente sui diritti dei terzi» (articolo Il Sole 24 Ore del 25.10.2013).

CONDOMINIO: In condominio telecamere decise a maggioranza.
Il condominio è un luogo di stretta convivenza e quindi bisogna saper dosare la trasparenza nella gestione della cosa comune e il diritto alla riservatezza di ciascuno, tutelato dal Codice della privacy. Così l'amministratore dovrà saper conciliare di volta in volta queste due necessità –che la legge considera ugualmente importanti– senza che l'una prevalga sulla seconda o possa danneggiarla.

Il nuovo articolo 1122-ter del Codice civile, introdotto dalla riforma del condominio (legge 220/2012), si occupa per la prima volta della videosorveglianza. E stabilisce che l'assemblea condominiale, con la maggioranza degli intervenuti che rappresentino almeno metà dei millesimi, può deliberare l'installazione di videocamere sulle parti comuni dell'edificio.
Il Garante della privacy ha giustamente distinto tra le riprese svolte dai singoli condomini a scopi personali e quelle che invece vengono effettuate dal condominio per controllare le sue parti comuni.
Il primo caso si riferisce a quando il condomino intende sorvegliare la propria porta di casa oppure il posto auto. Dato che le immagini non verranno diffuse né comunicate a terzi, non si applica il Codice della privacy. Quindi, per esempio, non c'è l'obbligo di segnalare con un cartello la presenza della videocamera. L'importante è che il sistema di videosorveglianza sia installato in modo tale che l'obiettivo della telecamera riprenda unicamente la porta d'ingresso e non il pianerottolo, così come la videocamera posta nel box dovrà riprendere unicamente il proprio posto auto e non l'intero garage.
Invece, nel caso di telecamere poste dal condominio per sorvegliare le parti comuni, dovranno essere adottate tutte le misure e le precauzioni previste dal Garante, cioè:
- le persone che transiteranno nelle aree sorvegliate dovranno essere informate con appositi cartelli delle presenza delle telecamere;
- nel caso di impianti collegati alle forze dell'ordine, sarà necessario apporre uno specifico cartello che lo evidenzi;
- le immagini registrate potranno essere conservate per un periodo limitato, cioè sino a un massimo di 24-48 ore, fatte salve specifiche esigenze, come la chiusura di esercizi oppure di uffici che hanno sede nel condominio, o di ulteriore conservazione in relazione ad indagini della polizia o comunque di natura giudiziaria;
- le telecamere condominiali dovranno riprendere solo le aree comuni da controllare, evitando la ripresa di luoghi circostanti quali strade, altri edifici, edifici commerciali eccetera;
- i dati raccolti dovranno essere protetti con idonee e preventive misure di sicurezza, in modo da consentirne l'accesso solo alle persone autorizzate oppure al titolare o al responsabile del trattamento dei dati (che ben potrà essere anche lo stesso amministratore del condominio).
Il mancato rispetto di queste prescrizioni, a seconda dei casi, comporterà:
- l'inutilizzabilità dei dati personali trattati (lo prevede l'articolo 11, comma 2, del Codice della privacy);
- l'adozione di provvedimenti di blocco o divieto del trattamento disposti dal Garante (articolo 143, comma 1, lettera c, del Codice);
- l'applicazione delle sanzioni amministrative o penali ed esse collegate (articoli 161 e seguenti del Codice), oltre ovviamente ad eventuali richieste di risarcimento da parte di eventuali soggetti danneggiati.
Lo stesso si può dire in relazione ai videocitofoni che rilevano immagini, talvolta anche tramite registrazione.
Se il sistema è installato esclusivamente a fini personali e le immagini non sono destinate alla comunicazione sistematica o alla diffusione, il Garante non interviene (articolo Il Sole 24 Ore del 23.10.2013).

CONDOMINIOSito internet a prova di privacy. Accesso alla pagina web condominiale da proteggere. I chiarimenti contenuti nel vademecum del Garante sulla gestione delle informazioni.
Internet e condominio a prova di privacy. Sul sito web condominiale gli amministratori possono caricare esclusivamente informazioni relative alla gestione dei beni e dei servizi comuni, alle quali possono avere accesso solo i condomini tramite la predisposizione e l'utilizzo di apposite credenziali di autenticazione (vale a dire una username e una password).

Questo uno dei chiarimenti contenuti nel nuovo vademecum redatto dal Garante sull'applicazione in ambito condominiale della normativa sul trattamento dei dati personali di cui al dlgs n. 196/2003 (consultabile sul sito internet dell'Authority, all'indirizzo www.garanteprivacy.it).
La privacy, quindi, si aggiorna alla riforma del condominio o, meglio, l'Autorità garante prende atto con piacere del fatto che la legge n. 220/2012, direttamente o indirettamente, abbia confermato punto per punto le indicazioni a suo tempo fornite con il provvedimento generale del 18 maggio 2006 (giungendo anche a colmare, con il nuovo art. 1122-ter c.c., la lacuna a suo tempo denunciata relativamente alle maggioranze necessarie per approvare l'installazione di impianti di videosorveglianza delle parti comuni; si veda il relativo approfondimento).
Quanto sopra è particolarmente evidente, ad esempio, in tema di accesso alla documentazione detenuta dall'amministratore per la gestione dei beni e dei servizi comuni e al conto corrente condominiale. In questi anni, infatti, è capitato più volte che alcuni amministratori alla ricerca di uno stratagemma per impedire ai condomini di fare copia dei documenti relativi alla gestione condominiale si trincerassero dietro a non meglio specificate esigenze di privacy, di fatto operando un'applicazione del tutto distorta dei principi di cui al dlgs n. 196/2003.
Il legislatore della riforma ha però finalmente dissipato qualsiasi dubbio in proposito, chiarendo sia il fatto che i condomini abbiano un vero e proprio diritto di visionare e fare copia della documentazione condominiale detenuta dall'amministratore (nei giorni e negli orari che questi ha l'obbligo di comunicare preventivamente: art. 1129, comma 2, c.c.) sia il fatto che tale diritto si estenda anche alla consultazione del conto corrente condominiale, sempre per il tramite di quest'ultimo (art. 1129, comma 7, c.c.).
Occorre quindi evidenziare come la possibilità recentemente ammessa dalla legge n. 220/2012 l'amministratore può attivare un sito internet condominiale (art. 71-ter disp. att. c.c.) si muove proprio nella medesima direzione, essendo finalizzata a rendere più facile e immediato l'accesso alla medesima documentazione in formato elettronico, rendendo quindi più trasparente ed economica la gestione dei beni e dei servizi comuni.
Da questo punto di vista il Garante privacy ha quindi opportunamente prescritto che sul sito internet tenuto dall'amministratore debbano essere pubblicate soltanto le informazioni relative alla gestione del condominio e che l'accesso dei condomini sia protetto mediante l'implementazione di specifiche username e password personali, in modo da evitare che soggetti estranei possano accedere a informazioni che, come detto, sono riservate alla sola compagine condominiale.
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Via libera alla videosorveglianza. Riservatezza da rispettare.
Via libera alla videosorveglianza in condominio, ma nel rispetto della riservatezza dei condomini e dei terzi. La crescente esigenza di sicurezza delle collettività condominiali o dei singoli partecipanti al condominio ha determinato l'installazione massiccia di sistemi videosorveglianza, ritenuti strumenti particolarmente utili per la protezione da ingressi di terzi malintenzionati.
È necessario però che tali installazioni avvengano nel rispetto dell'esigenza dei condomini o di terzi di muoversi, non controllati, nel proprio domicilio e/o all'interno delle aree comuni.
L'impianto di videosorveglianza del singolo condomino. Nel caso di installazione di un sistema di videosorveglianza effettuata dal singolo condomino per fini esclusivamente personali la disciplina del dlgs n. 196/2003 non trova applicazione qualora i dati non siano comunicati sistematicamente a terzi ovvero diffusi, risultando comunque necessaria l'adozione di cautele.
In tale ipotesi possono rientrare, a titolo esemplificativo, strumenti di videosorveglianza idonei a identificare coloro che si accingono a entrare in luoghi privati (videocitofoni, ovvero altre apparecchiature che rilevano immagini o suoni, anche tramite registrazione), oltre a sistemi di ripresa installati nei pressi di immobili privati e all'interno di caseggiati e loro pertinenze (quali posti auto e box). Benché non trovi applicazione la disciplina del c.d. Codice privacy, al fine di evitare di incorrere nel reato di interferenze illecite nella vita privata, l'angolo visuale delle riprese deve essere comunque limitato ai soli spazi di propria esclusiva pertinenza.
In altre parole il sistema di videosorveglianza deve essere installato in maniera tale che l'obiettivo della telecamera posta di fronte alla porta di casa riprenda esclusivamente lo spazio antistante l'accesso alla propria abitazione e non tutto il pianerottolo o l'atrio, oppure il proprio posto auto e non tutto il garage.
La videosorveglianza condominiale. La legge n. 220/2012 di riforma del condominio, eliminando dubbi e incertezze, ha introdotto nel sistema della disciplina condominiale la videosorveglianza. La nuova normativa prescrive infatti che le deliberazioni concernenti l'installazione sulle parti comuni di impianti volti a consentire la videosorveglianza debbano essere approvate dall'assemblea con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio.
È di tutta evidenza che la delibera di installazione dell'impianto di videosorveglianza adottata a maggioranza debba rispettare tutte le misure e le precauzioni previste dal codice privacy e dal provvedimento generale del Garante in tema di videosorveglianza. Di conseguenza l'approvazione di un sistema di videosorveglianza condominiale è consentita, in presenza di concrete situazioni di pericolo, quando altri mezzi di difesa meno invasivi siano risultati inutili e riducendo al minimo l'utilizzazione di dati personali.
In particolare, gli adempimenti da porre in essere sono i seguenti: apposizione di un cartello informativo, tempi di conservazione delle immagini per un periodo limitato tendenzialmente non superiore alle 24-48 ore, anche in relazione a specifiche esigenze come la chiusura di esercizi e uffici che abbiano sede nel condominio o a periodi di festività (e per tempi di conservazione superiori ai sette giorni è comunque necessario richiedere una verifica preliminare al Garante), individuazione del personale che possa visionare le immagini con atto di nomina del responsabile e incaricato del trattamento, limitazione rigorosa dell'angolo visuale delle riprese ai soli spazi di esclusiva pertinenza del condominio, senza possibilità di invasione visiva o di registrazione di aree e di unità immobiliari estranee al condominio stesso.
Il mancato rispetto di queste prescrizioni, a seconda dei casi, può comportare l'inutilizzabilità dei dati personali trattati, l'adozione di provvedimenti di blocco o divieto del trattamento disposti dal Garante e l'applicazione delle sanzioni amministrative o penali collegate alle singole violazioni di legge, oltre ovviamente a eventuali richieste di risarcimento da parte di eventuali soggetti danneggiati (articolo ItaliaOggi Sette del 21.10.2013).

CONDOMINIO - VARITelecamere fuori da spazi altrui. Privacy. Le condizioni per ammettere la videosorveglianza.
Le riprese effettuate a salvaguardia della proprietà privata sono ammesse alla duplice condizione che non invadano ambiti di pertinenza esclusiva di terzi e, al contempo, rispettino le disposizioni sulla sicurezza dei dati acquisiti.
Lo afferma il Tribunale di Reggio Calabria (giudice Genovese) in un'ordinanza del 25.09.2013.
La controversia ha avuto inizio a seguito della richiesta di tutela avanzata in via d'urgenza, in base all'articolo 700 del Codice di procedura civile, da una signora residente al piano terra di un fabbricato a più elevazioni, perché gli abitanti dei livelli superiori avevano collocato un impianto di videosorveglianza che riprendeva sia gli spazi comuni sia quelli usati solo da lei.
Il giudice chiarisce, innanzitutto, che la difesa della riservatezza trova il proprio presupposto nell'articolo 2 della Costituzione, che, riconoscendo e garantendo i diritti inviolabili dell'uomo, contiene una sorta di clausola aperta che consente di adeguare la tutela dei diritti primari «all'evoluzione del comune sentire sociale». Il tribunale osserva inoltre che l'inviolabilità del domicilio, prevista dall'articolo 14 della Costituzione, si esplica non solo nella facoltà di escludere qualcuno da determinati luoghi, ma anche nel diritto alla riservatezza su quanto si compie nei medesimi spazi. L'ordinanza richiama poi la sentenza 14346/2012 della Cassazione, per la quale il titolare del domicilio non può accampare una pretesa alla riservatezza quando l'azione, pur svolgendosi nell'ambito di una dimora privata, è liberamente visibile dagli estranei senza ricorrere a particolari accorgimenti.
Nei fatti, il consulente tecnico d'ufficio aveva verificato che le registrazioni sull'hard-disk si cancellavano automaticamente dopo 24 ore e il sistema di videosorveglianza era dotato di password non gestibile dall'utente né, a maggior ragione, da eventuali terzi che si fossero introdotti nello stabile. Sotto questo profilo era dunque rispettato l'articolo 31 del Codice della privacy (Dlgs 196 del 2003), per il quale i dati personali oggetto di trattamento devono essere custoditi e controllati, anche in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico, in modo da ridurre al minimo i rischi non solo di una loro distruzione o perdita, ma pure di un accesso non autorizzato o comunque di un trattamento non consentito o non conforme alle finalità della raccolta.
Non tutte le telecamere, però, inquadravano spazi destinati all'uso comune, dal momento che una di esse riprendeva la porta di ingresso a un vano utilizzato solo dalla ricorrente. E poiché a causa di quello stato di fatto i diritti alla riservatezza e all'inviolabilità del domicilio erano lesi in modo permanente e non suscettibile di tutela per equivalente, il giudice condanna i resistenti a rimuovere o a schermare quella telecamera
 (articolo Il Sole 24 Ore del 21.10.2013).

CONDOMINIO: L’amministratore condominiale: compiti e responsabilità - Le novità alla luce della legge n. 220/2012 (articolo ItaliaOggi Sette del 21.10.2013).

CONDOMINIOLa delibera vincolante salva l'amministratore. Condominio. Quando la ditta inadeguata la sceglie l'assemblea.
L'amministratore del condominio non può essere condannato per aver puntato sulla ditta sbagliata se l'appalto è stato deciso con una delibera che era costretto ad attuare.

La Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 15.10.2013 n. 42347, accoglie il ricorso di un amministratore condannato dal tribunale a pagare un'ammenda, perché per far tagliare un albero di grandi dimensioni aveva scelto una ditta senza verificarne le credenziali e non aveva messo in guardia gli operai sugli eventuali rischi dell'ambiente in cui operavano. Mentre, secondo i giudici di merito, l'amministratore rivestiva il ruolo di datore di lavoro con i relativi oneri. L'amministratore aveva portato i suoi argomenti in Cassazione e si era difeso, senza però puntare sull'argomento vincente. Ad avviso del ricorrente la decisione di rivolgersi a una ditta senza inserirsi in alcun modo nell'organizzazione, nella direzione e nell'esecuzione dei lavori lo metteva al riparo dalle responsabilità tipiche del datore di lavoro.
La Suprema corte dà atto al ricorrente che l'amministratore assume la posizione di garanzia propria del datore di lavoro solo quando procede direttamente all'organizzazione dei lavori nell'interesse del condominio, ma respinge la tesi che la decisione di appaltarli non comporti alcuna responsabilità.
Come committente l'amministratore ha comunque il dovere di accertare in primo luogo l'idoneità tecnico-professionale della ditta individuata, nel caso specifico risultata tanto inconsistente da imporre un subappalto.
La condanna viene però annullata. I giudici di merito non avevano sciolto un nodo fondamentale per affermare la responsabilità penale.
L'appalto era stato deciso e assegnato con una delibera che l'imputato, in virtù del suo ruolo, era tenuto ad attuare. La pena non è giustificata se manca la prova che l'amministratore godeva dell'autonomia e dei poteri decisionali per disattendere la scelta dei condomini. Un argomento che era sfuggito anche al diretto interessato che aveva scelto un'altra linea di difesa (articolo Il Sole 24 Ore del 16.10.2013).

CONDOMINIOLa trasparenza batte la privacy. È obbligatoria l'affissione dei dati dell'amministratore. Le linee guida del garante sugli adempimenti a seguito della riforma del condominio.
La privacy non stoppa la trasparenza condominiale. I dati sul sito web dello stabile devono, però, essere appannaggio dei soli condomini. Attenzione, inoltre, ai videocitofoni: se sono come le telecamere della videosorveglianza, sono necessari cartelli e le immagini devono essere eliminate in tempi brevi.

Sono queste alcune delle indicazioni del manuale "Il condominio e la privacy", predisposto dal garante della privacy e aggiornato alla riforma del condominio (legge 220/2012).
Dati dell'amministratore. La reperibilità dell'amministratore non contrasta con la privacy. Il vademecum del garante richiama la riforma del condominio, nella parte in cui prevede che l'amministratore sia tenuto a comunicare ai condomini anche i propri dati anagrafici e professionali, il codice fiscale o, se si tratta di società, la denominazione e la sede legale. Le generalità, il domicilio e i recapiti, inclusi quelli telefonici, dell'amministratore (o della persona che svolge funzioni analoghe a quelle dell'amministratore) devono essere anche affissi all'ingresso del condominio o nei luoghi di maggior transito. Si tratta di informazioni funzionali all'adempimento degli obblighi contrattuali dell'amministratore, il quale non può invocare il velo della privacy per non farsi rintracciare dai condomini.
Rendicontazione trasparente. La legge di riforma ha rafforzato la trasparenza condominiale. Il garante prende atto che l'amministratore è obbligato a far transitare le somme ricevute a qualunque titolo dai condomini o da terzi e anche quelle a qualsiasi titolo erogate per conto del condominio, su uno specifico conto corrente postale o bancario, intestato al condominio stesso. Nessun ostacolo dal fronte privacy all'accesso alla rendicontazione: ogni condomino ha diritto di chiedere, per il tramite dell'amministratore, di prendere visione ed estrarre copia, a proprie spese, della rendicontazione periodica.
Videocitofoni. Di regola l'installazione del videocitofono non pone problemi di privacy. Diverso è, però, il discorso per i videocitofoni di ultima generazione e, anche, per altre apparecchiature che rilevano immagini o suoni, anche tramite registrazione. Questi strumenti possono talvolta essere equiparati ai sistemi di videosorveglianza. E allora scattano le stesse regole previste dal Codice della privacy e dal provvedimento generale del garante in tema di videosorveglianza. A meno che non si tratti di sistemi installati da persone fisiche per fini esclusivamente personali e le immagini non siano destinate alla comunicazione sistematica o alla diffusione (per esempio su Internet). Se il videocitofono, quindi, è installato da un singolo o da una famiglia per finalità esclusivamente personali, non occorre mettere il cartello per segnalare la presenza dell'apparecchio di ripresa.
Maggiorazione per la videosorveglianza. La riforma del condominio ha precisato il quorum richiesto per poter installare un sistema di videosorveglianza condominiale. L'assemblea può deliberare l'installazione di un sistema di videosorveglianza sulle parti comuni solo con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio.
Sito web del condominio. La riforma della normativa condominiale ha sancito che il condominio può avere il suo sito internet: può essere una piattaforma per rendere disponibili i documenti relativi alla gestione dell'edificio. Lo stesso garante sottolinea che, attraverso il sito web, le persone che ne hanno diritto possono consultare ed estrarre copia dei documenti condominiali. La prerogativa non riguarda tutti coloro che accedono al sito internet dello stabile: devono quindi essere previste delle procedure, per esempio l'autenticazione tramite password individuale, che consentano l'accesso sicuro a tali documenti digitali. Le cautele devono essere maggiori nel caso in cui siano trattati dati sensibili, come quelli che si riferiscono alle condizioni di salute di una persona o quelli giudiziari.
Affittuario. L'affittuario non può accedere ai dati sulla gestione del condominio. Beninteso può esercitare il diritto di accesso ai propri dati personali e gli altri diritti garantiti dal codice della privacy. In riferimento alla normativa sulla privacy, non può però chiedere l'accesso ai dati sulla gestione del condominio (articolo ItaliaOggi dell'11.10.2013).

CONDOMINIOPrivacy in casa. Sul web accesso limitato ai condòmini.
LE REGOLE DEL GARANTE/ L'Authority ha rinnovato le disposizioni da seguire per rispettare i limiti alla diffusione dei dati personali.

Il garante della Privacy detta le nuove regole dopo la riforma del condominio. Con il vademecum pubblicato ieri sul sito (www.garanteprivacy.it) si sono aggiunte parecchie precisazioni sul corretto comportamento da tenere (specialmente da parte dell'amministratore).
Anzitutto i numeri telefonici: l'amministratore può usarli solo se pubblici (cioè negli elenchi pubblici) o con il consenso espresso e non possono essere comunicati a terzi. Peggio ancora per i dati sanitari, il cui uso è permesso solo in caso di delibere o lavori su barriere architettoniche o per danni subiti negli spazi comuni. Mentre al contrario deve comunicare ai condomini i suoi recapiti (anche telefonici), che vanno anche affissi sull'edificio.
In assemblea, invece, non può partecipare un esterno tranne i delegati o i tecnici chiamati a illustrare un problema (ma solo per il tempo necessario). E anche la videoregistrazione è lecita solo con il consenso di tutti gli interessati. Viene confermato che in bacheca non si possono affiggere comunicazioni personali né riguardanti le morosità (sui morosi, però, i condomini possono avere notizie direttamente dall'amministratore). I dati sui morosi vanno invece comunicati ai creditori, come previsto dalla riforma del condominio (legge 220/2012). Il rendiconto del c/c bancario, come prescrive la riforma, è accessibile a ogni condomino.
Sulla videosorveglianza non ci sono grandi novità: lecita quella per fini personali effettuata da persone fisiche (sulla porta dell'appartamento) e anche sulle aree comuni, segnalandola e conservando le registrazioni per non oltre 48 ore.
Nuove, invece, le regole sul condominio digitale, dato che è la riforma a prevedere la possibilità dei siti web condominiali: potranno essere messi online solo i documenti adottati con delibera e l'accesso è riservato ai condomini, tramite password individuale.
Ogni condomino ha poi il "diritto di accesso" per conoscere i suoi dati custoditi dall'amministratore ma non quelli riferiti all'intero condominio (per esempio i dati relativi al contratto di locazione di un'unità immobiliare di proprietà condominiale) a meno che non sia stato incaricato espressamente dall'assemblea. Gli inquilini non possono accedere ai dati sulla gestione condominiale, ma solo ai propri.
In ogni caso anche il singolo condomino che ne venga a conoscenza non può comunicare a terzi i dati personali degli altri condomini senza il loro consenso. Escluse dalla disciplina della privacy sono invece le normali comunicazioni tra vicini, tranne che vengano diffuse sul web o su cartelli affissi nell'edificio (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.10.2013).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell’art. 1127 cod. civ. il diritto del proprietario dell’ultimo piano alla sopraelevazione incontra tre limiti:
- le condizioni statiche dell’edificio devono consentire la sopraelevazione: trattasi di divieto assoluto, cui è possibile ovviare se, con il consenso unanime dei condomini, il proprietario sia autorizzato all’esecuzione delle opere di rafforzamento e di consolidamento necessarie a rendere idoneo l’edificio a sopportare il peso della nuova costruzione;
- non deve esserci pregiudizio dell’aspetto architettonico (inteso come stile architettonico dell’edificio);
- non deve determinarsi una notevole diminuzione di aria e di luce per i piani sottostanti: sia il limite precedente che il presente sono limiti per i quali è prevista l’opposizione facoltativa dei singoli condomini controinteressati.
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Il divieto di sopraelevazione, per inidoneità delle condizioni statiche dell’edificio, previsto dall’art. 1127, comma 2, c. c., va interpretato non nel senso che la sopraelevazione è vietata soltanto se le strutture dell’edificio non consentono di sopportarne il peso, ma nel senso che il divieto sussiste anche nel caso in cui le strutture son tali che, una volta elevata la nuova fabbrica, non consentano di sopportare l’urto di forze in movimento quali le sollecitazioni di origine sismica.
Pertanto, qualora le leggi antisismiche prescrivano particolari cautele tecniche da adottarsi, in ragione delle caratteristiche del territorio, nella sopraelevazione degli edifici, esse sono da considerarsi integrative dell’art. 1127, comma 2, c.c., e la loro inosservanza determina una presunzione di pericolosità della sopraelevazione che può essere vinta esclusivamente mediante la prova, incombente sull’autore della nuova fabbrica, che non solo la sopraelevazione, ma anche la struttura sottostante sia idonea a fronteggiare il rischio sismico.
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Nella specie, trattandosi di zona sismica, ed attesa la natura integrativa dell’art. 1127 cpv. cod. civ., ascritta alle leggi antisismiche, il consenso unanime dei condomini (mancante nella specie) avrebbe dovuto esercitarsi per l’appunto sulle particolari cautele da adottarsi, nella sopraelevazione, per la prevenzione del rischio in questione.

... per l’annullamento: - a) del diniego di cui alla nota, prot. n. 2800 del 30.01.2012, successivamente comunicato, a firma congiunta del Responsabile del Servizio Sportello Unico Edilizia Privata e del Responsabile del Settore 4° del Comune di Pontecagnano Faiano, con il quale è stata respinta l’istanza di permesso di costruire per l’ampliamento, ai sensi dell’art. 4 della l. r., n. 19/09 e ss. mm. ii., di un fabbricato sito alla via Veneto;
...
La ricorrente, quale proprietaria esclusiva, in virtù di atto di donazione, rep. n. 19595, racc. 6376 dell’01.02.1979, di un sottotetto, sito alla via Veneto n. 12 del Comune di Pontecagnano Faiano, distinto in catasto al foglio 7, p.lla n. 771, rappresentava che, in data 20.07.2010, in considerazione del regime di favore, introdotto dalla l.r. Campania n. 19/2009, aveva depositato apposita istanza (prot. n. 20509), ai fini dell’ampliamento e del cambio di destinazione d’uso del predetto sottotetto in abitazione; che, in esito al prescritto iter, il Comune di Pontecagnano Faiano, con nota del 19.09.2011, le aveva comunicato i motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza; in particolare, era stata evidenziata la necessità di acquisire:
a) “l’autorizzazione esplicita, espressa nelle forme di legge, della parte rimanente dell’assetto proprietario dell’intero fabbricato (...)”;
b) “l’autorizzazione esplicita (...) della proprietà dell’intero fabbricato in aderenza”;
che, nei termini di cui all’art. 10 bis, aveva depositato un’articolata memoria, con la quale aveva evidenziato che:
   a) ai sensi dell’art. 1127 c. c., il parere degli altri condomini alla sopraelevazione non sarebbe stato necessario, essendo la stessa espressamente consentita dalla predetta disposizione normativa;
   b) aveva comprovato il pieno diritto ad effettuare costruzioni in sopraelevazione, come da titolo di proprietà;
   c) aveva fornito elaborati grafici, dai quali s’evinceva che l’intervento proposto non alterava l’aspetto architettonico dell’immobile;
   d) aveva evidenziato che il fabbricato era stato realizzato, in aderenza a quello limitrofo; pertanto, non sarebbe stato necessario alcun ulteriore atto di assenso dei proprietari dell’immobile in aderenza; lamentava che la P. A., senza tener conto dell’esatta portata di detta memoria, aveva comunque respinto l’istanza; avverso detto provvedimento articolava, pertanto, le seguenti censure: ...
...
Va poi precisato che ai sensi dell’art. 1127 cod. civ. il diritto del proprietario dell’ultimo piano alla sopraelevazione incontra tre limiti:
- le condizioni statiche dell’edificio devono consentire la sopraelevazione: trattasi di divieto assoluto, cui è possibile ovviare se, con il consenso unanime dei condomini, il proprietario sia autorizzato all’esecuzione delle opere di rafforzamento e di consolidamento necessarie a rendere idoneo l’edificio a sopportare il peso della nuova costruzione;
- non deve esserci pregiudizio dell’aspetto architettonico (inteso come stile architettonico dell’edificio);
- non deve determinarsi una notevole diminuzione di aria e di luce per i piani sottostanti: sia il limite precedente che il presente sono limiti per i quali è prevista l’opposizione facoltativa dei singoli condomini controinteressati.
Né opera il richiamato principio della prevenzione in quanto secondo il consolidato orientamento della Corte di cassazione “in tema di rispetto delle distanze legali tra costruzioni, la sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando un incremento della volumetria del fabbricato, è qualificabile come nuova costruzione; ne consegue l’applicazione della normativa vigente al momento della modifica e l’inoperatività del criterio della prevenzione se riferito alle costruzioni originarie, in quanto sostituito dal principio della priorità temporale correlata, al momento della sopraelevazione” (Cass. 11.06.2008 n. 15572; 03/01/2011 n. 74).
In conformità a tali considerazioni, e tenute altresì presenti la argomentazioni esposte nella memoria difensiva del controinteressato S.A., diffusamente riportate in narrativa, osserva il Tribunale come, diversamente da quanto sostenuto nel primo motivo di ricorso, il diritto alla sopraelevazione attribuito al proprietario dell’ultimo piano dell’edificio non è assoluto, ma incontra “tre limiti, dei quali il primo (le condizioni statiche) introduce un divieto assoluto, cui è possibile ovviare soltanto se, con il consenso unanime dei condomini, il proprietario sia autorizzato all’esecuzione delle opere di rafforzamento e di consolidamento necessarie a rendere idoneo il fabbricato a sopportare il peso della nuova costruzione, mentre gli altri due limiti (il pregiudizio delle linee architettoniche e la diminuzione di aria e di luce) presuppongono l’opposizione facoltativa dei singoli condomini interessati”.
Prescindendo per il momento da tali ultimi due limiti, è indubbio che nella specie manca il consenso della parte rimanente dell’assetto proprietario dell’intero fabbricato, necessario in vista del conseguimento dell’autorizzazione all’esecuzione delle opere di rafforzamento e consolidamento necessarie a rendere idoneo il fabbricato a sopportare il peso dell’intera costruzione, e tanto per l’opposizione del condomino Scalea Antonio, comproprietario del secondo piano del’edificio de quo.
Si tenga altresì presente che, come opportunamente rilevato da S.A. nello scritto difensivo in atti: “Il divieto di sopraelevazione, per inidoneità delle condizioni statiche dell’edificio, previsto dall’art. 1127, comma 2, c. c., va interpretato non nel senso che la sopraelevazione è vietata soltanto se le strutture dell’edificio non consentono di sopportarne il peso, ma nel senso che il divieto sussiste anche nel caso in cui le strutture son tali che, una volta elevata la nuova fabbrica, non consentano di sopportare l’urto di forze in movimento quali le sollecitazioni di origine sismica. Pertanto, qualora le leggi antisismiche prescrivano particolari cautele tecniche da adottarsi, in ragione delle caratteristiche del territorio, nella sopraelevazione degli edifici, esse sono da considerarsi integrative dell’art. 1127, comma 2, c.c., e la loro inosservanza determina una presunzione di pericolosità della sopraelevazione che può essere vinta esclusivamente mediante la prova, incombente sull’autore della nuova fabbrica, che non solo la sopraelevazione, ma anche la struttura sottostante sia idonea a fronteggiare il rischio sismico” (Cassazione civile – Sez. II, 30.05.2012, n. 8643).
Nella specie, trattandosi di zona sismica, ed attesa la natura integrativa dell’art. 1127 cpv. cod. civ., ascritta alle leggi antisismiche, il consenso unanime dei condomini (mancante nella specie) avrebbe dovuto esercitarsi per l’appunto sulle particolari cautele da adottarsi, nella sopraelevazione, per la prevenzione del rischio in questione (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 10.10.2013 n. 2039 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO: IL CONDOMINIO E LA PRIVACY (Garante per la protezione dei dati personali, vademecum 10.10.2013).

CONDOMINIO: In condominio nulla osta al bar. Contro il rumore c'è la chanche di ottenere il risarcimento dei danni. Cassazione. Il regolamento non può imporre limiti nei locali privati senza il consenso scritto del proprietario.
LA CONDIZIONE/ La tutela penale è possibile se il disturbo coinvolge un numero intedeterminato di persone oltre al condomino del piano di sopra
Non si può vietare a un condomino di adibire i locali di sua proprietà a bar, cornetteria e circolo ricreativo. Ciò vale anche quando il regolamento di condominio e una delibera condominiale vietano ai condomini di installare nei locali dell'edificio attività idonee ad arrecare disturbo alla quiete pubblica e incompatibili con il decoro e la tranquillità dell'edificio stesso.

È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sentenza 08.10.2013 n. 22892, decidendo una lite che vedeva contrapposti due condomini: il primo si lamentava del rumore e delle immissioni intollerabili fino a tarda notte provenienti dall'attività di intrattenimento e vendita di alcolici svolta in un locale di proprietà di altro condomino, nello stesso fabbricato.
Il ragionamento seguito dalla Suprema Corte parte dal presupposto che i limiti all'utilizzazione delle proprietà esclusive previste da una delibera condominiale possono comportare un restringimento dei poteri di godimento dell'immobile da parte del proprietario, ma solo se il consenso a tali limitazioni è espresso in forma scritta dal soggetto delegato dal condomino (articolo 1350 del Codice civile).
La delibera assunta da tutti i condomini, anche delegati, è valida, ma non può imporre limitazioni alla proprietà se il delegato non ha una specifica delega ad accettare tale limite.
Se invece alla delibera fosse intervenuto il condomino in proprio, la limitazione sarebbe operante.
La Corte di cassazione, tuttavia, non nega tutela al condomino che deve sopportare schiamazzi e rumori fino a tarda notte in quanto è possibile chiedere il risarcimento dei danni, come ad esempio il deprezzamento del valore del proprio immobile.
Possono inoltre essere risarciti danni morali, biologici (stress, insonnia, disagi) provocati dalle immissioni superiori alla soglia di normale tollerabilità derivanti da bar e locali aperti fino a tarda notte.
Oltre alla tutela risarcitoria, per chi risiede ai piani superiori di esercizi aperti al pubblico o di circoli ricreativi, vi è anche una tutela penale (articolo 659 del Codice penale): ma quest'ultima, sottolinea la Corte di cassazione 28874/2013, opera solo se i rumori disturbano un numero indeterminato di persone e non il solo condomino del piano di sopra (articolo Il Sole 24 Ore del 09.10.2013).

CONDOMINIOPartendo dalla premessa secondo cui l’amministratore di condominio non ha autonomi poteri, ma si limita ad eseguire le deliberazioni dell’assemblea ovvero a compiere atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell'edificio (art. 1130 Cod. civ.), anche in materia di azioni processuali il potere decisionale spetta solo ed esclusivamente all’assemblea, la quale deve deliberare se agire in giudizio, se resistere e se impugnare i provvedimenti in cui il condominio risulta soccombente.
Un tale potere decisionale non può competere in via autonoma all’amministratore che, per sua natura, non è un organo decisionale ma meramente esecutivo del condominio. Ove tale potere spettasse all’amministratore, questi potrebbe anche autonomamente non solo costituirsi in giudizio ma anche impugnare un provvedimento senza il consenso dell'assemblea e, in caso di ulteriore soccombenza, far sì che il condominio sia tenuto a pagare le spese processuali, senza aver in alcun modo assunto decisioni al riguardo.
Non vi è dubbio, quindi, che, in base a questo orientamento l’amministratore può proporre ricorso giurisdizionale nell’interesse del condominio che rappresenta solo in presenza di una specifica autorizzazione assembleare, la sola a poter esprimere il relativo potere decisionale, anche in campo processuale.

Deve richiamarsi in questa sede l’indirizzo giurisprudenziale più volte espresso dalla Corte di Cassazione e recentemente avallato dalle Sezioni Unite (cfr. Cass., SS.UU., 06.08.2010, n, 18331) che, partendo dalla premessa secondo cui l’amministratore di condominio non ha autonomi poteri, ma si limita ad eseguire le deliberazioni dell’assemblea ovvero a compiere atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell'edificio (art. 1130 Cod. civ.), giunge alla conclusione che, anche in materia di azioni processuali, il potere decisionale spetta solo ed esclusivamente all’assemblea, la quale deve deliberare se agire in giudizio, se resistere e se impugnare i provvedimenti in cui il condominio risulta soccombente. Un tale potere decisionale non può competere in via autonoma all’amministratore che, per sua natura, non è un organo decisionale ma meramente esecutivo del condominio. Ove tale potere spettasse all’amministratore, questi potrebbe anche autonomamente non solo costituirsi in giudizio ma anche impugnare un provvedimento senza il consenso dell'assemblea e, in caso di ulteriore soccombenza, far sì che il condominio sia tenuto a pagare le spese processuali, senza aver in alcun modo assunto decisioni al riguardo.
Non vi è dubbio, quindi, che, in base a questo orientamento, che la Sezione condivide, l’amministratore può proporre ricorso giurisdizionale nell’interesse del condominio che rappresenta solo in presenza di una specifica autorizzazione assembleare, la sola a poter esprimere il relativo potere decisionale, anche in campo processuale.
Nel caso di specie, tale autorizzazione deve ritenersi mancante (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 08.10.2013 n. 4944 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIOImpianti termici, rischio caos. L'adeguamento può essere bloccato dall'assemblea. Gli effetti del dpr n. 74/2013: il soggetto responsabile è comunque l'amministratore.
Adeguamento degli impianti termici: rischio paralisi per il condominio con responsabilità a carico dell'amministratore. Secondo le nuove regole introdotte dal dpr n. 74/2013, in vigore dal 12 luglio scorso, ove l'assemblea condominiale non deliberi di stanziare i fondi per gli interventi necessari all'efficienza dell'impianto di riscaldamento, non potrà essere fornita alcuna delega all'esterno e l'eventuale soggetto terzo responsabile già nominato decadrà automaticamente dall'incarico, essendo altresì tenuto a darne pronta comunicazione alla regione, provocando l'avvio della relativa attività di controllo.
In casi del genere l'amministratore condominiale rischia quindi di rimanere con il cerino in mano, in quanto soggetto per legge responsabile della gestione dell'impianto comune. La situazione appena descritta potrebbe poi risultare ulteriormente aggravata ove si dovesse interpretare in maniera restrittiva la nuova disposizione in tema di opere di manutenzione straordinaria introdotta dalla legge n. 220/2012 di riforma del condominio, essendo a quel punto necessario addirittura precostituire un fondo speciale prima di avviare i lavori.
Chi è onerato della responsabilità. In ambito condominiale il responsabile dell'impianto termico è per legge l'amministratore, trattandosi di uno dei beni comuni dei quali si compone il condominio. All'amministratore spetta quindi ordinariamente l'esercizio, la conduzione, il controllo, la manutenzione e il rispetto delle disposizioni di legge. Ciò significa che quest'ultimo deve adoperarsi affinché l'impianto termico centralizzato sia sempre ben funzionante, garantendone il corretto esercizio e la doverosa manutenzione. Tuttavia, sul piano pratico, si deve rilevare come la complessità tecnica delle operazioni necessarie per intervenire sull'impianto comune costringa l'assemblea a delegarne l'esercizio e la manutenzione a un soggetto terzo responsabile dotato delle necessarie competenze tecniche.
Il dpr n. 74/2013 prevede che in caso di impianti non conformi alle disposizioni di legge la delega non possa essere rilasciata, salvo che sia contestualmente conferito al terzo responsabile l'incarico di procedere alla messa a norma dell'impianto. Il delegante deve inoltre porre in essere ogni atto, fatto o comportamento necessario a che il terzo responsabile possa adempiere agli obblighi previsti dalla legge e garantire la copertura finanziaria per l'esecuzione dei necessari interventi nei tempi concordati. Negli edifici in condominio il decreto prevede che detta garanzia debba essere fornita con apposita delibera dell'assemblea dei condomini. In tale ipotesi, sempre secondo quanto disposto dal dpr, la responsabilità degli impianti resta in carico all'amministratore, fino alla comunicazione dell'avvenuto completamento degli interventi necessari, da inviarsi per iscritto da parte del delegato entro e non oltre cinque giorni dal termine dei lavori.
Nel caso in cui la necessità di intervenire sull'impianto sorga soltanto una volta rilasciata la delega, il terzo responsabile è tenuto a farne tempestivamente comunicazione in forma scritta al delegante e, in ambito condominiale, l'amministratore deve espressamente autorizzare il terzo responsabile, previa apposita delibera condominiale, a effettuare i predetti interventi entro il termine davvero brevissimo di dieci giorni dalla comunicazione di cui sopra, facendosi carico dei relativi costi. In assenza della delibera condominiale, la delega del terzo responsabile decade automaticamente e quest'ultimo è tenuto a farne pronta segnalazione alla regione o alla provincia autonoma competente per territorio.
La situazione potrebbe poi diventare letteralmente esplosiva ove si ritenesse di interpretare la disposizione di cui all'art. 1135, comma 1, n. 4, c.c. come obbligo di precostituire un fondo speciale di importo pari all'ammontare dei lavori.
Chi è il soggetto terzo responsabile dell'impianto. Il terzo responsabile è il soggetto che, in possesso dei requisiti previsti dalle normative vigenti e comunque di capacità tecnica, economica e organizzativa adeguata al numero, alla potenza e alla complessità degli impianti gestiti, può essere delegato dal soggetto che per legge è responsabile dell'impianto termico (nel caso del condominio, come detto, l'amministratore) ad assumere la responsabilità dell'esercizio, della conduzione, del controllo, della manutenzione e dell'adozione delle misure necessarie al contenimento dei consumi energetici.
Bisogna precisare che, come previsto dalla nuova normativa, per l'atto di assunzione di responsabilità da parte del terzo è richiesto un contratto scritto che gli impone per legge di non delegare ad altri le responsabilità assunte, potendo ricorrere solo occasionalmente al subappalto o all'affidamento di alcune attività di sua competenza. Quanto sopra dovrebbe porre un freno a situazioni di subappalto diffuso da parte di grandi imprese di servizi di manutenzione che delegavano a terzi le attività di manutenzione ordinaria e, talvolta, anche il ruolo di terzo responsabile, con conseguente elusione dell'obbligo vigente per il manutentore di possedere le certificazioni di qualità previste dalla legge. In ogni caso non può essere conferito tale incarico a colui che sia anche venditore di energia per il medesimo impianto o a società a qualsiasi titolo legate alla vendita (articolo ItaliaOggi Sette del 07.10.2013).

CONDOMINIOLe deliberazioni del condominio non ledano i diritti individuali. La Cassazione sull'attribuzione delle spese che ricadono tra quelle comuni.
Le deliberazioni dell'assemblea condominiale, sebbene adottate a maggioranza, non possono ledere diritti individuali attribuendo ad alcuni dei condomini parti di spese circa l'impianto di riscaldamento che non ricadono, per espressa previsione del regolamento contrattuale, tra quelle comuni.

Lo ha stabilito la II Sez. civile della Corte di Cassazione con sentenza 03.10.2013 n. 22634.
Il caso su cui si è espressa la Suprema corte riguardava alcuni condomini che non erano comproprietari in virtù dell'esistenza di un regolamento contrattuale che, superando la c.d. presunzione di condominialità, li aveva esclusi dal condominio su quel bene. In questo contesto, pertanto, era giusta la conclusione di considerare nulla la deliberazione di approvazione della ripartizione delle spese.
Circa la presunzione di condominialità appare opportuno, in questa sede, osservare che la giurisprudenza afferma che i beni indicati nell'art. 1117 c.c., si intendono comuni per presunzione derivante sia dall'attitudine oggettiva che dalla concreta destinazione degli stessi al servizio comune (si veda Cass. 13.03.2009, n. 6175). E una recentissima sentenza della Cassazione (sez. II civ., 26.07.2012, n. 13262) ha sottolineato tale principio affermando che l'art. 1117 c.c. (nuova formulazione aggiornato dall'art. 1, legge 11.12.2012, n. 220, in vigore dal 17.06.2013) pone una presunzione di condominialità per i beni ivi indicati, la cui elencazione non è tassativa. In parole povere, i beni indicati nell'art. 1117 c.c. si presumono comuni sino a prova contraria.
Gli Ermellini hanno, quindi sottolineato che «i condomini debitori, a fronte della contestazione delle spese di riscaldamento, hanno legittimamente esercitato la facoltà di imputazioni riconosciuta dall'art. 1193 c.c. con riferimento alle spese di gestione ordinaria, non intendendo invece estinguere, perché ritenute non dovute, quelle di riscaldamento oggetto di causa». Aggiungendo, poi, che si era dinanzi ad un caso «di delibera incidente sui diritti individuali dei condomini (...), vertendosi sulla sussistenza del diritto e non sulla mera determinazione quantitativa del riparto spese per avere il condominio addebitato a detti condomini importi relativi all'impianto di riscaldamento che la sentenza impugnata ha escluso riguardasse i locali siti ai piani sottotetto appartenenti ai resistenti, per espressa disposizione del regolamento condominiale (non contestata dall'appellante condominio), costituente titolo contrario idoneo a vincere la presunzione di comproprietà dell'impianto di riscaldamento, ex art. 1117 c.c.» (articolo ItaliaOggi Sette del 14.10.2013).

settembre 2013

CONDOMINIONon si ravvisano limiti sostanziali a richiedere e conseguire il titolo edilizio nell'ambito di intervento edilizio riconducibile all'art. 1102 c.c., il quale consente le modificazioni apportate dal singolo condomino, senza necessità del consenso degli altri partecipanti alla comunione, tese a trarre dal bene comune una particolare utilità aggiuntiva rispetto a quella goduta dagli altri condomini, ivi compresa l'installazione sul muro di elementi ad esso estranei posti al servizio esclusivo della singola unità immobiliare, purché non precluda agli altri condomini l'uso del muro comune e non ne alteri la normale destinazione con interventi di eccessiva vastità.
Ciò premesso, nella specie non si ravvisano limiti sostanziali a richiedere e conseguire il titolo edilizio, in quanto si tratta di intervento riconducibile all'art. 1102 c.c., il quale consente le modificazioni apportate dal singolo condomino, senza necessità del consenso degli altri partecipanti alla comunione, tese a trarre dal bene comune una particolare utilità aggiuntiva rispetto a quella goduta dagli altri condomini, ivi compresa l'installazione sul muro di elementi ad esso estranei posti al servizio esclusivo della singola unità immobiliare, purché non precluda agli altri condomini l'uso del muro comune e non ne alteri la normale destinazione con interventi di eccessiva vastità (cfr., in relazione ad analoga fattispecie concernente l’installazione di canna fumaria, TAR Toscana, 29.04.2009, n. 724, nonché Id. 27.09.2012, n. 1569.
In sostanza, non può dubitarsi della riconducibilità all'ambito degli interventi contemplati dall'art. 1102 c.c. di tutte le modificazioni -apportabili dal singolo condomino, senza bisogno del consenso degli altri partecipanti alla comunione- che consentono di trarre dal bene comune una particolare utilità aggiuntiva rispetto a quella goduta dagli altri condomini, ivi compresa l'installazione sul muro di elementi ad esso estranei posti al servizio esclusivo della singola unità immobiliare, purché non precluda agli altri condomini l'uso del muro comune e non ne alteri la normale destinazione con interventi di eccessiva vastità (ferme restando, beninteso, le iniziative di tutela giurisdizionale esperibili dai condomini in sede civile).
Le esposte ragioni militano nel senso della fondatezza del gravame, con conseguente annullamento del provvedimento impugnato, nella parte in cui subordina l’efficacia della autorizzazione al conseguimento del previo consenso della compagine condominiale (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 27.09.2013 n. 1985 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO: Condominio. Le caratteristiche e le criticità del nuovo istituto che debutterà in via sperimentale per quattro anni.
Mediazione con tempi lunghi. Presenza dell'amministratore e maggioranze richiederanno più dei 3 mesi previsti.

ALL'INCONTRO/ Il mediatore può prorogare i termini della prima comparizione.
La mediazione torna in condominio ma ora, nella sua applicazione pratica, i mediatori dovranno fare i conti con problemi di non facile risoluzione.
Con la pubblicazione della legge 98/2013 sulla «Gazzetta ufficiale» del 20 agosto, l'attivazione della mediazione rimane, in un ambito importante e a forte tasso di litigiosità come quello del condominio, una condizione di procedibilità dell'azione giudiziale. Il fine è sempre lo stesso: orientare a una ricomposizione della lite che faccia perno sui veri bisogni delle parti contrapposte, che possono essere anche di natura personale ed emotiva, dove magari l'aspetto economico –trattato davanti al giudice– diventa davvero secondario.
Proprio nelle liti condominiali, infatti, il più delle volte si discute di comportamenti dei vicini non più sostenibili, come l'uso scorretto e gli abusi sulle parti comuni, la violazione del decoro architettonico o l'osservanza del regolamento.
I punti salienti di questa mediazione rivisitata (illustrati nella scheda a fianco) sono piuttosto chiari. Inoltre il nuovo articolo 71-quater delle disposizioni di attuazione del Codice civile aiuta meglio a comprendere quali sono le controversie che possono essere oggetto di mediazione, ossia quelle derivanti dalla violazione o dall'errata applicazione delle norme del codice che riguardano «il condominio negli edifici» e le relative disposizioni di attuazione.
L'amministratore è legittimato a partecipare solo se l'assemblea ha validamente deliberato in tal senso con la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio. Il mediatore, proprio per questo motivo, può prorogare i termini della prima comparizione. Infine, l'accordo dovrà essere approvato dall'assemblea con la stessa maggioranza sopra descritta e di ciò deve tener conto il mediatore nel fissare il termine per la sottoscrizione dello stesso.
Ed è proprio qui che iniziano i problemi. Sembrerebbe che al primo incontro informativo l'amministratore possa partecipare solo se ha ottenuto il consenso dell'assemblea. Se cosi è, risulta già stravolto l'intento del legislatore, perché ciò significa che il primo incontro dovrà essere procrastinato di almeno qualche mese.
Quindi si rischia di vanificare il termine di durata dell'intero procedimento che la legge prevede debba essere contenuto in tre mesi. L'articolo 71-quater delle disposizioni di attuazione prevede per l'appunto delle proroghe, ma questo vuol dire sempre stravolgere l'intento della mediazione, che è proprio quello di comporre una lite in termini rapidi e poco costosi.
La soluzione, oltre che nell'indispensabile accelerazione che l'amministratore dovrà imprimere alla convocazione dell'assemblea, andrà ricercata in una prassi intelligente degli organi di mediazione specializzati.
Inoltre, ci sono materie che di per sé sono suscettibili di mediazione solo se il mediatore possiede competenze speciali. Si pensi alla modifica o alla revisione delle tabelle millesimali per cui non si riesce a raggiungere la maggioranza, oppure al problema del decoro architettonico di un edificio che un condomino ritiene essere stato violato. È evidente che occorre una preparazione attenta su materie i cui aspetti tecnici sono preponderanti.
Questi sono tutti interrogativi a cui la mediazione farà fronte e darà le sue risposte e il Ministero, dopo i quattro anni previsti –e ci si auspica non più interrotti– di sperimentazione dell'istituto, ne esaminerà i risultati anche ai fini di eventuali correttivi (articolo Il Sole 24 Ore del 22.09.2013).

CONDOMINIOCassazione. La demolizione del muro di proprietà del condominio determina un danno da fatto illecito.
Case confinanti, niente varchi. Esclusa la possibilità di aprire passaggi tra immobili in stabili diversi.
L'affittuario che demolisce un muro condominiale per aprire un passaggio con un appartamento che sta in un altro palazzo deve rimettere le cose a posto e pagare i danni. Anche se tra gli appartamenti un varco c'era già.

La Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 18.09.2013 n. 21395, censura il comportamento di una società che, avendo in affitto due appartamenti in stabili diversi, li aveva messi in comunicazione demolendo un muro di proprietà del condominio.
A finire in tribunale, in prima battuta era stato il proprietario che, a sua volta aveva chiamato in causa gli affittuari, responsabili di aver eseguito i lavori. Il tribunale non aveva fatto torto a nessuno, condannando entrambi alla ricostruzione e al pagamento dei danni, quantificati in 25mila euro. Con il ricorso in Corte d'appello si "salvava" il proprietario e veniva condannato l'affittuario al ripristino e al versamento di 10mila euro di danni.
Alla base della condanna l'accusa di aver messo a dura prova solai e fondamenta e di aver gettato le basi per una servitù sulle parti comuni.
La ricorrente dal canto suo si era difesa affermando l'esistenza sia di una preesistente servitù di passaggio sia di un altro varco tra i due appartamenti.
L'apertura di una seconda porta comunicante nel muro perimetrale non costituiva dunque, secondo gli affittuari, una nuova servitù né un aggravamento della prima perché ne lasciava inalterati il contenuto, la portata e l'oggetto, mentre cambiava solo le modalità di esercizio. Nel suo ricorso la "banda del buco" negava di aver provocato un danno al condominio che non era stato neppure limitato nel suo diritto di proprietà, perché non aveva accesso in nessuno dei due locali messi in comunicazione.
La pensa diversamente la Cassazione che conferma l'uso indebito della cosa comune, anche se fa segnare un punto a favore del ricorrente sulla quantificazione del danno.
La Suprema corte prende atto dell'esistenza di un altro accesso situato in un'altra parte della casa ma nega che questo possa costituire un lasciapassare per aprirne altri. «L'apertura di un altro e diverso varco –si legge nella sentenza– non può essere ritenuta una semplice modalità di esercizio "ampliativa" della preesistente facoltà, o in essa ricompresa ai sensi dell'articolo 1027 del Codice civile, ma determina un onere nuovo e diverso a carico del fondo servente».
La seconda via poneva le premesse per la costituzione di un'ulteriore servitù e aumentava il peso a carico delle strutture del palazzo, entrando così in rotta di collisione con quanto previsto dall'articolo 1067 del Codice civile, che vieta al proprietario del fondo dominante di creare le condizioni per rendere più gravosa la condizione del fondo servente.
Per riparare al danno non basta neppure rimettere le cose come stavano ma è necessario un risarcimento per equivalente. Il passaggio incriminato è stato realizzato demolendo il muro del condominio e dunque non è vero, come voleva il ricorrente, che il diritto di proprietà è rimasto integro. In più, l'accertata demolizione era destinata a separare un condominio da un'altro. Un pregiudizio qualificabile come danno dipendente da un fatto illecito.
Su un punto, però, la Cassazione dà ragione al ricorrente: la Corte d'appello non ha indicato un valido criterio di liquidazione. La Suprema corte ammette la possibilità per il giudice di merito di indicare il danno in via presuntiva quando non ha elementi sufficienti a determinarlo con esattezza. Ma l'unico parametro individuato dai giudici di seconda istanza nel tempo intercorso tra la demolizione dell'opera demolitrice e la data della sentenza di appello non fornisce alcuna indicazione sulla reale entità del danno e non aiuta a capire se la cifra di 10mila euro «non simbolica ma significativa» è proporzionata (articolo Il Sole 24 Ore del 19.09.2013).

CONDOMINIORiforma del Condominio: nodo distacco impianto termico centralizzato (10.09.2013 - link a www.leggioggi.it).

CONDOMINIO - VARI: M. Pugliese, Far cadere la cenere o le cicche di sigarette sul terrazzo dell'inquilino sottostante, può comportare conseguenze penali (10.09.2013 - link a www.diritto.it).

CONDOMINIOCondominio. La Cassazione interviene sulla decorrenza del termine annuale di prescrizione. Denuncia dopo la perizia per l'edificio con gravi difetti.
Quando un condominio agisce per i vizi di costruzione dell'edificio, i termini prescrizionali di un anno decorrono dalla data di asseveramento della perizia stragiudiziale che accerta i danni, e non dalle lettere in cui denuncia sinteticamente i vizi.
La questione è stata chiarita dalla Corte di Cassazione, Sez. II civile (presidente Felicetti, relatore Matera), con la sentenza 09.09.2013 n. 20644.
Il condominio aveva segnalato, nei termini previsti dal comma 1 dell'articolo 1669 del Codice civile, la presenza di gravi vizi costruttivi (sgretolamento dell'asfalto dei cortili e crepe nell'intonaco delle facciate) e aveva inviato due lettere, nelle quali esponeva i problemi così come erano rilevabili a vista. Poi aveva fatto la regolare denunzia (prevista dal comma 2 dello stesso articolo), che era nei termini solo considerando la data di asseverazione della perizia stragiudiale ma non le lettere che erano state inviate al costruttore segnalando i vizi.
Quest'ultimo ha sollevato in Cassazione proprio la questione della tardività della denuncia, sostenendo che le lettere, anche se «sintetiche», erano sufficienti a far valere la garanzia e quindi la denuncia era tardiva. La Suprema Corte, però, ha respinto il ricorso (pur compensando le spese), perché il danneggiato deve avere la conoscenza completa dei danni e solo questa è idonea a determinare il decorso del doppio termine. E la conoscenza dovrà ritenersi conseguita «solo all'atto dell'acquisizione di idonei accertamenti tecnici», valutabili solo dal giudice di merito.
Non solo: la Cassazione ha anche respinto il motivo che mirava a considerare non «gravi» i difetti rilevati: la gravità non dipende solo da fenomeni che incidano su «staticità, durata e conservazione dell'edificio» ma si configurano anche in riferimento a una parte limitata dell'edificio, purché incidano in maniera rilevante sulla funzionalità della parte stessa, proprio come il distacco dell'intonaco (articolo Il Sole 24 Ore del 10.09.2013).
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massima
1. Ai fini del computo dei termini annuali posti dall'art. 1669 CC -il primo di decadenza per effettuare la "denunzia" ed il secondo, che dalla denunzia stessa prende a decorrere, di prescrizione per promuovere l'azione-, deve aversi riguardo alla "scoperta" del vizio, che si identifica con la conoscenza sia della gravità dei difetti sia del collegamento causale di essi con l'attività progettuale e costruttiva espletata.
2. Ai fini della responsabilità dell'appaltatore ex art. 1669 c.c., costituiscono gravi difetti dell'edificio non solo quelli incidenti sulla struttura e sulla funzionalità dell'opus, ma anche i vizi costruttivi che menomano apprezzabilmente il normale godimento della cosa o impediscono che questa fornisca l'utilità cui è destinata, come il crollo o il disfacimento del rivestimento esterno dell'edificio, ovvero il distacco dell'intonaco, che, pur non alterando le strutture portanti dell'edificio, alteri, per la notevole estensione delle superfici interessate, il normale godimento dell'immobile e la sua funzione economica.
3. La nozione di grave difetto di costruzione, infatti, ricomprendendo ogni deficienza o alterazione che vada ad intaccare in modo significativo sia la funzionalità dell'opera che la sua normale utilizzazione, è riferibile anche alle parti comuni di un edificio in condominio e, quindi, anche ai viali di accesso pedonali
(link a http://www.neldiritto.it).

agosto 2013

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATACaldaie in condominio sempre con camino sul tetto. Regole tecniche. La modifica con la legge 90/2013.
LA PRESCRIZIONE/ Dal 1° settembre sarà precluso installare ex novo impianti verdi con scarico a parete.

Sull'obbligo di canna fumaria esterna per le caldaie individuali e centralizzate in condominio il Dl 63/2013, recentemente convertito nella legge 90/2013, ha chiuso un complicato cerchio normativo, intervenendo sulla questione del "distacco". Ma bisogna partire dall'anno scorso per ricostruire il sistema normativo.
La riforma del condominio (legge 220/2012) ha così modificato l'articolo 1118, comma 4 del Codice civile: «Il condomino può rinunciare all'utilizzo dell'impianto centralizzato di riscaldamento o di condizionamento, se dal suo distacco non derivano notevoli squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condomini. In tal caso il rinunziante resta tenuto a concorrere al pagamento delle sole spese per la manutenzione straordinaria dell'impianto e per la sua conservazione e messa a norma». Il legislatore ha reso di fatto possibile il distacco dall'impianto di riscaldamento centrale, recependo le indicazioni della Cassazione.
Ma esisteva ancora un ostacolo al distacco, costituito dall'articolo 5, comma 9, del Dpr 412/1993, come modificato dal Dpr 551/1999: la norma prescriveva in ogni caso lo scarico dei prodotti della combustione sopra il tetto dell'edificio, obbligo concretamente possibile da rispettare soltanto per gli utenti dell'ultimo piano. Questo ostacolo è stato rimosso con il Dl 179/2012, coordinato con la legge di conversione 221/2012, che ha infatti sostituito quell'articolo del Dpr 412/1993 con una norma più permissiva che consentiva lo scarico a parete a condizione di installare generatori a condensazione della classe più efficiente e meno inquinante.
Queste disposizioni e la possibilità di scaricare a parete i prodotti della combustione hanno generato lo sconcerto di molti operatori. In particolare gli amministratori di stabili sono sommersi da richieste di distacco che non sanno come contrastare, in considerazione del fatto che la legge non richiede il loro consenso, né il consenso dell'assemblea del condominio. D'altra parte sono molti i tecnici che sostengono che, se è incerto dimostrare i "gravi squilibri" (quando sono lievi, medi, o gravi?), è invece certo che vi è sempre un aggravio di spesa per gli altri condomini, se non altro perché è uno in meno a pagare le spese fisse, quali conduzione, manutenzione e dispersioni delle parti comuni. Erano intense anche le proteste dei condomini sovrastanti, sinora costretti a respirare i fumi di quelli sottostanti.
La protesta di condomini e aziende portatrici di interesse è stata raccolta dal legislatore che, con la legge 90/2013 di conversione del Dl 63/2013, ha introdotto l'articolo 17-bis, che ha di nuovo sostituito l'articolo 5, comma 9, del Dpr 412/1993 con un nuovo testo: ora è sempre consentito lo scarico a parete ma solo per gli impianti termici esistenti prima del 31.08.2013 e a condizione che si tratti di generatori a condensazione della classe più efficiente e meno inquinante.
Per tutti gli altri diventa obbligatorio «lo sbocco sopra il tetto», tranne, appunto, che si tratti di sostituzione di impianti individuali già esistenti in «stabili plurifamiliari» (qualora non esistano già canne fumarie individuali idonee da sfruttare), oppure quando si tratti di stabili soggetti a interventi solo «conservativi» (case storiche o con vincoli di vario genere), sempre che non abbiano già canne fumarie idonee. Gli scaldacqua unifamiliari non sono considerati «impianti termici».
Restano quindi pochissimi giorni per installare ex novo impianti individuali «puliti» che non impongano la canna fumaria sino al tetto. Dal 1° settembre il "distacco", anche con generatori "verdi", diventerà di fatto impossibile, dato che installare la propria canna fumaria sino al tetto comporta problemi davvero enormi nella maggior parte dei casi. Solo in caso di «impossibilità tecnica» la relazione asseverata di un tecnico consentirà comunque di evitare la canna fumaria sino al tetto (articolo Il Sole 24 Ore del 23.08.2013
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CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: La domanda di rilascio del permesso di costruire ovvero la denuncia di inizio di attività possono essere presentate dal proprietario dell’immobile ovvero da chi ne abbia titolo.
L’espressione “titolo per richiederlo” è correntemente intesa dalla giurisprudenza amministrativa nel senso di posizione che civilisticamente costituisca titolo per esercitare sul fondo un’attività costruttiva, ammettendosi in tal senso che la posizione legittimante enunciata nella disposizione normativa in esame non coincide con il solo diritto di proprietà, ma anche con altri diritti reali o addirittura personali di godimento, purché attribuiscano al titolare la facoltà di attuare interventi sull’immobile.
A fronte di ciò, l’Amministrazione comunale è per certo chiamata a svolgere un’attività istruttoria per accertare la sussistenza del titolo legittimante di colui che chiede il rilascio del titolo edilizio, anche mediante d.i.a., competendo in tal senso all’Amministrazione medesima la verifica, in capo al richiedente, di un titolo sostanziale idoneo a costituire la posizione legittimante senza alcuna ulteriore e minuziosa indagine che si estenda fino alla ricerca di eventuali fattori limitativi, preclusivi o estintivi del titolo di disponibilità dell’immobile allegato da colui che presenta l’istanza.
Significativo –del resto– è al riguardo anche l’art. 42, comma 8, lett. a), della L. R. 12 del 2005, laddove si dispone che il dirigente o il responsabile dell’ufficio competente verifichi, in relazione alla d.i.a., “la regolarità formale e la completezza della documentazione”.
La verifica del possesso del titolo a costruire costituisce pertanto un presupposto, la cui mancanza impedisce all’Amministrazione comunale di procedere oltre nell’esame del progetto, anche se deve escludersi un obbligo dell’Amministrazione comunale stessa di effettuare complessi accertamenti diretti a ricostruire tutte le vicende riguardanti l’immobile.
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L’Amministrazione comunale, allorquando inizia l’istruttoria per il rilascio di un titolo edilizio formale (nonché, ora, allorquando svolge l’istruttoria conseguente all’avvenuta presentazione di una segnalazione certificata di inizio di attività – s.c.i.a. edilizia, a’ sensi dell’art. 19 della L. 07.08.1990 n. 241 nel testo ad oggi in vigore), non è per certo obbligata ad acquisire informazioni sulla circostanza che l’assemblea condominiale abbia eventualmente inibito al singolo condomino di realizzare le opere sostanzianti un sopralzo dell’edificio: ma il richiedente il titolo edilizio ovvero chi presenta la s.c.i.a. è comunque onerato, prima di iniziare i lavori, ad impugnare la deliberazione dell’assemblea condominiale lesiva del proprio diritto, a’ sensi e per gli effetti dell’art. 1137, secondo comma, cod. civ., essendo anche ammesso al riguardo l’incidente di sospensione cautelare della deliberazione medesima.
Risulta altrettanto assodato che il condominio, ove abbia adottato una deliberazione che vieti l’esecuzione dei lavori al singolo condomino, può pure incidere nella sfera giuridica di quest’ultimo e –segnatamente– sulla sua posizione di interesse legittimo intervenendo a’ sensi dell’art. 7 e ss. della L. 241 del 1990 nel procedimento relativo al rilascio del permesso di costruire ovvero in quello conseguente alla presentazione della s.c.i.a. e chiedendo quindi all’Amministrazione comunale di non accogliere le richieste del condomino medesimo conformemente al predetto deliberato assembleare, ovvero anche l’adozione di ogni possibile provvedimento in autotutela.

Il Collegio, per parte propria, rileva che, a’ sensi dell’art. 11, comma 1, e dell’art. 23, comma 1, del T.U. approvato con D.P.R. 06.06.2001 n. 380, la domanda di rilascio del permesso di costruire, ovvero la denuncia di inizio di attività possono essere presentate dal proprietario dell’immobile ovvero da chi ne abbia titolo.
Tali disposizioni riproducono nella sostanza l’art. 4, primo comma, della L. 28.01.1977 n. 10, in forza del quale “la concessione (edilizia) è data dal sindaco al proprietario dell’area o a chi abbia titolo per richiederla”, e sono a loro volta recepite in Lombardia dall’art. 35, comma 1, della L. R. 12 del 2005, laddove –per l’appunto– analogamente si dispone che il permesso di costruire sia rilasciato “al proprietario dell’immobile o a chi abbia titolo per richiederlo”.
Va precisato che l’espressione “titolo per richiederlo” è correntemente intesa dalla giurisprudenza amministrativa nel senso di posizione che civilisticamente costituisca titolo per esercitare sul fondo un’attività costruttiva (cfr. al riguardo, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 28.05.2001 n. 2882 e 15.03.2001 n. 1507, nonché Sez. IV, 15.02.1985 n. 47), ammettendosi in tal senso che la posizione legittimante enunciata nella disposizione normativa in esame non coincide con il solo diritto di proprietà, ma anche con altri diritti reali o addirittura personali di godimento, purché attribuiscano al titolare la facoltà di attuare interventi sull’immobile.
A fronte di ciò, il Collegio reputa che l’Amministrazione comunale era ed è per certo chiamata a svolgere un’attività istruttoria per accertare la sussistenza del titolo legittimante di colui che chiede il rilascio del titolo edilizio, anche mediante d.i.a., competendo in tal senso all’Amministrazione medesima la verifica, in capo al richiedente, di un titolo sostanziale idoneo a costituire la posizione legittimante senza alcuna ulteriore e minuziosa indagine che si estenda fino alla ricerca di eventuali fattori limitativi, preclusivi o estintivi del titolo di disponibilità dell’immobile allegato da colui che presenta l’istanza (così, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 04.02.2004 n. 368).
Significativo –del resto– è al riguardo anche l’art. 42, comma 8, lett. a), della L. R. 12 del 2005, laddove si dispone che il dirigente o il responsabile dell’ufficio competente verifichi, in relazione alla d.i.a., “la regolarità formale e la completezza della documentazione”.
La verifica del possesso del titolo a costruire costituisce pertanto un presupposto, la cui mancanza impedisce all’Amministrazione comunale di procedere oltre nell’esame del progetto, anche se deve escludersi un obbligo dell’Amministrazione comunale stessa di effettuare complessi accertamenti diretti a ricostruire tutte le vicende riguardanti l’immobile.
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L’Amministrazione comunale, allorquando inizia l’istruttoria per il rilascio di un titolo edilizio formale (nonché, ora, allorquando svolge l’istruttoria conseguente all’avvenuta presentazione di una segnalazione certificata di inizio di attività – s.c.i.a. edilizia, a’ sensi dell’art. 19 della L. 07.08.1990 n. 241 nel testo ad oggi in vigore), non è per certo obbligata ad acquisire informazioni sulla circostanza che l’assemblea condominiale abbia eventualmente inibito al singolo condomino di realizzare le opere sostanzianti un sopralzo dell’edificio: ma il richiedente il titolo edilizio ovvero chi presenta la s.c.i.a. è comunque onerato, prima di iniziare i lavori, ad impugnare la deliberazione dell’assemblea condominiale lesiva del proprio diritto, a’ sensi e per gli effetti dell’art. 1137, secondo comma, cod. civ., essendo anche ammesso al riguardo l’incidente di sospensione cautelare della deliberazione medesima (cfr. ivi, nonché la corrispondente disciplina contenuta nel nuovo testo dell’articolo medesimo, conseguente alla novella introdotta al riguardo dall’art. 15 della L. 11.12.2012 n. 220, che trova peraltro applicazione solo a decorrere dal 18.06.2013).
Non consta che nella specie la deliberazione adottata dall’assemblea condominiale sia stata sospesa.
Risulta altrettanto assodato che il condominio, ove abbia adottato una deliberazione che vieti l’esecuzione dei lavori al singolo condomino, può pure incidere nella sfera giuridica di quest’ultimo e –segnatamente– sulla sua posizione di interesse legittimo intervenendo a’ sensi dell’art. 7 e ss. della L. 241 del 1990 nel procedimento relativo al rilascio del permesso di costruire ovvero in quello conseguente alla presentazione della s.c.i.a. e chiedendo quindi all’Amministrazione comunale di non accogliere le richieste del condomino medesimo conformemente al predetto deliberato assembleare, ovvero anche l’adozione di ogni possibile provvedimento in autotutela
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.08.2013 n. 4234 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

luglio 2013

CONDOMINIO: A. Celeste, Alzata irragionevolmente l’asticella per … il superamento delle barriere architettoniche (tratto da www.ipsoa.it - Immobili & proprietà n. 7/2013).

CONDOMINIOAbitazioni, sicurezza vs privacy. Telecamere ok per effettivi pericoli. D'obbligo il cartello. Alcune cautele da osservare per lasciare la propria casa senza creare problemi ai vicini.
Case da mettere in sicurezza prima di ogni partenza. Accanto alle misure più tradizionali, dagli interventi strutturali (inferriate, tapparelle blindate, vetri antisfondamento, porte blindate ecc.) all'installazione di impianti di antifurto, dalla stipula di polizze assicurative alla vigilanza privata, occorre fare i conti con le nuove tecnologie, senza però tralasciare di adempiere agli obblighi previsti dalla legge a tutela dei terzi, con particolare riferimento ai sistemi di videosorveglianza.
Una nuova e forse inaspettata fonte di rischio deriva, ad esempio, dai social network, ormai sempre più diffusi tra giovani e meno giovani.
Tuttavia l'ansia di condivisione delle foto e delle altre informazioni relative alle ferie può essere abilmente sfruttata dai malintenzionati per essere sicuri di potere avere mano libera nell'appartamento.
Occorre quindi sforzarsi di utilizzare con maggiore attenzione i vari Facebook, Twitter e servizi simili, quanto meno restringendo le possibilità di accesso da parte di estranei alle proprie informazioni personali.
Ma lo stesso consiglio vale anche per la più classica segreteria telefonica (o per l'impostazione di risposta automatica alle e-mail): meglio evitare di inserire messaggi che chiariscano in modo inequivocabile la prolungata assenza da casa.
Le innovazioni tecniche riguardano anche strumenti di protezione tradizionali come le porte blindate: meglio essere sempre aggiornati sugli ultimi modelli di serratura e sulle chiavi di nuova generazione, falsificabili con maggiore fatica.
L'innovazione tecnologica la fa poi da padrona in materia di antifurti e videosorveglianza (alcune videocamere o più semplici webcam sono ad esempio in grado di inviare le immagini anche sugli smartphone).
Vi sono poi delle telecamere con specifici sensori che possono avvertire via e-mail il proprietario di casa sulla rilevazione di movimenti o variazioni di temperatura nell'appartamento (segnali che potrebbero ad esempio seguire all'apertura di una porta o di una finestra).
Tuttavia occorre considerare che l'installazione di telecamere, pur costituendo sicuramente un ottimo deterrente per scoraggiare i terzi malintenzionati, può anche condizionare la libertà degli altri condomini di muoversi all'interno delle aree comuni. Di conseguenza se il proprietario vuole installare degli impianti di videosorveglianza per registrare e conservare le immagini dovrà rispettare determinati principi e adottare particolari cautele a tutela della privacy degli altri condomini.
L'installazione di telecamere è infatti possibile a condizione che ricorrano concrete situazioni di pericolo, di regola costituite da furti o danneggiamenti già verificatisi.
È comunque vietata l'installazione con scopo deterrente di telecamere finte o non funzionanti, in quanto la sola loro presenza può condizionare il movimento e il comportamento delle persone. Inoltre, il sistema di videosorveglianza può essere installato soltanto quando altre misure (es. sistemi comuni di allarme, blindatura o protezione rinforzata di porte e portoni, cancelli automatici ecc.) siano valutate insufficienti o inattuabili. Si deve comunque escludere qualsiasi uso superfluo o eccessivo del sistema.
Il singolo condomino che abbia installato un sistema di videosorveglianza a protezione dell'appartamento o di eventuali pertinenze è tenuto a informare i vicini con appositi cartelli, che devono essere collocati prima del raggio di azione della telecamera e devono essere visibili in ogni condizione di illuminazione, allorché il sistema di videosorveglianza sia eventualmente attivo in orario notturno.
Inoltre è importante sottolineare che le immagini registrate potranno essere conservate per un periodo limitato, cioè sino a un massimo di 24 ore, fatte salve specifiche esigenze per indagini della polizia.
Da sottolineare, infine, che l'angolo visuale delle riprese deve essere comunque limitato ai soli spazi antistanti l'accesso all'abitazione. Il mancato rispetto di queste prescrizioni, a seconda dei casi, può comportare l'applicazione di sanzioni amministrative o penali, oltre ovviamente a eventuali richieste di risarcimento da parte dei soggetti danneggiati (articolo ItaliaOggi Sette del 29.07.2013).

CONDOMINIO: Condominio. I complessi con più edifici. Spese per il decoro a carico di tutti.
IL PRINCIPIO/ Agli elementi ornamentali non si applica il criterio secondo cui il costo è addossato soltanto a chi ne trae utilità
Devono essere divise tra tutti i condomini le spese che riguardano il decoro architettonico del complesso, anche se gli interventi sono fatti su un solo edificio.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione che, con la sentenza 23.07.2013 n. 17875, ha confermato la decisione della Corte d'appello che ha annullato due delibere condominiali riguardanti l'esecuzione di lavori di manutenzione di più edifici (un immobile principale e due palazzine poste sul fondo del cortile interno) facenti parte del medesimo condominio.
In particolare, un condomino, proprietario di unità immobiliari in uno dei due edifici separati, aveva impugnato le delibere contestando la ripartizione delle spese su base millesimale perché –aveva sostenuto– in contrasto con la legge e con il regolamento condominiale.
Il tribunale aveva respinto le domande, che invece sono state poi accolte dalla Corte d'appello. I giudici di secondo grado hanno infatti sottolineato che le due palazzine si devono considerare del tutto separate e autonome, sia strutturalmente che funzionalmente, dal corpo di fabbrica principale. Quindi, si deve escludere il carattere comune per le spese concernenti la conservazione di muri e coperture, la posa dei portoni, il rifacimento dei pluviali riguardanti l'edificio principale, che non hanno alcun riflesso diretto sulla porzione autonoma costituita dalle due palazzine, che costituiscono un condominio parziale. Si applica, quindi, il criterio indicato dall'articolo 1123, comma 3, del Codice civile: le spese sono a carico solo dei condomini che ne traggono utilità.
Ma lo stesso principio, secondo i giudici, non vale per le spese riguardanti il decoro architettonico (fregi ornamentali, targhette citofoniche, lampade a braccio) della facciata o dello stabile principale, perché si tratta di "bene comune" a tutto il complesso condominiale. Quindi, le spese devono essere ripartite tra tutti i condomini, inclusi i proprietari delle unità immobiliari che si trovano nelle due palazzine separate.
Tra l'altro, proprio il rispetto del decoro architettonico, inteso come "bene comune" da tutelare, alla stregua di qualunque altro bene comune, sia sotto il profilo estetico, sia, soprattutto, sotto il profilo economico (si veda la sentenza della Cassazione 3436/97) è stato posto come limite dalla riforma del condominio (legge 220/2012) a varie forme di intervento. Si tratta delle modificazioni delle destinazioni di uso (articolo 1117-ter), delle innovazioni (articolo 1120), delle opere su parti di proprietà privata (articolo 1122), dell'installazione, non centralizzata, di impianti di ricezione radiotelevisiva e di produzione di energia da fonti rinnovabili (articolo 1122-bis) (articolo Il Sole 24 Ore del 02.09.2013).

CONDOMINIO: Nuovi paletti ai condizionatori. Da rispettare decoro, utilizzo della facciata, immissioni. Slalom tra i divieti per l'installazione. Limiti dai regolamenti di condominio e comunali.
Condominio e condizionatori: un matrimonio difficile ma non impossibile. Con l'arrivo della stagione calda capita spesso di dover affrontare problemi legati all'installazione dei condizionatori nel rispetto della normativa condominiale e della quiete dei propri vicini.
Vediamo di elencare, in estrema sintesi, quelli più ricorrenti.
Le problematiche connesse all'installazione dei condizionatori in facciata. Il primo genere di difficoltà sorgono in relazione all'utilizzo della facciata dell'edificio condominiale per l'installazione del relativo impianto. A questo proposito si ricorda come la legge di riforma del condominio (n. 220/12), in vigore dallo scorso 18 giugno, abbia inserito a pieno titolo la stessa nella più ampia categoria delle parti comuni di proprietà di tutti i condomini. L'installazione in facciata del corpo motore del condizionatore in genere non crea particolari problemi di statica e sicurezza, ma può creare questioni in tema di estetica dell'edificio.
Si ripropone, allora, l'annosa questione dell'impatto visivo che il manufatto può avere sul decoro dello stabile. Tale problema, però, non riguarda solo la parte esterna dell'edificio condominiale, ma può interessare anche altre parti comuni. Così, recentemente, due condomini sono stato condannati a rimuovere i motori di due condizionatori (e tutti i manufatti di sostegno) sistemati nell'androne del fabbricato (Cassazione, sentenza del 13.05.2013, n. 11386). Secondo i giudici supremi, infatti, la destinazione dell'androne non è solo quella del libero transito dall'esterno verso il cortile interno del comprensorio, ma anche quella di conferire e preservare il decoro all'ingresso medesimo, a prescindere dalle condizioni estetiche e di manutenzione dell'immobile.
Il concetto di decoro architettonico. Il decoro architettonico consiste nell'estetica data dall'insieme delle linee e delle strutture ornamentali che caratterizzano l'edificio e imprimono al medesimo una determinata fisionomia: si tratta quindi di un bene comune il cui mantenimento è tutelato a prescindere dalla validità estetica delle modifiche che si intendono apportare.
È necessario sottolineare che si deve parlare di decoro architettonico non solo in relazione a edifici di particolare pregio, ma anche in relazione a costruzioni popolari che, comunque, hanno una loro linea, che può quindi essere danneggiata da opere che la modifichino, anche quando le stesse siano state eseguite per assicurare particolari utilità per l'uso o godimento delle unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli condomini. In ogni caso l'alterazione del decoro ben può correlarsi alla realizzazione di opere che, pur se minime, vadano a mutare l'originario aspetto anche soltanto di singoli elementi o punti del fabbricato.
Quando i condizionatori compromettono il decoro. Alla luce di quanto sopra risulta evidente che un condomino può certamente installare in facciata un condizionatore di piccole dimensioni che, come tale, non vada a stravolgere l'armonia del caseggiato, soprattutto se, per colore e posizione, sia destinato a essere poco visibile. Al contrario, se un condomino installa un motore del condizionatore di mastodontiche dimensioni, su una parte esterna dell'edificio e nelle immediate vicinanze di alcune finestre, si determina un'alterazione del decoro architettonico e, di conseguenza, un deprezzamento dell'intero fabbricato che il giudice può liberamente quantificare senza bisogno di particolare motivazione.
Questo principio vale anche in caso di installazione effettuata sulla facciata interna dell'edificio e indipendentemente dal fatto che siano già presenti in facciata opere e manufatti oppure altri condizionatori, pur di minori dimensioni, o contatori del gas con relative tubazioni: tali circostanze, secondo i giudici, quand'anche arrechino un pregiudizio all'estetica dell'edificio, non per questo legittimano l'ulteriore aggravio che il condizionatore di considerevoli dimensioni di per sé provoca al decoro dell'immobile.
Il problema delle immissioni. Per l'installazione dei condizionatori non è richiesto il rispetto delle norme di legge in tema di distanze: il manufatto può occupare parte del muro perimetrale della proprietà del vicino o essere sistemato in adiacenza della proprietà del condomino limitrofo. Tuttavia l'impianto non può comportare immissioni intollerabili in direzione della proprietà dei vicini (cioè si deve evitare la fuoriuscita rilevante di vapore o acqua calda o la produzione di rumori insopportabili).
Per quanto riguarda il rumore i giudici hanno precisato che eccedono la normale tollerabilità le immissioni sonore che superino di tre decibel la c.d. rumorosità di fondo, intesa come il complesso dei rumori di origine varia (spesso non esattamente individuabili) presenti nel contesto ambientale in esame. Accertata l'intollerabilità delle immissioni da rumore proveniente dalle macchine di condizionamento dell'aria, ai danneggiati spetta il risarcimento del danno in relazione al periodo nel quale la situazione di disagio sia perdurata.
Quando addirittura si può commettere un reato. Non è raro che scatti anche la condanna penale nei confronti di coloro che installano condizionatori rumorosi nelle proprie abitazioni o nei luoghi delle rispettive attività professionali. Si parla, in questi casi, di disturbo alla quiete delle persone che abitano alloggi limitrofi, anche nel caso in cui a lamentarsi dei rumori sia soltanto uno dei nuclei familiari residenti nel condominio.
A stabilirlo è stata la Corte di cassazione, che con la recente sentenza n. 28874/2013 ha convalidato la somministrazione di 200 euro di multa ai danni del gestore di un centro commerciale responsabile di aver montato dei condizionatori le emissioni dei quali erano percepite fino al quarto piano del condominio sovrastante. In questo caso l'imprenditore è stato condannato anche a risarcire i danni morali subiti dai condomini del quarto piano che precedentemente lo aveva denunciato, contattando altresì un tecnico dell'Arpa per misurare i decibel fastidiosi.
I limiti all'installazione: il regolamento di condominio e quello comunale. Se una norma del regolamento di condominio vieta espressamente l'installazione di condizionatori in facciata il singolo condomino non può che attenersi a tale disposizione che, però, è valida solo se è contenuta in un regolamento predisposto dal costruttore del caseggiato (c.d. contrattuale) ed è stata accettata dai singoli acquirenti degli appartamenti negli atti di acquisto oppure deliberata dalla totalità dei condomini.
Questo significa che in tali casi il singolo condomino non può installare un condizionatore in facciata nemmeno se è stato autorizzato dall'assemblea con una delibera approvata a maggioranza. In ogni caso, prima di installare un impianto sul muro condominiale, è importante verificare anche che non siano previste limitazioni nei regolamenti comunali: questi ultimi, infatti, possono prevedere, ad esempio, il divieto di installare condizionatori sulle pareti esterne degli edifici del centro storico (articolo ItaliaOggi Sette del 15.07.2013).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: In base all’art. 11, comma primo, del d.P.R. 06.06.2001 n. 980, il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo.
Quindi, il Comune, prima di rilasciare il titolo, ha sempre l'onere di verificare la legittimazione del richiedente, accertando che questi sia il proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività edificatoria.
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Nel caso di specie è pacifico che gli interventi per i quali è stato richiesto il titolo edilizio riguardano, non solo le unità immobiliari poste all’ultimo piano dell’edificio, ma anche il tetto di quest’ultimo: in particolare riguardano anche la creazione di cinque abbaini e tre prese di luce, due delle quali apribili.
Ciò premesso va osservato che, in base all’art. 1117, n. 1, del codice civile, il tetto è oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari che compongono l'edificio.
Ne consegue che i singoli proprietari non possono, singolarmente, apportare modificazioni allo stesso, essendo invece necessaria, ai sensi dell’art. 1120 del codice civile, una apposita deliberazione dell’assemblea condominiale, assunta con le maggioranze stabilite dall’art. 1136 dello stesso codice.
Nel caso concreto la richiesta del controinteressato non è stata preceduta da alcuna deliberazione avente carattere autorizzatorio; sicché deve ritenersi che questi fosse privo di legittimazione a richiedere il titolo edilizio.

Decisivo, ai fini della soluzione della controversia, è il primo motivo, avente carattere assorbente, con il quale la ricorrente lamenta che il sig. L.L., odierno controinteressato, sarebbe stato privo della legittimazione a richiedere il permesso di costruire poi rilasciato, atteso che le opere che si intendono realizzare investono parti comuni dell’edificio (nella specie il tetto), e che quindi la richiesta avrebbe dovuto essere preceduta da una delibera condominiale di contenuto autorizzatorio.
In proposito, va osservato che, in base all’art. 11, comma primo, del d.P.R. 06.06.2001 n. 980, il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo.
Secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale, il Comune, prima di rilasciare il titolo, ha sempre l'onere di verificare la legittimazione del richiedente, accertando che questi sia il proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività edificatoria (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 04.04.2012 n. 1990).
Nel caso di specie è pacifico che gli interventi per i quali è stato richiesto il titolo edilizio riguardano, non solo le unità immobiliari poste all’ultimo piano dell’edificio, ma anche il tetto di quest’ultimo: in particolare riguardano anche la creazione di cinque abbaini e tre prese di luce, due delle quali apribili.
Ciò premesso va osservato che, in base all’art. 1117, n. 1, del codice civile, il tetto è oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari che compongono l'edificio.
Ne consegue che i singoli proprietari non possono, singolarmente, apportare modificazioni allo stesso, essendo invece necessaria, ai sensi dell’art. 1120 del codice civile, una apposita deliberazione dell’assemblea condominiale, assunta con le maggioranze stabilite dall’art. 1136 dello stesso codice.
Nel caso concreto la richiesta del controinteressato non è stata preceduta da alcuna deliberazione avente carattere autorizzatorio; sicché deve ritenersi, conformemente a quanto sostenuto dalla ricorrente, che questi fosse privo di legittimazione a richiedere il titolo edilizio (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 11.07.2013 n. 1820 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIORitorna l'obbligo di conciliare per le liti condominiali. Agli incontri solo l'amministratore.
La mediazione? Vicina di casa. Competenti gli organismi nella circoscrizione dell'edificio.

Ritorna la mediazione obbligatoria per le controversie condominiali, arricchita dalle specifiche novità previste dalla legge di riforma n. 220/2012, entrata in vigore lo scorso 18 giugno: gli unici organismi di mediazione competenti saranno quelli con sede nella circoscrizione del tribunale in cui si trova l'edificio condominiale, agli incontri potrà partecipare soltanto l'amministratore, previa delibera assembleare, l'eventuale proposta di conciliazione dovrà essere approvata dalla maggioranza degli intervenuti all'assemblea che rappresentino almeno la metà del valore dell'immobile e alla stessa potrà essere attribuita efficacia esecutiva soltanto ove sottoscritta dai legali delle parti che abbiano partecipato all'incontro.
Il vizio di delega e l'intervento del governo con il c.d. decreto Fare. Con l'ormai famosa sentenza del 24.10.2012 la Corte costituzionale aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale per eccesso di delega legislativa del dlgs n. 28/2010 nella parte in cui era stata prevista l'obbligatorietà della mediazione, ossia il suo carattere di condizione di procedibilità per tutta una serie di controversie, tra le quali anche quelle in materia condominiale. Tuttavia, con il recentissimo decreto legge approvato dal governo lo scorso 15 giugno (c.d. decreto Fare), si è deciso di reintrodurre detta obbligatorietà, prevedendo altresì ulteriori e importanti novità relative alla procedura di mediazione. Per quanto riguarda lo specifico delle liti condominiali, dette novità vanno quindi coordinate con le altrettanto rilevanti innovazioni contenute nella legge di riforma del condominio, delle quali finora si è poco parlato.
Il concetto di controversia in materia di condominio. L'art. 5 del dlgs n. 28/2010, normativa quadro in materia di mediazione, nella nuova versione post c.d. decreto Fare, obbliga quindi le parti a far precedere l'eventuale azione giudiziaria in materia di condominio da un tentativo di risoluzione bonaria della controversia presso specifici organismi iscritti in un apposito registro tenuto presso il ministero della giustizia. In primo luogo è opportuno ricordare che anche per questo tipo di controversie vige la regola generale sull'ambito di applicazione oggettivo della mediazione stabilita dall'art. 2, comma 1, del dlgs n. 28/2010, in base alla quale è possibile sottoporre a tentativo di conciliazione soltanto i diritti disponibili.
Per quanto riguarda le controversie in materia di condominio non è stato però così semplice provvedere alla delimitazione del relativo ambito oggettivo, perché in questo caso la disposizione di cui al predetto art. 5 si prestava a interpretazioni contrastanti. Il nuovo art. 71-quater disp. att. c.c. introdotto dalla legge di riforma del condominio ha quindi opportunamente chiarito che per detto tipo di controversie si intendono quelle derivanti dalla violazione o dall'errata applicazione delle disposizioni codicistiche relative al condominio negli edifici e, dunque, alle liti tra condomini e condominio e a quelle tra condomini, allorché esse vertano su una di dette questioni.
Occorre anche aggiungere, per completezza, che in ambito condominiale non è necessario far precedere l'azione giudiziale dal tentativo di mediazione nei seguenti casi:
a) ricorsi per decreto ingiuntivo, inclusa l'opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione (l'amministratore potrà quindi continuare con la normale prassi usualmente seguita in materia di morosità condominiale per assicurare alla cassa comune gli oneri evasi dai condomini in ritardo nei pagamenti);
b) procedimenti urgenti e cautelari (si pensi ai ricorsi urgenti ex art. 700 c.p.c. per tutelare, ad esempio, i beni comuni da pericoli imminenti) e procedimenti ex art. 696-bis c.p.c. (procedimento di consulenza tecnica preventiva), questi ultimi menzionati dal c.d. decreto Fare;
c) procedimenti possessori, fino all'adozione di provvedimenti interdittali;
d) procedimenti in camera di consiglio (dunque, ad esempio, nei casi di domanda di nomina/revoca dell'amministratore di condominio).
La scelta dell'organismo di mediazione. L'art. 4 del dlgs n. 28/2010 prevede la massima libertà per i privati di scegliere l'organismo di mediazione che preferiscono, ovviamente tra quelli iscritti nel predetto registro ministeriale, senza fare riferimento a criteri processuali, quale ad esempio quello della competenza per luogo. In generale le parti sono quindi pienamente libere di scegliere l'organismo di mediazione sulla base delle proprie motivazioni personali, che potrebbero essere le più disparate.
Sono però evidenti i limiti di un meccanismo di scelta così liberale: se da una parte si facilita al massimo il privato nel decidere la soluzione a questi più congeniale, dall'altra si offre il destro a possibili strategie volte a mettere in difficoltà la controparte e a ostacolarne la presenza in mediazione, con la speranza di lucrare sulle possibili ricadute negative che la mancata partecipazione al tentativo di mediazione può avere in sede processuale.
Anche su questo aspetto il nuovo art. 71-quater disp. att. c.c. ha però inserito una disposizione del tutto peculiare per il condominio, sicuramente destinata a riaprire il dibattito, mai sopito, sul criterio di scelta dell'organismo di mediazione. La nuova disposizione introdotta dalla legge n. 220/2012 prevede infatti che la domanda di mediazione per le controversie condominiali debba essere presentata, a pena di inammissibilità, presso un organismo di mediazione ubicato nella circoscrizione del tribunale nella quale il condominio è situato (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.07.2013).

giugno 2013

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: A. Nicola, Gli impianti non centralizzati di ricezione radiotelevisiva e di produzione di energia da fonti rinnovabili (Immobili & proprietà n. 6/2013 - tratto da www.ipsoa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Antenne centralizzate, regole tecniche stese da privati. Il decreto del mse di gennaio 2013 evidenzia non poche problematiche applicative.
È stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 25 del 30 gennaio scorso un decreto del Ministero dello sviluppo economico (22.01.2013) che detta le «regole tecniche relative agli impianti condominiali centralizzati d'antenna riceventi del servizio di radiodiffusione».
Il decreto disciplina gli impianti centralizzati d'antenna condominiali, di nuova installazione, che ricevono i segnali del servizio di radiodiffusione, terrestre e satellitare e ne effettuano la distribuzione nell'edificio. Disciplina, altresì, la progettazione e la realizzazione degli impianti d'antenna riceventi il servizio di radiodiffusione conseguenti al riutilizzo di parte della banda Uhf da parte dei servizi di comunicazione elettronica.
Il provvedimento dispone che gli impianti centralizzati d'antenna siano realizzati in modo da «ottimizzare la ricezione delle stazioni emittenti radiotelevisive ricevibili e annullare o minimizzare l'esigenza del ricorso ad antenne riceventi individuali, in modo tale da garantire i diritti inderogabili di libertà delle persone nell'uso dei mezzi di comunicazione elettronica».
Fissate queste caratteristiche generali, il provvedimento passa a dettare ulteriori norme per «la progettazione, la realizzazione e la manutenzione di impianti» che rispettino le caratteristiche di cui sopra. In particolare, gli impianti centralizzati d'antenna (stabilisce ancora l'art. 4) non devono determinare condizioni discriminatorie tra le stazioni emittenti i cui programmi siano contenuti esclusivamente in segnali terrestri primari e satellitari né condizioni discriminatorie nella distribuzione dei segnali alle diverse utenze. L'utilizzo di un mezzo trasmissivo, poi, non deve comportare l'esclusione di altri mezzi trasmissivi che siano da considerare equivalenti o complementari tra loro.
Ma quali devono essere i «criteri realizzativi» delle antenne centralizzate? La risposta è contenuta nell'art. 6 del decreto, ove si dispone che «i riferimenti per la conformità di progettazione, installazione e manutenzione degli impianti centralizzati d'antenna sono: a) la direttiva 2004/108/Ce relativa agli aspetti di compatibilità elettromagnetica; b) le pertinenti norme e guide tecniche di impianto del Cei e i relativi riferimenti normativi europei Cenelec e in particolare la guida Cei 100-7 e le norme della serie En 50083 ed ENn60728 per gli aspetti funzionali e di sicurezza».
Per progettare, installare e fare la manutenzione delle antenne centralizzate, insomma, bisogna seguire regole che non sono contenute nel decreto ministeriale di cui ci stiamo occupando, né in altre disposizioni legislative o regolamentari. Tali regole sono infatti contenute, oltre che in una direttiva europea, in documenti realizzati da due enti di natura privata: il Cei (Comitato elettrotecnico italiano) e il Cenelec (Comitato europeo di normazione elettrotecnica).
E come ci si procura questi documenti, visto che (come detto) non si tratta di leggi o decreti? Ebbene, in questo caso è necessario procurarsi un volume intitolato Guide Cei sugli impianti d'antenna per la ricezione Tv. Volume, deve precisarsi, che non è disponibile gratuitamente, ma che è necessario acquistare al prezzo di 130 euro. Senza, oltretutto, che tale acquisto possa da qualcuno essere evitato per effetto, ad esempio, dell'invio della pubblicazione o di suoi estratti in copia da parte di un terzo (come potrebbe essere, ad esempio, un'Associazione territoriale della Confedilizia). Le indicazioni sul volume sono infatti inequivoche: «Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte del documento può essere riprodotta, messa in rete o diffusa con un qualsiasi mezzo senza il consenso scritto del Cei».
È legittimo tutto ciò? A leggere quanto affermato dal Tar del Lazio nella sentenza n. 5413 dell'01/04/2010 (ottenuta dalla Confedilizia con riferimento a un decreto in materia di ascensori) parrebbe proprio di no. In quell'occasione, infatti, i giudici amministrativi hanno ritenuto illegittime quelle previsioni che, nell'imporre prestazioni a privati proprietari, lascino «ampio spazio nella loro individuazione ad una associazione privata» (l'Uni, nel caso di specie, ente analogo a quelli citati nel decreto sulle antenne), «alle cui libere determinazioni, assunte nel tempo e finalizzate ad un continuo adeguamento delle tecniche di valutazione dei rischi degli impianti, da essa imposte, dipende la loro progressiva quantificazione e i vantaggi economici che l'associazione ne ricava».
Ma il Tar aggiungeva anche: «La riprova della anomala e ingiustificata posizione di vantaggio che ad essa si è ritenuto di assicurare, in danno dei proprietari, è già nell'obbligo fatto ai privati proprietari di acquisire, ad un prezzo esoso, limitatamente ad una sola copia del cartaceo recante il testo delle norme tecniche da osservare e «ad esclusivo uso del cliente», la licenza da parte dell'Uni ad utilizzare la normativa tecnica da essa predisposta, di cui è ritenuta proprietaria e che per questa ragione non è pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, come sarebbe doveroso per ogni normativa che alla collettività si impone di applicare».
Il testo integrale del provvedimento può essere scaricato (da parte dei titolari della relativa password) dalla banca dati riservata del sito internet della Confedilizia (articolo Italia Oggi del 22.06.2013).

CONDOMINIOCondominio. Le nuove regole richiedono maggioranze più alte per la rimozione. La riforma peggiora i quorum sulle barriere architettoniche.
IL VOTO PER LE INNOVAZIONI/ Prima bastavano un terzo di condomini e 334 millesimi, ora serve la maggioranza degli intervenuti in assemblea e almeno 500 millesimi
INTERVENTO INDIVIDUALE/ Se l'assemblea non vota l'intervento entro un mese dalla richiesta, il condomino potrà installare il servoscala o altra struttura a sue spese.

L'esigenza più sentita in condominio dai diversamente abili, dagli anziani e da tutti coloro colpiti da un handicap o, più semplicemente, da difficoltà motorie è quella di potersi muovere senza difficoltà in condominio, di poter scendere le scale, prendere l'ascensore, di poter godere della propria autonomia e non sentirsi "blindati" a casa propria.
Invece, purtroppo, si assiste spesso a casi di persone disabili che da anni non possono uscire di casa perché impossibilitati ad entrare in ascensori con porte troppo piccole, o addirittura non possono neppure scendere le scale perché abitano al sesto piano e non c'è un servoscala.
Queste sono le barriere architettoniche e nel 2013 la riforma adottata dal legislatore ha complicato le cose invece di migliorarle.
Per la determinazione del concetto di «barriera architettonica» il legislatore fa riferimento all'articolo 27, comma 1, della legge 118/1971, nella quale si definisce barriera architettonica qualsiasi impedimento fisico a ostacolo alla vita di relazione dei minorati. La barriera architettonica, quindi, può essere una scala, un gradino, una rampa troppo ripida.
Già da tempo la normativa, in particolare la legge n. 13 del 09.01.1989 (disposizioni per favorire il superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati) e la legge n. 104 del 05.02.1992 (legge quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate) non si è limitata a innalzare il livello di tutela in favore di questi soggetti ma ha segnato un radicale mutamento di prospettiva rispetto al modo stesso di affrontare i loro problemi, considerati ora non più questioni solo individuali, ma tali da dover essere assunti dall'intera collettività.
Così l'accessibilità, definita dall'articolo 2 del decreto ministeriale n. 236 del 14.06.1989 come la «possibilità, anche per persone con ridotta o impedita capacità motoria o sensoriale, di raggiungere l'edificio e le sue singole unità immobiliari, di entrarvi agevolmente e di fruire di spazi e di attrezzature in condizioni di adeguata sicurezza ed autonomia» è divenuta una qualità essenziale degli edifici privati di nuova costruzione ad uso di civile abitazione (vedi anche il capo III del Dpr n. 380 del 06.06.2001, ovvero il testo unico delle disposizione legislative e regolamentari in materia edilizia), quale conseguenza dell'affermarsi nella coscienza sociale, del dovere collettivo di rimuovere preventivamente ogni possibile ostacolo alla esplicazione dei diritti fondamentali delle persona affette da handicap fisici.
Anche la Corte Costituzionale è intervenuta con la sentenza n. 167 del 10.05.1999, in tema di servitù di passaggio coattivo, riconfermando i principi già espressi nella normativa e sottolineando come qualsiasi impedimento e/o ostacolo all'accessibilità dell'immobile abitativo e, quale riflesso necessario, alla socializzazione dei soggetti portatori di handicap, comporti una lesione del fondamentale diritto alla salute intesa nel significato proprio dell'articolo 32, comprensivo anche della salute psichica, la cui tutela deve essere di grado pari a quello della salute fisica.
La depressione quale conseguenza dell'isolamento, per esempio, è una delle tipiche patologie psichiche conseguenti a situazioni del genere, ed è tutt'altro che infrequente, perché chiusi in casa ci si "spegne" letteralmente.
Oggi, per gli edifici già esistenti (la grande maggioranza) il legislatore, con la legge di riforma n. 220/2012 (entrata in vigore quattro giorni fa), invece di diminuire il quorum necessario per deliberare le modifiche da apportare alle parti comuni dirette al superamento o all'eliminazione delle barriere architettoniche, lo ha aumentato.
In particolare se l'articolo 2 della legge 13/1989 prevedeva che per queste modifiche o innovazioni fosse sufficiente in seconda convocazione il voto favorevole di un terzo dei partecipanti al condominio, portatori di almeno un terzo dei millesimi, ora, con la riforma, sia in prima che in seconda convocazione è necessario il voto favorevole espresso dalla maggioranza degli intervenuti in assemblea e almeno la metà del valore millesimale dell'edificio (articolo 1120 del Codice civile).
Se l'assemblea risponde negativamente o non risponde entro un mese dalla richiesta (con la legge 13/1989 erano previsti tre mesi), il condomino potrà sempre a propria cura e spese installare il servoscala e tutte quelle strutture mobili che possono consentirgli una vita, nel vero senso della parola (articolo Il Sole 24 Ore del 22.06.2013).

CONDOMINIOIn vigore. Scatta la legge 220/2012: quali disposizioni vanno immediatamente applicate e quali no.
Condominio, debutta la riforma. Da oggi operative le nuove maggioranze e i limiti alle deleghe.
IN COMPAGNIA/ Cade il divieto di tenere animali domestici contenuto nei regolamenti condominiali assemblear
i.
La riforma del condominio debutta oggi e le nuove norme, dopo un periodo di sei mesi di "digestione" da parte del mondo immobiliare, sono ora efficaci. Non tutte le nuove disposizioni avranno però un impatto immediato sulla realtà condominiale.
La legge 220/2012 non ha espressamente disciplinato le conseguenze della sua entrata in vigore con norme transitorie e, pertanto, solo il richiamo ai principi generali dell'ordinamento può indicare quali norme avranno immediata applicazione e quali mostreranno la loro incidenza su un arco di tempo più lungo.
In ogni caso, non tutte le norme sono di facile applicazione: tanto che «Il Sole 24 Ore», in collaborazione con tutte le associazioni della proprietà e degli amministratori condominiali, ha proposto alcune modifiche tecniche che stanno per essere inserite in un disegno di legge presentato dal deputato Salvatore Torrisi (si veda a pagina 18).
Il principio generale cui rifarsi è quello previsto dall'articolo 11 delle Disposizioni sulle preleggi del Codice civile, relativo all'irretroattività: la legge non può disporre che per il futuro, con la conseguenza che la norma si applica solo ai rapporti giuridici nati sotto la sua vigenza. Nella realtà condominiale, tuttavia, non è sempre facile capire quali fattispecie debbano sottostare alle nuove disposizioni sin da oggi e quali invece debbano trovare la loro definizione nelle norme anteriormente vigenti.
Si può dire con ragionevole certezza che saranno immediatamente applicabili quelle norme che non innovano nulla rispetto alla disciplina previgente, in quanto immutate oppure volte a disciplinare specificamente fattispecie che prima avevano definizione generale e che in forza di una costante lettura giurisprudenziale trovavano lettura analoga a quella che oggi la riforma detta espressamente: si pensi alla disciplina delle parti comuni (articolo 1117 del Codice civile, e alla disciplina del sottotetto), all'articolo 1118 del Codice civile (ivi compresa la questione del distacco dall'impianto di riscaldamento), al consenso unanime previsto dall'articolo 1119 per la divisione dei beni comuni, all'obbligo per l'amministratore di esibire e rilasciare copia della documentazione agli aventi diritto, alle cause non tassative e codificate di grave irregolarità che possono dar luogo a revoca dell'amministratore (articolo 1129), all'obbligo di rendiconto annuale (articolo 1130 del Codice civile), l'autonomia dell'amministratore nella richiesta di decreto ingiuntivo (articolo 63 delle Disposizioni di attuazione del Codice civile), alla prededuzione delle spese condominiali in sede fallimentare (articolo 30 della legge 220/2012).
Vi sono poi norme che paiono applicabili alle realtà già esistenti, ma solo per quelle compiute dal 18.06.2013, come quelle relative alle attività sulle parti comuni previste dagli articoli 1117 bis e 1122-ter, anche se l'articolo 155 bis delle Disposizioni di attuazione prevede la possibilità per l'assemblea di intervenire anche sugli impianti già esistenti alla data di entrata in vigore (la lettura di alcuni interpreti –ovvero che tali norme si applicherebbero solo agli edifici costruiti o ai condomìni costituiti dopo tale data– pare eccessivamente restrittiva); rientrano in questa previsione anche le norme relative a revisione e modifica delle tabelle millesimali (articolo 69 delle Disposizioni di attuazione), alla tenuta dei registri relativi alla "anagrafica condominiale" (articolo 1130 del Codice civile), alla convocazione, funzionamento e maggioranze dell'assemblea (compresi i limiti di 200 millesimi per le deleghe nei condomìni con oltre 20 condòmini e il divieto de delegare l'amministratore), nonché all'impugnativa dei relativi deliberati (articoli 1135, 1136, 1137 del Codice civile e 66 e 67 delle Disposizioni di attuazione). Appare infine idonea a incidere sulla legittimità anche dei regolamenti condominiali esistenti la norma di cui all'articolo 1130, quinto comma del Codice civile, che qualifica illegittimo il divieto di detenere animali domestici.
Il principio di irretroattività comporta invece che le norme sulla gestione annuale o comunque su attività che hanno avuto inizio sotto la precedente normativa e non hanno ancora esaurito i loro effetti si applichino solo all'esaurirsi di questi effetti: quindi le norme relative a nomina, revoca, durata e relativi risvolti dell'amministratore (articolo 1129 del Codice civile) troveranno applicazione alle nomine effettuate dopo tale data; le nuove modalità di rendicontazione (articolo 1130 bis) sono applicabili ai bilanci degli esercizi iniziati nella vigenza della nuova norma; così quelle relative alla responsabilità patrimoniale (articolo 63 delle Disposizioni di attuazione e 67 delle Disposizioni di attuazione) si applicheranno alle obbligazioni sorte dopo il 18.06.2013.
In tema processuale, infine, vanno ritenute applicabili anche ai giudizi pendenti le nuove norme di natura processuale (articolo 1137 del Codice civile e 64 e 69 delle Disposizioni di attuazione), fatti salvi gli effetti ormai definitivi (articolo Il Sole 24 Ore del 18.06.2013).

CONDOMINIO: Dall'amministratore al bilancio. Riforma del condominio al via. In vigore dal 18 giugno la legge n. 220/2012. Formazione e nuovi adempimenti.
Al via la riforma del condominio. Trascorso il periodo di sei mesi dalla pubblicazione in G.U. della legge n. 220/2012, questa settimana entrano in vigore le modifiche apportate agli articoli 1117 e seguenti del codice civile e delle relative disposizioni di attuazione.
Le novità principali riguardano le nuove attribuzioni dell'amministratore, che di fatto deve tornare sui banchi di scuola. Chi si dedicherà per la prima volta a questa attività dovrà infatti essere in possesso di un diploma di scuola secondaria di secondo grado e avere svolto un corso di formazione in materia di amministrazione condominiale. Solo chi potrà dimostrare di avere già esercitato detta attività per almeno un anno a partire dal giugno 2010 potrà invece fare a meno di detti requisiti, salvo l'obbligo di frequentare i corsi di formazione periodica. Saranno invece esentati da qualsiasi obbligo formativo, tanto iniziale quanto periodico, quei condomini che si assumano l'onere di amministrare il proprio condominio.
Quanto sopra rischia però di rimanere sulla carta, almeno fino a che non si stabilisca come debbano essere organizzati i corsi di formazione: su quali materie debbano vertere, quale sia il monte ore minimo da rispettare, chi possa organizzarli. Il controllo sul possesso dei requisiti di legge da parte dell'amministratore rimane comunque demandato agli stessi condomini: dovrà essere infatti l'assemblea a verificare, prima della nomina e durante lo svolgimento del mandato, se il candidato possa o meno aspirare a svolgere e/o a continuare detta attività.
I requisiti che devono essere posseduti dall'amministratore condominiale. La legge n. 220/2012, oltre a rafforzare prerogative e obblighi dell'amministratore condominiale, ha voluto anche restringere le modalità di accesso a detta attività, pur senza giungere all'istituzione di un vero e proprio registro.
Oltre ai requisiti di formazione, il nuovo art. 71-bis disp. att. c.c. ha quindi previsto che possano svolgere detta attività soltanto quei soggetti che abbiano il godimento dei diritti civili, non siano stati condannati per alcuni specifici delitti, non siano stati sottoposti a misure di prevenzione divenute definitive, salvo che non sia intervenuta la riabilitazione, non siano interdetti o inabilitati, non siano stati inseriti nell'elenco dei protesti cambiari.
La perdita dei predetti requisiti comporta la cessazione ex lege dall'incarico, con la conseguenza che i condomini dovranno attivarsi (anche uno solo di essi) per convocare l'assemblea e provvedere alla nomina di un nuovo amministratore.
I nuovi compiti dell'amministratore. Vediamo allora di sintetizzare i nuovi compiti attribuiti all'amministratore dalla nuova legge di riforma (si veda anche la tabella relativa alle nuove attribuzioni di cui all'art. 1130 c.c.).
   a) Obblighi di comunicazione ai condomini: in caso di nomina e per ogni successivo mandato, vi è l'obbligo di comunicare ai condomini i propri dati anagrafici e professionali, il proprio codice fiscale e, qualora si tratti di società, la denominazione e la sede legale della stessa, l'indirizzo dei locali in cui si trovano i registri obbligatori, nonché dei giorni e delle ore nelle quali ciascun condomino interessato può accedere a detti locali ed estrarre copia della documentazione.
   b) Obbligo di stipulare apposita polizza assicurativa per la responsabilità professionale e di comunicarne gli estremi ai condomini: l'amministratore, al momento dell'accettazione della nomina, se previsto dall'assemblea, deve presentare ai condomini una polizza individuale di responsabilità civile per gli atti compiuti nell'esercizio del mandato.
   c) Obbligo di affiggere le generalità dell'amministratore in un luogo di pubblico accesso: si tratta di una norma di civiltà, il cui adempimento era rimasto fino a oggi legato alla correttezza dell'amministratore o alle disposizioni regolamentari di qualche ente locale più illuminato. È infatti evidente come sia di pubblico interesse poter risalire con immediatezza al nominativo e al recapito del soggetto chiamato per legge a rappresentare il condominio nei rapporti con i terzi.
   d) Obbligo di aprire un conto corrente condominiale e di far transitare esclusivamente su quest'ultimo le entrate e le uscite condominiali: anche questa disposizione risponde a un'esigenza di elementare trasparenza nell'amministrazione delle somme di denaro di proprietà altrui. Tuttavia, a oggi, detto fondamentale obbligo di diligenza era rimesso al buon cuore dell'amministratore condominiale o a specifiche indicazioni del regolamento o di deliberazioni assembleari.
   e) Obbligo di consegna della documentazione condominiale o di singoli condomini alla cessazione dell'incarico: viene ulteriormente ribadito, anche in sede normativa, l'obbligo dell'amministratore di passaggio delle consegne alla cessazione dell'incarico. Detto obbligo potrà essere assolto mediante consegna della documentazione condominiale o di singoli condomini sia a questi ultimi sia al nuovo amministratore designato dall'assemblea. Viene poi ulteriormente specificato che l'amministratore dimissionario resta comunque tenuto ad adottare eventuali interventi urgenti nell'interesse delle parti comuni anche dopo la cessazione dell'incarico, qualora non possa utilmente attivarsi il nuovo amministratore (ad esempio perché non ancora nominato dall'assemblea), senza diritto a ulteriore compenso.
   f) Obbligo di riscuotere le somme dovute dai condomini: viene introdotto l'obbligo dell'amministratore di riscuotere quanto dovuto dai condomini alle casse comuni entro il termine di sei mesi dalla chiusura dell'esercizio contabile nel quale è compreso il credito vantato. L'intervento dell'assemblea, lungi dal costituire una condizione per il recupero forzoso dei crediti condominiali, può invece sollevare l'amministratore da detto obbligo normativo. Detto obbligo va altresì correlato a quanto specificamente previsto in tema di morosità condominiale dall'art. 63 Disp. att. c.c.
   g) Obbligo di specificare l'ammontare del compenso al momento della nomina: per evitare possibili contenziosi in materia, il legislatore ha anche deciso di obbligare l'amministratore a dichiarare espressamente, a pena di nullità della nomina stessa, l'ammontare del compenso richiesto sia in occasione della prima nomina sia per i successivi rinnovi del mandato biennale.
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La gestione diventa trasparente.
Con la legge n. 220/2012 si è voluta rendere più trasparente e professionale la gestione del condominio, incidendo soprattutto sulla figura dell'amministratore. Formazione iniziale e periodica, esercizio dell'attività in forma societaria, conto corrente condominiale, polizza assicurativa, divieto di accettare deleghe per l'assemblea, obbligo di mettere i condomini in grado di visionare e fare copia della documentazione, obbligo di provvedere in tempi certi al recupero della morosità, delineano infatti una nuova forma di gestione del condominio, più aperta alle esigenze dei comproprietari.
La legge di riforma ha quindi operato un riordino generale della disciplina del condominio, uniformandosi alle soluzioni individuate dalla più recente giurisprudenza di legittimità, rimettendo mano alle disposizioni che regolano il funzionamento dell'assemblea (con un generale abbassamento delle maggioranze necessarie per l'adozione delle deliberazioni e una serie di utili chiarimenti sulle modalità di convocazione e partecipazione, diretta e delegata), la contabilità condominiale (per garantire una maggiore trasparenza, anche avvalendosi di un revisore dei conti), l'impugnazione giudiziale delle deliberazioni assembleari, l'applicazione delle sanzioni previste dal regolamento per i condomini che non ne rispettino il contenuto, la revisione e la modifica delle tabelle millesimali.
L'intervento di riforma non è certo andato esente da critiche e richieste di chiarimenti (si pensi alla questione della natura parziaria o solidale delle obbligazioni condominiali e alla nuova disciplina della modificazione d'uso delle parti comuni, così come al diritto del singolo condomino di distaccarsi dall'impianto comune di riscaldamento e all'approvazione degli interventi di manutenzione straordinaria e delle innovazioni con obbligatoria costituzione di un fondo speciale di importo pari all'ammontare dei lavori). Tuttavia esso ha rappresentato il frutto di un intenso lavoro di mediazione tra esigenze diverse e, soprattutto, ha il merito di avere aggiornato una normativa per molti versi anacronistica (articolo ItaliaOggi Sette del 17.06.2013).

CONDOMINIO: Le novità sulla casa. Adempimenti subito operativi
Registri, deleghe e polizze: il «nuovo» amministratore. Da domani la riforma del condominio impone ai professionisti di adeguarsi.

Pronti, via. Parte domani la rivoluzione in condominio, veicolata dalla riforma approvata alla fine dell'anno scorso, con la legge 220/2012, che entra in vigore il 18 giugno, dopo una vacatio di sei mesi. Debuttano così le regole "corrette" per le assemblee, le maggioranze e i lavori. E arrivano una serie di nuovi vincoli per gli amministratori, che devono rivedere da subito le loro prassi operative per far fronte alle richieste fatte dalla riforma, spesso in nome della trasparenza e di una maggiore tutela dei condòmini.
I requisiti
A cambiare, innanzitutto, sono le condizioni per ricoprire l'incarico di amministratore: tra l'altro, occorre rispettare i requisiti di onorabilità, godere dei diritti civili, avere il diploma di scuola secondaria di secondo grado, frequentare un corso di formazione e seguire l'aggiornamento periodico. E se i nuovi obblighi del titolo di studio e della formazione iniziale risparmiano chi ha fatto l'amministratore per almeno un anno negli ultimi tre, agli altri devono adeguarsi anche i professionisti già in carica: chi perde (o ha perso) i requisiti di onorabilità e i diritti civili decade immediatamente dall'incarico.
I nuovi obblighi
Da domani, poi, diventa un obbligo generalizzato in tutta Italia quella che, finora, è stata una misura operativa solo in alcuni Comuni: nell'androne del condominio (o comunque nel luogo di accesso o di maggiore uso comune) deve essere affissa una targa con le generalità, il domicilio e i recapiti dell'amministratore.
Ma apporre una targa nei condomini amministrati non è certo l'adempimento più oneroso imposto dalla riforma. Recependo un orientamento consolidato della Cassazione –e una buona norma di prassi già diffusa tra i professionisti– la legge impone di avere un conto corrente condominiale (bancario o postale) dedicato per ogni edificio, su cui devono transitare i contributi dei condòmini e le somme ricevute da terzi, oltre ai pagamenti fatti per conto del condominio. Da domani, per chi non rispetta il nuovo obbligo, la sanzione è pesante: la mancata apertura e il mancato uso del conto costituiscono «grave irregolarità», che giustifica la revoca dell'incarico, anche da parte del giudice su ricorso di un condòmino.
Non solo. Con l'entrata in vigore della riforma, l'amministratore deve iniziare a curare una serie di registri: in molti casi sono già utilizzati, ma, da domani, chi non li istituisce e aggiorna può incappare anche in una revoca giudiziale per «grave irregolarità». Si tratta del registro dei verbali, dove annotare le mancate costituzioni dell'assemblea, le deliberazioni e le dichiarazioni dei condòmini, con, in allegato, il regolamento di condominio. Poi, il registro di nomina e revoca degli amministratori, dove devono essere indicate, in ordine cronologico, le date di nomina e di revoca di ciascun amministratore e gli estremi del decreto di revoca giudiziaria se è intervenuto il giudice. Infine, l'amministrazione deve istituire (anche in modalità informatica) il registro di contabilità, dove annotare tutte le operazioni in ordine cronologico ed entro 30 giorni da quando vengono effettuate.
I rapporti con i condòmini
La riforma interviene anche sulle relazioni tra l'amministratore e i condòmini. Intanto, per le assemblee che si terranno da domani in poi, qualsiasi sia l'ordine del giorno, i condòmini che non parteciperanno non potranno più delegare l'amministratore, ma dovranno incaricare un altro condòmino o un terzo. Inoltre, l'amministratore deve diventare il "controllore" delle posizioni dei condòmini. La riforma tiene infatti a battesimo il registro di anagrafe condominiale, in cui l'amministratore deve raccogliere le generalità dei proprietari –con codice fiscale, residenza e domicilio– e i dati catastali di ogni unità immobiliare. Molti professionisti si sono già attivati nelle scorse settimane, ma è solo da domani che, in caso di mancata risposta per più di 30 giorni, si possono reperire le informazioni addebitando i costi ai proprietari (articolo Il Sole 24 Ore del 17.06.2013).

CONDOMINIO: In condominio anche criceti, pesci rossi e passerotti. Circolare del notariato sulle novità introdotte dalla riforma.
In condominio anche i criceti, i pesci rossi e i passerotti. Non solo cani e gatti. E questo da subito, anche se il vecchio regolamento di condominio lo vietava espressamente.
L'interpretazione della riforma del condominio (legge 220/2012), data dallo studio 23.05.2013 n. 320-2013/C del Consiglio nazionale del notariato, mette in evidenza l'immediata incidenza delle nuove disposizioni in vigore dal 18.06.2013. Questo vale anche per la disciplina dei subentri nella proprietà degli appartamenti condominiali e per le sanzioni a carico di chi viola il regolamento.
Vediamo, dunque, i passaggi salienti dello studio dei notai.
ANIMALI - Durante l'iter parlamentare si è passati dall'ammettere in condominio gli animali da compagnia agli animali domestici. Lo scopo è stato quello di tenere fuori gli animali pericolosi, gli animali da fattoria e tutti gli animali che non hanno consuetudini familiari. Ma la disposizione deve essere interpretata con ragionevolezza e, quindi, sono da ammettere non solo cani e gatti (che possono anche fruire degli spazi comuni), ma anche pesci, criceti e cavie e uccellini da gabbia (che stanno dentro la casa del padrone). Questa nuova regola si applica automaticamente, senza bisogno di modificare la difforme clausola del regolamento condominiali, automaticamente sostituito.
SUBENTRI - La riforma del condominio ha previsto la nuova regola per cui chi vende rimane responsabile delle spese condominiali se non invia all'amministratore una copia autentica dell'atto di vendita. Considerata la vessatorietà della norma, lo studio notarile cerca, per lo meno, di attenuarne il rigore, considerando che il venditore possa far avere all'amministratore o la copia autentica o un documento equivalente, come ad esempio una dichiarazione di avvenuta vendita rilasciata dal notaio subito dopo il rogito.
La riforma ripete invece la regola della responsabilità di chi acquista anche per le spese condominiali relative all'anno in corso e a quello precedente. Lo studio notarile ricorda che per anno si intende l'anno di gestione e non l'anno solare o civile. Lo studio fa un esempio: se l'alienante di una unità immobiliare trasferisce la stessa il 18.04.2013 e ha debiti condominiali risalenti al mese di maggio 2011, l'acquirente può essere chiamato a risponderne solidalmente se l'esercizio condominiale si chiude il 30 aprile di ogni anno, mentre non lo sarà se la gestione del condominio ha come termine di chiusura annuale il 31 marzo. In ogni caso lo studio notarile consiglia a chi vende e a chi acquista di disciplinare espressamente in apposite clausole dell'atto notarile i rispettivi carichi delle spese condominiali.
SANZIONI - Chi viola il regolamento condominiale rischia una multa fino a 200 euro e in caso di recidiva fino a 800 euro. Chissà, si legge nel documento, che questo non basti a rivitalizzare l'istituto.
REGOLAMENTO - Secondo le nuove norme il regolamento, una volta approvato dall'assemblea, deve essere allegato al registro dei verbali delle assemblee. Secondo i notai sarebbe opportuno estendere l'obbligo di allegazione, introdotto dalla nuova norma, anche al regolamento contrattuale: così si potrebbero superare le frequenti difficoltà nel reperimento di quest'ultimo regolamento, che deve essere allegato negli atti di trasferimento (articolo ItaliaOggi del 14.06.2013).

CONDOMINIOCondominio solare. Il fotovoltaico, se c'è maggioranza. La riforma (in vigore dal 18/6) apre al bonus del 65%.
Sarà più semplice installare impianti per la produzione di energia rinnovabile sulle parti comuni dell'edificio: si abbassa infatti il quorum delle assemblee di condominio. La legge di riforma del condominio, al countdown per l'entrata in vigore dal 18 giugno prossimo, prescrive infatti che con la maggioranza dei presenti all'assemblea e la metà del valore dell'edificio si possa decidere sulle innovazioni che riguardano gli impianti fotovoltaici.
Ora, va ricordato che l'articolo 14 del decreto legge 63/2013, prevede che siano agevolati con detrazione fiscale del 65% fino al 30/6/2014 gli interventi di riqualificazione energetica su parti comuni dei condomini, o su tutte le unità immobiliari del condominio. Dunque, l'agevolazione c'è, ma ne restano esclusi impianti di riscaldamento, impianti geotermici e scaldacqua a pompa di calore, già agevolati dal conto termico.
Cosa cambia. Dal 18 giugno con decisione a maggioranza sarà possibile installare impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili sul lastrico solare negli edifici condominiali o nella parti private dei singoli condomini. Condomini che potranno deliberare la realizzazione di interventi per la riduzione dei consumi energetici dell'edificio e la produzione di energia. Sia attraverso impianti di cogenerazione sia attraverso fonti rinnovabili.
A prevederlo è l'art. 7 della legge 220/2012 (che, come detto, entra in vigore il 18 giugno prossimo, decorsi sei mesi di tempo per prepararsi alle novità).
La legge riforma l'intera disciplina del condominio. E l'art. 7 introduce un nuovo articolo nel codice civile: dopo l'articolo 1122 inserisce il 1122-bis. Questo dispositivo consente l'installazione di impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili destinati al servizio di singole unità del condominio sul lastrico solare, su ogni altra idonea superficie comune e sulle parti di proprietà individuale dell'interessato. Qualora si rendano necessarie modifiche di parti comuni, l'interessato ne dovrà dare comunicazione all'amministratore indicando il contenuto specifico e le modalità di esecuzione degli interventi.
L'assemblea potrà anche stabilire modalità alternative di esecuzione o imporre cautele a salvaguardia di stabilità, sicurezza o decoro architettonico dell'edificio stesso.
E, ai fini dell'installazione degli impianti di risparmio energetico, la stessa assemblea provvederà, dietro richiesta degli interessati, a ripartire l'uso del lastrico solare e delle altre superfici comuni, salvaguardando diverse forme di utilizzo previste dal regolamento di condominio (articolo ItaliaOggi del 14.06.2013).

CONDOMINIO18.06.2013: inizia il conto alla rovescia per la riforma del condominio! Per i lettori di BibLus-net lo Speciale con tutte le novità.
E’ ufficialmente partito il conto alla rovescia per l’entrata in vigore della riforma del condominio.
La riforma (Legge 220/2012) attesa da oltre 70 anni entra in vigore il prossimo 18 giugno.
Tante sono le novità introdotte, tra cui nuovi requisiti e obblighi per l’amministratore, ridefinizione dei quorum per le assemblee, obbligo del conto corrente, decreto ingiuntivo per condomini morosi, apertura del sito internet condominiale.
Dal 18 giugno, dunque, cambiano le regole!
Allo scopo di fornire ai lettori una guida con le novità contenute nella legge 220/2012, la redazione di BibLus-net ha realizzato uno speciale interamente dedicato alla Riforma del Condominio.
Il documento allegato a questo articolo propone un’ampia e agile sintesi della Riforma ed è divisa in quattro sezioni:
L’amministratore
i requisiti, la nomina e la revoca, la polizza assicurativa, il sito web, il conto corrente condominiale, la tenuta dei registri, la riscossione forzosa dei crediti
Le parti comuni
la modifica della destinazione d’uso, l’installazione di antenne e pannelli solari, il distacco dall’impianto centralizzato, le innovazioni agevolate, la videosorveglianza
Il regolamento e l’assemblea
i quorum, le sanzioni, gli animali domestici, la delega, la convocazione
Il bilancio, le tabelle e le spese
il rendiconto annuale e il registro di contabilità, la revisione delle tabelle, il recupero dei crediti, la solidarietà passiva
Sono presenti, inoltre, 4 utilissime Appendici che contengono:
◾ Tavola sinottica degli adempimenti dell’amministratore
◾ Tabella delle nuove maggioranze assembleari
◾ Tavole sinottiche delle modifiche normative
◾ Tutta la disciplina del condominio dopo la riforma (13.06.2013 - link a www.acca.it).

CONDOMINIOLA RIFORMA DEL CONDOMINIO/ Condominio, le maggioranze ora non sono più agevolate. La legge 220/2012 ostacola l'utilizzo delle corsie preferenziali per raggiungere il quorum.
Un vero e proprio giallo sulle maggioranze agevolate. Con la legge n. 220/2012 di riforma della disciplina del condominio negli edifici, che entrerà in vigore la prossima settimana, diventerà per esempio più difficile installare un ascensore in un edificio condominiale giovandosi di quello che fino a oggi era il canale preferenziale dell'abbattimento delle cosiddette barriere architettoniche.
La nuova legge, che pure ha generalmente abbassato i quorum necessari per l'approvazione delle deliberazioni assembleari, anche se nel lodevole intento di far confluire nel codice civile gran parte delle disposizioni speciali che prevedevano maggioranze agevolate per le innovazioni di carattere sociale, ha però comportato, per un probabile errore di coordinamento testuale, un deciso innalzamento di alcune delle predette maggioranze. Tanto da far fortemente dubitare che in questi casi, salvo un auspicabile nuovo intervento legislativo, possa continuarsi a parlare di maggioranze agevolate.
L'efficacia delle deliberazioni assembleari e i criteri per l'individuazione della maggioranza. Il criterio individuato dalla legge per la formazione della volontà del condominio è il c.d. principio maggioritario. In base a esso la volontà della maggioranza vale per tutti i comproprietari, vincolando anche la minoranza dissenziente.
Tuttavia sono numerosi i contrappesi inseriti dal legislatore per equilibrare la posizione della minoranza dei condomini. Innanzitutto a questi ultimi è garantita la possibilità di invertire le sorti della votazione tramite la forza persuasiva delle proprie argomentazioni esposte durante la discussione assembleare. La minoranza, inoltre, ha sempre la possibilità di impugnare le deliberazioni che ritenga illegittime e dunque pregiudizievoli dei propri interessi, come garantito dall'art. 1337 c.c. (si veda l'altro articolo di questa settimana).
Ma una ulteriore e importante contromisura è certamente rappresentata dal sistema di votazione assembleare. Da un primo punto di vista, infatti, il legislatore ha inteso contemperare le maggioranze numeriche frutto del voto espresso da ciascun condomino (c.d. voto per testa) con quelle derivanti dai millesimi di proprietà attribuiti a ciascuno di essi. Il codice civile ha poi individuato in modo preciso le maggioranze necessarie per l'adozione delle varie deliberazioni di competenza dell'assemblea (c.d. quorum), distinguendo quelle necessarie alla costituzione della riunione condominiale (c.d. quorum costitutivo) da quelle richieste per la validità della decisione (c.d. quorum deliberativo). L'indicazione delle maggioranze che, volta per volta, il legislatore ha ritenuto opportune per l'adozione di una determinata deliberazione rappresenta il frutto di una scelta discrezionale compiuta proprio nell'interesse del condominio e dei singoli condomini. In altre parole, esse costituiscono il contemperamento degli opposti interessi della collettività condominiale.
Le maggioranze semplici. Il nuovo art. 1136, comma 1, c.c., prevede ora dei quorum più bassi e richiede, per l'assemblea in prima convocazione, un quorum costitutivo di condomini che rappresentino i due terzi del valore dell'edificio e la maggioranza (non più dei due terzi) dei partecipanti al condominio, e un quorum deliberativo della maggioranza degli intervenuti e di almeno la metà del valore dell'edificio.
Tuttavia è raro che le assemblee si svolgano in prima convocazione, in quanto le maggioranze prescritte dalla legge per le riunioni in seconda convocazione sono molto più basse e, di conseguenza, facilitano il raggiungimento del numero di voti necessario all'adozione delle singole deliberazioni. Il nuovo art. 1136, n. 3, c.c., ha quindi introdotto per la prima volta un quorum costitutivo anche per l'assemblea in seconda convocazione, pari a un terzo dei partecipanti al condominio e a un terzo del valore dell'edificio, mentre il quorum deliberativo è stato diminuito alla maggioranza degli intervenuti che rappresenti un terzo del valore dell'edificio.
Per quanto riguarda le materie per le quali è sufficiente il raggiungimento della maggioranza semplice, in prima o in seconda convocazione, che, facendo applicazione di un criterio di residualità, sono tutte quelle che non rientrino nelle competenze dell'assemblea e per le quali la legge non preveda una maggioranza qualificata o agevolata, si segnalano, a titolo esemplificativo, la manutenzione ordinaria, l'approvazione del bilancio preventivo, la ripartizione del bilancio preventivo tra i condomini, l'approvazione del bilancio consuntivo, l'impiego degli eventuali residui attivi della gestione ecc.
Le maggioranze qualificate. In una serie di casi, invece, il legislatore ha preferito derogare alle maggioranze semplici di cui sopra e ha previsto delle maggioranze qualificate, che richiedono un numero di voti maggiore per l'adozione delle deliberazioni assembleari. Si tratta di numerose disposizioni codicistiche, molte delle quali introdotte proprio dalla legge n. 220/2012, che prevedono dei quorum deliberativi particolari nelle ipotesi di nomina e revoca dell'amministratore, liti attive e passive relative a materie che esorbitano dalle attribuzioni dell'amministratore, ricostruzione dell'edificio, riparazioni straordinarie di notevole entità, approvazione e modifica del regolamento condominiale, scioglimento del condominio, innovazioni dirette al miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni, modificazioni e tutela delle destinazioni d'uso, videosorveglianza delle parti comuni, nomina del revisore dei conti del condominio ecc.
Le maggioranze agevolate. La legislazione speciale successiva all'entrata in vigore del codice civile aveva man mano previsto tutta una serie di ipotesi nelle quali, allo scopo di agevolare l'adozione di delibere assembleari per la realizzazione di particolari interventi di interesse sociale, erano state previste delle maggioranze agevolate rispetto a quelle ordinariamente necessarie in caso di innovazioni.
Si pensi alle opere finalizzate all'abbattimento delle c.d. barriere architettoniche (legge n. 13/1989), alla realizzazione dei parcheggi per gli autoveicoli (legge n. 122/89), al riscaldamento (legge n. 10/1991, dlgs n. 311/2006, legge n. 99/2009), alle antenne e agli impianti satellitari (legge n. 249/97, legge n. 66/2001), alle infrastrutture di ricarica elettrica dei veicoli (legge n. 134/2012).
Il nuovo art. 1120 c.c. introdotto dalla legge di riforma del condominio ha però comportato un deciso innalzamento di alcune delle maggioranze previste in precedenza, tanto da far fortemente dubitare che nei casi dell'abbattimento delle barriere architettoniche e dell'installazione delle antenne e degli impianti satellitari, salvo un auspicabile intervento legislativo, possa continuarsi a parlare di maggioranze agevolate. In tema di riscaldamento, invece, il già difficile e articolato quadro normativo sembra essere stato ulteriormente complicato, non essendo del tutto chiaro, dalla lettura combinata degli articoli 5 e 28 della legge n. 220/2012, quali siano le fattispecie realmente prese di mira dal legislatore.
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Delibera invalida con citazione. La riforma detta le regole per l'impugnazione. Atto da indirizzare al giudice competente.
Delibere condominiali da impugnare con atto di citazione. Che di per sé non comporta la sospensione dell'esecuzione della volontà assembleare, salvo che quest'ultima sia richiesta al giudice con apposita istanza, anche precedente all'impugnazione. La nuova legge n. 220/2012 di riforma della disciplina del condominio, che entrerà in vigore la prossima settimana, ha riscritto le regole per l'impugnazione delle deliberazioni assembleari, con importanti chiarimenti sui principali snodi del relativo procedimento.
Le delibere annullabili, in base all'art. 1137 c.c., possono essere impugnate giudizialmente dai condomini dissenzienti e da quelli astenuti, nonché da quelli che non abbiano partecipato all'assemblea, nel termine di decadenza di 30 giorni, decorrente per i primi dalla data dell'assemblea e per questi ultimi dalla data di comunicazione del relativo verbale.
L'invalidità delle deliberazioni assembleari. Quello dell'invalidità delle deliberazioni assembleari costituisce da sempre un tema particolarmente delicato nell'ambito del diritto condominiale. La tradizionale distinzione fra ipotesi di nullità e annullabilità, in mancanza di precise indicazioni da parte del legislatore, ha infatti portato all'elaborazione di una casistica giurisprudenziale quanto mai intricata e, a volte, contraddittoria.
Con il nuovo art. 1137 c.c. il legislatore, facendo propri i più recenti sviluppi giurisprudenziali, ha eliminato alla radice qualsiasi dubbio sull'applicabilità della procedura di impugnazione ivi disciplinata anche ai casi di nullità delle delibere condominiali. Nella nuova disposizione si parla infatti espressamente di annullamento delle deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio da promuovere dinanzi alla competente autorità giudiziaria nel termine perentorio di trenta giorni. Mentre in precedenza si poteva equivocare se l'azione diretta a fare accertare in giudizio l'invalidità delle delibere comprendesse o meno anche i casi di nullità delle stesse, la nuova versione dell'art. 1137 c.c. chiarisce in modo definitivo che la stessa è finalizzata esclusivamente all'accertamento dell'annullabilità della volontà assembleare. Resta quindi inteso che eventuali ragioni di nullità potranno essere contestate, in base alle regole generali, da chiunque vi abbia interesse con un ordinario procedimento giurisdizionale di accertamento da avviare negli ordinari termini di prescrizione del diritto.
La legittimazione all'azione. Per poter impugnare una deliberazione assembleare è necessario che chi agisce in giudizio sia fornito della relativa legittimazione. Anche in questo caso la norma di riferimento è il nuovo art. 1337 c.c., che ha specificato come la stessa spetti tanto ai condomini presenti in assemblea e che abbiano votato in senso contrario all'approvazione della delibera quanto a quelli assenti quanto, infine, a quelli che, pur avendo partecipato alla riunione condominiale, si siano astenuti dal voto. Il termine di decadenza di 30 giorni per l'impugnazione decorre dalla data dell'assemblea per i dissenzienti e gli astenuti e dalla data di comunicazione della deliberazione per gli assenti. A parte le ipotesi di nullità, la legittimazione attiva all'impugnazione delle deliberazioni condominiali spetta di regola solo ai condomini, ovvero ai proprietari delle unità immobiliari site in condominio.
Le modalità dell'impugnazione delle deliberazioni assembleari. Il secondo comma del vecchio art. 1137 c.c., nell'attribuire ai condomini il potere di impugnare le deliberazioni invalide, qualificava come «ricorso» l'atto introduttivo del relativo giudizio. Ciò sembrava comportare un'evidente deroga al sistema ordinario, che prevede che il giudizio civile sia introdotto mediante citazione a udienza fissa. Anche in questo caso è bastato poco al legislatore per risolvere un'annosa questione che, sebbene di recente dipanata dalla giurisprudenza di legittimità, poteva comunque risultare insidiosa dal punto di vista pratico e originare nuovo contenzioso.
Nel nuovo art. 1137 c.c. sparisce quindi la parola «ricorso», risolvendo brillantemente la questione se detto termine dovesse essere inteso in senso tecnico o atecnico e se l'impugnazione delle deliberazioni dovesse quindi avvenire con ricorso o con atto di citazione. La nuova disposizione si limita infatti a enunciare che chi intende impugnare una deliberazione assembleare che si assuma contraria alla legge o regolamento di condominio deve chiederne l'annullamento all'autorità giudiziaria entro il termine di 30 giorni. Se ne deve concludere che, come è naturale, la questione di quale sia il mezzo tecnicamente appropriato per svolgere la suddetta impugnazione in sede giudiziaria sia di tipo squisitamente processuale, come tale da risolvere alla luce dei criteri indicati dal vigente codice di procedura civile. Ora, rientrando il procedimento in questione tra quelli ordinari, non si può che concludere che l'impugnazione giudiziale delle deliberazioni assembleari debba essere introdotta con atto di citazione.
La sospensione dell'efficacia della deliberazione condominiale. Con gli ultimi due commi del novellato art. 1337 c.c. il legislatore ha quindi voluto ulteriormente chiarire la questione della sospensione dell'efficacia della delibera condominiale impugnata. Se, infatti, il vecchio testo della citata disposizione si limitava a prevedere che il ricorso per non sospendeva di per sé l'esecuzione della deliberazione, ma che era comunque necessario uno specifico provvedimento dell'autorità giudiziaria, l'ultimo comma del nuovo art. 1337 c.c. si occupa specificamente di disciplinare, seppure in via soltanto analogica, il procedimento da seguire per richiedere al giudice di pronunciarsi sulla sussistenza o meno delle condizioni per ottenere la sospensione dell'efficacia dell'atto impugnato.
L'istanza di sospensione in questione, secondo i criteri ordinari, può essere proposta tanto in costanza di causa quanto anteriormente alla stessa. Limitatamente a quest'ultimo caso il legislatore ha però inteso specificare che l'istanza di sospensione dell'efficacia di una delibera condominiale proposta autonomamente e anteriormente all'avvio della causa di merito non sospende il termine di decadenza di 30 giorni di cui al medesimo art. 1337 c.c. ovvero, detto in altri termini, non equivale all'atto di impugnazione della volontà assembleare.
A quale giudice rivolgersi. L'atto di citazione per l'impugnazione della deliberazione condominiale sarà volta per volta indirizzato al giudice competente per territorio e per valore. Quanto al primo aspetto occorre evidenziare come l'art. 23 c.p.c., adeguatamente riformulato dal legislatore con la recente legge n. 220/2012, stabilisca espressamente che per le cause tra condomini e tra condomini e condominio sia competente il giudice del luogo in cui si trovano i beni comuni o la maggior parte di essi (articolo ItaliaOggi Sette del 10.06.2013).

CONDOMINIOLa riforma del condominio. Distacco dall'impianto centralizzato sulla carta.
Il distacco dall'impianto centralizzato di riscaldamento condominiale rischia di rimanere sulla carta. Sebbene il nuovo art. 1118 c.c., introdotto dalla legge n. 220/2012 che entrerà in vigore la prossima settimana, abbia previsto il diritto del singolo comproprietario di rinunciare all'utilizzo dell'impianto comune, il suo esercizio rimane subordinato a una serie di presupposti tecnici di difficile realizzazione, senza per questo esentare il condomino dal pagamento delle spese di manutenzione straordinaria e per la conservazione e messa a norma del medesimo.

La nuova formulazione dell'art. 1118 c.c. conferma che nel condominio la disciplina delle parti comuni si fonda sul principio dell'indivisibilità e del pari utilizzo delle stesse. Scopo della norma è evidentemente quello di impedire che il singolo condomino si sottragga al contributo obbligatorio per le spese relative ai beni e ai servizi comuni, rinunciando al relativo diritto di utilizzo. Anche l'impianto di riscaldamento centralizzato è un bene comune e, come tale, il suo funzionamento dovrebbe essere regolato dai medesimi principi di cui sopra, ivi incluso il divieto di rinunciare al relativo diritto (e di sopportarne gli oneri economici).
Tuttavia, con riferimento a questo specifico impianto (e a quello, simmetrico, di condizionamento), la giurisprudenza di legittimità aveva di fatto elaborato il principio per cui il comproprietario ben poteva operarne il distacco, restando però obbligato a sostenere le spese relative alla sua conservazione (restando pur sempre l'impianto un bene comune). La nuova legge n. 220/2012, volendo in qualche modo asseverare tale orientamento giurisprudenziale, ha quindi previsto espressamente il diritto di distacco del singolo condomino, subordinandolo però alla prova rigorosa del fatto che da tale operazione non derivino notevoli squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condomini.
Tuttavia non sembra che tale operazione sia fattibile dal punto di vista tecnico e che risulti particolarmente appetibile dal punto di vista economico, ferma restando la necessità di operare valutazioni caso per caso. Appare infatti generalmente difficile che il distacco di un condomino possa davvero avvenire senza squilibrio alcuno per l'impianto comune. E che dire, poi, degli eventuali distacchi successivi al primo? Ammesso pure che il distacco originario sia stato valutato tecnicamente fattibile, è di tutta evidenza che quelli che dovessero seguire avrebbero sempre meno possibilità di essere attuabili.
E ciò comporterebbe un'indubbia disparità di trattamento tra il primo condomino che dovesse optare per tale operazione e tutti quelli che dovessero eventualmente decidere in seguito. Dal punto di vista economico è poi tutto da verificare se il distacco possa essere davvero conveniente per il singolo comproprietario. Quest'ultimo, infatti, a parte i costi che dovrebbe sopportare per installare il nuovo impianto esclusivo, rimarrebbe comunque tenuto a concorrere nelle spese per la manutenzione straordinaria dell'impianto condominiale e per la sua conservazione e messa a norma.
Occorre poi evidenziare come in alcune regioni la nuova disposizione di cui all'art. 1118 c.c. potrebbe non essere recepita o addirittura vietata. Poiché, infatti, quello del distacco dall'impianto centralizzato è un argomento connesso alla materia dell'efficienza energetica degli impianti termici, che come tale ricade in un ambito di legislazione concorrente tra stato e regioni, queste ultime potrebbero anche dettare discipline più rigorose rispetto ai criteri nazionali.
Dal punto di vista pratico è utile poi sottolineare come, a stretto rigore, il condomino che voglia distaccarsi dall'impianto comune non sia tenuto ad avvertire preventivamente né l'amministratore né l'assemblea, anche se tale modus procedendi non appare consigliabile. Il condominio, infatti, ove non ritenesse legittimo l'operato del singolo condomino potrebbe chiedergli di provare con una perizia tecnica l'assenza delle predette controindicazioni tecniche e, in ogni caso, potrebbe rivolgersi all'autorità giudiziaria per la tutela dei propri interessi (articolo ItaliaOggi del 06.06.2013).

maggio 2013

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: I. Meo e A. Pesce, Fine della “selva” di antenne (Consulente Immobiliare n. 930/2013).

CONDOMINIOIn condominio videosorveglianza «segnalata».
Le riprese video degli spazi comuni raggiungono finalmente certezza normativa all'interno di una grande confusione giurisprudenziale. Con un articolo dedicato, ossia il nuovo articolo 1122 ter del Codice civile il legislatore della riforma ha introdotto, nel sistema della disciplina condominiale, la videosorveglianza.
Per le aree comuni condominiali vi era una lacuna e la giurisprudenza che si è occupata della questione oscillava tra il fatto che occorresse l'unanimità dei consensi oppure una maggioranza qualificata per deliberare l'installazione di questi impianti.
Ora, la legge di riforma del condominio affronta direttamente la questione. Anche in tema di videosorveglianza la normativa tende alla semplicità, ovvero prevede che l'assemblea, con la maggioranza degli intervenuti che rappresentino almeno la metà dei millesimi (articolo 1136, comma 2 del Codice civile), può deliberare l'installazione sulle parti comuni dell'edificio di impianti di videosorveglianza.
È di tutta evidenza che la nuova norma, limitandosi a prevedere l'ammissibilità di una delibera di installazione dell'impianto di videosorveglianza adottata a maggioranza, si colloca all'interno dell'ambito di vigenza delle prescrizioni del Codice della privacy (decreto legislativo 196/2003).
Le regole previste non risultano in alcun modo derogate e/o superate, ma anzi integrate dai successivi provvedimenti del Garante del 29.04.2004 e 08.04.2010 (quest'ultimo di mera integrazione al primo), finalizzati a regolamentare la specifica fattispecie della videosorveglianza in condominio. In particolare, come ci chiede un lettore, andranno osservate queste precauzioni: le persone che transiteranno nelle aree sorvegliate dovranno essere informate con appositi cartelli delle presenza delle telecamere; i cartelli, qualora il sistema di videosorveglianza fosse attivo anche in orario notturno, dovranno essere visibili anche di notte; nel caso in cui gli impianti di videosorveglianza fossero collegati alle forze dell'ordine, sarà necessario apporre uno specifico cartello che lo evidenzi; le immagini registrate potranno essere conservate per un periodo limitato, ovvero sino a un massimo di 24 ore, fatte salve specifiche esigenze di ulteriore conservazione in relazione a indagini della polizia o comunque di natura giudiziaria.
Il mancato rispetto di queste prescrizioni, a seconda dei casi, comporterà: l'inutilizzabilità dei dati personali trattati (articolo 11, comma 2, del codice); l'adozione di provvedimenti di blocco o divieto del trattamento disposti dal Garante (articolo 143, comma 1, lettera c del codice) ed, infine, l'applicazione delle sanzioni amministrative o penali ed esse collegate (articoli 161 e seguenti del codice), oltre ovviamente a eventuali richieste di risarcimento da parte di eventuali soggetti danneggiati (articolo Il Sole 24 Ore del 04.05.2013).

aprile 2013

CONDOMINIO: M. Sala, Sul diritto di coabitazione con l’animale domestico (Immobili & proprietà n. 4/2013 - tratto da www.ispoa.it).

CONDOMINIOLa Cassazione: in linea generale la manutenzione straordinaria spetta all'ex proprietario.
Spese extra, le paga chi vende. Possibile anche una diversa pattuizione con l'acquirente.
In caso di vendita di un appartamento situato in condominio le spese per i lavori di manutenzione straordinaria sulle parti comuni deliberate prima del trasferimento della proprietà restano a carico del condomino venditore, anche se l'esecuzione delle opere sia iniziata successivamente all'acquisto.
Tuttavia non è escluso che il venditore e il compratore, con apposito patto contenuto nel preliminare di vendita e poi ribadito nel rogito, stabiliscano che queste spese siano sostenute dall'acquirente e nuovo condomino che, di fatto, si gioverà dei miglioramenti deliberati dall'assemblea.

Sono i principi espressi dalla Corte di Cassazione, Sez. II civile, nella recente sentenza 10.04.2013 n. 8782.
La vicenda. Un condomino aveva deciso di vendere il proprio appartamento. L'acquirente, venuto a sapere che erano già stati deliberati lavori straordinari di manutenzione del caseggiato (probabilmente dietro riduzione del prezzo, come spesso accade), si impegna nel preliminare ad accollarsi le spese già deliberate.
Questo il testo della clausola del contratto preliminare poi riprodotta anche nel rogito: «Le parti convengono che tutte le spese condominiali, alla data di oggi eventualmente ancora dovute, gravino interamente sulla sola parte venditrice, a eccezione di quelle attinenti al rifacimento della terrazza condominiale, che restano a carico della parte acquirente». Dopo il preliminare, e fino alla data del rogito, il venditore provvede quindi ad anticipare le spese straordinarie di rifacimento dell'edificio nella convinzione che l'acquirente (che si era impegnato ad accollarsi le spese) provvedesse poi al rimborso delle stesse.
Ma l'impegno preso non viene rispettato e, conseguentemente, l'acquirente è citato davanti al giudice di pace, che lo condanna al pagamento dell'importo anticipato dal venditore e relativo ai lavori di manutenzione straordinaria. Il tribunale adito in secondo grado, però, ribalta la decisione e condanna il venditore al pagamento delle spese processuali di entrambi i gradi di giudizio. Il tribunale osserva che, con la clausola contrattuale, le parti avevano espressamente convenuto che tutte le spese condominiali, a quella data ancora eventualmente dovute, dovessero gravare per intero sulla sola parte venditrice, a eccezione di quelle attinenti al rifacimento della terrazza condominiale, che restavano a carico della parte acquirente.
Secondo il tribunale, però, la clausola in questione comportava l'obbligo, da parte dell'acquirente, di provvedere, per la quota gravante sull'immobile acquistato, al pagamento delle sole spese di rifacimento della terrazza condominiale eventualmente ancora dovute alla data di stipula del rogito notarile e non anche al rimborso di quanto corrisposto, a tale titolo, dal venditore al condominio in epoca antecedente.
La decisione della Suprema corte. Tale decisione non è stata condivisa dalla Cassazione che, in via preliminare, ha precisato come in caso di vendita di una unità immobiliare in condominio, nel quale siano stati deliberati lavori di straordinaria manutenzione, ristrutturazione o innovazioni sulle parti comuni, qualora venditore e compratore non si siano diversamente accordati in ordine alla ripartizione delle relative spese, è tenuto a sopportarne i costi chi era proprietario dell'immobile al momento della delibera dei detti interventi, avendo tale decisione assembleare valore costitutivo della relativa obbligazione.
Tuttavia, secondo i giudici supremi, è da ritenersi valida, nei rapporti tra venditore e compratore, una clausola da inserire nel contratto di compravendita che faccia ricadere l'onere per le spese condominiali relative a lavori di straordinaria manutenzione (deliberate e ancora da eseguire) sul compratore.
E, secondo la Cassazione, con la clausola sopra riportata, contrariamente a quanto ritenuto nel caso di specie dal tribunale adito dalle parti nel secondo grado di giudizio, le parti avevano proprio voluto ribadire la regola generale costituita dall'onere del venditore di accollarsi tutte le spese condominiali ordinarie eventualmente ancora dovute al momento del rogito ma, contestualmente, avevano previsto in modo evidente che le spese, già deliberate, per il rifacimento del terrazzo sarebbero dovute rimanere totalmente a carico della parte acquirente.
Quindi, in base alla clausola esaminata, avendo il venditore corrisposto al condominio le spese per il ripristino del terrazzo comune secondo le scadenze stabilite dal piano di riparto approntato dall'amministratore nelle more della stipula del contratto di vendita, quest'ultimo aveva acquisito, al momento del rogito, il diritto di chiedere, nei confronti dell'acquirente, il rimborso della somme anticipate per le spese dei lavori straordinari (articolo ItaliaOggi Sette del 29.04.2013).

CONDOMINIO: Passaggi di proprietà, chi vende avvisa l'amministratore.
Capita spesso che nel caso di vendita di un appartamento situato in condominio le parti si dimentichino di avvisare l'amministratore condominiale dell'intervenuto passaggio di proprietà. Eppure con detto trasferimento muta automaticamente la composizione della compagine condominiale, in quanto al vecchio condomino (proprietario) si sostituisce un nuovo proprietario (e dunque anche condomino).
Ciò comporta che, a partire dalla data del rogito sottoscritto dinanzi al notaio, l'amministratore sarebbe tenuto a inviare l'avviso di convocazione assembleare al nuovo condomino (e non più al vecchio proprietario) e sempre a quest'ultimo dovrebbe richiedere il pagamento delle spese condominiali maturate a partire da quella data (e non più anche al vecchio condomino).
Invero è sempre stato incerto quale delle parti della compravendita, al di là dei doveri di cortesia, avesse l'obbligo giuridico di avvisare l'amministratore condominiale dell'intervenuto trasferimento della proprietà (così come di altro diritto reale sul medesimo immobile). Da questo punto di vista importanti novità sono state apportate dal nuovo art. 63 disp. att. c.c. introdotto dalla legge n. 220/2012 di riforma della disciplina del condominio negli edifici e che entrerà vigore dalla metà del prossimo mese di giugno.
La nuova disposizione di legge prevede, infatti, che il condomino che venda un'unità immobiliare sita in condominio resti obbligato solidalmente con l'acquirente per i contributi maturati successivamente al trasferimento della proprietà e fino al momento in cui sia stata trasmessa all'amministratore condominiale copia autentica del relativo titolo. D'ora in avanti, quindi, chi vende, o comunque trasferisce la proprietà o altro diritto reale, non potrà disinteressarsi del tutto delle vicende condominiali successive alla cessione del diritto, essendo tenuto in via prudenziale a comunicare formalmente all'amministratore la vicenda del suo trasferimento e, quindi, il mutamento della compagine condominiale (anche perché l'amministratore possa più agevolmente provvedere al nuovo incombente dell'aggiornamento del registro dell'anagrafe dei condomini).
In caso contrario il condomino che cede il diritto rischierà di essere chiamato al pagamento degli oneri maturati successivamente al trasferimento del medesimo ed eventualmente non versati dall'avente causa, ovvero dal nuovo condomino.
Il nuovo art. 63 disp. att. c.c., infatti, ha introdotto una specifica ipotesi di solidarietà tra venditore e acquirente relativamente all'obbligazione di pagamento dei contributi condominiali, che può essere in qualche modo interrotta soltanto con l'invio all'amministratore della copia autentica del titolo che determina il trasferimento del diritto sull'unità immobiliare.
Fino a quel momento, quindi, l'amministratore potrà chiedere il versamento delle spese comuni a entrambe le parti e, considerando che il più delle volte quest'ultimo non sarà al corrente della compravendita, sarà altamente probabile che ne chieda il pagamento a quello che ritiene essere il condomino, ovvero al venditore. Si tratta quindi sicuramente di un ottimo espediente per fare in modo che il vecchio condomino informi l'amministratore condominiale del passaggio di proprietà relativo all'unità immobiliare (articolo ItaliaOggi Sette del 29.04.2013).

CONDOMINIORIFORMA CONDOMINIO/ Sicurezza, condòmini liberi. Nessun obbligo di produrre documenti all'amministratore. Basta la segnalazione solo in caso di effettivo pericolo.
Il riscontro sullo stato di sicurezza dell'immobile non comporta alcun obbligo per il condomino di produrre documenti. Il condomino deve soltanto segnalare quando è il caso il verificarsi di problemi che possano mettere a repentaglio la sicurezza dell'immobile. Nulla dunque l'amministratore può richiedere al condomino a livello di documentazione sulla sicurezza.

L'art. 1130 c.c., così come scaturente dalla legge di riforma del condominio, prevede al n. 6, primo periodo, che l'amministratore debba “curare la tenuta del registro di anagrafe condominiale contenente le generalità dei singoli proprietari e dei titolari di diritti reali e di diritti personali di godimento, comprensive del codice fiscale e della residenza o domicilio, i dati catastali di ciascuna unità immobiliare, nonché ogni dato relativo alle condizioni di sicurezza”.
La previsione, all'evidenza, non pone particolari problemi interpretativi, se non con riferimento ad uno specifico punto: quale sia l'esatto significato da attribuire all'espressione “ogni dato relativo alle condizioni di sicurezza”.
Nel silenzio del legislatore, l'indagine non può che prendere l'avvio da un esame letterale dell'espressione d'interesse e, in particolare, dal termine “dato”.
Tale parola, utilizzata come sostantivo maschile, ha il significato –secondo il dizionario Devoto Oli della lingua italiana– di “informazione”, vocabolo quest'ultimo –sempre secondo il citato dizionario– che a sua volta sta ad indicare “notizia o nozione raccolta e comunicata ai fini di un'utilizzazione pratica e immediata”.
Che il termine “dato” vada letto come sinonimo di “informazione” trova conferma, del resto, anche nella formulazione della disposizione in questione la quale, sempre al n. 6, dopo aver trattato del registro di cui sopra, così prosegue: “Ogni variazione dei dati deve essere comunicata all'amministratore in forma scritta entro sessanta giorni. L'amministratore, in caso di inerzia, mancanza o incompletezza delle comunicazioni, richiede con lettera raccomandata le informazioni necessarie alla tenuta del registro di anagrafe. Decorsi trenta giorni, in caso di omessa o incompleta risposta, l'amministratore acquisisce le informazioni necessarie, addebitandone il costo ai responsabili”.
È, dunque, lo stesso legislatore a parlare di “informazioni” con riguardo a ciò che i condòmini sono tenuti a comunicare; “informazioni” che, tuttavia, possono ritenersi fornite, in relazione segnatamente alle “condizioni di sicurezza”, dando conto –deve ritenersi– di eventuali elementi negativi relativi a queste ultime, elementi riscontrabili nelle unità immobiliari (ad es.: segnali di pericolo, come crepe nei muri ecc.), richiedendo all'evidenza la legge la comunicazione di dati afferenti –in buona sostanza, e per meglio esprimersi– alla insicurezza. La presentazione da parte dei condòmini di documentazione concernente la sicurezza dei loro immobili, non troverebbe alcuna valida giustificazione nel testo di legge (che, infatti, non parla di allegazione –del resto di pratica, difficile attuazione– al registro di anagrafe). Non solo, ma la documentazione potrebbe anche essere superata e non svolgere quindi alcuna funzione così come potrebbe addirittura essere un modo per dribblare quanto la legge prescrive (chiamando questa i condòmini a dichiarare i dati attuali di sicurezza e a comunicare ogni variazione degli stessi).
Al di là delle considerazioni che precedono, vi è poi da rilevare che quando il legislatore della riforma ha inteso far riferimento ad eventuale “documentazione” o “documenti”, lo ha fatto esplicitamente, senza giri di parole. Si pensi, solo per fare qualche esempio, all'art. 1129, ottavo comma, c.c. nel quale si prevede espressamente che l'amministratore, alla cessazione dell'incarico, è tenuto alla consegna di tutta la “documentazione” in suo possesso. Ovvero al successivo punto 8) dello stesso art. 1130 c.c. in cui si impone a chi amministra di conservare tutta la “documentazione” inerente alla propria gestione. O, ancora, all'art. 71-ter disp. att. c.c. che obbliga l'amministratore ad attivare –su richiesta dell'assemblea– un sito internet del condominio che consenta agli aventi diritto di consultare ed estrarre copia in formato digitale dei “documenti” previsti dalla delibera assembleare.
Insomma, se la voluntas legis fosse stata quella di pretendere dai condòmini documenti sulla sicurezza, sarebbe stato certo più chiaro e semplice ricorrere a espressioni quali “ogni documento relativo alle condizioni di sicurezza” oppure “tutta la documentazione relativa alle condizioni di sicurezza”. Così però non è stato. Il che porta all'ovvia conclusione che la legge non prevede alcun obbligo di produzione documentale, e affermare il contrario, quindi, significherebbe introdurre un inutile aggravio a carico dei condòmini e degli stessi amministratori. Ciò senza considerare, peraltro, che la presentazione di eventuale documentazione sulla sicurezza firmata da professionisti eluderebbe lo scopo della norma, che è quello, indubbiamente, di un'assunzione di responsabilità diretta da parte dei proprietari degli immobili; assunzione di responsabilità che può essere garantita solo da una dichiarazione sottoscritta dagli stessi interessati circa l'esistenza o meno di segnali di pericolo al momento della comunicazione all'amministratore.
Ad ulteriore conferma della bontà delle conclusioni cui sta conducendo la presente riflessione, c'è infine da considerare che la previsione che qua ci occupa precisa –come abbiamo visto– che ogni variazione dei dati deve essere “comunicata” all'amministratore, il quale, in caso di inerzia, mancanza o incompletezza delle “comunicazioni”, deve attivarsi con lettera raccomandata. È chiaro che, se nei dati da comunicare si fosse voluto ricomprendere anche un'eventuale documentazione (nello specifico, sulla sicurezza) da presentare, sarebbe stato appropriato stabilire che ogni variazione concernente tali dati fosse “trasmessa” (e non “comunicata”) all'amministratore. Il termine “comunicazioni”, poi, utilizzato, all'evidenza, come sinonimo di “informazioni” (in conformità, del resto, al suo significato: si veda, ancora, il dizionario Devoto Oli della lingua italiana) non fa che avvalorare la correttezza della lettura offerta, inizialmente, del termine “dato”.
Dunque, è da ritenersi che l'espressione d'interesse non rechi con sé alcun obbligo di produzione documentale a carico dei condòmini e, di conseguenza, che la comunicazione concernente le condizioni di sicurezza sia da riferirsi ad eventuali pericoli riscontrabili in relazione a tali condizioni al momento di detta comunicazione. Ogni altra diversa interpretazione, infatti, non potrebbe dirsi rispettosa –per ciò che abbiamo potuto osservare– del dettato normativo (articolo ItaliaOggi del 27.04.2013).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATACondominio. Rilevanti le norme antisismiche. Va demolito l'abuso sanato ma pericoloso.
Il condomino che realizza una costruzione sulla terrazza del suo attico, senza osservare le norme antisismiche, è obbligato a demolirla anche se ha ottenuto la sanatoria. A meno che non abbia reso l'intero palazzo resistente al terremoto.

La Corte di Cassazione, con la sentenza 10082, respinge il ricorso della proprietaria che contestava la decisione con la quale i giudici di merito le imponevano l'abbattimento della sopraelevazione, nella convinzione che l'aver ottenuto la concessione in sanatoria la mettesse automaticamente in una condizione inattacabile.
La Suprema corte considera invece irrilevante l'atto con il quale l'autorità amministrativa aveva dato il suo consenso alla regolarizzazione dell'abuso, perché si trattava di un "nulla osta" che non conteneva alcun giudizio tecnico sulla conformità alle regole di costruzione.
I giudici della seconda sezione si basano invece su quanto previsto dal secondo comma dell'articolo 1127 del codice civile, che vieta la sopraelevazione quando le condizioni statiche dello stabile possono risentirne. Una prescrizione che la Cassazione integra con le norme antisismiche, chiarendo che quando si decide di costruire non basta considerare solo l'effetto del peso sull'intero edificio ma anche, nel caso di zone sismiche, "l'urto di forze in movimento".
Per questo chi vuole elevare una nuova "fabbrica" deve, a sue spese e con il consenso di tutti i condomini, eliminare qualunque possibilità di pericolo mettendo mano alle strutture portanti del palazzo per renderle resistenti alle scosse.
Né può essere condivisibile il punto di vista della signora dei piani alti, che si diceva disponibile agli interventi richiesti solo nel caso, dopo aver realizzato la costruzione e fatte le opportune verifiche, si fosse accertata la necessità «concreta e non teorica di dover affrontare l'intervento di adeguamento previsto dalla normativa antisismica».
Una visione che certamente non punta alla prevenzione e, per questo, non riscuote alcun consenso.
L'inosservanza della legge fa automaticamente presumere la pericolosità del manufatto e può essere smentita solo se il suo autore è in grado di provare che, non solo la sopraelevazione, ma anche la struttura sottostante sono a prova di "scossa".
La strada da percorrere è dunque quella di realizzare prima le opere che scongiurano i rischi.
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I principi
01 | IL CODICE CIVILE
La Corte chiarisce che quanto previsto dall'articolo 1127 va esteso anche al mancato rispetto delle leggi antisismiche: la verifica del pregiudizio per la stabilità dell'edificio, in una zona a rischio terremoto, non può, infatti, prescindere dall'osservanza di quelle norme
02 | LA SANATORIA
La concessione in sanatoria non ha nessuna rilevanza sulla valutazione di illegittimità della sopraelevazione, perché l'atto, ottenuto dall'autorità amministrativa, non contiene giudizi tecnici (articolo Il Sole 24 Ore del 27.04.2013).

CONDOMINIORIFORMA CONDOMINIO/ Assemblea sempre verbalizzata. Amministratore obbligato anche in prima convocazione. In difetto, saranno impugnabili le successive delibere.
L'amministratore del condominio potrà continuare a fissare la riunione di condominio, in prima convocazione, il mattino presto o la sera tardi. Dovrà però verbalizzare necessariamente quanto accade nell'occasione. La mancata verbalizzazione, infatti, potrebbe rendere ex se impugnabili le eventuali delibere successivamente assunte.
Per l'amministratore non ci sono particolari complicazioni allorché l'assemblea sia convocata, ad esempio, presso la sua l'abitazione. Potrebbe al contrario essere fonte di problemi nel caso in cui la convocazione venga fissata in un posto dove egli, all'ora indicata, potrà difficilmente essere presente (si pensi ad una riunione da tenersi in un ambiente esterno all'abitazione o allo studio dell'amministratore, o al condominio, alle 3 di notte). Questo quanto emerge dalla riforma del condominio e dall'analisi della giurisprudenza.
Di prassi la prima convocazione dell'assemblea condominiale viene fissata in orari particolari (es.: in notturna o alle prime luci dell'alba), di modo che vada deserta e così, nell'adunanza di seconda convocazione, si possano assumere decisioni con maggioranze più basse. Ciò posto, viene da chiedersi: è legittimo tutto questo? E come si pone detta prassi con le novità introdotte dalla riforma riguardo la redazione del processo verbale e le annotazioni da effettuarsi nel registro dei verbali delle assemblee?
Iniziamo subito col dire che, al primo quesito, la giurisprudenza ha dato risposta positiva.
La Cassazione ha osservato, infatti, che «in mancanza di una norma che disponga il contrario, non esistono limiti di orario alla convocazione di un'assemblea condominiale; né la fissazione dell'assemblea in ora notturna può ritenersi completamente preclusiva della possibilità di parteciparvi» (sent. n. 697/00).
Detto questo, resta da vedere come la prassi di riunire l'assemblea in prima convocazione in orari particolari si concili con le novità introdotte dalla riforma; novità che –come accennato– sono due. La prima è costituita dalla modifica recata all'art. 1136, ultimo comma, c.c., in conseguenza della quale la redazione del «processo verbale» deve dar conto, adesso, delle «riunioni» e non più delle «deliberazioni» dell'assemblea. La seconda riguarda l'obbligo, posto a carico dell'amministratore, di curare –ex art. 1130, n. 7, c.c.– la tenuta del registro dei verbali delle assemblee in cui annotare «le eventuali mancate costituzioni» dell'organo assembleare.
Tale nuova cornice giuridica rende, all'evidenza, non più attuale l'orientamento assertore dell'inesistenza di un obbligo di redigere uno specifico verbale attestante l'esperimento a vuoto della riunione in prima convocazione.
Orientamento secondo cui, ai fini della validità dell'assemblea riunita in seconda convocazione, era sufficiente che nel verbale di quest'ultima venisse dato conto della prima infruttuosa convocazione (per completa diserzione oppure per insufficiente partecipazione) e che basava il suo assunto, in particolare, sulla mancanza di una precisa prescrizione in materia, tale non essendo –secondo i sostenitori di questa tesi– l'ultimo comma del citato art. 1136, il quale, nella sua originaria formulazione, stabiliva –come visto– che il processo verbale dovesse avere ad oggetto, non lo svolgimento dell'assemblea, ma solo eventuali «deliberazioni» assunte dalla stessa (Cass. sent. n. 3862/96).
Le modifiche di cui si è detto valorizzano, invece, il diverso orientamento che già prima che intervenisse la riforma considerava sempre necessaria la redazione del verbale d'assemblea costituendo detta redazione una delle prescrizioni di forma da osservare «al pari delle altre formalità richieste dal procedimento collegiale (avviso di convocazione, ordine del giorno, costituzione, discussione, votazione ecc.)»; pena: «L'impugnabilità della delibera, in quanto non presa in conformità alla legge» (Cass. sent. n. 5014/1999) (articolo ItaliaOggi del 25.04.2013).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATASul decoro architettonico giudizio discrezionale.
RISCHIO GIURIDICO/ Quasi impossibile mettersi al riparo dalla possibilità di un contenzioso: occorrerebbero l'unanimità o l'usucapione ventennale.
Il «decoro architettonico» è un'arma a doppio taglio. Da una parte il concetto viene usato per impedire che a un condomino salti in mente di rovinare la facciata del palazzo; dall'altra rappresenta il veicolo ideale per mettere in atto veti incrociati che blocchino qualsiasi intervento migliorativo del proprio appartamento che abbia un effetto anche esterno, dalle fioriere alle persiane, dalle tende da sole al nuovo parapetto del terrazzo.

La sentenza 24.04.2013 n. 10084 commentata ieri sul Sole 24 Ore conferma un'importante distinzione: a parlare di «aspetto architettonico» è l'articolo 1127 del Codice civile, dedicato alle sopraelevazioni; mentre di «decoro architettonico» si parla all'articolo 1120, che regola invece le innovazioni.
L'articolo 1127 non è stato toccato dalla riforma della legge 220/2012 e, al comma 3, recita: «i condomini possono altresì opporsi alla soprelevazione se questa pregiudica l'aspetto architettonico dell'edificio (...)».
Quindi, parlando della costruzione di un altro piano sopra l'ultimo, bisogna ricordare la sentenza 1025/2004, che dice: «per accertare se una sopraelevazione pregiudica, a mente dell'articolo 1127 Codice civile, l'aspetto architettonico di un edificio, ciò che conta non è l'esistenza, in quest'ultimo, di particolari pregi artistici, ma semplicemente l'esistenza di uno stile architettonico ovvero di determinate linee estetiche»: una volta che il nuovo ultimo piano è stato realizzato rispettando lo stile architettonico di quelli sottostanti, la sopraelevazione è salva.
Ben diverso è il discorso delle innovazioni di cui all'articolo 1120 del Codice civile: si tratta dei casi più frequenti. L'articolo 1120 dice al comma 2 (anch'esso rimasto identico dopo la riforma, solo che ora è il comma 4): «Sono vietate le innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico (...)».
È proprio il concetto di decoro architettonico a essere più restrittivo perché le innovazioni sono i mutamenti «diretti al miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni»: una definizione che di fatto comprende qualsiasi opera. Tra l'altro, ogni condomino può agire in giudizio per la tutela del decoro architettonico della proprietà comune, come ha ribadito la Cassazione (sentenza 14474/2011).
Il problema è quindi individuare cosa sia il «decoro architettonico»: ebbene, non lo si chieda alla Cassazione, la quale (sentenza 10350/2011) ha affermato che (nel caso dell'installazione in facciata di una canna fumaria per lo smaltimento fumi di una pizzeria) la questione si risolve in un apprezzamento discrezionale, istituzionalmente demandato al giudice di merito.
Quindi un'innovazione, anche piccola, è a rischio: e non ci si salva certo con una delibera a maggioranza che la approvi. Le solo strade sono una delibera all'unanimità o che sia dimostrabile che siano trascorsi almeno vent'anni dalla realizzazione dell'intervento.
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L'iniziativa
La riforma del condominio è a meno di due mesi dall'entrata in vigore. Le criticità sono emerse e insieme a esse la necessità di intervenire prima dell'entrata in vigore, per evitare il rischio che la riforma parte zoppa. Per questo Il Sole 24 Ore ha lanciato l'iniziativa di «correggere la riforma». Hanno risposto praticamente tutte le associazioni di condomini e amministratori e gli ordini interessati: Agiai, Alac, Anaci, Anaip, Anammi, Anapi, Apac, Apu, Arai, Arpe-Federproprietà, Assocond, Asppi, Assoedilizia-Confedilizia, Confabitare, Confappi-Fna, Confiac, Gesticond, Mapi, Ordine degli avvocati di Milano, Consiglio notarile di Milano, Unai, Unioncasa-Confai e Uppi.
Con le associazioni è stata elaborata una proposta di modifica tecnica della legge 220/2012 che verrà presentata in un convegno, trasmesso in streaming in tutta Italia, il 22 maggio. La proposta sarà presentata in Parlamento da deputati e senatori che hanno già partecipato alla stesura della riforma e che hanno dato la loro disponibilità ai correttivi elaborati dal Sole 24 Ore con le associazioni (articolo Il Sole 24 Ore 26.04.2013).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATALo stile del condominio non protegge la «bruttura». Opera illecita anche se conforme alle caratteristiche dell'edificio.
La Corte di cassazione boccia l'opera architettonica che costituisce una «bruttura dal punto di vista estetico», anche se questa è realizzata «seguendo il medesimo stile architettonico utilizzato nella realizzazione dell'edificio».

Il principio è contenuto nella sentenza 24.04.2013 n. 10084, che richiama le ragioni che stanno dietro le parole «decoro architettonico» e «aspetto», di volta in volta usate dal legislatore in varie norme.
La sentenza ribalta la decisione dei giudici della Corte d'appello, che avevano dato ragione al proprietario di un attico, che aveva realizzato sulla terrazza un nuovo corpo di fabbrica. Secondo il condomino, «il nuovo manufatto non costituiva una stonatura rispetto all'unitarietà dell'edificio stesso». Questa tesi veniva motivata con il fatto che il nuovo corpo di fabbrica aveva lo stesso stile architettonico del palazzo.
Ma la Cassazione ha accolto il ricorso del condominio, secondo cui in base al principio dello stile architettonico si corre il rischio che i singoli condòmini realizzino vere e proprie «brutture».
«La nozione di aspetto architettonico di cui all'articolo 1127 del Codice civile –spiega la Cassazione– non coincide con quella di decoro di cui all'articolo 1120 (più restrittiva): l'intervento edificatorio quindi dev'essere decoroso (rispetto allo stile dell'edificio) e non deve rappresentare comunque una rilevante disarmonia rispetto al preesistente complesso tale da pregiudicarne le originarie linee architettoniche».
Il quadro normativo su cui s'innesta la sentenza considera le innovazioni non influenti sull'aspetto architettonico, inteso come stile e quindi come caratteristica principale con cui la costruzione si presenta a chi la guardi. Le innovazioni, normalmente di minore consistenza rispetto alle sopraelevazioni, assumono rilievo e sono vietate dal secondo comma dell'articolo 1120 del Codice civile solo se incidono sull'equilibrio delle forme e quindi sulla simmetria o sulla proporzione tra le varie parti influenti sull'estetica dell'edificio.
È però consentito ai regolamenti di condominio adottare una nozione più rigorosa e di imporre divieti anche assoluti di ogni modifica esterna. In tale modo i condomìni interessati si danno una regola particolare, che ovviamente molto li vincola e che talvolta può risultare anche eccessiva, in ragione del mutare delle esigenze soggettive e anche dell'evoluzione della tecnica.
Di tali implicazioni non sembra che la recente riforma del condominio si sia fatta carico.
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L'iniziativa
La riforma del condominio è a due mesi dall'entrata in vigore. Le criticità sono emerse e insieme a esse la necessità di intervenire prima dell'entrata in vigore, per evitare il rischio che la riforma parte zoppa.
Per questo Il Sole 24 Ore ha lanciato l'iniziativa di «correggere la riforma». Hanno risposto praticamente tutte le associazioni di condomini e amministratori e gli ordini interessati: Agiai, Alac, Anaci, Anaip, Anammi, Anapi, Apac, Apu, Arai, Arpe-Federproprietà, Assocond, Asppi, Assoedilizia-Confedilizia, Confabitare, Confappi-Fna, Confiac, Gesticond, Mapi, Ordine degli avvocati di Milano, Consiglio notarile di Milano, Unai, Unioncasa-Confai e Uppi (articolo Il Sole 24 Ore del 25.04.2013).

CONDOMINIO: La Corte di Cassazione su effetti e limiti dei lavori di sopraelevazione dell'immobile.
Edifici, il decoro prima di tutto. L'intervento conforme all'aspetto può essere lesivo.
Le nozioni di decoro e aspetto architettonico sono diverse, ma la prima ha un contenuto più restrittivo della seconda, con la conseguenza che un intervento giudicato lesivo del decoro di un edificio non può al tempo stesso essere valutato conforme all'aspetto architettonico del medesimo.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 24.04.2013 n. 10048.
Nel caso in questione i giudici di legittimità hanno infatti cassato la sentenza di merito che, pur avendo accertato la lesione del decoro architettonico dell'edificio conseguente alla sopraelevazione realizzata da un condomino, aveva però ritenuto che la stessa non avesse violato anche l'aspetto architettonico del fabbricato, rilevante ai sensi dell'art. 1127 c.c., essendosi mantenuta all'interno dello stile proprio dell'immobile.
Sopraelevazione e aspetto architettonico dell'edificio. La sopraelevazione consiste in un'aggiunta quantitativa in senso verticale alla volumetria dell'edificio. In particolare si può parlare di sopraelevazione nel caso di opere che comportino lo spostamento in alto della copertura del fabbricato, in modo da occupare lo spazio sovrastante e superare l'originaria altezza dell'edificio. La nozione di sopraelevazione non va pertanto limitata alla costruzione di nuovi piani dell'edificio, ma si estende a ogni intervento che comporti l'innalzamento della copertura del fabbricato.
Così, per esempio, la trasformazione della soffitta o del sottotetto non abitabili in un piano abitabile, mediante la modifica della pendenza del tetto della vecchia soffitta, con una migliore utilizzazione dello spazio ricavato, configura una mera modifica interna. Al contrario, l'opera riguardante una soffitta inabitabile trasformata in appartamento, con l'aumento dell'altezza media da uno a tre metri e la realizzazione di un nuovo tetto con unico spiovente in sostituzione di quello preesistente a doppia falda, è da considerare come costruzione di un nuovo piano. Se nel realizzare detta parte aggiuntiva del fabbricato viene adottato uno stile diverso da quello della parte preesistente dell'edificio, normalmente si determina anche un mutamento peggiorativo dell'aspetto architettonico complessivo, percepibile da qualunque osservatore.
Di conseguenza, il condomino che sopraeleva non può mutare l'aspetto architettonico del fabbricato, costruendo per esempio un piano in stile moderno (con materiali di recente introduzione sul mercato) su un edificio di stile classico o neoclassico. Il pregiudizio dell'aspetto architettonico quindi può consistere in una diminuzione del valore dell'immobile per la diversità della linea architettonica o dei materiali utilizzati, così come per l'altezza dei nuovi piani, che sia completamente diversa rispetto a quelli preesistenti, oppure ancora per il tipo di infissi (colore, forma ecc.).
Aspetto architettonico e decoro architettonico: le differenze. Come detto, l'art. 1127 c.c., dettato in materia di sopraelevazione, obbliga il condomino a seguire l'aspetto architettonico dell'edificio. Diversamente, in tema di limiti alle innovazioni, l'art. 1120 c.c. parla di decoro architettonico. Si tratta dello stesso concetto o di due nozioni differenti? La giurisprudenza, con particolare riferimento alla predetta recente pronuncia della Suprema corte, risponde negativamente.
Per decoro architettonico del fabbricato, infatti, deve intendersi l'estetica data dall'insieme delle linee e delle strutture dell'edificio. L'alterazione di tale decoro può verificarsi alla realizzazione di opere che mutino l'originario aspetto anche soltanto di singoli elementi o punti del fabbricato tutte le volte che il cambiamento sia tale da riflettersi sull'insieme dell'estetica dello stabile. Dal decoro architettonico deve essere quindi tenuto distinto l'aspetto architettonico: mentre, infatti, il primo è una qualità positiva dell'edificio, derivante dal complesso delle caratteristiche architettoniche principali e secondarie, con il secondo l'accento viene posto sulla conservazione dello stile complessivo dell'immobile.
La distinzione non è priva di rilievo pratico: la modifica strutturale di una parte anche di modesta consistenza dell'edificio, infatti, pur non incidendo normalmente sull'aspetto architettonico, può comportare il venir meno di altre caratteristiche influenti sull'estetica dell'immobile e, dunque, sul decoro architettonico del medesimo. La lesione del decoro architettonico, poi, è denunziabile anche ove incida su caratteristiche dei beni comuni (mentre la sopraelevazione e l'aspetto architettonico riguardano opere realizzate nelle parti esclusive). È vero, però, che per essere legittimamente portata a termine l'opera di sopraelevazione deve rispettare entrambe gli aspetti sopra citati: in questi casi non basta quindi che siano osservati soltanto i canoni inerenti all'aspetto architettonico, ma anche quelli attinenti al decoro dell'edificio.
In quali casi non può essere contestata la violazione dell'aspetto architettonico dell'edificio. La violazione dell'aspetto architettonico consiste in un'incidenza di particolare rilievo della nuova opera sullo stile architettonico dell'edificio che, essendo immediatamente apprezzabile da parte di persone di media preparazione culturale, si traduce in una diminuzione del pregio estetico ed economico del fabbricato. Quindi, il giudizio relativo all'impatto della sopraelevazione sull'aspetto architettonico dell'edificio va condotto avendo esclusivo riguardo alle caratteristiche stilistiche facilmente percepibili: in altre parole, se le la nuova opera è assolutamente invisibile ai terzi o visibile solo da notevole distanza dal caseggiato, la stessa non è contestabile.
In ogni caso i condomini possono opporsi alla sopraelevazione eseguita dal condomino dell'ultimo piano sul suo terrazzo a livello, o lastrico solare, che pregiudichi le caratteristiche architettoniche dell'edificio e, se eseguita, ne possono chiedere l'abbattimento e il risarcimento del danno. Ma la relativa azione, posta a tutela dei proprietari esclusivi del piano sottostante, comproprietari delle parti comuni, si prescrive per il mancato esercizio ventennale (articolo ItaliaOggi Sette del 24.06.2013).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAAttenzione al decoro degli edifici, il manufatto che non lo rispetta va abbattuto!
Il manufatto realizzato sopra l’ultimo piano di un condominio che non rispetti il “decoro architettonico” va demolito, anche se compatibile con l’aspetto architettonico complessivo dell’edificio.

È il principio stabilito dalla Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 24.04.2013 n. 10048.
Nel caso in esame, i giudici della Corte d’Appello avevano deciso che il manufatto costruito su una terrazza di un edificio condominiale anche se indecoroso non andava abbattuto poiché rispettava lo stile architettonico del palazzo.
Di avviso contrario la Suprema Corte, secondo la quale la nozione di decoro architettonico (art. 1120 del Codice Civile) è più restrittiva e non coincide con quella di aspetto architettonico (art. 1127 del Codice Civile).
Pertanto, il corpo di fabbrica aggiunto alla preesistente costruzione, pur rispettando in linea di massima l’aspetto architettonico, va abbattuto se arreca un pregiudizio al decoro complessivo dell’edificio, tanto più se si tratta di un manufatto di significativa volumetria, ben visibile all'esterno e tale da alterare le linee originarie dell'intero stabile (16.05.2013 - tratto da www.acca.it).

CONDOMINIO: Riscaldamento, spese più eque. Tra le novità la stima del consumo dovuto a dispersione. Pubblicata l'ultima versione della norma tecnica Uni 10200/2013 sulla climatizzazione.
Maggiore trasparenza nella contabilizzazione del consumo di calore in condominio.
È stata, infatti, pubblicata la nuova versione della norma tecnica Uni 10200/2013, elaborata dall'Ente nazionale italiano di unificazione e disponibile a pagamento sul sito internet www.uni.com, che fornisce i criteri per una corretta ed equa ripartizione della spesa per la climatizzazione invernale e per l'acqua calda sanitaria nei condomini serviti da impianto termico centralizzato o da impianto di teleriscaldamento. L'aggiornamento messo a punto dall'Ente nazionale italiano di unificazione offre, quindi, maggiori garanzie ai condomini, permettendo di calcolare in maniera più evidente la ripartizione pro quota della spesa totale per il riscaldamento.
Il sistema della contabilizzazione del calore. La contabilizzazione del calore è un sistema che consente di calcolare il consumo di ogni appartamento in modo da operare il riparto delle spese comuni tra i singoli condomini in base al consumo che ciascuno di questi abbia effettivamente registrato.
In questi casi il problema principale da affrontare è quello del criterio da utilizzare per procedere a detta rendicontazione. Solitamente negli edifici con impianto centralizzato c.d. a distribuzione orizzontale si ricorre alla c.d. contabilizzazione diretta. In questo caso i contatori vengono collocati in corrispondenza del punto di ingresso in ciascuna unità immobiliare della derivazione dell'impianto di distribuzione centralizzato, in modo da poter conteggiare la quantità di calore prelevata da ciascun condomino. Viceversa, negli edifici con impianto c.d. a distribuzione verticale, che rappresentano la tipologia oggi più diffusa, si procede all'installazione di specifici ripartitori, che sono programmati in virtù delle caratteristiche e della potenza termica dei corpi scaldanti sui quali sono installati e che consentono in tal modo di determinare i consumi.
La nuova norma Uni 10200/2013. La nuova Uni introduce quindi una maggiore trasparenza nella gestione della contabilizzazione del calore perché prevede che nella prima stagione di attività dell'impianto il responsabile debba fornire agli utenti un prospetto previsionale della spesa totale per climatizzazione invernale e acqua calda sanitaria. Dal punto di vista tecnico, invece, la novità principale è rappresentata dalla stima del consumo involontario dovuto alle dispersioni della rete di distribuzione e che influiscono comunque sulla spesa totale da ripartire tra i condomini.
Attualmente le specifiche tecniche della norma Uni/Ts 11300 consentono di utilizzare i ripartitori per effettuare anche detta stima.
Tuttavia la nuova norma Uni 10200 consente in alternativa di effettuare un calcolo semplificato con l'utilizzo di coefficienti che attribuiscono valori prestabiliti al consumo involontario.
Un'altra novità riguarda poi i c.d. millesimi di riscaldamento, poiché la nuova norma Uni 10200 prevede che gli stessi possano essere ricondotti non solo ai millesimi di potenza termica installata, come previsto sino a ora, ma anche ai millesimi di fabbisogno di energia utile, calcolati secondo le specifiche della predetta norma Uni/Ts 11300 (articolo ItaliaOggi Sette del 15.04.2013).

CONDOMINIOÈ reato gettare oggetti dal balcone. Confermata la condanna di una vicina che rovesciava immondizia al piano di sotto.
La Corte di Cassazione, Sez. III penale, con sentenza 11.04.2013 n. 16459 (Presidente Squassoni, Relatore Gazzara), ha confermato la condanna penale di una condomina che sistematicamente utilizzava il balcone sottostante al proprio appartamento come pattumiera gettando sigarette, cenere e detersivi corrosivi come la candeggina.
Lo segnala l'agenzia Agire, specializzata nel Real Estate.
La condomina maleducata aveva fatto ricorso contro la sentenza del Tribunale di Palermo del 02.12.2011, che l'aveva dichiarata colpevole del reato previsto dagli articoli 81 e 674 del Codice penale per avere arrecato molestie a una vicina gettando «
nel piano sottostante ove si trovava l'appartamento di quest'ultima, rifiuti, quali cenere e cicche di sigarette, nonché detersivi corrosivi, quale candeggina» e l'aveva condannata alla pena di 120 euro di ammenda.
L'importanza della sentenza è proprio l'aver considerato l'azione della condomina un reato: per la precisione, quello di «getto pericoloso di cose», sanzionato dall'articolo 674 del Codice penale. Nella sentenza il Tribunale ha anche aumentato la pena a causa delle reiterazione del reato, per cui è stato applicato il capoverso dell'articolo 81 del Codice penale (si vedano i testi di legge qui accanto).
La condomina molesta aveva presentato ricorso per Cassazione. Il ricorso, però, è stato dichiarato inammissibile perché «la argomentazione motivazionale, adottata dal decidente in relazione alla concretizzazione del reato in contestazione e alla ascrivibilità di esso in capo alla prevenuta, si palesa logica e corretta». La Cassazione ha quindi ritenuto corretto l'inquadramento del comportamento della condomina nell'ambito del reato di «getto pericoloso di cose», che in alternativa all'ammenda prevede l'arresto sino a un mese.
Senza contare che a nessuno fa piacere venire giudicato penalmente. Va quindi considerata l'importanza, ai fini della deterrenza, di una sentenza che, confermata dalla Cassazione, ha punito con severità un comportamento che normalmente viene fatto passare come illecito civile, dando vita, al massimo, a un risarcimento, con i tempi eterni del rito civile e l'esborso di pochi euro.
Ben diverso è pagare magari lo stesso importo ma con la segnalazione sul certificato del casellario giudiziario. Da ultimo, la Cassazione ha anche condannato la ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma di 1.000 euro.
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LE NORME
Articolo 81. È punito con la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata fino al triplo (..). Alla stessa pena soggiace chi con più azioni od omissioni, esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette anche in tempi diversi più violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge. (...)
Articolo 674. Chiunque getta o versa, in un luogo di pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o di altrui uso, cose atte a offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero, nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti, è punito con l'arresto fino a un mese o con l'ammenda fino a duecentosei euro (articolo Il Sole 24 Ore del 17.04.2013).

CONDOMINIO: G. T. Gomitoni, Il “diritto” del condomino al distacco dall’impianto di riscaldamento dopo la Riforma (Immobili & proprietà n. 4/2013 - tratto da www.ispoa.it).

marzo 2013

CONDOMINIO: Sottotetto esclusivo.
Domanda
In base a quali elementi, in caso di dissapori, è possibile stabilire se un sottotetto di un edificio condominiale sia bene comune o parte privata esclusiva?
Risposta
Quello proposto è un tema che spesso costituisce oggetto di divergenze fra condomini e in ordine al quale si è pertanto formata una significativa giurisprudenza anche a livello di Corte di cassazione. In effetti, anche di recente la suprema corte si è dovuta occupare di un contenzioso di questo tipo e lo ha risolto (sent. 12840/2012) confermando le sentenze dei primi due gradi di merito ma, soprattutto, ribadendo e richiamando il consolidato orientamento formatosi presso di essa. In pratica, il principio di diritto da seguire è che l'appartenenza del sottotetto (e, nel caso da ultimo esaminato, anche di una terrazza, entrambi condominiali) va determinata in base al titolo di provenienza.
In mancanza o nel silenzio di questo, non essendo il sottotetto compreso nel novero delle parti comuni dell'edificio essenziali per la sua esistenza o necessarie all'uso comune (art. 1117 c.c.) la presunzione di comunione ai sensi del predetto articolo è applicabile solo nel caso in cui il vano, per le sue caratteristiche strutturali e funzionali, risulti oggettivamente destinato all'uso comune o a un servizio di interesse condominiale. Nel caso, oggetto della sentenza, ciò è stato escluso, considerato che dalle verifiche compiute si era anche rilevato che l'appartamento era collegato al sottotetto, non abitabile, da una scala interna e che a quest'ultimo non si poteva accedere da altro ingresso.
Pertanto, in casi come questo i giudici sono ormai soliti valorizzare la funzione del sottotetto di mera camera d'aria, volta a proteggere l'appartamento sottostante dal caldo e dal freddo, escludendo la natura condominiale del bene (articolo ItaliaOggi Sette del 25.03.2013).

CONDOMINIORiforma del condominio. La delibera di nomina dovrà essere adottata con la maggioranza degli intervenuti e almeno 500 millesimi.
Rinnovo tacito per l'amministratore. Per allontanarlo occorrono la revoca o il diniego espresso dall'assemblea a fine mandato.
I DOCUMENTI/ Non è applicabile alla conferma automatica la regola di comunicare ogni volta i propri dati anagrafici.

La riforma del condominio prevede che «l'incarico di amministratore ha durata di un anno e si intende rinnovato per eguale durata» (articolo 1129, comma 10, primo periodo). In sostanza, una formula di compromesso fra chi voleva mantenere la durata di un anno e chi voleva invece portarla (fra cui il Senato, in prima lettura) a due. Ma, in pratica, cosa significa la formulazione della norma?
Punto di partenza dell'interpretazione è che la riforma conferma in un anno la durata (certa) dell'incarico di amministratore. Questo, salvo rinnovo (tacito). Salvo -quindi- che i condomini manifestino una volontà contraria a tale rinnovo. In sostanza, se l'assemblea condominiale non approvi una delibera di "diniego di rinnovazione" (mutuando l'espressione dalla normativa delle locazioni).
La delibera in questione dovrà essere adottata -deve ritenersi- con la stessa maggioranza prevista per la nomina e la revoca dell'amministratore (articolo 1136, comma 4) e quindi con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio: ciò, sia in prima che in seconda convocazione, dato il tenore -preciso e incondizionato: "sempre" approvate- della precitata disposizione di cui all'articolo 1136, e sempre fermi per la loro valenza generale (stesso articolo) i quorum costitutivi assembleari (rispettivamente, per la prima e seconda convocazione) di cui al primo (tanti condomini che rappresentino i due terzi del valore dell'edificio intero e la maggioranza dei «partecipanti al condominio») e al terzo comma (tanti condomini che rappresentino almeno un terzo del valore dell'intero edificio e un terzo dei «partecipanti al condominio») del medesimo articolo or ora citato. L'assemblea per la delibera di "diniego di rinnovazione", dal canto suo, potrà essere eventualmente convocata da (o a richiesta di) due condomini (articolo 66, comma 1, delle disposizioni di attuazione del Codice) e dovrà essere tempestivamente comunicata -e comunque, prima della scadenza annuale- all'amministratore (che, in ogni caso, potrà anche prenderne formalmente atto -quindi, a verbale- in sede di assemblea).
Non si ritiene automaticamente applicabile all'assemblea in parola (e, quindi, salvo espressa deliberazione favorevole e previo suo inserimento all'ordine del giorno dell'assemblea stessa) quanto previsto dal secondo periodo dell'articolo 1129, comma 10, e cioè la contestuale nomina -come in caso di revoca o dimissioni- di un nuovo amministratore: questo, per ragioni pratiche ma anche per tuziorismo, non prevedendolo espressamente la norma (che si limita, appunto, alla revoca o alle dimissioni). Al proposito, va infatti sottolineato che il "diniego di rinnovazione" è istituto del tutto diverso dalla "revoca", potendo solo la seconda intervenire anche nel corso del mandato, così come precisato -con l'espressione «in ogni tempo»- all'articolo 1129, comma 11.
Ancora, deve dirsi che non si ritiene applicabile al rinnovo tacito la disposizione che prevede che, «ad ogni rinnovo dell'incarico», l'amministratore condominiale comunichi i propri dati anagrafici e le altre informazioni di cui alla stessa disposizione (articolo 1129, comma 2). Ciò, naturalmente, sul presupposto che sia obbligo dell'amministratore -come si ritiene- comunicare senza ritardo a tutti i condomini ogni variazione che intervenga, nei dati e nelle informazioni fornite, in corso di mandato.
Per completezza, va ricordato che -nelle assemblee di cui s'è trattato, come in ogni altra- devono essere conteggiati fra gli intervenuti anche i conferenti delega, mentre il condomino proprietario di più unità immobiliari sarà da conteggiarsi in ragione di un intervenuto. Va pure ricordato, sempre in materia di assemblee, che i quorum costitutivi devono sussistere al momento della costituzione dell'assemblea, essendo ininfluente che alcuni condomini si allontanino ad assemblea in corso, fino anche ad abbattere il quorum necessario per il suo inizio (articolo Il Sole 24 Ore del 20.03.2013).

CONDOMINIOCondominio, la riforma gioca d'anticipo. Le regole saranno in vigore il 18 giugno ma già oggi si possono preparare delibere e documenti.
INTRECCIO NORMATIVO/ L'impatto sarà diverso a seconda che l'edificio sia dotato di un regolamento di tipo contrattuale o assembleare.

Applicazione delle disposizioni sulle parti comuni previste dall'articolo 1117 del Codice civile anche in situazioni come il supercondominio, in quanto compatibili
La riforma del condominio è già cominciata. O, meglio, consente di giocare d'anticipo. Le nuove regole entreranno in vigore il 18 giugno –fra tre mesi esatti–, ma fin da subito i proprietari di casa e gli amministratori possono cominciare a tenerne conto.
Vediamo qualche caso pratico. Chi vuole modificare la destinazione d'uso delle parti comuni, per esempio trasformando in parcheggio una parte del cortile o dando in affitto la vecchia portineria in disuso, farà bene a sbrigarsi, perché con la riforma servirà una maggioranza rafforzata –e più difficile da raggiungere– pari a quattro quinti dei condòmini e dei millesimi (si veda l'articolo a destra).
Chi sta pensando di installare i pannelli solari per produrre l'acqua calda destinata al proprio alloggio, invece, può già iniziare a informare l'amministratore, che avrà il tempo per suggerire eventuali alternative alla collocazione sul tetto o comunque per convocare l'assemblea e deliberare adeguate garanzie. E ancora, chi vorrebbe acquistare un impianto comune di videosorveglianza può iniziare a informarsi sui costi e a parlarne con gli altri condòmini: con la riforma il quorum scende (metà più uno degli intervenuti in assemblea che rappresentino metà del valore), mentre fino a oggi ci sono stati giudici che hanno chiesto l'unanimità.
L'incrocio tra la riforma e le vecchie regole del Codice civile del 1942 è in qualche modo inevitabile. Le nuove norme, infatti, si applicheranno in toto ai condomini costituitisi dal 18 giugno in poi, mentre per quelli già esistenti bisognerà coordinarle con le disposizioni regolamentari di ogni edificio, ferma restando la validità delle disposizioni "contrattuali", preparate a suo tempo dal costruttore e allegate al rogito o comunque adottate all'unanimità.
La necessità di muoversi per tempo, invece, deriva dal fatto che per sfruttare molte delle novità ci vogliono procedure complesse e tempi lunghi. Pensiamo alla possibilità di staccarsi dall'impianto di riscaldamento centralizzato. La norma è decisamente criticabile, perché non tiene conto delle direttive europee e delle disposizioni di settore per il risparmio energetico (tant'è vero che ne è già stata chiesta la modifica, si veda l'articolo in basso), ma è fuor di dubbio che chi vuole sfruttarla deve attivarsi adesso. Per arrivare in tempo alla prossima accensione autunnale degli impianti, un condòmino potrebbe intanto farsi predisporre da un tecnico una perizia per provare che dal suo distacco non derivano aggravi dei costi né squilibri di funzionamento per gli altri proprietari, informando nel frattempo l'amministratore perché lo comunichi nell'assemblea più vicina.
In altri casi è l'amministratore ad avere la possibilità di anticipare la riforma, così da non farsi cogliere impreparato. Per esempio, può redigere la tabella con i giorni e gli orari di ricevimento e organizzarsi per l'apertura di un conto corrente condominiale: due buone prassi già abbastanza diffuse, ma non adottate ancora da tutti. Inoltre, può convocare l'assemblea di fine mandato –ove possibile– per approvare i rendiconti e iniziare a informare i condòmini morosi che con la riforma sarà obbligato ad adire le vie legali entro sei mesi per il recupero crediti, con la possibilità di sospendere l'erogazione dei servizi in caso di gravi ritardi.
Altri adempimenti sono documentali, ma non per questo meno importanti. L'amministratore può senz'altro iniziare a raccogliere i dati dei condomini e dei documenti tecnico-amministrativi e a predisporre i quattro registri richiesti dalla riforma: registro dei verbali delle assemblee, di nomina e revoca dell'amministratore, di contabilità e di anagrafe condominiale. Non solo: potrebbe anche iniziare a informarsi sull'opportunità di proporre ai condòmini l'attivazione di un sito internet su cui pubblicare in modo tempestivo e trasparente le informazioni sulla gestione dell'edificio e sulle spese.
L'articolo 1117-bis sarà poi di grande aiuto per disciplinare il supercondominio, figura giuridica frequente nei complessi immobiliari costituiti da più edifici: in questi casi, se manca una specifica regolamentazione, si applicherà la normativa sul condominio, eliminando così ogni dubbio. E se i partecipanti sono più di 60, ogni condominio può già designare il proprio rappresentante (articolo Il Sole 24 Ore del 18.03.2013).

CONDOMINIORiforma del condominio/ Tabelle millesimali corrette a maggioranza. Ma la modifica è possibile senza assenso di tutti solo nei casi previsti dalla legge.
IL QUADRO/ La rettifica con consenso parziale è possibile per eliminare gli errori o per il cambio di condizioni dell'edificio.

La riforma del condominio interviene anche sulle tabelle millesimali. Il nuovo articolo 68 delle Disposizioni di attuazioni del Codice civile (riscritto dalla legge di riforma 220/2013) stabilisce che, ove non precisato dal titolo, ai sensi dell'articolo 1118 del Codice civile, il valore proporzionale di ciascuna unità immobiliare è espresso in millesimi in apposita tabella allegata al regolamento di condominio.
Ciò vale sia per l'accertamento (articolo 68) sia per la revisione o modificazione delle tabelle (articolo 69), sia per la ripartizione delle spese (articolo 1127 del Codice civile), sia per la partecipazione all'assemblea (articolo 1136).
La riforma del condominio è intervenuta con il nuovo articolo 69 stabilendo che: «I valori proporzionali delle singole unità immobiliari espressi nella tabella millesimale di cui all'articolo 68 possono essere rettificati o modificati all'unanimità. Tali valori possono essere rettificati o modificati, anche nell'interesse di un solo condomino, con la maggioranza prevista dall'articolo 1136, secondo comma, Cc, nei seguenti casi:
● quando risulta che sono conseguenza di un errore;
quando, per le mutate condizioni di una parte dell'edificio, in conseguenza di sopraelevazione, di incremento di superfici o di incremento o diminuzione delle unità immobiliari, è alterato per più di un quinto il valore proporzionale dell'unità immobiliare anche di un solo condomino. In tal caso il relativo costo è sostenuto da chi ha dato luogo alla variazione.
Ai soli fini della revisione dei valori proporzionali espressi nella tabella millesimale allegata al regolamento di condominio ai sensi dell'articolo 68, può essere convenuto in giudizio unicamente il condominio in persona del l'amministratore
».
La nuova normativa ha modificato sensibilmente la decisione delle Sezioni unite della Cassazione (sentenza n. 18477/2010). La Cassazione aveva infatti disatteso l'orientamento della giurisprudenza in base al quale per l'approvazione o la revisione delle tabelle millesimali è necessario il consenso di tutti i condomini (si veda l'articolo qui sotto). L'affermazione che la necessità dell'unanimità dei consensi dipenderebbe dal fatto che la deliberazione di approvazione delle tabelle millesimali costituirebbe un negozio di accertamento del diritto di proprietà sulle singole unità immobiliari e sulle parti comuni è in contrasto con quanto ad altri fini sostenuto nella giurisprudenza di legittimità, e cioè che la tabella millesimale serve solo a esprimere in precisi termini aritmetici un già preesistente rapporto di valore tra i diritti dei vari condomini, senza incidere in alcun modo su tali diritti.
Quando, poi, i condomini approvano la tabella che ha determinato il valore dei piani o delle porzioni di piano secondo i criteri stabiliti dalla legge non fanno altro che riconoscere l'esattezza delle operazioni di calcolo della proporzione tra il valore della quota e quello del fabbricato. Il valore di una cosa è quello che è, e il suo accertamento non implica alcuna operazione volitiva, ragion per cui il semplice riconoscimento che le operazioni sono state compiute in conformità al precetto legislativo non può qualificarsi attività negoziale.
Alla luce di quanto sopra esposto, le Sezioni unite della Corte suprema avevano quindi affermato che le tabelle millesimali non devono essere approvate con il consenso unanime dei condomini, essendo sufficiente la maggioranza qualificata di cui all'articolo 1136, comma 2.
Con la nuova norma (articolo 69, Disposizioni attuative Cc) le tabelle millesimali possono essere rettificate o modificate solo all'unanimità, salvo limitate e circoscritte ipotesi di revisione: a) nel caso di un errore; b) quando per le mutate condizioni di una parte dell'edificio, in conseguenza di sopraelevazione, di incremento di superfici o di incremento o diminuzione delle unità immobiliari, è alterato per più di un quinto il valore proporzionale dell'unità immobiliare. Con questa formulazione sono state eliminate le ipotesi di espropriazione parziale o di innovazione di vasta portata.
Infine va chiarito che gli errori rilevanti ai fini della revisione sono quelli obiettivamente verificabili, restando esclusa la rilevanza dei criteri soggettivi nella stima degli elementi necessari per la valutazione.
L'errore non coincide con l'errore vizio del consenso.
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L'iniziativa
01 | LE CORREZIONI DA FARE
Dalla doppia maggioranza per gli interventi di risparmio energetico, ai nuovi obblighi (alcuni irrealizzabili) degli amministratori, alla possibilità di "distaccarsi" dal riscaldamento centralizzato, al fondo condominiale obbligatorio per la straordinaria manutenzione, solo per citarne alcune
02 | LA MOSSA VINCENTE
Per evitare che gli errori del legislatore impediscano la riforma, Il Sole 24 Ore ha lanciato l'iniziativa di «correggere la riforma». Hanno risposto praticamente tutte le associazioni di condomini e amministratori e gli ordini interessati: Agiai, Alac, Anaci, Anaip, Anammi, Anapi, Apac, Arpe-Federproprietà, Assocond, Asppi, Assoedilizia-Confedilizia, Confabitare, Confai, Fna, Gesticond, Ordine degli avvocati di Milano, Unai e Uppi
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Gli altri casi. Le modalità di aggiornamento. Per gli «indici» contrattuali correzione all'unanimità.
IL VINCOLO/ Il regolamento interno non può prevedere la immodificabilità o la modifica a condizioni differenti da quelle di legge.

Per comprendere appieno la portata della sentenza di Cassazione n. 18477/2010 e delle modifiche apportate con la legge 220/2012 è necessario spiegare cosa si intenda per tabelle, come vengono calcolate e qual è la loro natura, ovvero se traggono la loro origine da un atto dispositivo o da una più semplice presa di coscienza di una valutazione tecnica.
Sappiamo che la funzione delle tabelle è quella di determinare i poteri e attribuire gli oneri relativi alla gestione del condominio. Anche il nuovo articolo 68 delle Disposizioni di attuazione del Codice civile prevede la quantificazione delle quote in «valori millesimali», soffermandosi non certo a spiegare o a determinare i criteri da utilizzare per addivenire a dette quote, bensì indicando quello di cui non va tenuto conto (canone locatizio, miglioramenti, stato di manutenzione di ciascuna unità immobiliare).
Quindi la determinazione viene lasciata ai tecnici che, partendo dai criteri indicati in una circolare del ministero dei Lavori pubblici (la 12480 del 1966 e la 2945 del 1993) con riferimento all'edilizia popolare, prendono in considerazione diversi elementi, come il coefficiente di destinazione della superficie (box, negozio, cantina, abitazione e altro), i coefficienti di luminosità, esposizione di piano eccetera. A ogni coefficiente si assegna un parametro che moltiplicati con i metri quadri dà un valore, cosiddetto "superficie virtuale" che poi viene tradotto in millesimi.
Il processo di calcolo sembra abbastanza semplice ma a complicarlo vi è il fatto che ogni tecnico spesso utilizza criteri diversi a cui assegna parametri differenti e, quindi, non è improbabile che una stessa unità immobiliare, senza subire variazioni di sorta, se valutata da due tecnici diversi, può essere rappresentata da valori che si discostano anche del 20 per cento.
Per poter comprendere se davvero le tabelle possono essere modificate all'unanimità o a maggioranza bisogna preventivamente stabilire se le stesse hanno un'origine negoziale, ovvero contrattuale, oppure sono un semplice atto di adesione a una valutazione esposta da un tecnico.
Le tabelle di natura contrattuale, ovvero quelle stabilite e sottoscritte da tutti i condomini in quanto frutto di espressa convenzione, non sono modificabili a maggioranza neppure dopo la sentenza del 2010. Esse hanno la stessa natura dei regolamenti contrattuali e quindi la loro modifica presuppone l'accettazione dell'intera compagine condominiale. La necessità, invece, di modificare le tabelle sopraggiunge nel caso di sopraelevazioni o di incremento di superfici (si pensi alla chiusura di un balcone o alla costruzione di un soppalco) o di incremento delle unità immobiliari (si pensi al recupero dei sottotetti o alla costruzione sotterranea di box) e in questo caso la sentenza della Cassazione è intervenuta affermando che era sufficiente la maggioranza, sempre che non si trattasse di tabelle di natura convenzionale.
Si ricordi, infine, che l'articolo 72 delle Disposizioni di attuazione, non modificato dalla legge di riforma, stabilisce che il regolamento di condominio non può derogare alle disposizioni del precedente articolo 69. Ciò significa che il regolamento di condominio non può prevedere l'immodificabilità delle tabelle millesimali né prevederne la modifica a condizioni differenti rispetto a quelle legislativamente stabilite
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.03.2013).

CONDOMINIORiforme. Basta l'80% dei consensi. In condominio arrivano piscine e campi da calcio.
La riforma del condominio (legge 220/2012) ha stabilito, in tema di modificazioni delle destinazioni d'uso, che per soddisfare esigenze di interesse condominiale l'assemblea, con un numero di voti che rappresenti i quattro quinti dei partecipanti al condominio e i quattro quinti del valore dell'edificio, può modificare la destinazione d'uso delle parti comuni (è il nuovo articolo 1117-ter). Una maggioranza comunque difficile da ottenere.
In questi casi la convocazione dell'assemblea deve essere affissa per non meno di trenta giorni consecutivi nei locali di maggior uso comune o negli spazi a tal fine destinati e deve effettuarsi mediante lettera raccomandata o equipollenti mezzi telematici, in modo da pervenire almeno venti giorni prima della data di convocazione. La convocazione dell'assemblea, a pena di nullità, deve indicare le parti comuni oggetto della modificazione e la nuova destinazione d'uso. La deliberazione deve contenere la dichiarazione espressa che sono stati effettuati gli adempimenti previsti.
Naturalmente la nuova normativa riguarda solo le modificazioni che siano legittime, che cioè corrispondono a esigenze di interesse condominiale. Non sono, quindi, consentite, se non all'unanimità, modifiche che siano finalizzate a soddisfare l'interesse particolare di un condomino o di un gruppo di condomini (Cassazione, sentenza n. 17397/2004). La nuova normativa non è –per esempio– applicabile alla trasformazione, anche solo parziale, del tetto dell'edificio in terrazza a uso esclusivo del singolo condomino (Cassazione, n. 5753/2007 e 24414/2006), Tra l'altro, il nuovo articolo 1117-ter stabilisce, altresì, che sono vietate le modificazioni d'uso che possono recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato o che ne alterano il decoro architettonico.
Limiti, questi, già sanciti dall'articolo 1120 (rimasto in vigore) che aggiunge, riguardo alle innovazioni, che «non devono essere rese talune parti dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino». Non si può, quindi, condividere qualsiasi interpretazione di diversificazione dei limiti e delle preclusioni tra innovazioni e modifiche di destinazione d'uso.
E, venendo all'applicazione pratica della nuova norma, si possono configurare alcune ipotesi: ad esempio, installazione di una piscina, di un campo di tennis o di calcio nell'area comune, la modifica della destinazione pertinenziale dei locali adibiti ad alloggio del portiere, l'accorpamento di più edifici in un unico condominio.
Riguardo alla tutela delle destinazioni d'uso il nuovo articolo 1117-quater prevede che, nel caso di attività che incidano negativamente e in modo sostanziale sulle destinazioni d'uso delle parti comuni, l'amministratore o i condomini, anche singolarmente, possono diffidare l'esecutore e possono chiedere la convocazione dell'assemblea per far cessare la violazione anche mediante azioni giudiziarie. La nuova norma è solo ricognitiva di quanto è già presente nella prassi condominiale.
L'unica effettiva modifica riguarda la facoltà di convocazione dell'assemblea attribuita al singolo (e non più a due condomini con 166,66 millesimi). D'altra parte, la giurisprudenza è costante nell'affermare che ciascun condomino è legittimato ad agire in giudizio per la tutela del bene che interessa la generalità dei condomini (Cassazione, sentenze 10717/2011, 7300/2010 e 3900/2010) (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.03.2013).

CONDOMINIORiforme da correggere. Una svista del legislatore rende necessario intervenire prima del 18 giugno.
Condominio, disabili penalizzati. Le nuove maggioranze rendono difficile eliminare le barriere.

Una delle conseguenze più imprevedibili (e probabilmente neppure davvero voluta dal legislatore) della riforma della disciplina sul condominio contenuta nella legge 220/2012 –che entrerà in vigore il 18 giugno– è l'elevazione della maggioranza prevista dall'attuale normativa per deliberare le innovazioni dirette a eliminare le barriere architettoniche negli edifici privati.
Si tratta di una previsione che di sicuro non trova alcuna valida giustificazione, eppure l'articolo 27 della legge di riforma modifica l'articolo 2, comma 1, della legge 09.01.1989, n. 13 e stabilisce, con un rinvio al nuovo comma 2 dell'articolo 1120 del Codice civile (il quale a sua volta, rinvia al secondo comma dell'articolo 1136), che l'assemblea condominiale delibera le innovazioni relative all'abbattimento delle barriere architettoniche negli edifici con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio. Invece l'originario (e ancora in vigore fino al 18 giugno) testo dell'articolo 2, comma 1, della legge 13/1989 ha consentito finora di approvare queste delibere, purché adottate in un'assemblea di seconda convocazione, con un numero di voti che rappresenti il terzo dei partecipanti al condominio e almeno un terzo del valore dell'edificio.
Se anche l'obiettivo fosse stato quello di rendere la maggioranza per eliminare le barriere architettoniche più omogenea a quelle previste da altre similari leggi speciali, come l'articolo 26 della legge 10/1991 sul risparmio energetico e l'articolo 2-bis, comma 13, della legge 66/2001 sugli impianti di radiodiffusione satellitare, questa non sembra proprio una valida ragione per elevare una maggioranza "agevolata" che risponde a una esigenza sociale e a un principio costituzionale, come è stato evidenziato dalle più recenti sentenze emesse dalla Corte di cassazione sull'argomento.
Infatti, con la sentenza n. 18334/2012 la Cassazione ha affermato che in generale i rapporti fra condomini devono essere informati al principio di solidarietà condominiale, secondo il quale la coesistenza di più appartamenti in un unico edificio implica di per sé il contemperamento dei vari interessi, e che quindi il principio di solidarietà condominiale trova applicazione, a maggior ragione, per la tutela dei diritti fondamentali dei disabili.
Con la precedente sentenza n. 2156/2012, relativa alla costruzione di un ascensore nella tromba delle scale con riduzione dei gradini, la Cassazione ha stabilito che nell'ambito della valutazione comparativa delle opposte esigenze (da un parte dei portatori di handicap a installare l'ascensore e dall'altra dei condomini a continuare a fruire nella sua interezza della scala, che viene ristretta senza però diventare inservibile), deve prevalere la prima, in conformità ai principi costituzionali della tutela della salute (articolo 32 della Costituzione) e della funzione sociale della proprietà (articolo 42).
Stando così le cose, non si comprende allora il motivo per cui il legislatore della riforma ha deciso di elevare l'attuale maggioranza proprio in un settore che coinvolge interessi talmente delicati e importanti.
Dovendo la nuova disciplina entrare in vigore fra poco più di tre mesi è allora auspicabile che la maggioranza sulle barriere architettoniche venga riportata al suo testo originario prima di quella data.
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01 | CORREGGERE È NECESSARIO
La riforma del condominio è a 100 giorni dall'entrata in vigore (prevista per il 18 giugno) e ormai è stata passata al microscopio da uffici studi ed esperti delle associazioni, studiosi, magistrati e avvocati. Le criticità sono emerse e insieme a esse la necessità di intervenire prima dell'entrata in vigore, per evitare il rischio che la riforma parte zoppa
02 | LA MOSSA VINCENTE
Per questo Il Sole 24 Ore ha lanciato l'iniziativa di «correggere la riforma», approfittando del periodo di "vacanza" di sei mesi concesso dalla norma (la legge 220/2012). Hanno risposto praticamente tutte le associazioni di condomini e amministratori e gli ordini interessati: Agiai, Alac, Anaci, Anaip, Anammi, Anapi, Apac, Arpe-Federproprietà, Assocond, Asppi, Assoedilizia-Confedilizia, Confabitare, Fna, Gesticond, Ordine degli avvocati di Milano, Unai e Uppi
03 | I PASSAGGI
Il primo passo è già stato fatto: l'iniziativa del Sole 24 Ore ha raccolto le adesioni del settore che, su invito del giornale, hanno già inviato le loro proposte di modifica. Compito del Sole è ora quello di elaborarle in un testo di modifica normativa agile e che risolva i problemi maggiori, quelli che davvero potrebbero impedire il decollo della riforma. Il testo sarà condiviso da tutte le associazioni e verrà presentato in maggio al nuovo Governo.
La presentazione
L'idea di «correggere la riforma del condominio» è maturata negli scorsi mesi e ieri è stata lanciata sulle pagine del Sole 24 Ore. I passaggi dell'iniziativa (illustrati qui accanto) prevedono alla fine un convegno, organizzato dal Sole 24 Ore, nel quale verrà presentato il disegno di legge, risultato degli sforzi collettivi del giornale e delle associazioni del settore (articolo Il Sole 24 Ore del 07.03.2013).

CONDOMINIOLe novità da salvare. Spazi più ampi per le iniziative dei singoli proprietari.
Impianti individuali nelle parti comuni.

Via libera per il singolo condomino o anche a un gruppo di loro all'installazione su parti comuni condominiali di impianti non centralizzati per la ricezione radiotelevisiva (le paraboliche) e per l'accesso a qualunque altro genere di flusso informatico, anche da satellite o via cavo.
Anche se la recente normativa favorisce espressamente la centralizzazione degli impianti di ricezione, non è certo impedito al singolo condomino di continuare ad avvalersi di una antenna individuale o di installarne una nuova: si tratta del principio di libera manifestazione del pensiero con ogni mezzo di diffusione previsto dalla Costituzione (articolo 21). Solo un regolamento condominiale di natura contrattuale può limitare tale facoltà.
Il nuovo articolo 1122-bis prevede anche la facoltà per il condomino di installare impianti di energia da fonti rinnovabili ad uso esclusivo su lastrici o su altra idonea superficie comune (si veda il Sole 24 Ore di ieri).
Tutti questi interventi, se rispettosi dei divieti di cui si è detto, possono essere eseguiti dal condomino senza necessità di preventiva autorizzazione da parte dell'assemblea e solo semmai sotto il suo vigile controllo. Attenzione però, perché se l'installazione dei nuovi impianti comportano delle modificazioni delle parti comuni, allora l'interessato ha l'obbligo di indicare all'amministratore il contenuto specifico degli interventi e le modalità con cui vuole porli in essere.
A questo punto l'assemblea, dopo aver preso atto delle modifiche che il condomino vuole apportare alle parti comuni, può prescrivere soluzioni alternative di esecuzione e imporre cautele a salvaguardia della stabilità, della sicurezza o del decoro architettonico. La relativa delibera deve essere assunta con l'elevata maggioranza di cui al quinto comma dell'articolo 1136 del Codice civile, cioè con il voto favorevole della maggioranza degli intervenuti in assemblea portatori di almeno e due terzi dei millesimi. La pratica condominiale insegna però che simili maggioranze sono difficilmente raggiungibili in assemblea, quindi al condomino resterà solo l'obbligo del rispetto dei più generali limiti impostigli dall'articolo 1102 in tema di uso particolare delle parti comuni (articolo Il Sole 24 Ore del 07.03.2013).

CONDOMINIOLe nuove regole. L'entrata in vigore il 18 giugno consente al Parlamento di evitare che la norma arrivi «zoppa» al traguardo.
Condominio, riforma da rivedere. Va risolto il caso delle due maggioranze su opere per il risparmio energetico.
Nella riforma del condominio sono tante le cose da cambiare (si veda la scheda qui a fianco) ma tra le sviste del legislatore sull'uso più o meno inteso delle parti comuni una è decisamente vistosa: alcune modifiche al Codice civile ora risultano in aperto contrasto con altri articoli dello stesso Codice che non sono stati toccati dalla riforma. In particolare, il nuovo articolo 1120, comma 2, punto 2, prevede che le innovazioni aventi a oggetto opere e interventi volti al contenimento del consumo energetico, quali la produzione di energia attraverso l'uso di fonti rinnovabili, da parte del condominio o di terzi, sul lastrico solare o su altra idonea superficie comune, sono disposte con la maggioranza di cui al secondo comma dell'articolo 1136: la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio.
Ma lo stesso legislatore è intervenuto a modificare l'articolo 26, comma 2, della legge 10/1991, che prevede, per gli stessi interventi, una maggioranza meno qualificata: quella degli intervenuti, che rappresenti un terzo del valore dell'edificio. Questa discrepanza così marcata potrebbe essere giustificata dal fatto che nel secondo caso la delibera condominiale si fonderebbe su un preventivo attestato di certificazione energetica o, comunque, su una diagnosi energetica che consentirebbe ai condomini di effettuare una scelta più precisa e ponderata. Va anche detto che in un caso, quello dell'installazione della termoregolazione, usando l'articolo 26 (nuovo comma 5) diventa possibile anche l'indispensabile variazione della ripartizione delle spese, questa volta con la maggioranza del 1120, comma 2. In ogni caso la mancanza di coordinamento rischia fortemente di ampliare i contrasti già esistenti in condominio.
Ma non è finita qui. Il nuovo articolo 1122-bis del Codice civile consente l'installazione di impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili, a servizio di singoli proprietari, sul lastrico solare e su ogni altra idonea superficie comune, oltre che, naturalmente sulle parti di proprietà esclusiva dell'interessato senza alcuna preventiva delibera assembleare al riguardo. Solo qualora detti interventi vadano a modificare delle parti comuni, l'interessato è tenuto a darne comunicazione all'amministratore, indicando le opere che intende eseguire e le relative modalità di esecuzione delle stesse.
Le differenze sono evidenti. Tutto si gioca sulle parole "innovazione" e "modifica" delle parti comuni, termini tra i quali il confine rimane molto labile, soprattutto perché il legislatore afferma nell'articolo 1120 che questi interventi siano di natura innovativa per poi, nell'articolo 1122-bis, ritenere che queste opere, qualora siano nell'interesse di un singolo proprietario, possano semmai apportare delle modifiche alle parti comuni. Ma come contemperare questa norma, che necessariamente prevede un uso della parte comune a proprio esclusivo vantaggio (i pannelli solari, si sa, occupano buona parte del tetto), con l'ultimo comma degli articoli 1120 e 1102, rimasti invariati? In particolare l'articolo 1120, ultimo comma, vieta di rendere «talune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino» e l'articolo 1102 stabilisce che ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non impedisca agli altri di farne parimenti uso. Tutto ciò è ovviamente impraticabile: l'installazione a favore di un singolo condomino di un impianto a pannelli solari sul tetto o sul lastrico condominiale finirà inevitabilmente con il compromettere pari uso di questa parte comune da parte di altro comproprietario.
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I temi più discussi
01|L'AMMINISTRATORE
L'amministratore dovrà avere un diploma delle superiori, la polizza Rc professionale e aver seguito un corso di formazione iniziale e quelli periodici. Ma, se ha già svolto questa funzione per almeno un anno nell'ultimo triennio, potrà fare a meno di diploma e corso di formazione iniziale. Se poi è uno dei condòmini, evita anche la Rc professionale e la formazione periodica. Tra i nuovi obblighi dell'amministratore c'è quello di chiedere il decreto ingiuntivo per i morosi, entro sei mesi dal consuntivo in cui sia indicata la spesa, e di redigere una contabilità trasparente, con registro di contabilità, riepilogo finanziario e nota esplicativa della gestione. I condòmini potranno verificare i giustificativi di spesa in ogni momento
02|LE DESTINAZIONI D'USO
La possibilità di «modificare» la destinazione d'uso delle parti comuni è una delle novità principali e apre la strada alla costruzione di box nel giardino o all'installazione di impianti di cogenerazione nei locali comuni. Ci vorrà l'80% dei condòmini e dei millesimi
03|I NUOVI IMPIANTI
Per decidere l'installazione di impianti (sull'intero edificio) di fonti rinnovabili, ricezione televisiva, videosorveglianza o per qualunque flusso informativo, occorre il consenso della maggioranza degli intervenuti all'assemblea, con almeno 500 millesimi. Gli impianti individuali sono sempre leciti, salvo il «decoro architettonico»
04|IL «DISTACCO»
Sancito per legge il diritto al «distacco» dal riscaldamento centralizzato, ma solo se non emergono notevoli squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condomini
05|ANIMALI
Non sarà più possibile vietare la detenzione di animali domestici con i regolamenti condominiali votati in assemblea
06|SCALE E ASCENSORI
Per scale e ascensori la suddivisione delle spese sarà calcolata solo per metà in base al valore millesimale e per l'altra metà esclusivamente in base al piano in cui si abita
07|IN ASSEMBLEA
Per l'assemblea in seconda convocazione ora ci vogliono almeno un terzo dei condòmini e dei millesimi, mentre prima questo minimo era richiesto solo per le delibere. Le impugnazioni delle delibere possono essere fatte solo dai condòmini assenti, dissenzienti o astenuti (articolo Il Sole 24 Ore del 06.03.2013).

CONDOMINIO: Condominio. Per i difetti di costruzione rispondono i proprietari
Non è sempre responsabile il condomino per i danni da cose in custodia, regolati dall'articolo 2051 del Codice civile. Infatti, risponde il proprietario, senza alcuna compartecipazione del condominio, per i danni ricollegabili ai difetti originari di progettazione o di esecuzione del lastrico solare, soprattutto se tollerati.

Questo principio è stato ribadito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 2840/2013.
La pronuncia riguarda un condomino –proprietario di una unità immobiliare posta all'ultimo piano e del sovrastante lastrico– che ha chiesto la condanna del condominio a eliminare il dissesto delle strutture del proprio appartamento provocate dalla mancata manutenzione del lastrico, o a rifondergli le spese sostenute a questo fine, oltre al risarcimento dei danni conseguenti alla mancata utilizzazione dell'immobile.
Il condomino ha ottenuto pronunce favorevoli nei primi due gradi di giudizio, ma la Cassazione ha ribaltato le sentenze di merito, accogliendo il ricorso presentato da altri condomini. La Suprema corte ha evidenziato che i giudici d'appello, nel condannare il condominio a sostenere la spesa necessaria per il rifacimento della parte esterna delle mura perimetrali e del lastrico solare, non hanno dato conto dell'effettiva origine dei danni. Anzi, secondo i giudici di legittimità, la corte d'appello ha deciso prescindendo dal concreto accertamento delle cause dei danni: vale a dire se fossero riconducibili anche a vizi costruttivi. Mentre proprio l'accertamento delle cause dei danni, secondo la Cassazione, guida l'attribuzione dell'onere economico.
Infatti, per i vizi riconducibili a vetustà e a deterioramento per difetto di manutenzione del lastrico solare trova applicazione l'articolo 1126 del Codice civile, che regola la ripartizione delle spese di riparazione fra i condomini. Invece, con riferimento alla responsabilità per i danni ricollegabili ai difetti originari di progettazione o di esecuzione, anche in sede di ricostruzione, del lastrico solare si applica l'articolo 2051 del Codice civile, con l'accollo delle spese al proprietario esclusivo, senza alcuna compartecipazione del condominio (articolo Il Sole 24 Ore del 04.03.2013).

febbraio 2013

CONDOMINIO: G. Benedetti, La responsabilità dell’amministratore per la sicurezza del condomìnio - Legge 11.12.2012 n. 220 (Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 2/2013 - tratto da www.ipsoa.it).

CONDOMINIORiforma forense. Il Cnf cambia linea sull'incompatibilità. Per l'avvocato è compatibile amministrare il condominio.
L'avvocato potrà continuare serenamente ad amministrare condomini.

Con il parere 20.02.2013 espresso dalla Commissione consultiva del Consiglio nazionale forense è stata ribaltata la risposta alla faq. n. 32 (poi scomparsa dal sito) sulla riforma forense.
L'accurata disamina della questione, che prendeva le mosse dall'articolo 18 della legge 247/2012, esclude l'incompatibilità in tutte le ipotesi in cui venga svolta l'attività di amministratore di condominio: anzitutto quella in cui sia un lavoro dipendente, dato che non si può instaurare un rapporto di questo tipo tra amministratore e condominio. Poi quella dell'assunzione della qualità di socio o amministratore di una società commerciale: il condominio è assimilabile alla figura del consumatore e quindi l'amministratore non potrà mai assumere tale qualifica.
L'amministratore è un mandatario, afferma la Commissione, quindi questo basta a escludere l'incompatibilità indicata nell'articolo 18 della legge 247/2012 relativamente all'esercizio di attività commerciale svolta in nome proprio o altrui: «l'amministratore, non agendo in proprio, non esercita nemmeno attività di impresa commerciale in nome altrui se è vero che nemmeno i mandanti l'esercitano».
Rimane il caso più frequente, quello dell'esercizio di lavoro autonomo svolta continuativamente o professionalmente. Secondo la Commissione, proprio perché l'attività «si riduce, alla fine, all'esercizio di un mandato con rappresentanza conferito da persone fisiche, in nome e per conto delle quali egli agisce e l'esecuzione di mandati, consistenti nel compimento di attività giuridica per conto ed (eventualmente) in nome altrui è esattamente uno dei possibili modi di svolgimento dell'attività professionale forense sicché la circostanza che essa sia svolta con continuità non aggiunge né toglie nulla alla sua legittimità di fondo quale espressione, appunto, di esercizio della professione».
Assoluzione piena, quindi, per gli avvocati amministratori condominiali, dopo che la precedente faq. n. 32 aveva suscitato una levata di scudi (si veda Il Sole 24 Ore del 19 febbraio scorso).
La Commissione ha anche approfondito la questione esaminando la riforma del condominio (legge 220/2012, che entrerà in vigore il 18.06.2013), chiarendo che non «ha innovato la figura dell'amministratore perché se ne ha ampliato, sotto certi profili, poteri e responsabilità, non ha trasformato l'esercizio della relativa attività in professione vera e propria, o quanto meno in professione regolamentata» (articolo Il Sole 24 Ore del 23.02.2013).

CONDOMINIORIFORMA FORENSE/ I legali fuori dal condominio. L'avvocato non può avere incarico di amministratore. Il Cnf ha aggiornato le faq sulla nuova legge professionale.
L'avvocato non può fare l'amministratore di condominio. E il responsabile delle avvocature degli enti pubblici deve essere un avvocato. La nuova legge professionale (n. 247/2012) esclude che il legale possa occuparsi della gestione dei fabbricati condominiali e impone che la responsabilità degli uffici legali interni a una amministrazione sia attribuita a un iscritto all'albo.
Lo chiarisce il Consiglio nazionale forense, che ha aggiornato le faq sulla riforma forense.
Il Cnf si occupa a tutto campo degli effetti della riforma, da ultimo con particolare attenzione sul regime delle incompatibilità.
Amministrazioni condominiali. La professione di avvocato è incompatibile con l'attività di amministratore di condominio, che è diventata attività di lavoro autonomo, svolta necessariamente in modo continuativo o professionale. A supporto della risposta negativa il Cnf richiama la nuova disciplina in materia di professioni regolamentate senza albo (legge n. 4/2013). Dal canto suo la riforma forense esclude che l'avvocato possa esercitare qualsiasi attività di lavoro autonomo svolta continuamente o professionalmente, fatte salve alcune eccezioni tassative. Tra queste non compare l'amministrazione dei condomini. Viene così modificata l'impostazione precedente a favore della compatibilità, motivata tra l'altro dal fatto che in assenza di un albo degli amministratori di condominio il professionista può svolgere le due attività permanendo sottoposto alle norme deontologiche degli avvocati (parere Consiglio nazionale forense 25.06.2009, n. 26).
Avvocati di enti pubblici. La legge di riforma fa salvi i diritti acquisiti degli avvocati già iscritti nell'elenco speciale dei dipendenti di enti pubblici. Alcune novità sono previste per le nuove iscrizioni. In particolare bisognerà adeguare il testo dei contratti individuali. Nel contratto di lavoro, infatti, si devono scrivere clausole a garanzia dell'autonomia e indipendenza di giudizio intellettuale e tecnica dell'avvocato. Inoltre l'ente pubblico deve prevedere la stabile costituzione di un ufficio legale nella propria pianta organica, con specifica attribuzione della trattazione degli affari legali dell'ente. A favore dell'avvocato si deve prevedere l'esclusiva della trattazione degli affari legali dell'ente a tale ufficio. Inoltre il capo dell'ufficio deve essere un avvocato iscritto all'elenco speciale. Infine l'avvocato responsabile deve esercitare i propri poteri in conformità con i principi della legge professionale.
Incompatibilità. Lo svolgimento della professione è incompatibile con la qualità di socio illimitatamente responsabile o di amministratore di società di persone, aventi quale finalità l'esercizio di attività di impresa commerciale, in qualunque forma costituite; è incompatibile con la qualità di amministratore unico o consigliere delegato di società di capitali, anche in forma cooperativa, e con la qualità di presidente di consiglio di amministrazione con poteri individuali di gestione. Sono previste delle eccezioni qualora l'oggetto della attività della società sia limitato esclusivamente all'amministrazione di beni, personali o familiari, e per gli enti e consorzi pubblici e per le società a capitale interamente pubblico.
Eccezioni. Tra le eccezioni alle incompatibilità la riforma elenca l'iscrizione nell'albo dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, nell'elenco dei pubblicisti e nel registro dei revisori contabili o nell'albo dei consulenti del lavoro. Inoltre è consentito l'esercizio della professione a docenti e ricercatori in materie giuridiche di università, scuole secondarie (pubbliche o private parificate), istituzioni ed enti di ricerca e sperimentazione pubblici. Per i docenti (professori ordinari e associati di ruolo) e ricercatori universitari a tempo pieno permane l'iscrizione nell'elenco speciale, con al precisazione che devono esercitare la professione nei limiti consentiti dall'ordinamento universitario (articolo ItaliaOggi del 13.02.2013 - tratto da www.corteconti.it).

CONDOMINIO: Regolamento quasi blindato. Per le modifiche la forma scritta è requisito essenziale. La Cassazione: non si cambia la destinazione d'uso dei locali solo con accordo unanime.
Le modifiche al regolamento condominiale devono essere effettuate per atto scritto perché, in mancanza, le stesse non possono considerarsi produttive di effetti. Il comportamento concludente osservato nel tempo dai condomini che non si siano mai opposti ad attività contrarie a un divieto regolamentare non può quindi mai comportare la modifica della relativa disposizione.
Il regolamento di natura contrattuale, inoltre, vincola tutti i condomini, compreso il comproprietario che sia anche l'originario costruttore dell'edificio ed estensore materiale dell'atto.

Sono questi i chiarimenti forniti dalla II Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 05.02.2013 n. 2668.
Il caso concreto. Nella specie un condomino proprietario di alcuni locali a piano terreno destinati ad autorimessa era stato citato in giudizio dall'amministratore che lamentava il mutamento della destinazione d'uso degli stessi, trasformati in comunità di alloggio per minori e anziani, nonostante un espresso divieto contenuto nel regolamento condominiale. Il proprietario si era difeso sostenendo sia che il regolamento non lo vincolasse, in quanto originario costruttore dell'edificio e materiale estensore dell'atto, sia che detto divieto, a fronte della tolleranza mostrata dalla compagine condominiale, dovesse ritenersi ormai del tutto venuto meno. Sia in primo che in secondo grado le eccezioni avanzate dal condomino erano però state ritenute infondate. Di qui la decisione del proprietario dei locali di presentare ricorso in Cassazione.
La decisione della Suprema corte. I giudici di legittimità, nel richiamare sul punto le conclusioni alle quali erano giunte le sezioni unite nella sentenza n. 943/99, pur riconoscendo vigente nell'ordinamento il principio generale della libertà di forme, hanno chiarito che la formazione del regolamento condominiale deve necessariamente avvenire in forma scritta, poiché il codice civile prevede (ancor più dopo la riscrittura dell'art. 1130 operata dalla legge di riforma n. 220/2012) che lo stesso sia allegato a un apposito registro.
A maggior ragione, dunque, le eventuali modifiche di quest'ultimo devono avvenire anch'esse per iscritto, anche perché se di natura assembleare esse risulteranno da apposite deliberazioni assembleari da trascrivere anch'esse nello specifico registro tenuto dall'amministratore, se di natura contrattuale le stesse comunque incideranno su diritti reali dei condomini relativi alle proprietà esclusive o alle parti comuni. Per questo motivo la Suprema corte ha rigettato il ricorso presentato dal condomino, condannandolo anche alle spese del giudizio di legittimità.
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La potestà del proprietario ha limiti.
È convinzione diffusa tra i condomini quella di essere padroni in casa propria nel senso, cioè, di essere liberi di realizzare nel proprio appartamento nuovi manufatti o modifiche interne o di potervi svolgere qualunque tipo di attività. Spesso, però, a prescindere dai divieti di legge in campo civilistico ed edilizio, possono esserci specifiche norme contrattuali del regolamento condominiale predisposto dal costruttore originario e accettate dai condomini nei relativi atti di acquisto che possono limitare le facoltà del singolo comproprietario all'interno delle proprietà esclusive.
• I limiti del regolamento: il divieto di opere interne o del mutamento di destinazione.
Se il regolamento contiene una clausola contrattuale che impedisce di compiere qualsiasi opera interna, il singolo condomino non può, per esempio, dividere l'abitazione in due unità immobiliari, riunire due appartamenti con costruzione di servizi e accessi nuovi, trasferire un bagno da un locale all'altro, costruire un locale deposito nel giardino ecc. Da notare che è possibile pure che una norma del regolamento consenta al singolo condomino di eseguire opere interne, del tipo di quelle sopra elencate, soltanto previa autorizzazione dell'assemblea dei condomini.
Una clausola siffatta, che sia stata accettata dall'intera collettività condominiale, pone un ostacolo alla realizzazione di opere interne che vale per tutti i condomini, i quali sono costretti a rivolgersi all'assemblea per ottenere un'autorizzazione in deroga. Che poi l'assemblea, con suo libero apprezzamento, possa consentire a un condomino e negare a un altro la realizzazione di una determinata opera è conseguenza naturale di un meccanismo che i condomini hanno accettato nel regolamento condominiale, rimettendo alla volontà dell'assemblea tutte le decisioni in proposito.
È anche frequente che clausole regolamentari di natura contrattuale prevedano un espresso divieto di mutare la destinazione d'uso delle proprietà esclusive del singolo condomino. L'obiettivo di tali divieti è quello di evitare un godimento e un uso dei servizi e delle parti comuni superiore alle facoltà del condomino che operi la trasformazione dell'immobile. In presenza di tali limitazioni, quindi, non è possibile, per esempio, il mutamento della destinazione dei locali posti nel sottotetto da uso soffitta in abitazione: è ovvio, infatti, che tale modifica comporterebbe non solo la predisposizione dei servizi essenziali di luce, acqua e gas, ma anche un maggior aggravio di costi per i servizi condominiali e un'alterazione dell'uso o del godimento degli stessi rispetto ai limiti della quota millesimale di spettanza del condomino che abbia trasformato in abitazione il sottotetto. E naturalmente il discorso può riguardare anche la trasformazione di negozi in abitazioni, ma anche l'operazione opposta, cioè la trasformazione di locali abitativi in negozi.
• Le attività vietate dal regolamento condominiale.
Se nel regolamento si vogliono vietare alcune attività ma si utilizzano espressioni generiche che mirano a precisare solo gli inconvenienti indesiderati, si rende necessario procedere a un'interpretazione delle relative clausole che spesso, però, è fonte di controversia destinata a sfociare in una vertenza giudiziaria. Tuttavia non sempre lo sforzo interpretativo risulta particolarmente impegnativo. Così, per esempio, se nel regolamento vi è il divieto di attività notturna, non sarà certo possibile aprire nello stabile una panetteria con annesso laboratorio, ma non si potrà pretendere di evitare la vendita al pubblico di pane durante il giorno. In ogni caso è opportuno che il regolamento, in apposita clausola, indichi, con specifica descrizione, il contenuto delle limitazioni che si intenda porre alle unità immobiliari che compongono l'edificio.
Così se una norma (contrattuale) del regolamento, oltre alla destinazione a privata abitazione, preveda la possibilità di destinare gli appartamenti solamente ad attività professionali, non sarà possibile utilizzare gli stessi come discoteca o come bar. Non è escluso però che nel regolamento del condominio vengano utilizzati entrambi i criteri di individuazione delle attività vietate (cioè quello della loro espressa elencazione, nonché quello del riferimento ai pregiudizi che si ha intenzione di evitare): in tal caso, secondo la giurisprudenza, deve ritenersi, da un lato, che l'elenco delle attività vietate non sia tassativo, dall'altro lato che tutte le attività specificamente indicate siano di per sé vietate, senza necessità di verificare in concreto l'idoneità a recare i pregiudizi sopra detti.
• I limiti della normativa condominiale.
La normativa condominiale di cui agli articoli 1117 e seguenti del codice civile prevede espressamente il divieto riferibile al singolo di porre in essere opere sulla proprietà esclusiva che determinino danni sulle parti comuni. Tale principio è stato confermato anche dalla recente legge di riforma del condominio n. 220/2012, che proibisce lavori nella proprietà del singolo condominio che danneggino le parti comuni dell'edificio o che determinino pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico dell'edificio. Il discorso, comunque, riguarda anche quelle parti normalmente destinate all'uso comune che siano state attribuite in proprietà esclusiva o destinate all'uso individuale (per esempio le terrazze a livello).
Inoltre il divieto non sembra riguardare unicamente le opere che siano eseguite nell'unità immobiliare di proprietà esclusiva (per esempio la modifica della parete interna di un appartamento che potrebbe intaccare il muro maestro comune), ma comprende anche le attività compiute nell'unità immobiliare esclusiva (come rumore, immissioni odorose ecc.). In ogni caso, prima di realizzare opere (o attività) che possano mettere in pericolo le parti comuni, deve essere preventivamente informato l'amministratore, il quale ne riferirà quanto prima in assemblea (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.03.2013).

gennaio 2013

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Furto in condominio agevolato da ponteggi: chi ne risponde?
La sentenza in commento si pone sulla scia di quello che può essere considerato un orientamento giurisprudenziale unanime e ormai consolidato in tema di responsabilità dell’impresa appaltatrice e del condominio nell’ipotesi di furto consumato da persone introdottesi in un appartamento attraverso i ponteggi installati per i lavori di restauro/manutenzione dello stabile.
Tale pronuncia si differenzia da quelle emesse fino a questo momento per la particolarità del caso concreto e per la conclusione a cui è giunta la Corte d’Appello.
Nel caso de quo, per la prima volta, la Corte d’Appello, sulla base di un’analisi delle circostanze fattuali condivisa anche dal Supremo Collegio, ha dato rilievo ad elementi mai considerati prima d’ora, per quanto normativamente previsti quale causa di esonero di responsabilità.
Trattasi del comportamento colposo del condomino vittima del furto consistente, nel caso de quo, sia nella mancata adozione di cautele nella conservazione dei gioielli poi rubati, circostanza che secondo i giudici avrebbe agevolato, o comunque non evitato, la commissione del furto, sia soprattutto nell’aver aderito alla delibera con la quale il condominio decideva di non installare sui ponteggi l’impianto antifurto perché ritenuto troppo costoso.
Quest’ultimo elemento, in particolare, è stato ritenuto prevalente e determinante ai fini della decisione, con conseguente esclusione di ogni responsabilità, non solo in capo all’impresa esecutrice dei lavori, ma anche del condominio.
Quest’ultimo, proprio in ragione della decisione assunta, avrebbe potuto essere considerato l’unico responsabile del furto, responsabilità che, ai sensi dell’art. 1227 c.c., sarebbe stata diminuita in ragione del comportamento colposo del condomino che non conservava adeguatamente i propri valori.
All’impresa esecutrice dei lavori invece, essendosi limitata ad eseguire un ordine impartitegli dal condominio–committente, non poteva comunque essere imputato alcun profilo di responsabilità.
Invece, nel caso specifico, l’adesione del condomino alla delibera condominiale ha finito per annullare la responsabilità del condominio in quanto il condomino, aderendo alla decisione del condominio di non installare sui ponteggi alcun impianto antifurto, si era assunto il rischio di poter subire un furto.
Brevemente il fatto.
L’attore esponeva di aver subito nella propria abitazione un furto, assumendo che l’esecuzione dello stesso fosse stata agevolata dalla presenza di un ponteggio posto sulla facciata condominiale dall’impresa incaricata di eseguire i lavori.
Convenne pertanto in giudizio sia il condominio sia l’impresa appaltatrice, invocandone la responsabilità, rispettivamente, ai sensi dell’art. 2051 e dell’art. 2043, e chiedendone la condanna in solido al risarcimento dei danni subiti.
Il Tribunale adito, applicati gli artt. 2043 e 2051, accoglieva la domanda attorea.
Proposto appello da parte del condominio e dell’impresa, la Corte d’Appello di Milano, in totale riforma della sentenza di primo grado, respingeva le domande proposte nei confronti degli appellanti.
Proponeva quindi ricorso in Cassazione l’attore in primo grado.
Il Supremo Collegio confermava in toto la decisione resa in secondo grado.
Vediamo ora gli orientamenti giurisprudenziali registrati in materia.
Tradizionalmente la giurisprudenza sia di merito sia di legittimità individua, nell’impresa appaltatrice, il soggetto responsabile in via principale ai sensi dell’art. 2043 c.c. e, nel condominio, il soggetto responsabile in via concorrente ai sensi dell’art. 2051 c.c.
Ovviamente, la responsabilità sia dell’impresa appaltatrice sia del condominio nei confronti del condomino è di tipo extracontrattuale, non essendo quest’ultimo parte del contratto di appalto stipulato direttamente tra il condominio e l’impresa esecutrice.
In particolare, la responsabilità dell’impresa appaltatrice è ravvisata qualora quest’ultima, trascurando le più elementari norme di diligenza e perizia e la doverosa adozione delle cautele idonee ad impedire l’uso anomalo delle impalcature, in violazione del principio del “neminen laedere”, abbia colposamente creato un agevole accesso ai ladri, ponendo così in essere le condizioni del verificarsi del danno
(cfr. ex multis: Appello Roma, Sez. III, 11.01.2011; Trib. Torino, Sez. IV, 23.07.2008; Cass. Civ., Sez. III, 23.05.2006, n. 12111; Cass. Civ., Sez. III, 12.04.2006, n. 8630; Cass. Civ., Sez. III, 11.02.2005, n. 2844; Cass. Civ. Sez. III, 10.06.1998, n. 5775; Cass., civ., Sez. III, 23.05.1991, n. 5840; Cass., civ., Sez. III, 24.01.1979, n. 539).
Dal punto di vista processuale,
il condomino che agisce per ottenere il risarcimento dei danni subiti in conseguenza di un furto deve dimostrare:
• l’evento dannoso, ovvero il furto subito e i danni conseguenti;
• la condotta colposa del danneggiante, consistente, ad esempio nella mancata adozione di idonee misure di cautela o nell’installazione di un sistema non conforme alle prescrizioni contrattuali;
• il nesso di causalità tra l’evento dannoso e la condotta colposa.

Dal canto suo,
l’impresa appaltatrice, per andare esente da responsabilità, deve fornire la prova di avere adottato tutte le cautele atte ad evitare che le impalcature divengano un agevole accesso ai piani per i ladri, e quindi idonee ad impedire una più facile esecuzione dei furti, nonché l’eventuale prova che i ladri non si siano serviti dei ponteggi per accedere all’appartamento del condomino vittima del furto.
Il condominio può essere, invece, chiamato a rispondere del danno patito dal condomino secondo un duplice titolo di responsabilità, ovvero sia quale custode del fabbricato ai sensi dell’art. 2051 c.c., sia per culpa in vigilando od in eligendo, allorché risulti che abbia omesso di sorvegliare l’operato dell’impresa appaltatrice oppure ne abbia scelta una manifestamente inadeguata per l’esecuzione dell’opera, oppure quando risulti che l’impresa sia stata una semplice esecutrice degli ordini del committente ed abbia agito quale “nudus minister” attuandone specifiche direttive (cfr., ex multis: Trib. Terni, 11.05.2011; Cass. Civ., Sez. III, 17.03.2009, n. 6435; Trib. Milano, Sez. X, 20.04.2006; Cass. Civ., 09.02.1980, n. 913).
Trattandosi di responsabilità di tipo oggettivo, l’onere probatorio a carico del condominio risulta in tal caso più gravoso.
Il condomino, infatti, dovrà limitarsi a fornire la prova del fatto e del danno subito, mentre il condominio si libererà solo fornendo prova del caso fortuito, inteso in senso lato e comprensivo, quindi, del fatto del terzo e della colpa esclusiva del danneggiato.
Tradizionalmente,
per riconoscere al condomino il diritto al risarcimento dei danni conseguenti al furto subito, i giudici, sia di merito sia di legittimità, hanno ritenuto sufficiente la dimostrazione dell’ingresso dei ladri nell’appartamento per mezzo dei ponteggi, della presenza dei ponteggi e dell’assenza di norme di cautela, ritenendo per contro irrilevanti eventuali comportamenti colposi realizzati dagli stessi condomini vittime di furti quali, ad esempio, l’aver lasciato aperte le finestre attraverso le quali erano penetrati i ladri, oppure l’aver lasciato incustoditi i beni di valore sottratti (Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 28.01.2013 n. 1890 - link a www.altalex.com).

CONDOMINIO: Furti, condominio incolpevole. Non c'è responsabilità quando il ladro usa l'impalcatura. La Cassazione: niente risarcimento se l'assemblea ha votato contro l'impianto di allarme.
Per il furto subito da un condomino nel proprio appartamento e che sia stato agevolato dai ponteggi installati per procedere ai lavori di manutenzione delle parti comuni non sono responsabili né l'impresa edile né il condominio ove risulti che in assemblea i condomini, compreso quello derubato, abbiano rinunciato a deliberare l'installazione di sistemi antifurto.

È il principio espresso dalla III Sez. civile della Corte di Cassazione che, nella recente sentenza 28.01.2013 n. 1890, si è occupata del problema della responsabilità del condominio e delle imprese nel caso di furto in appartamento favorito dalle impalcature erette per la ristrutturazione dello stabile condominiale.
I fatti di causa.
Questa la vicenda portata alla decisione della Cassazione: un condomino aveva subito il furto di preziosi custoditi nel proprio appartamento e il furto, come spesso accade, era stato agevolato dalla presenza di ponteggi installati da un'impresa per realizzare lavori di ristrutturazione dello stabile condominiale. Per quanto sopra il derubato aveva citato in giudizio sia il condomino sia l'impresa che aveva montato le impalcature, chiedendo che tribunale condannasse gli stessi al risarcimento dei danni subiti, cioè al rimborso di una somma pari al valore dei preziosi sottratti dall'abitazione.
La sentenza di primo grado aveva accolto i motivi del ricorrente, ma la stessa era stata impugnata dall'impresa e dal condominio che, in secondo grado, avevano vinto la causa. Secondo la Corte d'appello non era, infatti, stata provata la responsabilità dell'impresa. Secondo i giudici di secondo grado sebbene il condomino derubato avesse affermato che il furto si era verificato durante l'orario di lavoro e le tapparelle della stanza nella quale si trovavano i gioielli era bloccata, dalla ricostruzione dei fatti avvenuta in giudizio era emerso invece che la sottrazione dei preziosi si era prodotta oltre il termine di lavoro delle maestranze, mentre la tapparella era solo abbassata e priva di ogni sistema di blocco. Del resto era risultata la mancata adozione, da parte del condomino, di qualsiasi cautela idonea a evitare o a rendere più difficoltosa l'opera di eventuali ladri: i gioielli, infatti, non si trovavano in cassaforte, ma in una semplice scatola posta all'interno di un armadio della camera da letto.
La posizione della Cassazione.
Le precedenti considerazioni sono state pienamente condivise dalla Suprema corte che, in primo luogo, ha contestato l'assoluta genericità delle critiche mosse dal condomino nei confronti della decisione della Corte di appello. In ogni caso i giudici supremi hanno ritenuto corretta la decisione di merito non già perché il condominio e l'impresa avessero adottato tutti i provvedimenti necessari a evitare i furti, ma bensì perché vi era stata una delibera condominiale, a cui aveva assentito anche il condomino derubato, in cui per eccessiva onerosità l'assemblea aveva rinunciato all'installazione dei sistemi di allarme sul ponteggio.
Era stato, infatti, dimostrato che l'impresa aveva sollecitato l'installazione dell'antifurto proprio perché il ponteggio poteva facilitare l'ingresso di malintenzionati, ma l'assemblea condominiale non aveva aderito a tale richiesta. Il condomino ricorrente, inoltre, non aveva protetto adeguatamente i gioielli: infatti i preziosi rubati, nonostante l'ingente valore, erano contenuti in una scatola custodita nell'armadio e non in una cassaforte o in un blindato.
In ogni caso il ponteggio non era risultato pericoloso, né con caratteristiche volte ad agevolare l'intrusione di malintenzionati nell'appartamento del derubato (posto all'ottavo piano) (articolo ItaliaOggi Sette del 04.03.2013).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: TRASFERIBILITA' DEI PARCHEGGI CONDOMINIALI.
L’art. 41-sexies della legge urbanistica 17.08.1942 n. 1150, introdotto dall’art. 18 della L. 06.08.1967 n. 765, il quale dispone che nelle nuove costruzioni debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi, stabilisce un vincolo di destinazione, imponendo di riservare detti spazi ad uso diretto dei proprietari delle unità immobiliari comprese nell’edificio, e dei loro aventi causa.
Pertanto, sono nulle e sostituite ope legis dalla norma imperativa, ai sensi dell’art. 1419, comma 2, c.c., le clausole dei contratti di vendita che sottraggono le aree predette al loro obbligatorio asservimento all’uso ed al godimento dei condomini.
L’art. 12, comma 9, della L. 28.11.2005 n. 246, modificativo dell’art. 41-sexies della L. n. 1150/1942, in base al quale gli spazi per parcheggio possono essere trasferiti in modo autonomo rispetto alle altre unità immobiliari, non ha efficacia retroattiva e trova applicazione per le sole costruzioni non realizzate o per quelle per le quali, al momento della sua entrata in vigore, non erano ancora state stipulate le vendite delle singole unità immobiliari.

Con la sentenza in esame la Cassazione torna ad occuparsi del vincolo pertinenziale gravante sugli spazi per parcheggi realizzati in un edificio condominiale.
La vicenda trae origine dalla pretesa avanzata da alcuni condomini di un edificio, con area seminterrata destinata a superficie di parcheggio, nei confronti di una società immobiliare, la quale si era riservata la proprietà nonché l’uso esclusivo del seminterrato in questione, procedendo alla vendita delle singole unità abitative dell’edificio in via separata rispetto all’area accessoria di esso.
Accertato che il seminterrato era, in virtù della rilasciata licenza edilizia, destinato all’uso di parcheggio e che tale destinazione risultava permanente ai sensi della L. 06.08.1967, n. 765 e della L. 28.02.1985, n. 47, la controversia veniva decisa nel merito mediante la condanna della società immobiliare al risarcimento dei danni subiti dai condomini per il denegato uso del seminterrato a garage e mediante la dichiarazione di nullità delle clausole contenute nel regolamento di condominio e negli atti di compravendita, nella parte in cui, riservando la proprietà e l’uso esclusivo del seminterrato alla società immobiliare, avevano sottratto tale spazio alla sua inderogabile destinazione, escludendolo dalle operazioni di trasferimento.
Contro la decisione della Corte d’Appello la società immobiliare proponeva ricorso per Cassazione.
In particolare la società lamentava, per quanto qui di interesse, la mancata applicazione, al caso di specie, della normativa di cui all’art. 12, comma 9, L. 28.11.2005, n. 246, in base alla quale «gli spazi per parcheggi realizzati in forza della L. 17.08.1942, n. 1150, art. 41-sexies, comma 1 non sono gravati da vincoli pertinenziali di sorta né da diritti d’uso a favore dei proprietari di altre unità immobiliari e sono trasferibili autonomamente da esse», ritenendo che tale disciplina possa trovare applicazione anche nei giudizi già pendenti al momento dell’entrata in vigore della stessa, in cui non sia ancora stata definita una situazione giuridica con una pronuncia passata in giudicato.
E' noto come, secondo un costante orientamento, l’art. 41-sexies della L. n. 1150/1942, introdotto dall’art. 18 della L. n. 765/1967, disponendo che nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse debbano essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni venti metri cubi di costruzione (rapporto poi modificato dalla L. 24.03.1989, n. 122, che ha raddoppiato la superficie minima obbligatoria degli spazi riservati a parcheggio), ha posto in essere una norma imperativa ed inderogabile, in correlazione degli interessi pubblicistici da essa perseguiti, che opera non soltanto nel rapporto fra il costruttore o proprietario di edificio e l’autorità competente in materia urbanistica, ma anche nei rapporti privatistici inerenti a detti spazi, nel senso di imporre la loro destinazione ad uso diretto delle persone che stabilmente occupano le costruzioni o ad esse abitualmente accedono.
Ciò comporta, in ipotesi di fabbricato condominiale, che, qualora il godimento dello spazio per parcheggio non sia assicurato in favore del proprietario del singolo appartamento in applicazione dei principi sull’utilizzazione delle parti comuni dell’edificio o delle sue pertinenze, essendovi un titolo contrattuale che attribuisca ad altri la proprietà dello spazio medesimo, deve affermarsi la nullità di tale contratto nella parte in cui sottrae lo spazio per parcheggio alla suddetta inderogabile destinazione, e conseguentemente deve ritenersi il contratto stesso integrato ope legis con il riconoscimento di un diritto reale di uso di quello spazio in favore di detto condomino, salva restando la possibilità delle parti di ottenere, anche giudizialmente, un riequilibrio del sinallagma contrattuale (così, ad esempio, Cass., Sez. Un., 17.12.1984, n. 6602).
Tale orientamento non è mutato per effetto della entrata in vigore della L. 28.02.1985 n. 47, che, all’art. 26 ultimo comma ha stabilito che gli ‘‘spazi’’ di cui all’art. 18 cit. «costituiscono pertinenze delle costruzioni, ai sensi e per gli effetti degli artt. 817, 818 e 819 del codice civile». Secondo la Suprema Corte, tale disposizione «non ha portata innovativa, assolvendo soltanto alla funzione di conferire certezza testuale alle già evincibili regole secondo cui detti spazi possono essere oggetto di atti o rapporti separati, fermo però restando quel vincolo pubblicistico» (Cass. civ., sez. II, 17.12.1993, n. 12495).
In definitiva, pertanto, secondo l’orientamento consolidato «la norma richiamata istituisce fra costruzioni e spazi di parcheggio ad esse progettualmente annessi una relazione che ha connotazione di necessità e di indispensabile permanenza, di rilievo pubblicistico e con caratteristiche di realità, che, nell’ipotesi in cui la costruzione sia costituita da un fabbricato in condominio comporta che detti spazi ricadano fra le parti comuni dell’edificio condominiale ex art. 1117 c.c. quando appartengano in comunione a tutti i condomini, ovvero vengano a costituire oggetto di un diritto, reale, di uso spettante ai condomini medesimi quando la relativa proprietà competa a terzi estranei alla collettività condominiale o a uno solo dei componenti di questa»; «la normativa in discorso non vieta la negoziazione separata delle costruzioni e delle aree di parcheggio ad esse pertinenti, ma esclude che tale negoziazione possa incidere sulla permanenza del vincolo reale di destinazione gravante sulle aree cennate» (così Cass. civ., sez. II, 13.04.1998, n. 3422).
Come è noto, nel 2005 è intervenuto sul punto il legislatore, prevedendo che «Gli spazi per parcheggi realizzati in forza del primo comma dell’art. 41-sexies L. n. 1150/1942 non sono gravati da vincoli pertinenziali di sorta né da diritti d’uso a favore dei proprietari di altre unità immobiliari e sono trasferibili autonomamente da esse» (L. n. 246/2005).
La novità legislativa ha immediatamente suscitato un dibattito circa la sua applicabilità rispetto ai contratti già conclusi.
Nella sentenza che si commenta, la Suprema Corte si conforma alle sue precedenti pronunce sul punto, affermando che la nuova disposizione trova applicazione soltanto per il futuro, vale a dire per le sole costruzioni non realizzate o per quelle per le quali, al momento della sua entrata in vigore, non erano ancora state stipulate le vendite delle singole unità immobiliari; l’efficacia retroattiva della norma va pertanto esclusa (cfr. Cass. civ., sez. II, 24.02.2006, n. 4264; 13.01.2010, n. 378; 05.06.2012, n. 9090) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 24.01.2013 n. 1753 - tratto da Urbanistica e appalti n. 4/2013).

CONDOMINIO: Condominio. Le norme del regolamento. Decoro, ok a limiti più severi del Codice.
L'ECCEZIONE/ I vincoli di tipo contrattuale possono superare anche le previsioni di legge modificate dalla riforma.

Il regolamento condominiale può vietare qualunque alterazione del decoro architettonico dell'edificio purché sia di natura contrattuale.
Lo sottolinea la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, nella sentenza 24.01.2013 n. 1748.
Alcuni proprietari pro indiviso di un'unità immobiliare in un edificio, avevano citato in giudizio il proprietario di una costruzione limitrofa con giardino, sul quale era stata edificata una struttura in aderenza all'immobile di loro proprietà, sino all'altezza del lastrico solare. L'obiettivo era quello di ottenere la demolizione della struttura, perché questa aveva alterato il decoro architettonico del complesso edilizio, in violazione dell'articolo 1120 del Codice civile, della normativa del Regio decreto 1165 del 1938 e del regolamento condominiale.
Mentre il tribunale accoglieva la domanda, condannando il convenuto a demolire l'edificazione e a pagare le spese di lite, la corte di appello, con una decisione basata sull'articolo 1120 del Codice civile, escludeva la lesione del decoro architettonico dell'edificio, ritenendo che il manufatto vi si inserisse perfettamente, non solo perché riproduceva analoghe strutture, ma perché presentava la stessa tipologia di immagine, di materiali, di finiture e di colorazioni dell'intero complesso.
La Cassazione, nell'accogliere parzialmente il ricorso, ha invece stabilito che in materia di condominio «l'autonomia privata consente alle parti di stipulare convenzioni che pongano limitazioni, nell'interesse comune, ai diritti dei condòmini, sia relativamente alle parti comuni, sia riguardo al contenuto del diritto dominicale sulle parti di loro esclusiva proprietà, senza che rilevi che l'esercizio del diritto individuale su di esse si rifletta o meno sulle strutture o sulle parti comuni. Ne discende che legittimamente le norme di un regolamento di condominio –aventi natura contrattuale, in quanto predisposte dall'unico originario proprietario dell'edificio e accettate con i singoli atti di acquisto dai condomini ovvero adottate in sede assembleare con il consenso unanime di tutti i condomini– possono derogare od integrare la disciplina legale ed in particolare possono dare del concetto di decoro architettonico una definizione più rigorosa di quella accolta dall'articolo 1120 del Codice civile».
Questo principio, esposto in precedenti sentenze e ribadito nella sentenza 1748/2013, è sempre fatto salvo, nonostante la legge di riforma del condominio, nel modificare l'articolo 1122 del Codice civile, abbia disposto che, nell'unità immobiliare di sua proprietà o destinata all'uso individuale, il condòmino non può eseguire opere che danneggino le parti comuni o determino pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico dell'edificio.
Il richiamo allo stesso «pregiudizio» è previsto in altri due articoli di nuova formulazione: l'articolo 1117-ter (modifica delle destinazioni d'uso delle parti comuni), e l'articolo 1122-bis (installazione di impianti non centralizzati di ricezione radiotelevisiva e di produzione di energia da fonti rinnovabili). Poiché tutti gli articoli citati sono derogabili, il regolamento di condominio di natura contrattuale può riportare un concetto più o meno rigoroso di «decoro architettonico» al quale ogni condomino dovrà attenersi (articolo Il Sole 24 Ore del 18.02.2013).

CONDOMINIO: Il singolo condòmino ha la facoltà di eseguire opere che siano strettamente pertinenti alla sua unità immobiliare, sotto i profili funzionale e spaziale, con la conseguenza che egli va considerato come soggetto avente titolo per ottenere a nome proprio l’autorizzazione o la concessione edilizia relativamente a tali opere (vedansi, in particolare, gli articoli 1122 e 1127 del codice civile).
- Premesso:
Alla signora G., persona disabile proprietaria con il coniuge di due unità residenziali (5^ piano ed attico) nel condominio in via ... di Conegliano, venivano ingiunti dal comune la demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi per l’abusiva realizzazione al piano attico di un locale accessorio ad uso lavanderia-stenditoio (ordinanza 16.02.2006 n. 33-prot. 8098), in conseguenza del voto contrario all’esecuzione dei lavori espresso dall’assemblea condominiale.
Tale parere era motivato con richiamo all’art. 53 del regolamento edilizio, il quale consente la costruzione di locali accessori con un massimo di mc. 150 per fabbricato, da realizzare esclusivamente in aderenza al corpo di fabbrica principale.
...
- Considerato:
L’odierna controversia è caratterizzata dal fatto che le opere edili in questione -destinate ad alleviare la disabilità della ricorrente ma contestate dal comune resistente con riguardo al dissenso manifestato dal condominio, il quale non intende neanche adattare la lavanderia condominiale non agibile- devono essere realizzate all’attico nella porzione di piano in proprietà individuale della condòmina deducente, a sue cure e spese, senza interessamento delle parti comuni dell’edificio se non per l’aderenza a murature perimetrali condominiali e senza arrecare pregiudizio agl’immobili di proprietà esclusiva di altri condòmini (i quali perciò non sono privati, né collettivamente né singolarmente, di nessuna pur minima utilità dominicale, concreta o potenziale).
Dette opere, le quali non rendono talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino, non sono quindi in contrasto con la specifica destinazione delle parti comuni e non vanno ad incidere sulla proprietà condominiale, laddove il condominio, che è un mero ente di gestione unicamente deputato a gestire le parti comuni dell’edificio e la funzionalità dei servizi d’interesse comune dei singoli condòmini, ha assunto una condotta emulativa nel negare comodità elementari per nulla pregiudizievoli agli altri condòmini, ma indispensabili per la ricorrente.
La legge 09.01.1989 n. 13, recante disposizioni per favorire l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati e che consente, tra l’altro, le innovazioni finalizzate a realizzare idonei accessi alle parti comuni degli edifici e alle singole unità immobiliari a determinate condizioni (maggioranze previste dall’art. 1136, commi secondo e terzo, del codice civile, ovvero l’esecuzione diretta a proprie spese, in caso di rifiuto o silenzio da parte del condominio), nel caso qui in trattazione non è neppure rilevante, perché il singolo condòmino ha la facoltà di eseguire opere che siano strettamente pertinenti alla sua unità immobiliare, sotto i profili funzionale e spaziale, con la conseguenza che egli va considerato come soggetto avente titolo per ottenere a nome proprio l’autorizzazione o la concessione edilizia relativamente a tali opere (vedansi, in particolare, gli articoli 1122 e 1127 del codice civile).
Non è pertanto comprensibile neanche il comportamento contraddittorio assunto nella vicenda dal comune, il quale da un canto attribuisce valore ostativo al parere contrario all’esecuzione dei lavori in argomento espresso dall’assemblea condominiale, e dall’altro assume come possibile l’utilizzazione da parte della ricorrente della volumetria autorizzabile di 150 mc. per la realizzazione di locali accessori (art. 53 del regolamento edilizio), in quota proporzionale ai millesimi di proprietà.
Per concludere, il ricorso va accolto sotto i profili della contraddittorietà e del difetto d’istruttoria della domanda edilizia, annullando l’atto impugnato e fatti salvi gli ulteriori provvedimenti dell’amministrazione comunale, tenuta a riprovvedere sulla questione (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 18.01.2013 n. 141 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO: Beni comuni, modifiche libere. Basta la maggioranza. Caso a parte è l'innovazione. Una sentenza della Cassazione chiarisce quali sono i poteri decisionali dell'assemblea.
L'assemblea condominiale può, a maggioranza, modificare o addirittura sopprimere un servizio comune, anche se questo è stato istituito e disciplinato dal regolamento, a patto che ciò non vada a incidere sui diritti dei singoli condomini. Rientra, infatti, nei poteri dell'assemblea disciplinare i beni e i servizi comuni per assicurarne una migliore e più razionale utilizzazione, anche quando ciò comporti la dismissione o il trasferimento degli stessi.
Lo ha stabilito la II Sez. civile della Corte di Cassazione nella sentenza 16.01.2013 n. 945.
Il caso concreto. Due condomini avevano citato dinanzi al tribunale il proprio condominio per impugnare la delibera con la quale era stato autorizzato a maggioranza il passaggio della tubazione del gas in facciata e l'uso dell'attuale pattumiera per alloggiare il nuovo contatore e l'eventuale caldaia di produzione di acqua calda. Il condominio aveva quindi resistito alla domanda sostenendo che i collettori condominiali dei rifiuti avevano da tempo perso la loro originaria destinazione comune e non ne avevano acquistata un'altra e che pertanto la delibera era stata assunta legittimamente, in quanto non aveva a oggetto un'innovazione ai sensi dell'art. 1120 c.c..
Il tribunale aveva rigettato la domanda e i condomini avevano quindi interposto appello, ottenendo la revisione della sentenza. La Corte di merito aveva infatti ritenuto che la decisione dell'assemblea di allocare nel vano destinato alla pattumiera il contatore e l'eventuale caldaia del gas costituisse certamente una innovazione, non vietata ma pur sempre implicante un utilizzo esclusivo, sia pure frazionato, della parte comune, radicalmente diverso da quello passato e da quello presente, ma non per questo irrilevante: la presenza ai piani inferiore e superiore delle caldaie a gas, il passaggio dei tubi, l'eventuale esecuzione dei lavori per la messa a norma degli impianti dovevano infatti considerarsi tutti atti innovativi, conseguenti alla delibera. Quest'ultima, pertanto, avrebbe dovuto essere approvata con la maggioranza dei due terzi del valore dell'edificio, che nella specie non era stata raggiunta. Di qui il ricorso in Cassazione da parte del condominio.
La decisione della Suprema corte. La seconda sezione civile della Cassazione, nell'accogliere il ricorso del condominio, ha in primo luogo chiarito come l'assemblea abbia il potere di decidere sull'intera gestione dei beni, degli impianti e dei servizi comuni. Poiché nella gestione delle parti comuni sulla base del criterio dell'unanimità la volontà contraria di un solo partecipante al condominio sarebbe sufficiente a impedire ogni decisione dell'assemblea, a parere della Suprema corte basta una deliberazione a maggioranza per modificare, sostituire o eventualmente sopprimere un servizio, purché si rimanga nei limiti della disciplina delle modalità di svolgimento del medesimo, senza incidere sui diritti dei singoli condomini.
Per quanto riguarda le innovazioni, i giudici di legittimità hanno quindi ricordato che, ai sensi dell'art. 1120 c.c., è da considerarsi tale non qualsiasi modificazione della cosa comune, ma solamente quelle che alterino l'entità materiale del bene operandone la trasformazione, ovvero determinino la trasformazione della sua destinazione, nel senso che detto bene presenti, a seguito delle opere eseguite, una diversa consistenza materiale ovvero sia utilizzato per fini diversi da quelli precedenti l'esecuzione delle opere. Ove invece la modificazione della cosa comune non assuma tale rilievo, ma risponda allo scopo di un uso del bene più intenso e proficuo, si versa nell'ambito di applicazione di quanto previsto dall'art. 1102 c.c. in tema di comunione.
Nel caso di specie è stato quindi ritenuto che la decisione dell'assemblea condominiale di sigillare le cosiddette canne pattumiere non comportasse l'approvazione di un'innovazione vietata, ma consistesse soltanto in una diversa modalità di svolgimento del servizio di smaltimento dei rifiuti, che può essere adottata dalla maggioranza dei condomini sulla base di valutazioni di opportunità che, come tali, rimangono insindacabili, quanto al merito, da parte dell'autorità giudiziaria (articolo ItaliaOggi Sette del 04.02.2013).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Parcheggi, in vendita ciò che resta. La corte di cassazione sulle aree del fabbricato.
Una volta raggiunta la minima percentuale di spazio-parcheggio, le altre aree del fabbricato, non costituendo pertinenza, possono essere liberamente vendute, locate o formare oggetto di altri negozi giuridici.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 16.01.2013 n. 943.
Più propriamente, l'esimio Consesso, richiamandosi a una sua precedente decisione adottata a Sezioni Unite, ha –definitivamente– chiarito che, in virtù dell'art. 18, ex lege 06.08.1967, n. 765 in materia di destinazione d'uso dei parcheggi condominiali, i «posti auto» realizzati in eccedenza rispetto alla superficie minima normativamente richiesta non sono soggetti a vincolo pertinenziale a favore delle unità immobiliari del fabbricato.
Una decisione, questa, peraltro già consacrata in due precedenti «interventi», i quali –a loro volta e, nello specifico,– hanno, chiaramente, concluso per la non estensibilità delle aree eccedenti la percentuale contemplata dal succitato art. 18, ragion per cui la cessione in proprietà delle aree stesse in favore degli occupanti delle unità abitative di cui si compone il plesso condominiale è da ritenersi esclusa. Del resto, anche la dottrina è unanime nell'inquadrare i parcheggi che eccedono lo standard vincolistico tra quelli a cd. «circolazione libera».
È, quindi, pacifico che l'originario proprietario-costruttore del fabbricato potrà, legittimamente, riservarsi o cedere a terzi la proprietà dei parcheggi de quibus, ovviamente nel rispetto del vincolo di destinazione nascente da atto d'obbligo (articolo ItaliaOggi del 25.04.2013).

CONDOMINIOCasa. Le novità per i creditori. In condominio la «solidarietà» è condizionata.
La riforma del condominio ripristina, in parte, il principio di solidarietà passiva dei condomini, disatteso dalla più recente giurisprudenza.
Con la decisione 9148/2008 le sezioni unite della Cassazione avevano, infatti, stabilito che la responsabilità dei condomini è retta dal criterio della parziarietà, per cui le obbligazioni assunte nell'interesse del condominio si imputano ai singoli componenti soltanto in proporzione delle rispettive quote. Ne derivava che il creditore potesse rivolgere la domanda di pagamento ai condomini solo in proporzione alla singola quota debitoria e quindi, se rimasse insoddisfatto, dovrebbe rivolgersi ai morosi, controllando lo stato dei pagamenti e le tabelle millesimali del condominio.
La decisione della Cassazione ha sollevato non poche critiche; e con la riforma del condominio (legge 22.07.2012) il legislatore ha reintrodotto, almeno in parte, la solidarietà del debito del condominio. Il nuovo articolo 65 della Disposizioni di attuazione del Codice civile stabilisce che i creditori possono agire anche nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti ma solo dopo l'escussione degli altri condomini. Inoltre, l'azione del terzo viene agevolata dalla nuova disposizione (articolo 93 delle Disposizioni di attuazione) che fissa l'obbligo dell'amministratore di comunicare ai creditori non ancora soddisfatti che lo interpellino i dati dei condomini minori.
Resta da stabilire con quali modalità il terzo creditore possa agire contro i condomini adempienti per la morosità di altro condomino. Alcuni interpreti ritengono che il terzo non debba solo chiedere il pagamento del dovuto ai condomini morosi con lettera o atto di messa in mora, ma debba prima agire in via esecutiva contro questi condomini morosi e solo dopo possa recuperare il suo denaro dagli altri. I tempi, quindi, diverrebbero molto lunghi.
La novità legislativa sembra comunque confermare il principio in base al quale la sentenza ottenuta contro il condominio costituisce titolo esecutivo nei confronti dei singoli condomini in via solidale tra loro, ancorché non indicati nominativamente e non siano stati dichiarati responsabili solidalmente. Va però ricordato che il creditore che ha già ottenuto sentenza definitiva di condanna al pagamento di una somma di danaro nei confronti del condominio, è carente di interesse ad agire nei confronti del singolo condomino per il pagamento pro quota della medesima somma (Cassazione, sentenza 20304/2004).
Complica la questione una decisione di merito che ha affermato che non può accogliersi l'istanza di rilascio di tante copie in forma esecutiva del predetto titolo per quanti sono i condomini nei confronti dei quali si intenda procedere esecutivamente pro quota, perché può agirsi solo in base a specifico ed autonomo titolo esecutivo relativamente alle singole quote da accertarsi in sede di giudizio anche a cognizione sommaria (Tribunale di Catania, sentenza del 20.05.2009).
Intanto la possibile responsabilità solidale dei condomini è di fatto ridotta con la nuova previsione dell'articolo 1135, n. 4, che stabilisce che l'assemblea provvede alle opere di manutenzione straordinaria e alle innovazioni costituendo obbligatoriamente un fondo speciale di importo pari all'ammontare dei lavori. Raccolto doverosamente dall'amministratore l'intero importo dei lavori da eseguire, resta scoperta solo la eventuale ulteriore quota per le variazioni e le aggiunte apportate in corso di opera, che andrebbero comunque approvate preventivamente dall'assemblea (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.01.2013).

CONDOMINIOTelecamere, privacy inviolata. Sulla videosorveglianza a deliberare è la maggioranza. La Cassazione: non ci sono gli estremi del delitto di interferenze illecite nella vita privata.
Via libera alla videosorveglianza delle aree condominiali, con deliberazione a maggioranza da parte dell'assemblea. La nuova legge n. 220/2012 di riforma della disciplina del condominio degli edifici ha, infatti, chiarito che rientra fra le competenze assembleari la decisione in merito all'installazione delle telecamere sulle parti comuni e ha stabilito le necessarie maggioranze. Nel frattempo la Corte di cassazione ha precisato che l'installazione di sistemi di videosorveglianza non viola la privacy. Non sussistono, infatti, gli estremi del delitto di interferenze illecite nella vita privata (art. 615-bis del codice penale) nel caso in cui un condomino effettui riprese dell'area condominiale destinata a parcheggio e del relativo ingresso, trattandosi di luoghi destinati all'uso di un numero indeterminato di persone e, pertanto, esclusi dalla tutela penale, la quale concerne una particolare relazione del soggetto da tutelare con l'ambiente in cui questi vive la sua vita privata, in modo da sottrarla a ingerenze esterne.
Lo ha ribadito la Corte di Cassazione (Sez. II civile), nella sentenza 03.01.2013 n. 71.
Nel caso in questione un condomino, visti i ripetuti atti vandalici perpetrati da ignoti a danno delle parti comuni e delle parti di proprietà esclusiva, non registrando intervento alcuno da parte dell'amministrazione condominiale, aveva deciso di provvedere unilateralmente all'installazione di un impianto di videosorveglianza sulle aree condominiali, chiedendo poi agli altri comproprietari di rimborsagli pro quota la spesa anticipata.
Uno dei condomini si era però rifiutato di pagare la sua parte e la vicenda era giunta dapprima dinanzi al giudice di pace e, quindi, addirittura presso la Suprema corte. Occorre segnalare come nella specie il giudice di merito avesse deciso la controversia secondo equità, pronunciandosi in favore del condomino che si era attivato per la gestione dell'impianto.
Questo tipo di sentenze, però, sono impugnabili per Cassazione soltanto in relazione ai principi informatori della materia, restando invece preclusa la denunzia di violazione di specifiche norme di diritto sostanziale. Nel caso in questione la condòmina ricorrente non aveva assolto a tale onere probatorio e, quindi, anche per tale motivo, il ricorso era stato integralmente rigettato.
La Suprema corte, pur non potendosi pronunciare nel merito della questione civilistica, ha tuttavia ricordato il costante orientamento relativo alla non punibilità di tali comportamenti ai sensi dell'art. 615-bis del codice penale (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.02.2013).

CONDOMINIOCASSAZIONE/ Decisione unilaterale giustificata dall'urgenza: rimborsate le spese. Condomini, telecamere libere. Chi vuole proteggersi dai furti non ha bisogno del voto.
Meno privacy nei condomini. Infatti, il condomino può installare, senza preventivo consenso dell'assemblea, una telecamera nel parcheggio oggetto di furti. Non solo. Si tratta di una decisione unilaterale giustificata dall'urgenza che dà quindi diritto al rimborso delle spese sostenute.
È quanto affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza 03.01.2013 n. 71.
In particolare la seconda sezione civile del Palazzaccio ha respinto il ricorso di un consorzio che lamentava l'installazione da parte di un altro condomino, senza autorizzazione degli altri proprietari. L'impianto era stato fatto perché l'area era stata spesso oggetto di furto. Quindi il giudice di pace aveva considerato la spesa affrontata da un solo proprietario urgente e quindi rimborsabile. Non solo, ad avviso del magistrato onorario non poteva ravvisarsi alcuna violazione della privacy.
L'impianto della motivazione di merito è stato integralmente confermato dalla Suprema corte che, su quest'ultimo fronte ha ricordato che «non sussistono gli estremi atti ad integrare il delitto di interferenze illecite nella vita privata (art. 615-bis cod. pen.) nel caso in cui un soggetto effettui riprese dell'area condominiale destinata a parcheggio e del relativo ingresso, trattandosi di luoghi destinati all'uso di un numero indeterminato di persone e, pertanto, esclusi dalla tutela di cui all'art. 615-bis cod. pen., la quale concerne, sia che si tratti di «domicilio», di «privata dimora» o «appartenenze di essi», una particolare relazione del soggetto con l'ambiente in cui egli vive la sua vita privata, in modo da sottrarla ad ingerenze esterne indipendentemente dalla sua presenza».
Per quanto concerne invece il rimborso delle spese sostenute in via d'urgenza, i giudici con l'Ermellino hanno, anche in questo caso, confermato il verdetto del giudice di pace ritenendo sussistente il diritto al rimborso da parte del condomino.
Infatti, si legge in sentenza, «il ricorrente, con il primo motivo, pur facendo genericamente riferimento ad un principio del nostro ordinamento in tema di spese condominiali, ha, in concreto, lamentato a tale riguardo la sola violazione della norma di cui all'art. 1134 cod. civ., dolendosi della non ricorrenza dei presupposti per l'anticipazione e la rimborsabilità di spese condominiali, senza peraltro neppure dedurre come la regola equitativa individuata dal giudice di pace si ponga in contrasto con il predetto principio; né peraltro allega che il supposto principio desunto dall'art. 1134 cod. civ. sia anche un principio informatore della materia né tanto è allegato in relazione al pur invocato principio di tutela di riservatezza e della privacy» (articolo ItaliaOggi del 04.01.2013).

anno 2012
dicembre 2012

CONDOMINIOCon la riforma nuove procedure per arginare le attività contrarie alle destinazioni d'uso.
Parti comuni, tutele rafforzate. Modifiche più semplici, purché senza danni per i singoli.

Per trasformare un parcheggio condominiale in area verde, o viceversa, basterà la maggioranza assembleare. Tra le novità più interessanti contenute nella riforma del condominio meritano particolare risalto le nuove regole relative alla modificazione della destinazione d'uso delle parti condominiali e quelle collegate per la protezione di quest'ultima dalle attività dannose e/o pregiudizievoli.
In particolare il nuovo art. 1117-ter sembra ammettere la possibilità che un bene/impianto comune possa essere trasformato fino a consentirne un uso completamente estraneo rispetto alla sua originaria destinazione oggettiva e strutturale. Si tratta di situazioni nelle quali alcuni condomini possono subire diminuzioni dei loro diritti: si pensi al caso del condominio con accesso dal giardino che, a seguito di delibera assembleare, venga trasformato in piscina o campo da tennis. Quanto sopra trova conferma nella nuova maggioranza richiesta per approvare detti interventi (quattro quinti del valore dell'edificio, cioè 800 millesimi, oltre a un identico numero di partecipanti), così elevata da apparire normalmente irraggiungibile (quanto meno rispetto alle presenze solitamente ottenibili in assemblea).
La tutela contro attività contrarie alle destinazioni d'uso. L'articolo 1117-quater detta poi una specifica procedura per la tutela contro eventuali attività contrarie alle destinazioni d'uso delle parti comuni da parte del singolo condomino. La norma non chiarisce come debba intendersi l'incidenza negativa di una diversa destinazione d'uso e ci si potrebbe così spingere fino a considerare pregiudizievole, per esempio, la destinazione di un appartamento a discoteca, trattandosi di attività non solo contraria alla tranquillità della collettività condominiale, ma che comporta un uso particolarmente intenso delle parti comuni (numero elevato di clienti, musica ad altro volume ecc.).
Nella dizione di attività rientrano certamente quei comportamenti dei singoli condomini che arrivano ad alterare la destinazione d'uso di una parte comune. Così è pacifico che se il singolo condomino apra un varco nel muro di cinta dell'edificio, mettendo in comunicazione la corte esterna di sua esclusiva proprietà con la strada pubblica, l'apertura praticata alteri la destinazione d'uso del muro, incidendo sulla sua funzione di recinzione e di protezione e annulla il beneficio che gli altri condomini traggono dall'utilità che il muro di cinta comune oggettivamente apporta alle loro proprietà.
E ancora, per esempio, posto che i pianerottoli, quali componenti essenziali delle scale comuni, hanno funzione di destinazione al migliore godimento dell'immobile da parte di tutti i condomini, non possono essere trasformati dal proprietario dell'appartamento che su di essi si affacci mediante l'incorporazione dei medesimi nel proprio appartamento, in tal modo impedendo l'uso comune del bene.
Allo stesso modo la condotta del condomino che mantenga ferma per lunghi periodi di tempo la sua autovettura nel parcheggio comune manifesta l'intenzione di possedere il bene in maniera esclusiva, trattandosi di un'occupazione stabile di una porzione del posteggio comune. Di conseguenza detta condotta costituisce una sorta di abuso, impedendo agli altri condomini di partecipare all'utilizzo dell'area comune.
In tali ipotesi di uso abnorme delle parti comuni è stata quindi prevista dalla legge di riforma una nuova procedura per reagire all'illegittimo comportamento del condominio. In particolare è prevista non solo la diffida dell'amministratore o del singolo condomino contro l'esecutore (altro condominio, inquilino, comodatario ecc.), ma anche la possibilità per l'amministratore o il condomino di provocare la convocazione dell'assemblea per far cessare la violazione, anche mediante azioni giudiziarie. In ogni caso bisogna sottolineare che l'assemblea (oltre che annualmente in via ordinaria per le deliberazioni indicate dall'art. 1135 del codice) può essere convocata in via straordinaria dall'amministratore quando questi lo ritenga necessario o quando ne sia fatta richiesta da almeno due condomini che rappresentino un sesto del valore dell'edificio.
Decorsi inutilmente 10 giorni dalla richiesta, i detti condomini possono provvedere direttamente alla convocazione. Se poi l'amministratore non è stato nominato, l'assemblea per far cessare la violazione può essere convocata a iniziativa di ciascun condomino. In ogni caso l'assemblea delibera in merito alla cessazione di tali attività lesive della destinazione d'uso delle parti comuni con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio (articolo ItaliaOggi Sette del 31.12.2012).

CONDOMINIOPubblicate in G.U. le nuove disposizioni sui condomini, in vigore anche per quelli complessi. Una riforma senza esclusioni. Disciplina estesa a villette a schiera o centri residenziali.
Disciplina condominiale ad ampio raggio. La legge di riforma, la n. 220 dell'11/12/2012, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 293 del 17 dicembre scorso, ha infatti definitivamente chiarito che la nuova disciplina si applica anche ai condomini complessi, o supercondomini, ai c.d. condomini orizzontali e anche nelle ipotesi di multiproprietà.
In altri termini, la normativa dettata per i caseggiati costituiti da un unico corpo si applica anche a quei complessi edilizi sempre più articolati, distinti in diversi corpi di fabbrica, dotati di autonomia strutturale, ma caratterizzati dalla presenza di una serie di opere e servizi comuni a tutto il complesso edilizio. Tale principio riguarda il grande caseggiato composto da una pluralità di corpi di fabbrica affiancati l'uno all'altro, con le scale, gli ingressi e la copertura distinti, ma aventi in comune determinate parti essenziali o utili, e il gruppo di palazzine signorili o di palazzi con numerosi piani, i quali in comune beneficiano di alcuni beni, impianti e servizi necessari per l'esistenza o per l'uso, ovvero destinati all'uso o al servizio comune.
Il nuovo art. 1117-bis del codice civile, introdotto dalla legge di riforma, chiarisce quindi che la disciplina del condominio si applica, in quanto compatibile, in tutti i casi in cui più unità immobiliari o più edifici ovvero più condomini di unità immobiliari o di edifici abbiano parti comuni (per esempio, i muri maestri, i pilastri di ferro o di cemento armato legati tra loro dalle travi, i lastrici solari, il riscaldamento centrale, l'impianto per l'acqua calda e per il condizionamento dell'aria, l'ingresso e le strade di accesso ecc.).
La medesima disciplina si applica anche alle villette o costruzioni plurifamiliari delle località di villeggiatura: infatti, di condominio si può parlare non solo negli edifici che si estendono in senso verticale, ma anche in relazione a corpi di fabbrica adiacenti orizzontalmente (come in particolare proprio le villette c.d. a schiera), che possono ben essere dotati di strutture portanti e di impianti essenziali comuni. Quindi anche nel caso in cui le unità immobiliari esclusive non siano disposte verticalmente (una sopra all'altra nello stesso edificio) ma orizzontalmente, cioè una accanto all'altra, sussiste un'ipotesi di condominio, da qualificarsi come orizzontale qualora esista un patrimonio comune a tali porzioni, cioè un complesso di beni e/o impianti destinati strutturalmente e funzionalmente al servizio o al godimento delle predette unità immobiliari private.
Tutte queste situazioni sono oggi contemplate nella legge di riforma del condominio. In particolare, seguendo la definizione normativa, possono ipotizzarsi le seguenti combinazioni: più unità immobiliari autonome, per esempio villette o garage; più edifici condominiali; più gruppi di unità immobiliari autonome aventi ciascuno un'organizzazione condominiale, definiti condomini di unità immobiliari; più gruppi di edifici condominiali, definiti condomini di edifici. In tutte le quattro ipotesi considerate, la caratteristica comune è rappresentata dall'esistenza di parti che servono all'uso comune, quali aree, opere, installazioni e manufatti di qualunque genere. Non si ha, invece, condominio quando vi sono edifici totalmente distinti e autonomi: infatti, le regole condominiali riguardano essenzialmente gli immobili divisi in piani orizzontali e trovano applicazione anche per quei fabbricati che siano verticalmente divisi da una semplice paratia di legno. Esse non riguardano invece l'edificio che sia diviso in due parti da un muro interno verticale, dalle fondamenta al tetto, in modo da formare due corpi di fabbrica distinti e autonomi.
Allo stesso modo la nuova disciplina riguarda anche i proprietari delle singole unità immobiliari dell'edificio, anche se aventi diritto a godimento periodico, cioè i proprietari di appartamenti in multiproprietà facenti parte di un condominio: il multiproprietario è condomino diretto a tutti gli effetti ed è titolare dei diritti e degli obblighi che gli fanno capo, in quanto condomino. Del resto la multiproprietà di singole unità immobiliari nell'ambito di un complesso residenziale non importa alcuna deroga all'applicazione della disciplina sul condominio negli edifici per quanto riguarda le parti e ai servizi comuni di utilità generale all'intero edificio.
Inoltre resta confermato che la sussistenza del condominio non è influenzata dal numero dei titolari delle proprietà esclusive, con la conseguenza che è sufficiente che vi siano anche due soli partecipanti affinché lo stesso venga a giuridica esistenza e si applichino le relative regole di funzionamento e di gestione: si tratta del c.d. condominio minimo (articolo ItaliaOggi Sette del 24.12.2012).

CONDOMINIOIn Gazzetta la legge 220/2012: cosa cambia per le comproprietà dei fabbricati. Nuovo condominio da giugno. Il 17/06/2013 la data fissata per l'avvio della riforma.
La riforma del condominio partirà il 17.06.2013. È stata, infatti, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 293 del 17.12.2012 la legge n. 220 dell'11/12/2012 sulla riforma della disciplina delle comproprietà dei fabbricati.
La legge prevede, infatti, una vacatio di sei mesi, che serviranno a studiare le novità e a prepararsi alla applicazione delle nuove disposizioni.
Le novità toccano il condominio a tutto campo: quorum delle assemblee più snello per prendere le decisioni e evitare ingessature, l'amministratore diventa manager e professionista qualificato e trasparente, più libertà per i singoli condomini (nel distacco dall'impianto riscaldamento, per gli impianti radio-tv e pannelli solari.
Cambiano le modalità di convocazione dell'assemblea e i quorum costitutivi e deliberativi, sia in prima sia n seconda convocazione, con un limite alla raccolta di deleghe: l'obiettivo è quello di rendere più snella la gestione e più facili le scelte.
Cambia la disciplina dell'amministratore, che diventa un ruolo professionale e richiede un titolo di studio almeno di istruzione secondaria di secondo grado, ma soprattutto una formazione specifica e un aggiornamento periodico.
Peraltro è prevista una deroga ai requisiti professionali sia per gli amministratori che hanno svolto l'incarico per un anno nell'ultimo triennio (soggetti all'aggiornamento periodico) sia per il singolo condomino che svolge l'attività (esonerato anche da obblighi di aggiornamento).
L'amministratore ha maggiori obblighi di trasparenza e deve aprire un conto corrente bancario dedicato al singolo condomino, mettendo a disposizione i movimenti bancari al controllo dei partecipanti. Si codifica, poi, la regola già prevista da alcune sentenze per cui la funzione amministrativa può essere svolta da una società. Si svecchia la disciplina consentendo il sito internet condominiale e, come richiesto dal garante della privacy, si dettaglia la maggioranza per l'installazione di telecamere per la videosorveglianza condominiale.
Viene concesso più spazio al singolo condomino per distaccarsi dall'impianto di riscaldamento centralizzato, installare impianti di ricezione radiotelevisiva e pannelli solari.
Certo se impianti radio-tv e pannelli solari incidono su parti comuni il condominio potrà dare prescrizioni.
Quanto all'impianto di riscaldamento, il distacco non è completamente libero, in quanto è concesso solo se non si fruisce del calore per problemi tecnici prolungati per un'intera stagione e comunque con obbligo di partecipare alle spese di manutenzione straordinaria della centrale termica.
Inoltre il regolamento non può vietare di tenere animali domestici. Quanto alle spese condominiali, la riforma sceglie il pugno duro contro i morosi, nei cui confronti l'amministratore deve agire entro sei mesi. Inoltre i dati personali dei morosi possono essere comunicati ai creditori del condominio, tenuti ad agire contro gli inadempienti prima di rivalersi sui partecipanti in regola (articolo ItaliaOggi del 18.12.2012).

CONDOMINIO: G.U. 17.12.2012 n. 293 "Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici" (Legge 11.12.2012 n. 220).

CONDOMINIO: Il sottotetto è condominiale. La struttura deve poter essere usata come vano autonomo. La riforma aggiorna l'elenco (non tassativo) delle parti destinate a uso collettivo.
I sottotetti si presumono parte comune dell'edificio condominiale se oggettivamente destinati all'uso collettivo da parte dei condomini.
È uno degli effetti della riforma del condominio, che ha introdotto novità in merito alle parti comuni del caseggiato. Infatti, è stato aggiornato l'elenco dei beni che, in base all'art. 1117 c.c., si presumono in comproprietà di tutti i condomini, il quale tiene conto anche dell'evoluzione tecnologica intervenuta dal 1942 a oggi.
In primo luogo appare evidente la volontà del legislatore di utilizzare un linguaggio più comprensibile: così viene precisato che i beni elencati sono oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell'edificio («anche se aventi diritto a godimento periodico», con un implicito riferimento alle ipotesi della c.d. multiproprietà immobiliare), espressione certamente più semplice e attuale rispetto a quella precedente («proprietari dei diversi piani o porzioni di piani di un edificio»).
A conferma di ciò, la successiva precisazione secondo cui le parti elencate sono condominiali «se non risulta il contrario dal titolo», mentre la precedente (e ancora attuale) versione dell'art. 1117 c.c. disponeva, con una forma un po' più arcaica, «se il contrario non risulta dal titolo» .
Rimane quindi confermato che per stabilire quali siano le parti comuni dell'edificio condominiale bisogna in primo luogo esaminare le clausole dei rogiti di acquisto (e, successivamente, il regolamento, l'atto di successione ereditaria, le vicende di fatto che abbiano portato a un eventuale acquisto per usucapione, o la destinazione oggettiva del bene). In ogni caso viene confermato che si tratta comunque, è bene precisarlo subito, di un elenco dei beni comuni non tassativo, ma esemplificativo, di parti che, come detto, si presumono condominiali, con la conseguenza che un bene o un impianto, pur non indicato nell'art. 1117 c.c., può, a determinate condizioni, essere ugualmente qualificato come condominiale.
Ciò trova conferma nel fatto prima dell'elenco dei beni di cui ai numeri 1, 2 e 3 della predetta disposizione del codice civile, nella stessa norma viene anticipata l'espressione «tutte le parti dell'edificio necessarie all'uso comune» (mentre nell'originario testo dell'art. 1117 c.c. detta espressione era contenuta soltanto al termine dell'elencazione dei beni comuni di cui al n. 1): la modifica evidenziata tende dunque a evidenziare il carattere esemplificativo e non esaustivo dell'elencazione in questione. Del resto, di fronte alle molteplici varietà delle ipotesi che possono presentarsi nella realtà condominiale, non è certo possibile un elenco completo e quindi anche la legge di riforma si limita soltanto a fornire all'interprete una chiave per individuare quali beni, in un caseggiato in condominio, debbano presumersi di proprietà comune.
Nel passare all'elenco delle parti condominiali, la novità è rappresentata dall'inclusione in esse dei pilastri, delle travi portanti e delle facciate: tali indicazioni sono indiscutibili, se si considera che i muri perimetrali delimitano esternamente il caseggiato, mentre i pilastri e le travi in conglomerato cementizio sono elementi dell'intelaiatura portante dell'edificio condominiale. Vengono ricompresi nell'elenco dei beni comuni anche le aree destinate a parcheggio e i sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali, all'uso comune. Si tratta quindi dei sottotetti che abbiano dimensioni e caratteristiche strutturali tali da consentirne l'utilizzazione come vano autonomo (mentre sono generalmente di proprietà esclusiva quelli che costituiscono una camera d'aria e hanno la mera funzione di isolare e proteggere l'appartamento dell'ultimo piano dal caldo, dal freddo e dall'umidità).
Per quanto riguarda le altre novità introdotte dalla riforma della disciplina condominiale in tema di parti comuni, merita di essere precisato che è stata modificata la dicitura di alcuni beni comuni (gli impianti idrici e fognari, i sistemi centralizzati di distribuzione e di trasmissione per il gas, per l'energia elettrica, per il riscaldamento (anziché gli acquedotti, le fognature, i canali di scarico, gli impianti per l'acqua, per il gas, per l'energia elettrica, per il riscaldamento e simili) e che sono stati aggiunti altri impianti, ovvero quelli per il condizionamento dell'aria, per la ricezione radiotelevisiva e per l'accesso a qualunque altro genere di flusso informativo anche da satellite o via cavo. Da notare che, in caso di impianti unitari, si dovrà far rientrare l'impianto tra le parti comuni fino al punto di utenza, salve le normative di settore in materia di reti pubbliche, in grado, queste ultime, di costituire unilateralmente vincoli sull'edificio aventi effetti analoghi alle servitù (articolo ItaliaOggi Sette del 17.12.2012).

CONDOMINIOCase, inagibilità da dimostrare. Senza prove non c'è il diritto al risarcimento dei danni. Una sentenza della Cassazione su un caso di abbandono dell'abitazione per infiltrazioni.
Il proprietario che a causa di lavori condominiali non eseguiti a regola d'arte lamenti infiltrazioni nell'appartamento non può lasciare la propria abitazione e chiedere il risarcimento del danno per mancato utilizzo della casa se non prova rigorosamente che l'abbandono dell'immobile è dipeso dalle oggettive malsane condizioni che lo avevano reso di fatto inabitabile.
È il principio affermato dalla Corte di Cassazione, Sez. III civile, nella sentenza 13.12.2012 n. 22923.
I fatti. Questa la vicenda che ha portato alla decisione della Cassazione: il pavimento dell'appartamento al piano terra di un condominio veniva rimosso per consentire riparazioni alle tubature dell'impianto di riscaldamento condominiale. Le imprese incaricate però non avevano eseguito a regola d'arte le opere di ripristino e, di conseguenza, il condomino del piano terra aveva trovato l'appartamento danneggiato da infiltrazioni provenienti dalle reti fognarie condominiali e dai connessi fenomeni di presenza di muffe organiche.
Secondo il danneggiato l'appartamento non poteva più essere abitato e questa convinzione veniva confermata da un tecnico a cui era stata richiesta una perizia sullo stato dei luoghi. Successivamente il proprietario si rivolgeva al tribunale per richiedere la condanna del condominio al risarcimento di tutti i danni subiti (compresi quelli per mancato utilizzo dell'immobile) a causa della cattiva esecuzione dei lavori di ripristino del pavimento e delle conseguenti infiltrazioni provenienti dall'impianto di scarico condominiale e da umidità ascendente. Il condominio convenuto contestava la domanda e, comunque, chiedeva e otteneva di chiamare in garanzia le imprese esecutrici dei lavori. Il tribunale dichiarava quindi la responsabilità del condominio, che veniva condannato al risarcimento dei danni per rifacimento di pavimentazione e battiscopa, per danni da infiltrazioni, nonché per mancato uso dell'immobile, abbandonato per oltre un anno fino all'ultimazione dei lavori.
La Corte di appello, invece, occupandosi dell'impugnazione della sentenza di primo grado presentata dal condominio, respingeva la specifica domanda di risarcimento per il mancato utilizzo dell'immobile. Ciò perché il danneggiato aveva effettivamente lasciato la casa, ma non era stata provata la necessità effettiva di abbandonare l'alloggio, con la conseguenza che la condotta tenuta dal condomino del piano terreno si doveva considerare come un volontario abbandono dell'appartamento che, come tale, non era risarcibile. Nel corso del giudizio di merito era stata fatta anche una consulenza tecnica d'ufficio, che però si era limitata a rilevare i segni dell'abbandono del bene e a descrivere lo stato di fatto dei locali senza tuttavia indicare in modo univoco l'intollerabilità o in ogni caso l'idoneità a determinare l'inevitabile necessità di non abitare l'appartamento.
La posizione della Cassazione. Le precedenti considerazioni sono state pienamente condivise dalla Suprema corte, secondo cui il singolo condomino il cui appartamento è stato reso inabitabile da inesatta esecuzione di lavori condominiali per avere diritto al risarcimento del danno da mancato godimento dell'immobile deve provare di essere stato costretto ad abbandonarlo perché divenuto insalubre e radicalmente inabitabile a causa delle infiltrazioni provenienti dalle reti fognarie condominiali e dei connessi fenomeni di presenza di muffe. Tale prova però, come chiariscono i giudici supremi, non può essere rappresentata da argomentazioni e comunicazioni di dati fornite dal tecnico di fiducia al quale il danneggiato si sia rivolto per un parere sulle cause dei danni subiti prima del procedimento in giudizio. In ogni caso una perizia avrebbe solo il valore di indizio, il cui apprezzamento è affidato alla valutazione discrezionale del giudice, ma della quale quest'ultimo non è obbligato in nessun caso a tenere conto.
Secondo la Cassazione il tecnico di parte avrebbe solamente potuto, se chiamato quale testimone, confermare lo stato dei luoghi da lui personalmente percepito, ma appunto quale mera situazione di fatto e con esclusione di qualunque valutazione. Del resto non è possibile neppure provare le necessità dell'abbandono utilizzando le parole del consulente tecnico di ufficio incaricato dal giudice se quest'ultimo si limita solamente a descrivere i segni dell'abbandono e lo stato di fatto dei locali dell'appartamento, ma senza indicarne le ragioni che hanno costretto il condomino danneggiato a lasciare la sua casa per trasferirsi altrove.
In tali casi quindi, per avere diritto al risarcimento del danno da mancato godimento dell'immobile è necessaria una valida prova che confermi la necessità dell'abbandono e, con esso, sulle condizioni di inabitabilità del medesimo: in caso contrario ne deriva la conclusione della volontarietà della condotta del danneggiato, la quale non potrebbe quindi mai costituire fondamento per un diritto al risarcimento del danno a carico di altri, in virtù dei principi generali in materia. Tuttavia le imprese esecutrici dei lavori eventualmente chiamate in causa in garanzia, come nel caso di specie, sono comunque tenute al risarcimento di tutti gli altri danni conseguenti alle opere non eseguite a regola d'arte a meno che il diritto di garanzia del condominio non sia prescritto (articolo ItaliaOggi Sette del 21.01.2013).

CONDOMINIO: Condomini, gestione in chiaro. L'amministratore deve garantire trasparenza finanziaria. Dalla tenuta dei registri al conto corrente: i nuovi obblighi introdotti dalla riforma.
L'amministratore condominiale fa il pieno di competenze. Sono, infatti, numerosi gli obblighi, nuovi, rimodulati o semplicemente codificati, addossati a questa figura dalla legge di riforma della disciplina condominiale.
Eccoli in sintesi.
Obblighi di comunicazione ai condomini e di affissione delle generalità in un luogo di pubblico accesso. In caso di nomina e per ogni successivo mandato, c'è l'obbligo per l'amministratore di comunicare ai condomini i propri dati anagrafici e professionali, il proprio codice fiscale e, qualora si tratti di società, la denominazione e la sede legale della stessa, l'indirizzo dei locali in cui si trovano i registri di cui ai numeri 6) e 7) dell'art. 1130 c.c. (registro dell'anagrafe condominiale, registro dei verbali dell'assemblea, registro di nomina e revoca dell'amministratore, registro di contabilità), nonché dei giorni e delle ore nelle quali ciascun condomino interessato può accedere a detti locali ed estrarre copia (firmata dall'amministratore) dei predetti documenti (previa richiesta a quest'ultimo e con rimborso della spesa). È poi evidente come sia di pubblico interesse poter risalire con immediatezza al nominativo e al recapito del soggetto chiamato per legge a rappresentare il condominio nei rapporti con i terzi. Ebbene, d'ora in avanti anche l'amministratore avrà l'obbligo di esporre in uno spazio accessibile ai terzi una targhetta con le proprie generalità.
Obbligo di stipulare apposita polizza assicurativa per la responsabilità professionale e di comunicarne gli estremi ai condomini. L'amministratore, al momento dell'accettazione della nomina, se previsto dall'assemblea, deve anche presentare ai condomini una polizza individuale di responsabilità civile per gli atti compiuti nell'esercizio del mandato. L'amministratore è tenuto ad adeguare i massimali della polizza se nel periodo del suo incarico l'assemblea abbia deliberato lavori straordinari. Tale adeguamento non deve essere però inferiore all'importo di spesa deliberato e deve essere effettuato contestualmente all'inizio dei lavori.
Obbligo di aprire un conto corrente condominiale e di far transitare esclusivamente su quest'ultimo le entrate e le uscite condominiali. Anche questa disposizione risponde a un'esigenza di elementare trasparenza nell'amministrazione delle somme di denaro di proprietà altrui. A detto conto corrente, che potrà essere sia bancario sia postale, avranno ovviamente diritto di accesso tutti i condomini. L'accesso dovrà comunque essere intermediato dall'amministratore.
Obbligo di consegna della documentazione condominiale o di singoli condomini alla cessazione dell'incarico. Viene ulteriormente ribadito, anche in sede normativa, l'obbligo dell'amministratore di passaggio delle consegne alla cessazione dell'incarico. Detto obbligo potrà essere assolto mediante consegna della documentazione condominiale o di singoli condomini sia a questi ultimi sia al nuovo amministratore designato dall'assemblea. Viene poi ulteriormente specificato che l'amministratore dimissionario resta comunque tenuto ad adottare eventuali interventi urgenti nell'interesse delle parti comuni anche dopo la cessazione dell'incarico, qualora non possa utilmente attivarsi il nuovo amministratore (ad esempio, perché non ancora nominato dall'assemblea), senza diritto a ulteriore compenso.
Obbligo di riscuotere le somme dovute dai condomini. Viene poi introdotto l'obbligo dell'amministratore di riscuotere quanto dovuto dai condomini alle casse comuni entro il termine di sei mesi dalla chiusura dell'esercizio contabile nel quale è compreso il credito vantato. L'intervento dell'assemblea, lungi dal costituire una condizione per il recupero forzoso dei crediti condominiali, può invece sollevare l'amministratore da detto obbligo normativo. Detto obbligo va correlato a quanto specificamente previsto in tema di morosità condominiale dall'art. 63 disp. att. c.c.
Obbligo di specificare l'ammontare del compenso al momento della nomina. Per evitare possibili contenziosi in materia, la legge di riforma ha previsto di obbligare l'amministratore a dichiarare espressamente, a pena di nullità della nomina stessa, l'ammontare del compenso richiesto sia in occasione della prima nomina sia per i successivi rinnovi del mandato biennale. Solitamente sarà la deliberazione assembleare di nomina a specificare l'ammontare del compenso richiesto dall'amministratore e accettato dall'assemblea.
Obblighi contabili. L'art. 1130-bis c.c. prevede un rendiconto condominiale annuale che dovrà predisposto dall'amministratore e contenere una serie di specifiche voci contabili indispensabili alla ricostruzione e al controllo della gestione dell'amministratore da parte di ogni condomino. In particolare, si prevedono come elementi imprescindibili del rendiconto: il registro di contabilità, il riepilogo finanziario e una relazione accompagnatoria, esplicativa della gestione annuale, con l'indicazione anche dei rapporti in corso e delle questioni pendenti (articolo ItaliaOggi Sette del 10.12.2012).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAAnche l'ascensore rientra tra gli impianti «liberi». Palazzo Spada. Niente permesso di costruire né distanze legali.
Sulla natura giuridica degli ascensori, sulla possibilità di considerarli nuova costruzione e sui titoli abilitativi necessari si è espressa la quarta Sezione del Consiglio di Stato, con la sentenza 05.12.2012 n. 6253.
La vicenda concerne l'installazione di un ascensore all'esterno di un immobile per agevolare l'accesso e la mobilità di familiari disabili. In primo grado era stato impugnato il diniego di permesso di costruire, opposto agli interessati dal Comune, secondo cui l'intervento doveva ritenersi precluso in forza delle previsioni dell'articolo 79, comma 2, del Dpr 380/2001. Tale norma, infatti, pur consentendo opere per eliminare le barriere architettoniche in deroga alle norme sulle distanze contenute nei regolamenti edilizi, fa comunque «salvo l'obbligo di rispetto delle distanze di cui agli articoli 873 e 907 del codice civile nell'ipotesi in cui tra le opere da realizzare e i fabbricati alieni non sia interposto alcuno spazio o alcuna area di proprietà o di uso comune».
Il Tar aveva respinto il ricorso sulla base di tre considerazioni. Innanzitutto che la tutela della salute e della vita di relazione dei portatori di handicap non è incondizionata, ma può subire limitazioni per la tutela di valori di pari rilevanza, quale la proprietà privata; in secondo luogo che l'articolo 79, pur considerando prevalenti le ragioni del portatore di handicap su altri interessi contrastanti dei soggetti residenti nel medesimo edificio, non riconosce analoga prevalenza rispetto al diritto alla salute tutelato attraverso l'articolo 873 del codice civile la cui ratio è quella di evitare la creazione di intercapedini dannose o pericolose. Infine, l'ascensore si sarebbe trovato ad una distanza inferiore a quella minima di tre metri rispetto al fabbricato confinante.
Il Consiglio di Stato ha però riformato la sentenza di primo grado, facendo proprio lo specifico orientamento della Cassazione (sezione II, n. 2566/2011), secondo cui «l'impianto di ascensore...rientra fra i volumi tecnici o impianti tecnologici strumentali alle esigenze tecnico-funzionali dell'immobile». Ne consegue «l'inapplicabilità all'ascensore delle disposizioni in tema di distanze legali».
Inoltre, con riferimento al caso concreto, la sentenza osserva come nell'applicare la deroga al rispetto delle distanze, l'articolo 79 vada letto in correlazione alla complessiva disciplina sull'eliminazione delle barriere architettoniche per i soggetti portatori di handicap e in particolare al Dm 236/1989. L'articolo 2 del decreto, infatti, qualifica come spazio esterno «l'insieme degli spazi aperti, anche se coperti, di pertinenza dell'edificio o di più edifici» e come parti comuni dell'edificio «quelle unità ambientali che servono o che connettono funzionalmente più unità immobiliari». Da qui risulta chiaro come il legislatore, nel far riferimento a spazi o aree «di proprietà o di uso comune», abbia inteso richiamare non solo l'esistenza di una comproprietà o di una servitù di uso comune, ma anche l'esistenza di uno spazio comunque denominato impiegato dai residenti di entrambi gli immobili confinanti.
Nel caso in esame il cortile fra i due immobili nel quale doveva insistere l'ascensore, pur non essendo in comproprietà fra i due condomini, risultava utilizzato dai residenti di entrambi gli immobili, dal che deriva l'illegittimità dell'atto impugnato e l'erroneità della decisione del Tar (articolo Il Sole 24 Ore del 25.02.2013).

novembre 2012

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA:  Barriere architettoniche.
Domanda
Sono amministratore di un condominio nel quale alcuni condomini hanno richiesto di installare un ascensore, taluni sono favorevoli e altri no. Dobbiamo discuterne in una prossima assemblea e riterrei utile avere informazioni sullo stato della giurisprudenza.
Risposta
La recente sentenza della Corte di cassazione n. 18334/2012 (alla cui lettura, con i richiami giurisprudenziali in essa contenuti, facciamo rinvio) è molto interessante ai fini in questione poiché approfondisce anche il senso del rapporto tra l'art. 1120 c.c. e le norme contro le barriere architettoniche, in primis artt. 2 e 3 della legge n. 13/1989.
La sentenza ribadisce che per l'applicabilità del 1° comma dell'art. 2 della legge n. 13/1989 (con i suoi quorum ridotti) è irrilevante la presenza o meno di invalidi nel condominio in quanto la norma è volta a consentirne l'accesso, senza difficoltà, in tutti gli edifici e non solo presso la loro abitazione, mentre il 2° comma consente di provvedere direttamente alle opere in caso di rifiuto del condominio.
La sentenza chiarisce poi (rispetto alle limitazioni previste dall'art. 1120, 2° c., fatte salve dall'art. 2, 3° comma della legge n. 13/1989) che il giudice (e prima ancora i condomini), per valutare se le opere determinino un pregiudizio al decoro architettonico, oltre ad accertare se esso sia effettivamente leso, deve valutare anche se tale lesione determini o meno un deprezzamento dell'intero fabbricato (non solo di alcuni appartamenti, il che non sarebbe ragione ostativa sufficiente a precludere l'intervento), essendo invece lecito il mutamento estetico che non cagioni un pregiudizio economicamente valutabile o che, pur arrecandolo, si accompagni a un'utilità che compensi l'alterazione architettonica che non sia di grave e appariscente entità, ciò che succede ancor più se le opere sono interne all'edificio.
La sentenza richiama anche l'applicabilità del principio di solidarietà condominiale (sent. 12520/2010) che impone di accertare se le norme in tema di vicinato siano compatibili con la concreta struttura dell'edificio condominiale o non siano invece irragionevoli, e quindi da disapplicare, nel contemperamento di vari interessi, ancor più se in gioco vi siano i diritti fondamentali dei disabili, tutelati sempre di più dalla legislazione degli ultimi decenni.
Lo stesso dicasi per la valutazione dell'eventuale minore servibilità delle parti comuni, che non può prevalere qualora si traduca in un semplice maggior disagio, dovendosi avere una reale inservibilità ai fini e per gli effetti dell'art. 1120, 2° comma, cod. civ.
Infine, sul tema della sicurezza (nel caso esaminato dalla sentenza si era eccepito che l'ascensore rendeva difficoltoso il passaggio di soccorsi dalle scale) occorre operare un confronto delle condizioni ante e post operam al fine di accertare se le opere possano determinare o meno una lesione di tale aspetto (articolo ItaliaOggi Sette del 26.11.2012).

CONDOMINIO: LA RIFORMA DEL CONDOMINIO/ La riforma del condominio piace. Piacerà un po' meno ai morosi. ItaliaOggi Sette ha raccolto le opinioni degli addetti ai lavori: Confedilizia, Anaci e Sunia.
La stretta sui morosi convince gli addetti ai lavori. Sono queste infatti le disposizioni che raccolgono i favori di Confedilizia, Anaci e Sunia, in merito alla riforma del condominio, diventata legge dopo l'approvazione definitiva del ddl, martedì scorso, in commissione giustizia del senato, che riscrive quasi del tutto gli articoli 1117 e seguenti del codice civile e 61 e seguenti delle disposizioni di attuazione.
Se, infatti, Confedilizia e il Sunia (Sindacato nazionale unitario inquilini e assegnatari) esprimono un parere sostanzialmente positivo, con qualche riserva, più critica è la posizione dell'Anaci (Associazione nazionale amministratori di condomini e immobili). «Il nostro giudizio è nel complesso positivo anche se il legislatore ha mancato di coraggio non attribuendo al condominio la capacità giuridica come nella maggior parte dei paesi europei», sottolinea Corrado Sforza Fogliani, presidente di Confedilizia.
«Una norma mancata che poteva servire a limitare la conflittualità tra i condomini facilitandone i rapporti». Semaforo verde, invece, per le novità in materia di requisiti che l'amministratore dovrà possedere e che implicano l'obbligo di frequentare un corso di formazione iniziale e il possesso del diploma di scuola secondaria di secondo grado. A questo proposito, secondo Sforza Fogliani, è positivo che «la nomina di un interno, cioè di uno dei condomini dello stabile come amministratore, non richieda a quest'ultimo il possesso di alcuna formazione specifica. Un aspetto che va a salvaguardia di quegli amministratori che scelgono di svolgere questo lavoro gratuitamente».
A raccogliere i favori di Confedilizia sono anche le nuove disposizioni in materia di condomini morosi, in base alle quali l'amministratore potrà procedere con l'ingiunzione (senza autorizzazione preventiva dall'assemblea) e potrà fornire ai creditori i dati di chi non è in regola con il pagamento delle rate. Inoltre, in caso di mora che dura da più di sei mesi, dovrà sospendere il debitore dalla fruizione dei servizi comuni. «Una novità che permette di mettere tutti i condomini sullo stesso piano». Poco utile, invece, viene considerata la possibilità di creare un sito internet del condominio, da cui accedere individualmente a tutti gli atti e i rendiconti mensili. «Un'opportunità che a mio parere verrà utilizzata poco, da un lato, per la sua dispendiosità e, dall'altro, perché servirebbe per consultare una documentazione che può essere visionata già presso l'amministratore con il valore aggiunto di poter anche chiedere contestualmente delle delucidazioni».
Più critica l'Anaci. «Qualcosa di buono in questa riforma c'è, ma non abbiamo digerito che non sia stata prevista una maggiore valorizzazione della figura professionale dell'amministratore», sottolinea il presidente Pietro Membri. Parere positivo, invece, sul tema dei requisiti necessari che dovranno essere posseduti dall'amministratore, sul sito internet condominiale e sulla stretta ai condomini morosi. L'associazione considera, invece, una formalità il tema della stipula da parte dell'amministratore di una polizza a tutela dai rischi derivanti dalla professione svolta (su richiesta dell'assemblea). «Per gli iscritti alla nostra associazione, infatti, abbiamo già in automatico una garanzia per gli errori per un milione di euro». Tra i sindacati del settore, giudizi favorevoli arrivano dal Sunia.
«Per noi è positivo il fatto che la riforma sia stata fatta, abbiamo seguito il lavoro parlamentare con confronti e audizioni, e per noi il testo presenta alcuni punti innovativi, per esempio, riguardo alla diminuzione dei quorum, cioè delle maggioranze richieste per le delibere assembleari per una serie di interventi», spiega Aldo Rossi, segretario nazionale responsabile ufficio legislativo del Sunia. Anche se, a suo dire, si poteva fare di più sui temi della personalità giuridica del condominio e della partecipazione del conduttore alle assemblee per gli oneri a suo carico. Positiva l'opinione sugli obblighi di formazione per l'amministratore «perché ci devono essere garanzie di professionalità» e sulla possibilità di creare un sito internet «che potrebbe garantire maggior trasparenza ed efficienza». Inoltre, conclude Rossi, «la possibilità di rivalersi sui beni dei condomini morosi potrebbe portare a una riduzione delle liti condominiali, che a oggi rappresentano circa il 10% del contenzioso civile» (articolo ItaliaOggi Sette del 26.11.2012).

CONDOMINIOLA RIFORMA DEL CONDOMINIO/ Sulle delibere regole più chiare.
Con la legge di riforma della disciplina del condominio approvata martedì scorso dalla commissione giustizia del senato è stato infatti integralmente riscritto l'art. 1137 c.c., disciplinando in maniera più chiara il procedimento giudiziale di verifica della legittimità della volontà assembleare, in gran parte confermando le conclusioni alle quali era giunta la più recente giurisprudenza della Cassazione a seguito di un incessante lavorio di interpretazione durato quasi 70 anni.
Delibere nulle e annullabili.
Il legislatore ha riscritto l'art. 1137 c.c. eliminando alla radice qualsiasi dubbio sull'applicabilità della procedura di impugnazione ivi disciplinata anche ai casi di nullità delle delibere condominiali.
Nella nuova disposizione si parla infatti espressamente di annullamento delle deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio da promuovere dinanzi alla competente autorità giudiziaria nel termine perentorio di 30 giorni. Mentre in precedenza si poteva equivocare se il ricorso diretto a fare accertare in giudizio la contrarietà delle deliberazioni assembleari alla legge o al regolamento di condominio comprendesse o meno anche i casi di nullità delle stesse, la nuova versione della predetta disposizione chiarisce in modo inequivocabile che detta azione giudiziale, con particolare riferimento al menzionato termine di decadenza, è finalizzata esclusivamente all'accertamento dell'annullabilità della volontà assembleare (occorre peraltro osservare come la stessa giurisprudenza di legittimità abbia ormai confinato i casi di nullità a categorie del tutto marginali).
La legittimazione ad agire. La nuova disposizione specifica altresì che la legittimazione attiva all'impugnazione delle deliberazioni assembleari spetta tanto ai condomini presenti in assemblea, che abbiano votato in senso contrario all'approvazione della delibera, quanto a quelli assenti, quanto, infine, a quelli che, pur avendo partecipato alla riunione condominiale, sia siano astenuti dal voto. Il termine di decadenza di 30 giorni per l'impugnazione della delibera condominiale decorre dalla data dell'assemblea per i dissenzienti e gli astenuti e dalla data di comunicazione della deliberazione per gli assenti.
Le modalità di impugnazione delle deliberazioni. Con l'eliminazione della parola «ricorso» dall'art. 1137 c.c. il legislatore ha poi risolto una volta per tutte l'annosa questione se il termine in questione debba essere inteso in senso tecnico o atecnico e se, quindi, l'impugnazione delle deliberazioni assembleari debba avvenire con ricorso o con atto di citazione. La nuova disposizione si limita infatti a dire che chi intende impugnare una deliberazione assembleare che si assuma contrarie alla legge o regolamento di condominio deve chiederne l'annullamento all'autorità giudiziaria entro il termine di 30 giorni, rientrando dunque detto procedimento tra quelli ordinari, normalmente introdotti con atto di citazione.
La sospensione dell'efficacia della delibera impugnata. Con gli ultimi due commi del novellato art. 1337 c.c. si è quindi voluta ulteriormente chiarire la questione della sospensione dell'efficacia della delibera condominiale impugnata. Detta istanza, di natura cautelare, potrà quindi essere proposta tanto in costanza di causa quanto anteriormente alla stessa.
Limitatamente a quest'ultimo caso il legislatore ha però inteso specificare che l'istanza di sospensione proposta autonomamente e anteriormente all'avvio della causa di merito non sospende il termine di decadenza di 30 giorni di cui al medesimo art. 1337 c.c. ovvero, detto in altri termini, non equivale all'atto di impugnazione della volontà assembleare.
La mediazione c.d. obbligatoria delle controversie condominiali. L'art. 5 del dlgs n. 28/2010, normativa quadro in materia di mediazione, obbliga le parti a far precedere l'eventuale azione giudiziaria in materia di condominio da un tentativo di risoluzione bonaria della controversia presso specifici organismi iscritti in un apposito registro tenuto presso il ministero della giustizia.
Circa il significato del concetto di «controversia condominiale» la legge di riforma ha opportunamente chiarito che sono tali quelle derivanti dalla violazione o dall'errata applicazione delle disposizioni dettate dal codice civile e dalle relative disposizioni di attuazione in materia condominiale.
In altri termini, rientrano nella c.d. mediazione obbligatoria le liti tra condomini e tra questi ultimi e il condominio, non anche quelle tra il condominio e soggetti terzi (fornitori, ecc.).
Anche in ordine alla libertà dei litiganti di scegliere l'organismo cui inviare l'istanza di mediazione la legge di riforma ha inserito una disposizione del tutto peculiare per il condominio, prevedendo che la stessa debba essere presentata, a pena di inammissibilità, presso un organismo di mediazione ubicato nella circoscrizione del tribunale nella quale il condominio è situato. La nuova disposizione normativa opportunamente chiarisce inoltre che al procedimento di mediazione è legittimato a partecipare l'amministratore, previa delibera assembleare da assumere con la maggioranza di cui all'art. 1136, secondo comma, c.c.
È poi stato ulteriormente previsto che se i termini di comparizione davanti al mediatore non consentono di assumere la delibera di cui al terzo comma, il mediatore dispone, su istanza del condominio, idonea proroga della prima comparizione. La proposta di mediazione deve quindi essere approvata dall'assemblea con la maggioranza di cui all'art. 1136, secondo comma, c.c. Se non si raggiunge la predetta maggioranza, la proposta si deve intendere non accettata.
Si tratta di disposizioni chiare e opportune che consentono di superare molti dei dubbi fino a oggi emersi in materia di mediazione delle liti condominiali e che dovrebbero quindi agevolare il compito degli amministratori condominiali, garantendo maggiori possibilità di successo a questo particolare strumento di risoluzione delle controversie. Occorre però evidenziare come a oggi la mediazione in materia condominiale non possa più ritenersi obbligatoria a seguito dell'annuncio dato dalla Corte costituzionale lo scorso 24.10.2012 circa la dichiarazione di illegittimità, per eccesso di delega legislativa, del dlgs n. 28/2010. In questi giorni si rincorrono però le voci su possibili e immediate sanatorie per via legislativa, in attesa del deposito delle motivazioni della predetta sentenza (articolo ItaliaOggi Sette del 26.11.2012).

CONDOMINIO: LA RIFORMA DEL CONDOMINIO/ Installazioni e modifiche veloci.
Novità in arrivo per gli impianti in ambito condominiale, sia per quanto riguarda quelli «centralizzati», che possono essere installati o modificati con delibere assembleari approvate con quorum più bassi (e quindi più rapidamente), sia per quanto riguarda quelli non centralizzati, che possono essere installati nelle proprietà esclusive secondo regole precise, mirate a evitare successive contestazioni da parti degli altri condomini.

Quindi la prima importante novità introdotta dalla riforma del condominio è la possibilità di deliberare l'installazione di impianti comuni sulla base di un consenso non necessariamente ampio da parte dei condomini.
Gli impianti satellitari e di produzione dell'energia pulita. Per favorire lo sviluppo e la diffusione delle nuove tecnologie di radiodiffusione da satellite, le opere di installazione di nuovi impianti satellitari (i c.d. padelloni) era prevista dalla legge una maggioranza ridotta e cioè un numero di voti pari al terzo dei partecipanti al condominio e almeno un terzo del valore dell'edificio.
A seguito della riforma del condominio, il cui obiettivo è certamente quello di eliminare il più possibile il numero esorbitante degli impianti singoli, è stata prevista la possibilità di installare impianti centralizzati per la ricezione radiotelevisiva e per l'accesso a qualunque altro genere di flusso informativo (anche da satellite o via cavo) e i relativi collegamenti fino alla diramazione per le singole utenze con un delibera approvata con la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio.
Lo stesso quorum ridotto poi vale anche per la realizzazione delle opere e degli interventi diretti alla produzione di energia mediante l'utilizzo di impianti «verdi» (fonti eoliche, solari o comunque rinnovabili) da parte del condominio.
Per detti impianti sparisce quindi la maggioranza dei partecipanti al condominio (che viene sostituita dalla maggioranza degli intervenuti all'assemblea) ed il valore millesimale scende al 50%.
Si può perciò dire che per approvare questi impianti, che rappresentano delle innovazioni, è richiesta la stessa maggioranza prevista per le spese straordinarie sulle parti comuni e, conseguentemente si ridurrà in modo notevole il contenzioso tra condomini sulla natura dell'intervento deliberato.
Ma le novità non finiscono qui.
Anche la richiesta di installazione di detti impianti centralizzati da parte di un solo condomino deve essere tenuta in considerazione dall'amministratore che deve inserire la questione all'ordine del giorno ed è tenuto a convocare l'assemblea entro 30 giorni dalla richiesta.
Del resto costituisce grave irregolarità il comportamento dell'amministratore che ripetutamente rifiuti di convocare l'assemblea nei casi previsti dalla legge.
Quindi l'amministratore deve convocare, sempreché la richiesta sia chiara e dettagliata.
È vero infatti che il singolo condomino o il gruppo di condomini che intendono proporre l'installazione dei detti impianti sono tenuti a indicare (evidentemente per iscritto) il contenuto specifico e le modalità di esecuzione degli interventi proposti (ma non sembra debba essere necessario un vero e proprio progetto).
In mancanza, l'amministratore deve invitare il condomino proponente a fornire le necessarie informazioni mancanti.
Naturalmente tali impianti possono essere realizzati sempreché non compromettano la sicurezza del fabbricato, non alterino il decoro architettonico o rendano talune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino.
Gli impianti non centralizzati. La riforma del condominio introduce importanti novità anche su una questione frequentemente oggetto di contenzioso tra i condomini e cioè le installazioni di impianti autonomi nelle parti comuni per la ricezione radiotelevisiva (ad esempio, parabole) e di altri flussi informativi o per la produzione di energia da fonti rinnovabili.
Così viene riconosciuto il diritto individuale del singolo condomino alla ricezione radio-Tv con impianti individuali satellitari o via cavo e ne viene confermata la libera realizzazione, senza previo voto dell'assemblea, con l'obbligo però di arrecare il minor pregiudizio possibile alle parti comuni e agli immobili di proprietà di altri condomini e prevedendo che, per la progettazione e l'esecuzione dell'impianto, i condomini siano comunque costretti a lasciare libero accesso alle loro proprietà individuali.
In ogni caso deve essere rispettato il decoro architettonico dell'edificio (ed è fatto salvo quanto previsto in materia di reti pubbliche).
Ma è consentita anche l'installazione di impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili destinati al servizio di singole unità del condominio sul lastrico solare, su ogni altra idonea superficie comune e sulle parti di proprietà individuale dell'interessato.
Sarà l'assemblea, ai fini dell'installazione di detti impianti, a provvedere, a richiesta degli interessati, a ripartire l'uso del lastrico solare e delle altre superfici comuni, salvaguardando le diverse forme di utilizzo previste dal regolamento di condominio o comunque in atto.
Del resto, ciascun comproprietario potrebbe avere interesse ad installare pannelli per produrre energia, ma potrebbe non essere sufficiente per tutti la superficie a disposizione, o sopportabile dalla struttura il peso di più impianti ecc.; dette eventualità, fanno sì che la disponibilità dell'installazione non sia affatto scontata, ma debba essere valutata caso per caso, considerando la volontà e gli interessi di tutti i condomini interessati.
Da tenere presente che se detti impianti comportano necessariamente modifiche delle parti comuni, il condomino interessato ne dà comunicazione all'amministratore indicando il contenuto specifico e le modalità di esecuzione degli interventi.
In tal caso l'assemblea può intervenire e imporre, con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno i due terzi del valore dell'edificio, adeguate modalità alternative di esecuzione o imporre cautele a salvaguardia della stabilità, della sicurezza o del decoro architettonico del caseggiato, con possibilità di subordinare l'esecuzione alla prestazione, da parte dell'interessato, di idonea garanzia per i danni eventuali.
Tale disciplina coglie quindi in pieno l'esigenza di tutelare la sicurezza e l'estetica del condominio (articolo ItaliaOggi Sette del 26.11.2012).

CONDOMINIO LA RIFORMA DEL CONDOMINIO/ Dura la vita per chi non paga.
Acceleratore premuto contro i condomini morosi, che possono essere attaccati sia dall'amministratore sia dai creditori del condominio.

La legge di riforma del condominio si preoccupa di ammodernare la gestione finanziaria della compagine dei comproprietari, anche se non le ha riconosciuto lo status di persona giuridica.
Lo svecchiamento dell'impianto normativo prelude in alcuni a una gestione manageriale del condominio, tanto che la stessa può essere affidata a società e può essere nominato un organo di auditing interno (una commissione consultiva e di controllo formata da condomini). Manageriale o meno (va ricordato che la riforma ammette la possibilità di forme di amministrazione in proprio con uno dei comproprietari che si presta) la riforma dà un impulso alla gestione dei crediti condominiali.
Vediamo come.
Innanzi tutto, salvo che sia stato espressamente dispensato dall'assemblea, l'amministratore è tenuto ad agire per la riscossione forzosa delle somme dovute dagli obbligati entro sei mesi dalla chiusura dell'esercizio nel quale il credito esigibile è compreso.
Il nuovo articolo 1129 del codice civile detta, dunque, i tempi all'amministratore che non può rimanere inerte.
Il termine di sei mesi, entro i quali, necessariamente, l'amministratore deve agire e chiedere un decreto ingiuntivo contro il moroso, è a disposizione dell'assemblea, ma se la stessa non ha disposto nulla di diverso, allora, è automatico.
Se l'amministratore non rispetta il termine di sei mesi e non si rivolge a un avvocato per avviare la pratica legale potrà essere chiamato a risponderne di fronte all'assemblea; così come è responsabile e può essere revocato, se, quando sia stata promossa azione giudiziaria per la riscossione delle somme dovute al condominio, abbia omesso di curare diligentemente l'azione e la conseguente esecuzione coattiva.
Una causa tipica di irregolarità nella gestione del credito e che può dare adito alla revoca dell'amministratore è aver acconsentito, per un credito insoddisfatto, alla cancellazione delle formalità eseguite nei registri immobiliari a tutela dei diritti del condominio: ogni decisione da cui può derivare una minore garanzia deve passare dall'assemblea.
Dal punto di vista del singolo condomino il periodo di mora tollerato è un semestre, trascorso il quale bisogna aspettarsi la notifica dell'atto giudiziario e in particolare di un decreto ingiuntivo.
Per la riscossione dei contributi in base allo stato di ripartizione approvato dall'assemblea, l'amministratore, senza bisogno di autorizzazione di questa, può, infatti, ottenere un decreto di ingiunzione immediatamente esecutivo.
Si tratta di una procedura veloce, mediante la quale il creditore si rivolge direttamente al giudice cui porta le prove scritte del proprio credito, per ottenere un decreto con il quale si può passare subito alla fase del pignoramento.
Secondo un orientamento della Cassazione, è possibile chiedere l'emissione del decreto ingiuntivo anche solo sulla base del bilancio preventivo regolarmente approvato dall'assemblea.
L'esecutività non viene meno neanche nel caso in cui il condomino moroso presenti opposizione al decreto ingiuntivo.
Terminato il semestre il condomino moroso potrà anche essere sospeso dalla fruizione dei servizi comuni suscettibili di godimento separato.
Tale sanzione, nella versione previgente del codice, si applicava soltanto nel caso in cui vi fosse una espressa previsione regolamentare condominiale che lo consentisse espressamente, mentre con la nuova versione la sanzione è prevista direttamente dalla norma e potrà risultare uno strumento particolarmente persuasivo.
L'azione dei creditori del condominio. Il condomino moroso non subisce solo attacchi interni, in quanto è esposto anche all'azione dei creditori del condominio. In base all'articolo 63 delle disposizioni di attuazione, infatti, l'amministratore è tenuto a comunicare ai creditori non ancora soddisfatti che lo interpellino i dati dei condomini morosi. E contro di questi il creditore esterno dovrà rivolgersi in prima battuta.
I creditori, infatti, non possono agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti, se non dopo l'escussione degli altri condomini (disposizione introdotta dalla legge di riforma).
Si tratta di un beneficio di preventiva escussione a favore dei comproprietari in regola, anche se non è chiaro se l'obbligazione del condominio sia solidale o meno (con obbligo in quest'ultimo caso del creditore di agire contro ciascun condomino nei limiti della sua quota di millesimi). La Cassazione si è schierata per quest'ultima tesi, anche se i giudici di merito non seguono unanimemente la Suprema corte.
Quanto ai soggetti tenuti al pagamento, la riforma ribadisce che chi subentra nei diritti di un condomino è obbligato solidalmente con questo al pagamento dei contributi relativi all'anno in corso e a quello precedente.
Inoltre chi cede diritti su unità immobiliari resta obbligato solidalmente con l'avente causa per i contributi maturati fino al momento in cui è trasmessa all'amministratore copia autentica del titolo che determina il trasferimento del diritto. Quindi chi compra è responsabile per debiti pregressi al suo acquisito e chi vende rimane obbligato anche per debiti successivi alla vendita, fino alla data in cui non ha consegnato l'atto all'amministratore.
Chi vende rimane, dunque, ancora coinvolto delle vicende condominiali successive al passaggio di proprietà, a meno che non sia diligente nel far avere all'amministratore la copia dell'atto di vendita. Se non lo fa, il vecchio proprietario potrà ancora essere chiamato al pagamento degli oneri condominiali successivi alla compravendita non versati dall'acquirente.
Una volta riscossi (spontaneamente o coattivamente) i contributi, questi devono essere accreditati su un conto dedicato.
La riforma scrive, infatti, la regola per cui l'amministratore è obbligato a far transitare le somme ricevute a qualunque titolo dai condomini o da terzi, e quelle a qualsiasi titolo erogate per conto del condominio, su uno specifico conto corrente, postale o bancario, intestato al condominio. Sul punto deve essere garantita la massima trasparenza: ciascun condomino, per il tramite dell'amministratore, può chiedere di prendere visione ed estrarre copia del conto (articolo ItaliaOggi Sette del 26.11.2012).

CONDOMINIO: LA RIFORMA DEL CONDOMINIO/ Videosorvegliati, ok a maggioranza.
Via libera, ma a maggioranza, alla videosorveglianza condominiale. E con alcune cautele indicate dal Garante della privacy. La riforma del condominio, infatti, introduce l'articolo 1122-ter del codice civile, che prevede la facoltà dell'assemblea di decidere sull'installazione di impianti di videosorveglianza sulle parti comuni, con la maggioranza di cui al secondo comma dell'articolo 1136, ossia deliberazioni approvate con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio.

La norma arriva in un contesto, fino a oggi, di assenza di una presa di posizione del legislatore. Tanto che con provvedimento dell'08.04.2010 sulla videosorveglianza il Garante aveva appurato una lacuna normativa. In quella sede per i trattamenti effettuati dal condominio (anche per il tramite della relativa amministrazione), il Garante aveva evidenziato l'assenza di una puntuale disciplina che permettesse di risolvere alcuni problemi applicativi evidenziati nell'esperienza di questi ultimi anni. Infatti, che non era chiaro se l'installazione di sistemi di videosorveglianza potesse essere effettuata in base alla sola volontà dei comproprietari, o se rilevasse anche la qualità di conduttori; ancora non era chiaro quale fosse il numero di voti necessario per la deliberazione condominiale in materia (l'unanimità o una determinata maggioranza).
La legge di riforma del condominio affronta, invece, direttamente la questione e stabilisce che le deliberazioni concernenti l'installazione sulle parti comuni dell'edificio di impianti volti a consentire la videosorveglianza su di esse sono approvate dall'assemblea con la maggioranza di cui al secondo comma dell'articolo 1136 del codice civile.
Vediamo dunque cosa prevede l'articolo 1136 del codice civile, che è stato modificato. In prima convocazione per l'approvazione di una delibera ci vuole il quorum di 2/3 del valore e maggioranza per teste, e voto favorevole della maggioranza degli intervenuti e almeno metà del valore dell'edificio.
Poiché la norma fa riferimento esclusivamente al secondo comma dell'articolo 1136, si deve ritenere che la maggioranza debba sempre commutarsi secondo le soglie da esso previste.
Una volta rispettate queste maggioranze si può passare a installare le telecamere. Ma senza dimenticare che si devono osservare le precauzioni previste dal citato provvedimento generale del Garante della privacy del 2010.
Eccole, in dettaglio: le persone che transitano nelle aree videosorvegliate del condominio devono essere informate con cartelli della presenza delle telecamere, i cartelli devono essere resi visibili anche quando il sistema di videosorveglianza è attivo in orario notturno. Nel caso in cui i sistemi di videosorveglianza installati siano collegati alle forze di polizia è necessario apporre uno specifico cartello che lo evidenzi.
Contro possibili aggressioni, furti, rapine, danneggiamenti, atti di vandalismo, prevenzione incendi, sicurezza del lavoro ecc. si possono installare telecamere senza il consenso dei soggetti ripresi, ma sempre sulla base delle prescrizioni indicate dal Garante.
Particolare attenzione deve essere posta quanto al termine di conservazione delle immagini registrate.
Il provvedimento generale del Garante dell'08.04.2010 stabilisce che, nei casi in cui sia stato scelto un sistema che preveda la conservazione delle immagini, in applicazione del principio di proporzionalità, anche l'eventuale conservazione temporanea dei dati deve essere commisurata al tempo necessario e predeterminato a raggiungere la finalità perseguita. Il provvedimento passa a indicazioni nel dettaglio: la conservazione deve essere limitata a poche ore o, al massimo, alle 24 ore successive alla rilevazione. Inoltre non risulta che ricorrano circostanze tali da consentire un allungamento del periodo di conservazione. Il sistema impiegato deve essere programmato in modo da operare al momento prefissato l'integrale cancellazione automatica delle informazioni allo scadere del termine previsto da ogni supporto, anche mediante sovra-registrazione, con modalità tali da rendere non riutilizzabili i dati cancellati. In presenza di impianti basati su tecnologia non digitale o comunque non dotati di capacità di elaborazione tali da consentire la realizzazione di meccanismi automatici di expiring dei dati registrati, la cancellazione delle immagini dovrà comunque essere effettuata nel più breve tempo possibile per l'esecuzione materiale delle operazioni dalla fine del periodo di conservazione fissato dal titolare. Il mancato rispetto dei tempi di conservazione delle immagini raccolte e del correlato obbligo di cancellazione di dette immagini oltre il termine previsto comporta l'applicazione della sanzione amministrativa stabilita dall'art. 162, comma 2-ter, del Codice della privacy.
Altri adempimenti, previsti nel provvedimento generale del Garante, sono la richiesta di verifica preliminare e la nomina di responsabili e incaricati del trattamento. La verifica preliminare è necessaria per i sistemi di raccolta delle immagini associate a dati biometrici, per i sistemi di videosorveglianza dotati di software che permetta il riconoscimento della persona tramite collegamento o incrocio o confronto delle immagini rilevate (ad esempio morfologia del volto) con altri specifici dati personali e, infine, per i sistemi cosiddetti intelligenti, che non si limitano a riprendere e registrare le immagini, ma sono in grado di rilevare automaticamente comportamenti o eventi anomali, segnalarli, ed eventualmente registrarli. Devono essere nominati incaricati del trattamento le persone, da mantenere in numero ristretto, che hanno accesso alle immagini, anche se si ritiene che per la maggioranza dei casi non sia necessario la visione in tempo reale con un monitor. Non è consentita alcuna forma di registrazione audio (articolo ItaliaOggi Sette del 26.11.2012).

CONDOMINIOLA RIFORMA DEL CONDOMINIO/ La distinzione tra decisioni contrattuali e deliberative. Nuovi millesimi, serve unanimità. La rettifica per errore può invece avvenire a maggioranza.
Per cambiare le tabelle millesimali condominiali non ci vuole sempre l'unanimità; la rettifica per errore o mutamento dello stato dell'immobile può avvenire a maggioranza.
La riforma del condominio precisa quando la decisione sui valori proporzionali delle singole unità immobiliari ha natura contrattuale (e ci vuole l'accordo di tutti) e quando, invece, ha natura deliberativa (e basta la maggioranza). Vediamo, dunque, il nuovo articolo 69 delle disposizioni per l'attuazione del codice civile, partendo dalla situazione del codice civile previgente.
Nella normativa previgente, spiegano gli atti parlamentari, secondo l'orientamento tradizionale, l'approvazione o la revisione delle tabelle millesimali non poteva essere deliberata a maggioranza dall'assemblea condominiale. Come accade per il regolamento contrattuale, si riteneva invece necessario il consenso di tutti i condomini; in assenza di tale consenso unanime, alla formazione delle tabelle provvedeva il giudice su istanza degli interessati, in contraddittorio con tutti i condomini.
Tra gli argomenti a sostegno della tesi dell'unanimità, si affermava che la materia non rientrava tra le competenze della assemblea e che l'approvazione delle tabelle si risolverebbe in un atto negoziale di accertamento, cioè una manifestazione di volontà volta ad accertare il contenuto di diritti reali spettanti a ciascun condomino.
Una sentenza della Corte di cassazione si è pronunciata, a Sezioni Unite, in materia di approvazione e modifica delle tabelle millesimali allegate al regolamento di condominio rendendo più facile l'intervento dell'assemblea condominiale (Cassazione civile, S.U., sentenza 09.08.2010, n. 18477). Per la Cassazione, infatti, «le tabelle millesimali non devono essere approvate con il consenso unanime dei condomini, essendo sufficiente la maggioranza qualificata di cui all'articolo 1136 codice civile, comma 2 (voto a maggioranza degli intervenuti e che rappresenti almeno la metà del valore dell'edificio)».
Il nuovo articolo 69 citato comincia con il disporre che i valori proporzionali delle singole unità immobiliari espressi nella tabella millesimale possono essere rettificati o modificati all'unanimità.
L'assemblea totalitaria è sovrana e può decidere la misura dei millesimi, anche eventualmente, se i condomini lo vogliono, senza corrispondenza precisa con lo stato di fatto. No si può escludere ì, infatti che i condomini intendano modificare la portata dei loro rispettivi diritti e obblighi di partecipazione alla vita del condominio. Ma questa non è l'unica via per la modifica dei millesimi.
La norma prosegue prescrivendo che in alcuni casi i valori possono essere rettificati o modificati anche nell'interesse di un solo condomino, con la maggioranza prevista dall'articolo 1136, secondo comma, del codice civile (maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio).
I casi di modifica a maggioranza sono: valori conseguenza di un errore; alterazione per più di un quinto del valore proporzionale dell'unità immobiliare anche di un solo condomino, in conseguenza di mutate condizioni di una parte dell'edificio, in conseguenza di sopraelevazione, di incremento di superfici o di incremento o diminuzione delle unità immobiliari.
In questo caso il costo è sostenuto da chi ha dato luogo alla variazione.
A questo proposito va sottolineato che per errore si intende la obiettiva divergenza tra il valore effettivo delle singole unità immobiliari e il valore proporzionale ad esse attribuito.
Inoltre, allo scopo di rivedere i valori proporzionali espressi nella tabella millesimale allegata al regolamento di condominio, può essere convenuto in giudizio unicamente il condominio in persona dell'amministratore. Questi è tenuto a darne senza indugio notizia all'assemblea dei condomini. L'amministratore che non adempie a quest'obbligo può essere revocato ed è tenuto al risarcimento degli eventuali danni.
Le norme richiamate si applicano per la rettifica o la revisione delle tabelle per la ripartizione delle spese redatte in applicazione dei criteri legali o convenzionali.
Infine va ricordato che il Condominio può esperire l'azione di indebito arricchimento per far valere le proprie ragioni contro il singolo condomino che si è avvalso di un errore nelle tabelle millesimali per non concorrere alle spese (articolo ItaliaOggi del 24.11.2012).

CONDOMINIOLA RIFORMA DEL CONDOMINIO/ Le deliberazioni impugnabili anche dagli astenuti. Assemblee ad assetto variabile. Maggioranza semplice per le modifiche di minore rilievo.
Maggioranze più snelle e deliberazioni impugnabili anche dagli astenuti. Per cambiare la tabella millesimale ci vuole l'unanimità, ma basta la maggioranza se la variazione riguarda una rettifica per un solo condomino, anche a seguito di sopraelevazione o aumento delle unità.
Queste le novità della legge di riforma del condominio, che riscrive l'articolo 1136 del codice civile, attesa alla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.
Vediamo come.
L'assemblea in prima convocazione è regolarmente costituita con l'intervento di tanti condomini che rappresentino i due terzi del valore dell'intero edificio e la maggioranza dei partecipanti al condominio.
Nella vecchia versione occorreva il medesimo quorum di millesimi, ma un più alto quorum per teste: questo significa che sarà più facile far svolgere l'assemblea in prima convocazione.
Per l'approvazione delle deliberazioni occorre un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio. Il computo della maggioranza per l'assemblea in prima convocazione è rimasto invariato (ma calcolato su un diverso quorum partecipativo).
Se l'assemblea in prima convocazione non può deliberare per mancanza di numero legale, l'assemblea in seconda convocazione delibera in un giorno successivo a quello della prima e, in ogni caso, non oltre dieci giorni dalla medesima.
Quindi non ci possono essere prima e seconda convocazione nello stesso giorno. La riforma inserisce una soglia per considerare regolarmente costituita l'assemblea in seconda convocazione: occorre l'intervento di tanti condomini che rappresentino almeno un terzo del valore dell'intero edificio e un terzo dei partecipanti al condominio. Per l'approvazione delle deliberazioni occorre la maggioranza degli intervenuti con un numero di voti che rappresenti almeno un terzo del valore dell'edificio.
Una maggioranza qualificata ci vuole per le deliberazioni che concernono la nomina e la revoca dell'amministratore o le liti attive e passive relative a materie che esorbitano dalle attribuzioni dell'amministratore medesimo, quelle che concernono la ricostruzione dell'edificio o riparazioni straordinarie di notevole entità e le deliberazioni di cui agli articoli 1117-ter (tutela delle destinazioni di uso), 1120, secondo comma (opere per sicurezza impianti, eliminazione barriere architettoniche, contenimento consumo energetico, realizzazione parcheggi, installazione pannelli solari, impianti centralizzati di ricezione televisiva e dati), 1122-ter (impianti di videosorveglianza) nonché 1135, secondo comma (manutenzione straordinaria): devono essere sempre approvate con la maggioranza stabilita dal secondo comma, e cioè maggioranza degli intervenuti rappresentante almeno la metà del valore dei millesimi.
Le deliberazioni di cui all'articolo 1120, primo comma (innovazioni), e all'articolo 1122-bis, terzo comma (prescrizioni e cautele per impianti individuali di ricezione televisiva e di produzione di energia da fonti non rinnovabili), devono essere approvate dall'assemblea con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno i due terzi del valore dell'edificio.
L'articolo 1136 nuova versione conferma che l'assemblea non può deliberare, se non consta che tutti gli aventi diritto sono stati regolarmente convocati.
Infine, delle riunioni dell'assemblea si redige processo verbale da trascrivere nel registro tenuto dall'amministratore.
IMPUGNAZIONI
La regola della maggioranza impone che le deliberazioni prese dall'assemblea sono obbligatorie per tutti i condomini.
La riforma allarga la platea dei soggetti che possono impugnare la deliberazione. Il codice civile, nella vecchia versione, si riferiva ai condomini assenti e a quelli dissenzienti. Si aggiunge ora la categoria degli astenuti.
Contro le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio ogni condomino assente, dissenziente o astenuto, dunque, può rivolgersi all'autorità giudiziaria chiedendone l'annullamento.
Rimane il termine di decadenza di 30 giorni, trascorsi i quali la deliberazione si consolida.
Il termine di 30 giorni decorre dalla data della deliberazione per i dissenzienti o astenuti e dalla data di comunicazione della deliberazione per gli assenti.
L'azione di annullamento non sospende l'esecuzione della deliberazione, salvo che la sospensione sia ordinata dall'autorità giudiziaria.
L'istanza per ottenere la sospensione proposta prima dell'inizio della causa di merito non sospende né interrompe il termine per la proposizione dell'impugnazione della deliberazione.
MILLESIMI
Per la rettifica e modifica della tabelle dei millesimi (valori proporzionali delle singole unità immobiliari) di regola ci vuole l'unanimità.
Tuttavia in alcuni casi basta la maggioranza degli intervenuti e la metà del valore dell'edificio: ciò vale per rettificare o modificare i millesimi anche nell'interesse di un solo condomino. Questo capita quando i valori sono conseguenza di un errore e a seguito di sopraelevazione, incremento di superfici o di incremento o diminuzione delle unità immobiliari, con conseguente alterazione di più di un quinto il valore proporzionale dell'unità immobiliare anche di un solo condomino. In questa ipotesi il relativo costo è sostenuto da chi ha dato luogo alla variazione (articolo ItaliaOggi del 23.11.2012).

CONDOMINIOLA RIFORMA DEL CONDOMINIO/ Condomini morosi, meno privacy. L'amministratore può svelare il nome di chi non è in regola. Cosa cambia nelle comunicazioni con la legge approvata.
Il condomino moroso perde un po' della sua privacy. L'amministratore, secondo la legge di riforma del condominio, approvata definitivamente dalle camere martedì scorso e ora in attesa della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, è tenuto a comunicare i dati dei condomini morosi ai creditori non ancora soddisfatti che lo interpellino. Possono essere resi noti, dunque, i nominativi dei condomini non in regola con il pagamento della somma dovuta e delle rispettive quote millesimali.
Questa comunicazione è propedeutica a far sapere ai creditori del condominio l'esatta identità dei condomini, che non avendo pagato le rate condominiali, mettono in difficoltà il condominio nel suo complesso. Senza il versamento di tutti i partecipanti alla compagine condominiale, sul conto del condominio non ci sono le somme necessarie per pagare i fornitori del condominio.

Il problema di conoscere i dati dei singoli condomini è nato a seguito della presa di posizione della Cassazione che ha costretto i fornitori del condominio a intentare cause contro i singoli condomini per recuperare quanto dovuto da ognuno: la Cassazione ha escluso il vincolo di solidarietà giuridica.
Sul punto era già intervenuto il garante della privacy, con un'apertura alla possibilità di comunicazione dei dati dei morosi. Ma vediamo di riepilogare la questione.
Con nota del 26.09.2008 il garante per la protezione dei dati personali ha dato riscontro a un'associazione di categoria in merito agli effetti della sentenza della Cassazione, sezioni unite, n. 9148 del 2008, che ha ritenuto legittimo, facendo propria la tesi minoritaria, il principio della parziarietà, ossia della ripartizione tra i condomini delle obbligazioni assunte nell'interesse del condominio in proporzione alle rispettive quote. In particolare, la Suprema corte ha sottolineato che l'obbligazione, ancorché comune, è divisibile trattandosi di somma di denaro; la solidarietà nel condominio, al contrario, non è contemplata da nessuna disposizione di legge e l'articolo 1123 del codice civile non distingue il profilo esterno da quello interno; l'amministratore vincola i singoli nei limiti delle sue attribuzioni e del mandato conferitogli in ragione delle quote.
In sostanza, se una ditta esegue lavori per il condominio e non riceve il pagamento, prima della sentenza del 2008 poteva fare causa al condominio e anche a uno solo dei condomini chiedendo a uno tutto il debito. Si parlava, infatti, di responsabilità solidale. Tutto è cambiato con la sentenza citata. La Cassazione impone, nell'esempio, alla ditta esecutrice dei lavori, di dividere il proprio credito nei confronti di ciascuno dei condomini. E per recuperare il credito si dovranno fare tante cause quanti sono i condomini e quindi conoscere i nominativi dei condomini e sapere la quota di debito loro attribuibile.
La sentenza della Cassazione è stata smentita da alcune successive sentenze di merito, ma l'orientamento delle sezioni unite non è stato successivamente ribaltato dalla Suprema corte.
Si è posto dunque il problema di privacy dei singoli condomini e cioè se può l'amministratore passare i dati dei condomini alle ditte. Con la nota del 2008 il garante ha risposto a una richiesta dall'Anaci, associazione degli amministratori, e ha risolto in senso positivo il quesito.
L'Autorità garante ha innanzitutto richiamato l'attenzione su quanto affermato in occasione del proprio provvedimento generale del 18 maggio 2006, relativo al trattamento dei dati personali connessi all'attività di gestione di condomini: al punto 2.1 veniva precisato che le informazioni trattate, per finalità di gestione e amministrazione del condominio ai sensi dell'articolo 24, comma 1, lettere a), b) o c), del codice privacy, possono essere riferite a ciascun partecipante condominiale in quanto funzionali all'amministrazione comune.
Pertanto, concludeva il garante, anche a seguito della sentenza della Suprema corte, non sussiste alcun vincolo nella normativa privacy alla comunicazione di detti dati. Infatti, fermo restando che le informazioni oggetto del trattamento devono essere pertinenti e non eccedenti, i dati personali riferiti ai singoli condomini possono essere trattati dai fornitori di beni e servizi condominiali in assenza del consenso degli interessati per dare esecuzione agli obblighi derivanti da un contratto stipulato dai partecipanti alla compagine condominiale, ancorché di regola tramite amministratore ed eventualmente ex articolo 24, comma 1, lettera f), del codice privacy per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria.
Questo significa che ricorre la causa di esonero dal consenso derivante dalla necessità di eseguire contratti: il rapporto contrattuale intrattenuto dal condominio si può riferire, infatti, ai singoli condomini. E dove c'è necessità di eseguire un rapporto contrattuale non ci sono restrizioni poste dalla legge sulla privacy. In sede di esemplificazione nella nota in questione il garante cita come dati suscettibili di tale trattamento quelli che consentono di identificare i condomini obbligati al pagamento del corrispettivo per l'esecuzione dei contratti di fornitura di beni e servizi, le rispettive quote millesimali e, se del caso, le ulteriori informazioni necessarie a determinare le somme individualmente dovute.
Stando alla legge di riforma del condominio, dalla facoltà si è passati all'obbligo di comunicare le informazioni necessarie ai creditori.
L'articolo 63 delle disposizioni per l'attuazione del codice civile e disposizioni transitorie, riformulato dalla novella, prevede infatti che l'amministratore è tenuto a comunicare ai creditori non ancora soddisfatti i dati dei condomini morosi. L'unica condizione è che i creditori lo chiedano, non potendo l'amministratore fare comunicazioni unilaterali di sua iniziativa.
Il condomino moroso non può invocare più la privacy e l'amministratore, osservando la legge, non ha nulla da temere quanto al rispetto della riservatezza.
Peraltro l'amministratore deve limitarsi a dare i dati dei condomini morosi e non altro. Va aggiunto, però, che l'articolo 63, nella nuova formulazione, prevede che l'escussione dei condomini, quelli in regola con i pagamenti, può avvenire solo dopo che i creditori abbiano esperito le cause contro i morosi. A quel punto il creditore ha l'esigenza di conoscere i dati dei condomini in regola, ma la norma non lo contempla esplicitamente (articolo ItaliaOggi del 22.11.2012).

CONDOMINIOLA RIFORMA DEL CONDOMINIO/ La legge è stata approvata in via definitiva dal senato. Nuove regole per la vita in comune. Ingiunzione ai proprietari morosi senza l'ok dell'assemblea.
La riforma del condominio è legge. Il via libera definitivo è arrivato ieri dalla commissione giustizia del senato che ha approvato in sede deliberante e senza apportare modifiche il testo varato il 27 settembre scorso dalla camera dei deputati.
Per la prima volta, dal lontano 1942, cambiano le regole del codice civile che disciplinano la convivenza in condominio e che interessano circa 30 milioni di italiani. Ma vediamo le principali novità a cominciare dalla figura dell'amministratore che esce profondamente ridisegnata dalla riforma.
Amministratore. Il provvedimento rende più snelle le decisioni e valorizza la figura dell'amministratore che resterà in carica due anni, dovrà avere requisiti di formazione e onorabilità, non dovrà essere stato condannato per delitti contro la pubblica amministrazione, dovrà avere conseguito almeno il diploma di maturità, aver frequentato un apposito corso e, ove ciò sia richiesto dall'assemblea, aver stipulato una speciale polizza assicurativa a tutela dai rischi derivanti dal proprio operato. L'amministratore potrà essere licenziato prima della fine del mandato qualora abbia commesso gravi irregolarità fiscali o non abbia aperto o utilizzato il conto corrente condominiale.
Nei confronti dei condòmini morosi l'amministratore potrà procedere con l'ingiunzione senza chiedere una preventiva autorizzazione dell'assemblea e potrà comunicare ai creditori i dati di chi non paga. Questi così potranno agire in prima battuta sui «morosi». Se la mora dura più di sei mesi, l'amministratore dovrà sospendere il condomino debitore dalla fruizione dei servizi comuni qualificato.
Riscaldamento. Chi si vuole «staccare» dall'impianto centralizzato può farlo senza dover attendere il benestare dell'assemblea, ma a patto di non creare pregiudizi agli altri e di continuare a pagare la manutenzione straordinaria dell'impianto condominiale.
Nuovi quorum. Quorum più basso (dovrà essere pari alla maggioranza degli intervenuti in assemblea, che rappresentino almeno la metà dei millesimi) per deliberare, ad esempio, l'installazione di impianti di videosorveglianza sulle parti comuni dell'edificio. Uguale il quorum per deliberare l'installazione di impianti per la produzione di energia eolica, solare o comunque rinnovabile, anche da parte di terzi che conseguano a titolo oneroso un diritto reale o personale di godimento del lastrico solare o di altra idonea superficie comune. Stessa maggioranza anche per deliberare l'attivazione, a cura dell'amministratore e a spese dei condomini, di un sito internet del condominio, ad accesso individuale protetto da una password, per consultare e stampare in formato digitale i rendiconti mensili e gli altri documenti dell'assemblea.
Basteranno i 4/5 dei consensi, infine, per il cambio di destinazione d'uso dei locali comuni. Potranno impugnare le delibere assembleari, per annullarle, anche i condomini che si sono astenuti. Mediazione obbligatoria in caso di controversie.
Nessun divieto per gli animali. Il regolamento condominiale non potrà più vietare di tenere animali in casa. Ma questi dovranno essere «domestici».
Condòmini molesti. Maggior rigore contro chi arreca danni o disturba. Per chi viola il regolamento condominiale la sanzione è stata aggiornata: da 0,052 euro (pari a 100 lire) a 200 euro. In caso di recidiva si arriva a 800 euro (articolo ItaliaOggi del 21.11.2012).

CONDOMINIO LA RIFORMA DEL CONDOMINIO/ La legge ridisegna i requisiti morali e professionali. Bollino blu per l'amministratore. Obbligatori diploma, formazione iniziale e aggiornamento.
Amministratore con il bollino blu. Dovrà essere diplomato e deve avere seguito un corso di formazione; ma deve anche possedere severi requisiti morali: non deve essere stato condannato per delitti puniti con reclusione da due a cinque anni.

La riforma del condominio ridisegna l'identikit dell'amministratore, codificando che la carica può essere svolta anche da una società e ridefinisce i compiti e i poteri.
Requisiti. Per diventare amministratore di condominio occorre godere dei diritti civili e non essere stati condannati per delitti contro la p.a., la giustizia, la fede pubblica, il patrimonio e per ogni altro delitto non colposo per il quale la legge commina la pena della reclusione non inferiore, nel minimo, a due anni e, nel massimo, a cinque anni.
È ostativa alla funzione l'avere subito una misura di prevenzione (salvo riabilitazione) e non essere sottoposti a tutela o curatela. La strada è bloccata anche per i protestati. Passando ai requisiti professionali bisogna avere un diploma di scuola superiore e avere frequentato un corso di formazione iniziale e aggiornarsi periodicamente. Ultimo requisito è la sottoscrizione di un'assicurazione per responsabilità professionale.
La novella esclude i requisiti professionali quando l'amministratore è un interno, nominato tra i condomini dello stabile. Anche le società possono svolgere l'incarico di amministratore di condominio: i requisiti morali e professionali dovranno essere posseduti dai soci illimitatamente responsabili, dagli amministratori e dai dipendenti incaricati di svolgere le funzioni di amministrazione. La perdita dei requisiti morali comporta la cessazione dall'incarico. La norma stabilisce una disposizione transitoria: chi ha svolto attività di amministrazione di condominio per almeno un anno nell'arco dei tre anni precedenti è consentito lo svolgimento dell'attività di amministratore anche in assenza dei requisiti di titolo di studio e di frequenza del corso di formazione iniziale (ma rimane l'obbligo di formazione periodica).
Obblighi. L'obbligo di nomina scatta quando i condomini sono più di otto. L'amministratore deve essere rintracciabile dai condomini e deve fornire orari nei quali è a disposizione, anche per far visionare i documenti dell'amministrazione. Un obbligo specifico concerne le somme versate dai condomini: si deve aprire un apposito conto e i relativi estratti sono a disposizione degli interessati. Altro obbligo di natura gestionale è quello di agire per recuperare le rate non pagate dai morosi: l'amministratore deve farlo entro sei mesi chiusura dell'esercizio.
L'incarico di amministratore ha durata di un anno e si intende rinnovato per uguale durata. L'amministratore può essere licenziato dall'assemblea in qualunque momento oppure dal giudice, anche su richiesta di un solo condomino per gravi irregolarità. La riforma codifica i casi di gravi inadempienze: ad esempio mancata rendicontazione, mancata esecuzione di provvedimenti giudiziari e amministrativi e di deliberazioni dell'assemblea, mancata apertura e utilizzazione del conto corrente dedicato al condominio.
Compiti. Tra i compiti dell'amministratore, introdotti dalla novella, si segnalano la tenuta di alcuni registri, tra cui il registro di anagrafe condominiale e il registro di contabilità. Il registro dell'anagrafe contiene le generalità dei condomini, i dati catastali di ciascuna unità immobiliare, ogni dato relativo alle condizioni di sicurezza.
Nel registro di contabilità sono annotati in ordine cronologico, entro 30 giorni da quello dell'effettuazione, i singoli movimenti in entrata e in uscita. Il registro può tenersi anche con modalità informatizzate.
Altri registri sono quello dei verbali delle assemblee e quello del registro di nomina e revoca dell'amministratore. Nel registro dei verbali delle assemblee sono annotate le deliberazioni e le brevi dichiarazioni rese dai condomini che ne hanno fatto richiesta. Nel registro di nomina e revoca dell'amministratore sono annotate, in ordine cronologico, le date della nomina e della revoca di ciascun amministratore del condominio e gli estremi dei provvedimenti giudiziari. Specifico obbligo dell'amministratore è la redazione del rendiconto condominiale annuale.
Il rendiconto. A proposito del rendiconto, la riforma prevede per l'assemblea condominiale di nominare un revisore che verifichi la contabilità del condominio. Per ragioni di auditing interno l'assemblea può anche nominare, oltre all'amministratore, un consiglio di condominio composto da almeno tre condomini negli edifici di almeno dodici unità immobiliari. Il consiglio ha funzioni consultive e di controllo (articolo ItaliaOggi del 21.11.2012).

CONDOMINIOLA RIFORMA DEL CONDOMINIO/ Le nuove regole puntano ad assicurare stabilità finanziaria. Il rendiconto come un bilancio. Entrate e uscite da evidenziare col criterio della competenza.
Il rendiconto condominiale dovrà somigliare sempre di più al bilancio delle società ed evidenziare in maniera trasparente le somme in entrata e quelle in uscita secondo il criterio di competenza. Queste ultime dovranno necessariamente transitare su un conto corrente intestato al condominio e l'amministratore, che potrà essere anche una società, dovrà curare i necessari adempimenti fiscali. Questi avrà a sua disposizione nuovi ed efficaci strumenti per contrastare il dilagante fenomeno della morosità condominiale e dovrà attivarsi senza indugio per recuperare le somme non versate nelle casse condominiali.
La maggiore stabilità finanziaria del condominio costituirà quindi una garanzia in più per i fornitori esterni: in caso di lavori di manutenzione straordinaria o di innovazioni dovrà infatti obbligatoriamente essere costituito un fondo speciale di ammontare pari a quello dell'appalto deliberato dall'assemblea. I singoli condomini avranno a loro volta qualche tutela in più nei confronti delle imprese che vantino crediti nei confronti del condominio, in quanto le stesse dovranno necessariamente provare a recuperare le somme dovute dai comproprietari in mora nel versamento degli oneri condominiali (previa obbligatoria indicazione della loro identità da parte dell'amministratore) e solo in caso di insuccesso potranno agire nei confronti dei condomini in regola con i pagamenti.
Queste alcune delle novità introdotte dalla legge di riforma della disciplina condominiale approvata ieri in via definitiva dalla commissione giustizia del senato, che ha riscritto in maniera quasi completa gli articoli 1117 e seguenti del codice civile e 61 e seguenti delle relative disposizioni di attuazione (si veda la tabella relativa alle principali novità introdotte). Ma la nuova normativa interviene in modo rilevante anche sui requisiti, i poteri e i doveri dell'amministratore condominiale (la cui figura si avvia a diventare sempre più professionale per allontanare dal mercato operatori improvvisati), sulle modalità di costituzione, partecipazione ed espressione della volontà dell'assemblea condominiale (le maggioranze necessarie all'adozione delle delibere vengono generalmente abbassate per migliorare il relativo processo decisionale), sull'utilizzo delle parti comuni (viene ammesso il distacco dall'impianto comune di riscaldamento o condizionamento, purché ciò non influisca negativamente sul suo funzionamento), sulla disciplina di nuove fattispecie quali il supercondominio e il cosiddetto condominio orizzontale (articolo ItaliaOggi del 21.11.2012).

ottobre 2012

CONDOMINIOImmobili. Difettosa realizzazione delle parti comuni. Danni da infiltrazioni, risponde il condominio.
LA DECISIONE/ Si tratta di responsabilità del custode che deve eliminare le caratteristiche lesive insite nella cosa propria.

Se i danni lamentati dal singolo condomino sui beni di proprietà esclusiva derivano da difettosa realizzazione delle parti comuni dell'edificio, nei confronti del condomino è responsabile –in via autonoma in base all'articolo 2051 del Codice civile– il condominio. Quest'ultimo, infatti, come custode, deve eliminare le caratteristiche lesive insite nella cosa propria.
Lo ha ribadito la II Sez. civile della Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 17268/2012, ha affrontato il caso di due coniugi che, per le infiltrazioni d'acqua nella loro cantina, avevano chiesto al tribunale la condanna del condominio a eseguire le opere necessarie per eliminare gli inconvenienti e a risarcire i danni.
La domanda del condomino, respinta dal tribunale, è stata invece accolta dalla Corte d'appello, che ha condannato il condominio a eseguire le opere descritte nella consulenza tecnica d'ufficio. La Corte ha infatti evidenziato che, pur avendo la Ctu appurato che a generare il danno erano stati i vizi di progettazione e di esecuzione imputabili al costruttore, doveva comunque essere ravvisata la responsabilità del condominio in base all'articolo 2051 del Codice civile: il danno era stato causato non da un comportamento del custode, ma dalla cosa in custodia; e la responsabilità era superabile solo dalla prova liberatoria del superamento della presunzione di colpa o del caso fortuito.
La Cassazione, a sua volta, nel respingere il ricorso del condominio, ha precisato che se il fenomeno dannoso lamentato dal singolo condomino sui beni di proprietà esclusiva è originato da difettosa realizzazione delle parti comuni dell'edificio (nella specie precaria situazione della muratura perimetrale adiacente il giardino condominiale e dei pozzetti), nei confronti di questi è responsabile, in via autonoma, il condominio, che è tenuto, quale custode, a eliminare le caratteristiche lesive insite nella cosa propria.
Non si tratta di una responsabilità a titolo derivativo: il condominio, pur successore a titolo particolare del costruttore-venditore, non subentra nella sua personale responsabilità, legata alla sua attività e fondata sull'articolo 1669 del Codice civile. Ma si tratta di autonoma fonte di responsabilità in base all'articolo 2051 del Codice civile, che non preclude, però, al condominio la possibilità di agire nei confronti della società costruttrice in base all'articolo 1669 del Codice civile se sussistano i presupposti (articolo Il Sole 24 Ore del 29.10.2012).

CONDOMINIOLa Cassazione ha ribadito il principio della solidarietà. Anche a svantaggio del decoro. Ascensore, sì con quorum ridotto. Basta la maggioranza semplice perché si superano le barriere.
Il necessario rispetto del principio di solidarietà condominiale rende legittima la delibera di installazione di un ascensore che tuteli l'esigenza di garantire un accesso agli appartamenti ai condomini, o loro ospiti, con ridotta capacità motoria, anche se la nuova opera comporti un'accettabile riduzione del decoro architettonico o un modesto restringimento degli spazi comuni.
In altre parole, i condomini devono sacrificarsi, in nome dei diritti umani fondamentali, per consentire ai disabili, o agli anziani con mobilità ridotta, di socializzare e di muoversi senza incontrare ostacoli.

Queste le conclusioni alle quali è pervenuta la II Sez. della Corte di Cassazione con la recente sentenza 25.10.2012 n. 18334.
Il caso di specie. La vicenda che ha portato alla decisione in questione prendeva l'avvio quando un condomino impugnava la delibera che aveva approvato l'installazione di un ascensore, ritenuta illegittima non solo perché adottata con maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge, ma soprattutto perché la nuova opera aveva ristretto il passaggio sulla prima rampa di scale, impedendo anche il passaggio di eventuali mezzi di soccorso e compromesso il decoro architettonico dell'edificio in stile liberty. Il Tribunale, aderendo pienamente alla tesi del singolo condomino, condannava il condominio a rimuovere l'impianto di ascensore.
Secondo il condominio, però, che impugnava detta decisione in appello, la delibera era pienamente legittima perché non comportava alterazione del decoro architettonico dell'immobile né alcun pregiudizio alle parti comuni e, comunque, era stata adottata a tutela dei condomini anziani e disabili e nel rispetto della normativa in materia di barriere architettoniche. Queste considerazioni venivano però respinte dalla Corte d'appello, secondo cui il decoro architettonico del fabbricato risultava compromesso dall'installazione dell'ascensore che, tra l'altro, non era conforme alle disposizioni antincendio, aveva diminuito la possibilità di utilizzo della rampa della scala e aveva creato pregiudizio alla sicurezza del caseggiato e all'incolumità degli abitanti, rendendo particolarmente difficoltoso l'accesso di mezzi di soccorso.
Ma, soprattutto, secondo i giudici di secondo grado, la delibera non risultava aver avuto a oggetto alcuna opera attinente al superamento delle barriere architettoniche, perché il condominio non aveva fornito la prova che nello stabile vivessero portatori di handicap: di conseguenza la delibera non poteva essere adottata con la ridotta maggioranza prevista dalla legislazione in tema di eliminazione delle barriere architettoniche.
La decisione della Cassazione. La Suprema corte, però, non condividendo le precedenti osservazioni, ha confermato la piena legittimità della scelta fatta dai condomini. Secondo i giudici supremi, infatti, non ha alcuna rilevanza la circostanza che l'assemblea non abbia avuto a oggetto una delibera attinente all'eliminazione delle barriere architettoniche, in quanto la delibera di installazione di un ascensore si muove sostanzialmente in tale direzione. Inoltre, la normativa speciale a favore dei portatori di handicap prevede un abbassamento del quorum richiesto per l'innovazione, indipendentemente dalla presenza di disabili: lo scopo infatti è quello di consentire ai disabili, o agli anziani con mobilità ridotta, di socializzare e di muoversi senza incontrare ostacoli, anche se le persone interessate non sono proprietari di appartamenti nel caseggiato o non risiedono stabilmente nel palazzo.
In ogni caso i giudici supremi hanno ritenuto che, nel rispetto del principio di solidarietà condominiale, la delibera dell'assemblea con la quale viene decisa, a cura e spese di alcuni dei condomini, l'installazione di un ascensore nel vano scala condominiale è legittima anche se comporta un'accettabile compromissione del decoro architettonico (cioè un cambiamento estetico che non sia di grave e appariscente entità) e/o un modesto restringimento di spazi comuni (con semplice disagio subito rispetto alla sua normale utilizzazione), in quanto le difficoltà delle persone affette da invalidità devono ormai essere considerate quali problemi non solo individuali, ma tali da dover essere assunti dall'intera collettività (articolo ItaliaOggi Sette del 19.11.2012).

CONDOMINIOIn condominio ci vuole «solidarietà». Per l'ascensore il voto unanime non è necessario.
Non ci si può opporre all'installazione dell'ascensore, anche quando questo configura un'innovazione e il voto in assemblea non è stato unanime. Questo perché la legge 13/89 di sostegno alla disabilità prevede la maggioranza che rappresenti almeno un terzo dei condomini e dei millesimi e non ha rilevanza il fatto che l'eliminazione delle barriere architettoniche non sia citata nella delibera, «posto che la delibera di messa in opera di un'installazione si muove sostanzialmente all'evidenza in tale direzione».

Lo ha affermato la Corte di Cassazione, Sez. II, con la sentenza 25.10.2012 n. 18334.
Un condominio aveva votato a maggioranza (nel 1994!) la messa in opera di un ascensore, la cui installazione avrebbe però provocato il restringimento della luce del passaggio sulla prima rampa e costituendo, in sostanza, un'innovazione. Un condomino aveva impugnato la delibera per nullità, ottenendo ragione dal Tribunale e dalla corte d'Appello, sostenendo che la delibera non era stata fatta esplicitamente per eliminare le barriere architettoniche e che nel condominio non vi erano disabili.
Il Condominio aveva quindi presentato ricorso in Cassazione, che però ha ribaltato il giudizio delle corti di merito, affermando che:
- È irrilevante la circostanza che l'assemblea non avesse avuto a oggetto una delibera attinente all'eliminazione delle barriere architettoniche, dato che la decisione va di fatto in quel senso;
- È irrilevante, ai fini dell'applicabilità della maggioranza semplice prevista dalla legge 13/1989, la presenza di disabili nel condominio, dato che la legge mira a consentire a tutti i disabili di accedere negli edifici, e non solo presso la propria abitazione e del resto il riferimento alla presenza di disabili nella legge solo in quanto consente ai disabili di installare servoscala o strutture mobili a loro spese in caso di rifiuto da parte del condominio;
- Anche il pregiudizio del decoro architettonico, invocato dal resistente, va valutato nel senso di accertare se determini o meno un effettivo deprezzamento dell'intero fabbricato «essendo lecito il mutamento estetico che non cagioni un pregiudizio economicamente valutabile o che, pur arrecandolo, si accompagni a un'utilità la quale compensi l'alterazione architettonica», cioè in sostanza l'ascensore stesso.
La Cassazione, però conclude con l'affermazione di un principio importante: quello della solidarietà condominiale. Le norme di vicinato, per la Cassazione, vanno invocate in quanto compatibili con la concreta struttura dell'edificio e, nel caso del condominio, va valutato quando la loro osservanza non sia «irragionevole» ai fini «dell'ordinato svolgersi di quella convivenza che è propria dei rapporti condominiali». A maggior ragione, sottolinea la Corte, si sarebbe dovuto tener conto di questa considerazione in presenza di una decisione che «coinvolgeva i diritti fondamentali dei disabili», come la stessa legge 13/1989 suggerisce, imponendo la diversa prospettiva di considerare i problemi della disabilità non solo individuali ma come parte di un carico della collettività.
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Le indicazioni
01 | BARRIERE
È irrilevante il fatto che l'assemblea non abbia deliberato esplicitamente sull'eliminazione delle barriere architettoniche
02 | DISABILI
È irrilevante anche la presenza di disabili nel condominio, ai fini dell'applicabilità della maggioranza di un terzo dei condomini e dei millesimi prevista dalla legge 13/1989 al posto dell'unanimità, in caso di installazione di ascensore che costituisca un'innovazione
03 | IL DECORO
Il pregiudizio al decoro architettonico va valutato in relazione al danno economico effettivo (articolo Il Sole 24 Ore del 26.10.2012).

CONDOMINIO: Se l’inquilino muore fulminato ne rispondono proprietario e amministratore.
Il proprietario di casa e l’amministratore -anche soltanto di fatto- rispondono penalmente della morte dell’inquilino rimasto fulminato per l’assenza di “salvavita “all’interno dell’abitazione.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con la sentenza 10.10.2012 n. 40050, respingendo il ricorso di un’anziana madre (proprietaria della casa), e del di lei figlio (che “le dava una mano” nella gestione), contro la sentenza della Corte di appello che li aveva condannati entrambi per omicidio colposo.
La vicenda
L’incredibile quanto tragica storia è avvenuta a Catania. Lì si trovava la casa dove lo sventurato inquilino fu raggiunto mentre si faceva la doccia da una prima scarica elettrica. A quel punto, per capire il motivo della dispersione, l’uomo si recò sul terrazzo di copertura dell’abitazione e “senza che avesse in alcun modo armeggiato con i fili elettrici”, “venne attinto dalla mortale scarica”, soltanto “per avere contemporaneamente toccato il tubo conduttore dell’elettricità all’autoclave e l’inferriata a potenziale elettrico zero”, dove venne trovato ancora aggrappato dai soccorritori.
Impianto non a norma
Nulla ha potuto la testimonianza di un tecnico elettricista secondo cui l’appartamento era dotato del dispositivo di sicurezza. Per la Cassazione, infatti, se così fosse stato “il tragico evento non si sarebbe dato”, perché “l’immediata disattivazione elettrica avrebbe impedito la folgorazione”. Mentre dagli accertamenti tecnici era risultato un impianto “assemblato in modo rudimentale e al quanto approssimativo”, tale da escludere, dunque, che la protezione fosse assicurata.
No alla responsabilità dell’inquilino
Neppure si può rimproverare all’inquilino un comportamento anomalo, secondo l’id quod plerumque accidit, per aver tentato di capire l’origine della perdita, salendo su una terrazza a cui gli era precluso l’ingresso ma che “evidentemente era dotato di libero accesso”. Non può dunque addossarsi al povero inquilino tutta la responsabilità anche se la Cassazione ha confermato un suo concorso di colpa al 20%.
La responsabilità dell’amministratore
Infine, degno di nota è anche il riconoscimento della responsabilità in capo al figlio, quale amministratore di fatto, senza perciò che vi fosse stata alcuna “formalità di sorta” nella preposizione ma soltanto sulla base del fatto che egli aveva indicato l’abitazione come “casa mia”, riscuoteva i canoni di locazione rilasciandone ricevuta e dopo l’evento si occupò della messa a norma dell’impianto al posto della madre ormai in età (tratto da e link a
www.diritto24.ilsole24ore.com).

CONDOMINIOSentenza della Cassazione. L'unico obbligo è riferire all'assemblea, ma non serve l'autorizzazione. Amministratore sempre in causa. Il condomino può citare in giudizio senza alcuna limitazione.
L'amministratore di condominio può essere convenuto in giudizio senza alcuna limitazione e senza bisogno dell'autorizzazione dell'assemblea per qualunque azione relativa alle parti comuni promosse contro il condominio da terzi o anche dal singolo condomino: in tal caso l'amministratore ha il solo obbligo di riferire all'assemblea, con la conseguenza che la sua presenza in giudizio esclude la necessità di citare in giudizio tutti i condomini.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione nella recente sentenza 04.10.2012 n. 16901.
La vicenda che ha portato a tale decisione prendeva l'avvio allorché un condomino si rivolgeva al giudice di pace richiedendo che fosse accertata la titolarità del vano soffitta (che sosteneva di aver usucapito) e la quota di millesimi di proprietà che era certo fosse inferiore rispetto a quella utilizzata dall'amministratore per la ripartizione delle spese. In ogni caso il condomino pretendeva che il condominio fosse condannato alla restituzione delle maggiori somme pagate a partire dall'approvazione del regolamento condominiale e della relativa tabella millesimale. Si costituiva in giudizio il condominio che rilevava, tra l'altro, come l'amministratore non potesse stare in giudizio per questo tipo di vertenza e fosse necessario chiamare in causa tutti i condomini, nessuno escluso. Il giudice di pace dava ragione al condominio, ritenendo la domanda dell'attore come richiesta di modificazione della tabella millesimale.
Successivamente il Tribunale confermava la sentenza di primo grado cambiando, tuttavia, motivazione. Quest'ultimo, infatti, aveva ritenuto che il condomino non avesse domandato la modifica delle tabelle millesimali, ma avesse solo denunciato l'errore in cui era incorso l'amministratore, attribuendo al medesimo una quota di millesimi di proprietà maggiore rispetto a quella che gli sarebbe spettata in base alla tabella millesimale allegata al regolamento. Ma, sempre secondo il tribunale, il condomino aveva anche domandato un accertamento di proprietà (del sottotetto) che non andava chiesto nei confronti del condominio ma di tutti i condomini, e sotto questo profilo, aveva dichiarato la mancata legittimazione passiva dell'amministratore. In ogni caso, lo stesso tribunale aveva aggiunto come il condominio, nel chiederne l'accertamento della titolarità, non avesse allegato alcun titolo di proprietà esclusiva sul vano soffitto indicato nell'atto di citazione.
Queste considerazioni non sono state condivise dalla Cassazione, perché il giudice di appello avrebbe dovuto accertare, comunque, anche in via incidentale se il condomino fosse proprietario del vano soffitta e, in mancanza di altro titolo di acquisto, se lo stesso lo avesse acquistato per usucapione. D'altra parte, secondo i giudici supremi, il condomino non aveva richiesto il mero accertamento dell'errore materiale delle tabelle, ma anche l'accertamento del fatto che egli fosse titolare di una quota (minore) di millesimi di proprietà relativi al sottotetto, e dunque, un accertamento di proprietà. Tale accertamento, come precisato dalla Cassazione, poteva certamente essere richiesto citando il giudizio solo l'amministratore del condominio che, senza limiti, può resistere anche in ordine alle azioni di natura reale relative alle parti comuni dell'edificio promosse contro il condominio da terzi o anche dal singolo condomino. In tal caso l'amministratore ha il solo obbligo di riferire all'assemblea, con la conseguenza che la sua presenza in causa esclude la necessità di chiamare in causa tutti i condomini.
In ogni caso, merita di essere rilevato che, secondo l'attuale orientamento dei giudici di legittimità, se anche il condomino avesse richiesto la revisione delle tabelle per errore (errata misurazione della superficie o della cubatura di un'unità immobiliare, operazioni matematiche di calcolo errate, confusione della stima di un'unità con quella di un'altra ecc.), non sarebbe stato necessario chiamare in giudizio tutti i condomini, in quanto tale richiesta può essere rivolta al condominio in persona dell'amministratore. La revisione (e l'approvazione) delle tabelle, infatti, viene ritenuta come una semplice operazione tecnica e non un'attività di natura contrattuale che richieda il consenso di tutti i condomini (articolo ItaliaOggi Sette del 05.11.2012).

CONDOMINIO: LA RIFORMA DEL CONDOMINIO/ La riforma approvata alla Camera. Basta la maggioranza per sorvegliare le parti comuni. Video, riscaldamento, animali. Nuove regole per il condominio.
Via libera a maggioranza alla videosorveglianza condominiale. La ripresa di spazi e aree comuni raggiunge così certezza normativa, all'interno di una grande confusione giurisprudenziale.
È una delle novità introdotte dalla riforma del condominio approvata alla camera venerdì scorso in seconda lettura e ora al senato per l'ormai sicuro sì definitivo (si veda ItaliaOggi del 28 settembre). Ma vediamo le principali novità.
La videosorveglianza. L'installazione di sistemi di videosorveglianza viene sovente effettuata da persone fisiche per fini esclusivamente personali. In tali ipotesi possono rientrare, a titolo esemplificativo, strumenti di videosorveglianza idonei a identificare coloro che si accingono a entrare in luoghi privati (videocitofoni ovvero altre apparecchiature che rilevano immagini o suoni, anche tramite registrazione), oltre a sistemi di ripresa installati nei pressi di immobili privati e all'interno di condomini e loro pertinenze (quali posti auto e box). In tal caso la disciplina del Codice non trova applicazione qualora i dati non siano comunicati sistematicamente a terzi ovvero diffusi.
Si ricorda però che, seppure non trovi applicazione la disciplina del Codice, al fine di evitare di incorrere nel reato di interferenze illecite nella vita privata, l'angolo visuale delle riprese deve essere comunque limitato ai soli spazi di propria esclusiva pertinenza (ad esempio antistanti l'accesso alla propria abitazione) escludendo ogni forma di ripresa, anche senza registrazione di immagini, relativa ad aree comuni (cortili, pianerottoli, scale, garage comuni) ovvero ad ambiti antistanti l'abitazione di altri condomini.
Per le aree condominiali, invece, nel provvedimento dell'8 aprile 2010 sulla videosorveglianza il garante ha appurato una lacuna normativa. In quella sede per i trattamenti effettuati dal condominio (anche per il tramite della relativa amministrazione), il garante ha evidenziato l'assenza di una puntuale disciplina che permettesse di risolvere alcuni problemi applicativi evidenziati nell'esperienza di questi ultimi anni. Il garante evidenziava, infatti, che non era chiaro se l'installazione di sistemi di videosorveglianza possa essere effettuata in base alla sola volontà dei comproprietari, o se rilevi anche la qualità di conduttori; ancora non era chiaro quale fosse il numero di voti necessario per la deliberazione condominiale in materia (se occorra cioè l'unanimità oppure una determinata maggioranza).
La legge di riforma del condominio affronta direttamente la questione e stabilisce che le deliberazioni concernenti l'installazione sulle parti comuni dell'edificio di impianti volti a consentire la videosorveglianza su di esse sono approvate dall'assemblea con la maggioranza di cui al secondo comma dell'articolo 1136 del codice civile.
Vediamo dunque cosa prevede l'articolo 1136 del codice civile, che è stato modificato. In prima convocazione per l'approvazione di una delibera ci vuole il quorum di 2/3 del valore e maggioranza per teste, e voto favorevole della maggioranza degli intervenuti e almeno metà del valore dell'edificio. In seconda convocazione basta, invece, la maggioranza degli intervenuti con un numero di voti che rappresenti almeno un terzo del valore dell'edificio.
Una volta rispettate queste maggioranze si può passare a installare le telecamere. Ma senza dimenticare che si devono osservare le precauzioni previste dal provvedimento generale del garante della privacy.
In particolare si devono osservare le seguenti cautele.
Informativa. Le persone che transitano nelle aree sorvegliate devono essere informati con cartelli della presenza delle telecamere, i cartelli devono essere resi visibili anche quando il sistema di videosorveglianza è attivo in orario notturno. Nel caso in cui i sistemi di videosorveglianza installati siano collegati alle forze di polizia è necessario apporre uno specifico cartello che lo evidenzi.
Conservazione. Le immagini registrate possono essere conservate per periodo limitato e fino ad un massimo di 24 ore, fatte salve speciali esigenze di ulteriore conservazione in relazione a indagini.
Consenso. Contro possibili aggressioni, furti, rapine, danneggiamenti, atti di vandalismo, prevenzione incendi, sicurezza del lavoro ecc. si possono installare telecamere senza il consenso dei soggetti ripresi, ma sempre sulla base delle prescrizioni indicate dal Garante.
Addio riscaldamento centralizzato. La riforma modifica l'articolo 1118 del codice civile per precisare che il singolo condomino può distaccarsi dall'impianto centralizzato di riscaldamento, ma solo in presenza di due condizioni. La prima è che l'unità abitativa non gode della normale erogazione di calore, per problemi tecnici all'impianto condominiale, che non vengono risolti nel corso di una intera stagione di riscaldamento. La seconda è che il distacco non comporti squilibri tali da compromettere la normale erogazione di calore agli altri condomini o aggravi di spesa.
Più in dettaglio la norma prevede che il condomino, se viene oggettivamente constatato che il proprio immobile non gode della normale erogazione di calore, a causa di problemi tecnici dell'impianto condominiale, e questi, nell'arco di una intera stagione di riscaldamento, non sono risolti dal condominio, può rinunciare all'utilizzo dell'impianto centralizzato di riscaldamento o di condizionamento, a condizione che dal suo distacco non derivino squilibri tali da compromettere la normale erogazione di calore agli altri condomini o aggravi di spesa.
Chi si è distaccato non rimane esente da spese: è sempre tenuto a concorrere esclusivamente al pagamento delle spese di manutenzione straordinaria dell'impianto e per la sua conservazione e messa a norma.
Si tratta questa di una specificazione dell'articolo 1118 del codice civile, nella parte in cui prescrive che il condomino non può, rinunziando al diritto sulle cose anzidette, sottrarsi al contributo nelle spese per la loro conservazione.
Inoltre il nuovo articolo 1122 del codice civile, in generale, esclude che il condomino possa eseguire opere che rechino danno alle parti comuni o pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza e al decoro architettonico dell'edificio. L'amministratore deve in ogni caso essere avvisato prima dell'avvio dei lavori ai fini della relativa comunicazione in assemblea (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.10.2012).

settembre 2012

CONDOMINIOAmministratori, revoca più facile. Basta una sola firma. Arrivano il registro e l'assicurazione. Ok della Camera al ddl, ora l'ultimo sì del Senato. Animali in libertà.
L'amministratore del condominio dovrà avere una polizza di responsabilità civile e basterà la firma anche di un solo condomino per chiederne la revoca. L'amministratore dovrà inoltre iscriversi al registro gestito dall'Agenzia del territorio e seguire corsi di formazione. Nessun divieto a chi vuole tenere cani o gatti. Possibilità per il condominio di aprire un sito Internet dove scambiarsi rendiconti e delibere, e per il condomino di distaccarsi dal riscaldamento centralizzato, anche se dovrà continuare a pagare le spese di manutenzione straordinaria dell'impianto. Chi acquista è responsabile delle spese condominiali non pagate alla data del subentro senza limiti.
Sono queste alcune delle novità del ddl C-4041 di riforma del condominio, approvato ieri dalla Camera in seconda lettura e che adesso passa al Senato per il sì definitivo.
Riscaldamento. Riprendendo un orientamento della cassazione, da un lato si consente al singolo condomino di staccarsi dall'impianto di riscaldamento centralizzato: il presupposto è che abbia riscontrato un malfunzionamento per un anno e sempre che li disservizio sia da imputare all'impianto condominiale; dall'altro lato il singolo condomino dovrà continuare a partecipare alle spese straordinario dell'impianto comune.
Animali da compagnia. Il regolamento condominiale non può porre limiti alle destinazioni d'uso delle unità di proprietà esclusiva e non può vietare di possedere o detenere animali da compagnia.
Videosorveglianza. Il garante della privacy più volte ha sollevato il problema della mancanza di una disposizione specifica sulla maggioranza relativa all'installazione di impianti di videosorveglianza sulle parti comuni. La riforma specifica che basta la maggioranza (articolo 1136, secondo comma, codice civile) e non ci vuole l'unanimità.
Maggioranze. Viene riscritto articolo 1136 del codice civile. In prima convocazione per l'approvazione di una delibera ci vuole il quorum di 2/3 del valore e maggioranza per teste, e voto favorevole della maggioranza degli intervenuti e almeno metà del valore dell'edificio. In seconda convocazione basta, invece, la maggioranza degli intervenuti con un numero di voti che rappresenti almeno un terzo del valore dell'edificio.
Amministratore dimezzato. L'amministratore non potrà accedere nei singoli alloggi per verificare se sono stati fatti lavoro che mettono in pericolo la sicurezza degli edifici. La prerogativa prevista nel testo originario è stata annullata durante l'iter parlamentare.
Polizza dell'amministratore. L'amministratore deve prestare una polizza di responsabilità civile; anche se il premio è caricato sul bilancio condominiale.
Revoca dell'amministratore. Basta la firma di un solo condomino per chiedere la convocazione dell'assemblea per revocare l'amministratore infedele.
Subentro nell'alloggio. Chi acquista un alloggio diventa responsabile di tutte le spese condominiali non pagate alla data del subentro senza limiti di tempo. Occorre, quindi, che la situazione venga messa in chiaro per evitare un decreto ingiuntivo del condominio. Sempre in materia di spese si segnala che il nudo proprietario e l'usufruttuario diventano responsabili in solido per il pagamento dei contributi dovuti all'amministrazione condominiali.
Assemblee. La riforma stabilisce il divieto di tenerle nei giorni di feste religiose.
Millesimi. La possibilità di rettifica a maggioranza dei millesimi sbagliati riguarda tutti i casi di errore e non solo quello (unico originariamente previsto) di errore di calcolo materiale.
Repertorio dei condomini. Viene istituito presso l'agenzia del territorio il repertorio dei condomini. Saranno annotate le deliberazioni delle assemblee, i bilanci, le modifiche di destinazioni di uso, contratti, le ordinanze e sentenze riguardanti il condominio.
Registro degli amministratori. Sempre presso l'Agenzia del territorio (e non preso le camere di commercio) è istituito il registro degli amministratori, in cui possono iscriversi anche le società. Potranno iscriversi da subito coloro che hanno un triennio di attività; poi è richiesta la frequenza a un corso di formazione.
Sito web. Il condominio potrà aprirsi un sito internet on la maggioranza dell'articolo 1136 codice civile: servirà a scambiare rendiconti e delibere.
Conciliazione. Per le mediazioni, precedenti una causa, si deve andare ad un organismo di conciliazione nella circoscrizione del tribunale in cui ha sede il condominio (articolo ItaliaOggi del 28.09.2012).

CONDOMINIO: Canna fumaria, conta chi la usa. Il bene può anche non essere di proprietà condominiale. Per la Cassazione prevale la prova della destinazione sulla presunzione di comunione.
La canna fumaria, anche se ricavata all'interno di un muro comune, può anche non essere di proprietà condominiale, laddove la presunzione di comunione del bene sia vinta in concreto dalla prova della destinazione oggettiva del bene a servire in modo esclusivo uno solo dei comproprietari.

Questo il principio stabilito dalla II Sez. civile della Corte di Cassazione nella recente sentenza 25.09.2012 n. 16306.
La presunzione di comunione dei beni. Il codice civile, all'art. 1117, elenca una serie di beni che si presumono di natura condominiale, ossia destinati all'utilizzo e al godimento di tutti i comproprietari: il suolo su cui sorge l'edificio, le fondazioni, i muri maestri, i tetti e i lastrici solari, le scale, i portoni d'ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici, i cortili, i locali per la portineria e per l'alloggio del portiere, per la lavanderia, per il riscaldamento centrale ecc..
Detti beni, come detto, si presumono oggetto di proprietà comune dei proprietari dei diversi piani o porzioni di piani di un edificio, a meno che, per utilizzare il linguaggio codicistico, il contrario non risulti dal titolo. Con quest'ultima espressione, come chiarito anche dalla Suprema corte nella sentenza in questione, si intende fare riferimento non solo ad atti formali, come ad esempio il regolamento condominiale, ma anche a circostanze di fatto, quali la destinazione funzionale del bene.
Il caso concreto. Nella specie due condomini, proprietari di un appartamento, avevano citato avanti alla pretura di Roma i proprietari dell'appartamento soprastante. I primi, sul presupposto che nell'incavo del muro maestro era stato installato da tempo immemorabile un caminetto con relativa canna fumaria che attraversava la parete condominiale del sovrastante appartamento di proprietà dei convenuti, lamentavano il fatto che questi ultimi avessero innestato a loro volta nella predetta canna fumaria un'altra tubatura, provocandone l'occlusione, per cui chiedevano al giudice di accertare la loro proprietà esclusiva della canna fumaria in questione, con condanna dei convenuti al ripristino dello stato dei luoghi. Si erano però costituiti in giudizio i convenuti, chiedendo il rigetto della domanda attrice, sostenendo che la canna fumaria fosse invece di loro proprietà esclusiva.
La decisione della Cassazione. I giudici di legittimità, ritenendo che nel caso in questione fosse essenziale stabilire alternativamente se la canna fumaria inserita nell'edificio condominiale costituisse o meno opera all'esclusivo servizio dell'unità immobiliare degli attori originari, ovvero di quella dei convenuti originari o se, infine, la stessa ricadesse nel novero delle cose comuni ai sensi dell'art. 1117 c.c., hanno quindi concluso nel senso che, sulla base delle risultanze processuali, il titolo attributivo dell'esclusiva proprietà del bene agli attori andava ricercato nella destinazione funzionale dell'opera predetta all'esclusivo servizio del loro appartamento.
Nel fare questo la Suprema corte si è richiamata a un precedente di legittimità (sentenza n. 9231/1991) nel quale analogamente era stato stabilito che una canna fumaria, anche se ricavata nel vuoto di un muro comune, non è necessariamente di proprietà comune, ben potendo appartenere a uno solo dei condomini, ove sia destinata a servire esclusivamente l'appartamento cui afferisce, costituendo detta destinazione titolo contrario alla presunzione legale di comunione. Di qui il rigetto del ricorso presentato dai condomini convenuti in primo grado che, dopo aver presentato inutilmente appello avverso la sentenza della pretura di Roma, si sono visti condannare anche alle spese del giudizio di legittimità.
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Non si può pregiudicare il decoro della facciata.
Le canne fumarie all'interno del condominio rappresentano da sempre una delle principali cause di litigio tra condomini. In assenza di titolo contrario (il regolamento di condominio, un atto di acquisto delle singole unità, una sentenza passata in giudicato che ne accerti l'usucapione), la canna fumaria si presume comune.
Tuttavia non è necessariamente di proprietà comune, ben potendo appartenere a un gruppo di condomini o a uno solo dei comproprietari, ove sia destinata a servire esclusivamente un determinato appartamento. In ogni caso non si può escludere che il singolo condomino debba installare una nuova canna fumaria nelle parti comuni. Tale ipotesi è normalmente ammessa, purché si rispettino determinati requisiti. Al contrario è da escludere che un singolo condomino possa utilizzare la canna fumaria dell'impianto centrale di riscaldamento anche se questo sia stato disattivato dal condominio, perché si avrebbe una definitiva sottrazione della canna fumaria alle possibilità di godimento della restante parte dei condomini (in questo caso è necessario il consenso di tutti gli altri condomini).
Installazione di canna fumaria in facciata. L'appoggio di una canna fumaria al muro comune perimetrale di un edificio condominiale comporta una modifica della cosa comune conforme alla destinazione della stessa, che ciascun condomino può apportare a sue cure e spese. Del resto si deve considerare la normale possibilità del muro stesso di contenere o reggere una o più canne fumarie, senza subire alterazione apprezzabile della sua principale funzione e senza compromettere l'uso da parte degli altri condomini. Tali considerazioni valgono a maggiore ragione nel caso in cui l'opera sia diretta a evitare la diffusione dei fumi di cottura di un ristorante, che incidono in modo particolare sulle condizioni di vita di tutti i condomini.
Certo tale appoggio non deve pregiudicare il decoro del caseggiato, incidendo negativamente sull'insieme dell'aspetto dello stabile (e ciò a prescindere dal particolare pregio estetico dell'edificio). Così, ad esempio, deve ritenersi illegittima l'installazione di una canna fumaria che percorra tutta la facciata dell'edificio condominiale, così da pregiudicare l'aspetto e l'armonia del condominio.
Allo stesso modo la canna fumaria deve essere di dimensioni tali da non ridurre considerevolmente la visuale da parte degli altri condomini che usufruiscano di vedute dalla facciata interessata.
Il discorso si collega alla compatibilità dell'installazione di una canna fumaria rispetto delle distanze legali. A tale proposito si deve precisare che le norme in materia sono applicabili anche nei rapporti tra il condominio e il singolo condomino nel caso in cui esse siano compatibili con l'applicazione delle norme particolari relative all'uso delle cose comuni, cioè nel caso in cui sia possibile una applicazione complementare. Quindi, qualora vi sia compatibilità tra le due discipline, la distanza legale per la collocazione di una canna fumaria sul muro perimetrale comune, a opera di uno dei condomini, non può essere inferiore a 75 centimetri dai più vicini sporti dei balconi di proprietà esclusiva degli altri comproprietari.
In ogni caso una canna fumaria installata in un condominio ex novo e senza alcuna previa autorizzazione condominiale va rimossa qualora provochi immissioni che superino la normale soglia di tollerabilità o, quanto meno, dovranno essere adottate le misure tecniche idonee a limitare il disagio arrecato. Del resto è possibile che il regolamento di condominio preveda limiti più rigorosi nell'installazione di una nuova canna fumaria da parte del singolo condominio.
Installazione di canna fumaria sul lastrico solare. Qualora l'installazione della canna fumaria vada a interessare una porzione di lastrico solare, occorrerà verificare se tale installazione alteri o meno la funzione di protezione e calpestio del lastrico stesso e se sottragga il lastrico o parte di esso alla possibilità di utilizzo da parte degli altri condomini. Occorrerà pertanto valutare caso per caso se l'installazione sia legittima.
La giurisprudenza ha poi ritenuto che se il condomino inserisce la propria canna fumaria nel lastrico solare comune, incorporandone una porzione con opere murarie, al servizio esclusivo del proprio appartamento, non ne compromette la destinazione se occupa una zona periferica del tutto trascurabile rispetto alla superficie complessiva del lastrico, senza che possa, in concreto, escludersi la funzione di calpestio del lastrico o le possibilità di uso degli altri comproprietari.
Al contrario il condomino che, senza previa autorizzazione, inserisca stabilmente e con opere murarie una canna fumaria di dimensioni non limitate in corrispondenza dell'esiguo cordolo perimetrale del lastrico solare destinato a stenditoio, pone in essere un'occupazione stabile e duratura, non consentita dalla legge, sottraendo la relativa porzione di bene comune all'uso e al godimento degli altri condomini (articolo ItaliaOggi Sette del 15.10.2012).

CONDOMINIO: Fotovoltaico, il condomino è spa. Con impianti oltre 20 kw o vendita scatta la società di fatto. I chiarimenti delle Entrate a un quesito del Gse. Nessuna rilevanza fiscale agli incentivi.
Sconta l'Iva e la ritenuta alla fonte del 4% la cessione di energia da fotovoltaico effettuata dai condomini a favore del Gse (Gestore dei servizi energetici). Ciò perché, ove vengano superati i limiti di potenza previsti per l'autoconsumo, si è in presenza di una vera e propria società di fatto tra i soggetti (condomini) che di comune accordo intraprendono l'attività; resta invece del tutto esclusa qualsiasi rilevanza per il condominio, inteso come soggetto autonomo che non può mai esercitare attività d'impresa.
È la soluzione che l'Agenzia delle entrate ha adottato, con risoluzione 03.08.2012 n. 84/E, in merito a un quesito avanzato dallo stesso Gse.
Il punto di partenza, condiviso, è che le somme percepite a titolo di tariffa incentivante in relazione all'energia prodotta con impianti di potenza fino a 20 kw asserviti al condomino, non assumono rilevanza fiscale, al pari di quella percepita dalle persone fisiche e dagli enti non commerciali che gestiscono impianti fotovoltaici della stessa potenza per soddisfare principalmente le esigenze domestiche.
Ma cosa succede quando il condominio utilizza un impianto, di potenza superiore a 20 kw o in relazione al quale opti per la cessione integrale o parziale alla rete dell'energia prodotta?
Il problema attiene all'individuazione del soggetto che, in sostanza, esercita l'attività imprenditoriale.
Il Gse, nella propria soluzione interpretativa aveva individuato nel condominio il soggetto cui attribuire l'attività e i relativi obblighi tributari.
Per l'Agenzia delle entrate, però, il condominio resta estraneo, in ogni caso, all'attività di produzione di energia, in quanto, gli effetti economici (percezione dei proventi) e fiscali (tassazione dei proventi) conseguenti allo svolgimento di questa attività, si producono direttamente sui condòmini. Il condominio, infatti, disciplinato dagli articoli 1117 e seguenti del codice civile, rappresenta una particolare forma di comunione che riguarda le parti comuni dell'edificio che necessita di essere amministrata o dall'assemblea dei condòmini, che decide in base al principio di prevalenza della maggioranza, nel bene degli interessi comuni, oppure, per gli edifici condominiali con più di quattro condòmini, dall'amministratore, avente compiti di carattere amministrativo, esecutivo e rappresentativo che permettono al condominio di agire in modo unitario nei rapporti con i terzi (fornitori, utenze, amministrazione finanziaria, eccetera). In sostanza il condominio è un ente di gestione che opera per conto dei condòmini limitatamente all'amministrazione e al buon uso della cosa comune senza interferire nei diritti autonomi di ciascun condòmino.
Nell'ipotesi in cui negli spazi condominiali venga realizzato un impianto fotovoltaico che configura lo svolgimento di un'attività commerciale abituale, il condominio non può mai configurarsi come soggetto che svolge l'attività di produzione e vendita dell'energia.
Ebbene, secondo l'Agenzia l'accordo tra i condomini per la realizzazione dell'impianto individua una società di fatto tra gli stessi. Più precisamente, poiché la realizzazione dell'impianto fotovoltaico per fini commerciali rientra tra le «Innovazioni» che i condomini possono disporre ai sensi dell'art. 1120 del codice civile «(_) dirette al miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni» sono considerati soci della società di fatto i condòmini che hanno deliberato con la maggioranza richiesta dall'art. 1136 del codice civile, la realizzazione dell'investimento. Restano esclusi, dalla società di fatto i condòmini che non hanno approvato la decisione e che non intendono trarre vantaggio dall'investimento. In questo caso gli stessi, sulla base di quanto disposto dall'art. 1121, primo comma, ultima parte, del codice civile «sono esonerati da qualsiasi contributo di spesa».
Cosicché da un lato la società di fatto tra condòmini che gestisce un impianto fotovoltaico è commerciale e deve emettere fattura nei confronti del Gse, in relazione all'energia che immette in rete e dall'altro il Gse che eroga la tariffa incentivante deve operare nei confronti della società di fatto la ritenuta del 4% di cui all'art. 28 del dpr n. 600 del 1973 sulla tariffa relativa alla parte di energia immessa in rete (articolo ItaliaOggi Sette del 10.09.2012).

CONDOMINIO: Convocazione annullabile.
Domanda
L'amministratore condominiale ha convocato l'assemblea annuale, che si è tenuta e ha deliberato, tra l'altro, l'esecuzione di alcuni lavori.
Per errore, però, non è stato inviato l'avviso di convocazione a uno dei condomini. Quali sono le conseguenze?
L'assemblea è nulla o annullabile? I contratti firmati restano validi?
Risposta
Fino alla sentenza n. 4806/2005 delle Sezioni unite della Corte di cassazione e in mancanza di una norma che regolasse tale problematica condominiale, la questione risultava dubbia.
La citata sentenza ha però chiarito che nel caso specifico si verte in una ipotesi di delibera annullabile (e non nulla), suscettibile di impugnazione entro il ristretto termine di trenta giorni dalla deliberazione (per i condomini presenti e dissenzienti) o dalla sua comunicazione (per gli assenti) di cui all'art. 1137, 3° comma, del codice civile.
La Cassazione ha chiarito che sono nulle le delibere prive degli elementi essenziali, con oggetto impossibile o illecito (contrario all'ordine pubblico, alla morale o al buon costume), con oggetto che non rientra nella competenza dell'assemblea, che incidono sui diritti individuali sulle cose o servizi comuni o sulla proprietà esclusiva dei condomini e quelle comunque invalide in relazione all'oggetto.
Invece, sono solo annullabili le delibere con vizi circa la regolare costituzione dell'assemblea, quelle adottate con maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge o dal regolamento condominiale, quelle con vizi formali, in violazione di prescrizioni legali, convenzionali, regolamentari, attinenti al procedimento di convocazione o di informazione dell'assemblea, quelle genericamente affette da irregolarità nel procedimento di convocazione, quelle che violano norme che richiedono qualificate maggioranze in relazione all'oggetto.
Da quanto precisato consegue che in assenza di impugnazione nel termine di 30 giorni la delibera non può più essere contestata e restano validi i rapporti generati conseguentemente (articolo ItaliaOggi Sette del 10.09.2012).

CONDOMINIO: Ripartizione nulla.
Domanda
L'assemblea condominiale, su proposta e in accordo con l'amministratore (lui stesso condomino), ha deliberato a maggioranza di ripartire le spese di consolidamento e ristrutturazione delle scale in base ai millesimi di proprietà dei singoli condomini, anziché rispetto al criterio legale di cui all'art. 1124 c.c, nella considerazione che appare più equo nei riguardi di chi è proprietario di appartamenti ai piani alti dato che comunque le scale servono a tutti. Questo criterio ad alcuni condomini sembra in contrasto con quanto previsto dalla legge (il regolamento non dispone nulla).
Risposta
Secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione (cfr. p.es. la sent. n. 747/2009), si verte in ipotesi di nullità solo nel caso l'assemblea consapevolmente modifichi i criteri di ripartizione delle spese stabiliti dalla legge; invece, le deliberazioni relative alla ripartizione delle spese sono semplicemente annullabili nel caso in cui i suddetti criteri siano violati o disattesi (in tal senso, sent. n. 7708/2007 e n. 16793/2006).
Da quanto prospettato, nel caso specifico l'assemblea sembra avere inteso modificare volutamente i criteri legali, non ritenendoli equi o adeguati, senza raggiungere l'unanimità dei consensi, cosicché sembra attanagliarsi al caso concreto l'ipotesi più grave della nullità, anziché della semplice annullabilità. Fermo restando che in presenza di dubbi, come frequentemente accade nella materia in questione, il criterio più cautelativo è quello di rivolgersi a un legale specializzato con la massima tempestività e di cercare di procedere comunque all'impugnazione nel più ristretto termine di 30 giorni previsto per l'annullamento, il ricorrere della causa di nullità fa invece venire meno l'obbligo di rispettare il predetto termine (articolo ItaliaOggi Sette del 10.09.2012).

CONDOMINIO: Ai pericoli pensa l'amministratore. Risponde per la mancata messa in sicurezza di aree comuni. La Cassazione: non può addurre a sua difesa di non aver avuto l'autorizzazione dall'assemblea.
È dovere dell'amministratore di condominio impegnarsi per tutelare i diritti inerenti le parti comuni. Anche senza autorizzazione diretta dei condomini. E quindi, risponde penalmente l'amministratore che non si sia attivato per eliminare una sconnessione presente sul marciapiede di un'area condominiale che abbia poi causato la caduta di un passante. È proprio in casi del genere che l'amministratore non può difendersi eccependo di non essere stato autorizzato dall'assemblea.
Lo ha chiarito la IV Sez. penale della Corte di Cassazione nella sentenza 06.09.2012 n. 34147.
Il caso concreto. Un'anziana signora era caduta rovinosamente a terra a causa dell'avvallamento venutosi a creare tra il pavimento e il tombino per la raccolta delle acque reflue condominiali posto sul marciapiede che dava accesso all'edificio. La donna si era quindi procurata una frattura giudicata guaribile in un tempo superiore ai 40 giorni.
Per l'accaduto era stato quindi avviato un procedimento penale nei confronti dell'amministratore condominiale, giudicato responsabile per non essersi prontamente attivato per evitare il rischio di incidenti dovuti all'avvallamento e lo stesso era stato condannato alla pena della multa e al risarcimento dei danni sofferti dall'anziana signora, costituitasi parte civile, liquidati in 5.000,00 euro. L'amministratore aveva quindi impugnato la sentenza direttamente in Cassazione, ritenendo di non avere alcuna responsabilità nel caso in questione.
La decisione della Suprema corte. L'amministratore condominiale sosteneva che nella specie la sua condotta non fosse penalmente rilevante, difettando nell'ordinamento una norma che lo obbligasse ad attivarsi in casi del genere. In altre parole, l'amministratore contestava di non avere mai avuto alcun incarico dall'assemblea di provvedere alla sistemazione della predetta area né di aver mai ricevuto alcuna segnalazione, da parte dei condomini o di terzi, relativamente alla situazione di pericolo che si era venuta a creare sul marciapiede in questione.
Quest'ultimo, inoltre, lamentava il fatto che, secondo l'ordinamento vigente, all'amministratore condominiale sia possibile porre in essere lavori di manutenzione straordinaria soltanto ove connotati dal requisito dell'assoluta urgenza, tanto più che detto dislivello era del tutto visibile e, quindi, non poteva essere qualificato come insidia o trabocchetto.
Di tutt'altro avviso si è mostrata però la quarta sezione penale della Corte di cassazione, che ha integralmente confermato la sentenza di condanna. I giudici di legittimità hanno infatti configurato un'ipotesi di responsabilità omissiva colposa in carico all'amministratore condominiale, che riveste per legge una specifica posizione di garanzia rispetto ai pregiudizi che possono derivare ai condomini e ai terzi dalle parti comuni. Secondo la Suprema corte detto obbligo di intervenire per evitare situazioni di pericolo prescinde assolutamente da qualsiasi preventiva autorizzazione da parte dell'assemblea condominiale, così come da qualsiasi preliminare segnalazione proveniente dai condomini, dalla pubblica amministrazione o dai terzi.
Inoltre, sempre secondo la Cassazione, dall'ultimo comma dell'art. 1135 del codice civile si ricava la conclusione che l'amministratore ha facoltà di provvedere alle opere di manutenzione straordinaria che rivestano carattere urgente, dovendo in seguito informarne l'assemblea. Per i giudici di legittimità è indubitabile il fatto che l'eliminazione di un'insidia o di un trabocchetto esistente su una parte comune rientri nel novero degli interventi urgenti, con conseguente sanzione dell'eventuale condotta omissiva dell'amministratore.
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Tra obblighi e doveri, gli interventi di riparazione urgenti.
L'amministratore di condominio non solo ha il compito di affrontare le spese attinenti alla manutenzione ordinaria e alla conservazione delle parti e servizi comuni dell'edificio, ma anche il potere-dovere di ordinare lavori di manutenzione straordinaria che rivestano carattere urgente, con l'obbligo di riferirne nella prima assemblea dei condomini.
Quindi, nell'adempiere agli obblighi sanciti dalla legge in materia di manutenzione straordinaria, l'amministratore non deve attendere la deliberazione dell'assemblea, trattandosi di atti urgenti e che lo espongono direttamente, e personalmente, a responsabilità penale. In ogni caso non rileva l'ignoranza dello stato di pericolo in cui si trova il caseggiato, né una preventiva diffida, con specifica previsione di un termine perentorio entro cui provvedere alla manutenzione dell'immobile pericolante, da parte della pubblica autorità: l'obbligo di mettere mano all'esecuzione dei lavori necessari a rimuovere il pericolo per l'incolumità dei condomini o dei terzi sorge infatti indipendentemente da qualsiasi provvedimento della pubblica amministrazione.
La responsabilità penale dell'amministratore: casi pratici. Alla luce di quanto sopra si può affermare che, in linea generale, ogni evento dannoso conseguente a un mancato tempestivo intervento di riparazione è ascrivibile all'amministratore, il quale può addirittura incorrere in responsabilità penale. Nella predetta sentenza n. 34147 dello scorso 06.09.2012 della Suprema corte, come detto, l'amministratore condominiale è stato ritenuto responsabile per le gravi lesioni subite da un'anziana donna che è inciampata rovinando a terra causata a causa di avvallamenti e sconnessioni della pavimentazione in prossimità di un tombino: è certo infatti che l'eliminazione di un'insidia o trabocchetto derivante dal mancato livellamento della pavimentazione rappresenti intervento di ordine urgente a carico dell'amministratore.
In un altro caso deciso dalla giurisprudenza un amministratore è stato invece chiamato a rispondere penalmente per le lesioni causate a un passante dalla caduta di una tegola da un tetto in stato di cattiva manutenzione. Allo stesso modo l'amministratore può essere ritenuto responsabile (per violazione dell'obbligo giuridico di vigilanza) per le conseguenze di un incendio riconducibile a un difetto di installazione di una canna fumaria di proprietà di un terzo estraneo al condominio che attraversi parti comuni dell'edificio. Infine, è certamente responsabile se ignora il contenuto di un'ordinanza del sindaco che gli imponga l'esecuzione di urgenti riparazioni dell'immobile, stante il pericolo di crollo di alcune parti comuni.
I limiti della responsabilità penale dell'amministratore. È importante precisare che la responsabilità dell'amministratore per omissione di lavori deve essere accertata in concreto. Ad esempio qualora vi sia un mancato stanziamento dei fondi necessari per porre rimedio al degrado che dà luogo al pericolo, per parte della giurisprudenza non potrebbe ipotizzarsi alcuna responsabilità dell'amministratore per non avere attuato interventi in quanto, in tale situazione, la responsabilità è di ciascun singolo condomino. Quindi l'amministratore non potrà considerarsi colpevole se, nonostante il costante interessamento per la soluzione del problema verificatosi nello stabile, ci sia una inerzia dell'organo assembleare che non abbia dotato l'amministratore di fondi necessari per la copertura finanziaria dei lavori urgenti utili alla eliminazione del pericolo.
Del resto, poiché la responsabilità penale sorge allorché dall'omissione dei lavori derivi un concreto pericolo per l'incolumità delle persone, è sufficiente per l'amministratore, al fine di andare esente da responsabilità, intervenire sugli effetti anziché sulla causa della rovina, ovverosia prevenire la specifica situazione di pericolo interdicendo, ove ciò sia possibile, l'accesso o il transito nelle zone pericolanti (ad esempio facendo mettere una recinzione nella zona in cui si è verificata la caduta di calcinacci).
In ogni caso il rifiuto dell'assemblea condominiale di deliberare lavori urgenti, pur in presenza di un obbligo di legge o di un provvedimento dell'autorità, legittima l'amministratore, in forza dei poteri di legge, a denunciare la decisione assembleare alternativamente alla pubblica amministrazione o all'autorità giudiziaria che, con il loro potere, possono porre in atto ogni rimedio affinché non vi siano danni e la situazione non possa procurare ulteriori e più gravi conseguenze.
Infine, merita di essere ricordato che la giurisprudenza ha escluso la responsabilità dell'amministratore in relazione all'inottemperanza a un provvedimento del sindaco che gli imponga di effettuare lavori per l'eliminazione di infiltrazioni di acqua nell'appartamento di un solo condomino: tali provvedimenti infatti son invalidi, in quanto relativi alla proprietà esclusiva (articolo ItaliaOggi Sette del 24.09.2012).

agosto 2012

CONDOMINIOResto apostrofare condòmini con epiteti poco edificanti.
Apostrofare qualcuno con epiteti poco edificanti durante una riunione condominiale può configurare ipotesi di reato (nello specifico il delitto di cui all'art. 594 c.p.): è quanto emerso nella sentenza n. 33221/2012 della Corte di Cassazione.
La V Sez. penale ha, infatti, confermato il ragionamento del giudice di merito, secondo il quale «l'espressione “architetto del c_.” era stata pronunciata all'indirizzo della persona offesa [_] in un atteggiamento gratuitamente astioso e senza che vi fosse stato alcun previo tentativo di relazionarsi con la controparte in modo da preservarne la dignità».
È vero –afferma il collegio giudicante– che l'espressione “che c_.” è entrata nell'uso comune e non ha rilevanza penale «quando è proferita in posizione di parità rispetto all'interlocutore»; ciò non toglie, però, che il linguaggio ingiurioso con il quale l'imputato si era rivolto alla persona offesa (etichettandolo, nell'ordine, “architetto del c_", “mafioso” ed “evasore fiscale”) veniva esternato durante una seduta condominiale nella quale il malcapitato, in rappresentanza del proprio genitore, aveva «soltanto» insistito per effettuare dei lavori condominiali.
A nulla sono valse le deduzioni del difensore: nullità del processo di primo grado e degli atti successivi, stante la ripetuta assenza dell'imputato; vizio di motivazione sul mancato proscioglimento, essendo state valutate come elemento di prova di responsabilità anche le dichiarazioni della persona offesa; mancata applicazione della causa di non punibilità prevista ex art. 599 c.p..
Per i giudici di legittimità, in realtà, «la presenza di una situazione patologica cronica legata all'età dell'imputato [_] non costituisce legittima causa né della sospensione del procedimento per incapacità dell'imputato, né di rinvio del dibattimento per legittimo impedimento a comparire di quest'ultimo». In merito, poi, all'inidoneità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa a «costituire prova di responsabilità», hanno precisato che quest'ultima «anche costituita parte civile, partecipa al processo, di regola, in qualità di testimone e, in tale veste, è tenuta a prestare giuramento sicché le sue dichiarazioni sono idonee ad essere valutate come elemento di prova anche a prescindere dalla ricerca e dalla sussistenza di elementi di prova». Con queste motivazioni hanno, quindi, dichiarato inammissibile il ricorso (articolo ItaliaOggi del 31.08.2012).

CONDOMINIOI condomini fotovoltaici? Come i commercianti.
I condomini che realizzano negli spazi condominiali un impianto fotovoltaico di potenza superiore a 20 kw o che cedono, a fini commerciali, tutta l'energia prodotta con impianti fino a 20 kw, si configurano dal punto di vista fiscale come società di fatto e come tali realizzano un reddito d'impresa.
Più precisamente, poiché la realizzazione dell'impianto fotovoltaico per fini commerciali rientra tra le «Innovazioni» che i condomini possono disporre ai sensi dell'art. 1120 del codice civile «(_) dirette al miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni» sono considerati soci della società di fatto i condomini che hanno deliberato con la maggioranza richiesta dall'art. 1136 del codice civile, la realizzazione dell'investimento. Restano esclusi dalla società di fatto i condomini che non hanno approvato la decisione e che non intendono trarre vantaggio dall'investimento.
In questo caso gli stessi, sulla base di quanto disposto dall'art. 1121, primo comma, ultima parte, del codice civile «sono esonerati da qualsiasi contributo di spesa». La società di fatto tra condomini che gestisce un impianto fotovoltaico è commerciale e deve emettere fattura nei confronti del Gse, in relazione all'energia che immette in rete. Il Gse che eroga la tariffa incentivante deve operare nei confronti della società di fatto la ritenuta del 4% (art. 28 del dpr n. 600 del 1973) sulla tariffa relativa alla parte di energia immessa in rete. Ai fini delle imposte dirette e dell'Iva, la società di fatto tra condomini diventa, dunque, soggetto d'imposta autonomo e quindi è tenuto a redigere un'autonoma dichiarazione dei redditi e un'autonoma dichiarazione Iva.

Sono questi i principali chiarimenti forniti dai tecnici delle Entrate con la risoluzione 10.08.2012 n. 84/E.
Si ha una società di fatto in presenza di una intesa verbale oppure quando si ha un comportamento concludente idoneo a dimostrare l'intento collettivo delle parti di stipulare un accordo per l'esercizio di un'attività imprenditoriale. La sussistenza di un elemento oggettivo, rappresentato dal conferimento di beni o servizi finalizzato alla formazione di un fondo comune, e di un elemento soggettivo, costituito dalla comune intenzione dei contraenti di vincolarsi e di collaborare allo scopo di conseguire risultati patrimoniali comuni, identifica, infatti, un contratto sociale.
Pertanto, a prescindere dalla modalità con cui si perfeziona il contratto sociale, che può anche risultare esclusivamente da manifestazioni esteriori dell'attività di gruppo, la presenza della contemporanea sussistenza dei suddetti presupposti oggettivo e soggettivo presuppone l'esistenza di una qualunque società.
Nella fattispecie in esame sottolineano i tecnici delle Entrate, si è in presenza di un accordo che interviene tra i condomini caratterizzato da un elemento oggettivo, rappresentato dal conferimento di beni e servizi, vale a dire dall'impianto fotovoltaico e dagli spazi comuni, e da un elemento soggettivo, dato dalla comune intenzione di voler conseguire dei proventi (articolo ItaliaOggi del 25.08.2012).

CONDOMINIO: Cassazione. Quando le auto rendono difficoltoso il passaggio. Vietato il parcheggio nel viale del condominio.
La sosta nella stradina condominiale è vietata: anche se lo spazio la consentirebbe senza impedire il transito. Il parcheggio da parte di alcuni abitanti del palazzo ha l'effetto di rendere meno agevole la manovra per entrare e uscire dalle autorimesse per i condomini più ligi che usano la stradina solo per entrare o uscire dai box.

La Corte di cassazione, con la sentenza 14633, torna a censurare le abitudini e le consuetudini che hanno come effetto quello di limitare «
il pari diritto di godimento del bene comune da parte degli altri condomini».
La Suprema corte si schiera dalla parte dei condomini più disciplinati e respinge le proteste di quelli più permissivi, secondo i quali «il vialetto veniva da anni pacificamente utilizzato sia per la sosta che per il transito delle vetture, in quanto la sua larghezza consentiva entrambi gli usi». Per gli appartenenti alla "fazione" della sosta libera non si trattava di un'occupazione stabile degli spazi comuni ma solo di un uso «eventuale e temporaneo».
Ma la Corte di cassazione dirime la lite di condominio in punta di codice affermando che, in base all'articolo 1102 del codice civile, «il singolo condomino può servirsi della cosa comune a patto che non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto».
Una limitazione che per la Suprema corte è provata sulla base di un sopralluogo sul luogo del "crimine", disposto dal Tribunale nel corso del primo grado di giudizio. Con l'indagine in loco si era, infatti, appurato che la manovra per entrare e uscire dal garage era meno agevole, ed era inoltre indispensabile mettere le macchine "a filo" per evitare i problemi che potevano sorgere in caso di affiancamento di due vetture.
Per i giudici solo la restituzione del bene alla sua destinazione naturale (il passaggio), consente il pari godimento a tutti gli abitanti (articolo Il Sole 24 Ore del 25.08.2012).

CONDOMINIO: Vietato il parcheggio nel vialetto. Ai condomini deve essere garantito un agevole accesso ai box. Per la Cassazione è irrilevante che il regolamento non contenga indicazioni in materia.
Vietato parcheggiare l'auto nel vialetto condominiale che conduce ai box, se ciò rende più difficile agli altri condomini raggiungere i posti auto destinati ai propri veicoli. Ed è irrilevante, a questo proposito, che il regolamento non contenga un tale divieto, poiché esso discende direttamente dalla legge, essendo ogni condomino obbligato a servirsi delle parti comuni in modo da non intralciare eccessivamente il pari utilizzo da parte degli altri comproprietari.
Lo ha chiarito la II Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 24.08.2012 n. 14633.
Il caso concreto. Alcuni condomini residenti nella provincia di Parma avevano citato i vicini davanti al giudice di pace perché questi abitualmente utilizzavano lo stradello condominiale che dava accesso ai garage anche per la sosta delle auto, invece di limitarsi al solo transito, creando intralcio a causa della conseguente restrizione degli spazi di manovra per l'entrata e l'uscita dai box.
Con una prima pronuncia del 2003 il giudice di pace aveva respinto il ricorso in questione, accogliendo la tesi dei condomini convenuti in giudizio, i quali sostenevano che ormai da anni il vialetto in questione veniva utilizzato indifferentemente sia per la sosta sia per il transito, essendo abbastanza largo da consentire l'accesso ai garage anche in presenza di auto in sosta.
La sentenza in questione era stata però ribaltata in appello dal tribunale che, invece, nel 2006, aveva stabilito che il viale condominiale non doveva essere utilizzato né per il parcheggio né per la sosta delle autovetture, ma soltanto per il transito, in modo da non privare tutti i condomini della possibilità di utilizzare pienamente lo spazio comune. La decisione di secondo grado era stata quindi impugnata in Cassazione.
La decisione della Suprema corte. La sentenza resa dal tribunale di Parma in sede di appello è stata quindi confermata dalla seconda sezione civile della Cassazione, con sentenza n. 14633 del 24 agosto scorso, la quale ha ritenuto del tutto corretto il richiamo operato dai giudici di merito all'art. 1102 del codice civile, il quale disciplina l'utilizzo dei beni comuni in condominio, stabilendo il principio per il quale tutti i comproprietari possono servirsene liberamente, con il solo limite di evitare comportamenti che ledano il pari diritto degli altri condomini di farne uso.
Nella specie, infatti, l'esame obiettivo del luogo aveva fatto emergere che la sosta delle auto nel viale di accesso ai garage rendeva oggettivamente meno agevole l'ingresso nelle singole proprietà esclusive, essendo indispensabile posizionare le auto a filo per evitare danni nell'affiancamento delle stesse.
Di conseguenza la condotta dei condomini che parcheggiavano le proprie auto sui vialetto in questione, per quanto astrattamente legittimo, di fatto rendeva più disagevole agli altri comproprietari il pari utilizzo del medesimo bene comune quale via di accesso ai box di proprietà esclusiva. La Suprema corte ha anche avuto modo di chiarire che, in casi del genere, la mancanza di un divieto espresso nel regolamento condominiale non permette di per sé qualsiasi utilizzo dei beni comuni, dovendosi sempre fare riferimento, per la disciplina del caso concreto, al criterio legale di cui al predetto art. 1102 c.c. (articolo ItaliaOggi Sette del 03.09.2012).

CONDOMINIOGiardino, area destinata a parcheggio.
«La delibera assembleare di destinazione a parcheggio di un'area di giardino condominiale, interessata solo in piccola parte da alberi di alto fusto e di ridotta estensione rispetto alla superficie complessiva, non dà luogo a una innovazione vietata dall'art. 1120 cod. civ., non comportando tale destinazione alcun apprezzabile deterioramento del decoro architettonico, né alcuna significativa menomazione del godimento e dell'uso del bene comune, e anzi, da essa derivando una valorizzazione economica di ciascuna unità abitativa e una maggiore utilità per i condòmini».
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione (sent. n. 15319/2011, inedita) (articolo ItaliaOggi del 15.08.2012).

CONDOMINIO: Approvazione tabelle a maggioranza.
Domanda
L'approvazione delle tabelle millesimali in una palazzina condominiale con quali criteri deve essere fatta? Occorre l'unanimità oppure, come sostiene l'amministratore, è sufficiente la maggioranza assoluta (maggioranza degli intervenuti che rappresenti la metà almeno del valore dell'edificio)?
Risposta
Ha ragione l'amministratore. La sentenza n. 18477/2010 delle Sezioni unite della Corte di cassazione ha «validato» l'orientamento (minoritario) più recente affermando il principio che le tabelle millesimali non devono essere approvate con il consenso unanime dei condomini, essendo sufficiente la maggioranza qualificata di cui all'art. 1138, 3° c., c.c.
La Cassazione ha negato che i millesimi rappresentino l'espressione di una volontà negoziale dei condomini volta ad accertare il valore millesimale delle loro unità immobiliari da cui sarebbe conseguita la necessità dei consensi di tutti gli stessi per la loro approvazione.
La Cassazione ha esaminato anche la funzione delle tabelle millesimali, negando che la presunta necessità dell'unanimità dei consensi dipenderebbe dal fatto che la deliberazione di approvazione delle tabelle millesimali costituirebbe un negozio di accertamento del diritto di proprietà sulle singole unità immobiliari e sulle parti comuni; piuttosto, la tabella millesimale serve solo a esprimere in precisi termini aritmetici un già preesistente rapporto di valore tra i diritti dei vari condomini, senza incidere in alcun modo sulla consistenza dei diritti reali a ciascuno spettanti.
Afferma la Cassazione nella sentenza che la deliberazione che approva le tabelle millesimali non si pone come fonte diretta dell'obbligo contributivo del condomino, che è nella legge prevista, ma solo come parametro di quantificazione dell'obbligo, determinato in base a una valutazione tecnica; caratteristica propria del negozio giuridico è la conformazione della realtà oggettiva alla volontà delle parti: l'atto di approvazione della tabella, invece, fa capo a una documentazione ricognitiva di tale realtà, donde il difetto di note negoziali.
In sintesi, con la predetta sentenza le Sezioni Unite hanno affermato che:
1) le tabelle esprimono un rapporto di valore tra unità immobiliari e parti comuni, che preesiste alle tabelle stesse, ai soli fini della ripartizione delle spese e del corretto svolgimento dell'assemblea (art. 68 disp. att. c.c.); 2) le tabelle sono un allegato del regolamento del condominio che, se di origine «assembleare» (anziché «contrattuale»), può essere approvato e modificato a maggioranza;
3) in quanto allegato al regolamento assembleare, esse sono soggette alle norme che regolano tale atto principale e, poiché per le tabelle nulla è previsto mentre per il regolamento è specificato il quorum necessario per la sua approvazione (art. 1138, 3° c. e 1136, 2° c.), anche per l'approvazione e la revisione delle tabelle è sufficiente il voto favorevole della maggioranza degli interventi all'assemblea che rappresentino almeno 500 millesimi (articolo ItaliaOggi Sette del 06.08.2012).

CONDOMINIO: La Cassazione: modifica possibile pur trattandosi di uso più intenso della cosa comune dai singoli. Sottotetto, trasformazioni libere. Irragionevole vietare la conversione in terrazze a uso esclusivo.
Attici maggiormente appetibili. D'ora in poi, infatti, il proprietario dell'ultimo piano sottostante il tetto comune potrà trasformarne una parte in terrazza a uso esclusivo anche senza il consenso degli altri condomini.
Con la sentenza 03.08.2012 n. 14107 la Corte di Cassazione ha mutato il proprio orientamento in materia di trasformazione del tetto condominiale in terrazza privata, operazione fino a oggi considerata vietata in condominio.
La seconda sezione civile della Suprema corte, con un'innovativa lettura dei concetti di pari uso e di destinazione del bene comune, sembra quindi avere aperto la strada a un utilizzo più intenso delle proprietà esclusive in ambito condominiale.
Il caso concreto. Nella specie l'impresa costruttrice di una palazzina, che aveva venduto alcuni degli appartamenti a terzi, aveva trasformato delle soffitte di sua proprietà in mansarde abitabili con parziale abbattimento del tetto e innalzamento della restante parte. I proprietari del piano terra, riconosciuti in giudizio quali condomini, avevano quindi citato l'impresa dinanzi al tribunale per sentire dichiarare l'illegittimità delle opere in tal modo realizzate e la riduzione in pristino del tetto condominiale. In primo grado la domanda era stata rigettata ma la Corte d'appello, ritenendo che la trasformazione del tetto in tal modo realizzata dall'impresa comproprietaria ne avesse alterato illegittimamente la destinazione e ledesse il principio del pari utilizzo dei beni comuni, la aveva invece accolta. Di qui il ricorso in Cassazione proposto dall'impresa costruttrice.
La decisione della Suprema corte. Come si anticipava, i giudici di legittimità, nel prendere atto dell'orientamento costantemente seguito in materia di trasformazione del tetto comune in terrazza a uso esclusivo, operazione ritenuta sempre vietata in condominio perché utile a un solo condomino con violazione del pari diritto degli altri comproprietari (si veda altro articolo in pagina), hanno però inteso motivatamente discostarsene, con l'obiettivo di fornire una rilettura del principio del pari utilizzo dei beni comuni di cui all'art. 1102 c.c che favorisca le esigenze abitative dei singoli e limiti il potere di preclusione dei singoli.
La Suprema corte, in estrema sintesi, è partita dal considerare come l'orientamento in questione sia in sostanziale contraddizione con quella giurisprudenza di legittimità che ha ammesso l'apertura nel muro perimetrale (e finanche nel tetto) di luci e vedute inerenti gli appartamenti di proprietà esclusiva, consentendo quindi un uso più intenso del bene comune da parte di uno o più condomini, pur nell'ambito della sua destinazione principale.
Alla luce di ciò, secondo la Cassazione, appare del tutto irragionevole vietare sempre e comunque la trasformazione del tetto in terrazza, laddove l'intervento sia minimo e, soprattutto, vengano garantite le strutture sottostanti con appropriati interventi tecnici, quali la coibentazione termica, che suppliscano alla mancanza di copertura, mantenendone la sua destinazione principale. Il diritto di pari uso da parte degli altri condomini, secondo la Suprema corte, deve quindi essere garantito con riferimento a interessi concreti e non meramente astratti, mentre la salvaguardia della destinazione del bene comune deve avvenire in relazione alla funzione del medesimo, piuttosto che alla sua consistenza materiale.
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Inversione di rotta dei giudici supremi.
La recente sentenza della Corte di cassazione n. 14107/2012 si discosta notevolmente dalle precedenti decisione dei giudici supremi che in passato, in diverse occasioni, hanno sempre ritenuto illegittimo il comportamento del proprietario dell'ultimo piano che avesse modificato il tetto condominiale, trasformandolo in terrazza a livello per il proprio uso esclusivo.
I casi precedenti e le giustificazioni dei condomini dell'ultimo piano. Nei precedenti casi esaminati dalla Cassazione i proprietari dell'ultimo piano del caseggiato avevano generalmente modificato l'originaria copertura dello stabile con un terrazzo accessibile soltanto da una nuova scala posta all'interno dello stesso appartamento. Tali opere, secondo le ragioni dei diretti interessati, sarebbero rientrate nella facoltà di sopraelevazione spettante al proprietario dell'ultimo piano, che comprenderebbe anche la facoltà di sostituzione di un tetto con un lastrico solare o con una terrazza. In ogni caso, sempre secondo i condomini interessati, opere del genere non potrebbero essere ritenute illegittime perché dopo la trasformazione sia il tetto sia la terrazza assolvono comunque alla stessa funzione di copertura e, quindi, non verrebbe meno il diritto degli altri condomini si servirsi del nuovo manufatto come copertura dell'edificio. Infine, in altri precedenti, non si è mancato di giustificare dette opere con la necessità di assicurare aria e luce a un locale soppalcato indispensabile per l'abitabilità dello stesso.
Trasformazione del tetto e diritto di sopraelevazione. Le decisioni della Suprema corte hanno sempre affermato che la sostituzione, a opera del proprietario dell'ultimo piano di un edificio condominiale, del tetto con una diversa copertura (terrazza) che, pur non eliminando l'assolvimento della funzione originariamente svolta dal tetto stesso, costituisce alterazione della destinazione della cosa comune, non può considerarsi compresa nel più ampio diritto di sopraelevazione spettante al proprietario dell'ultimo piano.
Infatti, si realizza una sopraelevazione di edificio condominiale, soggetta al relativo regime legale, solo in presenza di opere che comporti lo spostamento in alto della copertura del fabbricato, mentre la stessa va esclusa nel caso di lavori che, pur investendo la struttura e il modo di essere di tale copertura, non incidano sulla posizione della stessa. Quindi, secondo i supremi giudici, solo le modificazioni del tetto di un fabbricato che comportino aumento della superficie esterna del tetto medesimo e aumento della volumetria dei vani sottostanti, indipendentemente dalla loro utilizzabilità ai fini abitativi, integrano una nuova costruzione.
Di conseguenza è chiaro, per esempio, che non si può parlare semplicemente di terrazza in sostituzione della preesistente copertura condominiale quando alla fine dei lavori il tetto risulti sopraelevato, con creazione di un piccolo sottotetto praticabile e di un terrazzo. Una terrazza del genere, a livello di locali costruiti in forza della facoltà di cui all'art. 1127 c.c., serve sì da copertura parziale dell'edificio, ma svolge anche l'altra e preminente funzione di assicurare particolari utilità al proprietario esclusivo dei contigui ambienti.
La violazione dei limiti di utilizzo dei beni comuni. Secondo i giudici di legittimità il tetto, che ai sensi dell'art. 11117 c.c. costituisce parte comune dell'edificio condominiale, adempie all'unica funzione di copertura del fabbricato nell'interesse di tutti i condomini.
La sua trasformazione, perciò, è indubbiamente ammessa, per esempio attraverso la creazione di un lastrico solare in sua sostituzione, sempre però che il nuovo manufatto mantenga inalterata l'originaria funzione di copertura dell'edificio, alla quale non può sovrapporsi una destinazione diversa.
Al contrario, come è stato costantemente ribadito dalla giurisprudenza, la trasformazione del tetto a opera di un condomino, nel senso di sostituire la copertura preesistente con una diversa, oltre a non costituire una sopraelevazione, determina il sorgere di un nuovo manufatto (la terrazza) che per le sue concrete caratteristiche strutturali e per i suoi annessi (scala di accesso interna all'appartamento) comporta una destinazione a uso esclusivo dei condomini autori dell'opera, causando un'alterazione della cosa comune, con l'esclusione degli altri comproprietari di farne uguale uso.
In tale ipotesi, infatti, la trasformazione, non può essere intesa come un'innovazione diretta al miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento di un bene comune a vantaggio di tutti i condomini, ma comporta invece la violazione dei limiti previsti dalla legge, secondo i quali non è consentito che si alteri la destinazione della cosa comune e che si impedisca agli altri partecipanti di farne ugualmente uso secondo il loro diritto.
Per quanto sopra è stata anche dichiarata nulla la delibera dell'assemblea presa a maggioranza con cui un condomino era stato autorizzato ad aprire un varco nel tetto, trasformandolo in terrazza a livello per il proprio uso esclusivo: infatti la funzione di copertura di un caseggiato, che può essere assicurata sia dal tetto sia da un lastrico solare, presuppone una scelta che non può essere modificata se non con l'accordo di tutti i condomini (articolo ItaliaOggi Sette del 17.09.2012).

CONDOMINIO: L'ascensore e' indispensabile per la reale abitabilità dell'appartamento.
La II Sez. civile della Corte di Cassazione, con sentenza 03.08.2012 n. 14096, ha evidenziato come l'installazione di un ascensore, al fine dell’eliminazione delle barriere architettoniche, realizzata da un condomino su parte di un cortile e di un muro comuni, debba considerarsi indispensabile ai fini dell’accessibilità dell’edificio e della reale abitabilità dell’appartamento, e rientra, pertanto, nei poteri spettanti ai singoli condomini ai sensi dell'art. 1102 c.c.
Ove siano, pertanto, rispettati i limiti di uso delle cose comuni stabiliti da tale ultima norma, non rileva, allora, la disciplina dettata dall'art. 907 c.c. sulla distanza delle costruzioni dalle vedute, neppure per effetto del richiamo a essa operato nell’art. 3, comma 2, legge 09.01.1989, n. 13, non trovando quest’ultima disposizione applicazione in ambito condominiale.
DISTANZE E CONDOMINIO

Già più volte, in passato, la giurisprudenza aveva affermato che le norme sulle distanze sono applicabili anche tra i condomini di un edificio condominiale, purché siano però compatibili con la disciplina particolare relativa alle cose comuni, ovvero quando l'applicazione di quest'ultima non sia in contrasto con le prime; nell'ipotesi di contrasto, la prevalenza della norma speciale in materia di condominio determina, allora, l'inapplicabilità della disciplina generale sulle distanze che, nel condominio degli edifici e nei rapporti tra singolo condomino e condominio, deve ritenersi in rapporto di subordinazione rispetto alla prima. Pertanto, ove il giudice constati il rispetto dei limiti di cui all'art. 1102 c.c. (secondo cui ciascun partecipante alla comunione può servirsi della cosa comune, sempre che non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso), deve ritenersi legittima l'opera realizzata anche senza il rispetto delle norme dettate per regolare i rapporti tra proprietà contigue, sempre che venga rispettata la struttura dell'edificio condominiale (Cass. 18.03.2010, n. 6546; Cass. 23.02. 2012, n. 2741).
Nella specie, si trattava di utilizzare un cortile per realizzare un impianto di ascensore. È altrettanto noto, in proposito, come i cortili comuni, assolvendo alla precipua finalità di dare aria e luce agli immobili circostanti, sono utilmente fruibili a tale scopo dai condomini stessi, cui spetta la facoltà di farne uso ai fini di maggiore comodità, amenità o accessibilità delle porzioni solitarie, senza incontrare, quindi, le limitazioni prescritte, in materia di luci e vedute, a tutela dei proprietari degli immobili di proprietà esclusiva. In proposito, l'indagine del giudice deve essere indirizzata a verificare esclusivamente se l'uso del cortile comune sia avvenuto nel rispetto dei limiti stabiliti dal citato art. 1102, e, quindi, se non ne sia stata alterata la destinazione e sia stato consentito agli altri condomini di farne parimenti uso secondo i loro diritti: una volta accertato che l'uso del bene comune sia risultato conforme a tali parametri dovrà, perciò, comunque escludersi che si sia potuta configurare un'innovazione vietata (Cass. 09.06.2010, n. 13874).
Di per sé, l'installazione dell'ascensore, rientrando fra le opere dirette a eliminare le barriere architettoniche di cui all'art. 27, comma 1, legge n. 118/1971 e all'art. 1, comma 1, D.P.R. n. 384/1978, costituisce innovazione che, ai sensi dell'art. 2, legge n. 13/1989, è approvata dall'assemblea con la maggioranza prescritta rispettivamente dall'art. 1136, comma 2 e 3 c.c., dovendo, però, essere rispettati (in forza del comma 3 del citato art. 2) i limiti previsti dagli artt. 1120 e 1121 c.c. Non può, quindi, essere consentita quell'installazione che renda talune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino (Cass. 27.12.2011, n. 28920; Cass. 25.06.1994, n. 6109).
Merito di Cass. n. 14096/2012, è, tuttavia, quella di aver qualificato l’impianto di ascensore come indispensabile ai fini di una reale abitabilità dell'appartamento, intesa questa nel senso di una condizione abitativa che rispetti l'evoluzione delle esigenze generali dei cittadini e lo sviluppo delle moderne concezioni in tema di igiene, salvo l'apprestamento di accorgimenti idonei ad evitare danni alle unità immobiliari altrui: questa indispensabilità vale, infatti, ad esonerare l’ascensore condominiale dall'osservanza delle norme del codice civile in tema di distanze (cfr. Cass. 15.07.1995, n. 7752) (tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Ascensore a distanza ravvicinata. Sì all'impianto in deroga alla vicinanza minima dall'immobile. La Cassazione: l'opera abbatte le barriere architettoniche ed è funzionale all'abitabilità.
L'installazione dell'ascensore in un edificio condominiale, in quanto opera finalizzata all'abbattimento delle cosiddette barriere architettoniche e necessaria per la piena ed effettiva abitabilità di un appartamento, può avvenire anche senza il rispetto delle distanze legali tra immobili.
Lo ha stabilito la II Sez. civile della Corte di Cassazione nella recente sentenza 03.08.2012 n. 14096.
Il caso concreto. Nella specie l'assemblea di un condominio aveva deliberato l'avvio di opere volte all'installazione di un impianto di ascensore esterno all'edificio e che avrebbe occupato una parte del cortile, venendo a trovarsi a distanza inferiore ai tre metri previsti dalla legge (art. 907 c.c.) rispetto alle finestre di alcuni appartamenti. Alcuni dei rispettivi proprietari avevano quindi impugnato giudizialmente la delibera condominiale sia per la predetta lesione del diritto di veduta sia per il pregiudizio che tale opera avrebbe comportato per il decoro architettonico dell'edificio.
Il tribunale, tuttavia, aveva respinto il ricorso, qualificando l'ascensore quale impianto necessario all'effettiva abitabilità di un immobile, al pari di quelli di acqua, luce e gas, come tale non sottostante al regime civilistico delle distanze legali. Di avviso contrario era però stata la corte d'appello presso la quale i condomini avevano deciso di impugnare la decisione di primo grado, che aveva invece ritenuto pienamente applicabile nella specie il disposto di cui all'art. 907 c.c.. Infatti, secondo il giudice di secondo grado, poiché l'art. 2 della legge n. 13/1989 sull'abbattimento delle c.d. barriere architettoniche impone in ogni caso il rispetto della destinazione delle parti comuni (art. 1120, comma 2, c.c.), a maggior ragione deve ritenersi che tale norma non consenta di recare pregiudizio alle proprietà esclusive.
Inoltre, sempre secondo la corte di merito, sarebbe stata la stessa legge or ora richiamata, laddove all'art. 3 si deroga espressamente al rispetto delle distanze previste dai regolamenti locali, senza fare alcuna menzione delle distanze minime previste dal codice civile, a rendere applicabili anche in materia condominiale le disposizioni in materia di vedute.
La decisione della Suprema corte. La decisione della corte di appello è quindi stata portata all'esame della Cassazione dal condominio, che reclamava la piena legittimità della deliberazione assembleare. E la Suprema corte, a sua volta, ha completamente ribaltato le argomentazioni giuridiche seguite dai giudici di merito, annullando la sentenza impugnata e stabilendo una serie di interessanti principi in materia di installazione degli ascensori e abbattimento delle c.d. barriere architettoniche.
In estrema sintesi, i giudici di legittimità hanno infatti ritenuto che la normativa sulle distanze legali, per quanto applicabile anche in ambito condominiale (seppure in via subordinata alla disciplina delle cose comuni di cui all'art. 1102 c.c.), non opera nei confronti di quegli impianti, tra i quali è sicuramente compreso anche l'ascensore, che siano necessari all'effettiva abitabilità di un immobile.
Inoltre, sempre secondo la Cassazione, l'applicabilità della normativa in materia di vedute anche in ambito condominiale non può ritenersi implicitamente confermata dal predetto art. 3 della legge n. 13/1989 che, contrariamente a quanto ritenuto nella specie dai giudici di appello, riguarda soltanto i rapporti tra immobili confinanti appartenenti a diversi proprietari e non anche le ipotesi di condominio degli edifici (articolo ItaliaOggi Sette del 27.08.2012).

luglio 2012

CONDOMINIOCassazione. La «privatizzazione» è possibile. Sottotetto comune solo se utilizzabile.
IL PRINCIPIO/ Quando il locale svolge funzione di «camera d'aria» rispetto all'appartamento sottostante va considerato pertinenza di quest'ultimo.
La Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 23.07.2012 n. 12840 torna nel sottotetto, quello spazio un tempo destinato a ospitare ciarpame o semplicemente a restare vuoto per evitare pericoli di crolli e incendi, e ora potenziale e ambitissima mansarda. E torna per confermare il suo orientamento: se può servire all'uso comune è condominiale, se serve solo come «camera d'aria» è pertinenza del piano di sotto.
Le norme regionali hanno reso appetibile (e agibile) migliaia di solai, magari con piccole modifiche, dall'abbassamento dell'altezza media di 2,7 metri alla possibilità di alzare la falde del tetto. Ma molti, in realtà, non erano ufficialmente pertinenze di appartamenti bensì semplicemente "camere d'aria" immaginate per evitare un contatto diretto tra ultimo piano e tetto, che avrebbe creato non pochi problemi di caldo e freddo.
Ora, con le moderne tecniche di coibentazione, questo non è più un problema. Un problema è invece la proprietà di questi beni, che valgono anche molto: sono del condominio o dell'appartamento sottostante?
La polemica è andata avanti per decenni, sinché l'orientamento della Cassazione si è consolidato con un principio: non essendo il sottotetto espressamente ricompreso nel novero delle parti comuni individuate dall'articolo 1117 del Codice civile, l'appartenenza del sottotetto si determina in base al titolo e, in mancanza, in base alla funzione cui esso è destinato in concreto. Quindi, se si tratta di vano destinato esclusivamente a servire da protezione dell'appartamento dell'ultimo piano dal caldo, dal freddo e dall'umidità tramite la creazione di una camera d'aria, è pertinenza e proprietà esclusiva del proprietario dell'ultimo piano; mentre è una parte comune se è utilizzabile, anche solo potenzialmente, per gli usi comuni, perché in questo caso si può applicare la presunzione di comunione prevista dall'articolo 1117 del Codice civile, la quale opera ogni volta che nel silenzio del titolo il bene sia per le sue caratteristiche suscettibile di utilizzazione da parte di tutti i proprietari. In concreto, quindi, nella maggioranza dei casi il sottotetto è una pertinenza dell'appartamento sottostante, anche se naturalmente questo solleva le proteste degli altri condomini che si sentono defraudati se non di un'utilità comune (di fatto il sottotetto serve solo all'unità sottostante) quanto meno di un valore immobiliare.
Ma anche l'ultima pronuncia della II sezione civile della Cassazione, l'ordinanza 12840 (presidente Umberto Goldoni e relatore Aldo Carrato), depositata ieri, ha confermato l'orientamento.
Nel caso di specie, le Corti di merito avevano già verificato proprio che il sottotetto non era utilizzabile in alcun modo a scopi comuni (e anzi era collegato all'appartamento sottostante da una scala interna e non era accessibile da altre parti), e avevano già condannato il condomino che aveva promosso l'azione a 2mila euro di spese di risarcimento danni più tutte le spese giudiziarie e legali in primo e secondo grado. La Cassazione ha ritenuto il ricorso «manifestamente infondato» con ordinanza e ha ulteriormente condannato il ricorrente a pagare 1.700 euro di spese di giudizio (articolo Il Sole 24 Ore del 24.07.2012).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Grava sull’amministrazione l’obbligo di verificare l'esistenza, in capo al richiedente, di un idoneo titolo di godimento sull'immobile oggetto dell’intervento, ma non già di risolvere i conflitti tra le parti private in ordine all'assetto dominicale dell'area interessata, non essendo la p.a. tenuta a svolgere una preliminare indagine istruttoria che si estenda fino alla ricerca di eventuali elementi limitativi, preclusivi o estintivi del titolo di disponibilità allegato dal richiedente, essendo noto che il rilascio del titolo edilizio “non comporta limitazione dei diritti dei terzi”, secondo il disposto dall’art. 11, comma 3, del T.U. n. 380/2001.
Va, peraltro, aggiunto che l'art. 1102 c.c. consente a ciascun partecipante di servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione, cioè non incida sulla sostanza e struttura del bene, e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. Il partecipante alla comunione, pertanto, può usare della cosa comune per un suo fine particolare, con la conseguente possibilità di ritrarre dal bene una utilità specifica aggiuntiva rispetto a quelle che vengono ricavate dagli altri, con il limite di non alterare la consistenza e la destinazione di esso o di non impedire l'altrui pari uso.
Va, pertanto, ribadito che ai fini della verifica della legittimazione soggettiva a compiere un intervento edilizio, il parametro valutativo va ricercato nella disciplina pubblicistica che regola la realizzazione di opere sul territorio, senza che il dissenso di terzi possa incidere sulla legittimità del provvedimento, che viene adottato sulla base del titolo formale di disponibilità del bene immobile interessato e, in ogni caso, con salvezza dei diritti dei terzi.

Si palesano fondate anche le doglianze volte a contestare la sussistenza di una valida ragione ostativa all’esecuzione dei lavori progettati, risultando erronea la circostanza posta a base dell’azione amministrativa, secondo cui le opere “incidono sulle parti comuni dell’edificio”. Invero, come si è già anticipato, la d.i.a. ha ad oggetto il manufatto di esclusiva proprietà del ricorrente (prevedendo la trasformazione di un vano finestra in porta) e solo di riflesso può rilevare sull’uso del cortile di proprietà comune (in relazione al paventato attraversamento con l’autovettura, poiché la modifica progettata rende il deposito idoneo alla destinazione a garage), sicché non può dubitarsi che il richiedente fosse legittimato a proporre l’intervento, ai sensi degli artt. 11 e 23 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Sul punto va osservato che, secondo il costante orientamento giurisprudenziale, grava sull’amministrazione l’obbligo di verificare l'esistenza, in capo al richiedente, di un idoneo titolo di godimento sull'immobile oggetto dell’intervento, ma non già di risolvere i conflitti tra le parti private in ordine all'assetto dominicale dell'area interessata, non essendo la p.a. tenuta a svolgere una preliminare indagine istruttoria che si estenda fino alla ricerca di eventuali elementi limitativi, preclusivi o estintivi del titolo di disponibilità allegato dal richiedente, essendo noto che il rilascio del titolo edilizio “non comporta limitazione dei diritti dei terzi”, secondo il disposto dall’art. 11, comma 3, del T.U. n. 380/2001 (cfr. Consiglio Stato, Sezione V, 04.02.2004, n. 368; Sezione VI, 10.2.2010, n.675; TAR Campania, Sezione II, 22.09.2006, n. 8243), TAR Lombardia, Brescia, Sezione I, 28.05.2007, n. 460).
Va, peraltro, aggiunto che l'art. 1102 c.c. consente a ciascun partecipante di servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione, cioè non incida sulla sostanza e struttura del bene, e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. Il partecipante alla comunione, pertanto, può usare della cosa comune per un suo fine particolare, con la conseguente possibilità di ritrarre dal bene una utilità specifica aggiuntiva rispetto a quelle che vengono ricavate dagli altri, con il limite di non alterare la consistenza e la destinazione di esso o di non impedire l'altrui pari uso (cfr. Cassazione civile, Sezione II, 14.07.2011, n. 15523; 09.02.2011, n. 3188).
Va, pertanto, ribadito che ai fini della verifica della legittimazione soggettiva a compiere un intervento edilizio, il parametro valutativo va ricercato nella disciplina pubblicistica che regola la realizzazione di opere sul territorio, senza che il dissenso di terzi possa incidere sulla legittimità del provvedimento, che viene adottato sulla base del titolo formale di disponibilità del bene immobile interessato e, in ogni caso, con salvezza dei diritti dei terzi (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 04.07.2012 n. 3205 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

giugno 2012

CONDOMINIO: Quote modificate a maggioranza. Per rivedere le tabelle millesimali non serve l'unanimità. La Cassazione sulla ripartizione delle spese comuni conferma il principio introdotto nel 2010.
Per la modifica delle tabelle millesimali è sufficiente la maggioranza dei voti espressi dai condomini in assemblea e non è quindi necessaria l'unanimità.
Con la recente ordinanza 27.06.2012 n. 10762 la VI Sez. civile della Corte di Cassazione ha fatto applicazione del nuovo principio di diritto pronunciato in materia dalle sezioni unite con la storica sentenza n. 18477 del 2010.
Il caso concreto.
Nella specie alcuni condomini avevano impugnato la delibera condominiale con la quale, in seconda convocazione, erano stati approvati a maggioranza il rendiconto consuntivo e il preventivo di spesa presentati dall'amministratore. Secondo loro, infatti, il riparto delle spese era stato effettuato sulla base di tabelle millesimali diverse da quelle allegate al regolamento di condominio predisposto dall'originario costruttore dell'edificio e depositato presso la conservatoria immobiliare. Nella dichiarata contumacia del condominio convenuto in giudizio il tribunale aveva però dichiarato inammissibile l'impugnazione.
La sentenza di primo grado era quindi stata appellata e, in questo caso, con la partecipazione al giudizio del condominio, in totale riforma della sentenza impugnata, era stata ritenuta l'ammissibilità dell'impugnazione della delibera condominiale, che era stata dichiarata nulla dai giudici di appello nella parte in cui erano stati approvati il rendiconto consuntivo e il preventivo di spesa in difformità dei millesimi indicati dalle tabelle allegate al regolamento condominiale trascritto. Il condominio aveva allora presentato ricorso in cassazione avverso la sentenza della Corte d'appello.
La decisione della Suprema corte.
La Corte di appello aveva fondato la propria pronuncia sulla circostanza della radicale nullità della deliberazione assembleare, in quanto adottata soltanto a maggioranza dei voti e non con l'unanimità dei consensi dei condomini. I giudici di secondo grado avevano infatti ritenuto che, essendo stata provata l'esistenza di tabelle millesimali allegate al regolamento condominiale confezionato dal costruttore originario dell'edificio e regolarmente trascritto presso la conservatoria immobiliare, la ripartizione delle spese comuni avrebbe dovuto essere effettuata sulla base delle predette tabelle e che la loro eventuale modifica non poteva avvenire con la semplice maggioranza dei partecipanti all'assemblea.
La sesta sezione della Suprema corte, facendo al contrario leva sulla sopravvenuta recente sentenza (n. 18477 del 2010) con la quale le sezioni unite della medesima Cassazione hanno escluso la necessità del consenso unanime dei condomini per l'approvazione e la revisione delle tabelle millesimali, ritenendo viceversa sufficiente la maggioranza qualificata di cui all'articolo 1136, comma 2, del codice civile, hanno quindi ritenuto di dover cassare la decisione impugnata.
In effetti, essendo sopravvenuta, nelle more del ricorso in cassazione, la predetta sentenza del 2010, era venuto meno il supporto logico sul quale era stata basata la decisione della Corte d'appello, considerando che nel caso di specie la deliberazione assembleare di modifica delle tabelle millesimali era stata appunto approvata con la maggioranza prevista dall'articolo 1136, comma 2, del codice civile ... (articolo ItaliaOggi Sette del 20.08.2012).

CONDOMINIO: Condominio. Danni in sede civile. Se è circoscritto lo schiamazzo non è un reato.
Urla per le scale, porte che sbattono, sedie che volano: uno scenario ricorrente in molti condomini .
Non sempre però questi rumori, espressione più delle volte di maleducazione, che ledono il diritto alla tranquillità sono tutelabili in sede penale.
Le immissioni rumorose trovano la loro tutela in sede civile nell'articolo 844 del Codice civile, ma il comportamento di chi commette immissioni rumorose può integrare la fattispecie delittuosa di cui all'articolo 659 del Codice penale («Disturbo delle occupazioni e del riposto delle persone») solo in presenza di certe condizioni.
Per integrare questo reato non è necessaria la prova reale del disturbo provocato, ma occorre la certezza che i rumori siano obiettivamente idonei a creare il disturbo trattandosi di reato di pericolo e, soprattutto, è necessario che il fenomeno rumoroso sia idoneo a disturbare un numero indeterminato di persone e non solo un numero limitato.

A questi principi di diritto si è appellata la Corte di Cassazione, Sez. I penale, sentenza 26.06.2012 n. 25225, affrontando il caso di alcuni condomini che erano stati condannati, dal tribunale, alla pena di giustizia (per il reato di cui agli articoli 81, 110 e 659, Codice penale) per avere, in concorso fra di loro, cagionato disturbo a cinque condomini dello stabile sbattendo con violenza le porte dell'appartamento e d'ingresso condominiale, urlando immotivatamente sulle scale del condominio, nonché sbattendo tavoli e sedie sul pavimento dell'appartamento da essi occupato.
Il Tribunale ha fondato la penale responsabilità degli imputati sulle deposizioni rese dalle parti offese e dall'amministratore condominiale pro-tempore, oltre che sulla denuncia-querela presentata da uno dei condomini.
Inoltrato il ricorso, i condannati eccepivano che non era stato accertato che i rumori molesti provenissero dal loro appartamento, né era stata accertata la natura di tali rumori né che sussisteva, nella specie, il reato a essi contestato in quanto il disturbo da essi arrecato era rimasto circoscritto all'interno delle mura condominiali, sì da non essere idoneo ad arrecare danno a una generalità indistinta di persone, elemento che costituisce la ratio dell'articolo 659, Codice penale, ovvero la tutela della quiete pubblica, intesa come collettività indistinta.
La Corte, nell'accogliere il ricorso ha precisato che: «La contravvenzione prevista dall'articolo 659, primo comma, Codice penale ... persegue la finalità di preservare la quiete e la tranquillità pubblica e i correlati diritti delle persone all'occupazione e al riposo; e la giurisprudenza di legittimità è orientata nel senso di ritenere che elemento essenziale di detta contravvenzione sia l'idoneità del fatto ad arrecare disturbo a un numero indeterminato di persone» (Cassazione n. 25225 citato). Nel caso in esame è emerso che gli unici soggetti danneggiati dai rumori molesti erano i cinque condomini occupanti la palazzina e che i rumori sono rimasti circoscritti all'interno dello stabile.
I fatti denunciati, pertanto, sono stati definiti «privi di rilevanza penale» e tali da poter trovare tutela solo in sede civile, con conseguente annullamento, senza rinvio, della sentenza impugnata (articolo Il Sole 24 Ore del 20.08.2012).

maggio 2012

CONDOMINIO: Sopraelevazione a prova di sisma. Modifiche al tetto legittime se resistenti a eventi tellurici. La Cassazione sulle opere eseguite all'ultimo piano. Non basta che l'edificio supporti il peso.
La sopraelevazione, realizzata dal proprietario dell'ultimo piano di un condominio, è legittima non solo se l'edificio è in grado di sopportare il peso delle nuove strutture ma anche se sono state rispettate tutte le speciali prescrizioni antisismiche previste in relazione alle caratteristiche del territorio, in modo che il fabbricato sia idoneo a resistere alle sollecitazioni di un eventuale evento tellurico: in caso contrario la nuova struttura deve essere demolita.
Lo ha chiarito la II Sez. civile della Suprema corte di cassazione con la recente sentenza 30.05.2012 n. 8643.
La vicenda. Nel caso di specie il proprietario di un appartamento, che comprendeva i piani primo e terra del fabbricato, citava in giudizio la proprietaria dell'altra unità immobiliare, posta su più piani (dal secondo al quarto), accusandola di avere eliminato la scala interna di collegamento tra il primo e il secondo piano e, soprattutto, di avere sopraelevato, per renderlo abitabile, il preesistente sottotetto, eliminando parte del preesistente tetto comune e realizzando un terrazzo di uso esclusivo.
Secondo l'attore le opere eseguite si dovevano considerare illegittime e, quindi, si richiedeva il ripristino della precedente situazione o, in via subordinata, ove fosse stata ritenuta legittima la sopraelevazione eseguita, il pagamento dell'indennità di sopraelevazione prevista dalla legge e, in ogni caso, il risarcimento dei danni. Il proprietario dell'appartamento ristrutturato si difendeva rilevando che le opere contestate erano state realizzate dai precedenti proprietari, per cui chiedeva e otteneva la loro chiamata in giudizio per essere manlevato da ogni responsabilità. Questi ultimi, ritenuti i reali esecutori delle opere sopra dette, venivano condannati a risarcire i danni, nonché al pagamento dell'indennità prevista per la sopraelevazione (ritenuta legittima) a favore dell'attore.
La Corte di appello, invece, condannava al pagamento dei danni e dell'indennità sopra detta l'attuale proprietario dell'immobile, ritenendo i precedenti proprietari, che avevano alienato l'immobile nello stato di fatto in cui si trovava al momento delle compravendita, esenti da responsabilità. In ogni caso la stessa Corte ribadiva come il fabbricato fosse idoneo a fronteggiare il rischio sismico, come risultava da due relazioni tecniche secondo le quali nel caso in esame non si configuravano ampliamenti e sopraelevazioni tali da comportare l'adeguamento sismico.
Il proprietario dell'appartamento, comprensivo dei piani primo e terra del condominio, si rivolgeva però alla Cassazione perché considerava la sopraelevazione non conforme alla normativa antisismica. Del resto, quest'ultimo sottolineava come la Corte d'appello avesse fatto proprie le immotivate e contrastanti conclusioni cui era giunto il consulente tecnico incaricato, il quale, pur escludendo alcun pregiudizio alla statica dell'immobile, ammetteva che non era ancora stato rilasciato il certificato di legge, attestante la perfetta rispondenza dell'opera eseguita alle norme antisismiche, da ritenersi propedeutico al rilascio del certificato di agibilità da parte del comune.
La decisione. La Suprema corte, condividendo le precedenti considerazioni, ha ritenuto illegittima la sopraelevazione per mancanza della prova (e del certificato richiesto dalla legge) dell'esecuzione delle opere necessarie per scongiurare il rischio sismico.
In particolare i giudici supremi hanno ricordato che il divieto di sopraelevazione, per inidoneità delle condizioni statiche dell'edificio, previsto dalla normativa condominiale contenuta nel codice civile, va interpretato non nel senso che la sopraelevazione è vietata soltanto se le strutture dell'edificio non consentono di sopportarne il peso, ma nel senso che il divieto sussiste anche nel caso in cui le strutture siano tali che, una volta elevata la nuova fabbrica, non consentano di sopportare l'urto di forze in movimento, quali le sollecitazioni di origine sismica.
In altre parole, il diritto del condomino di sopraelevare sorge solo nel momento in cui la stabilità strutturale dell'edificio in condizioni di quiete lo consenta o, nelle zone sottoposte a rischio sismico, solo nel momento in cui la struttura del fabbricato sia adeguata al grado di sismicità della zona e, perciò, sia pronta a sopportare la sopraelevazione.
Pertanto, qualora le leggi antisismiche, in ragione delle particolari caratteristiche del territorio, prescrivano cautele tecniche da adottarsi nella sopraelevazione degli edifici, esse sono da considerarsi integrative del codice civile e la loro inosservanza determina una presunzione di pericolosità della sopraelevazione, che può essere vinta esclusivamente mediante la prova, il cui onere incombe sull'autore della nuova fabbrica, che non solo la sopraelevazione ma anche la struttura sottostante sia idonea a fronteggiare il rischio sismico. Se tale prova non viene fornita, si presume l'instabilità della costruzione realizzata e, quindi, una situazione di pericolo permanente, da rimuovere senza indugio.
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Il proprietario deve corrispondere una indennità ai condomini.
Il diritto di sopraelevazione, al di fuori dei casi in cui sia escluso dal titolo o non sia esercitabile per i limiti obiettivi collegati alle esigenze di compatibilità statica o architettonica, si traduce in una facoltà strettamente collegata alla proprietà dell'ultimo piano o a quella esclusiva del lastrico solare. L'esercizio di detta facoltà con la realizzazione della sopraelevazione dà luogo all'aggiunta all'edificio condominiale di un nuovo piano o porzione di piano in proprietà individuale, che viene a partecipare al godimento delle parti comuni e genera, altresì, l'obbligo del sopraelevante di corrispondere agli altri condomini la c.d. indennità di sopraelevazione.
Circa la nozione oggettiva di sopraelevazione, la Corte di cassazione ha avuto modo di chiarire che «non costituisce esercizio del diritto di sopraelevazione la sostituzione, a opera del proprietario dell'ultimo piano di un edificio condominiale, del tetto con una terrazza, sulla considerazione che la diversa copertura realizzata, pur non eliminando la funzione originariamente svolta dal tetto, vale ad imprimere allo stesso, una destinazione ad uso esclusivo dell'autore dell'opera, costituendo alterazione della cosa comune che viene così sottratta al godimento collettivo» (Cassazione, sez II, 28/01/2005, n. 1737).
In un caso analogo, avente a oggetto la trasformazione di parte del sottotetto in terrazza a livello in uso esclusivo, la Suprema Corte, invocando principi già espressi in materia di uso più intenso delle parti comuni a opera di alcuni condomini, ha escluso che un condomino possa trasformare il tetto in terrazzo a uso esclusivo, essendo in tal modo alterata l'originaria destinazione della cosa comune (Cass. civ., sez II, sentenza n. 5753/2007). Le considerazioni svolte sinora valgono anche nel caso in cui gli interventi edificatori si traducano in opere di recupero di sottotetti all'interno dei quali siano ricavati uno o più appartamenti.
La titolarità del diritto di sopraelevazione. Il diritto di sopraelevazione è strettamente connesso alla proprietà dell'immobile e il suo esercizio, da parte del proprietario dell'ultimo piano, non è soggetto al preventivo consenso dell'assemblea. Dalla natura reale del diritto suddetto discende, inoltre, la sua imprescrittibilità. Dalla formulazione dell'art. 1127 c.c. deve ritenersi che la presenza di un proprietario esclusivo del lastrico solare escluda automaticamente la sussistenza del diritto di sopraelevazione in capo al proprietario dell'ultimo piano. Qualora, invece, il lastrico solare sia di proprietà comune dei condomini, il diritto di sopraelevazione spetta al proprietario dell'ultimo piano che, a seguito della nuova costruzione, dovrà ricostruire il lastrico solare comune a un livello superiore.
Qualora l'ultimo piano dell'edificio sia costituito da soffitte o da sottotetti, la giurisprudenza ha ritenuto che l'appartenenza di tali manufatti a soggetto diverso dal proprietario dell'ultimo piano faccia in modo che detti manufatti possano essere considerati piani ai sensi e agli effetti di cui all'art. 1127 c.c., con la conseguenza che il diritto alla sopraelevazione farà capo al proprietario di tali soffitte o sottotetti. Per contro, la proprietà comune di detti manufatti sposta in favore del proprietario dell'ultimo piano la facoltà di elevare nuovi piani o nuove fabbriche, fermo restando l'obbligo di ricostruire a un livello superiore i manufatti preesistenti alla sopraelevazione al fine di garantire l'uso comune degli stessi.
La c.d. indennità di sopraelevazione. L'indennità in questione è disciplinata dal comma 4 dell'art. 1127 c.c. e consiste in una misura compensativa riconosciuta agli altri condomini, il cui ammontare è pari al valore attuale dell'area da occuparsi con la nuova costruzione, diviso per il numero dei piani, ivi compreso quello da edificare, e detratto l'importo della quota spettante al sopraelevante. L'indennizzo non copre per intero la diminuzione di valore che le unità immobiliari in proprietà esclusiva subiscono per effetto della sopraelevazione in rapporto col valore dell'intero edificio e ciò in virtù del fatto che, da un lato, non si tratta di risarcimento da fatto illecito e che, dall'altro, il diritto di sopraelevare e, conseguentemente, di provocare tale diminuzione, sorge contemporaneamente al condominio e, quindi, chi acquista una unità immobiliare al di sotto dell'ultimo piano è a conoscenza del fatto che il valore della stessa rispetto al valore dell'intero edificio è suscettibile di diminuzione (in tal senso Cassazione, sez. II, n. 12880/2005).
L'obbligo di corresponsione dell'indennità trova fondamento nella necessità di compensare gli altri condomini della riduzione del valore delle quote di loro pertinenza sull'edificio condominiale, giacché colui che realizza la sopraelevazione va ad accrescere a scapito degli altri condomini la propria quota di partecipazione alla comunione.
D'altro canto il legislatore, nel riconoscere il diritto di sopraelevare al proprietario dell'ultimo piano o al proprietario esclusivo del lastrico solare, ha posto poi a carico di questi l'obbligo di corrispondere un'indennità agli altri condomini proprio con l'intento di compensarli della diminuzione patrimoniale delle loro quote per effetto della sopraelevazione (articolo ItaliaOggi Sette del 18.06.2012).

CONDOMINIO: Il condominio (in persona del suo amministratore, investito di apposita delibera approvata con il quorum richiesto dall'art. 1136 c.c.) possiede la legittimazione e l'interesse ad agire per l'impugnazione, per difformità dalle prescrizioni urbanistico-edilizie, della concessione assentita a terzi (tale principio riguarda, normalmente, la costruzione di stabili sul fondo confinante e, quindi, vale a maggior ragione per costruzioni interne allo stabile comune).
Ciò avviene sia perché sussiste in capo al condominio uno stabile collegamento con la zona (cd. vicinitas), e quindi, nel caso di specie, con la sua stessa struttura, sia (anche senza che venga lamentato un danno specifico) in ragione del pregiudizio che è insito nella violazione edilizia a danno di tutti i membri della collettività e consistente nel sacrificio derivante dall'aggravio connesso alla presenza, nel caso di concreto, di un ulteriore ottavo piano.
La finalità di assicurare e garantire l'uso e la conservazione delle cose comuni, ìnsita nella creazione del condominio di un edificio come centro di imputazione d'interessi, giustifica la titolarità in capo al medesimo dell'azione di annullamento nei confronti dell'illegittima esplicazione dello ius aedificandi anche se ad opera di un condòmino, poiché le azioni promosse a difesa dei diritti e degli interessi legittimi dei condomini esplicano efficacia sull'intero raggruppamento degli occupanti dell'edificio e rappresentano una modalità della realizzazione dell'interesse comune.

La giurisprudenza amministrativa ha costantemente sostenuto che il condominio (in persona del suo amministratore, investito di apposita delibera approvata con il quorum richiesto dall'art. 1136 c.c.) possiede la legittimazione e l'interesse ad agire per l'impugnazione, per difformità dalle prescrizioni urbanistico-edilizie, della concessione assentita a terzi (tale principio riguarda, normalmente, la costruzione di stabili sul fondo confinante e, quindi, vale a maggior ragione per costruzioni interne allo stabile comune).
Ciò avviene sia perché sussiste in capo al condominio uno stabile collegamento con la zona (cd. vicinitas), e quindi, nel caso di specie, con la sua stessa struttura, sia (anche senza che venga lamentato un danno specifico) in ragione del pregiudizio che è insito nella violazione edilizia a danno di tutti i membri della collettività e consistente nel sacrificio derivante dall'aggravio connesso alla presenza, nel caso di concreto, di un ulteriore ottavo piano (cfr. Cons. St., V, 15.02.2010 n. 809).
La finalità di assicurare e garantire l'uso e la conservazione delle cose comuni, ìnsita nella creazione del condominio di un edificio come centro di imputazione d'interessi, giustifica la titolarità in capo al medesimo dell'azione di annullamento nei confronti dell'illegittima esplicazione dello ius aedificandi anche se ad opera di un condòmino, poiché le azioni promosse a difesa dei diritti e degli interessi legittimi dei condomini esplicano efficacia sull'intero raggruppamento degli occupanti dell'edificio e rappresentano una modalità della realizzazione dell'interesse comune (arg. Tar Brescia, 06.05.2005, n. 410; Cass. civ., III, 20.02.2009, n. 4245).
Il Condominio Alfa, pertanto, aveva dunque una piena legittimazione ad adire questo Tribunale (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 24.05.2012 n. 1057 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO: Condominio, distacco dal riscaldamento centralizzato: quali conseguenze?
La questione giuridica sottesa alla sentenza n. 7182/2012 della Cassazione civile è così riassumibile: il condòmino che legittimamente opera il distacco dall’impianto centralizzato di riscaldamento condominiale è tenuto a pagare le spese straordinarie di manutenzione del medesimo oppure no?
La risposta negativa fornita dalla Cassazione è strettamente connessa alla fattispecie esaminata, ma sembra non risolvere la questione in radice, perché fornisce un principio di diritto applicabile non già a tutti i casi di c.d. “distacco legittimo dell’impianto di riscaldamento afferente la singola unità abitativa”, ma solo ai casi in cui la situazione prodotta dal distacco sia irreversibile.
Vediamo nel dettaglio.
Il condomino ricorrente impugna in primo grado due delibere assembleari che gli attribuivano una quota di partecipazione sia alle spese d’esercizio inerenti l’uso del riscaldamento sia alle spese di straordinaria manutenzione dell’impianto centralizzato da cui si era legittimamente distaccato anni prima (ricorda la Corte che la legittimità di detto distacco deve essere valutata in ragione del mancato aggravio di spese di riscaldamento in capo agli altri condomini e della totale assenza di doglianze dei medesimi in ordine ad eventuali squilibri termici e/o irregolarità del servizio).
Il Giudice di prime cure, attestata la legittimità del distacco operato, annullava la sola delibera ponente a carico del condomino la partecipazione alle spese ordinarie, ma non l’altra.
Promossa impugnazione, la Corte d’appello ribaltava quanto statuito in prime cure argomentando in ordine al fatto che l’impianto centralizzato in questione, dopo il distacco dell’appellante, era stato SOSTITUITO e RIDIMENSIONATO in ragione delle effettive esigenze di riscaldamento dei condomini rimanenti e che, pertanto, l’appellante non avrebbe più potuto riattaccarsi: di qui che non vi fosse ragione alcuna della sua partecipazione alle spese straordinarie di manutenzione del nuovo impianto sul quale perdeva ogni diritto di comproprietà.
Interessata della questione a seguito di impugnazione promossa dal condominio, la Cassazione aderisce alla tesi espressa in secondo grado che esclude la partecipazione del condomino distaccato sia dalle spese ordinarie, sia da quelle straordinarie “in quanto il ridimensionamento della nuova caldaia per le sole esigenze dei rimanenti condomini escludeva alcuna possibilità di fruizione di tale impianto, con conseguente impossibilità di eventuali riallacci”.
La posizione della Suprema Corte suscita grande interesse e alcuni interrogativi:
• cosa accade nel caso in cui, a seguito del distacco di uno dei condomini, l’impianto NON venga sostituito e ridimensionato: in questo caso, cioè, il condomino distaccato che potenzialmente potrebbe riallacciarsi, dovrà pagare le spese straordinarie di manutenzione dell’impianto oppure no?
• come si coniuga questa tesi interpretativa con l’art. 1118 comma 2 c.c. che sancisce l’obbligo di ciascun condominio di partecipare alle spese di conservazione delle parti comuni anche nel caso di rinuncia al diritto su detti beni?
Peraltro, ammettere che la delibera condominiale di sostituzione e ridimensionamento dell’impianto centralizzato determini l’estromissione del condomino distaccato dalla comunione sul bene, significa ammettere che l’assemblea condominiale ha potere di incidere sulla quota di proprietà individuale afferente a ciascun condòmino.
Se l’obbligo di partecipazione alle spese di conservazione della cosa comune è conseguenza diretta del diritto di proprietà e non dell’uso effettivo o potenziale della cosa medesima, e se la delibera assembleare non è prevista nel nostro ordinamento quale atto idoneo costituire o estinguere il diritto di proprietà, ebbene, se tutto questo è vero, la tesi del Supremo Collegio oggetto della sentenza in commento sembra, a sommesso avviso di chi scrive, stridere con i principi tradizionali del diritto civile (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 10.05.2012 n. 7182 - link a www.altalex.com).

aprile 2012

EDILIZIA PRIVATA: D. Chinello, Legittimazione edilizia dei singoli condòmini per intervenire sulle parti comuni e poteri comunali di verifica (Urbanistica e appalti n. 4/2012).

marzo 2012

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: A. Gallucci, L’installazione di una canna fumaria in un condominio - Di chi è la proprietà della canna fumaria? Nella sua installazione devono essere rispettate le distanze? Che cosa succede se le tubazioni alterano l’estetica dell’edificio? Indicazioni pratiche valide per impianti termici o al servizio di attività commerciali e artigianali (Quaderni di Legislazione Tecnica n. 1/2012).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAL'intervento di installazione di una caldaia sul muro esterno deve essere qualificato come di manutenzione straordinaria, in quanto riconducibile alla tipologia di lavori di cui all’art. 3, comma 1, lett. b, del d.p.r. n. 380 del 2001 finalizzati a “realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici”.
Pertanto, in assenza di atto abilitativo a monte, è illegittimo l'ordine comunale di rimozione, cui consegue un regime sanzionatorio differenziato rispetto alla demolizione e remissione in pristino.
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Ai sensi dell’art. 1102 c.c., ogni condomino è legittimato a servirsi della cosa comune ed apportarvi le necessarie modifiche per il godimento migliore, a patto che la destinazione non ne venga alterata e che non si impedisca agli altri condomini di farne pari uso.
Il parametro valutativo dell’attività amministrativa, nella materia, va ricercato nella disciplina pubblicistica che regola la realizzazione delle opere edilizie nel territorio, senza che il mancato accertamento dell’assenso di terzi, o della lesione intersoggettiva che l’attività edificatoria potrebbe eventualmente arrecare, possa incidere sulla legittimità del provvedimento, che viene adottato sulla base del titolo formale di disponibilità del bene immobile direttamente inciso dall’intervento e, in ogni caso, con salvezza dei diritti dei terzi.
In altri termini, il mancato assenso del Condominio cui la porzione immobiliare inerisce (e l’eventuale, mancato rispetto della disciplina condominale) è questione che concerne le relazioni privatistiche, cui resta estranea l’Amministrazione.

A diverse conclusioni deve pervenirsi con riferimento alla intimata rimozione della caldaia esterna installata dal ricorrente per l’attivazione di un impianto di riscaldamento nella sua abitazione. Detto intervento, come correttamente indicato in ricorso, deve essere qualificato come di manutenzione straordinaria, in quanto riconducibile alla tipologia di lavori di cui all’art. 3, comma 1, lett. b, del d.p.r. n. 380 del 2001 finalizzati a “realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici”.
Al riguardo il Comune ha quindi errato nel non svolgere alcuna istruttoria circa la qualificazione dell’intervento in oggetto cui consegue un regime sanzionatorio differenziato rispetto alla demolizione e remissione in pristino.
Analogamente fondato si appalesa il ricorso avverso il diniego di sanatoria per la apposizione della caldaia murale in oggetto motivato dal Comune sul presupposto della necessità del previo assenso condominiale poiché installata su area condominiale. Il Comune ha omesso di considerare, come peraltro ribadito dal giudice adito in sede civile, che ai sensi dell’art. 1102 c.c., ogni condomino è legittimato a servirsi della cosa comune ed apportarvi le necessarie modifiche per il godimento migliore, a patto che la destinazione non ne venga alterata e che non si impedisca agli altri condomini di farne pari uso (cfr. Cass. civ. sez. II 05.12.1997 n. 12344; Tar Catanzaro n. 930 del 27.06.2011).
Ha osservato al riguardo la giurisprudenza amministrativa che: “il parametro valutativo dell’attività amministrativa, nella materia, va ricercato nella disciplina pubblicistica che regola la realizzazione delle opere edilizie nel territorio, senza che il mancato accertamento dell’assenso di terzi, o della lesione intersoggettiva che l’attività edificatoria potrebbe eventualmente arrecare, possa incidere sulla legittimità del provvedimento, che viene adottato sulla base del titolo formale di disponibilità del bene immobile direttamente inciso dall’intervento e, in ogni caso, con salvezza dei diritti dei terzi. In altri termini, il mancato assenso del Condominio cui la porzione immobiliare inerisce (e l’eventuale, mancato rispetto della disciplina condominale) è questione che concerne le relazioni privatistiche, cui resta estranea l’Amministrazione.” (in tal senso C.d.S. sez. V n. 6297 del 27.09.2004; Cons. Stato Sez. V, n. 905 del 19.02.2003) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 08.03.2012 n. 1192 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO: Parcheggio a trasferimento libero. Box cedibile anche a prescindere dalla vendita dell'immobile. Il dl semplificazioni liberalizza la circolazione delle aree adibite a posto auto pertinenziale.
Liberalizzazione ad ampio raggio anche per la circolazione delle aree adibite a parcheggio pertinenziale.
Il dl n. 5/2012 (decreto semplificazioni), modificando sul punto la cosiddetta legge Tognoli, ha infatti previsto che il proprietario di un immobile dotato di parcheggio di pertinenza realizzato nel sottosuolo o al piano terra dell'edificio condominiale con le maggioranze agevolate di cui alla predetta legge del 1989, possa vendere quest'ultimo anche a prescindere dal trasferimento della proprietà dell'appartamento, purché il nuovo acquirente abiti nel medesimo comune in cui è ubicato l'immobile.
Nel tentativo di risolvere il problema dei parcheggi degli autoveicoli che, da svariati anni, soffocano i centri urbani e gradualmente hanno cominciato a occupare anche le zone semicentrali e periferiche, il legislatore è intervenuto a più riprese con svariate disposizioni inserite in numerosi testi normativi emanati nell'arco degli anni. In particolare, bisogna ricordare che alla fine degli anni 80, per cercare di porre rimedio alla situazione sopra descritta, è stata introdotta una nuova normativa (legge 24.03.1989 n. 122, cosiddetta legge Tognoli) finalizzata all'incentivazione della costruzione di parcheggi nelle aree sottostanti o pertinenziali agli edifici condominiali o nel piano terra degli stessi.
Ebbene, il recente decreto legge sulle semplificazioni e lo sviluppo, nel tentativo di allentare i rimanenti lacci e lacciuoli previsti dalla legge in materia di compravendita delle aree destinate a parcheggio degli autoveicoli, ha innovato profondamente la peculiare disciplina prevista dalla vecchia legge Tognoli, che tanto aveva affaticato la giurisprudenza e la dottrina.
Legge 122/1989 e condominio: le norme fondamentali. La legge Tognoli ha previsto che i condomini possano realizzare nel sottosuolo o nei locali posti al piano terreno del condominio, oppure nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al caseggiato, parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari (cioè a uso esclusivo dei residenti), anche in deroga agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti.
È importante sottolineare, però, che restano in ogni caso fermi i vincoli previsti dalla legislazione in materia paesaggistica e ambientale (e i poteri attribuiti dalla medesima legislazione alle regioni e ai ministeri dell'ambiente e per i beni culturali). Naturalmente, poi, la realizzazione di questi spazi è subordinata alla richiesta dei necessari permessi edilizi. In ogni caso la realizzazione del parcheggio è possibile solo con una deliberazione approvata dall'assemblea condominiale, in prima o in seconda convocazione, con il voto favorevole della maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio.
Le condizioni per la realizzazione dei parcheggi. La realizzazione del parcheggio non può avvenire se è in contrasto con la stabilità o il decoro del fabbricato o se comporta la sottrazione di parti comuni all'uso e al godimento di un solo condomino.
In secondo luogo, le opere in oggetto costituiscono innovazioni gravose, comportando oneri economici particolarmente rilevanti: di conseguenza i dissenzienti, così come prevede la legge, potranno essere esonerati da qualsiasi contribuzione alle spese ma potranno decidere in qualsiasi momento di aderire al progetto di parcheggio, pagando le spese di esecuzione e manutenzione dell'opera. In altre parole è possibile realizzare box sotterranei, previa delibera condominiale, pur se in numero inferiore a quello della totalità dei condomini, non potendo i condomini dissenzienti impedire tale realizzazione voluta invece dalla maggioranza dei partecipanti al condomini
Quindi è possibile che il numero delle autorimesse sotterranee realizzate sia inferiore al numero degli appartamenti. Tuttavia la sottrazione di una parte del bene comune è consentita solo se è assicurata in futuro anche ai condomini dissenzienti il pari uso del sottosuolo avvalendosi della possibilità di realizzare nell'area di detto bene comune rimasta libera un parcheggio pertinenziale dell'unità immobiliare di proprietà esclusiva: tutti i condomini, nessuno escluso, devono infatti avere la possibilità di godimento del sottosuolo secondo la sua destinazione (prevista normativamente) ad alloggiare autorimesse. Solo se tale possibilità è garantita la delibera adottata a maggioranza può essere ritenuta valida, in quanto non in contrasto con la legge.
Il vincolo a pertinenza degli appartamenti: le novità del decreto legge 09.02.2012 n. 5. La legge Tognoli precisava che i parcheggi con le caratteristiche di cui sopra non potevano essere ceduti separatamente dall'unità immobiliare alla quale erano legati da vincolo pertinenziale e che i relativi atti di cessione erano nulli.
L'intento del legislatore era stato evidentemente quello di evitare speculazioni da parte di chi aveva usufruito di speciali deroghe e agevolazioni per la realizzazione degli spazi in oggetto, prevedendo espressamente che i parcheggi in tal modo realizzati fossero sottoposti sia a circolazione che a utilizzazione vincolata. In buona sostanza, unicamente per tali spazi, era stato previsto un vincolo di destinazione di ordine pubblicistico, cioè il divieto di cessione del bene immobile separatamente dall'appartamento del quale lo stesso era da considerarsi pertinenziale.
Tuttavia il recente decreto legge cosiddetto semplificazione e sviluppo (dl n. 5 del 09.02.2012) all'art. 10, modificando sul punto la legge Tognoli, ha stabilito che la proprietà dei parcheggi di pertinenza delle abitazioni possa essere trasferita separatamente dall'unità immobiliare di riferimento, a condizione che ciò avvenga solo con contestuale destinazione del parcheggio trasferito a pertinenza di altra unità immobiliare sita nello stesso comune.
Il nuovo testo normativo prevede però ancora un'eccezione: esso stabilisce infatti che la cessione dell'area adibita a ricovero delle auto non possa avvenire, pena la nullità dell'atto di trasferimento, ove abbia a oggetto parcheggi realizzati su previsione dei comuni nell'ambito del programma urbano dei parcheggi da destinare a pertinenza di immobili privati, insistenti su aree comunali o nel sottosuolo delle medesime.
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Tutti i condomini hanno diritto d'uso.
I parcheggi creati sulla base della cosiddetta legge ponte, in quanto di obbligatoria edificazione in quantità proporzionale alla cubatura totale del condominio, hanno un vincolo di carattere pubblicistico, poiché tutti i condomini godono di un diritto reale d'uso sui predetti spazi, che non può essere frustrato dalla volontà contraria del costruttore.
Questa la posizione espressa ormai da tempo dalla Suprema corte in relazione ai parcheggi edificati in base alla legge n. 765/1967 (che ha modificato l'art. 41-sexies della legge urbanistica n. 1150/1942), ribadita da ultimo nella recente sentenza n. 1214, depositata in cancelleria lo scorso 27.01.2012.
Si tratta di una tipologia di parcheggi che l'elaborazione giurisprudenziale ha ritenuto diversa da quella ricadente nella cosiddetta legge Tognoli (e della quale si occupa il recente intervento di liberalizzazione di cui al dl n. 5/2012). Infatti, come chiarito in maniera esemplare dalla stessa Cassazione (sentenza n. 21003 dell'01.08.2008), mentre per quelli che ricadono nella disciplina di cui alla legge n. 122/1989 (e ora liberalizzati a partire dal 10 febbraio scorso) non era ammissibile una commercializzazione disgiunta dall'appartamento al quale gli stessi si riferivano, per quelli previsti dalla cosiddetta legge ponte la libera circolazione era già prevista dalla legge, fermo restando il diritto reale d'uso dell'area in capo al proprietario dell'appartamento.
Nel caso deciso dalla seconda sezione civile della Suprema corte con la predetta sentenza n. 1214/2012 gli acquirenti di un immobile di nuova costruzione avevano citato in giudizio l'impresa costruttrice che, nell'edificare il palazzo, aveva trattenuto per sé la proprietà delle aree a parcheggio costruite, impedendo agli acquirenti di farne uso. Questi ultimi avevano quindi al tribunale di accertare il loro diritto di proprietà in relazione alle predette aree o, quantomeno, il loro diritto reale d'uso sulle stesse.
In primo grado i giudici avevano quindi convalidato il sequestro giudiziario concesso in corso di causa, riconoscendo agli acquirenti, previo pagamento del prezzo, la proprietà di un posto auto individuato grazie a una consulenza tecnica d'ufficio (che aveva anche provveduto a valutare il relativo valore di mercato).
Nel giudizio di appello, promosso dall'impresa costruttrice, la Corte territoriale aveva invece ritenuto che non dovesse essere accolta la domanda degli acquirenti volta al riconoscimento di un proprio diritto di proprietà sugli spazi adibiti a parcheggio, trattandosi in realtà di un diritto reale d'uso (relativo comunque alla stessa area ceduta in proprietà a seguito della sentenza di primo grado).
La Suprema corte, nel confermare sul punto la decisione di appello, ha ricordato i numerosi precedenti di legittimità (da ultimo la sentenza n. 730 del 16.01.2008) che hanno chiarito come ai proprietari degli appartamenti degli edifici condominiali nei quali siano stati previste aree di parcheggio spetti il diritto reale di uso delle stesse, a prescindere dalla proprietà di esse, che può anche rimanere in capo all'impresa costruttrice (articolo ItaliaOggi Sette del 05.03.2012).

febbraio 2012

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAFabbricati di nuova costruzione - Locale per stoccaggio dei rifiuti nei condomini.
Per i fabbricati di nuova costruzione l'applicazione delle nuove regole è comunque necessaria; questi quindi, dovranno tassativamente dotarsi, in applicazione dell'art. 59 del regolamento edilizio, di un locale per lo stoccaggio dei rifiuti. Per i fabbricati vetusti invece l'applicazione delle nuove regole (e quindi l'adeguamento del fabbricato al regolamento edilizio sopravvenuto), pur non essendo sempre dovuta, può essere imposta dall'Autorità amministrativa qualora ricorrano superiori esigenze di interesse pubblico, con il limite oggettivo degli interventi tecnicamente realizzabili.
Tipico esempio di superiori ragioni di interesse pubblico sono quelle connesse alle esigenze di tutela della salute e dell'igiene ed in particolare al corretto svolgimento delle operazioni di raccolta e stoccaggio dei rifiuti, prodotti dalle unità abitative, all'interno di spazi ed aree condominiali, in attesa del loro conferimento al servizio pubblico di raccolta.
E' invero intollerabile, per ovvie ragioni di igiene e per inderogabili esigenze di prevenzione della salute, che i rifiuti vengano ammassati (pur se allocati in appositi cassonetti) per stazionare, in attesa del conferimento, in aree condominiali non adatte allo scopo poste in immediata vicinanza alle finestre delle abitazioni. Necessario risulta l'adeguamento dei fabbricati al vigente regolamento edilizio, attraverso la realizzazione di un apposito locale di raccolta.
In ogni caso si può considerare che per i condomini realizzati prima dell'entrata in vigore del nuovo regolamento edilizio, non debbono trovare sempre applicazione le norme in quest'ultimo contenute (in particolare, come detto, quando vi siano oggettive ragioni tecniche contrarie), qualora si accerti l'assoluta impossibilità tecnica di un integrale adeguamento delle strutture al regolamento, potranno essere individuate soluzioni intermedie che, pur non strettamente aderenti al dettato regolamentare, siano comunque idonee a salvaguardare le imprescindibili esigenze di tutela della salute e dell'igiene pubblica (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 27.02.2012 n. 627 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO: La Cassazione su un manufatto che percorre tutto il muro. Vale il principio sulla cosa comune. La canna fumaria è affare di tutti. Per la legittimità dell'opera non conta il diritto di veduta.
Per valutare se sia legittima la realizzazione da parte di un condominio di una canna fumaria che percorre tutto il muro condominiale non bisogna considerare se il nuovo manufatto impedisca o meno la veduta del proprietario dell'attico ma individuare se, con la realizzazione di essa, sia impedito o meno agli altri comproprietari il normale uso del detto muro perimetrale.
In altri termini, in casi del genere non bisogna fare applicazione delle norme a tutela del diritto di veduta del proprietario dell'immobile, bensì del principio generale desumibile dall'art. 1102 del codice civile, in base al quale ciascun partecipante può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso.

Queste le interessanti conclusioni alle quali è pervenuta la II Sez. della Corte di Cassazione con la recente sentenza 23.02.2012 n. 2741.
La controversia tra condomini che ha portato alla decisione in questione nasceva a seguito della realizzazione da parte dei proprietari di un locale condominiale adibito a pizzeria di una nuova e più efficiente canna fumaria che partiva dal forno del locale (collocato a piano terra) e si inerpicava lungo il muro condominiale, sboccando a ridosso della terrazza dell'attico. Il proprietario di quest'ultimo si rivolgeva quindi al tribunale per richiedere la rimozione della canna fumaria, per la presunta violazione del suo diritto di veduta e delle norme sulle distanze nelle costruzioni. Il proprietario del locale pizzeria e il conduttore si difendevano però sottolineando il fatto di avere ottenuto una specifica autorizzazione dell'assemblea condominiale, nonché eccependo l'inesistenza di un oggettivo pregiudizio a danno del proprietario dell'ultimo piano.
Dette eccezioni venivano considerate valide dal tribunale, che riteneva legittima la nuova canna fumaria, ma tale decisione veniva ribaltata dalla Corte di appello, che ordinava la rimozione parziale del manufatto in questione da tenere almeno a tre metri sotto la soglia della terrazza annessa all'attico. Nella sentenza di secondo grado si precisava, infatti, che ogni condomino ha diritto a esercitare una vista a piombo fino alla base dell'edificio (oltre che quella panoramica intorno al caseggiato), mentre la possibilità di un altro condomino di appoggiare la canna fumaria è ammessa solo ove la stessa non leda il diritto di veduta del vicino. Del resto, i giudici di secondo grado avevano ricordato come, in riferimento a un caso simile, i giudici supremi, in una decisione risalente nel tempo, avessero già precisato che qualora il proprietario di un attico condominiale agisca per denunciare la collocazione di un canna fumaria che arrechi pregiudizio alla vista che si gode dal suo appartamento, l'indagine sulla legittimità del fatto denunciato va condotta con riferimento alle norme sul diritto di veduta, in quanto la domanda giudiziale è rivolta a tutelare la veduta del singolo appartamento e non certo il muro condominiale.
La sentenza della Corte di appello veniva però contestata dai proprietari della pizzeria che, presentando ricorso per cassazione, insistevano nell'affermare la legittimità della collocazione della canna fumaria, sottolineando come il manufatto installato fosse stata indicata come la soluzione migliore anche dal consulente tecnico del giudice. La Suprema corte, però, con la decisione indicata, ha dato ragione ai proprietari della pizzeria, ricordando che se le norme in materia condominiale consentono al singolo condomino di servirsi di un bene comune (compreso il muro perimetrale del caseggiato), anche se rispettando determinati limiti, a maggior ragione deve essere consentito al condomino di poter utilizzare liberamente un manufatto di proprietà esclusiva.
In ogni caso i giudici supremi hanno sottolineato come la distanza di tre metri sia quella che deve essere rispettata tra le costruzioni e, quindi, non poteva essere applicata al caso esaminato.
Infatti, come sottolineato dalla Cassazione, è difficile qualificare una canna fumaria (cioè un tubo in metallo) come una costruzione, trattandosi di manufatto che costituisce un semplice accessorio di un impianto (nella specie un forno), facente parte di una unità immobiliare di proprietà esclusiva, collocato non nel fondo adiacente a quello del condomino che ne denuncia la illegittimità, ma nello spazio non condominiale.
In altre parole, nel caso di specie non erano presenti le condizioni per applicare le norme sulle distanze legali e, di conseguenza, per valutare la legittimità o meno dell'opera, non bisognava considerare se la stessa avesse ridotto o escluso il diritto di veduta del proprietario dell'ultimo piano, ma se l'utilizzo del muro condominiale fosse da considerare legittimo, e cioè rispettoso di quella norma fondamentale secondo cui ciascun partecipante può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri condomini di farne ugualmente uso.
In mancanza di un'indagine per accertare se, con la realizzazione della nuova canna fumaria, fosse stato impedito il normale godimento del muro perimetrale, la Cassazione ha quindi accolto il ricorso del proprietario della pizzeria, rimettendo la stessa questione alla Corte di appello, che dovrà nuovamente esaminare il caso secondo le nuove indicazioni fornite dai giudici di legittimità (articolo ItaliaOggi Sette del 26.03.2012).

CONDOMINIO: Vizi dell'immobile, colpe a metà. Se il difetto è evidente si presume la tolleranza dell'inquilino. La Cassazione sugli affitti: il proprietario è responsabile quando l'anomalia è occulta.
Locazioni: per i vizi dell'immobile responsabilità suddivisa tra proprietario e inquilino. Il locatore è infatti tenuto a garantire che l'immobile concesso in locazione sia idoneo all'uso pattuito ma il conduttore, di converso, deve prestare attenzione alla presenza di vizi evidenti che, se non immediatamente contestati, si presumono accettati e tollerati da quest'ultimo sulla base di una complessiva valutazione di convenienza dell'affare. Quanto sopra, tuttavia, non vale a sollevare da responsabilità il proprietario nel caso in questi cui abbia sottaciuto alla controparte la presenza di vizi occulti o non facilmente individuabili che rendano di fatto l'immobile inservibile all'utilizzo pattuito.
Lo ha chiarito la III Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 07.02.2012 n. 1694.
Nel caso concreto i titolari di una società che aveva preso in locazione alcuni locali da adibire a discoteca aveva portato in giudizio il proprietario dei medesimi per ottenere la risoluzione per inadempimento del relativo contratto e il risarcimento dei danni conseguenti, lamentando il mancato allacciamento dei servizi igienici alla rete fognaria condominiale servita da un depuratore.
In primo grado il tribunale aveva però respinto la domanda di parte attrice, perché nel contratto di locazione era stato espressamente previsto dalle parti che la società conduttrice avrebbe provveduto alla manutenzione, anche straordinaria, dei locali, con totale esonero da responsabilità del locatore. I giudici di primo grado, quindi, avevano implicitamente ritenuto che il mancato allacciamento degli impianti di scarico alla rete fognaria, vista anche la specifica pattuizione contenuta nel contratto di locazione, non poteva essere ritenuto un vizio occulto e non conoscibile con l'ordinaria diligenza da parte del conduttore.
Di diverso avviso, invece, si erano mostrati i giudici di appello successivamente aditi dalla società conduttrice, i quali avevano proprio puntato sulla non conoscenza e non conoscibilità del vizio in questione, ribaltando sul punto la decisione di primo grado. La Corte di appello aveva quindi accolto la domanda di risoluzione per inadempimento del contratto di locazione impugnato, respingendo però quella diretta a ottenere il risarcimento dei danni, non essendo stato provato alcunché in ordine al pregiudizio economico lamentato dalla società conduttrice.
I giudici di legittimità, nel riesaminare in punto di diritto la questione controversa, con la sentenza n. 1694 dello scorso 07.02.2012 hanno quindi confermato la sentenza della corte di appello in ordine alla responsabilità del locatore per il mancato allacciamento degli impianti sanitari dei locali alla rete fognaria condominiale. La terza sezione della Cassazione ha infatti ritenuto corretto il riferimento operato dalla società conduttrice all'art. 1578 del codice civile, che disciplina appunto le conseguenze dei vizi dai quali risulti affetto il bene concesso in locazione.
Secondo i supremi giudici un vizio quale quello denunciato dalla conduttrice deve ritenersi per sua stessa natura occulto, in quanto, essendo nozione di fatto di comune esperienza che i collegamenti fognari sono sotterranei, non si può certo rimproverare al conduttore la mancata conoscenza di una circostanza del genere.
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La garanzia sulla manutenzione deve restare invariata.
Il locatore-proprietario di un immobile commerciale è tenuto non solo a consegnare al conduttore un locale in buono stato di manutenzione e a non occultare eventuali vizi dell'immobile, ma anche a vigilare e garantire che tale situazione rimanga invariata nel tempo, trattandosi di un obbligo strettamente connesso con quelli, già a suo carico, di riparazione e manutenzione dell'immobile locato. Vediamo allora di considerare i principali diritti e doveri del locatore e del conduttore in relazione alle condizioni di fatto dell'immobile concesso in locazione.
Obbligo di verifica e custodia anche delle parti condominiali. Il proprietario non può considerarsi dispensato dall'obbligo di vigilanza e di custodia anche delle parti comuni dell'edificio in cui si trova il locale affittato.
Sussiste, dunque, la responsabilità del locatore per i danni che il conduttore subisce a causa di un bene condominiale. Il locatore quindi è responsabile per i danni che il conduttore subisce a causa di danni al tetto, alla facciata ecc.. Così, ad esempio, è decisamente illecito il comportamento del locatore che, proprietario dell'intero stabile, si disinteressi di provvedere alla manutenzione del tetto, sino al punto di rendere inagibili i locali detenuti da un conduttore a causa di rilevanti infiltrazioni di acqua.
L'immobile concesso in locazione deve pertanto restare sempre perfettamente agibile, così da rendere legittima la pretesa del locatore di continuare a percepire regolarmente il corrispettivo pattuito per la locazione. Va peraltro precisato che al conduttore, nel caso in cui si verifichi una riduzione o una diminuzione nel godimento del bene imputabile a negligenza del locatore, non è consentito di sospendere il pagamento del canone di locazione o di ridurlo unilateralmente.
Denuncia dei vizi conoscibili. Il proprietario deve consegnare un immobile in buono stato, ma il conduttore, all'atto della stipula del contratto, deve controllare e denunciare i difetti dell'immobile conosciuti o facilmente riconoscibili (purché non occulti): in caso contrario deve ritenersi che il medesimo abbia implicitamente rinunciato a farli valere, accettando la cosa nello stato in cui risultava al momento della consegna, e non potrà pertanto chiedere la risoluzione del contratto o la riduzione del canone, né il risarcimento del danno.
Quanto sopra vale a maggior ragione se il conduttore, con apposita clausola, da un lato riconosca il locale commerciale idoneo all'uso pattuito, dall'altro esoneri il locatore da ogni eventuale inadempienza. In tal caso si deve ritenere che il conduttore fosse consapevole della necessità di interventi di manutenzione, ma abbia valutato il canone vantaggioso e per questo abbia concluso il contratto.
Lavori per adeguare il locale a una specifica attività commerciale. Spetta poi al conduttore verificare che il locale abbia quelle particolari caratteristiche necessarie per svolgervi l'attività che si ripromette di esercitarvi e per ottenere le necessarie autorizzazioni amministrative.
Quindi è sempre quest'ultimo a doversi preventivamente accertare che la sua attività sia compatibile con la struttura e con gli impianti dei locali visionati, pretendendo eventualmente dal locatore specifiche garanzie in proposito. In caso contrario, il conduttore che accetta il locale senza obiezioni si dovrà accollare l'onere delle spese di adeguamento dell'immobile locato.
Del resto, in via di principio, non è onere del locatore ottenere le necessarie autorizzazioni e, ove il conduttore non riesca a ottenerle, non è configurabile alcuna responsabilità per inadempimento in capo al proprietario, e ciò anche se la mancata concessione sia dipesa da caratteristiche proprie dell'immobile. Tuttavia, se il provvedimento amministrativo necessario per la destinazione d'uso convenuta sia stato definitivamente negato, al conduttore è generalmente riconosciuta la facoltà di chiedere la risoluzione del contratto (salvo particolari accordi).
Si deve inoltre sottolineare che le parti possono far gravare sul locatore sia la possibilità di apportare all'immobile modificazioni necessarie per potervi svolgere l'attività prevista (e così di installarvi dispositivi necessari da un punto di vista tecnico o giuridico) sia il fatto che esso presenti o sia in condizione di acquisire tutti i permessi richiesti dalla legge. Quanto sopra è possibile solo se nel contratto il proprietario si obblighi espressamente ad apportare al locale le modificazioni necessarie per potervi svolgere l'attività prevista e ottenere con certezza il rilascio delle autorizzazioni amministrative.
Vizi e difetti di gravi nature nel corso della locazione. Durante la locazione nell'immobile possono comparire vizi e difetti di grave natura, tali da diminuire in modo apprezzabile o, addirittura, far venire meno l'idoneità del locale a servire all'uso pattuito. In tal caso il conduttore non ha la possibilità di richiedere l'intervento del locatore per le necessarie riparazioni, né tanto meno può provvedervi direttamente: questi può però ottenere, a sua scelta, la risoluzione del contratto o la riduzione del canone, oltre al risarcimento del danno.
Infatti l'obbligo del locatore di effettuare le riparazioni necessarie a mantenere l'immobile in buono stato riguarda gli inconvenienti eliminabili nell'ambito delle opere di manutenzione, e, pertanto, non può essere invocato per rimuovere guasti o deterioramenti rilevanti (articolo ItaliaOggi sette del 27.02.2012).

gennaio 2012

CONDOMINIOÈ ammessa la tenda in terrazza. Tutto ciò che è removibile non lede il decoro architettonico. La Cassazione: estetica compromessa solo per effetto di modifiche strutturali visibili dall'esterno.
Non può essere ritenuto colpevole di lesione del decoro architettonico del caseggiato il condomino che abbia trasformato una soffitta in un appartamento, ricorrendo solo a opere interne e utilizzando tendaggi e altri oggetti rimuovibili, in quanto in tal caso non può dirsi compromessa l'estetica del fabbricato, che si verifica solo per effetto di modifiche sulla struttura dell'edificio che siano visibili e apprezzabili dall'esterno.
È quanto ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con ordinanza 30.01.2012 n. 1326.
La vicenda. La questione ha inizio quando una condomina trasforma una soffitta, posta all'ultimo piano del caseggiato, in un appartamento a uso residenziale, suscitando la reazione di altri due condomini i quali, nella convinzione che le opere di trasformazione eseguite avessero alterato il decoro dell'edificio, non solo impedivano l'allaccio del locale agli impianti di luce e gas ma, successivamente, si rivolgevano al tribunale competente per richiedere la rimozione dei manufatti illecitamente costruiti.
Secondo gli attori, inoltre, il decoro dell'edificio condominiale era stato compromesso anche dall'abusivo deposito di materiale sul terrazzo comune, nonché dall'affissione di alcuni tendaggi. Le circostanze in tal modo denunciate erano però state considerate irrilevanti dal tribunale interpellato, il quale aveva ordinato l'allaccio delle utenze e condannato gli attori al risarcimento dei danni subiti dalla condòmina che non aveva potuto affittare l'immobile privo delle essenziali utenze.
Tale decisione era stata poi confermata dalla Corte di appello. E alle stesse conclusioni è pervenuta la Suprema corte, nella citata ordinanza dello scorso mese di gennaio. La sesta sezione della Corte di cassazione ha infatti precisato come la trasformazione della soffitta in locale abitabile era stata effettuata solo mediante opere interne, senza variazione né ampliamento di volume dei locali originari e, comunque, in modo tale da evitare che fosse compromesso l'accesso al lastrico solare di proprietà condominiale. Per quanto sopra i giudici supremi hanno escluso la lesione del decoro architettonico del fabbricato, che è logicamente incompatibile con l'insussistenza di modifiche esterne dello stabile.
Il principio. L'alterazione del decoro del fabbricato, per essere validamente contestata, deve essere apprezzabile, situazione che ricorre allorché le modifiche siano visibili dall'esterno. In altre parole, il condomino non può mai (senza autorizzazione del condominio) modificare solo quelle parti esterne, siano esse comuni o di proprietà individuale, che incidano sul decoro architettonico dell'intero corpo di fabbrica o di parti significative di esso. Del resto la Suprema corte ha precisato anche come, ai fini del decoro architettonico, non può essere rilevante l'apposizione di tendaggi e stracci sul terrazzo dell'edificio (che sono rimovibili), in quanto tale comportamento non è in grado di alterare, in modo visibile e significativo, la particolare struttura e la complessiva armonia che conferiscono al fabbricato una propria specifica identità.
In altre parole, tali comportamenti non meritano di essere considerati ai fini della lesione del decoro architettonico, cioè delle linee e delle strutture che connotano lo stabile stesso e gli imprimono una determinata, armonica fisionomia e una specifica identità, perché non riguardano opere edili incidenti sulla sagoma o la facciata dell'edificio, bensì la posa di oggetti rimovibili, che non possono quindi pregiudicarne il decoro architettonico.
Allo stesso modo la Cassazione ha sottolineato come dalla richiesta della condòmina di poter allacciare il nuovo appartamento alle utenze di luce e gas non potesse derivare alcun danno agli altri condomini, in quanto tale operazione non comportava modifiche murarie strutturali o alterazioni delle linee architettoniche dell'edificio, ma adeguamenti e aggiunte funzionali che, come tali, non rilevano sulla estetica del fabbricato.
In ogni caso la Suprema corte ha affrontato anche la questione del risarcimento del danno richiesto dalla condòmina per la compromissione dell'usufruibilità della soffitta trasformata in appartamento per la mancata disponibilità degli allacciamenti conseguente agli impedimenti illegittimamente posti in essere dai propri vicini. A questo proposito è stato ricordato che in casi del genere il danno non può che riferirsi esplicitamente e inequivocabilmente alla mancata utilizzazione locatizia del locale divenuto abitabile
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La nozione. Il pregiudizio deve tradursi in un'alterazione incisiva.
La nozione di decoro architettonico, come meglio chiarita nel tempo dalle numerose decisioni di merito e di legittimità che si sono prodotte sul tema, viene in rilievo in materia di innovazioni condominiali vietate e denota una qualità positiva dell'edificio, derivante dal complesso delle sue caratteristiche costruttive principali e secondarie, di modo che una modifica strutturale di una parte del medesimo, anche di modesta consistenza, pur non incidendo sulle linee architettoniche preesistenti, può essere idonea a far venir meno quelle caratteristiche influenti sull'estetica del fabbricato e, quindi, sullo stesso decoro architettonico.
Quella del decoro architettonico è spesso una strada obbligata per quei condomini che vogliano comunque opporsi a innovazioni decise dalla maggioranza assembleare perché, ai sensi dell'art. 1120, secondo comma, c.c., le stesse possono essere considerate legittime soltanto ove non rechino pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza dell'edificio, non ne modifichino, appunto, il decoro architettonico o non rendano alcune parti comuni inservibili all'uso cui sono destinate.
In questi casi, affinché l'opposizione dei condomini sia legittima, il pregiudizio all'aspetto architettonico deve tradursi in un'alterazione di particolare incidenza sullo stile architettonico dell'edificio e sulle linee caratteristiche principali di esso, idonea di per sé a diminuire il pregio estetico del fabbricato e, quindi, il valore economico dello stesso, riferito sia all'unità complessiva sia alle singole unità in proprietà esclusiva. La difformità deve quindi essere immediatamente apprezzabile ictu oculi da parte delle persone di media preparazione culturale e tecnica che si trovino a passare sulla strada, in quanto tali condizioni sono quelle che ricorrono in occasione dell'apprezzamento del pregio estetico di un edificio, nonché in occasione della valutazione economica dello stesso sia in termini di insieme che di singole porzioni.
Al fine di stabilire se le opere di modifica del fabbricato abbiano pregiudicato il decoro architettonico, come opportunamente specificato dalla Suprema corte, devono comunque essere tenute presenti le condizioni in cui quest'ultimo si trovava prima dell'esecuzione delle opere stesse, con la conseguenza che una modifica non può essere ritenuta pregiudizievole per il decoro architettonico se apportata a un edificio la cui estetica sia stata già menomata a seguito di precedenti lavori ovvero che sia di mediocre livello architettonico (Cassazione civile, sezione seconda, sentenza 29.07.1989, n. 3549).
Dal punto di vista economico, l'alterazione del decoro architettonico dell'edificio in condominio postula un mutamento estetico implicante un pregiudizio economicamente valutabile. Tuttavia, secondo la Cassazione, quando la modifica non sia del tutto trascurabile e non abbia arrecato anche un vantaggio, deve sempre ritenersi insito nel pregiudizio estetico quello economico, senza necessità di un'espressa motivazione sotto tale profilo tutte le volte in cui non sia stato espressamente eccepito e provato che la modifica ha anche arrecato un vantaggio economicamente valutabile (Cassazione civile, sezione seconda, sentenza 06.10.1997, n. 9717).
Il diritto di opposizione alle opere eseguite con pregiudizio delle caratteristiche architettoniche dell'edificio spetta a tutti i condomini, i quali possono chiedere la riduzione in pristino del fabbricato e il risarcimento dei danni. Anche all'amministratore è riconosciuto il potere di agire in giudizio per chiedere la demolizione delle modifiche pregiudizievoli alla statica e all'estetica dell'edificio.
Sul punto la giurisprudenza, annoverando detta facoltà dell'amministratore tra gli atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni, ha per esempio riconosciuto la legittimazione attiva dell'amministratore ad agire in giudizio senza l'autorizzazione dell'assemblea per conseguire la demolizione della soprelevazione realizzata in violazione delle prescrizioni e delle cautele fissate dalle norme speciali antisismiche ovvero per conseguire la rimozione delle modifiche dell'edificio che importino l'alterazione dell'estetica (Cassazione civile, sezione seconda, sentenza 12.10.2000, n. 13611) (articolo ItaliaOggi Sette del 19.03.2012).

CONDOMINIO: Sentenza della Cassazione sull'utilizzo degli spazi. Vietato pregiudicarne la destinazione. Parti comuni, di tutti e nessuno. Ogni condomino deve poter godere dei beni in condivisione.
Ciascun condomino può usare le parti comuni dell'edificio nel modo che ritenga più opportuno, ma a condizione che l'utilizzo concreto delle stesse non ne pregiudichi la naturale destinazione e consenta anche agli altri comproprietari di godere del bene.
Lo ha ribadito la II Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 23.01.2012 n. 869 nella quale gli ermellini hanno ritenuto legittimo l'utilizzo di una parte del cortile condominiale per l'apposizione di tavoli e sedie da bar.
La decisione della Suprema corte. Nel caso in questione la società proprietaria di alcuni locali siti al piano terra di un edificio condominiale e adibiti a bar dall'azienda conduttrice aveva impugnato dinanzi al giudice di pace la deliberazione assembleare con cui il condominio, revocando uno specifico permesso assentito in passato, aveva vietato ai gestori dell'esercizio commerciale di continuare a occupare il cortile con tavoli e sedie destinati alla clientela. Il giudice di pace aveva respinto l'impugnazione, giudicandola infondata. Il ricorso in appello aveva invece portato il tribunale a capovolgere la situazione, dichiarando l'illegittimità della delibera condominiale. Di qui il ricorso in Cassazione da parte del condominio, che aveva nuovamente contestato l'utilizzo improprio del cortile da parte dei gestori del bar, giudicato tale da comportare l'impossibilità per gli altri comproprietari di farne parimenti uso, oltre a presentare due ulteriori motivi di doglianza.
Con il primo motivo, infatti, il condominio aveva nuovamente lamentato l'errata presentazione del ricorso al giudice di pace invece che al tribunale del luogo in cui era situato l'immobile, evidenziando quindi un problema di competenza. Invero, come già stabilito dai giudici di merito e ribadito dalla Suprema corte, nel caso di specie, pur essendo stata impugnata una delibera assembleare, l'oggetto del contendere era rappresentato dalle modalità di utilizzo di un bene comune, ovvero del cortile condominiale. Si tratta di un tipo di controversia che rientra pacificamente nella previsione di cui all'art. 7, comma 3, n. 2, del codice di procedura civile, che appunto assegna alla competenza funzionale del giudice di pace questo tipo di liti (come confermato, in una fattispecie analoga, dalla stessa Cassazione con sentenza n. 7295 del 28/06/1995).
Con il secondo motivo di ricorso, invece, il condominio aveva riproposto un'eccezione di carenza di legittimazione attiva in capo alla società proprietaria dei locali condominiali, sul presupposto che, essendo gli stessi stati concessi in locazione a un soggetto terzo, soltanto quest'ultimo avrebbe potuto legittimamente impugnare la deliberazione assembleare.
Anche in questo caso la Suprema corte ha però avuto gioco facile nel ribadire che, stante la previsione di cui all'art. 1337 c.c., in merito al potere di impugnativa della volontà dell'assemblea, l'unico caso nel quale è ammessa la legittimazione attiva del conduttore è quello relativo al servizio di riscaldamento condominiale (e, per analogia, a quello per il condizionamento dell'aria, se comune), come già chiarito dai medesimi giudici di legittimità con una precedente sentenza del 1993 (n. 8755 del 18 agosto).
Quindi, giungendo al terzo motivo di ricorso, relativo all'utilizzo improprio del cortile condominiale da parte dei conduttori dei locali siti al piano terreno, la seconda sezione civile della Cassazione, vista anche la mancanza di specificità del motivo, così come articolato dal condominio ricorrente, si è limitata a ribadire il principio di diritto tradizionale di cui all'art. 1102 c.c., norma dettata dal legislatore in materia di comunione ma applicabile anche in materia condominiale giusto lo specifico rimando di cui all'art. 1139 c.c.
In particolare, i giudici di legittimità hanno ritenuto che la collocazione di tavoli e sedie per i clienti in una porzione limitata del cortile condominiale rappresenti un uso proprio del bene comune, di per sé non tale da impedire il pari uso del medesimo da parte degli altri comproprietari, salve sempre le specificità del singolo caso concreto.
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I limiti della legge e quelli del regolamento interno.
L'uso delle parti comuni da parte di un condomino può avvenire in modo particolare e diverso da quello praticato dagli altri condomini purché siano rispettati non solo i limiti previsti dalla legge ma anche quelli indicati nel regolamento di condominio, documento che spesso è ignorato o poco conosciuto dai comproprietari.
I limiti di legge. Il condomino per legge non può utilizzare parti comuni in modo tale da rendere impossibile o, comunque, alterarne in modo apprezzabile la funzione originaria. È chiaro, ad esempio, che è ammissibile collocare nel pianerottolo uno zerbino o una pianta ornamentale, mentre è illecito occupare detto spazio con scarpiere o oggetti ornamentali di dimensioni tali da pregiudicare l'accesso al vano scale o all'ascensore o costringere i vicini a disagevoli movimenti in caso di trasloco.
Il singolo condomino, non può pregiudicare né la stabilità dell'edificio né il suo decoro architettonico ma, entro questi rigorosi limiti, può certamente modificare lievemente i muri perimetrali. In ogni caso l'alterazione della destinazione della cosa comune può essere provocata non solo dal mutamento della funzione, come nei casi sopraddetti, ma anche dal suo deterioramento.
I limiti del regolamento di condominio. L'utilizzazione da parte del singolo condomino delle cose comuni è legittima purché non alteri la destinazione del bene e non impedisca agli altri condomini di farne un pari uso secondo il loro diritto: tale regime legale delle cose comuni può essere sottoposto a una diversa o più rigorosa disciplina da parte del regolamento di condominio.
Così, ad esempio, se il regolamento proibisce il parcheggio nel cortile, destinato a spazio giochi, non è possibile nemmeno una breve sosta in detta area.
In ogni caso è possibile che una disposizione del regolamento condominiale vieti qualsiasi modifica delle cose comuni nell'interesse del singolo condomino senza la preventiva autorizzazione.
Tale norma, che prevede un limite all'uso delle parti comuni più rigoroso rispetto alla legge, ha carattere contrattuale e, se predisposta dall'originario costruttore dell'edificio, deve essere accettata dai condomini nei rispettivi atti di acquisto ovvero con atti separati; se invece è deliberata dall'assemblea, la relativa deliberazione deve essere approvata all'unanimità, cioè da tutti i condomini, nessuno escluso (articolo ItaliaOggi Sette del 20.02.2012).

CONDOMINIO: Infiltrazioni, tutti pagano i danni. Il raccordo scarico-tubi è considerato proprietà comune. La Cassazione fa chiarezza sul riparto delle responsabilità in caso di guasti alle tubazioni.
La braga di raccordo tra l'impianto di scarico condominiale e le tubazioni derivanti dai singoli appartamenti deve considerarsi di proprietà comune ove faccia parte integrante, dal punto di vista funzionale, dell'impianto stesso. Di conseguenza i danni provenienti da eventuali infiltrazioni derivanti dalla braga dovranno essere risarciti al singolo proprietario dalla collettività condominiale (che, a sua volta, potrebbe essere manlevata dalla compagnia con la quale sia stata stipulata una copertura assicurativa del fabbricato).
Lo ha chiarito la II Sez. civile della Corte di Cassazione nella recente ordinanza 19.01.2012 n. 778.
Il provvedimento giudiziale in questione rappresenta dunque un'opportunità per fare maggiore chiarezza sul riparto delle responsabilità in caso di guasti alle tubazioni in condominio.
Il caso concreto. Nel caso in questione il proprietario di un appartamento che aveva ricevuto infiltrazioni di acqua dallo scarico aveva portato in giudizio il condominio per sentirlo condannare al risarcimento dei danni. La sentenza di primo grado aveva dato ragione al condomino sulla base dell'espletata consulenza tecnica d'ufficio, la quale aveva accertato che le lamentate infiltrazioni non derivavano da condotte delle unità immobiliari bensì dalla braga nella quale si innestavano detti condotti per scaricare nell'impianto condominiale.
Nella descrizione della colonna condominiale, la perizia depositata in giudizio aveva chiarito che la stessa non era costituita da un'unica tubazione continua, bensì da una serie di tratti di tubo che, in corrispondenza dei vari piani, risultavano tra loro collegati da un particolare tipo di braga. Fallito anche l'appello, il condominio, lamentando che il giudice di primo grado avesse erroneamente ritenuto condominiale una braga che non era utilizzata dalla collettività (che era invece servita dalla colonna di scarico verticale), ma che serviva unicamente a convogliare nell'impianto comune gli scarichi di provenienza dei singoli appartamenti, aveva quindi presentato ricorso in Cassazione.
La decisione della Suprema corte. Anche la Cassazione, tuttavia, con l'ordinanza in questione, ha confermato la tesi del proprietario, ritenendo il ricorso infondato. I giudici di legittimità hanno, infatti, evidenziato come il giudice di appello avesse considerato condominiale la braga in questione in relazione alla sua funzione, ritenuta prevalente, di raccordo tra le singole parti e la conduttura verticale di scarico. Infatti, secondo la Suprema corte, in assenza della braga, nel caso di specie non vi sarebbe stato raccordo tra le tubazioni di scarico verticale poste in corrispondenza dei singoli piani dell'edificio condominiale.
In sostanza è stato quindi ritenuto corretto il procedimento logico seguito nel giudizio di secondo grado volto ad assegnare la prevalenza alla specifica conformazione della colonna verticale di scarico della quale faceva parte la braga di collegamento (e senza la quale il funzionamento della colonna stessa sarebbe venuto meno) rispetto alla funzione di collegamento con gli scarichi delle singole unità immobiliari.
Nel caso in questione la seconda sezione civile della Cassazione, pur riconoscendo la validità dei precedenti giurisprudenziali di legittimità citati dal condominio in merito alla natura presuntivamente comune della braga dell'impianto di scarico condominiale, ha quindi ribadito che occorre comunque fare riferimento, caso per caso, all'oggettiva conformazione della colonna di scarico e alla conseguente funzione prevalente svolta dalla braga.
Nel caso di specie, a conferma del collegamento sostanziale tra la braga e l'impianto comune, è stato anche osservato come le lamentate infiltrazioni di acqua si verificassero indipendentemente dall'uso degli scarichi dei singoli appartamenti, rendendo quindi ancora più evidente il fatto che la perdita fosse riferibile a un guasto di tenuta dello scarico verticale nel suo complesso considerato.
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I principi generali. Parti comuni, prevale il criterio dei millesimi.
Le fognature e i canali di scarico sono oggetto di proprietà comune fino al punto di diramazione degli impianti ai locali di proprietà esclusiva dei singoli, cioè con esclusione delle condutture che, diramandosi dalle tubazioni condominiali, servono i singoli appartamenti.
Comprendere se una parte della conduttura è comune o di proprietà del singolo condominio è fondamentale quando si verifica la rottura di una tubazione (canale di scarico o tubo di adduzione dell'acqua) e quindi si deve individuare il soggetto responsabile dei danni e obbligato quindi alla conseguente riparazione.
Tubazioni e spese: in generale. Le tubazioni verticali per lo smaltimento delle acque sia chiare che scure rivestono il carattere di beni comuni, in quanto raccogliendo le acque provenienti dai singoli appartamenti presentano l'attitudine all'uso e al godimento collettivo
Di conseguenza sono a carico di tutti i condomini, in proporzione della quota millesimale di proprietà, le spese per le riparazioni alle tubature comuni e per il risarcimento dei danni subiti dal singolo condomino, in quanto l'impianto di scarico fornisce la medesima utilità a tutti i condomini interessati.
Naturalmente tale principio opera anche in relazione alle spese per la costruzione di nuovi canali di scarico e di nuova fognatura, necessari per sostituire il preesistente sistema divenuto obsoleto o nel caso in cui un condomino non utilizzi l'impianto (perché collegato anche a un scarico relativo a un altro edificio). In quest'ultimo caso, se l'appartamento risulta comunque regolarmente collegato all'impianto condominiale e, quindi, quest'ultimo potrebbe essere utilizzato dal condomino, lo stesso non può dirsi esonerato dal partecipare alle spese per guasti (e danni conseguenti), obbligo che trova la sua fonte nel diritto di comproprietà sulla conduttura comune.
Sono invece a carico dei rispettivi proprietari i contributi per le riparazioni effettuate nelle parti in cui le tubazioni si diramano verso i singoli appartamenti.
La braga. Nell'ambito delle tubazioni private si devono fare rientrare anche le braghe, cioè gli elementi di raccordo fra la tubatura orizzontale di pertinenza del singolo appartamento e la tubatura verticale, di pertinenza condominiale, come, per esempio, il tratto obliquo che convoglia le acque del lavandino di proprietà esclusiva alla colonna condominiale.
La braga, quindi, serve soltanto a convogliare gli scarichi di pertinenza del singolo appartamento, a differenza della colonna verticale che, raccogliendo gli scarichi di tutti gli appartamenti, serve all'uso di tutti i condomini.
Tale principio non può valere se, come è avvenuto nel caso esaminato dalla Corte di cassazione nell'ordinanza n. 778/2012, il guasto riguarda lo scarico verticale, nel suo complesso considerato, che si innesta nella braga: in tale ipotesi è evidente la responsabilità del condominio.
Le tubazioni comuni solo ad alcuni condomini. In relazione all'impianto fognario, frequentemente si può verificare un'ipotesi di c.d. condominio parziale, allorquando alla tubazione di scarico siano allacciati solo alcuni condomini.
È evidente allora che in base ai principi generali le spese per tali tratti di tubazione che servono solo un singolo condomino o un gruppo di condomini saranno a carico soltanto dei condomini utilizzatori (e naturalmente il principio vale anche per i danni a terzi).
E non è tenuto a sostenere le spese per l'impianto fognario (e i danni conseguenti alla rottura dei canali di scarico) quel condomino (o quel gruppo di condomini) la cui proprietà, pur inclusa nelle tabelle millesimali, non utilizza la tubazione rotta o non è collegata all'impianto in questione (per esempio cantine, box ecc.).
Lo stesso principio vale ovviamente non solo per gli impianti idraulici di scarico, ma anche per quelli di adduzione dell'acqua, così come di ogni altra utenza (energia elettrica, gas, televisione, citofoni ecc.).
Risulta infine ininfluente che gli impianti in oggetto siano stati un tempo di uso collettivo dell'intero condominio e siano stati solo in seguito utilizzati dal singolo inquilino o da una parte soltanto degli inquilini del condominio: ciò che conta è lo stato dei luoghi al momento in cui si verifica il danno.
Tubatura comune all'interno di una proprietà esclusiva. È possibile che una tubatura passi sotto il pavimento di un locale posto al piano terra, cioè si trovi a passare in una proprietà esclusiva (per esempio un negozio, un magazzino, un'autorimessa ecc.) ma in realtà sia contenuta nella base di appoggio delle strutture dell'edificio condominiale (fondamenta) e assolva la funzione di drenaggio dell'acqua di infiltrazione sotterranea: in tal caso le spese per la sostituzione o manutenzione della tubazione o per i danni conseguenti, anche se a trarre immediato beneficio dalla sostituzione/riparazione sia anzitutto il locale del singolo condomino, gravano su tutti i condomini.
In particolare, ogni spesa per tali tubazioni orizzontali dell'impianto fognario, in assenza di particolari clausole del regolamento di condominio, deve ripartirsi per millesimi e non per quote uguali (articolo ItaliaOggi Sette del 13.02.2012).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAL'Amministrazione comunale non è tenuta, in caso di mancata contestazione del condomino pretermesso, a svolgere indagini particolari in presenza della richiesta edificatoria prodotta da un comproprietario; solo, quando uno o più comproprietari si attivino per denunciare il proprio dissenso, rispetto al rilascio del titolo edificatorio, il Comune deve verificare se sussiste la disponibilità del bene oggetto dell'intervento edificatorio e se, più in generale, la situazione di fatto consente di supporre l'esistenza di un tacito "pactum fiduciae" intercorrente tra i comproprietari, il cui assenso può manifestarsi non solo attraverso atti formali che documentino un assenso del condominio, ma anche “per facta concludentia”.
Con il primo motivo di ricorso ci si duole che per l’approvazione del progetto edilizio, per l’edificazione tramite DIA e per il successivo accertamento di conformità non sia stato acquisito il consenso di tutti i comproprietari; in particolare non sarebbe stato acquisito il consenso del comproprietario ....
Il motivo è infondato.
Il Collegio ritiene che l'Amministrazione non sia tenuta, in caso di mancata contestazione del condomino pretermesso, a svolgere indagini particolari in presenza della richiesta edificatoria prodotta da un comproprietario; solo, quando uno o più comproprietari si attivino per denunciare il proprio dissenso, rispetto al rilascio del titolo edificatorio, il Comune deve verificare se sussiste la disponibilità del bene oggetto dell'intervento edificatorio e se, più in generale, la situazione di fatto consente di supporre l'esistenza di un tacito "pactum fiduciae" intercorrente tra i comproprietari, il cui assenso può manifestarsi non solo attraverso atti formali che documentino un assenso del condominio, ma anche “per facta concludentia
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 12.01.2012 n. 49 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO: Antenne tv, non serve l'unanimità. Per intervenire su un servizio comune basta la maggioranza.  La Cassazione: occorre evitare la paralisi gestionale condominiale, nei limiti dei diritti dei singoli.
Per rimuovere l'antenna centralizzata del condominio basta la maggioranza assembleare. La delibera che stabilisca lo smantellamento dell'impianto non impedisce, infatti, il godimento individuale di un bene comune, ma dispone semplicemente di interrompere il relativo servizio.
Lo ha chiarito la seconda sezione civile della Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 11.01.2012 n. 144.
I fatti di causa. Nel caso in questione un condomino si era rivolto al giudice di pace di Roma per ottenere la condanna del condominio al ripristino di un'antenna centralizzata, esistente fin dal 1970. Il giudice di prime cure, con sentenza del 2002, non aveva accolto la domanda e questo aveva spinto il proprietario a presentare appello al tribunale capitolino.
Tuttavia anche detto giudice, con sentenza del 2004, aveva rigettato l'istanza, confermando la decisione del giudice di pace. Il tribunale aveva infatti ritenuto che l'assemblea condominiale, nel deliberare negativamente su un ordine del giorno relativo all'installazione o all'eventuale adeguamento dell'antenna centralizzata, avesse agito conformemente all'esercizio dei propri poteri, con una decisione che di conseguenza risultava essere efficace e vincolante nei confronti di tutti i condomini. Il condomino in questione, non soddisfatto dell'esito processuale, aveva quindi deciso di giocare l'ultima carta, depositando ricorso in Cassazione e lamentando l'invalidità della delibera impugnata per avere disposto a maggioranza di un bene o servizio comune, laddove al contrario sarebbe stata necessaria l'unanimità dei consensi.
A tale riguardo il condomino ricorrente aveva menzionato vari precedenti della medesima Suprema corte, sia in relazione all'affermazione che i diritti di ciascun condomino sulle parti comuni non possono essere lesi da delibere assembleari (sentenza n. 5369/1997), sia in merito alla nullità delle delibere concernenti innovazioni lesive dei diritti di ciascun condomino su cose o servizi comuni (sentenza n. 2288/1980) e delle delibere che stabiliscano a maggioranza di non eseguire i lavori di manutenzione e di adattamento di un impianto comune, posto che tale rifiuto impedisce l'uso stesso dell'impianto e conseguentemente menoma i diritti di tutti i condomini (sentenza n. 1302/1998).
La decisione della Corte di cassazione. Anche la Suprema Corte ha infine rigettato la domanda del condomino che si riteneva leso nei propri diritti dall'approvazione a maggioranza di una delibera assembleare che stabiliva lo smantellamento dell'antenna centralizzata condominiale. La difesa del proprietario aveva puntato tutto sul carattere di bene comune dell'antenna c.d. centralizzata e, quindi, sulla base della normativa codicistica e della giurisprudenza, si richiamava al principio per cui un bene comune non può essere sottratto alla propria destinazione se non con il consenso di tutti i condomini.
Nella sentenza in questione i giudici di legittimità hanno infatti in primo luogo voluto ricordare come in materia di condominio siano da ritenersi comuni le opere, le installazioni e i manufatti di qualunque genere che servano all'uso e al godimento di tutti i condomini. A quest'ultima categoria, secondo la Suprema corte, vanno ricondotte anche le antenne c.d. centralizzate, cioè quegli impianti di trasmissione destinati a servire tutte o, almeno, più unità immobiliari di proprietà esclusiva.
Tuttavia, secondo la Suprema corte, pur trattandosi di beni comuni, bisogna riconoscere che le attribuzioni dell'assemblea di condominio riguardano l'intera gestione di questi ultimi, che deve necessariamente svolgersi in modo dinamico e che non potrebbe quindi essere condizionata dall'ipotetica volontà contraria anche di un solo condomino. Si tratterebbe, all'evidenza, di un'interpretazione tale comportare la paralisi della gestione condominiale. Nella sentenza in questione si è dunque chiarito che rientra nei poteri dell'assemblea quello di disciplinare beni e servizi comuni, al fine della migliore e più razionale utilizzazione degli stessi, anche quando ciò comporti la dismissione o il trasferimento a terzi dei beni comuni.
L'assemblea, secondo la Cassazione, ha quindi il potere di modificare, sostituire o, eventualmente, sopprimere un servizio comune con deliberazione a maggioranza anche laddove lo stesso sia stato istituito e disciplinato dal regolamento condominiale, purché si rimanga nei limiti della disciplina delle modalità di svolgimento del servizio e non si vada a incidere sulla sfera dei diritti dei singoli condomini (articolo ItaliaOggi Sette del 30.01.2012).

CONDOMINIO: Le regole per l'installazione e la dismissione degli impianti. Veti limitati anche dal condominio vicino.
Non è raro che all'interno del condominio sorgano discussioni in merito alla possibilità del singolo di installare un'antenna e di eseguire tutte opere conseguenti (passaggi di fili attraverso le parti comuni, ancoraggio di sostegni ecc.) quando esista già un antenna centralizzata installata dal costruttore.

Vediamo quindi, anche sulla base di quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, Sez. II civile, nella predetta sentenza 11.01.2012 n. 144, quali sono le regole comuni da seguire per l'installazione e la dismissione di questo genere di impianti.
Il diritto di antenna del singolo. Secondo la normativa vigente il proprietario o il condominio non può opporsi all'appoggio di antenne, di sostegni, nonché al passaggio di condutture, fili o qualsiasi altro impianto, nell'immobile di proprietà occorrente per soddisfare le richieste di utenza da parte di colui che abita nello stabile. Tale diritto ha contenuto personale e, quindi, il titolare di esso può essere, oltre che il condomino, anche il conduttore (non spetta a chi non abita nell'edificio).
Quindi il singolo condomino (o inquilino) per collocare l'antenna può utilizzare spazi condominiali, ma anche la proprietà del condominio vicino, il quale non potrà impedire ai tecnici installatori di passare attraverso i suoi locali, né potrà chiedere una somma a titolo indennizzo. Se si rifiuta, è lecito chiedere un provvedimento d'urgenza al giudice (in base al dlgs n. 259/2003).
Questo significa che la delibera dell'assemblea condominiale che vieti a un condomino l'installazione di un'antenna autonoma, in mancanza di un pregiudizio concreto all'uso del bene comune, ma per il solo fatto della presenza di un'antenna centralizzata, è giuridicamente nulla, con la conseguenza che il condomino leso può sempre fare accertare il proprio diritto all'installazione.
I limiti all'installazione dell'antenna singola. Il diritto di antenna spettante a ogni singolo condomino a installare sulle parti comuni dell'edificio condominiale un'antenna per la ricezione dei programmi radiotelevisivi non è illimitato. È vero infatti che per legge le antenne, i relativi sostegni, cavi e accessori non devono in alcun modo impedire il libero uso dei beni comuni o di quelli del vicino, secondo la sua destinazione, né arrecare danno al condominio o ai vicini o a terzi. Tale diritto, inoltre, va coordinato con la sussistenza di un'effettiva esigenza di soddisfare le richieste di tutela degli inquilini o dei condomini.
In altre parole il diritto di collocare nell'altrui proprietà antenne televisive è subordinato all'impossibilità per il condomino di utilizzare spazi propri, poiché il diritto all'installazione non comporta anche quello di scegliere a piacimento il luogo preferito per collocare l'antenna. Così, per esempio, non è possibile far passare i cavi nei locali o nel terrazzo del vicino se esiste un'alternativa alla loro collocazione, anche più costosa, nei propri locali o in uno spazio condominiale che può servire allo scopo. In ogni caso la richiesta di far passare i cavi può riguardare solo un condomino dell'edificio ma non un soggetto estraneo al caseggiato, cioè inquilino o condominio di altro stabile, sia pure confinante. Inoltre si deve ricordare che è lecita la delibera che impone ai condomini dove montare l'antenna onde evitare un uso distorto dei beni comuni.
Una regolamentazione in sede condominiale delle antenne va ritenuta ammissibile e rientrante nei poteri della collettività condominiale, posto che un libero potere dei condomini, al riguardo, può generare limitazioni indebite della cosa comune. Si tratta, dunque, di reperire un punto di bilanciamento degli interessi, nel senso che il diritto del singolo condomino all'installazione dell'antenna deve essere consentito, ma con il limite che essa non arrechi pregiudizio all'uso del bene da parte degli altri condomini, né produca un qualsiasi apprezzabile danno alle parti comuni.
Infine bisogna ricordare che ulteriori limiti per quanti abitano nei centri storici possono derivare dalle amministrazioni comunali che devono regolamentare le installazioni nei centri storici. In particolare, nei regolamenti edilizi più recenti è previsto che le antenne debbano essere centralizzate (tranne il caso in cui sia dimostrabile tecnicamente che un intervento di questo tipo non sia possibile) e collocate sul tetto in modo da ridurne l'impatto visivo (quindi nella parte centrale o sulle falde secondarie opposte alla pubblica via).
La partecipazione alle spese dell'antenna comune. Bisogna chiarire che l'installazione di un'antenna a uso esclusivo di un solo condomino non lo esime dal partecipare alle spese per la manutenzione dell'antenna comune. Infatti, il condomino non può, rinunziando al diritto di utilizzare l'antenna centralizzata, sottrarsi al contributo nelle spese per la sua conservazione, nelle quali rientrano anche quelle per l'aggiornamento tecnico (per ragioni estetiche, di sicurezza, di maggior rendimento ecc.) o le opere per assicurare la statica delle antenne, fondamentale per garantire la qualità della ricezione.
In sostanza senza una delibera presa all'unanimità, che stabilisca diversamente, dovrà continuare a pagare per l'antenna centrale dalla quale non trae alcuna utilità (articolo ItaliaOggi Sette del 30.01.2012).

CONDOMINIO: Condominio, rientra nei poteri dell’assemblea la rimozione dell’antenna centralizzata.
In materia condominiale la ricezione del segnale radiotelevisivo è argomento fonte di un cospicuo contenzioso. Il diritto d’antenna, tra l'altro, costituendo una specificazione del diritto all’informazione, e pertanto coinvolgendo valutazioni attinenti a situazioni giuridiche protette dalla Costituzione repubblicana, rappresenta, tra quelli dei condomini, uno dei diritti che riceve maggiore tutela.
Secondo quanto declinato dall’art. 1117, n. 3, del codice civile, in situazioni condominiali, sono considerati comuni (fra le altre cose) le opere, le installazioni e i manufatti di qualunque genere che servono all’uso e al godimento comune. In quest’ultima categoria vanno ricomprese le antenne centralizzate, quelle cioè destinate a servire tutte o almeno più unità immobiliari di proprietà esclusiva, le quali, per loro stessa natura non sono fruibili in maniera personale e diretta da ciascun condomino, ma richiedono un’attività d’impianto e di gestione comune che è compito dell’assemblea deliberare istituendo il relativo servizio.

Nella sentenza 11.01.2012 n. 144 la Corte di Cassazione, Sez. II civile, ha avuto modo di ricordare che rientra nei poteri dell’assemblea quello di disciplinare beni e servizi comuni, al fine della relativa migliore e più razionale utilizzazione, anche quando la sistemazione più funzionale del servizio comporta la dismissione o il trasferimento dei beni comuni. Viene cioè riconosciuto all’assemblea
il potere di modificare, sostituire od eventualmente sopprimere un servizio anche laddove esso sia istituito.
E’ stata ritenuta pertanto legittima la delibera dell’assemblea condominiale che a maggioranza abbia decretato la rimozione dell’antenna centralizzata per la ricezione dei canali televisivi. L’antenna, è stato precisato, costituisce bene comune, solo se effettivamente idonea a soddisfare l’interesse dei condomini a fruire del relativo servizio condominiale. Pertanto, la volontà collettiva, regolarmente espressa in assemblea, volta ad escludere siffatto uso, non si pone come contraria al diritto dei singoli condomini sul bene comune, perché quest’ultimo è tale finché assolva la sua funzione a beneficio di tutti i partecipanti.
Non si tratta di impedire il godimento individuale di un bene comune –chiariscono i giudici- bensì di non dar luogo ad un servizio la cui attivazione o prosecuzione non può essere imposta dal singolo partecipante per il solo fatto di essere comproprietario delle cose che ne costituiscono l’impianto materiale (commento tratto da www.diritto.it).

anno 2011

CONDOMINIO: Condominio: grava sull’amministratore l'onere di attivarsi per comunicare il verbale dell’assemblea al condomino assente.
Sull’amministratore di condominio grava l’onere di comunicare al condomino assente all’assemblea il verbale della deliberazione adottata e ciò al fine di far decorrere, in mancanza di una conoscenza acquisita aliunde, il termine di decadenza stabilito dall’art. 1137 c.c. per la proposizione dell’eventuale ricorso in opposizione.
È quanto sancito dalla Corte di Cassazione nella sentenza 29.12.2011 n. 29386, che esclude, invece, la configurabilità in capo al condomino assente, ai fini del decorso del termine per l’impugnativa, di un dovere di attivarsi per conoscere le decisioni assembleari adottate, quando difetti la prova dell’avvenuto recapito, all’indirizzo del destinatario, del verbale che le contenga.
Si legge nel testo della sentenza che, a soddisfare l’esigenza della comunicazione al condomino assente della deliberazione dell’assemblea condominiale, ai fini del decorso del termine di impugnazione innanzi all’Autorità giudiziaria, occorre che tale comunicazione segua all’assemblea, in modo tale che il destinatario, pur non avendo preso parte alla deliberazione, possa conoscerne e apprezzarne il contenuto in maniera adeguata alla tutela delle sue ragioni.
La presunzione iuris tantum di conoscenza ex art. 1335 c.c., spiegano gli ermellini, sorge dalla trasmissione del verbale all’indirizzo del condomino destinatario -che nella specie non risulta provata- e non dal mancato esercizio da parte di quest’ultimo della diligenza nel seguire l’andamento della gestione comune e nel documentarsi in proposito (tratto da www.diritto.it).

CONDOMINIO: Condominio, la comunione è prevalente sulle distanze.
Il condomino può installare tre pensiline su un bene comune anche se non rispettano le norme sui rapporti di vicinato. Le regole sulle distanze legali, infatti, sono applicabili anche nei rapporti tra i condomini quando siano compatibili con l'applicazione delle disposizioni particolari relative alle cose comuni, ma in caso di contrasto prevale, quale diritto speciale, la disciplina della comunione. L'importante, quindi, è che il condomino non alteri la destinazione del bene e non ne impedisca l'altrui pari uso.
Sono queste le rilevanti conclusioni raggiunte dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 22092/2011 che ha respinto il ricorso del proprietario di un appartamento posto al primo piano di un condominio nei confronti di quello dell'alloggio sottostante.
Il ricorrente si è rivolto al tribunale denunciando che il condomino del piano terra aveva realizzato tre pensiline di materiale plastico con intelaiatura in ferro ledendo in tal modo l'estetica della facciata e violando il diritto di veduta e le norme sulle di distanze legali. Ha chiesto, perciò, la rimozione delle opere eseguite facendo presente che era a rischio anche la sua sicurezza, dal momento che, attraverso la pensilina, era possibile accedere facilmente al suo appartamento.
I giudici hanno respinto la domanda sia in primo che in secondo grado. In particolare la Corte d'appello ha affermato che i manufatti erano stati realizzati con materiale elegante, trasparente e in armonia con le caratteristiche strutturali e le linee estetiche del fabbricato, svolgendo una funzione di obiettiva utilità per il condomino del piano terra. Inoltre il pericolo per la sicurezza dell'appartamento del primo piano era pressoché inesistente in quanto la lastra in policarbonato che avrebbe potuto fornire una base di appoggio per salire era estremamente fragile e non avrebbe retto il peso di una persona.
La vicenda è quindi approdata in Cassazione dove il ricorrente ha sostenuto che i giudici erano incorsi in un grave errore perché avevano ritenuto che nell'ambito condominiale le norme che regolano i rapporti di vicinato trovano applicazione solo in quanto compatibili con le norme sulla comunione. In pratica, a suo dire, il collegio avrebbe sacrificato il suo diritto di sicurezza e di veduta per privilegiare quello relativo alla protezione dagli agenti atmosferici del condomino sottostante.
La Cassazione, nel respingere definitivamente il ricorso, ha stabilito che le norme sulle distanze legali sono applicabili anche in ambito condominiale purché non contrastino con le norme particolari relative alle cose comuni, perché in questo caso prevalgono queste ultime. In considerazione della peculiarità del condominio, ha spiegato la Cassazione, la disciplina che regola il godimento dei beni, degli impianti e dei sevizi comuni «ha natura speciale rispetto alla normativa che, nell'ambito dei rapporti di vicinato, stabilisce le limitazioni legali tra proprietà confinanti».
In definitiva, il diritto del singolo condomino sulle cose comuni trova solo il limite di «non sacrificare ma di consentire il potenziale pari uso della cosa da parte degli altri partecipanti» (articolo Il Sole 24 Ore del 28.11.2011).

CONDOMINIO: È contro la privacy esporre i dati in bacheca. L'esposizione di alcuni dati in bacheca può essere contraria al diritto di privacy.
Secondo la recente sentenza n. 186/2011 della Corte di Cassazione, infatti, gli spazi condominiali aperti all'accesso a terzi estranei al condominio non possono essere utilizzati per la comunicazione dei dati personali riferibili al singolo condomino.
Uno dei problemi principali degli amministratori è in effetti di tutelare la riservatezza dei singoli condomini e, nel contempo, il diritto del condominio nel suo insieme di essere a conoscenza di fatti riguardanti il bene comune. Un esempio è quello del condomino moroso sulle spese. I giudici della Suprema corte hanno però specificato che anche i dati dei condomini raccolti per la gestione della cosa comune, compresi gli eventuali debiti di ciascuno nei confronti del condominio, rientrano nell'ambito dei dati personali.
L'amministratore, pertanto, è autorizzato a raccogliere, registrare, conservare, esibire le informazioni necessarie per la gestione e l'amministrazione della cosa comune e a comunicarle anche a tutti gli altri partecipanti, ma, allo stesso tempo, deve adottare le opportune cautele per evitare l'accesso a quei dati da parte di persone estranee al condominio. Un diritto alla riservatezza che deve, quindi, sempre prevalere sulle esigenze di efficienza (articolo ItaliaOggi Sette del 28.11.2011).

CONDOMINIO: Il fotovoltaico conviene a casa. Il Quarto conto energia premia gli impianti di piccola taglia. Guida all'installazione dei pannelli nel proprio condominio. Serve la delibera assembleare.
Il Quarto conto energia ha ridotto gli incentivi per la produzione di energia elettrica dal fotovoltaico, premiando comunque (con una limatura dei bonus meno pesante) gli impianti integrati e di piccola taglia. Installare, quindi, i pannelli fotovoltaici in condominio può continuare a essere un'opzione interessante, a patto di fare attenzione a tempistiche e costi.
Vediamo come muoversi e cosa sapere se si decide di realizzare l'impianto.
Cosa sapere se si sceglie di installare i pannelli nel proprio condominio. I condomini che scelgono di installare un impianto fotovoltaico sul proprio edificio devono produrre una delibera assembleare, corredata anche da un progetto tecnico e da un'analisi di fattibilità da parte del fornitore. La maggioranza richiesta è quella semplice delle quote millesimali rappresentate dagli intervenuti in assemblea. L'impianto, quindi, può essere usato per soddisfare il bisogno di energia delle parti comuni, abbattendo i costi per l'utilizzo dell'ascensore o per l'illuminazione di scale e giardini.
Un risultato ottenibile grazie al regime di «scambio sul posto», il più indicato se l'impianto è dimensionato su tali consumi annui o sottodimensionato rispetto a essi. Da ricordare, però, che l'impianto condominiale non può essere usato per rifornire di energia i singoli appartamenti. Se il condomino intende procedere in questo senso deve farsi carico della realizzazione dell'impianto personale e ottenere il consenso dall'assemblea condominiale.
In caso di surplus di energia, quindi se l'impianto risulta sovradimensionato rispetto ai consumi annui, inoltre, il condominio può decidere di vendere l'energia in eccesso al Gse (Gestore dei servizi energetici), con il servizio di «ritiro dedicato». In entrambi i casi, al guadagno derivante dell'autoconsumo o dalla vendita dell'energia si aggiungono anche gli incentivi previsti dal Quarto conto energia, che in sostanza permettono di ripagarsi l'impianto.
Quali autorizzazioni sono necessarie. Per poter portare avanti l'operazione sono poi necessari anche dei permessi ad hoc, in base soprattutto ai requisiti dell'impianto da installare. Possono infatti esserci due casi. Nel primo, gli impianti fotovoltaici integrati nei tetti degli edifici con la stessa inclinazione e lo stesso orientamento della falda, la cui superficie non sia superiore a quella del tetto stesso e i cui componenti non modifichino la sagoma della costruzione, sono considerati interventi di manutenzione ordinaria e quindi non richiedono la Denuncia di inizio attività (Dia).
In questo caso, è, quindi, sufficiente una comunicazione preventiva al comune. Se, invece, la costruzione dell'impianto non rientra in questi parametri è soggetta alla Dia, a condizione che la superficie complessiva dei moduli fotovoltaici dell'impianto non sia superiore a quella del tetto dell'edificio sul quale i moduli sono collocati.
L'iter da seguire. Ci sono poi dei passaggi a carico dell'amministratore di condominio che devono essere effettuati per portare a termine l'operazione. In primo luogo, l'amministratore deve richiedere uno studio di fattibilità gratuito ad almeno tre installatori locali; convocare l'assemblea condominiale e, infine, dare inizio all'esecuzione dei lavori, con l'allaccio in rete e la richiesta degli incentivi al Gestore dei servizi energetici. Una volta ottenuto il finanziamento, i lavori si aprono in 30 giorni e si concludono nel giro di un paio di settimane.
Gli incentivi. Per quanto riguarda gli incentivi, il Quarto conto energia (decreto interministeriale del 5 maggio 2011) prevede che, per le installazioni realizzate entro il 2012, le tariffe incentivanti vanno dai 32 centesimi di euro a Kw di novembre 2011 ai 25 centesimi del secondo semestre 2012; inoltre, è possibile rivendere al Gse l'energia prodotta e non autoconsumata, che ai prezzi correnti di mercato vale circa 10 centesimi a Kw.
Fatti i dovuti calcoli si può azzerare la bolletta elettrica e si possono conseguire discreti guadagni, nell'arco di 20 anni di durata dell'incentivo. E visto che gli incentivi diminuiscono con il passare del tempo, prima si allaccia l'impianto e più conveniente è la tariffa. Dal 2013, infatti, sarà onnicomprensiva e inclusiva anche del valore dell'energia ma la quota incentivante dovrebbe ridursi di circa 20 centesimi.
Le possibilità di finanziamento. Calcolando che i costi di installazione dell'impianto si aggirano in genere intorno ai 15-20 mila euro, può essere utile valutare la strada dei finanziamenti bancari. Per procedere, l'amministratore deve ottenere una delega dall'assemblea condominiale e presentare un business plan.
La valutazione di quanto può essere finanziato viene elaborata dalla banca interpellata sulla base del valore catastale dell'intero immobile. Il finanziamento viene di solito erogato per una durata di 15-18 anni, mentre il Quarto conto energia incentiva per 20 anni. In genere sono gli ultimi anni ad essere fonte di forte utile netto, mentre quelli precedenti solitamente permettono un pareggio, oltre che l'abbattimento della bolletta elettrica condominiale di circa l'80%.
La banca richiede, infine, la stipula di un'assicurazione all risks, che copre per pochi euro a Kw da furti, atti di vandalismo, danneggiamento da eventi atmosferici e da mancata produzione per qualsiasi motivo (articolo ItaliaOggi Sette del 28.11.2011).

CONDOMINIO: Per qualificare un lastrico solare come parte comune, ai sensi dell'art. 1117 n. 1, c.c., è necessaria la sussistenza di connotati strutturali e funzionali comportanti la materiale destinazione del bene al servizio e godimento di più unità immobiliari appartenenti in proprietà esclusiva a diversi proprietari.
Deve pertanto escludersi la presunzione di comunione di un lastrico solare che, nel contesto di un edificio costituito da più unità immobiliari autonome, disposte a schiera, assolva unicamente alla funzione di copertura di una sola delle stesse e non sia caratterizzato da unitarietà, strutturale o da altri connotati costruttivi e funzionali, tali da denotare la destinazione complessiva delle aree sovrastanti i vari immobili costituenti nel loro insieme un unicum a servizio e godimento comune ed indistinto degli stessi.

La giurisprudenza ha affermato (cfr. Cassazione civ., Sez. II, 04.11.2010 n. 22466) che “per qualificare un lastrico solare come parte comune, ai sensi dell'art. 1117 n. 1, c.c., è necessaria la sussistenza di connotati strutturali e funzionali comportanti la materiale destinazione del bene al servizio e godimento di più unità immobiliari appartenenti in proprietà esclusiva a diversi proprietari.
Deve pertanto escludersi la presunzione di comunione di un lastrico solare che, nel contesto di un edificio costituito da più unità immobiliari autonome, disposte a schiera, assolva unicamente alla funzione di copertura di una sola delle stesse e non sia caratterizzato da unitarietà, strutturale o da altri connotati costruttivi e funzionali, tali da denotare la destinazione complessiva delle aree sovrastanti i vari immobili costituenti nel loro insieme un unicum a servizio e godimento comune ed indistinto degli stessi
"
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 25.11.2011 n. 1629 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIOParti comuni - Area dell'appartamento a piano terra - Non è parte comune - Area di sedime sottostante l'edificio condominiale - E' parte comune.
In materia di condominio e parti comuni, la parte comune del condominio non è l'area dell'appartamento del piano terra, bensì l'area di terreno sita in profondità su cui posano le fondamenta dell'immobile, cioè l'area di sedime sottostante l'edificio condominiale (cfr. Corte d'Appello, Roma, sent. n. 3354/2008; Cass. Civ., sent. n. 6921/2001) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.11.2011 n. 2811 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO:  I chiarimenti della Cassazione. Proprietari obbligati a pagare. Il saldo degli oneri di gestione prescinde dal titolo d'acquisto. L'amministratore può rivolgersi anche a uno solo dei condebitori.
I comproprietari di un appartamento condominiale sono obbligati in solido nei confronti del condominio per il pagamento degli oneri di gestione, a prescindere dal titolo di acquisto della proprietà. Di conseguenza l'amministratore può chiedere anche a uno solo dei proprietari il pagamento integrale del debito riferibile a una data unità immobiliare, fermo restando il diritto del condomino solvente di ripetere le rispettive quote dagli altri comproprietari.
Lo ha chiarito di recente la Cassazione con la sentenza 21.10.2011 n. 21907.
La pertinenza all'unità immobiliare dei debiti condominiali. Le spese di gestione del condominio, come rendicontate dall'amministratore e approvate a consuntivo dall'assemblea, sono di pertinenza di ogni singola unità immobiliare di cui si compone il condominio e competono, in base al periodo temporale di maturazione delle singole voci di spesa, al soggetto o ai soggetti che ne risultino proprietari (con l'eccezione di cui all'art. 63, comma 2, delle disposizioni di attuazione del codice civile, nel quale si dispone che chi subentra nei diritti di un condomino è tenuto in solido con quest'ultimo al pagamento degli oneri condominiali anche dell'annualità precedente, oltre a quelli dell'anno in corso).
La comproprietà dell'unità immobiliare condominiale. Il problema si complica quando, come nel caso affrontato dalla Suprema corte, i proprietari della medesima unità immobiliare siano più di uno, magari con quote di comproprietà diversa e con titoli di acquisto differenti. In questi casi, viene da chiedersi, i diversi comproprietari sono uguali di fronte all'amministratore condominiale?
Nella citata sentenza dello scorso mese di ottobre la Cassazione ha in primo luogo evidenziato come nell'ipotesi di comunione inquadrata in un condominio l'iniziale situazione di scomposizione pro quota dei singoli diritti di proprietà passi in secondo piano rispetto all'esigenza di valorizzare l'aspetto unitario della (com)proprietà condominiale per esigenze di certezza del diritto. I riferimenti normativi, sotto questo aspetto, sono molteplici. Si pensi, per esempio, all'art. 67 delle disposizioni di attuazione del codice civile, il quale dispone che in caso di comproprietà di un'unità immobiliare condominiale i comproprietari possano votare in assemblea solo per il tramite di un unico rappresentante.
Di conseguenza, secondo la Suprema corte, dal punto di vista degli oneri condominiali, poiché il contributo grava sul titolare del piano o della porzione di piano inteso come bene unico, anche la posizione dei comproprietari dell'unità immobiliare non può che risultare unitaria, con la conseguenza che l'amministratore può richiedere il pagamento integrale delle spese anche a uno solo dei soggetti in comunione.
Il carattere solidale dell'obbligazione condominiale. Sulla base delle precedenti osservazioni i giudici di legittimità hanno quindi ritenuto che, dal punto di vista della disciplina delle obbligazioni, in ipotesi del genere debba applicarsi la regola della presunzione della solidarietà di cui all'art. 1294 c.c., secondo cui i condebitori sono tenuti in solido al pagamento del dovuto.
La norma in questione, tuttavia, fa espressamente salvi in casi nei quali la legge o il titolo dispongano diversamente in merito al rapporto obbligatorio intercorrente tra i condebitori e il creditore. Occorre allora chiedersi se, per esempio, come nel caso deciso nella predetta sentenza n. 21907/2011, la presunzione di cui all'art. 1294 c.c. non debba applicarsi allorché i comproprietari siano tali in base a titoli di acquisto diversi.
La Cassazione ha risolto positivamente anche detta questione, evidenziando come la diversità dei titoli di provenienza concerna soltanto il modo di acquisto del bene in comunione (articolo ItaliaOggi Sette del 12.12.2011).

CONDOMINIOIMMOBILI & CONDOMINIO/ I requisiti dell'avviso di convocazione. Non indicare il luogo può costare la nullità.
L'avviso di convocazione deve essere predisposto dall'amministratore e inviato, a pena di nullità, a tutti i condomini presso la propria residenza o il proprio domicilio. La legge non prevede forme specifiche per l'avviso di convocazione, né particolari modalità di notifica dello stesso.

L'avviso non ha un contenuto predeterminato dalla legge, fermo restando il limite del raggiungimento dello scopo cui l'atto è destinato (ovvero la partecipazione del condomino alla riunione assembleare). Di qui la necessità di indicare, quantomeno, il luogo, la data e l'ora fissati per l'incontro.
La giurisprudenza ritiene che la mancata indicazione del luogo possa comportare l'impugnabilità della deliberazione assembleare, ove il condomino per tale motivo non abbia avuto la possibilità di parteciparvi. Nel caso in cui il regolamento di condominio stabilisca a priori la sede deputata allo svolgimento delle assemblee, l'eventuale mancanza di tale indicazione nell'avviso di convocazione potrà essere sanata dal richiamo ivi contenuto al regolamento medesimo.
Per quanto riguarda la data è prassi ampiamente diffusa quella di indicare nell'avviso due date diverse e successive (purché contenute entro il periodo di 10 giorni una dall'altra e, comunque, in giorni diversi), facenti riferimento rispettivamente alla prima e alla seconda convocazione (c.d. doppia convocazione), in modo da evitare un raddoppio delle formalità e delle spese necessarie allo svolgimento della riunione condominiale.
L'avviso di convocazione, come ricordato dal Tribunale di Roma nella sentenza 03.11.2011 n. 21319, deve poi evidenziare in modo opportuno gli argomenti che saranno trattati nella riunione assembleare, in modo da consentire ai condomini di prepararsi adeguatamente alla discussione. È l'art. 1105, comma 3, c.c., applicabile anche in tema di condominio, in forza del rinvio di cui all'art. 1139 c.c., a richiedere che per la validità delle deliberazioni assembleari «tutti i partecipanti siano stati preventivamente informati dell'oggetto della deliberazione». L'elencazione dell'ordine del giorno deve essere specifica e puntuale, ma non è necessario che sia così analitica da mettere in evidenza eventuali argomenti di carattere preliminare ricompresi nei punti principali oggetto di discussione.
Una voce che per prassi compare sempre alla fine dell'ordine del giorno è poi quella «varie ed eventuali», nella quale sono ricompresi quei possibili argomenti di discussione che non sempre è facile prevedere in anticipo e che, solitamente, comprendono comunicazioni a titolo informativo da parte dell'amministratore o dei condomini, richieste di chiarimento, istanze volte all'inserimento di un determinato argomento all'ordine del giorno della prossima assemblea, ovvero questioni di minore importanza che non si è ritenuto necessario specificare.
Quest'ultimo chiarimento, secondo la giurisprudenza, rende più che evidente come la voce «varie ed eventuali» non possa essere utilizzata dall'amministratore per inserire a sorpresa nella discussione argomenti di una certa rilevanza per la gestione del condominio, in violazione dell'obbligo di informare i condomini sui temi che verranno trattati nella riunione assembleare, svuotando per altro di significato lo stesso avviso di convocazione. Sul punto si può riportare quanto osservato dalla seconda sezione della Suprema Corte nella sentenza n. 4316 del 28.06.1986 in una fattispecie relativa all'esecuzione di lavori di rifacimento della facciata dell'edificio condominiale, che i giudici hanno escluso potersi fare rientrare nella voce «varie ed eventuali», in quanto attività riguardante l'amministrazione straordinaria del bene comune.
L'incompletezza dell'ordine del giorno costituisce semplice causa di annullabilità della deliberazione assunta dall'assemblea, da impugnarsi entro il termine di decadenza di 30 giorni di cui al terzo comma dell'art. 1137 c.c. Tuttavia il condomino che abbia partecipato all'assemblea e non abbia sollevato il problema dell'irregolarità dell'ordine del giorno al momento della votazione non potrà poi impugnare la relativa deliberazione, in quanto il proprio comportamento varrà come acquiescenza.
Ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 66 disp. att. c.c. «l'avviso di convocazione deve essere comunicato ai condomini almeno cinque giorni prima della data fissata per l'adunanza». Si tratta di una disposizione introdotta dal legislatore per meglio tutelare la posizione dei condomini, in modo da dare agli stessi la possibilità di organizzare i propri impegni in modo da poter presenziare alla riunione e prepararsi in modo adeguato alla discussione dei singoli argomenti posti all'ordine del giorno.
Il computo del termine in questione, secondo quanto disposto dalla norma appena citata, si effettua a partire dalla data fissata per l'assemblea (che non deve essere conteggiata) e procedendo a ritroso nel tempo. Se, tanto per fare un esempio, l'assemblea è stata convocata per il 27 marzo, la comunicazione ai condomini dovrà essere effettuata entro e non oltre il 22 marzo.
In caso di avviso che contenga la data sia della prima che della seconda convocazione, il termine in questione, ovviamente, dovrà essere calcolato sulla prima, anche se sia già certo che la stessa andrà deserta (articolo ItaliaOggi Sette del 02.01.2011).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONDOMINIOIMMOBILI & CONDOMINIO/ Assemblea, l'odg è vincolante. Annullabile la delibera su materie non all'ordine del giorno. Il tribunale di Roma: i condomini vanno informati delle questioni su cui sono chiamati a decidere.
Non è valida la delibera assembleare relativa ad argomenti non indicati all'ordine del giorno, perché così facendo non si consente ai singoli condomini di valutare se partecipare o meno alla riunione e, in caso di scelta positiva, stabilire per tempo se proporre obiezioni o suggerimenti a quanto riportato dall'amministratore.
È questo il principio affermato dal Tribunale di Roma nella sentenza 03.11.2011 n. 21319.
La vicenda. Due condomini decidevano di impugnare la delibera dell'assemblea che, in riferimento al punto dell'ordine del giorno dedicato alle «varie ed eventuali» (riservato in genere a comunicazioni da parte dell'amministratore o dei condomini a puro titolo informativo, oppure a suggerimenti e raccomandazioni all'amministratore), aveva dato incarico a un professionista di redigere un capitolato per esecuzioni di lavori già deliberati in precedenti sedute.
Secondo i condomini tale decisione si doveva considerare invalida per la mancata indicazione nell'ordine del giorno dell'oggetto della decisione adottata, tenendo anche conto del fatto che l'incarico riguardava delibere precedenti per opere di manutenzione oggetto di impugnativa da parte di altri condomini. Il condominio si difendeva sostenendo che la richiesta degli attori era generica, inammissibile perché proposta con ricorso e non con atto di citazione, nonché infondata, in quanto l'impugnata decisione di affidamento dell'incarico al professionista era necessaria per dare esecuzione agli interventi già decisi dall'assemblea.
Il tribunale di Roma, però, ritenendo infondate le obiezioni del condominio, ha dato ragione ai due condomini. I giudici hanno infatti sottolineato come, secondo la legge, tutti i partecipanti al condominio debbano essere preventivamente informati delle questioni e delle materie sulle quali sono chiamati a deliberare. Del resto, per legge, tutti i condomini devono essere invitati alla riunione assembleare, invito che presuppone che gli stessi debbano essere previamente messi al corrente dei temi oggetto della delibera assembleare in modo da consentire una partecipazione effettiva e concreta.
In altre parole deve essere consentito a ciascun condomino di comprendere esattamente il tenore e l'importanza dell'ordine del giorno e di poter valutare l'atteggiamento da tenere, in relazione sia all'opportunità o meno di partecipare, sia alle eventuali obiezioni o suggerimenti da sottoporre alla discussione. Di conseguenza l'eventuale delibera su questioni che non siano state inserite all'ordine del giorno e di cui i condomini non siano stati precedentemente informati, proprio perché pregiudica il diritto alla partecipazione effettiva e consapevole previsto dalla legge, è annullabile, con la conseguenza che la stessa dovrà essere impugnata nel termine di 30 giorni.
Come ha precisato il tribunale, però, tale situazione ricorre quando la delibera sia stata presa su un tema radicalmente estraneo all'ordine del giorno o non direttamente e logicamente riconducibile a esso. L'indicazione specifica di un argomento non è infatti necessaria allorché questo possa ritenersi contenuto in altro a esso strettamente collegato. Ne consegue che non può esservi contestazione da parte dei condomini se quanto deliberato e quanto in precedenza indicato nell'ordine del giorno sia, in buona sostanza, coincidente perché il dovere informativo si deve ritenere rispettato.
Alla luce delle precedenti considerazioni il tribunale ha sottolineate che la decisione di affidare a un tecnico la stesura del capitolato degli interventi relativi al caseggiato che erano già stati oggetto di precedenti delibere dava ulteriore concreto impulso e prosecuzione all'attività manutentiva, ma, poiché era stata assunta sotto la voce «varie ed eventuali», era da considerarsi invalida: tale formula, infatti, a causa della sua genericità non è idonea a conseguire l'obiettivo della preventiva informazione dei condomini convocati all'assemblea.
Del resto, posto che i lavori di ristrutturazione vanno a incidere sulle finanze dei condomini, sarebbe stata necessaria una conoscenza di quanto si andava a deliberare al fine di poter permettere, a ciascun condominio, un valido intervento partecipativo in merito all'incarico che si stava decidendo (per esempio consentendo di indicare altro professionista rispetto a quello proposto in sede assembleare).
In ogni caso, il tribunale ha sottolineato che non era stato neppure messo a disposizione della collettività condominiale il preventivo di spesa che, al contrario, in base alla delibera impugnata, sarebbe stato richiesto sola una volta decisa la sua esecuzione (articolo ItaliaOggi Sette del 02.01.2011).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONDOMINIO: E' illegittima la deliberazione su questioni che non siano state inserite all'ordine del giorno e che non siano state oggetto di pregressa informativa ai condomini partecipanti.
Laddove l'art. 1136 c.c., al comma VI, prescrive che i partecipanti al condominio edilizio debbano essere invitati alla riunione assembleare, esso richiede, nel contempo, che gli stessi debbano essere previamente messi al corrente dei temi oggetto della delibazione collegiale sì da consentire una partecipazione effettiva e concreta e permettere, nel contempo, di poter operare le personali valutazioni in merito anche all'opportunità o alla necessità, in ragione del personale interesse, a intervenire alla stessa; ne consegue che l'eventuale deliberazione su questioni che non siano state inserite all'ordine del giorno e che non siano state oggetto di pregressa informativa ai condomini partecipanti, proprio perché pregiudicante detto diritto alla partecipazione effettiva e consapevole normativamente sancito dagli artt. 1105 e 1136 c.c., è illegittima e, pertanto, possibile oggetto di giudiziale gravame ai sensi dell'art. 1137 c.c. (TRIBUNALE di Roma, Sez. V, sentenza 03.11.2011 n. 21319 - link a www.neldiritto.it).

CONDOMINIO: Distanze legali, prevalgono le norme sulle cose comuni. È lecito installare tre pensiline su un bene comune anche se non rispettano le norme sui rapporti di vicinato.
È la conclusione cui è giunta la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 25.10.2011 n. 22092 con cui è stato respinto il ricorso del proprietario di un appartamento situato al primo piano di un condominio nei confronti di quello dell'alloggio sottostante.
La Suprema corte ha, infatti, stabilito che le norme sulle distanze legali, rivolte fondamentalmente a regolare rapporti fra proprietà contigue e separate, sono applicabili anche in ambito condominiale quando siano compatibili con l'applicazione delle disposizioni particolari relative alle cose comuni, ma in caso di contrasto prevale, quale diritto speciale, la disciplina della comunione. L'aspetto fondamentale è quindi che il condomino non alteri la destinazione del bene e non ne impedisca l'altrui pari uso.
In particolare, la sentenza ha riguardato il caso di un ricorrente che si è rivolto al tribunale denunciando che il condomino del piano terra aveva realizzato tre pensiline di materiale plastico con intelaiatura in ferro, chiedendone la rimozione. Secondo il condomino, infatti, le opere eseguite risultavano lesive dell'estetica della facciata, violando inoltre il diritto di veduta e le norme sulle distanze legali. I giudici però hanno respinto la domanda sia in primo che in secondo grado.
Secondo la Corte d'appello, infatti, i manufatti erano stati realizzati con materiale elegante, trasparente e in armonia con le caratteristiche strutturali e l'estetica del fabbricato.
La vicenda è quindi approdata in Cassazione dove è stato stabilito che le norme sulle distanze legali sono applicabili anche in ambito condominiale purché non siano in contrasto con le norme particolari relative alle cose comuni, perché in questo caso prevalgono queste ultime. Di conseguenza, il diritto del singolo condomino va incontro a un solo limite, cioè di consentire il potenziale pari uso della cosa anche da parte degli altri (articolo ItaliaOggi Sette del 16.01.2012).
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1. Le norme sulle distanze legali, rivolte fondamentalmente a regolare rapporti fra proprietà contigue e separate, sono applicabili anche nei rapporti tra i condomini di un edificio condominiale quando siano compatibili con l'applicazione delle norme particolari relative alle cose comuni (art. 1102 c.c.), cioè quando l'applicazione di queste ultime non sia in contrasto con le prime; nell'ipotesi di contrasto prevalgono le norme sulle cose comuni con la conseguente inapplicabilità di quelle relative alle distanze legali che nel condominio degli edifici e nei rapporti fra singolo condomino e condominio sono in rapporto di subordinazione rispetto alle prime.
2. In considerazione della peculiarità del condominio degli edifici, caratterizzato dalla coesistenza di una comunione forzosa e di proprietà esclusive, il godimento dei beni, degli impianti e dei servizi comuni è in funzione del diritto individuale sui singoli piani in cui è diviso il fabbricato: dovendo i rapporti fra condomini ispirarsi a ragioni di solidarietà si richiede un costante equilibrio tra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione, dovendo verificarsi necessariamente alla stregua delle norme che disciplinano la comunione - che l'uso del bene comune da parte di ciascuno sia compatibile con i diritti degli altri
(massima tratta da www.neldiritto.it).

CONDOMINIO: Riscaldamento, distacco a ostacoli. Nuovi limiti introdotti dalle norme sul risparmio energetico. Si complica il passaggio dal sistema centralizzato a quello autonomo nei condomini.
Abitazioni troppo calde o troppo fredde: non si riesce mai a trovare la via di mezzo. E proprio con l'avvicinarsi della stagione invernale si fanno più urgenti le problematiche legate al riscaldamento. In molti sono invogliati (anche a causa dei costi dei carburanti) a valutare la possibilità di staccarsi dal riscaldamento centralizzato.
Una strada però in salita. Se, infatti, le sentenze della Cassazione, anche recenti, sono favorevoli a questo tipo di scelta, il quadro è stato complicato dalle nuove norme in materia di risparmio energetico che sembrano ostacolare la decisione. Intanto, sempre in materia di riscaldamento della casa, è in arrivo per i condomini l'obbligo di installazione delle valvole termostatiche sui termosifoni per il controllo della temperatura ambientale.
L
e sentenze della Cassazione. La Cassazione si è più volte dichiarata favorevole alla scelta del distacco, anche nelle sentenze più recenti. Come in quella n. 11857 del 27 maggio scorso, in cui la Suprema corte ha ribadito che il distacco è legittimo anche senza l'autorizzazione dell'assemblea.
Unica condizione da rispettare è che non si creino squilibri termici nell'edificio in grado di pregiudicare l'erogazione del servizio e comportare spese aggiuntive per gli altri condomini. La Corte ha anche precisato che per squilibrio termico non si può considerare solo la differente temperatura che può venirsi a creare nell'appartamento distaccato rispetto agli altri.
È necessaria in ogni caso la certificazione della condizione termica del nuovo impianto. Inoltre, la relazione del termotecnico può attestare che, per compensare gli effetti creati dal distacco, il condomino che non utilizza più il centralizzato è tenuto a pagare comunque una quota fissa di consumi. In aggiunta, in base al secondo comma dell'articolo 1118 del codice civile, chi rinuncia al diritto sulle cose comuni, deve comunque contribuire alle spese per la loro conservazione, ossia in questo caso alle spese di manutenzione ordinaria e straordinaria dell'impianto centralizzato, inclusa la sua sostituzione.
Le nuove norme in materia di risparmio energetico. Le sentenze della Corte riguardano però casi antecedenti le nuove norme in materia di risparmio energetico. Come, per esempio, il dpr 59/2009, che vieta la trasformazione di impianti centralizzati in impianti autonomi negli immobili con più di quattro unità abitative o con potenza superiore a 100 kW.
La giurisprudenza, quindi, finora è stata favorevole a chi decide per il distacco ma, in futuro, l'orientamento potrebbe cambiare alla luce di queste novità normative, portando ad accogliere, per esempio, il ricorso di un condominio che potrebbe lamentare l'impossibilità di raggiungere un buon livello di efficienza e risparmio energetico.
Occhio alla canna fumaria. Se si opta per la scelta di distaccarsi dal centralizzato, occorre però sapere che per poter procedere all'installazione della caldaia autonoma è necessario uno sbocco per la canna fumaria. Una realizzazione che può essere costosa, ma che non richiede il lasciapassare da parte dell'assemblea condominiale. Infatti, l'uso delle parti comuni per il passaggio della canna è lecito se non impedisce il loro utilizzo agli altri condomini e se non danneggia il decoro dell'edificio.
Le valvole termostatiche diventano obbligatorie. Un aiuto al controllo della temperatura all'interno degli appartamenti viene anche dalle valvole termostatiche, ossia dei dispositivi che, installati sui termosifoni, permettono di regolare il flusso di acqua calda, contabilizzando i consumi. Un sistema che consente di evitare gli sprechi, stabilizzando la temperatura nei diversi locali a seconda delle necessità.
Nel caso di edifici con impianto di riscaldamento centralizzato, è necessario che il condominio realizzi contemporaneamente un sistema di contabilizzazione individuale del calore (ogni condomino paga quello che consuma come con un impianto autonomo, al netto dei costi dei servizi comuni) per far sì che i risparmi ottenuti siano riconosciuti e attribuiti ai singoli.
In Lombardia è stato recentemente istituito un decreto-legge regionale (n. 3 del 21.02.2011) che estende l'obbligo dei sistemi per la termoregolazione degli ambienti e la contabilizzazione autonoma del calore a tutti gli impianti di riscaldamento al servizio di più unità immobiliari, anche se già esistenti, a partire dal primo agosto 2012 e per i tre anni successivi a seconda dell'età della caldaia.
Tutti i condomini e tutti gli appartamenti dovranno quindi dotarsi di sistemi per la contabilizzazione del calore e la regolazione della temperatura. La normativa è al momento in vigore in Lombardia e in Piemonte, ma nei prossimi mesi sarà estesa anche alle altre regioni (articolo ItaliaOggi Sette del 10.10.2011).

CONDOMINIO: Bilancio ok solo se è trasparente. La documentazione deve essere a disposizione dei condomini. La Cassazione punisce il comportamento negligente dell'amministratore. Delibera annullabile.
Il comportamento negligente dell'amministratore che non consenta ai condomini di visionare la documentazione contabile può essere causa di annullamento della delibera assembleare.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione con la recente sentenza 21.09.2011 n. 19210.
Nel caso posto al vaglio della Suprema corte, il tribunale aveva rigettato l'impugnazione della delibera condominiale di approvazione del bilancio consuntivo di lavori effettuati nelle parti comuni e del relativo piano di riparto proposta da un condomino che aveva lamentato di non avere avuto la possibilità di visionare la relativa documentazione poiché l'amministratore non aveva acconsentito a mostrargliela nonostante esplicita richiesta prima dell'assemblea.
Il tribunale aveva infatti rilevato che la mancata esibizione dei documenti di spesa non poteva comunque inficiare la validità della delibera assembleare di approvazione del bilancio consuntivo, venendo in questione solo una presunta inadempienza dell'amministratore e non potendosi invece configurare una radicale impossibilità di accedere alle pezze giustificative della deliberazione.
La Corte d'appello, investita del riesame della questione dal condomino, dopo aver richiamato il principio affermato dalla Cassazione con la sentenza n. 8460 del 1998, secondo cui ogni proprietario ha facoltà di ottenere dall'amministratore del condominio l'esibizione dei documenti contabili in qualsiasi tempo e senza l'onere di specificare le ragioni della richiesta finalizzata a prendere visione o a estrarre copia dei documenti, aveva ritenuto che tale facoltà non sia fine a se stessa, bensì finalizzata a rendere possibile un controllo non solo formale sull'attività dell'amministratore e che quindi il suo impedimento, finendo per paralizzare detta possibilità di controllo, influisca negativamente sulla legittimità della deliberazione assembleare.
Circa l'eccezione del condominio, che aveva fatto rilevare come nella specie fosse comunque intervenuta l'approvazione del consuntivo da parte dell'assemblea, la Corte d'appello aveva rilevato come non era possibile sapere in che modo la medesima assemblea si sarebbe orientata se il condomino che ne aveva fatto richiesta avesse potuto accedere alla documentazione richiesta e che, proprio per non avere avuto detta possibilità, si era determinato a non partecipare alla riunione nella quale la delibera impugnata era stata adottata.
Anche la Suprema corte, nel ricordare il predetto principio di legittimità e nel condividerne l'applicazione operata dalla Corte d'appello, ha evidenziato come il condomino ha diritto di accedere alla documentazione contabile in vista della consapevole partecipazione all'assemblea condominiale e che a tale diritto corrisponde l'onere dell'amministratore di predisporre un'organizzazione, sia pur minima, che consenta di venire incontro in maniera efficace alle richieste dei proprietari. In caso contrario, secondo i giudici di legittimità, la delibera assembleare può essere annullata ove tempestivamente impugnata.
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Le richieste non devono ostacolare l'attività.
Le attribuzioni dell'amministratore consistono sostanzialmente nel dare esecuzione alle delibere assembleari e nel fare rispettare il regolamento di condominio, comminando ammonizioni o sanzioni e, se necessario, promuovendo, nei confronti dei singoli condomini, azioni giudiziarie: per queste attività l'amministratore, essendo un puro esecutore, non ha facoltà discrezionali bensì precisi doveri. Quest'ultimo dispone invece di maggior autonomia nel disciplinare l'uso delle cose comuni e la prestazione dei servizi nell'interesse comune, in modo che ne sia assicurato il migliore godimento a tutti i condomini. L'amministratore deve inoltre riscuotere i contributi sulla base del preventivo e dello stato di ripartizione approvati dall'assemblea.
Una volta in possesso dei fondi, deve provvedere alla manutenzione ordinaria delle parti condominiali e all'efficienza dei servizi comuni: per le spese che eccedono l'ordinaria amministrazione è necessaria, invece, una delibera assembleare che le autorizzi. Tuttavia può, di sua iniziativa, ordinare opere di manutenzione straordinaria che abbiano carattere d'urgenza, fermo restando l'obbligo di riferirne alla prima assemblea. L'amministratore del condominio ha, tra gli altri, anche il compito di porre in essere gli atti conservativi, tra i quali rientrano anche le azioni possessorie, dei diritti inerenti alle parti comuni dell'edificio.
Nell'ambito di tale attribuzione ha la rappresentanza dei partecipanti al condominio e può agire in giudizio, richiedendo le necessarie misure cautelari e il risarcimento dei danni conseguenti, sia contro i condomini sia contro i terzi. Fra le incombenze dell'amministratore vi è, infine, quella di rendere, alla fine di ciascun anno, conto della propria gestione, fornendo tutte le cifre e la documentazione relativa e consentendo i controlli che, per diritto, spettano ai condomini.
Si noti che i condomini possono visionare i documenti senza la necessità di specificare la ragione per cui vogliono prendere visione o estrarre copia degli stessi: spetta semmai all'amministratore dedurre e dimostrare l'insussistenza di qualsivoglia interesse effettivo in capo ai condomini, perché i documenti personalmente non li riguardano, ovvero l'esistenza di motivi futili o inconsistenti e comunque contrari alla correttezza.
Tuttavia il condomino che vuole visionare e fotocopiare i documenti contabili deve rispettare alcune regole. In particolare la vigilanza e il controllo non devono intralciare l'attività dell'amministratore e, quindi, è necessario concordare con lo stesso il giorno e l'ora per la visione dei documenti (articolo ItaliaOggi Sette del 24.10.2011).

CONDOMINIO: Documenti condominiali, visura sì ma con ordine.
La Suprema Corte ha ribadito ancora una volta il principio per cui
ciascun comproprietario ha la facoltà di richiedere e ottenere dall'amministratore del condominio l'esibizione dei documenti contabili in qualsiasi tempo, senza l'onere di specificare le ragioni della richiesta, purché l'esercizio di tale facoltà non risulti di ostacolo all'attività di amministrazione, non sia contraria ai principi di correttezza e non si risolva in un onere economico per il condominio. Affinché tale diritto sia esercitabile ed effettivo incombe sull'amministratore l'onere di predisporre un'organizzazione minima e di rendere informati tutti i condomini di tale organizzazione.
L’orientamento della giurisprudenza, ormai abbastanza risalente nel tempo, secondo il quale la documentazione condominiale doveva essere posta a disposizione dei condomini dall’amministratore soltanto in sede di assemblea per l’approvazione del rendiconto e, comunque, tale omissione poteva rilevare soltanto come inadempimento dell’amministratore medesimo senza influire in alcun modo sulla validità della delibera condominiale di approvazione è radicalmente mutato a partire dalla sentenza della Cassazione n. 8460/1998, cui si sono succedute numerose pronunce, sia di legittimità che di merito, fino alla recentissima sentenza 21.09.2011 n. 19210 della Corte di Cassazione, Sez. civile.
Il revirement della giurisprudenza degli ermellini è stato determinato da un’attenta riflessione sul rapporto tra amministratore e assemblea e dall’applicazione a esso delle norme sul mandato.
Il rapporto tra l'amministratore e i condomini, infatti, è sussumibile nello schema del mandato con rappresentanza, anche se si connota per alcuni aspetti peculiari determinati normativamente quali l'obbligatorietà della nomina, il contenuto e gli effetti, tanto che si parla di mandato ex lege.
Dalla disciplina predisposta dal legislatore per amministrare le cose comuni si desume il rapporto particolare intercorrente tra l'amministratore (mandatario) e i singoli condomini (mandanti), così che potranno applicarsi a esso soltanto le norme sul mandato compatibili.
Alla luce di tanto si deve valutare se il potere dei condomini di vigilare e di controllare in ogni tempo la gestione dell'amministratore, potere che spetta al mandante nei confronti del mandatario ex art. 1713 c.c., è conciliabile con il rapporto di amministrazione delineato dalla legge.
La risposta è sicuramente positiva soprattutto avuto riguardo alla circostanza che l'amministratore, per ragioni del suo ufficio, detiene i registri e i documenti contabili afferenti alla gestione e riguardanti gli stessi condomini e, pertanto, non vi è alcuna ragione giustificatrice alla limitazione di tali poteri, sempre che la vigilanza ed il controllo non si risolvano in un intralcio all'amministrazione, non siano contrari al principio della correttezza, che deve stare alla base dei rapporti interpersonali (art. 1175 cod. civ.), e non creino aggravi di costi del condominio. Non è neppure necessario che i condomini specifichino la ragione per cui vogliono prendere visione o estrarre copia dei documenti, rimanendo onere dell’amministratore dimostrare la contrarietà alla correttezza o l’intralcio alla gestione condominiale di tali richieste.
Le motivazioni alla base del rifiuto dell’amministratore devono essere analizzate con particolare rigore in quanto il diniego di visionare tali documenti non si concreta in un semplice inadempimento dell’amministratore ma può avere effettive conseguenze sulle decisioni assembleari: infatti non avendo il condomino una conoscenza completa dei documenti, non potrà esprimere a pieno il suo parere e non potrà influenzare l’orientamento degli altri condomini. Pertanto, la violazione di tale diritto determina l’annullabilità della delibera approvata, in quanto risulta viziato il procedimento di formazione della volontà assembleare (Cass. 15159/2001, Cass. 13350/2003, Cass. 1544/2004, Cass. 12650/2008).
Spetterà, quindi, all’amministratore rifiutare soltanto quelle richieste che palesemente e ictu oculi contrastano con la corretta e funzionale gestione condominiale o con il principio di correttezza, gravando su di lui –e quindi sul condominio– la prova di siffatti caratteri della richiesta e non essendo all’uopo sufficienti meri e/o generici richiami all’intralcio all’attività di amministrazione, soprattutto quando la richiesta è finalizzata all’esame di documenti inerenti agli argomenti inseriti nell’ordine del giorno dell’adunanza e, pertanto, è rivolta ad assicurare una partecipazione consapevole all’assemblea.
Né legittima il rifiuto dell’amministratore il mero riferimento a orari e modalità contrari ai principi di correttezza e buona fede: è compito dell’amministratore, infatti, predisporre un’organizzazione che permetta di conciliare la propria attività, soprattutto nel caso in cui gestisca un numero elevato di condòmini, con il rispetto dei diritti dei singoli condomini, nonché di portare a conoscenza di tutti tale suo modello organizzativo: rimanendo, comunque, a suo carico l’onere di dimostrare l’impossibilità di dar seguito alla richiesta a causa della non compatibilità di essa con le modalità già previamente indicate e comunicate (commento tratto da www.ipsoa.it).

CONDOMINIO: L'amministratore non può rifiutarsi di consegnare i conti.
Se il condomino chiede all'amministratore di visionare o estrarre copia dei documenti contabili, non è tenuto a specificare le sue ragioni.

La richiesta, infatti, secondo la sentenza 21.09.2011 n. 19210 della Corte di Cassazione, può essere avanzata sempre e non soltanto in sede di rendiconto annuale e di approvazione del bilancio da parte dell'assemblea.
L'unico punto di attenzione è che l'esercizio di tale facoltà non ostacoli l'attività di amministrazione e non si presenti come contraria ai principi di correttezza risolvendosi in un peso economico per il condominio (in tal caso i costi dell'operazione gravano solo su chi ha fatto la richiesta).
La Corte ha peraltro chiarito che il rifiuto di estrarre copia dei documenti contabili, laddove non sia dimostrata l'impossibilità di esaudire la richiesta perché pervenuta a poche ore dall'inizio della seduta, dà luogo all'annullamento della delibera eventualmente presa dall'assemblea (articolo ItaliaOggi Sette del 10.10.2011).

CONDOMINIOLa delibera assembleare va sempre rispettata.
La delibera assembleare va rispettata anche se illegittima e i condomini che intendono far valere le loro ragioni devono impugnarla nei modi e nei termini di legge. Ma fino alla sua eventuale dichiarazione d'invalidità, salvo ottenimento d'un provvedimento di sospensione, tutti gli interessati devono comunque rispettarla.
È quanto affermato dalla Corte di cassazione con la sentenza 06.10.2011 n. 20492.
La Suprema corte ha anche specificato che la citazione deve essere notificata all'amministratore del condominio in quanto legale rappresentante dei comproprietari in relazione alla gestione e conservazione delle parti comuni dell'edificio. Una specifica che non vale soltanto per il giudizio di primo grado ma anche per i successivi procedimenti d'appello e di legittimità.
In sostanza, il condomino, che nel caso di giudizio incentrato sull'impugnazione di una deliberazione assembleare intende proporre appello contro la sentenza di primo grado o ricorso per cassazione contro quella d'appello, deve sempre far notificare l'atto introduttivo del giudizio all'amministratore del condominio (articolo ItaliaOggi Sette del 07.11.2011).

CONDOMINIO: Sopraelevazione, solo il regolamento pattizio (e provato) può fermarla.
La Corte di Cassazione ha ribadito il principio in virtù del quale il diritto di sopraelevare nuovi piani o nuove fabbriche riconosciuto al proprietario dell'ultimo piano dell'edificio in condominio o del lastrico solare può essere limitato soltanto da un regolamento condominiale di natura contrattuale. Per cui assume fondamentale importanza la dimostrazione, in corso di giudizio, di tale natura che non può essere desunta soltanto dal fatto che il regolamento sia richiamato e accettato o allegato all'atto di compravendita.
La vicenda all’attenzione della Corte di Cassazione con la pronuncia in esame trae origine dall’azione giudiziaria intrapresa da parte di un condominio per l’abbattimento un manufatto costruito ad opera di un condomino sul lastrico solare di sua proprietà pur in presenza di un regolamento condominiale che vietava espressamente ogni tipo di sopraelevazione sulla copertura del fabbricato.
Sia la Corte territoriale che i Giudici di appello avevano accolto l’istanza del condominio di ripristino dello status quo ante sul presupposto dell’accettazione di tale regolamento da parte del condomino in virtù del richiamo contenuto nell’atto di acquisto dell’appartamento.
Contro la statuizione di secondo grado, il condomino proponeva ricorso in cassazione assumendo che soltanto un regolamento contrattuale avrebbe potuto limitare il diritto di sopraelevare riconosciuto dalla legge e, nel caso in concreto, non era stata fornita la prova della sua natura negoziale.
Orbene, l’art. 1127 c.c. riconosce il diritto di costruire nuovi piani o nuove fabbriche al proprietario dell'ultimo piano dell'edificio e al proprietario esclusivo del lastrico solare, salvo che ciò comporti compromissioni delle condizioni statiche o dell’aspetto architettonico dell’edificio o limiti notevolmente l’aria e la luce ai piani sottostanti e salvo che risulti altrimenti da un titolo e cioè da un negozio giuridico pattizio.
E’ questa l’unica deroga normativa, accanto alle due pattizie costituite dal diritto di superficie e dalla proprietà superficiaria, al principio dell'automatico acquisto della proprietà della costruzione e di tutto ciò che venga comunque stabilmente unito al suolo da parte del proprietario di questi: tale eccezione trova la sua giustificazione nel c.d. “regime dualistico” caratterizzante gli edifici in condominio e consistente nella contemporanea presenza di unità immobiliari di proprietà esclusiva e di cose, impianti e servizi di proprietà di tutti i partecipanti.
In esso, infatti, sul suolo, che è di proprietà comune e pro indiviso tra tutti i condomini ai sensi dell’art. 1117 c.c., salvo che risulti diversamente dai titoli di proprietà, vengono realizzate le porzioni immobiliari di proprietà esclusiva, una sopra l’altra, e, quindi, la costituzione di una proprietà superficiaria in favore del proprietario di quella realizzata al di sopra delle preesistenti.
Ciò comporta che il diritto di superficie viene necessariamente a spostarsi verso l'alto, fino all’ultimo piano o al lastrico solare, con la conseguente accessione all’ultimo piano o al lastrico solare di quanto realizzato al di sopra.
Pertanto soltanto il proprietario dell'ultimo piano -e non anche il proprietario di uno dei piani sottostanti- è proprietario anche delle costruzioni realizzate sopra l'ultimo piano.
Di conseguenza nel caso in cui l'ultimo piano sia composto da più unità immobiliari appartenenti a soggetti diversi, ciascuno di questi ha facoltà di sopraelevare relativamente alla proiezione verticale della sola porzione che gli appartiene; viceversa nel caso in cui la proprietà dell'ultimo piano appartenga in comune pro-indiviso a più soggetti, è necessario il consenso unanime di tutti i comproprietari all’edificazione (Cass. S.U. 30.07.2007 n. 16794).
A fronte di tale diritto, però, l'art. 1127 cod. civ. pone a carico del condomino che realizza la sopraelevazione l'obbligo di corrispondere agli altri condomini una indennità, la cui misura è stabilita nel quarto comma del medesimo articolo, per compensare la riduzione del valore delle quote di pertinenza degli altri condomini sulla comproprietà del suolo comune conseguente alla sopraelevazione realizzata da uno di essi e dall'acquisto, da parte di quest'ultimo, della relativa proprietà.
In giurisprudenza si era creata una difformità sul concetto di “nuovo piano o nuova fabbrica”, ormai superata con l’intervento delle Sezioni Unite della Suprema Corte che ha ribadito il concetto che “qualsiasi costruzione oltre l'ultimo piano dell'edificio realizza, in ogni caso, un nuovo piano od una nuova fabbrica indipendentemente dal rapporto con la precedente altezza dell'edificio stesso”.
Questo diritto riconosciuto dalla legge non può essere limitato o escluso da un regolamento di condominio adottato dall’assemblea: infatti, in applicazione dei principi generali del diritto, l’art. 1138 c.c., quarto comma, statuisce che le norme del regolamento non possono in alcun modo menomare i diritti di ciascun condomino.
Questi possono essere limitati o finanche esclusi soltanto da un titolo, intendendosi per tale l’insieme di tutti gli atti di acquisto di ogni singola unità immobiliare da cui risulti una tale clausola o un contratto, stipulato anche successivamente, fra tutti i condomini o, infine, un regolamento condominiale di natura contrattuale e cioè un regolamento approvato e sottoscritto da tutti i condomini: ciò avviene sia quando esso è stato predisposto dall’unico originario proprietario e allegato e accettato da ogni acquirente delle singole unità immobiliari o cui vi hanno aderito, anche fuori dalla sede assembleare, tutti i singoli condomini.
Tali regolamenti, da considerarsi veri e propri contratti, possono essere trascritti presso l’Agenzia del Territorio e, in tal modo, diventano opponibili nei confronti di tutti e anche dei successivi acquirenti degli immobili pur in assenza di un richiamo espresso nei rogiti notarili.
Ma, quand’anche non trascritti nei pubblici registri immobiliari, essi sono opponibili nei confronti dei successivi acquirenti se richiamati nei singoli atti d’acquisto della proprietà.
Ed è questo il thema decidendum della sentenza in esame: accertare se la clausola limitativa del diritto di sopraelevare contenuta nel regolamento di condominio richiamato e accettato, genericamente, nell’atto di acquisto dell’unità immobiliare è contenuta in un regolamento di condominio di natura assembleare o contrattuale.
Per quanto sopra detto, soltanto nel secondo caso è idonea a escludere il diritto di cui all’art. 1127 c.c..
Ebbene la Corte d’appello nella sentenza impugnata, pur in assenza della prova della natura del regolamento richiamato nell’atto di compravendita, ha fondato la propria decisione sull’apodittica affermazione della sua natura contrattuale, presumibilmente confondendo il concetto della conclusione del contratto con quello della sua opponibilità. In realtà il contratto plurilaterale si forma solo con l'incontro delle volontà di tutte e ciascuna delle parti interessate che, riguardando diritti reali immobiliari, devono necessariamente assumere la forma scritta e non può desumersi dal solo fatto che esso sia allegato ad un singolo atto di acquisto (Corte di Cassazione civile, sentenza 21.09.2011 n. 19209 - tratto da www.ipsoa.it).

CONDOMINIO: Il condominio ha nuove regole. Dall'uso delle parti comuni ai giardini privati, si cambia. Una guida per conoscere limiti e opportunità della vita condominiale, alla luce degli ultimi interventi.
Gli ultimi mesi sono stati caratterizzati da una serie di interventi giurisprudenziali in materia di parti comuni. Proviamo a vedere quali sono le principali problematiche sul tema e come vengono risolte.
Cambiare la destinazione d'uso delle parti comuni.
Tra le ultime novità in materia di condominio quella relativa alla possibilità di trasformare le parti comuni all'interno di un edificio. Come, ad esempio, destinare una parte del giardino condominiale in un parco giochi per bambini o in un parcheggio. Oppure trasformare l'ex portineria in un asilo nido, in una lavanderia o in un deposito per biciclette. Per poter procedere, però, in questi casi occorre tener conto di limiti e regole ben precisi. Infatti, le decisioni dell'assemblea devono rispettare il decoro architettonico, il regolamento condominiale e il diritto di tutti i proprietari a non essere danneggiati nella possibilità di utilizzare gli spazi comuni.
La sentenza 12.07.2011 n. 15319 della Cassazione si occupa proprio di uno di questi casi e stabilisce che è legittima la trasformazione di una parte del giardino condominiale in parcheggio purché decisa dall'assemblea con una delibera adottata a maggioranza. In generale, quindi, le delibere sulla destinazione d'uso delle parti comuni se intendono apportare una miglioria nel loro utilizzo, possono essere prese dalla maggioranza semplice, cioè degli intervenuti all'assemblea che devono rappresentare almeno 500 millesimi di proprietà.
Ad alcune condizioni, però. La prima che non si alteri il decoro dell'edificio. In secondo luogo, non va impedito l'uso della parte comune anche a un solo condomino. Infine, la modifica non deve essere esplicitamente vietata dal regolamento condominiale dotato di natura contrattuale.
Sulle parti comuni il plafond è limitato.
Un altro aspetto importante è quello messo in luce dall'Agenzia delle entrate, direzione Veneto, nel corso del convegno Anaci svoltosi a Padova il 04.07.2011, secondo cui se un condomino possiede più immobili all'interno dello stesso stabile, il limite massimo di spesa di 48 mila euro per gli interventi sulle parti comuni non va moltiplicato per il numero degli appartamenti. L'amministrazione finanziaria ha anche ribadito che l'importo massimo della spesa detraibile non va riferito solo all'abitazione, ma anche alle sue pertinenze unitariamente considerate.
Si tratta però di un principio che causa una disparità di trattamento tra la ristrutturazione delle pertinenze di abitazioni e gli interventi sulle parti comuni condominiali, considerati come un'agevolazione indipendente dai lavori di rinnovo della casa. In questo caso vi è un autonomo limite di spesa di 48 mila euro e questo beneficio fiscale si aggiunge a quello spettante per il singolo appartamento. Nel convegno è stata confermata questa impostazione.
In una fase successiva, però, i funzionari dell'Agenzia hanno sostenuto che, prendendo ad esempio un unico proprietario di un palazzo di quattro appartamenti, quest'ultimo può detrarre 48 mila euro per ogni appartamento accatastato più 48 mila euro per la manutenzione ordinaria delle parti comuni.
Una risposta che contrasta con la posizione ufficiale dell'Agenzia espressa nella risoluzione 25.01.2008, n. 19/E, secondo cui per i lavori sulle parti comuni dell'edificio è possibile usufruire di un tetto massimo di spesa di 48 mila euro, su cui calcolare la detrazione del 36%, per ogni singola abitazione.
Rumore nel condominio, non esiste un criterio predeterminato.
Un'altra principale fonte di discussione tra i condomini è rappresentata dai rumori prodotti dai vicini o dai loro animali o da impianti comuni. In questi casi, però, gli elementi relativi alle immissioni acustiche devono essere valutati in modo oggettivo e caso per caso. Infatti, anche se un condomino è particolarmente sensibile ai rumori, non può per questo automaticamente pretendere che nel proprio palazzo regni un silenzio assoluto.
Analogo discorso se, lavorando di notte e dormendo di giorno, viene disturbato dai rumori causati dalle faccende domestiche. I riferimenti in questo caso sono l'articolo 844 del Codice civile (Immissioni intollerabili) e gli eventuali regolamenti contrattuali. Infatti è compito di chi lamenta la violazione di queste norme provare la scorrettezza della condotta altrui. Recentemente la Cassazione, con la sentenza 11.02.2011 n. 3440, ha specificato infatti che il limite di tollerabilità non è assoluto, ma dipende dalla situazione ambientale e dalle caratteristiche della zona.
Di conseguenza tale limite è più basso nelle zone dove sono presenti degli insediamenti abitativi, ma è anche vero che la normale tollerabilità non può essere intesa come assenza assoluta di rumore. Quindi il fatto che un rumore venga percepito non significa anche che sia intollerabile.
Gatti liberi di girare, anche nel condominio.
Un'altra notizia recente in materia viene dal tribunale di Milano dove il giudice civile ha riconosciuto ai gatti senza padrone la possibilità di aggirarsi e nutrirsi nelle aree urbane, anche all'interno dei palazzi di proprietà. Un diritto stabilito dalla legge 281 del 1991, mai applicata prima. L'episodio che ha condotto alla storica sentenza riguarda una coppia di inquilini della periferia milanese che ha denunciato una vicina chiedendo esplicitamente la rimozione dal palazzo delle ciotole con cui abitualmente nutriva i gatti, l'allontanamento dei felini dall'abitazione e un risarcimento per danni morali a tutti i condomini.
Il giudice però ha deciso di legittimare l'esistenza di colonie feline, in base alla convinzione che i gatti sono animali socializzanti e che non possono essere definiti randagi, come invece accade per i cani. Un precedente importante, quindi, per tutti coloro che pensavano di essere legittimati a cacciare questi animali da condomini e giardini (articolo ItaliaOggi Sette del 29.08.2011).

CONDOMINIO: Lastrico solare, quando è parte comune.
In tema di condominio, per qualificare un lastrico solare come parte comune, ai sensi dell'art. 1117, n. 1, cod. civ., è necessaria la sussistenza di connotati strutturali e funzionali comportanti la materiale destinazione del bene al servizio o al godimento di più unità immobiliari appartenenti in proprietà esclusiva a diversi proprietari.
Deve pertanto escludersi la presunzione di comunione di un lastrico solare che, nel contesto di un edificio costituito da più unità immobiliari autonome, disposte a schiera, assolva unicamente alla funzione di copertura di una sola delle stesse e non anche di altri elementi, eventualmente comuni, presenti nel c.d. “condominio orizzontale”.
Lo ha stabilito la Cassazione (sentenza n. 22466/2010, inedita) (articolo ItaliaOggi del 24.08.2011).
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Nelle villette a schiera la copertura è privata.
Nel condominio «orizzontale», come le villette a schiera, il lastrico solare non sempre è parte comune.

Lo spiega la Cassazione (sentenza n. 22466/2010) partendo dalla nozione di condominio in senso proprio, che è configurabile non solo nell'ipotesi di fabbricati che si estendono in senso verticale, ma anche nel caso di costruzioni adiacenti orizzontalmente.
Esempio tipico sono le villette a schiera, in quanto dotate di manufatti portanti e impianti essenziali comuni. Anche nell'ambito di tali complessi condominiali vi sono dei beni o degli spazi che, per le loro caratteristiche strutturali e funzionali, devono necessariamente considerarsi di proprietà di tutti i condomini. Queste entità trovano un'elencazione abbastanza esaustiva nell'articolo 1117 del codice civile, dal cui testo se ne possono desumere in modo chiaro tanto la tipologia quanto la funzionalità. Tale norma non prevede però una presunzione legale di comunione delle cose in essa elencate, ma dispone l'esclusione dal novero dei beni comuni di quelli che, per caratteristiche proprie, servono soltanto all'uso e al godimento di una parte dell'immobile.
L'aspetto strutturale e il ruolo funzionale del bene sono quindi prioritari rispetto all'accertamento del suo effettivo status giuridico, nel senso che il bene, in mancanza di diverso titolo, deve ritenersi comune quando, ancorché suscettibile di utilizzazione autonoma e nel l'esclusivo interesse di un singolo o di un ristretto gruppo di privati, serva, per le sue specifiche caratteristiche, al godimento di tutte le singole parti dell'edificio e dei condomini che in esse abitano (così Cassazione, sentenza 6981/2008). Soltanto a tali condizioni può ritenersi sussistere il carattere di condominialità, superabile con una diversa previsione contenuta nel regolamento contrattuale o in un singolo atto di acquisito titolo oppure derivante anche dall'usucapione.
Sulla base di tale principio la Suprema corte, con la sentenza n. 22466/2010, riferendosi a un complesso condominiale costituito da più unità immobiliari autonome disposte a schiera, ha stabilito che «il lastrico solare che assolve alla funzione di copertura di una sola delle stesse, e non anche di altri elementi eventualmente comuni presenti del cosiddetto orizzontale, né sia caratterizzato da unitarietà strutturale, né da altri connotati costruttivi e funzionali tali da denotare la destinazione complessiva delle aree sovrastanti, i vari immobili costituenti nel loro insieme un unicum a servizio e godimento comune» non rientra tra i beni di cui all'articolo 1117, n. 1, del codice civile, non potendo qualificarsi come comune a tutti i partecipanti al condominio.
La sentenza ha posto così fine a un lungo contenzioso che era sorto in ordine alle sopraelevazioni successivamente eseguite dal costruttore dell'intero complesso immobiliare su tutti i lastrici solari che, seppure con struttura indipendente, andavano a coprire i sottostanti autonomi corpi di fabbrica posizionati a schiera: il tutto in forza della proprietà che egli, nell'alienare le singole costruzioni, si era riservato sui lastrici stessi, unitamente al relativo diritto di sopralzo. Tale diritto, soggetto a trascrizione ex articolo 2645 del codice civile, non risultava essere però opponibile a uno degli acquirenti in quanto non menzionato nell'atto traslativo posto in essere in suo favore.
Esclusa la configurabilità di bene comune dei lastrici in questione in quanto destinati a copertura dei soli singoli fabbricati, la Cassazione ha accolto il ricorso proposto da costui, dichiarandolo proprietario esclusivo del lastrico solare sovrastante la sua unità immobiliare, rinviando al giudice di secondo grado per le decisioni inerenti anche la totale rimozione della sopraelevazione nel contempo eseguita.
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La lista.
Rientrano in comunione: suolo su cui sorge l'edificio, fondazioni, muri maestri, tetti e lastrici solari, scale, portoni d'ingresso, vestiboli, anditi, portici, cortili e in genere tutte le parti dell'edificio necessarie all'uso comune.
Secondo il codice civile sono oggetto di proprietà comune anche i locali per la portineria e per l'alloggio del portiere, per la lavanderia, per il riscaldamento centrale, per gli stenditoi e per altri simili servizi in comune.
Opere, installazioni, manufatti che servono all'uso e al godimento comune (ascensori, pozzi, cisterne, acquedotti, fognature, canali di scarico, impianti per l'acqua, il gas, l'energia elettrica, il riscaldamento e simili) (commento tratto da www.ilsole24ore.com).

CONDOMINIOStop ai danni immaginari. Lavori in casa, la tranquillità non è un diritto. La Cassazione dichiara non meritevoli di risarcimento disagi, fastidi e ansie.
La tranquillità in casa è «sacrosanta». Ma secondo la Cassazione è un diritto «immaginario», perciò non risarcibile. In particolare se nel condomino si intraprendono lavori lunghi e fastidiosi, disturbando con immissioni sonore continue le altre famiglie, non si è tenuti a risarcire loro il danno non patrimoniale.
Lo ha stabilito la Corte di cassazione che, con la sentenza 19.08.2011 n. 17427, ha accolto il ricorso di una coppia di Milano che ha impiegato molti mesi per ristrutturare il suo appartamento, provocando così fastidiose immissioni sonore e di polveri. Per questo motivo i dirimpettai hanno citato in causa la coppia chiedendo, oltre ai danni patrimoniali, anche quelli morali, biologici ed esistenziali. I lavori inoltre hanno causato anche gravi danni al piano di calpestio dell'intero locale prospiciente il cortile del fabbricato.
Il Tribunale meneghino ha accolto l'istanza sia sul fronte del danno morale sia sul fronte di quello patrimoniale, liquidando 35 mila euro. La Corte d'appello ha confermato il verdetto, riducendo tuttavia la misura del risarcimento a 23 mila euro, fra danni morali, alla serenità familiare e biologici. Ma il verdetto è stato ribaltato dalla terza sezione civile della Cassazione. La Suprema corte infatti, seguendo quel filone giurisprudenziale che ha cancellato il danno esistenziale come figura autonoma, ha bocciato i cosiddetti danni «immaginari», come quello alla serenità familiare.
Il danno non patrimoniale, motivano i Consiglieri, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno conseguenza, che deve essere allegato e provato. In tal caso non si può parlare di danno evento nel senso che il pregiudizio non si verifica per il solo fatto che i lavori siano stati fastidiosi ma vanno accertate le effettive sofferenze patite dagli altri condomini.
Insomma, spiega la Corte, «il danno biologico ha portata tendenzialmente onnicomprensiva, in quanto il cosiddetto danno alla vita di relazione ed i pregiudizi di tipo esistenziale concernenti aspetti relazionali della vita, conseguenti a lesioni dell'integrità psicofisica, possono costituire solo voci del danno biologico, mentre sono da ritenersi non meritevoli dalla tutela risarcitoria, quei pregiudizi che consistono in disagi, fastidi, disappunti, ansie e in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana né possono qualificarsi come diritti risarcibili diritti del tutto immaginari, come il diritto alla qualità della vita, allo stato di benessere, alla serenità. Al di fuori dei casi determinati dalla legge ordinaria, solo la lesione di un diritto inviolabile della persona concretamente individuato è fonte di responsabilità risarcitoria non patrimoniale».
Nell'udienza, tenutasi lo scorso 12 maggio, la Procura generale aveva sollecitato una soluzione opposta e cioè la conferma del risarcimento di tutti i danni (articolo ItaliaOggi dell'08.09.2011).

CONDOMINIOIl danno al decoro deve tenere il passo coi tempi.
Ciò che è stato considerato lesivo ieri del decoro architettonico dell'edificio può non esserlo oggi, visto che nel tempo cambiano i gusti e, con essi, il senso estetico comune.
A stabilirlo è la sentenza 19.08.2011 n. 1038 da parte del giudice di pace di Grosseto.
Nello specifico, in riferimento al caso di affissione di un condizionatore sulla facciata di un condominio, il magistrato toscano ha affermato che «le nuove invenzioni, quali la televisione e il telefono, ormai di uso comune, hanno modificato il comune senso dell'estetica e del decoro: le antenne televisive installate sui tetti, le parabole satellitari, sporgenti dai muri, gli stessi impianti di climatizzazione, sempre più numerosi, non vengono più percepiti come causa di deturpazione dell'estetica delle abitazioni e, più in generale, dell'ambiente».
Per questo, nel caso preso in esame non sussiste, quindi, un danno al decoro dell'immobile condominiale, non più di quanto possa arrecare fastidio la vista di panni stesi alle finestre delle singole abitazioni o ai muri condominiali (articolo ItaliaOggi Sette del 07.11.2011).

CONDOMINIODifesa degli spazi comuni, ampi poteri per l'amministratore.
L'amministratore del condominio non ha bisogno dell'investitura dell'assemblea per convenire in giudizio il costruttore che ha occupato abusivamente una porzione di bene comune e il successivo acquirente del manufatto edificato che «usurpa» l'area condominiale.
Lo ha sancito la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 25.07.2011 n. 16230.
Il caso. La vicenda riguarda un costruttore che aveva ricavato da un seminterrato un ampio magazzino, il cui tetto invadeva il giardino condominiale sottraendo spazio all'area di proprietà comune. L'amministratore, senza essere formalmente investito dall'assemblea del potere di agire in giudizio, aveva fatto causa all'impresa edile.
Il tribunale e la Corte d'appello avevano respinto l'istanza sostenendo che l'uomo non possedeva la legitimatio ad causam. Contro questa decisione lui ha presentato ricorso in Cassazione. La seconda sezione civile lo ha accolto.
Le motivazioni. Gli Ermellini hanno bocciato la sentenza di merito secondo la quale l'amministratore non avrebbe avuto la legittimazione necessaria a proporre l'azione per la riduzione in pristino dei luoghi e il risarcimento dei danni a carico del costruttore e dell'avente causa di quest'ultimo.
Insomma: l'amministratore risulta pienamente legittimato ad agire in giudizio sulla base del combinato disposto delle norme di cui agli articoli 1130 e 1131, che gli conferiscono la facoltà di agire a tutela delle parti comuni. E infatti l'amministratore si rivolge al giudice per ristabilire l'integrità del giardino, stravolta dal manufatto realizzato dal costruttore. Né all'acquirente del cespite giova eccepire che ignorava la natura abusiva della costruzione: può soltanto dolersi dell'evizione nei confronti del suo dante causa. Sarà allora il giudice del rinvio a fare definitivamente chiarezza.
L'amministratore può scrivere all'avvocato per far rimuovere opere non autorizzate. Si incardina perfettamente nella giurisprudenza che ha esteso i poteri degli amministratori di condominio la sentenza 10347 depositata dalla Corte di cassazione a maggio di quest'anno e secondo cui è legittima la lettere scritta a un legale dal vertice del condominio, anche dalle tinte colorite, per far rimuovere un'opera non autorizzata.
In particolare in quell'occasione l'uomo aveva chiesto che fosse rimossa una targa di un avvocato perché deturpava l'estetica dello stabile. Secondo gli Ermellini si è trattato di un'attività legittima. Ciò perché, si legge in sentenza, «qualora l'amministratore di condominio si rivolga a uno dei condomini sollecitandogli il rispetto delle leggi o del regolamento vigenti, non è configurabile atto di turbativa del diritto qualora egli abbia agito, secondo ragionevole interpretazione, nell'ambito dei poteri-doveri di cui agli artt. 1130 e 1133 c.c.».
I vecchi crediti del condominio possono essere richiesti dal nuovo amministratore solo con l'autorizzazione dell'assemblea.
Con la sentenza 279 depositata dalla Cassazione alla fine di gennaio è stato affermato un interessante principio che, questa volta, limita i poteri dell'amministratore. In particolare secondo Piazza Cavour, «deve essere dichiarata l'inammissibilità del ricorso per cassazione proposto dall'amministratore del condominio, senza la preventiva autorizzazione assembleare, eventualmente richiesta anche in via di ratifica del suo operato, in ordine a una controversia riguardante i crediti contestati dal precedente amministratore revocato, in quanto non rientrante tra quelle per le quali l'organo amministrativo è autonomamente legittimato ad agire ai sensi dell'art. 1130 e 1131, primo comma cod. civ.
Né può essere concesso il termine per la regolarizzazione ai sensi dell'art. 182 cod. proc. civ., ove, come nella specie, l'udienza di discussione, in precedenza fissata, sia stata differita proprio sul rilievo della pendenza della questione dei poteri dell'amministratore all'esame delle sezioni unite della Corte di cassazione e la decisione di quest'ultima sia intervenuta ben prima della nuova udienza
» (articolo ItaliaOggi del 22.08.2011).

CONDOMINIOCondominio, stop all'abuso.
L'amministratore può intimare la fine delle violazioni al regolamento - IL CASO - Un avvocato era stato sollecitato dall'amministratore a togliere dall'androne la targa dello studio.
L'emissione dei provvedimenti da parte dell'amministratore di condominio, soprattutto se finalizzati a far cessare le trasgressioni al regolamento, non richiede una delibera ad hoc. L'amministratore, anche quando vi siano incertezze o dubbi interpretativi, può adottare provvedimenti obbligatori per il condominio (articolo 1133 del Codice civile) contro i quali il condomino può ricorrere all'assemblea o proporre direttamente impugnativa ex articolo 1137. Inoltre, questi provvedimenti sono atti autoritativi, contenenti manifestazione di volontà e per essere tali, devono avere portata precettiva, il che richiede anche la fissazione di un termine per adempiere, restando altrimenti meri pareri e non esercizio di poteri legittimamente attribuiti all'amministratore.
L'obbligatorietà non significa però esecutività, dal momento che contro tali provvedimenti è ammesso il ricorso all'assemblea senza pregiudizio del ricorso all'autorità giudiziaria.

Nella sentenza n. 13689/2011 la Cassazione ha affrontato il caso di un amministratore che, con apposita lettera (sollecitata dai condomini), aveva chiesto a un condomino-avvocato di rimuovere una targa professionale apposta, in violazione del regolamento, nel vano antistante il portone, e a sostituire la lastra di marmo così danneggiata.
La targa veniva asportata da ignoti, contro i quali l'avvocato sporgeva denuncia per furto e veniva riposizionata; lo stesso agiva in giudizio contro il condominio e contro l'amministratore in proprio, chiedendo, tra l'altro, la nullità del provvedimento perché adottato in eccesso di potere e la condanna dei convenuti al risarcimento dei danni.
Il tribunale rigettava le domande mentre l'appello degli attori veniva accolto dalla corte secondo la quale «l'amministratore avrebbe potuto dar seguito alla sollecitazione raccolta nel verbale di assemblea solo prudentemente» e con una lettera contenente una «mera segnalazione del problema costituito dalla collocazione della targa in luogo ritenuto non consentito».
Una lettera di «chiaro contenuto precettivo», trasmessa in forma di raccomandata e con determinazione di un tempo (dieci giorni) per l'adempimento, costituirebbe atto illecito con conseguente responsabilità dell'amministratore (sia perché l'emissione non era stata autorizzata dall'assemblea sia perché, anche qualora l'autorizzazione vi fosse stata, l'amministratore avrebbe dovuto comunque prudentemente valutare l'illiceità delle iniziative affidategli dall'assemblea, rifiutandosi, se del caso, di darvi seguito).
Tale prospettazione non è stata condivisa dalla Cassazione che ha precisato che la corte di merito aveva sostanzialmente vanificato il potere dell'amministratore, per la cui esplicazione non è necessaria una preventiva delibera assembleare; aveva trascurato di considerare che, comunque, l'iniziativa era legittimata dal dovere di curare l'osservanza del regolamento e che, al fine di attivarsi per far cessare gli abusi del condomino, l'amministratore condominiale non necessita di alcuna previa delibera condominiale, posto che egli è tenuto ex lege a curare l'osservanza del regolamento di condominio al fine di tutelare l'interesse generale al decoro, alla tranquillità e all'abitabilità dell'edificio (Cassazione, sentenza 14735/2006).
Va quindi escluso che l'iniziativa dell'amministratore costituisse iniziativa negligente, estranea alla funzione ricoperta e al rapporto organico con il condominio, al quale restava imputabile l'atto di difesa del regolamento.
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Così il Codice civile.
Articolo 1133
I provvedimenti presi dall'amministratore sono obbligatori per i condomini. Contro tali provvedimenti è ammesso ricorso all'assemblea, senza pregiudizio del ricorso all'autorità giudiziaria nei casi e nel termine previsti dall'articolo 1137.
Articolo 1137

Contro le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio ogni condomino dissenziente può fare ricorso all'autorità giudiziaria, ma il ricorso non sospende l'esecuzione del provvedimento, salvo che la sospensione sia ordinata dall'autorità stessa.
Il ricorso deve essere proposto entro 30 giorni, che decorrono dalla data della deliberazione per i dissenzienti e dalla data di comunicazione per gli assenti
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.07.2011).

CONDOMINIOInfiltrazioni? Paghi metà danno. Spese da dividere quando il solaio dei box è via d'accesso. Una sentenza della Cassazione ridisegna la ripartizione dei lavori di ripristino tra condomini.
Per le infiltrazioni d'acqua nel box il proprietario del cortile sovrastante paga la metà delle spese. Non un terzo come avviene in caso di lastrico tradizionale.
È il nuovo principio affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza 19.07.2011 n. 15841, che accoglie il ricorso della proprietaria di un box auto interessato da infiltrazioni d'acqua provenienti dal terrazzo-cortile sovrastante.
Il caso. A patire le conseguenze dannose dell'umidità è uno dei box sottostanti al cortile di proprietà esclusiva di una società. Non si tratta, tuttavia, di un lastrico tradizionale. Oltre a svolgere la funzione di copertura delle autorimesse, l'area è utilizzata anche come via d'accesso all'edificio condominiale e vi passano le auto per fare manovra. Ed è chiaro che l'usura della pavimentazione è dovuta all'insieme delle attività, motivo per cui sarebbe illogico accollare ai proprietari dei box sottostanti solo un terzo delle spese necessarie alla riparazione.
Scatta così l'interpretazione analogica dell'articolo 1125 cc, che divide gli esborsi a metà fra proprietario del piano superiore e quello del piano inferiore. Al primo le riparazioni del pavimento, al secondo l'intonaco. L'applicazione del principio di diritto, spiegano i giudici, non è ostacolata dalla circostanza che il cortile, seppure di uso comune, sia di proprietà singolare. Sarà il giudice del rinvio a mettere la parola «fine» all'intricata vicenda (articolo ItaliaOggi Sette del 05.09.2011).

CONDOMINIOMeglio non scivolare sulle scale. Il condominio non risarcisce chi si infortuna sulla rampa. Lo ha stabilito la Corte di cassazione. Bisogna provare il nesso fra incidente e sporcizia.
Non ha diritto al risarcimento del danno da parte del condominio chi cade e si infortuna sulle scale condominiali anche se sporche di residui di cibo.
Insomma, ha affermato la Corte di Cassazione con la sentenza 13.07.2011 n. 15390, il condominio si salva in corner quando, pur essendo la scala unta e scivolosa, l'infortunato non riesce a provare il nesso causale fra i residui alimentari e l'incidente.
Il caso. È successo in uno stabile a Roma. Un'inquilina era caduta sulle scale sporche di residui di cibo, unte, aveva sostenuto. Insomma quel piano non era stato pulito. Nell'incidente la signora aveva riportato delle ferite e quindi dei danni. Per questo si era rivolta al tribunale della Capitale che, però, le aveva negato il risarcimento. Contro questa decisione la donna ha proposto appello.
I giudici territoriali hanno respinto l'istanza confermando integralmente il verdetto di primo grado. Ora la Cassazione, alla quale la donna si è rivolta insistendo sulle pessime condizioni della scala, ha reso definitiva la decisione presa con una doppia conferma dai magistrati romani. Senza la prova del nesso causale, ha sancito Piazza Cavour, niente risarcimento.
Le motivazioni. Nell'ambito della responsabilità ex articolo 2051 del codice civile è il danneggiato a essere onerato della prova del nesso di causalità fra la cosa in custodia e l'evento pregiudizievole. Secondo l'infortunata la caduta sarebbe avvenuta solo perché le scale risultavano sdrucciolevoli a causa degli scarti alimentari abbandonati sui gradini, ma manca la dimostrazione certa che la caduta sia effettivamente riconducibile alla sporcizia delle scale. Inutile discutere oltre, dicono gli Ermellini, nonostante la procura generale della Suprema corte abbia concluso per l'accoglimento del ricorso della donna. Che, oltre il danno la beffa, paga anche le spese processuali.
Muore per una caduta sulle scale di un negozio: niente risarcimento ai familiari. Una posizione dello stesso segno è stata assunta dalla Corte di cassazione (sentenza 8005 del 2010) anche nel caso di morte dell'infortunato. In particolare l'uomo era scivolato sulle scale di un negozio di elettrodomestici, secondo la difesa sdrucciolevoli. In seguito all'incidente aveva riportato delle lesioni gravissime e poi era deceduto. I parenti avevano fatto causa al proprietario dell'attività per ottenere il risarcimento del danno. Il tribunale e la Corte d'appello avevano respinto l'istanza.
La decisione è stata confermata dalla Cassazione che, valutati esaurientemente tutti gli elementi del caso concreto, ha ritenuto insussistente la responsabilità ex art. 2051 cod. civ. del titolare dell'esercizio commerciale, per non aver gli attori provato che la morte del proprio congiunto era stata conseguenza normale della particolare anzidetta condizione del locale ove era accaduto il sinistro.
In sostanza secondo gli Ermellini «la responsabilità prevista dall'art. 2051 cod. civ. per i danni cagionati da cose in custodia presuppone la sussistenza di un rapporto di custodia della cosa e una relazione di fatto tra un soggetto e la cosa stessa, tale da consentire il potere di controllarla, di eliminare le situazioni di pericolo che siano insorte e di escludere i terzi dal contatto con la cosa; detta norma non dispensa il danneggiato dall'onere di provare il nesso causale tra cosa in custodia e danno, ossia di dimostrare che l'evento si è prodotto come conseguenza normale della particolare condizione, potenzialmente lesiva, posseduta dalla cosa, mentre resta a carico del custode offrire la prova contraria alla presunzione “iuris tantum” della sua responsabilità, mediante la dimostrazione positiva del caso fortuito, cioè del fatto estraneo alla sua sfera di custodia, avente impulso causale autonomo e carattere di imprevedibilità e di assoluta eccezionalità».
No al risarcimento all'inquilino derubato se i ladri entrano dai ponteggi del vicino. L'esame delle interpretazioni date all'articolo 2051 (responsabilità delle cose in custodia) dai giudici di merito e di legittimità mette in luce una certa difficoltà nell'ottenere il risarcimento del danno da parte del proprietario del bene.
La sentenza n. 7722 depositata dalla Cassazione ad aprile di quest'anno testimonia ancora una volta come, soprattutto in ambito condominiale, sia complicato ottenere il ristoro per il danno subito in seguito alla pessima manutenzione del bene del vicino. In particolare in questo caso la terza sezione civile ha respinto la richiesta di risarcimento avanzata dal proprietario di un appartamento che era stato derubato facilmente perché i ladri erano entrati dalle impalcature montate dal vicino per ristrutturare la casa.
Secondo il Collegio di legittimità, «nel caso di furto in appartamento che il derubato assume essere stato facilitato dalla mancata rimozione dei ponteggi per lavori edili da parte del suo vicino deve essere esclusa la presunzione di responsabilità che graverebbe sul custode: il criterio di imputazione di cui all'articolo 2051 c.c. comporta sì la responsabilità del custode per i danni cagionati dalla cosa (salvo che si provi il fortuito) ma non comporta affatto la presunzione di nesso causale fra la cosa e il danno, nesso che deve comunque essere provato dal danneggiato; ciò è certamente possibile tramite un procedimento di inferenza induttiva (presunzione), che risulta tuttavia inevitabilmente correlato all'apprezzamento delle circostanze concrete; valutazione che compete al giudice del merito e risulta infondatamente censurata sotto il profilo del vizio della motivazione laddove esclude il nesso causale fra le impalcature e il furto in relazione alla possibilità di tre diverse modalità di accesso alla casa svaligiata dai ladri» (articolo ItaliaOggi del 22.08.2011).

CONDOMINIO: COMUNIONE E CONDOMINIO - CONDOMINIO - INNOVAZIONI E MODIFICHE - Parti comuni - Assemblea - Delibera - Maggioranza - Legittimità - Condizioni.
La delibera assembleare di destinazione di aree condominiali scoperte in parte a parcheggio autovetture dei singoli condomini ed in parte a parco giochi ha ad oggetto un'innovazione diretta al miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento della cosa comune.
La deliberazione di destinazione a parcheggio di un cortile è diretta a disciplinare le modalità d'uso del detto bene comune, stabilendo, in entrambi i casi, la legittimità delle delibere adottate anche soltanto a maggioranza (Corte di Cassazione, Sez. VI, ordinanza 12.07.2011 n. 15319 - commento tratto da www.diritto24.ilsole24ore.com).

CONDOMINIO: Telecamere in un condominio? Dipende da dove puntano.
Il singolo condomino non può autonomamente installare un impianto di videosorveglianza che riprenda parti comuni dell'edificio, neppure a scopo di tutela della sua sicurezza, messa in pericolo da atti vandalici e/o tentativi di effrazione.
Così ha deciso il TRIBUNALE di Varese con l'ordinanza 16.06.2011 n. 1273, ritenendo che perché possa installarsi legittimamente detto impianto è necessario il consenso espresso di tutti i condòmini.
A seguito di alcuni tentativi di effrazione e di atti vandalici subiti, un condomino, di propria iniziativa, aveva fatto installare un impianto di videosorveglianza con tre telecamere: la prima montata sul pianerottolo del primo piano che inquadrava parzialmente la porta di ingresso di altri condòmini, la seconda che puntava sul portone di accesso al fabbricato e sul garage e l’ultima che riprendeva una vecchia serra. A tale iniziativa reagivano gli altri condòmini, sottoponendo al Tribunale di Varese la descritta situazione e chiedendo di dichiararne l’illegittimità con conseguente rimozione dell’impianto stesso, in via cautelare, sul presupposto che il sistema era destinato a riprendere immagini degli spazi comuni con conseguente violazione della privacy e della riservatezza dei condomini.
La questione giuridica affrontata concerne, in sostanza, la liceità del comportamento di un singolo condomino che, senza previa delibera assembleare, installi, al fine di tutelare la propria personale sicurezza, un impianto di videosorveglianza che riprenda anche aree condominiali comuni, con conseguente sacrificio del diritto alla riservatezza degli altri condomini e di terzi tutelato direttamente dall’art. 2 Cost..
E’ ormai orientamento consolidato che il siffatto comportamento, anche se assunto contro la volontà degli altri comproprietari, non integra il reato di interferenze illecite nella vita privata di cui all’art. 615-bis c.p. in quanto la tutela penale del domicilio è limitata a ciò che avviene in luoghi di provata dimora, non visibili ad estranei.
Ciò soprattutto se gli altri condomini siano a conoscenza dell'esistenza delle telecamere e possano visionarne in ogni momento le riprese: “l’esposizione alla vista di terzi di un'area che costituisce pertinenza domiciliare e che non è destinata a manifestazioni di vita privata esclusive è incompatibile con una tutela penale della riservatezza, anche ove risultasse che manifestazioni di vita privata in quell'area siano state in concreto, inaspettatamente, realizzate” (Cass. pen. 21.10–26.11.2008, n. 44156, Cass. pen. 30.10.2008, n. 40577, Cass. SS. UU. pen. 28.03.2006 n. 26795, Corte costituzionale n. 149/2008).
Non così pacifica è, invece, la valutazione della liceità del descritto comportamento dal punto di vista civile.
La materia sottoposta al vaglio del Tribunale si presenta alquanto spinosa e controversa. Di certo vi è che, nonostante i solleciti provenienti da più parti, manca una disciplina normativa che attui la riserva di legge prevista dall’art. 14 Cost..
In attesa che venga colmata questa lacuna, il Garante per la Privacy è intervenuto più volte per stabilire alcuni punti fermi.
In primo luogo vi è da precisare che l'installazione di tali impianti, se effettuata nei pressi di immobili privati e all'interno di condomìni e loro pertinenze, non è soggetta al Codice in materia di dati personali (D.Lgs. 196/2003) quando i dati non sono comunicati sistematicamente o diffusi. Nonostante ciò, richiede comunque l'adozione di cautele a tutela dei terzi (art. 5, comma 3, del Codice).
In particolare le riprese devono essere limitate esclusivamente agli spazi di propria esclusiva pertinenza (ad esempio quelli antistanti l'accesso alla propria abitazione) escludendo ogni forma di ripresa, anche senza registrazione di immagini, relative ad aree comuni (cortili, pianerottoli, scale, garage comuni) o antistanti l'abitazione di altri condomini.
Quando invece la ripresa delle aree condominiali è effettuata da più condomini o dal condominio trova applicazione il citato Codice.
L'installazione di questi impianti è ammissibile esclusivamente per assicurare la sicurezza di persone e la tutela di beni da concrete situazioni di pericolo, di regola costituite da illeciti già verificatisi, oppure nel caso di attività che comportano, ad esempio, la custodia di denaro, valori o altri beni (recupero crediti, commercio di preziosi o di monete aventi valore numismatico).
Poiché, ad ogni modo, comporta l'introduzione di una limitazione e comunque di un condizionamento per i cittadini, deve essere rifiutato ogni uso superfluo nonché ogni utilizzazione eccessiva rispetto allo scopo da raggiungere. Scopo che deve essere determinato, esplicito e legittimo e, soprattutto, di pertinenza del titolare dell’impianto.
Per questo motivo possono essere attivati soltanto quando altre misure (ad esempio: controlli da parte di addetti, sistemi di allarme, misure di protezione degli ingressi, abilitazioni agli ingressi) siano insufficienti o inattuabili e, per questo motivo, anche l'installazione meramente dimostrativa o artefatta di telecamere non funzionanti o per finzione, anche se non comporta trattamento di dati personali, può essere legittimamente oggetto di contestazione.
Sulla scorta di tale quadro si è formata una giurisprudenza di merito, non essendovi ancora sul punto pronunce della Suprema Corte, compattamente orientata nel senso che non esiste un potere spettante a ciascun condomino di installare impianti di videosorveglianza, soprattutto se orientati su parti condominiali, in quanto ciò comporta una evidente compressione e lesione del diritto all’altrui riservatezza, non giustificata da un interesse altrettanto forte e ampio, considerando che l’esigenza di tutela possa far capo ad uno solo dei condòmini, mentre il diritto alla riservatezza riguarda tutti gli altri (in tal senso Trib. Nola, sez. II civ., ord. 03.02.2009, Trib. Milano, 06.04.1992).
Condividendo tali assunti, la sentenza in esame, tenuto conto che, nel caso concreto, le telecamere erano state “puntate” non soltanto sulla proprietà esclusiva del condomino installatore ma anche su aree comuni e ritenendo che “il condomino non abbia alcun potere di installare, per sua sola decisione, delle telecamere in ambito condominiale idonee a riprendere spazi comuni o addirittura spazi esclusivi degli altri condomini”, ha qualificato illecito tale comportamento con il conseguente ordine di eliminare le telecamere posizionate.
Ma il Tribunale di Varese si spinge oltre statuendo che neppure l’assemblea condominiale può deliberare l’installazione dell’impianto di videosorveglianza, in quanto lo scopo della tutela dell'incolumità delle persone e delle cose dei condòmini, non essendo finalizzata a servire i beni comuni e concretandosi in una lesione di un diritto fondamentale della persona tutelato direttamente dall’art. 2 Cost., esula dalle attribuzioni dell'assemblea stessa (conforme Tribunale di Salerno ordinanza del 14.12.2010).
Ed infatti “i singoli condòmini non possono giammai sopportare, senza il loro consenso, una ingerenza nella loro riservatezza seppur per il fine di sicurezza di chi video-riprende. Né l’assemblea può sottoporre un condomino ad una rinuncia a spazi di riservatezza solo perché abitante del comune immobile, non avendo il condominio alcuna potestà limitativa dei diritti inviolabili della persona.
Peraltro, nell’ottica del cd. balancing costituzionale, la videoripresa di sorveglianza può ben essere sostituita da altri sistemi di protezione e tutela che non compromettono i diritti degli altri condomini, offrendo quindi un baricentro in cui i contrapposti interessi possono convivere
”.
Pertanto, il sistema di videosorveglianza può essere installato soltanto nel caso in cui la decisione sia deliberata all’unanimità dai condomini, perfezionandosi in questo caso un comune consenso idoneo a fondare effetti tipici di un negozio dispositivo dei diritti coinvolti e, quindi, con il consenso espresso, libero e documentabile per iscritto come prescritto dall’art. 23 del Codice in materia di protezione dei dati personali (23.09.2011 - tratto da www.ipsoa.it).

CONDOMINIO: No alle telecamere installate dal condomino per la sua sicurezza.
Il condomino non può installare delle telecamere di controllo riprendendo gli ambienti condominiali comuni. Anche se l’installazione è a tutela della propria sicurezza ed è stata fatta a seguito di diversi furti ed effrazioni. L’impianto va dunque rimosso immediatamente a spese del condomino che lo ha installato e sotto la sua responsabilità.

Lo ha stabilito Tribunale di Varese, Sez. I civile, con l'ordinanza 16.06.2011 n. 1273.
Secondo il giudice, infatti, “nel silenzio della Legge”, il condomino non ha “alcun potere di installare, per sua sola decisione, delle telecamere in ambito condominiale, idonee a riprendere spazi comuni o addirittura spazi esclusivi degli altri condomini”. Non solo ma secondo il tribunale “nemmeno il Condominio ha la potestà normativa per farlo, eccezion fatta per il caso in cui la decisione sia deliberata all’unanimità dai condomini, perfezionandosi in questo caso un comune consenso idoneo a fondare effetti tipici di un negozio dispositivo dei diritti coinvolti”.
Ci troviamo di fronte ad “un vero e proprio vacuum legis in questa materia, al cospetto di diritti fondamentali presidiati dalla Costituzione, come quello alla riservatezza e alla vita privata (difeso dalla Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo all’art. 8)”. Infatti, “il condominio è un luogo di incontri e di vite in cui i singoli condomini non possono giammai sopportare, senza il loro consenso, una ingerenza nella loro riservatezza seppur per il fine di sicurezza di chi video-riprende. Né l’assemblea può sottoporre un condomino ad una rinuncia a spazi di riservatezza solo perché abitante del comune immobile, non avendo il condominio alcuna potestà limitativa dei diritti inviolabili della persona”.
In assenza di una norma specifica, sono troppi e rilevanti i problemi posti dalle videoriprese (motivo per cui il Garante sollecitava l’intervento del Legislatore): “1) che utilizzo può essere fatto delle videoriprese che vengono acquisite dal singolo proprietario? 2) che garanzie spettano a chi viene ripreso anche occasionalmente dalle telecamere? 3) che limiti incontra la videoripresa rispetto ai soggetti più vulnerabili come minori e incapaci?
Per tutte queste ragioni, secondo il tribunale, “Il periculum in mora […] è in re ipsa, trattandosi di diritti fondamentali e della personalità che ad ogni lesione si consumano senza possibilità di ripristino dello status quo ante”. “Peraltro, nel caso di specie, -conclude il giudice- l’utilizzo delle telecamere ha causato un impoverimento delle attività quotidiane della parte ricorrente e anche stati soggettivi che militano verso la patologia. Una situazione che richiede urgente e immediata tutela” (commento tratto da e link a www.diritto24.ilsole24ore.com).

CONDOMINIOSulla questione della necessità o meno di acquisire l’assenso del Condominio, nel caso in cui un condòmino chieda un titolo edilizio per realizzare opere sulle parti comuni di un edificio, sono state espresse in giurisprudenza opinioni diverse.
Sulla questione della necessità o meno di acquisire l’assenso del Condominio, nel caso in cui un condomino chieda un titolo edilizio per realizzare opere sulle parti comuni di un edificio, sono state espresse in giurisprudenza opinioni diverse.
In generale si è infatti sostenuto che nessun assenso deve essere richiesto dal Comune, posto che il condomino possiede una propria legittimazione a richiedere il titolo, e che lo stesso viene, in ogni caso, rilasciato “con salvezza dei diritti dei terzi”. Si è altresì affermato che i problemi dell’uso delle parti comuni di un edificio costituiscono questione squisitamente civilistica, di cui il Comune non ha ragione di interessarsi.
Tale (peraltro, in linea general, condivisibile) giurisprudenza ha comunque evidenziato che la regola soffre talora di eccezioni, dovute alle peculiarità con cui le singole fattispecie si presentano.
In particolare, C.S. n. 437/2009 ha stabilito che, quando un condomino abbia realizzato (come nel presente caso) un abuso su aree comuni “l’Amministrazione debba chiedere all’istante, in applicazione delle norme generali in tema di rilascio della concessione edilizia, di provare di avere la disponibilità piena dell’area interessata all’abuso e, quindi, di provare, quanto meno per fatti concludenti ma comunque in modo positivo, l’assenso degli altri comproprietari”.
Allo stesso modo, Tar Liguria n. 192/2010 (che richiama anche C.S. n. 1654/2007) ha ritenuto che “ciò che rileva è che i lavori edilizi de quibus debbono eseguirsi (anche) su parti comuni del fabbricato e non riguardino opere connesse all’uso normale della cosa comune”; in tal caso, l’Amministrazione comunale è tenuta, “ai fini del rilascio della relativa concessione, a richiedere il consenso di tutti i proprietari”.
In fattispecie molto simile si è espresso anche TAR Calabria-Reggio, con la recente decisione n. 343/2011, aderendo all’orientamento interpretativo secondo cui nel procedimento di rilascio dei titoli edilizi, “l’Amministrazione ha il potere ed il dovere di verificare l’esistenza, in capo al richiedente, di un idoneo titolo di godimento sull’immobile interessato dal progetto … per cui, in caso di opere che vadano ad incidere sul diritto di altri comproprietari (quali le opere edilizie interessanti porzioni condominiali comuni), è legittimo esigere il consenso degli stessi o pretendere la produzione della dichiarazione di assenso dell’amministrazione condominiale anche nelle ipotesi di autorizzazioni in sanatoria, in quanto il contitolare del bene può essere estraneo all’abuso ed avere un interesse contrario alla sanatoria di opere che potrebbero risolversi in danno del medesimo”.
Le suesposte argomentazioni, che il Collegio condivide, hanno ancora maggior rilievo nel caso di specie, considerato che alcuni condomini dapprima e, in seguito, il Condominio stesso si sono inseriti nel procedimento di rilascio dell’autorizzazione a sanatoria di cui trattasi, manifestando il proprio dissenso alle opere che, secondo la loro prospettazione, incidevano negativamente sul diritto di uso delle parti comuni che spetta a ciascun condomino, ponendo in luce in particolare come -segnatamente le canne fumarie- inducessero limiti all’uso individuale. Secondo TAR Campania-Napoli n. 26817/2010, sussiste un vero e proprio obbligo per l’Amministrazione di verificare “la legittimazione ad effettuare l'intervento, soprattutto quando vi sia stata in sede procedimentale un’espressa opposizione da parte di terzi condomini”.
Nello stesso senso è anche C.S. n. 1537/2010, che esplicitamente dichiara che, in caso contrario, “l'Amministrazione finirebbe per legittimare una sostanziale appropriazione di spazi condominiali da parte del singolo condomino, in presenza di una possibile volontà contraria degli altri, i quali potrebbero essere, al contrario, interessati all’eliminazione dell’abuso”.
La posizione contraria manifestata dal Condominio risulta inoltre ulteriormente rafforzata dalla decisione del Tribunale di Trieste del 24.09.2008, che ha rigettato la domanda presentata dei ricorrenti avverso la delibera dell’assemblea condominiale che negava l’assenso ai lavori, avendo ritenuto che tale deliberazione “non abbia inciso su diritti della proprietà privata essendo l’uso particolare e più intenso del bene comune da parte del condomino (e la relativa indagine in merito all’eventuale compressione quantitativa o qualitativa del pari utilizzo, attuale o potenziale, di tutti i comproprietari) questione di ordine condominiale, disciplinata proprio dalle norme che regolano i rapporti tra proprietà individuali e beni condominiali”.
Né rileva, ai nostri fini, il richiamo alla decisione n. 11/2006 del Consiglio di Stato, che ha bensì ammesso la possibilità del singolo condomino di installare una canna fumaria (come nel presente caso, al servizio di un ristorante) lungo un muro condominiale, anche senza l’assenso del Condominio, “purchè non impedisca agli altri condomini l’uso del muro comune e non ne alteri la normale destinazione”, che è invece proprio quanto è avvenuto nel nostro caso.
In queste condizioni -presenza di esplicito e motivato dissenso del Condominio, unito alla decisione del Giudice Ordinario che ha ravvisato la correttezza della delibera assembleare che negava l’assenso ai lavori- legittimamente, ad avviso del Collegio, il Comune ha negato la richiesta sanatoria delle opere abusivamente realizzate
(TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 26.05.2011 n. 258 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO: Quando un condòmino ha realizzato un abuso su aree comuni “l’Amministrazione comunale deve chiedere all’istante, in applicazione delle norme generali in tema di rilascio della concessione edilizia, di provare di avere la disponibilità piena dell’area interessata all’abuso e, quindi, di provare, quanto meno per fatti concludenti ma comunque in modo positivo, l’assenso degli altri comproprietari”.
L’Amministrazione ha il potere ed il dovere di verificare l’esistenza, in capo al richiedente, di un idoneo titolo di godimento sull’immobile interessato dal progetto … per cui, in caso di opere che vadano ad incidere sul diritto di altri comproprietari (quali le opere edilizie interessanti porzioni condominiali comuni), è legittimo esigere il consenso degli stessi o pretendere la produzione della dichiarazione di assenso dell’amministrazione condominiale anche nelle ipotesi di autorizzazioni in sanatoria, in quanto il contitolare del bene può essere estraneo all’abuso ed avere un interesse contrario alla sanatoria di opere che potrebbero risolversi in danno del medesimo”.

Sulla questione della necessità o meno di acquisire l’assenso del Condominio, nel caso in cui un condòmino chieda un titolo edilizio per realizzare opere sulle parti comuni di un edificio, sono state espresse in giurisprudenza opinioni diverse.
In generale si è infatti sostenuto che nessun assenso deve essere richiesto dal Comune, posto che il condomino possiede una propria legittimazione a richiedere il titolo, e che lo stesso viene, in ogni caso, rilasciato “con salvezza dei diritti dei terzi”. Si è altresì affermato che i problemi dell’uso delle parti comuni di un edificio costituiscono questione squisitamente civilistica, di cui il Comune non ha ragione di interessarsi.
Tale (peraltro, in linea general, condivisibile) giurisprudenza ha comunque evidenziato che la regola soffre talora di eccezioni, dovute alle peculiarità con cui le singole fattispecie si presentano.
In particolare, C.S. n. 437/2009 ha stabilito che, quando un condòmino abbia realizzato (come nel presente caso) un abuso su aree comuni “l’Amministrazione debba chiedere all’istante, in applicazione delle norme generali in tema di rilascio della concessione edilizia, di provare di avere la disponibilità piena dell’area interessata all’abuso e, quindi, di provare, quanto meno per fatti concludenti ma comunque in modo positivo, l’assenso degli altri comproprietari”.
Allo stesso modo, Tar Liguria n. 192/2010 (che richiama anche C.S. n. 1654/2007) ha ritenuto che “ciò che rileva è che i lavori edilizi de quibus debbono eseguirsi (anche) su parti comuni del fabbricato e non riguardino opere connesse all’uso normale della cosa comune”; in tal caso, l’Amministrazione comunale è tenuta, “ai fini del rilascio della relativa concessione, a richiedere il consenso di tutti i proprietari”.
In fattispecie molto simile si è espresso anche TAR Calabria-Reggio, con la recente decisione n. 343/2011, aderendo all’orientamento interpretativo secondo cui nel procedimento di rilascio dei titoli edilizi, “l’Amministrazione ha il potere ed il dovere di verificare l’esistenza, in capo al richiedente, di un idoneo titolo di godimento sull’immobile interessato dal progetto … per cui, in caso di opere che vadano ad incidere sul diritto di altri comproprietari (quali le opere edilizie interessanti porzioni condominiali comuni), è legittimo esigere il consenso degli stessi o pretendere la produzione della dichiarazione di assenso dell’amministrazione condominiale anche nelle ipotesi di autorizzazioni in sanatoria, in quanto il contitolare del bene può essere estraneo all’abuso ed avere un interesse contrario alla sanatoria di opere che potrebbero risolversi in danno del medesimo”.
Le suesposte argomentazioni, che il Collegio condivide, hanno ancora maggior rilievo nel caso di specie, considerato che alcuni condòmini dapprima e, in seguito, il Condominio stesso si sono inseriti nel procedimento di rilascio dell’autorizzazione a sanatoria di cui trattasi, manifestando il proprio dissenso alle opere che, secondo la loro prospettazione, incidevano negativamente sul diritto di uso delle parti comuni che spetta a ciascun condomino, ponendo in luce in particolare come -segnatamente le canne fumarie- inducessero limiti all’uso individuale.
Secondo TAR Campania-Napoli n. 26817/2010, sussiste un vero e proprio obbligo per l’Amministrazione di verificare “la legittimazione ad effettuare l'intervento, soprattutto quando vi sia stata in sede procedimentale un’espressa opposizione da parte di terzi condomini”. Nello stesso senso è anche C.S. n. 1537/2010, che esplicitamente dichiara che, in caso contrario, “l'Amministrazione finirebbe per legittimare una sostanziale appropriazione di spazi condominiali da parte del singolo condomino, in presenza di una possibile volontà contraria degli altri, i quali potrebbero essere, al contrario, interessati all’eliminazione dell’abuso
(TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 26.05.2011 n. 258 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO1. Cortile - Uso - Mancanza di previsioni regolamentari o assembleari - Applicabilità dell'art. 1102 cod. civ. - Sussiste.
2. Cortile - Uso - Parcheggio temporaneo o periodico di autovetture - Compatibilità con l'art. 1102 cod. civ. - Sussiste - Realizzazione permanente di posti auto - Compatibilità con l'art. 1102 cod. civ. - Non sussiste.
1.
Sull'uso del cortile condominiale, in mancanza di previsioni specifiche del regolamento condominiale o di deliberazioni assembleari sul punto, non può che applicarsi la generale previsione dell'art. 1102 cod. civ., per la quale ogni partecipante alla comunione può servirsi della cosa comune "purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso", tenuto conto che lo stesso partecipante "non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti".
2. È compatibile con la previsione dell'art. 1102 cod. civ. il solo parcheggio temporaneo o periodico di autovetture nel cortile comune, ma non la realizzazione permanente di posti auto nel medesimo, visto che il rispetto del rapporto di cui all'art. 41-sexies, L. n. 1150/1942 implica necessariamente il reperimento di spazi e l'occupazione in via esclusiva e permanente del cortile comune con le autovetture (tratto da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.05.2011 n. 1279 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Lavori edilizi interessanti parti comuni di un fabbricato - Assenso dei comproprietari - Art. 11, c. 1, d.P.R. n. 380/2001 - Verifica dell’esistenza in capo al richiedente di un titolo attributivo dello ius aedificandi.
Ove i lavori edilizi interessino anche parti comuni del fabbricato e si tratti di opere non connesse all’uso normale della cosa comune, essi abbisognano del previo assenso dei comproprietari anche in relazione agli aspetti pubblicistici dell’attività edificatoria, con particolare riguardo alle norme (art. 4 della legge n. 10 del 1977 e art. 11, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001), che prevedono la verifica dell'esistenza, in capo al richiedente, di titolo un attributivo dello ius aedificandi sull'immobile oggetto di trasformazione edilizia (fattispecie: locale tecnico addossato al muro comune) (cfr. Cons. Stato, Sez. IV 11.04.2007 n. 1654) (TAR LOMBARDIA-Brescia, Sez. I, sentenza 05.05.2011 n. 662 - link a www.ambientediritto.it).

CONDOMINIOAddio al risarcimento per l'acqua in cantina se l'impresa chiude. Il Tribunale di Piacenza: per i coniugi oltre 4 mila euro di spese giudiziarie.
Infiltrazioni d'acqua in cantina, se il costruttore-venditore chiude niente ristoro ai proprietari. Non ha infatti diritto al risarcimento per le infiltrazioni d'acqua il proprietario della cantina se il venditore-costruttore ha chiuso i battenti.
Lo ha sancito il TRIBUNALE di Piacenza (sentenza 14.04.2011 n. 313) che ha negato il ristoro ai proprietari di un locale cantina danneggiato dalle infiltrazioni d'acqua.
In particolare una coppia di coniugi, proprietaria di una cantina infiltrata dall'acqua per via delle grondaie e delle fogne, fa causa alla società costruttrice-venditrice, ai soci e al condominio. Ma non viene risarcita e anzi paga anche le spese di giudizio. L'azienda immobiliare risulta infatti essere stata sciolta prima della riforma ex articolo dlgs 6/2003, che, modificando l'articolo 2495, comma 2, sancisce l'estinzione della società al momento dell'iscrizione della cancellazione nel registro delle imprese. E ciò, diversamente che in passato, indipendentemente dall'esaurimento o meno del procedimento di liquidazione e dal persistere o meno di debiti o crediti sociali. Risultato: l'impresa costruttrice-venditrice non può essere citata in giudizio.
Per le cancellazioni effettuate in epoca precedente all'01.01.2004, è da quest'ultima data che deve comunque ritenersi avvenuta l'estinzione della società. Inutile poi pretendere dai soci della compagine disciolta l'eliminazione dei vizi della cantina laddove la domanda proposta ex articolo 1669 cc legittima i proprietari dell'immobile a chiedere il risarcimento del danno e non la riduzione in pristino: l'azione di esatto adempimento è collegata a un rapporto contrattuale e non può essere espressione della responsabilità extracontrattuale.
Idem per il condominio, chiamato in causa ex articolo 2051 cc: anche la responsabilità da custodia ha natura contrattuale. Per ottenere una pronuncia giudiziale che imponesse l'esecuzione dei lavori la coppia di coniugi avrebbe dovuto adire l'autorità giudiziaria ex articolo 1105 ultimo comma cc. Alla fine non solo la cantina è rimasta così com'era. Ma i coniugi proprietari devono pagare anche oltre 4 mila euro di spese di giudizio (articolo ItaliaOggi Sette del 05.09.2011).

CONDOMINIO: Riforma del condominio approvata dal Senato.
Via libera del Senato al disegno di legge di riforma della disciplina sul condominio. Nella seduta antimeridiana del 26.01.2011, infatti, l'Assemblea di Palazzo Madama ha approvato in prima lettura, con il nuovo titolo "Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici", il testo unificato dei disegni di legge nn. 71, 355, 399, 119 e 1283, recante "Modifiche al codice civile in materia di disciplina del condominio negli edifici". ... (link a www.acca.it).

CONDOMINIO: La pubblicazione di Confedilizia “La disciplina giuridica del condominio con gli adempimenti degli amministratori di condominio.
L’Ufficio legale della Confedilizia (associazione dei proprietari di immobili) ha curato la redazione della pubblicazione “La disciplina giuridica del condominio con gli adempimenti degli amministratori di condominio”.
La pubblicazione analizza le disposizioni vigenti in materia di condominio (contenute nel codice civile, nelle disposizioni attuative e nel codice di procedura civile) e la normative riguardante:
- Antenne e radiotelecomunicazioni;
- Ascensore;
- Barriere architettoniche;
- Fisco;
- Inquinamento acustico;
- Locazioni;
- Prvenzione incendi;
- Privacy;
- Riscaldamento e risparmio energetico;
- Sicurezza impianti.

In allegato la pubblicazione riporta inoltre le tabelle:
- delle maggioranze assembleari;
- sulla partecipazione alle spese condominiali dei condomini proprietari di posti auto siti in autorimesse;
- degli oneri accessori concordata tra confedilizia e sunia.

Confedilizia precisa che la pubblicazione non riporta la normativa riguardante le agevolazioni fiscali sulle ristrutturazioni edilizie e sul risparmio energetico dato il loro carattere temporaneo (13.01.2011 - link a www.acca.it).

CONDOMINIOReflue in casa, niente bonus a chi non ne prende possesso.
Niente agevolazioni fiscali per chi non prende possesso della casa per via delle infiltrazioni. Il contribuente che non va ad abitare nell'immobile acquistato entro i 18 mesi successivi al rogito, motivando la mancata presa di possesso dell'abitazione con delle infiltrazione d'acqua provenienti dal piano superiore, non avrà diritto alle agevolazioni «prima casa».

Lo ha sancito la Corte di Cassazione che, con la sentenza 26.01.2010 n. 1392, ha respinto il ricorso dell'acquirente di un immobile che non aveva preso la residenza nella nuova abitazione a causa delle infiltrazioni d'acqua provenienti dal piano superiore.
La sezione tributaria ha completamente capovolto il verdetto di merito che, sia in primo sia in secondo grado, era stato favorevole ai contribuenti. I giudici di legittimità hanno così motivato la sentenza: «A prescindere da ogni altra considerazione una infiltrazione di acque reflue in un appartamento non rappresenta in sé un impedimento avente le caratteristiche della forza maggiore se non in caso di prova del momento della sua insorgenza, del suo protrarsi, ovvero di eventuali complicanze idonee a rendere particolarmente lunga e difficile la riparazione e a impedire in modo assoluto e per tutto il tempo a disposizione non solo la presenza nell'immobile ma, in ogni caso, l'ottenimento del trasferimento della residenza anagrafica» (articolo ItaliaOggi Sette del 05.09.2011).

CONDOMINIOSì al diritto di critica verso l'amministratore.
Definire pubblicamente latitante e incompetente l'amministratore di condominio non è un reato ma un semplice diritto di critica.

A stabilirlo è la Corte di Cassazione, Sez. V penale con la sentenza 31.01.2011 n. 3372, in riferimento al caso di una condòmina che ha affisso nell'atrio dello stabile un volantino in cui si alludeva alla presunta latitanza dell'amministratore di condominio, accusandolo di incassare il denaro senza però provvedere alla manutenzione dell'immobile.
Nel volantino si chiedeva, inoltre, la sostituzione dell'amministratore. Che ha risposto denunciando la donna per diffamazione e ingiuria. Il Gup ha disposto il non luogo a procedere nei confronti della condòmina e contro tale decisione l'amministratore è ricorso per Cassazione. La Suprema corte ha però bocciato il ricorso poiché, nel caso in esame, sussiste la discriminante del diritto di critica, che, a differenza del diritto di cronaca, si caratterizza proprio per l'espressione di un giudizio o di un'opinione, che in quanto tale, non può considerarsi rigorosamente obiettivo, posto che la critica, per sua natura, si fonda su un'interpretazione, necessariamente soggettiva, di fatti e comportamenti.
Quindi, secondo la Cassazione, l'imputata, rivolgendo delle critiche all'operato dell'amministratore per le gravi carenze di manutenzione del palazzo e invitando gli altri condomini ad attivarsi, ha esercitato non solo il diritto di libera manifestazione del proprio pensiero, ma anche quello più specifico, come condomino dello stabile, di controllare l'operato dell'amministratore e di denunciare le eventuali irregolarità riscontrate.
Pertanto, le espressioni usate dalla donna non costituiscono un'aggressione gratuita alla sfera morale dell'amministratore, ma solo una censura delle attività non svolte. In questo senso, secondo la Suprema corte, la parola latitante è stata usata nel senso corrente di qualcuno che evita di farsi vedere per non rispettare i suoi doveri, per i quali è pagato (articolo ItaliaOggi Sette del 09.01.2012).

CONDOMINIORiparazione dei balconi aggettanti e frontalini: oneri di ripartizione.
In tema di parti comuni e relativo obbligo di manutenzione vige una disciplina differente per i balconi cosiddetti “aggettanti” e per gli elementi decorativi presenti sugli stessi.

I balconi aggettanti, i quali sporgono dalla facciata dell'edificio, costituiscono solo un prolungamento dell'appartamento dal quale protendono e rientrano nella proprietà esclusiva dei titolari degli appartamenti cui accedono. Non fungono da copertura del piano inferiore in quanto essi, dal punto di vista strutturale sono del tutto autonomi rispetto agli altri piani, poiché possono sussistere indipendentemente dall'esistenza di altri balconi nel piano sottostante o sovrastante e non avendo, quindi, funzione di copertura del piano sottostante, il balcone aggettante non soddisfa una utilità comune ai due piani e non svolge neppure una funzione a vantaggio di un condomino diverso dal proprietario del piano.
Detti balconi e le relative solette non svolgendo alcuna funzione di sostegno, né di necessaria copertura dell'edificio, non possono considerarsi a servizio dei piani sovrapposti e, quindi, di proprietà comune dei proprietari di tali piani e ad essi non può applicarsi il disposto dell'articolo 1125 c.c. secondo cui le spese per la ricostruzione e manutenzione dei soffitti, delle volte e dei solai sono sostenute in parti uguali dai proprietari dei due piani l’uno all’altro sovrastanti, restando a carico del proprietario del piano superiore la copertura del pavimento e a carico del piano inferiore l’intonaco, la tinta e la decorazione del soffitto.

E’ quanto ha ribadito sostanzialmente la Corte di cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 12.01.2011 n. 587 e con la sentenza 05.01.2011 n. 218, confermando in tal modo un orientamento ormai consolidato e superando definitivamente la posizione secondo cui, invece, la soletta è soggetta al regime di comunione tra proprietario che usa il balcone e proprietario dell’unità immobiliare sottostante, con applicabilità dell’articolo 1125 del codice civile quale criterio di ripartizione delle spese (Cass. n. 4821/1983; n. 283/1987).
La Corte di Cassazione ha puntualizzato che seppure volesse riconoscersi alla soletta del balcone una funzione di copertura rispetto al balcone sottostante, tuttavia, trattandosi di copertura disgiunta dalla funzione di sostegno e, quindi, non indispensabile per l'esistenza stessa dei piani sovrapposti, non può parlarsi di elemento a servizio di entrambi gli immobili posti su piani sovrastanti, né, quindi, di presunzione di proprietà comune del balcone aggettante riferita ai proprietari dei singoli piani (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 30.07.2004 n. 14576).
I balconi aggettanti e le relative solette rientrano nella proprietà esclusiva dei titolari degli appartamenti cui accedono, conseguentemente le spese di riparazione gravano solo sugli stessi. Soggetti a un regime diverso, invece, sono tutti gli elementi decorativi del balcone.
Ed invero i cementi decorativi dei frontali e dei parapetti, nonché le viti di ottone e i piombi ai pilastri della balaustra, le aggiunte sovrapposte con malta cementizia dei balconi, in virtù della funzione di tipo estetico che essi svolgono rispetto all’intero edificio, del quale accrescono il pregio architettonico, sono considerati parti comuni ai sensi dell’art. 1117 del cod. civ.
La spesa per la loro riparazione o ricostruzione ricade su tutti i condomini, proporzionalmente al valore della proprietà di ciascuno.
I frontalini dei balconi e la parte inferiore degli stessi, anche per il solo fatto di essere costruiti con caratteristiche uniformi, hanno una funzione ben precisa nell'estetica e nel decoro architettonico di un edificio, che può essere esclusa solo in presenza di una precisa prova contraria, da cui risulti che trattasi di un fabbricato privo di qualsiasi uniformità architettonica, o che trovasi in uno stato di scadimento estetico tale da rendere irrilevante l'arbitrarietà costruttiva o di manutenzione dei singoli particolari (commento tratto da e link a www.diritto24.ilsole24ore.com).
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Per ulteriori approfondimenti si legga:
- la voce "balconi".

anno 2010

EDILIZIA PRIVATALegittimamente il dirigente comunale non ha rilasciato il richiesto permesso di costruire, attesa la mancanza del titolo a disporre in via esclusiva del suolo interessato dai lavori, per la natura condominiale di parte del lastrico solare ed in mancanza di delibera assembleare.
Ai sensi dell’art. 1117 c.c., il lastrico solare è oggetto di proprietà comune “se il contrario non risulta dal titolo”. Come chiarito dalla costante giurisprudenza (cfr., per tutte, Cassazione civile, Sezione II, 16.07.2004 n.13279; 16.02.2005 n. 3102; 29.03.2007 n. 7709), per titolo devono intendersi non soltanto gli atti di acquisto delle varie unità immobiliari incluse nel fabbricato ma anche il regolamento di condominio accettato dai singoli condomini.
E’ altrettanto pacifico in giurisprudenza che il regolamento di condominio, di cui all’art. 1138 c.c., predisposto dall’originario unico proprietario dell’intero edificio ed accettato dagli iniziali acquirenti o assegnatari dei singoli appartamenti, se trascritto nei registri immobiliari o oggetto di esplicito richiamo nei singoli atti di acquisto, vincola tutti i successivi acquirenti per le clausole che disciplinano l’uso o il godimento dei servizi o delle parti comuni.
In conclusione, alla luce delle disposizioni normative sopra evocate e della documentazione versata in atti, il Collegio ritiene che legittimamente il dirigente comunale non ha rilasciato il richiesto permesso di costruire, atteso che la mancanza del titolo a disporre in via esclusiva del suolo interessato dai lavori, per la natura condominiale di parte del lastrico solare ed in mancanza di delibera assembleare (cfr. Cassazione civile, Sezione II, 29.08.1992, n. 6529), costituisce ragione da sola preclusiva alla realizzazione dell’intervento
(TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 06.12.2010 n. 26817 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO: Gas con Iva al 10% in condomìni: il beneficio non va duplicato. In caso di utenza individuale già "agevolata", l'unità immobiliare non partecipa al plafond collettivo.
L'Agenzia delle Entrate, con la risoluzione 22.10.2010 n. 112/E, torna sulla disposizione contenuta nel numero 127-bis della tabella A, parte III, allegata al Dpr 633/1972, che, recependo una direttiva comunitaria, prevede dal 2008 l'applicazione dell'aliquota Iva del 10% alla somministrazione di gas metano per combustione per usi civili (produzione di acqua calda, cottura di cibi, riscaldamento), nel limite annuo di 480 metri cubi. In pratica, la norma dispone la tassazione al 10% per i primi 480 metri cubi annui destinati ad usi civili, mentre i consumi eccedenti devono essere tassati con l'aliquota ordinaria del 20 per cento.
Con la risoluzione 15.10.2010 n. 108/E è stato specificato che, relativamente alla somministrazione di gas metano per usi civili nei confronti di condomìni e cooperative di abitanti di edifici abitativi che utilizzano impianti di tipo centralizzato e collettivo, il limite di 480 metri cubi all'anno per fruire dell'aliquota Iva agevolata al 10% si riferisce alle singole utenze di ogni unità abitativa. Di conseguenza, la soglia quantitativa di 480 metri cubi va moltiplicata per il numero delle unità immobiliari il cui impianto di riscaldamento è allacciato a quello centralizzato.
Tale criterio -puntualizza ora la risoluzione 112/2010- non si applica se sono presenti utenze individuali che già fruiscono della tassazione agevolata. Pertanto, nel numero delle unità immobiliari allacciate all'impianto centralizzato, da moltiplicare per il limite di 480 mc., non rientrano quelle dotate anche di impianto autonomo, per il quale è già applicabile l'aliquota agevolata (link a www.nuovofiscooggi.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Opere abusive - Permesso di costruire in sanatoria - Condominio - Preavviso di diniego in mancanza di richiesta o assenso di tutti i condomini - Carattere direttamente lesivo - Sussiste - Impugnabilità immediata - Sussiste.
2. Opere abusive - Permesso di costruire in sanatoria - Istruttoria - Obbligo della P.A. di effettuare valutazioni complesse di carattere civilistico - Non sussiste.

1. Il provvedimento di preavviso di diniego del permesso di costruire in sanatoria in mancanza di richiesta o assenso di tutti i condomini, imponendo l'assenso di tutti i condomini quale condizione per evitare il rigetto dell'istanza, si atteggia non tanto come preavviso di rigetto in senso tecnico (volto ad acquisire, in contraddittorio con gli interessati, elementi di giudizio ai fini della definizione dell'istanza), ma come atto già dotato di effetti lesivi, il che lo rende suscettibile di impugnazione immediata.
2. Nella verifica dell'idoneità del titolo l'Amministrazione non è tenuta, in sede di istruttoria di una domanda di permesso edilizio, ad effettuare valutazioni complesse di carattere civilistico, che spettano al giudice ordinario (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 15.09.2010 n. 5986 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO: Sottotetto - È parte comune solo se destinato ad un uso comune - Carattere pertinenziale dell'unità immobiliare sottostante - Sussiste se ha funzione esclusiva di isolamento e protezione dell'appartamento sottostante.
A differenza del tetto (oggetto di proprietà comune salvo che non risulti diversamente dal titolo: art. 1117 cod. civ.), il sottotetto, in assenza di indicazioni risultanti dal titolo, costituisce parte comune solo se destinato ad un uso comune, mentre deve ritenersi di proprietà esclusiva dell'unità immobiliare sottostante, quale pertinenza della stessa, se si tratta di vano destinato ad assolvere alla funzione esclusiva di isolare e proteggere, come una camera d'aria, l'appartamento sottostante (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 15.09.2010 n. 5986 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO- EDILIZIA PRIVATA: In mancanza di un preventivo assenso dei comproprietari dell'immobile, il comune può legittimamente negare il rilascio di un permesso di costruire per realizzare lavori riguardanti la facciata dell'edificio, che "costituisce una parte comune oggetto di compossesso proindiviso".
L’intervento edilizio incide sulla facciata dell’edificio la quale costituisce una parte comune oggetto di compossesso proindiviso.
Le opere oggetto del permesso di costruire danno luogo ad una innovazione vietata ai sensi dell’art. 1120, c. 2, c.c., comportando una alterazione del decoro architettonico del fabbricato -inteso quale “estetica data dall'insieme delle linee e delle strutture ornamentali che costituiscono la nota dominante dell'edificio imprimendo allo stesso una sua armoniosa fisionomia” (v. Cassazione civile, sez. II, 25.01.2010, n. 1286; sentt. 8731/1998; 16098/2003)- in quanto vanno a modificare l’architettura generale e l’aspetto estetico dell’edificio.
Legittimamente, pertanto, l'amministrazione ha subordinato il rilascio del titolo abilitativo all’assenso dei comproprietari (cfr. Cons. Stato, sez. V, 21.10.2003, n. 6529; TAR Trentino Alto Adige-Bolzano, 27.02.2006, n. 81; TAR Campania-Napoli, sez. II, 27.05.2005, n. 7295), adottando un provvedimento adeguatamente motivato e supportato da coerenti risultanze istruttorie, con conseguente infondatezza delle censure proposte (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.08.2010 n. 4414 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO: Condominio: per modificare le tabelle millesimali basta la maggioranza.
Fino ad ora modificare le tabelle millesimali era un'operazione impossibile poiché, per una consolidata prassi, tale operazione richiedeva l'unanimità dell'assemblea condominiale.
È facile comprendere che la più banale delle modifiche alle tabelle millesimali finisce comunque per "penalizzare" almeno un condomino che, quindi, ha tutto l'interesse a votare contro.
Una sentenza della Cassazione a sezioni unite sconfessa questa tesi rivoluzionando l'orientamento precedente della stessa corte.
Con la sentenza 18477 del 09.08.2010 la Corte ha chiarito che per modificare le tabelle millesimali è sufficiente la maggioranza qualificata definita al comma 2 dell'art. 1136 del Codice Civile.
In altre parole, per modificare le tabelle millesimali è sufficiente una delibera assembleare approvata dalla maggioranza degli intervenuti in assemblea, che rappresentino almeno la metà del valore dell'edificio (500 millesimi) (Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, sentenza 09.08.2010 n. 18477 - link a www.acca.it).

CONDOMINIOImmissioni moleste, il locatore risponde solo per alcune delle attività del conduttore.
La vicenda che ha portato alla decisione in commento iniziava dalle lamentele di un condomino per le intollerabili immissioni di odori provenienti dal ristorante gestito dal conduttore di altro condomino. Tali immissioni erano ascrivibili al comportamento del conduttore-ristoratore e, in particolare, alla mancata attivazione dell'impianto di aerazione (risultato perfettamente funzionante) e alla mancata chiusura delle finestre del locale cucina.
Tuttavia, il condomino danneggiato citava avanti il Trib. di Roma il proprietario del locale locato affinché fosse accertata l'illiceità delle immissioni moleste e conseguentemente condannato il convenuto alla loro eliminazione (oltre al risarcimento dei danni subiti).
Il Tribunale adito condannava il convenuto al risarcimento dei danni nonché al pagamento delle spese di lite e tale decisione, veniva confermata dalla Corte d'appello di Roma (che, però, riduceva l'ammontare dei danni) sulla considerazione che il convenuto, oltre ad avere l'obbligo di ispezionare l'azienda per assicurarsi che fosse gestita regolarmente, avrebbe dovuto controllare se e quando i conduttori aprissero le finestre della cucina per far arieggiare i locali, invece di mettere in funzione l'impianto di aerazione risultato perfettamente funzionante.
Secondo la Cassazione, invece, il proprietario del locale non era responsabile delle immissioni moleste atteso che la disponibilità sia dell'impianto di aerazione sia delle finestre del locale cucina, trattandosi di accessori e di parti del bene locato strettamente connessi alla gestione del ristorante, erano oggetto di diretto ed effettivo potere da parte del conduttore.
Custodia e locazione.
Con la decisione in rassegna la Corte di Cassazione ha affrontato il tema della responsabilità ex art. 2051 c.c. nell'ambito del rapporto di locazione.
A tale proposito occorre ricordare che la responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia prevista dall'art. 2051 c.c. prescinde dall'accertamento del carattere colposo dell'attività o del comportamento del custode e ha natura oggettiva, necessitando, per la sua configurabilità, del mero rapporto eziologico tra cosa ed evento: funzione della norma è, infatti, quella di imputare la responsabilità a chi si trovi nella condizione di controllare i rischi inerenti alla cosa, dovendo pertanto considerarsi custode colui che ne controlla le modalità d'uso e di conservazione (Cass. n. 8229/2010, Giust. civ. Mass. 2010, 4).
Il requisito del potere-dovere di intervento, quindi, qui non opera come fondamento di una presunzione di colpa, che non è nella struttura della norma, ma come uno degli elementi per individuare la figura del custode.
In particolare, custode è chi abbia l'effettivo potere sulla cosa, e può, perciò, essere non solo il proprietario, ma anche il semplice possessore o anche il detentore della cosa.
Ne consegue che detta custodia può far capo a più soggetti a pari titolo, o a titoli diversi, che importino tutti l'attuale coesistenza di poteri di gestione e di ingerenza .
Tale situazione si verifica nell'ipotesi di locazione di un immobile.
Al riguardo, è pacifico che la locazione determina, in linea di principio, il trasferimento al conduttore della disponibilità della res locata e delle sue pertinenze, con il conseguente obbligo di custodia, dal quale discende, altresì, quello di impedire che la cosa locata stessa arrechi danni a terzi. Tuttavia, può essere qualificato "custode " della cosa, per i fini di cui all'art. 2051 c.c., colui che ha la disponibilità di fatto di una cosa, non disgiunta, però, dalla disponibilità giuridica di essa. E' da considerarsi, perciò, "custode", ai sensi della norma indicata, sia il proprietario che il conduttore del bene, in quanto detentore qualificato (Cass. n. 24530/2009, Guida al diritto, 2010, 1, 4).
In particolare, secondo un principio consolidato, mentre il proprietario dell'immobile locato, conservando la disponibilità giuridica, e, quindi, la custodia, delle strutture murarie e degli impianti in esse conglobati, è responsabile in via esclusiva ai sensi degli artt. 2051 c.c. e 2053 c.c. dei danni arrecati a terzi da dette strutture e impianti (salvo eventuale rivalsa, nel rapporto interno, contro il conduttore che abbia omesso di avvertire della situazione di pericolo); con riguardo, invece, alle altre parti e accessori del bene locato, rispetto alle quali il conduttore acquista detta disponibilità con facoltà e obbligo di intervenire onde evitare pregiudizio ad altri, la responsabilità verso questi ultimi, secondo le previsioni dell'art. 2051c.c., grava soltanto sul conduttore medesimo .
Per entrambi i soggetti, tale tipo di responsabilità è esclusa solo dal caso fortuito, fattore che attiene non già a un comportamento del responsabile, bensì al profilo causale dell'evento, riconducibile non alla cosa (che ne è fonte immediata), ma a un elemento esterno, recante i caratteri dell'oggettiva imprevedibilità e inevitabilità e che può essere costituito anche dal fatto del terzo o dello stesso danneggiante .
In ogni caso sia l'accertamento in ordine alla sussistenza della responsabilità oggettiva sia quello in ordine all'intervento del caso fortuito che lo esclude involgono valutazioni (quali il dispiegarsi dei vari fattori causali, la ricerca dell'effettivo antecedente dell'evento dannoso, l'indagine sulla condotta del danneggiante e del danneggiato, le modalità di causazione del danno ecc.) che, come tali, sono riservate al giudice del merito, il cui apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione congrua e immune da vizi logici e giuridici (Cass. n. 472/2003 cit.).
Danni da impianti e strutture murarie.
Il proprietario-locatore resta custode di tutte quelle cose che non passano nella disponibilità del conduttore, vale a dire le strutture murarie e gli impianti, in esse conglobati, sui quali il conduttore ha la possibilità di intervenire per prevenire o riparare un danno.
In particolare, nell'espressione "strutture murarie e impianti in esse conglobati" rientrano soltanto i cornicioni, i tetti, le tubature idriche, gli impianti idrici e sanitari e quanto possa essere raggiunto con interventi sulle opere murarie.
Di conseguenza, una volta escluse la condizione di custodia relativamente alle parti dell'immobile sopra detti e, perciò, la presunzione iuris tantum di responsabilità ex art. 2051 c.c., qualora vi siano danni a terzi determinati dalle stesse strutture e impianti, il conduttore non deve certo vincere la suddetta presunzione; mentre è del tutto irrilevante accertare quale sia stata la causa effettiva del danno.
Così è evidente la responsabilità del proprietario per le infiltrazioni verificatesi nell'appartamento sottostante, causate da copiose perdite delle tubazioni interne alle pareti collegate ai servizi igienici dell'appartamento locato: infatti, nel caso di impianti idrici o sanitari siti all'interno delle strutture murarie, sulle quali il conduttore non ha alcun potere d'intervento, non potendo manometterle per eseguire le riparazioni, il proprietario- locatore conserva la disponibilità giuridica e, quindi, la custodia sia dei primi che delle seconde, con la conseguenza che, col solo limite del caso fortuito, risponde del danno cagionato al terzo dalla rottura di un qualsiasi manufatto incorporato nelle fabbriche.
Allo stesso modo, è responsabile il locatore per il danno conseguente allo scoppio di un tubo idrico di piombo poco prima dell'innesto del rubinetto d'uscita e, quindi, derivante da un elemento strutturale dell'edificio, su cui il conduttore non ha il potere-dovere di intervenire ex art. 1575 n. 2 e 1576, comma 1 cod. civ.
Al contrario, la Cassazione ha ritenuto che dei danni provocati dalla rottura del tubo flessibile del bidet debba rispondere l'inquilino, atteso che la serpentina è un tubo pieghevole non inglobato nell'impianto interno idrico, per la cui sostituzione non occorre intervenire nelle opere murarie e, di conseguenza, è sotto la vigilanza del conduttore-inquilino che è responsabile dei relativi danni.
Del pari è responsabile il conduttore per infiltrazioni d'acqua che hanno danneggiato un immobile confinante, provocate da un guasto alla lavatrice (Cass. n. 2422/2004 cit.), dai canali di scolo intasati dalle foglie cadute dagli alberi di alto fusto, che il conduttore non ha provveduto a eliminare.
Custodia e incendio.
La responsabilità per i danni provocati a terzi dall'incendio sviluppatosi in un appartamento condotto in locazione grava sul locatario e non sul proprietario, a meno che i danni lamentati derivino dalla violazione degli obblighi di custodia e di controllo su di lui gravanti perché relativi a cose (strutture murarie e impianti in esse conglobati) che non passano nella disponibilità del locatario.
In caso di danni derivati dall'incendio sviluppatosi in un immobile condotto in locazione, quindi, il conduttore risponde quale custode ex art. 2051 c.c. e si libera da tale responsabilità dando la prova del fortuito, che può anche consistere nella dimostrazione che il fattore determinante l'insorgere dell'incendio ha avuto origine in parti, strutture o apparati dell'immobile non rientranti nella sua disponibilità ed estranei, quindi, alla sfera dei suoi poteri e doveri di vigilanza; mentre il locatore, per i danni da incendio dell'immobile di sua proprietà, si sottrae alla responsabilità presunta, stabilita dalla citata norma, quando prova che l'incendio ha avuto origine in parti dell'immobile delle quali il conduttore ha la custodia in virtù del suo diritto di utilizzare il bene concessogli in godimento.
Alla luce di quanto sopra, si è ritenuto responsabile il conduttore per danni conseguenti a un incendio provocato da un corto circuito verificatosi in corrispondenza dell'interruttore unipolare situato in prossimità dell'accesso o della piattina di collegamento alla linea dell'impianto di illuminazione, cioè da elementi dell'impianto in questione che non potevano considerarsi "conglobati" nelle strutture murarie del bene locato, bensì accessori dello stesso .
Allo stesso modo, si è esclusa la responsabilità del proprietario-locatore per i danni prodotti a terzi da un incendio causato da materiali altamente infiammabili depositati dall'inquilino nei locali locati senza idonee precauzioni .
Tuttavia, nell'ipotesi di danni cagionati dall'incendio sviluppatosi in un immobile condotto in locazione, qualora non sia possibile determinare se l'incendio sia sorto in strutture murarie o impianti nella custodia del proprietario ovvero in parti o accessori nella disponibilità del conduttore, la responsabilità di cui all'art. 2051 c.c., si configura a carico sia del proprietario che del conduttore, poiché nessuno dei due è stato in grado di dimostrare che la causa autonoma del danno è da ravvisare nella violazione da parte dell'altro dello specifico dovere di vigilanza (fattispecie relativa ai danni cagionati da un incendio sviluppatosi al piano terra di una palazzina ed estesosi al piano superiore).
Danni da macchinari del conduttore.
Per quanto riguarda il problema dei macchinari del conduttore è stato affermato che il proprietario di un immobile concesso in locazione non può essere chiamato a rispondere, ex art. 2051 c.c., dei danni a terzi causati da macchinari utilizzati dal conduttore, quando non abbia avuto alcuna possibilità concreta di controllo sull'uso di essi, non potendo detta responsabilità sorgere per il solo fatto che il proprietario medesimo ometta di rivolgere al conduttore formale diffida ad adottare gli interventi del caso al fine di impedire il verificarsi di danni a terzi, giacché essi costituirebbero atti inidonei a incidere sul funzionamento della cosa dannosa (Cass. n. 8006/2010, Giust. civ. Mass. 2010, 4).
Così si è esclusa la responsabilità del proprietario di un immobile adibito a ristorante, gestito dal conduttore dell'immobile stesso, per i danni causati all'appartamento sottostante, di proprietà di un terzo, dalle infiltrazioni d'acqua provocate dall'impianto di condensa dei frigoriferi e dall'idrante per la pulizia dei pavimenti in uso al gestore del ristorante medesimo) (Cass. n. 8006/2010 cit.).
Alle stesse conclusioni si è pervenuti nei confronti del proprietario di un'officina per i danni che sono stati causati a terzi dall'impianto di espulsione dei gas utilizzato dal conduttore nonché gestore dell'officina stessa (Cass. n. 18188/ 2009, Giust. civ. 2010, 5, 1155).
A ciò si aggiunga che si è esclusa la responsabilità del proprietario per le immissioni sonore provocate dai macchinari del conduttore che arbitrariamente aveva mutato l'uso della res locata (commento tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - Corte di Cassazione, sentenza 09.06.2010 n. 13881 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO: Sicurezza in condominio: dal Ministero del Lavoro tutti i chiarimenti.
Il Ministero del Lavoro, nell'apposita sezione (FAQ) del sito, ha pubblicato le risposte ai quesiti sull’applicazione del Testo Unico della Sicurezza (D.Lgs. 81/2008) nell’ambito del condominio.
Di seguito i quesiti che hanno avuto risposta dal Ministero:
•    Chi è tenuto ad adempiere agli obblighi di sicurezza che gravano sul condominio?
•    Per il condominio la redazione del Documento di Valutazione dei Rischi (DVR) è prevista esclusivamente in presenza di lavoratori dipendenti che non rientrano nel campo del contratto collettivo dei proprietari dei fabbricati? (Risposta a quesito del 19.04.2010)
•    Per l’adempimento dell’obbligo di informazione (articolo 36 del D.Lgs. n. 81/2008) nei confronti dei soggetti di cui all’articolo 3, comma 9, è corretta l’effettuazione di una comunicazione scritta al lavoratore che contenga i requisiti previsti dall’articolo 36 ma non quelli previsti per il DVR negli artt. 28 e 29? (Risposta a quesito del 19.04.2010)
•    Nel caso in cui il condominio sia datore di lavoro (per la presenza di dipendenti ai quali si applichi il contratto collettivo dei proprietari di fabbricati o altra tipologia di lavoratore) e di contemporaneo “affidamento di lavori, servizi e forniture all’impresa appaltatrice o a lavoratori autonomi” (di cui all’articolo 26) il condominio medesimo deve intendersi “datore di lavoro” anche nei confronti di tali imprese o lavoratori autonomi con applicazione dei conseguenti obblighi?
•    Ove il condominio, che sia “datore di lavoro” nei confronti di lavoratori ai quali si applichi il contratto collettivo dei proprietari di fabbricati o altra tipologia di lavoratore, affidi “lavori, servizi o forniture” a impresa appaltatrice o a lavoratori autonomi, ex articolo 26 del “Testo unico” di salute e sicurezza sul lavoro, potrà indifferentemente ottemperare all’obbligo di fornire “informazioni dettagliate” (art. 26, comma 1, lett. b), e a quello di “informarsi reciprocamente” (art. 26, comma 2, lett. b), con una comunicazione (nel caso di non sussistenza di rischi da interferenze) oppure con la predisposizione del Documento Unico di Valutazione dei Rischi da Interferenza (in caso contrario)?
(link a www.acca.it).

CONDOMINIO: Gli ascensori saltano la revisione. Il Tar del Lazio ha accolto il ricorso di Confedilizia annullando gli effetti del dm 23/07/2009. Stop alla verifica straordinaria: sarebbe costata 6 mld.
Stop alla revisione straordinaria degli ascensori. Il TAR Lazio-Roma, Sez. III-ter, accogliendo un ricorso della Confedilizia, ha annullato con sentenza 01.04.2010 n. 5413 il decreto del ministero dello sviluppo economico del 23 luglio dello scorso anno che imponeva una verifica straordinaria degli impianti installati e messi in esercizio prima del 1999, dichiarando il provvedimento «illegittimo sotto tutti i profili». Un'operazione che secondo la Confederazione italiana della proprietà edilizia sarebbe costata qualcosa come 6 miliardi di euro.
La sentenza, spiega Confedilizia in una nota, sottolinea che il decreto «impone ai privati proprietari pesanti prestazioni personali e patrimoniali al di fuori di qualsiasi prescrizione legislativa e soprattutto lascia ampio spazio nella loro individuazione a una associazione privata (l'Uni), alle cui libere determinazioni, assunte nel tempo e finalizzate a un continuo adeguamento delle tecniche di valutazione dei rischi degli impianti, da essa imposte, dipende la loro progressiva quantificazione e i vantaggi economici che l'associazione ne ricava».
La riprova dell'«anomala e ingiustificata posizione di vantaggio che a essa si è ritenuto di assicurare, in danno dei proprietari», sottolinea anche la sentenza, «è già nell'obbligo fatto ai privati proprietari di acquisire, a un prezzo esoso, limitatamente a una sola copia del cartaceo recante il testo delle norme tecniche da osservare e “ad esclusivo uso del cliente”, la licenza da parte dell'Uni a utilizzare la normativa tecnica da essa predisposta, di cui è ritenuta proprietaria e che per questa ragione non è pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, come sarebbe doveroso per ogni normativa che alla collettività si impone di applicare».
La sentenza evidenzia, ancora, che «l'ordinamento vigente già impone ai proprietari di immobili dotati di ascensori due verifiche annuali e una straordinaria a opera di tecnici specializzati e autorizzati, con i relativi costi di non limitato livello».
Per effetto del decreto impugnato, «a detto sistema, niente affatto abrogato ma tuttora vigente e cogente», sottolinea la sentenza, «ora se ne sovrappone un altro motivato con riferimento alla migliore qualità che garantirebbero le tecniche Uni, come se la loro applicazione non potesse essere imposta ai tecnici che effettuano i primi controlli».
In sostanza, evidenzia la sentenza, «si mantiene in piedi un sistema, della cui efficacia si dubita, ma che obbliga i suoi operatori a segnalare immediatamente eventuali difetti dell'ascensore ai relativi proprietari perché provvedano a eliminarli, e a esso se ne sovrappone un altro, che introduce un'ulteriore verifica. Il primo controllore è controllato dal secondo, senza che sia neppure stabilito, in caso di esiti diversi, a quale dei due i privati proprietari devono conformarsi».
La sentenza è stata emessa in un procedimento nel quale la Confedilizia è stata difesa da Vittorio Angiolini, docente all'Università di Milano, e nel quale è intervenuta a sostegno del ricorso l'associazione consumatori Assoutenti.
Il presidente della Confedilizia, Corrado Sforza Fogliani, ha dichiarato: «A pochi giorni dall'accoglimento del nostro ricorso contro l'attribuzione ai Comuni della possibilità di determinare la base imponibile delle imposte anche comunali come l'Ici, il Tar del Lazio ha accolto un altro nostro ricorso, annullando un provvedimento che avrebbe causato forti spese a condomini e proprietari di casa, calcolate da una società del settore ascensori in sei miliardi di euro. La Confedilizia si conferma come un preciso punto di riferimento per la difesa delle ragioni proprietarie» (articolo ItaliaOggi del 02.04.2010, pag. 24).

CONDOMINIO: Amministratori di condominio: redazione del DVR e del DUVRI.
La Direzione Prevenzione della Regione Veneto, in risposta ad alcuni quesiti, fornisce chiarimenti in merito:
1. alla necessità o meno da parte dell'amministratore di condominio di procedere alla valutazione dei rischi all'interno dei condomini (con e senza dipendenti);
2. all'esistenza dell’obbligo di redigere il DUVRI nei condomini (con e senza dipendenti).
Secondo la regione gli amministratori di condomini che non sono datori di lavoro nei termini del D.Lgs. 09.04.2008, n. 81 non sono tenuti ad elaborare né il DVR né il DUVRI ... (link a www.acca.it).

CONDOMINIOE' lecita l'apposizione di insegne nei muri perimetrali di edifici in condominio, anche nelle parti del muro che non corrispondono alle proprietà esclusive dei singoli condomini.
In assenza di specifiche previsioni contenute nei regolamenti comunali, di cui non è stata puntualmente allegata l’esistenza da ambo le parti, occorre richiamare l’ormai consolidato orientamento della giurisdizione civile secondo cui è lecita l'apposizione di insegne nei muri perimetrali di edifici in condominio, anche nelle parti del muro che non corrispondono alle proprietà esclusive dei singoli condomini (tra le tante, Cass. Civile, Sez. II, 03.02.1998, n. 1046; Cass. 24.10.1986 n. 6229; Cass. 17.04.1981 n. 2331; Cass. 13.07.1973 n. 202) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 25.03.2010 n. 341 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATABonus ristrutturazioni edilizie, il condominio è a tutto campo.
La detrazione del 36% spetta per i lavori eseguiti su tutte le parti comuni indicate dal codice civile.
Sì alla detrazione Irpef del 36% per i lavori condominiali realizzati su tutte le parti comuni degli edifici residenziali elencate dai nn. 1, 2, 3, dell'articolo 1117 del codice civile.
Con la risoluzione 12.02.2010 n. 7/E, l'Agenzia delle Entrate risponde all'istanza presentata da un'associazione, che chiede un chiarimento sulla possibilità di "sfruttare" il bonus del 36% per i lavori eseguiti solo sulle parti condominali citate dal n. 1 dell'articolo 1117 del codice civile (il suolo su cui sorge l'edificio, le fondazioni, i muri maestri, i tetti e i lastrici solari, le scale, i portoni d'ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici, i cortili e in genere tutte le parti dell'edificio necessarie all'uso comune) o anche per quelle elencate nei successivi numeri 2 (i locali per la portineria e per l'alloggio del portiere, per la lavanderia, per il riscaldamento centrale, per gli stenditoi o per altri simili servizi in comune) e 3 dello stesso articolo (le opere, le installazioni, i manufatti di qualunque genere che servono all'uso e al godimento comune, come gli ascensori, i pozzi, le cisterne, gli acquedotti e, inoltre, le fognature e i canali di scarico, gli impianti per l'acqua, per il gas, per l'energia elettrica, per il riscaldamento e simili fino al punto di diramazione degli impianti ai locali di proprietà esclusiva dei singoli condomini) (link a www.nuovofiscooggi.it).

CONDOMINIO: COMUNIONE E CONDOMINIO - CONDOMINIO - INNOVAZIONI E MODIFICHE - VIOLAZIONE DEL DECORO ARCHITETTONICO - VALUTAZIONE IN RELAZIONE ALL'IMPATTO CON L'AMBIENTE - ESCLUSIONE.
Spetta al giudice di merito accertare in concreto se una data innovazione costituisce o meno alterazione del decoro architettonico, per cui la sentenza che affermi o meno l'esistenza di detta alterazione è censurabile in sede di legittimità solo per vizio di motivazione sul punto.
Il decoro architettonico, quale estetica data dall'insieme delle linee e delle strutture ornamentali che costituiscono la nota dominante dell'edificio imprimendo allo stesso una sua armoniosa fisionomia, deve essere valutato, ai sensi dell'articolo 1120, comma 2, del codice civile con riferimento al fabbricato condominiale nella sua totalità (potendo anche interessare singoli punti del fabbricato purché l'immutazione di essi sia suscettibile di riflettersi sull'intero stabile) e non rispetto all'impatto con l'ambiente circostante (Corte di Cassazione, Sez. II, civile, sentenza 25.01.2010 n. 1286 - commento tratto da www.diritto24.ilsole24ore.com).

anno 2009

EDILIZIA PRIVATA: Realizzazione di un abuso sopra porzione di edificio regolare - Confini del diritto di acquisizione del Comune in caso di inottemperanza all'ordine di demolizione.
Qualora l'opera abusiva consista in un piano (o in una porzione di piano) situato in un edificio composto anche da abitazioni regolari il Comune acquisisce non un diritto di superficie ma la proprietà esclusiva degli appartamenti abusivi e la comproprietà delle parti comuni dell'intero edificio (come definite dall'art. 1117 c.c.). Se l'edificio era in origine di un solo proprietario, con il provvedimento di acquisizione si forma un condominio.
Tra le parti comuni rientra anche il sedime dell'edificio, che quindi viene acquisito pro quota, in proporzione ai millesimi dei piani oggetto del provvedimento di acquisizione.
Per quanto riguarda l'area pertinenziale vale lo stesso principio dell'acquisto pro quota (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 14.12.2009 n. 2565 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa realizzazione di un ascensore interno non necessita di alcun preliminare titolo abilitativo.
La realizzazione dell’ascensore interno soddisfa imprescindibili esigenze abitative di coloro che, versando in condizioni fisiche di minore abilità, devono poter raggiungere le unità immobiliari collocate agli ultimi piani.
È sintomatica la situazione soggettiva dei parenti prossimi del condomino ricorrente che, proprio in considerazione della carenza di ascensore, lamenta che l’anziana madre non è in grado di accedere all’abitazione sita all’ultimo piano del condominio.
Né va passato sotto silenzio che la realizzazione dell’ascensore è ascrivibile al genus degli interventi preordinati a rimuovere le barriere architettoniche: l’art. 6, comma 2, lett. b), D.P.R. n. 380/2001 esonera dalla richiesta del titolo abilitativo gli interventi volti all’eliminazione delle barriere architettoniche che non comportino la realizzazione di rampe o di ascensori esterni, ovvero di manufatti che alterino la sagoma dell’edificio.
La littera legis è univoca nell’escludere gli ascensori interni dal previo ottenimento del titolo abilitativo.
Eventuali disposizioni contenute negli strumenti urbanistici o nel regolamento edilizio devono essere scrutinate alla luce della richiamata disposizione che, in ragione della collocazione sistematica della fonte dalla quale promana, è norma di principio come tale vincolante sia il legislatore regionale che quello locale (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 20.10.2009 n. 2792 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO: La sicurezza sul lavoro e il Condominio secondo il Ministero del Lavoro.
Il Ministero del Lavoro, in linea con le disposizioni del decreto legislativo 09.04.2008, n. 81, intende promuovere la diffusione della cultura della sicurezza e della prevenzione.
In tale ottica il sito del Ministero ha attivato una sezione apposita "Sicurezza sul Lavoro" curata da personale competente che contiene documenti e informazioni per la sicurezza sul lavoro.
Segnaliamo in particolare i pareri in relazione agli adempimenti per la sicurezza che deve porre in essere il Condominio (link a www.acca.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: 1. Sindaco - Ordinanze contingibili e urgenti - Presupposti per l'emanazione - Sanità e igiene.
2. Sindaco - Ordinanze contingibili e urgenti - Cessazione di emissioni di fumo - Motivazione - Carente - Ipotesi.
3. Giudizio amministrativo - Procedura - Controinteressato - Impugnazione di atto sollecitato dall'amministratore del condominio.

1. I presupposti necessari per l'emanazione di provvedimenti contingibili ed urgenti sono, da un lato, l'impossibilità di differire l'intervento ad altro momento in relazione alla ragionevole previsione di danno incombente (da cui il carattere dell'urgenza), dall'altro, l'inattuabilità degli ordinari mezzi offerti dalla normativa (da cui la contingibilità). Con specifico riferimento alla sanità ed igiene, l'esercizio, da parte del Sindaco, del potere di emanare ordinanze contingibili ed urgenti in dette materie è condizionato all'esistenza di seguenti presupposti: necessità di intervenire in determinare materie, quali la sanità e l'igiene; attualità od imminenza di un fatto eccezionale, quale causa da rimuovere con urgenza; preventivo accertamento, da parte degli organi competenti, della situazione di pericolo e di danno; mancanza di strumenti alternativi previsti dall'ordinamento, visto il carattere extra ordinem del potere sindacale (1).
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(1) TAR Campania Napoli, sez. V, 14-10-2005 n. 16477.
2. E' carente di motivazione un'ordinanza contingibile ed urgente, con la quale si ordina la cessazione con effetto immediato di emissioni di fumo provenienti da una canna fumaria, che, sebbene sul piano del requisito dell'urgenza, soddisfi il presupposto dell'espletamento di apposito accertamento tecnico da parte degli organi competenti, sul piano della contingibilità, non si soffermi sulla dimostrazione dell'impossibilità, per il Comune, di utilizzare strumenti alternativi a quello attivato, avente carattere eccezionale ed extra ordinem. La questione, che non pare superabile con il ricorso all'art. 21-octies co. 2, L. n. 241/1990, non è meramente formale, in quanto, il ricorso allo strumento extra ordinem consente alla p.A. di evitare in modo legittimo la comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7, L. n. 241/1990 (2).
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(2) TAR Campania Napoli, sez. V, 14-10-2005 n. 16477; Cons. Stato, sez. V, 13-08-2007 n. 4448.
3. Il fatto che l'autore dell'esposto che ha dato luogo ad un'ordinanza contingibile ed urgente fosse l'amministratore di un condominio non vale certo a fare di quest'ultimo il controinteressato, né il destinatario della notificazione del gravame, attesi i confini della legittimazione processuale passiva dell'amministratore del condominio fissati dall'art. 1131, Cod. Civ., (che riguarda le sole parti materiali destinate all'uso comune dei condomini, anche se ubicate all'esterno dello stabile condominiale) (3). Per tale condominio, quindi, la qualifica di controinteressato spetterebbe, in linea di principio, ai proprietari ed ai residenti nello stabile (4) (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 18.06.2009 n. 1070 - link a
http://mondolegale.it).
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(3) Cass. Civ., sez. II, 19-01-1985 n. 145.
(4) Cons. Stato, sez. V, 11-04-1991 n. 542.

AMBIENTE-ECOLOGIA: M. A. Mazzola, “Rumore sì, rumore no”.
La sentenza 11.06.2009 n. 2295 del Tribunale di Genova, Sez. III civile, lascia perplessi perché si discosta dall’unanime orientamento giurisprudenziale di considerare intollerabile il rumore, non applicando il noto criterio dell’incremento di 3 decibel, sostituito nella specie dal criterio di accettabilità prescritto dal legislatore con fonte regolamentare (si rinvia per un maggiore approfondimento a Mazzola M.A., Immissioni e risarcimento del danno, Utet, 2009).
Le perplessità non riguardano soltanto la via intrapresa quanto le fragili motivazioni che la sostengono, di natura tecnica.
Probabilmente la scelta di seguire tale via è stata fortemente condizionata dalla recente scelta del legislatore di intervenire in materia di immissioni intollerabili da rumore con l’art. 6-ter della legge 27.02.2009, n. 13 (G.U. 28.02.2009 n. 49) - Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30.12.2008, n. 208 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale -serie generale- n. 304 del 31.12.2008), recante misure straordinarie in materia di risorse idriche e di protezione dell'ambiente, ed entrata in vigore l'01.03.2009, che ha appunto convertito con modificazioni il decreto-legge 30.12.2008, n. 208, inerente misure straordinarie in materia di risorse idriche e di protezione dell'ambiente.
In particolare la norma ha statuito che “1. Nell'accertare la normale tollerabilità delle immissioni e delle emissioni acustiche, ai sensi dell'articolo 844 del codice civile, sono fatte salve in ogni caso le disposizioni di legge e di regolamento vigenti che disciplinano specifiche sorgenti e la priorità di un determinato uso.” (Art. 6-ter, Normale tollerabilità delle immissioni acustiche).
E’ evidente come tale norma non abbia effetto retroattivo e difatti il giudice ligure non la cita, perlomeno esplicitamente. La fa però sua nell’impianto motivazionale e la scelta di attribuire carattere di tollerabilità (salvo alcune immissioni, la cui intollerabilità risulta infine sufficiente per giustificare un riparto delle spese più gravose per il condominio) alle immissioni di rumore prodotte dalla caldaia condominiale nel loro complesso, o comunque nella parte dominante di esse, induce l’organo giudicante pure a valutare con maggiore senso critico la prova dei danni non patrimoniali. Danni che difatti non riconosce, unitamente a quelli patrimoniali, sempre negati.
Invero, le motivazioni in ordine alla valutazione dei danni appare comunque in parte condivisibile (danni alla salute, e danni patrimoniali) ed in parte sostenibile (i restanti danni non patrimoniali) (link a www.greenlex.it).

EDILIZIA PRIVATA: Condominio - Opere strettamente pertinenziali all’unità immobiliare del singolo condomino - Concessione edilizia - Consenso degli altri partecipanti alla comunione - Necessità - esclusione.
Il singolo condomino, in virtù del combinato disposto degli artt. 1102 c.c. (facoltà del comunista di servirsi delle cose comuni), 1105 c.c. (concorso di tutti i condomini alla cosa comune) e 1122 c.c. (divieto al condomino di realizzare opere che danneggino le cose comuni), può ottenere a proprio nome la concessione edilizia per un'opera da realizzare sulle parti comuni di un edificio senza chiedere il consenso degli altri condomini, sempre che le opere siano strettamente pertinenziali all'unità immobiliare.
Pertanto in tali casi il condòmino può apportare al muro perimetrale, senza bisogno del consenso degli altri partecipanti alla comunione, tutte le modificazioni che consentano di trarre dal bene comune una particolare utilità aggiuntiva rispetto a quella goduta dagli altri condòmini, ivi compreso l’inserimento nel muro di elementi ad esso estranei e posti al servizio esclusivo della sua porzione, purché non impedisca agli altri condòmini l’uso del muro comune e non ne àlteri la normale destinazione con interventi di eccessiva vastità (TAR Abruzzo-L’Aquila, Sez. I, sentenza 24.03.2009 n. 221 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Opere su parti comuni di edificio.
Non è necessario richiedere il previo assenso del condominio interessato ovvero degli altri condomini, in caso di realizzazione di un'opera da parte di un singolo sulle parti comuni di un edificio se l’opera medesima sia strettamente pertinenziale alla sua unità immobiliare (TAR Abruzzo-L'Aquila, Sez. I, sentenza 24.03.2009 n. 221 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATAFurti in casa agevolati dai ponteggi: responsabili il condominio e l'imprenditore.
Nell’ipotesi di furto subito dal condomino per la presenza di ponteggi posti a ridosso dell’edificio che, in assenza di opportune precauzioni, hanno agevolato la produzione dell’evento dannoso, sussiste la responsabilità concorrente del condominio e dell’appaltatore (Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 17.03.2009 n. 6435 - link a www.altalex.com).

EDILIZIA PRIVATAL'esecuzioni di lavori su parti condominiali presuppone la preliminare acquisizione agli atti del Comune -e conseguente valutazione- del parere dell'assemblea condominiale.
Trattandosi di intervento che, come si è avuto modo di verificare coinvolge in maniera diretta e rilevante anche parti comuni, occorreva acquisire e valutare l’assenso condominiale (TAR Toscana, sez. II, 30.07.1990, n. 381, TAR Liguria n. 800/2007, 916/2005 e 284/2006).
In particolare, è già stato evidenziato che il generale necessario assenso debba essere valutato alla luce della situazione dei luoghi e delle ragioni espresse dal condominio (cfr. TAR Liguria 24.01.2002 n. 63), ed è tale valutazione ad essere del tutto carente nella specie
(TAR Liguria, Sez. II, sentenza 09.01.2009 n. 43 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2008

CONDOMINIO: G. Cascella, Diritto di non utilizzare le parti comuni in condominio: il riscaldamento centralizzato (link a www.filodiritto.com).

EDILIZIA PRIVATALa legittimazione a chiedere la concessione edilizia spetta solo a chi abbia, in virtù di un diritto reale o di una obbligazione, la facoltà di eseguire il progetto assentito.
Ai sensi dell’art. 4, comma 1, L. 28.01.1977 n. 10, la legittimazione a chiedere la concessione edilizia spetta solo a chi abbia, in virtù di un diritto reale o di una obbligazione, la facoltà di eseguire il progetto assentito.
Tale legittimazione compete anche al singolo condòmino riguardo ad un’opera da realizzare sulle parti comuni di un edificio, ma solo ove tale opera sia strettamente pertinenziale alla sua unità immobiliare, in virtù del combinato disposto degli artt. 1102 (facoltà del comunista di servirsi delle cose comuni), 1105 (concorso di tutti i condomini alla cosa comune) e 1122 (divieto al condominio di realizzare opere che danneggino le cose comuni) (Consiglio di Stato, sez. V, 23.06.1997, n. 699)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 03.09.2008 n. 10036 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIOAnche l’amministratore di un condominio, se e quando munito di specifici poteri a lui conferiti dai singoli condomini, può richiedere il rilascio di una concessione edilizia in quanto la legge non esclude che i soggetti titolati possano avvalersi di altri soggetti, regolarmente incaricati secondo le regole generali per esercitare il loro diritto.
Con riferimento alla legittimazione ad agire dell’amministratore del condominio, questo Tribunale ha già avuto modo di chiarire che “anche l’amministratore di un condominio, se e quando munito di specifici poteri a lui conferiti dai singoli condomini, possa richiedere il rilascio di una concessione edilizia in quanto la legge non esclude che i soggetti titolati possano avvalersi di altri soggetti, regolarmente incaricati secondo le regole generali per esercitare il loro diritto. Ciò può facilmente verificarsi nell’ipotesi di lavori di ristrutturazione di uno stabile condominiale per i quali è richiesta la concessione edilizia o nel caso di demolizione e successiva ricostruzione di un edificio condominiale” (cfr. TAR Campania Napoli, sez. II, n. 435/1996) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 03.09.2008 n. 10036 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARISconto del 36% soltanto a chi usa il montascale per andare in garage - L’agevolazione fiscale per la realizzazione di opere che favoriscono la mobilità di soggetti con difficoltà motorie spetta a chi sostiene la spesa e utilizza il manufatto.
Il soggetto che ha installato in un condominio, per suo esclusivo utilizzo, un montascale che gli faciliti l’accesso al piano garage, non deve dividere con gli altri condomini la detrazione fiscale del 36%, fino a una spesa massima di 48mila euro, prevista dall’articolo 1 della legge 449/1997. Il beneficio, dunque, anche se l’intervento è avvenuto sulle parti comuni di un edificio residenziale, non va calcolato in base alla quota millesimale (risoluzione 01.08.2008 n. 336/E - link a www.fiscooggi.it).

CONDOMINIOSulla differenza tra balcone "incassato" e balcone "aggettante".
Secondo il più recente indirizzo giurisprudenziale, occorre distinguere se i balconi siano “incassati”, in tutto o in parte, nel corpo dell’edificio (assolvendo, quindi, una funzione sia di copertura, sia di sostegno), ovvero “aggettanti” (in cui può riconoscersi alla soletta del balcone funzione di copertura rispetto al balcone sottostante, disgiunta, però, dalla funzione di sostegno e, quindi, non indispensabile per l’esistenza stessa dei piani sovrapposti).
Con riferimento ai balconi “incassati” nel corpo dell’edificio, la giurisprudenza ritiene operante una presunzione di comunione, mentre con riferimento ai balconi “aggettanti”, la giurisprudenza afferma che, “…costituendo un ‘prolungamento’ della corrispondente unità immobiliare, appartengono in via esclusiva al proprietario di questa…Pertanto, nelle ipotesi di strutture completamente aggettanti –in cui può riconoscersi alla soletta del balcone funzione di copertura rispetto al balcone sottostante e, trattandosi di sostegno non indispensabile per l’esistenza dei piani sovrastanti– non può parlarsi di elemento a servizio di entrambi gli immobili posti su piani sovrastanti, né, quindi, di presunzione di proprietà comune del balcone aggettante riferita ai proprietari dei singoli piani” (cfr. Cass. Civ., Sez. II, 30.07.2004, n. 14576; nello stesso senso anche Cass. Civ., Sez. II, 30.07.2004, n. 14590)
(T.R.G.A. Trentino Alto Adige-Bolzano, sentenza 27.03.2008 n. 101 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARIVivere in condominio - Guida informativa per chi acquista un immobile.

CONDOMINIO: "Guida al condominio" dell'Agenzia delle Entrate.
Che cos'è un condominio, come deve essere gestito, quali sono gli adempimenti fiscali e come ottenere le agevolazioni fiscali per risparmio energetico e ristrutturazioni edilizie?
A queste e ad altre simili domande risponde la "Guida al condominio" realizzata dall'Agenzia delle Entrate nel mese di dicembre 2007, disponibile anche in versione on-line. In particolare, la guida contiene utili indicazioni sui principali adempimenti fiscali a carico del condominio e dell'amministratore: effettuazione delle ritenute sui compensi erogati, assolvimento dei relativi obblighi dichiarativi e comunicazione di alcuni dati relativi ai condomini amministrati.
Un apposito capitolo illustra le agevolazioni d'imposta, in caso di interventi di ristrutturazione edilizia o di riqualificazione energetica sulle parti comuni degli edifici condominiali. Alcune parti sono inoltre centrate sugli obblighi da adempiere ai fini dell'Ici e delle imposte sui redditi relativamente agli immobili di proprietà comune. La Guida offre anche una sintetica esposizione dei principali aspetti giuridici del condominio, nonché della figura dell'amministratore e degli adempimenti fiscali per avviare tale attività).

anno 2007

CONDOMINIOQuando aprire un varco nel muro condominiale integra un abuso del diritto.
L’apertura di un varco nel muro condominale da parte di uno dei condomini al fine di consentire l’accesso ad un immobile estraneo al condominio integra la violazione dell’art. 1102 del c.c., dettato per la comunione ed applicabile anche al condomino. A norma di esso ciascuno dei partecipanti alla comunione può fare uso della cosa comune, senza tuttavia alterarne la destinazione ed impedirne il godimento agli altri partecipanti. Inoltre, può apportare modifiche alla cosa comune, purché necessarie a garantirne il miglio godimento.
Il muro condominiale, per effetto dell’apertura del varco, subisce un mutamento della destinazione di uso, in quanto trattandosi di muro perimetrale viene distolto dalla sua naturale funzione di recinzione del condominio per asservire a passaggio in favore di un immobile estraneo al condomino. Pertanto, deve ritenersi vietato al singolo condomino operare simili modifiche senza avere acquisito preventivamente il consenso degli altri condomini.
In definitiva, il condomino che, senza il preventivo consenso degli altri condomini, apre un varco sul muro condominiale al solo fine di agevolare l’accesso ad un immobile di sua proprietà compie un abuso del diritto.
L’abuso non sussiste invece nel caso diverso in cui il varco è aperto al fine di accedere ad un immobile facente parte del complesso condominiale, atteso che in questo caso si tratta di agevolare l’uso ed il godimento della cosa comune da parte di tutti i condomini.
Nello stesso senso è la giurisprudenza dominante che in più occasioni è pervenuta alla conclusione dell’illegittimità, ai sensi del citato art. 1102 c.c. di simili opere eseguite sul muro perimetrale condominiale tutte le volte in cui il suolo o il fabbricato cui sia dato accesso costituisca un’unità immobiliare estranea al condominio, ancorché appartenente ad uno dei condomini (Cass. 9036/2006, 360/2005, 2773/1992, 5780/1988)
(Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 19.12.2007 n. 26796 - link a www.altalex.com).

CONDOMINIODecoro architettonico condominiale va tutelato in base a circostanze concrete.
La tutela del decoro architettonico degli edifici condominiali, anche di quelli privi di particolari pregi artistici, è stata apprestata dal legislatore, all’art. 1120 II co. c.c., non in astratto, bensì in considerazione della concorrenza di due distinte circostanze concrete: un’alterazione delle linee e delle strutture fondamentali dell’edificio, od anche di sue singole parti o di suoi singoli elementi dotati di sostanziale autonomia, ed una consequenziale diminuzione del valore dell’intero edificio e, quindi, anche di ciascuna delle unità immobiliari che lo compongono, di qui la legittimazione attiva non solo del condominio ma anche del singolo condomino (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 17.10.2007 n. 21835 - link a www.altalex.com).

EDILIZIA PRIVATAVano condominiale ad uso centrale termica richiede autorizzazione gratuita.
In primo luogo va rilevato che il condominio procedente aveva presentato richiesta di accertamento di conformità per gli interventi eseguiti, ai sensi dell’art. 13 della legge n. 47 del 1985 e quindi, in base ad un consolidato principio giurisprudenziale, l’Amministrazione non poteva adottare provvedimenti sanzionatori prima di essersi pronunciata su detta richiesta.
Il provvedimento impugnato ha ad oggetto un intervento di modesta entità relativo alla copertura della centrale termica, costituente, dunque, chiaramente volume tecnico e pertinenza della costruzione, per il rapporto di durevole subordinazione con la res principale.
Va ricordato, come evidenziato dalla parte istante, che le pertinenze e gli altri tipi di interventi edilizi indicati dall'art. 7 del decreto-legge n. 9 del 1982 sono assoggettati ad autorizzazione gratuita e non a concessione edilizia. In particolare, il secondo comma del medesimo art. 7 del decreto-legge n. 9 del 1982 precisa ed estende l'ambito degli interventi soggetti ad autorizzazione, comprendendo tra essi anche "le opere costituenti pertinenze od impianti tecnologici al servizio di edifici già esistenti" (lettera a)
(TAR Lazio, Sez. II-bis, sentenza 26.06.2007 n. 5779 - link a www.altalex.com).

anno 2006

EDILIZIA PRIVATA: Sul recupero dei sottotetti condominiali.
In caso di intervento edilizio afferente un sottotetto (condominiale) da ritenersi non di pertinenza esclusiva dell'appartamento dei richiedenti, siccome insistente contemporaneamente su tre diverse porzioni materiali del fabbricato, occorre, infatti, il previo consenso di tutti i condomini; è al riguardo irrilevante la circostanza che l'intervento inerisca unicamente la parte di sottotetto sovrastante l'unità immobiliare degli istanti, posto che dette opere influirebbero comunque sulla destinazione del sottotetto all'uso comune.
Il sottotetto di un edificio in condominio può considerarsi pertinenza esclusiva dell'appartamento sito all'ultimo piano solo quando assolva la esclusiva funzione di isolare e proteggere l'unità stessa dal caldo, dal freddo e dall'umidità, crei una sorta di camera d'aria, non anche quando abbia dimensioni e carattere strutturali tali da consentirne l'utilizzazione come vano autonomo, nel quale deve presumersi di proprietà condominiale laddove risulti in concreto seppur in via solo potenziale, oggettivamente destinato all'uso comune (Consiglio Stato, sez. V, 09.10.2003, n. 6049)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.01.2006 n. 72 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2004

CONDOMINIO: COMUNIONE DEI DIRITTI REALI - CONDOMINIO NEGLI EDIFICI - PARTI COMUNI DELL'EDIFICIO - CORTILI, CHIOSTRINE, FINESTRE - Aree condominiali scoperte - Destinazione in parte a parcheggio delle vetture dei condomini ed in parte a parco giochi - Delibera assembleare - Approvazione - All'unanimità - Necessità - Esclusione - A maggioranza - Legittimità.
La delibera assembleare di destinazione di aree condominiali scoperte in parte a parcheggio autovetture dei singoli condomini e in parte a parco giochi va approvata a maggioranza qualificata dei condomini ex art. 1136 quinto comma, cod. civ.) -con la quale possono essere disposte tutte le innovazioni dirette al miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni (art. 1120 primo comma, cod. civ.)- non essendo all'uopo necessaria l'unanimità dei consensi degli aventi diritto al voto (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 29.12.2004 n. 24146 - commento tratto da www.diritto24.ilsole24ore.com).

CONDOMINIO: COMUNIONE DEI DIRITTI REALI - CONDOMINIO NEGLI EDIFICI - PARTI COMUNI DELL'EDIFICIO - CORTILI, CHIOSTRINE, FINESTRE - Cortile - Destinazione a parcheggio di autoveicoli - Delibera assembleare - Approvazione a maggioranza - Validità - Fondamento.
In tema di condominio, la delibera assembleare di destinazione del cortile a parcheggio di autovetture -in quanto disciplina le modalità di uso e di godimento del bene comune- è validamente approvata con la maggioranza prevista dal quinto comma dell'art. 1138 cod.civ., non essendo richiesta l'unanimità dei consensi (Corte di Cassazione, Sez. II, civile, sentenza 08.11.2004 n. 21287 - commento tratto da www.diritto24.ilsole24ore.com).