dossier CONDOMINIO |
per approfondimenti vedi anche:
Legge
11.12.2012 n. 220 - Modifiche alla disciplina del
condominio negli edifici
* * *
Regio
Decreto 16.03.1942 n. 262 - Approvazione del testo del
Codice civile ("del condominio negli edifici":
dall'art.
1117 all'art.
1139)
* * *
Regio Decreto 30.03.1942 n. 318 - Disposizioni per
l'attuazione del Codice civile e disposizioni transitorie |
anno 2022 |
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dicembre 2022 |
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CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Il condòmino disabile può predisporre l’ascensore sulla facciata del palazzo
anche senza l’ok dell’assemblea. La tutela del diritto alla salute e il
prinicipio di solidarietà sociale
consentono minime compromissioni del decoro architettonico.
L’ascensore esterno, installato sulla facciata condominiale a cura e spese
del disabile e volto a eliminare le barriere architettoniche, deve
considerarsi indispensabile ai fini della accessibilità e abitabilità
dell’appartamento.
È il chiarimento reso dal TRIBUNALE di Roma, Sez. V civile, con la
sentenza
30.12.2022 n. 19186.
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SENTENZA
La domanda merita accoglimento.
Il presente giudizio ha ad oggetto l’accertamento del diritto dell’attore,
in quanto condòmino, peraltro affetto da gravi patologie che ne impediscono
la deambulazione, all’installazione (sulla facciata esterna dell’edificio
condominiale di via … n. … in Roma) di un elevatore, diritto già in passato
negato dall’assemblea dei condòmini.
Sul punto deve subito osservarsi come l’assemblea di condominio abbia
certamente il potere di decidere, nell’interesse collettivo, le modalità
concrete di utilizzazione dei beni comuni, nella specie ai fini di
autorizzare l’installazione di un ascensore in area condominiale, come anche
quello di modificare –revocando una o più precedenti delibere, benché non
impugnate da alcuno dei partecipanti, e stabilendone liberamente gli
effetti– quelle in atto, ove intenda rivalutare la corrispondenza
dell’innovazione ai limiti segnati dagli artt. 1120 e 1121 c.c. Non ha,
tuttavia, il potere di impedire tale installazione laddove essa non comporti
il superamento i limiti imposti dalla coesistenza di beni comuni e sia in
ogni caso volta ad eliminare le barriere architettoniche presenti
nell’edificio.
In particolare, l’installazione di un ascensore su parte di aree
condominiali, diretta ad eliminare le barriere architettoniche, ai sensi
della L. 02.01.1989, n. 13, art. 2 può essere approvata dall’assemblea con
la maggioranza prescritta dall’art. 1136 c.c., comma 2, oppure, nel caso in
cui il condominio rifiuti di adottare la relativa delibera, essere
realizzata dai condòmini richiedenti, a proprie spese e con l’osservanza dei
limiti previsti dagli artt. 1120 e 1121 c.c.
Alla eventuale “autorizzazione” concessa dall’assemblea ad apportare
tale modifica su iniziativa dei soli condòmini richiedenti e sulla base di
uno specifico progetto può, quindi, attribuirsi il valore di mero
riconoscimento dell’attuale inesistenza di un contrario interesse o di
concrete (e legittime) pretese da parte degli altri condòmini a questo tipo
di utilizzazione delle parti comuni.
Una tale delibera autorizzativa della realizzazione dell’impianto, pur
vincolante nei confronti di tutti i condòmini (art. 1137 c.c., comma 1), non
può ritenersi, perciò, simmetricamente produttiva di un autonomo diritto già
spettante ai condòmini (rimanendo, peraltro, detta delibera revocabile dalla
medesima assemblea sulla base di una rivalutazione di dati ed apprezzamenti
obiettivamente rivolti alla realizzazione degli interessi comuni ed alla
buona gestione dell’amministrazione; sarebbe del resto precluso al giudice
un sindacato nel merito circa l’uso, da parte dell’assemblea dei condòmini,
di detta facoltà di nuovo apprezzamento, se non nei limiti consentiti
dall’indagine per l’accertamento dell’eccesso di potere, e cioè di un grave
pregiudizio, in tal senso, cfr. Cass. civ., Sez. II, 04.02.2021, n. 2636)
Come chiarito dall’ormai consolidata giurisprudenza, anche di legittimità,
quindi, l’installazione di un ascensore, o di un impianto avente analoga
funzione, può avvenire per iniziativa assembleare (con imputazione
dell’opera all’intera collettività, anche con riferimento alla ripartizione
di costi) o anche di uno o più condòmini: in questo caso con attribuzione
dell’opera e dei relativi costi ai soli condòmini “promotori” e nel
rispetto dei limiti di cui all’art. 1102 c.c. quanto all’utilizzo di parti
comuni per la realizzazione dei manufatti (Cass. n. 24006/2004).
Orbene, le innovazioni che incidano sulla cosa comune (tra cui rientra anche
l’installazione di un ascensore che apporti modifiche alle parti
condominiali), richiedono, di regola, ai sensi dell’art. 1120 c.c. la
maggioranza qualificata, ove comportino una spesa da ripartire fra tutti i
condòmini su base millesimale; qualora invece (come nella specie) non debba
farsi luogo ad un riparto di spesa, trova applicazione la norma di cui
all’art. 1102 c.c. E’, infatti, evidente come le modificazioni eseguibili
sulla cosa comune in forza dell’art. 1102 c.c. possano costituire anche
un’innovazione ex art. 1120 c.c.; in tal caso esse sono consentite anche al
singolo condòmino, o ad un gruppo di condòmini, se:
1) non alterino la destinazione della cosa e non ne impediscano il
pari uso agli altri partecipanti al condominio;
2) rispettino il disposto di cui all’art. 1120, ultimo comma, c.c.,
perché detta norma (nel vietare le innovazioni che possano recare
pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato ovvero ne
alterino il decoro architettonico o rendano talune parti dell’edificio
inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condòmino) ha portata
generale ed è collocata nell’articolo in esame al fine di rendere evidente
che essa costituisce un limite invalicabile anche per la maggioranza dei
condòmini.
Nel caso in esame, l’opera proposta dal condòmino consiste in un elevatore
(modello Ecovimec Heavy Load), il quale, tenuto conto della grave
compromissione della capacità deambulatoria dell’attore, risulta essere
–come anche confermato dal CTU nel presente giudizio- l’unico modello
realizzabile per consentire l’ingresso su un lato della cabina e l’uscita
sul lato opposto, eliminando le barriere architettoniche costituite dalla
scalinata che conduce dalla strada al piano di ingresso su via …. .
Come emerso dalla CTU, le cui risultanze devono ritenersi pienamente
condivisibili, anche per il rigore metodologico che la caratterizza,
l’elevatore, pur incidendo sulla corte comune e sul prospetto anteriore
dell’edificio, non muta la destinazione d’uso dei beni comuni: nel primo
caso (corte), l’ascensore non occlude direttamente le vedute e le luci dei
varchi di ingresso dei negozi, i quali non vedranno invasa la loro proprietà
privata, essendo la corte esterna ad essi di uso comune.
Nel secondo caso (prospetto edificio) il vano corsa non impedisce né limita
le vedute delle finestre degli appartamenti privati e non comporta alcun
pregiudizio relativo all’illuminazione del vano scala posto che, sotto tale
profilo, il progetto prevede un vano corsa interamente vetrato, proprio per
consentire alla luce solare di penetrare all’interno del vano scala e non
limitare eccessivamente le vedute dall’interno del vano scala. Le funzioni
originariamente svolte dalle finestre, dunque, non vengono mutate dall’opera
de qua, essendo la torre dell’ascensore completamente trasparente.
Né, tanto meno, si ravvisano altri elementi che possano indurre a ritenere
che vi sia un pregiudizio per la staticità dell’edificio: trattasi, infatti,
di struttura in metallo che, benché ancorata all’edificio, è “autoportante”
e contiene un ascensore che grava sulle fondazioni della torre metallica,
senza alcun aggravio di peso alla struttura dell’edificio.
Neppure può dirsi, inoltre, sotto un più ampio profilo di “destinazione”
della facciata, rilevante anche nell’ipotesi di suo utilizzo ex art. 1102
c.c., che la realizzazione dell’impianto venga a ledere il decoro
architettonico dell’edificio. Come è dato, infatti, apprezzare dalle
fotografie versate in atti, lo stabile non presenta particolari pregi
architettonici, né rivela specifica ricerca di euritmia di linee, donde
l’inserimento di una struttura in vetro non comporta un pregiudizio estetico
ovvero un’alterazione delle linee dello stabile suscettibili di
apprezzamento oggettivo.
Peraltro, nell’ottica del contemperamento degli opposti interessi, anche
laddove vi fosse un interesse estetico, esso sarebbe sicuramente recessivo
rispetto alla tutela del diritto alla salute, in quanto, nel caso di specie,
tenuto conto delle condizioni personali dell’attore, la realizzazione
dell’ascensore risulta essere necessaria al fine di garantire il rispetto
della dignità umana e del principio di non discriminazione, di tal ché
bisognerebbe, comunque, ritenere tollerabile una minima compromissione
dell’integrità del decoro architettonico.
Per tali ragioni, in accoglimento della domanda attorea, deve ritenersi
accertato il diritto dell’attore di procedere, senza alcuna preventiva
autorizzazione assembleare, all’installazione dell’elevatore con le
caratteristiche e secondo le modalità meglio specificate nella c.t.u. alla
quale si rinvia (tenuto conto che:
1) il nuovo progetto “garantisce la totale accessibilità
all’edificio” da parte dell’attore “sin dal piano strada”;
2) “le linee architettoniche prescelte sono più coerenti con la
linearità dell’edificio esistente”;
3) “la nuova struttura non interferirà con quella dell’edificio
e ciò eviterà di dovere eseguire delle verifiche e degli eventuali
adeguamenti sismici su di esso”). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Laddove
gli abusi edilizi rilevati risultino realizzati su parti comuni, l’ordinanza
di ripristino non può essere rivolta all’amministratore pro tempore
del condominio ma deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei
singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle stesse.
Con riferimento alla disciplina previgente (rispetto
alla riforma recata dalla legge 11.12.2012, n. 220, Modifiche alla
disciplina del condominio negli edifici), era prevalente in giurisprudenza
la tesi della qualificazione del condominio come ente di gestione -che opera
in rappresentanza e nell'interesse comune dei partecipanti e limitatamente
all'amministrazione e al buon uso della cosa comune senza interferire nei
diritti autonomi di ciascun condomino- privo di personalità giuridica.
Inoltre, sempre secondo la giurisprudenza formatasi prima della novella del
2012, il condominio “non è titolare di un patrimonio autonomo, né di diritti
e di obbligazioni: la titolarità dei diritti sulle cose, gli impianti e i
servizi di uso comune, in effetti, fa capo ai singoli condomini”.
La giurisprudenza di legittimità, inoltre, ha costantemente qualificato il
condominio “come un ente di gestione sfornito di personalità giuridica
distinta da quella dei singoli condomini”.
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L’avversata ordinanza di demolizione si rivela illegittima in quanto:
- ove gli abusi rilevati risultino realizzati su parti di proprietà
esclusiva, l’ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi abusivamente
modificati non poteva essere rivolta all’amministratore pro tempore del
condominio, non risultando lo stesso qualificato come “responsabile
dell’abuso”;
- anche ove gli abusi rilevati risultino realizzati su parti
comuni, l’ordinanza di ripristino non poteva essere rivolta
all’amministratore pro tempore del condominio, atteso “che le parti comuni
dell'edificio non sono di proprietà dell'ente condominio, ma dei singoli
condomini. A tanto consegue che la misura volta a colpire l'abuso realizzato
sulle parti comuni deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei
singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle stesse”.
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... per l'annullamento dell’ordinanza prot. n. -OMISSIS- del 30.11.2011,
registrata al n. -OMISSIS- del 13.12.2011, notificata il 20.01.2012, con la
quale il dirigente del Dipartimento Attività Edilizie e Repressione
Abusivismo del Comune di Messina ha ordinato al ricorrente nella qualità di
provvedere, entro il termine di 90 giorni dalla notificazione dell’ordinanza
medesima, al ripristino quo-ante dello stato dei luoghi abusivamente
modificati, con l’avvertimento che, decorso infruttuosamente il predetto
termine, il bene e l’area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le
vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a
quelle abusive, verranno acquisite di diritto al patrimonio comunale;
...
Il deducente avvocato -OMISSIS-, nella qualità di amministratore del
condominio dell’isolato 248 in via -OMISSIS-, Messina, ha sottoscritto per
la presentazione al Comune intimato una d.i.a., prot. n. -OMISSIS-
dell’01.12.2009, relativa al progetto per il restauro dell’organismo
architettonico dell’isolato che amministra.
Nel prescritto termine di legge -giorni trenta dalla presentazione- non è
pervenuto alcun provvedimento inibitorio dell’attività edilizia oggetto
della d.i.a. e, quindi, sono stati regolarmente intrapresi i lavori.
Successivamente, tra fine settembre ed inizio ottobre del 2011, sono stati
effettuati due accertamenti da parte dell’Ufficio tecnico comunale,
all’esito dei quali il Dipartimento Attività Edilizie e Repressione
Abusivismo, senza alcuna preliminare contestazione o comunicazione di avvio
del procedimento, ha adottato due distinte ordinanze repressive, aventi
entrambe per destinatario il predetto amministratore pro tempore, con
le quali, rispettivamente, gli si ordinava
- il pagamento di una sanzione pecuniaria di € 516,00 (ordinanza
prot. n. -OMISSIS- del 30.11.2011) per la realizzazione di opere abusive in
assenza di autorizzazione o d.i.a. nonché
- (ordinanza prot. n. -OMISSIS- del 30.11.2011, in questa sede
impugnata) di procedere al ripristino dello stato dei luoghi, secondo il
Comune abusivamente modificati, per alcune “altre” opere, di
proprietà esclusiva di alcuni condomini, avvertendo che in caso di
inottemperanza il bene e l’area di sedime (non specificamente indicati)
nonché quella necessaria alla realizzazione di opere analoghe a quelle
abusive sarebbero stati acquisiti al patrimonio comunale.
Il ricorrente ha contestato, con memoria trasmessa al Comune di Messina
l’01.03.2012, entrambi i provvedimenti, evidenziando che l’eventuale
pagamento della sanzione pecuniaria irrogata con la prima ordinanza
non avrebbe costituito, comunque, acquiescenza alle contestazioni mosse e
che, per la seconda ordinanza, non sussistevano le condizioni
l’applicazione della sanzione della rimessione in pristino e l’acquisizione
al patrimonio comunale e che, comunque, egli non poteva essere destinatario
di una tale ordinanza (riguardante pretesi abusi su immobili di proprietà
privati), chiedendone l’annullamento in autotutela ed avvertendo che, in
mancanza, si sarebbe visto costretto a proporre azione giurisdizionale.
Nel silenzio dell’Amministrazione comunale il deducente ha proposto l’azione
di annullamento.
...
2. Il ricorso merita di essere accolto, nei sensi e nei termini in appresso
specificati.
Con riferimento alla disciplina previgente (rispetto alla riforma recata
dalla legge 11.12.2012, n. 220, Modifiche alla disciplina del condominio
negli edifici), era prevalente in giurisprudenza la tesi della
qualificazione del condominio come ente di gestione -che opera in
rappresentanza e nell'interesse comune dei partecipanti e limitatamente
all'amministrazione e al buon uso della cosa comune senza interferire nei
diritti autonomi di ciascun condomino- privo di personalità giuridica (cfr.
Cass. civ., sez. II, 03.04.2003, n. 5147; Cass. civ., sez. II, 09.06.2000,
n. 7891; Cass. civ., sez. II, 14.12.1993, n. 12304).
Inoltre, sempre secondo la giurisprudenza formatasi prima della novella del
2012, il condominio “non è titolare di un patrimonio autonomo, né di
diritti e di obbligazioni: la titolarità dei diritti sulle cose, gli
impianti e i servizi di uso comune, in effetti, fa capo ai singoli condomini”
(cfr. Cass. civ., Sez. Un., 08.04.2008, n. 9148).
La giurisprudenza di legittimità, inoltre, ha costantemente qualificato il
condominio “come un ente di gestione sfornito di personalità giuridica
distinta da quella dei singoli condomini” (cfr., ex plurimis,
Cass. civ. sez. III, 16.05.2011, n. 10717; Cass. civ. sez. II, 26.03.2010,
n. 7300; Cass. civ. sez. III, 18.02.2010, n. 3900; Cass. civ. sez. II,
21.01.2010, n. 1011; Cass. civ., sez. trib., 07.12.2004, n. 22942;
l’orientamento giurisprudenziale in questione, peraltro, è stato più di
recente ribadito da, ex plurimis, Cass. civ., sez. II, 06.10.2021, n.
27080; Cass. civ., sez. II, 26.09.2018, n. 22911; Cass. civ., sez. III,
31.10.2017, n. 25855).
Orbene, l’avversata ordinanza di demolizione ex art. 7 della legge
28.02.1985, n. 47 si rivela illegittima in quanto:
- ove gli abusi rilevati risultino realizzati su parti di proprietà
esclusiva, l’ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi abusivamente
modificati non poteva essere rivolta all’amministratore pro tempore
del condominio, non risultando lo stesso qualificato come “responsabile
dell’abuso”;
- anche ove gli abusi rilevati risultino realizzati su parti
comuni, l’ordinanza di ripristino non poteva essere rivolta
all’amministratore pro tempore del condominio, atteso “che le
parti comuni dell'edificio non sono di proprietà dell'ente condominio, ma
dei singoli condomini. A tanto consegue che la misura volta a colpire
l'abuso realizzato sulle parti comuni deve essere indirizzata esclusivamente
nei confronti dei singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle
stesse” (cfr. TAR Lazio, Roma, sez. II-quater, 18.05.2022, n. 6276; cfr.
anche TAR Basilicata, sez. I, 14.01.2022, n. 14; TAR Campania, Napoli, sez.
VIII, 10.07.2020, n. 3005).
3. In conclusione, previo assorbimento delle restanti censure, il ricorso
merita di essere accolto per le ragioni sopra evidenziate con conseguente
annullamento dell’ordinanza impugnata (TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 01.12.2022 n. 3130 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
giugno 2022 |
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CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Per l’ascensore l’iter è facilitato. È ammessa l’installazione
senza via libera dall’assemblea. Una pronuncia della Cassazione conferma la
liberalizzazione dell’uso delle parti comuni.
I condomini interessati possono installare a proprie spese e senza
l'autorizzazione assembleare l'impianto di ascensore nell'edificio che ne
sia privo, anche se quest'ultimo non rispetta le misure minime previste
dalla normativa sull'abbattimento delle barriere architettoniche e anche se
ne deriva un disagio minimo nell'utilizzo delle scale.
Questo quanto deciso dalla II Sez, civile della Corte di Cassazione, nella
recente
ordinanza 14.06.2022 n. 19087, che rappresenta, per così dire,
l'ultima frontiera in tema di liberalizzazione dell'uso delle parti comuni
per la costruzione di un impianto di ascensore senza il via libera
dell'assemblea condominiale.
Il caso. Alcuni
condomini avevano agito in giudizio per sentire accertare il proprio diritto
a installare a proprie spese un ascensore all'interno dell'edificio,
realizzato nell'anno 1960, che ne era sprovvisto. Questi ultimi intendevano
utilizzare allo scopo una parte delle aree comuni, ossia la tromba delle
scale e una piccola porzione degli scalini, che avrebbero dovuto essere
occupati con il vano dell'impianto.
Si erano costituiti in giudizio gli altri condomini, eccependo che
l'edificio difettava di uno spazio idoneo ad alloggiare l'ascensore
all'interno del vano scala, poiché non vi era la tromba delle scale. I
medesimi inoltre avevano rilevato che, a fronte di una larghezza delle scale
di 1,20 metri, con il taglio parziale dei gradini si sarebbe realizzata una
ulteriore riduzione dello spazio utile a deambulare.
Era stato poi anche contestato il fatto che la cabina dell'ascensore avrebbe
dovuto avere una profondità minima di 1,20 metri e una larghezza minima di
0,80 metri, ai sensi della legge n. 13/1989 e del dm n. 236/1989, dimensioni
che non sarebbero state rispettate dall'opera avuta in mente dai condomini
attori.
Infine, era stato eccepito che l'installazione dell'ascensore avrebbe
gravemente compromesso l'uso delle scale e della cabina a uno dei condomini,
in ragione della sua grossa corporatura.
Nel corso del giudizio era stata effettuata una consulenza tecnica d'ufficio
sulle modalità di realizzazione dell'impianto e a seguito di essa il
tribunale aveva autorizzato la realizzazione dell'impianto. La sentenza era
stata confermata in appello.
L'evoluzione della giurisprudenza di legittimità.
I giudici di legittimità negli ultimi anni si sono pronunciati sempre più
spesso in merito all'installazione dell'impianto di ascensore con utilizzo
delle parti comuni e, facendo leva sul disposto di cui all'art. 1102 c.c.,
sono giunti a inquadrare detto intervento come indispensabile ai fini
dell'accessibilità dell'immobile e della reale ed effettiva abitabilità del
medesimo.
Con sentenza n. 20713/2017 è stato così precisato che l'installazione
dell'ascensore nell'edificio che ne sia privo può essere effettuata anche da
una parte dei condomini, a condizione che gli stessi ne sopportino per
intero la relativa spesa. Tuttavia, gli altri condomini, ove in prosieguo
intendano utilizzarlo a loro volta, saranno legittimati a farlo, ma saranno
tenuti a rifondere ai primi una quota delle spese sostenute, opportunamente
rivalutata, divenendo così a loro volta comproprietari dell'impianto.
Con sentenza n. 7938/2017 è stato quindi ribadito come il tema
dell'accessibilità degli edifici e dell'eliminazione delle barriere
architettoniche costituisce espressione di un principio di solidarietà
sociale e persegue finalità di carattere pubblicistico. Detto principio
implica il contemperamento di vari interessi, tra i quali deve includersi
anche quello delle persone disabili all'eliminazione delle barriere
architettoniche, trattandosi di un diritto fondamentale che prescinde
dall'effettiva utilizzazione, da parte di costoro, degli edifici e che
conferisce comunque legittimità all'intervento innovativo, purché lo stesso
sia idoneo, anche se non a eliminare del tutto, quantomeno ad attenuare le
condizioni di disagio nella fruizione del bene primario dell'abitazione (si
vedano anche le decisioni nn. 6129/2017 e 18334/2012).
Del resto, nei casi in cui non debba procedersi a una ripartizione tra tutti
i condomini della spesa di installazione dell'impianto, trova in ogni caso
applicazione il ricordato art. 1102 c.c., in forza del quale ciascun
partecipante può servirsi del bene comune, a condizione che non ne alteri la
destinazione e non impedisca agli altri condomini di farne parimenti uso,
apportandovi quindi a proprie spese le modificazioni necessarie per il suo
miglior godimento (si vedano le decisioni nn. 16815/2022, 4439/2020,
25872/2010 e 24006/2004).
L'ultima decisione della Suprema corte.
La Suprema corte, nel dare continuità all'orientamento teso a facilitare
l'installazione degli impianti di ascensore negli edifici che ne siano
privi, si è occupata in questo caso proprio di contemperare gli opposti
interessi dei condomini favorevoli alla realizzazione dell'impianto e di
quelli che, viceversa, si lamentavano delle ricadute di tale intervento
sulla fruibilità delle parti comuni.
La larghezza delle scale si sarebbe, infatti, ridotta a 77 centimetri, al
netto del corrimano, per tutte le rampe, e addirittura a 74 centimetri per
la prima rampa, così impedendo il passaggio contemporaneo di due persone e
il passaggio orizzontale di una barella, in spregio alla obbligatorietà
della larghezza minima delle scale comuni di almeno 120 centimetri.
I condomini contrari all'intervento avevano anche obiettato che l'ascensore
avrebbe avuto una cabina di soli 58 centimetri, contro la prescrizione
normativa minima di 80 centimetri, con la conseguenza che il relativo uso
sarebbe stato limitato alle persone normodotate e di medio-piccola
corporatura, dovendosi tra l'altro rilevare che, come riportato dal
consulente tecnico d'ufficio, all'interno della cabina avrebbe potuto
accedere solo un portatore di handicap in grado di alzarsi dalla carrozzina,
ma non certamente anche la carrozzina stessa.
La Cassazione si è quindi richiamata alle valutazioni di merito condotte dai
giudici di appello. Nel caso di specie è evidente che era di fatto
impossibile contemperare gli opposti interessi, poiché, a fronte
dell'installazione di un ascensore, sia pure di dimensioni estremamente
ridotte e non in grado di rimuovere in modo completo le barriere
architettoniche, sarebbe stato indispensabile ridurre sensibilmente la
larghezza delle scale, e viceversa, ove si fosse inteso conservare quest'ultima,
sarebbe stato inevitabile rinunciare all'impianto. Che fare?
Secondo i giudici di merito, considerate le abitudini di vita e le esigenze
degli abitanti delle grandi città, nonché le attuali caratteristiche della
popolazione italiana, composta in misura di gran lunga prevalente da persone
non giovani, il sacrificio minore si sarebbe realizzato proprio incidendo
sulla larghezza delle scale.
A orientare nel senso della prevalenza del vantaggio connesso
all'installazione dell'ascensore erano poi state le fotografie dell'edificio
gemello a quello in cui abitavano i contendenti, nel quale era stato già
installato un impianto di ascensore identico a quello di cui al progetto,
ricavandosi da tali riproduzioni fotografiche che la posizione del vano
ascensore avrebbe implicato un disagio veramente minimo nell'uso quotidiano
della scala, tanto che una persona di corporatura media avrebbe potuto
affrontarle con normale facilità, pur rimanendo precluso il contemporaneo
passaggio di due persone, con la conseguenza che la limitata lunghezza delle
rampe e le buone condizioni di luminosità, anche in presenza dell'ascensore,
avrebbero ridotto al minimo il disagio che la riduzione dei gradini avrebbe
comportato.
La Suprema corte a questo proposito ha ricordato come il concetto di
inservibilità del bene comune non può consistere nel semplice disagio subito
rispetto alla sua normale utilizzazione, coessenziale al concetto di
innovazione di cui all'art. 1120 c.c., ma è costituito dalla sua concreta
inutilizzabilità.
I giudici di legittimità hanno infine chiarito che le prescrizioni di cui
alla legge n. 13/1989 si applicano, conformemente al principio di
irretroattività, ai soli edifici realizzati successivamente all'entrata in
vigore della normativa. In ogni caso le stesse sono derogabili, seppure
entro i ristretti limiti consentiti.
Infatti, in tema di accessibilità degli edifici e di eliminazione delle
barriere architettoniche, le prescrizioni tecniche dettate dall'art. 8 del
dm n. 236/1989, in ordine alla larghezza minima delle rampe delle scale,
possono essere derogate mediante scrittura privata (articolo ItaliaOggi
Sette del 04.07.2022).
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Il principio
In tema di condominio negli edifici,
nell’identificazione del limite all’immutazione della cosa comune,
disciplinato dall’art. 1120 c.c.), il concetto di inservibilità della stessa
non può consistere nel semplice disagio subito rispetto alla sua normale
utilizzazione, coessenziale al concetto di innovazione, ma è costituito
dalla sua concreta inutilizzabilità, secondo la sua naturale fruibilità.
Inoltre, in tema di accessibilità degli edifici e di eliminazione delle
barriere architettoniche, le prescrizioni tecniche dettate dall’art. 8 del
dm 236/1989, in ordine alla larghezza minima delle rampe delle scale,
possono essere derogate mediante scrittura privata, poiché l’art. 7 del
medesimo decreto consente, in sede di progetto, di adottare soluzioni
alternative alle suddette specificazioni e soluzioni tecniche, purché
rispondenti alle esigenze sottintese dai criteri di progettazione
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maggio 2022 |
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CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Affinché
un bene immobile abusivo possa legittimamente essere
oggetto dell'ulteriore sanzione costituita dall'acquisizione gratuita al
patrimonio comunale, ai sensi dell'art. 31 d.P.R. n. 380/2001, occorre che
il presupposto ordine di demolizione sia stato notificato a tutti i
comproprietari, al pari anche del provvedimento acquisitivo.
Ciò poiché risponde ad ovvi principi di tutela del diritto di difesa e di
partecipazione procedimentale il non riconoscere idoneità fondativa
dell'irrogazione della sanzione dell'acquisizione al patrimonio nei riguardi
dei comproprietari che non abbiano ricevuto regolare notifica dell'ordinanza
di demolizione, l'inottemperanza alla quale costituisce presupposto per
l'irrogazione della sanzione acquisitiva; nonché perché con la sanzione
dell'acquisizione si viene a pregiudicare definitivamente il soggetto già
titolare del diritto di proprietà sui beni confiscati (e cioè il fabbricato
e le aree circostanti, nella misura indicata dalla legge), per cui
necessariamente tale provvedimento ablatorio, a contenuto sanzionatorio,
deve essere notificato a tutti, atteso che non sarebbe possibile una
spoliazione solo pro quota.
...
Nel caso di specie, di tale
notifica, indirizzata a tutti i comproprietari, il Comune non ha offerto
prova. Si tratta, perciò, di valutare se possa ritenersi equipollente ad
essa la notifica indirizzata al condominio.
Sul punto, è già stato affermato che, secondo una consolidata
giurisprudenza, il condominio è un mero ente di gestione, privo di
personalità giuridica.
Siffatto principio è stato peraltro confermato anche dopo le modifiche
introdotte nel codice civile dalla legge n. 220 del 2012 (Modifiche alla
disciplina del condominio negli edifici), poiché quest'ultima, pur avendo
attribuito un attenuato grado di soggettività al condominio, non lo ha
comunque fatto assurgere al rango di ente dotato di vera e propria
personalità giuridica.
Da tutto quanto sopra si ricava che le parti comuni dell'edificio non sono
di proprietà dell'ente condominio, ma dei singoli condomini. A tanto
consegue che la misura volta a colpire l'abuso realizzato sulle parti comuni
deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli condomini,
in quanto unici (com)proprietari delle stesse.
---------------
Con ricorso notificato il 19.07.2021 e tempestivamente depositato, i
ricorrenti, comproprietari del fondo sito presso il Comune di Ariccia, via
... n. 2/F, (fg 19, part. 343), hanno impugnato la determina comunale n. 472
del 2021, con la quale è stata disposta l’acquisizione al patrimonio
comunale del bene, a causa della inottemperanza all’ordine di demolizione n.
150 del 10.07.2015.
Quest’ultimo, a sua volta, era stato emesso a seguito di annullamento, da
parte del Comune, del permesso di costruire in sanatoria n. 13 del 2013, e
notificato al condominio di via ... n. 2F.
In seguito, con verbale del 03.05.2021, il Comune ha accertato
l’inottemperanza, e adottato, a causa di ciò, l’atto oggetto di ricorso.
Con un unico motivo i ricorrenti denunciano la violazione dell’art.
31 del T.U. dell’edilizia e dell’art. 15 della legge regionale n. 15 del
2008, perché l’acquisizione al patrimonio pubblico del bene non è stata
preceduta da notifica ai comproprietari dell’ordine di demolizione.
In via preliminare, e superando l’eccezione di inammissibilità avanzata
dalla difesa comunale, va rimarcato che l’atto impugnato non si limita a dar
conto della inottemperanza all’ordine di demolizione, ma dispone
l’acquisizione gratuita del bene al patrimonio comunale. Esso è perciò senza
dubbio lesivo, con riferimento ad eventuali vizi suoi propri.
Inoltre, lo stesso Comune ammette di avere notificato l’ordine di
demolizione al solo amministratore del condominio.
Sul punto, la giurisprudenza ha chiarito, in linea generale, che perché un
bene immobile abusivo possa legittimamente essere oggetto dell'ulteriore
sanzione costituita dall'acquisizione gratuita al patrimonio comunale ai
sensi dell'art. 31 d.P.R. n. 380/2001, occorre che il presupposto ordine di
demolizione sia stato notificato a tutti i comproprietari, al pari anche del
provvedimento acquisitivo.
Ciò poiché risponde ad ovvi principi di tutela del diritto di difesa e di
partecipazione procedimentale il non riconoscere idoneità fondativa
dell'irrogazione della sanzione dell'acquisizione al patrimonio nei riguardi
dei comproprietari che non abbiano ricevuto regolare notifica dell'ordinanza
di demolizione, l'inottemperanza alla quale costituisce presupposto per
l'irrogazione della sanzione acquisitiva; nonché perché con la sanzione
dell'acquisizione si viene a pregiudicare definitivamente il soggetto già
titolare del diritto di proprietà sui beni confiscati (e cioè il fabbricato
e le aree circostanti, nella misura indicata dalla legge), per cui
necessariamente tale provvedimento ablatorio, a contenuto sanzionatorio,
deve essere notificato a tutti, atteso che non sarebbe possibile una
spoliazione solo pro quota (da ultimo, Tar Napoli, n. 4616 del 2021).
Nel caso di specie, di tale notifica, indirizzata a tutti i comproprietari,
il Comune non ha offerto prova, come si è visto. Si tratta, perciò, di
valutare se possa ritenersi equipollente ad essa la notifica indirizzata al
condominio.
Sul punto, è già stato affermato che, secondo una consolidata
giurisprudenza, il condominio è un mero ente di gestione, privo di
personalità giuridica (cfr. Cass. civ., II, 16.12.2015, n. 25288;
06.08.2015, n. 16562; VI, 22.05.2015, n. 10679; TAR Lombardia, Milano, II,
05.12.2016, n. 2302).
Siffatto principio è stato peraltro confermato anche dopo le modifiche
introdotte nel codice civile dalla legge n. 220 del 2012 (Modifiche alla
disciplina del condominio negli edifici), poiché quest'ultima, pur avendo
attribuito un attenuato grado di soggettività al condominio, non lo ha
comunque fatto assurgere al rango di ente dotato di vera e propria
personalità giuridica (Cass. civ., SS.UU., 18.09.2014, n. 19663).
Da tutto quanto sopra si ricava che le parti comuni dell'edificio non sono
di proprietà dell'ente condominio, ma dei singoli condomini. A tanto
consegue che la misura volta a colpire l'abuso realizzato sulle parti comuni
deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli condomini,
in quanto unici (com)proprietari delle stesse (Tar Napoli, n. 3005 del 2020;
Tar Milano, n. 1764 del 2019).
Né rileva in senso contrario la sentenza n. 4303 del 2011 di questo
Tribunale, che si limita a riconoscere all’amministratore la legittimazione
ad impugnare atti repressivi in ordine ad abusi commessi sulle parti comuni
dell’edificio, e non vale, perciò, a superare la necessità della notifica ad
ogni condomino dell’ordine di demolizione, nel caso in cui si intenda
dichiarare l’effetto ablativo della proprietà.
Infine, non è conferente l’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990
richiamato dalla difesa comunale, atteso che non si è in presenza di un
vizio formale del procedimento, ma della carenza del presupposto stesso
perché possa operare la sanzione della acquisizione gratuita.
Di conseguenza, l’atto impugnato va annullato (TAR
Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 18.05.2022 n. 6276 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
febbraio 2022 |
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CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: L’installazione
di un ascensore all’interno di un cortile condominiale è qualificabile in
termini di “innovazione” in quanto, in violazione di quanto previsto dall’art. 1102 c.c.,
determina una modifica strutturale del cortile medesimo rispetto alla sua
primitiva configurazione, risultandone nel contempo alterata la sua naturale
funzione e destinazione comune, che è quella di dare luce ed aria alle unità
immobiliari che compongono l’edificio.
Sicché, la decisione di assoggettare il cortile condominiale a siffatta
“innovazione” deve essere assunta, necessariamente, dal
Condominio, sia pure con le maggioranze di cui all’art. 2, comma 1, l. n.
13/1989 (nel testo modificato dall'articolo 27, comma 1, della Legge 11.12.2012 n. 220 e successivamente dall'articolo 10, comma 3, lettera a),
del D.L. 16.07.2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla Legge
11.09.2020, n. 120) a norma del quale:
«1. Le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni da attuare negli
edifici privati dirette ad eliminare le barriere architettoniche di cui
all'articolo 27, primo comma, della legge 30.03.1971, n. 118, ed
all'articolo 1, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 27.04.1978, n. 384, nonché la realizzazione di percorsi attrezzati e la
installazione di dispositivi di segnalazione atti a favorire la mobilità dei
ciechi all'interno degli edifici privati, sono approvate dall'assemblea del
condominio, in prima o in seconda convocazione, con le maggioranze previste
dal secondo comma dell' articolo 1120 del codice civile. Le innovazioni di
cui al presente comma non sono considerate in alcun caso di carattere
voluttuario ai sensi dell'articolo 1121, primo comma, del codice civile. Per
la loro realizzazione resta fermo unicamente il divieto di innovazioni che
possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato,
di cui al quarto comma dell'articolo 1120 del codice civile».
In proposito, l’art. 1120, comma II, del codice civile prevede che:
«[II]. I condòmini, con la maggioranza indicata dal secondo comma
dell'articolo 1136, possono disporre le innovazioni che, nel rispetto della
normativa di settore, hanno ad oggetto:
1) le opere e gli interventi volti a migliorare la sicurezza e la salubrità
degli edifici e degli impianti;
2) le opere e gli interventi previsti per eliminare le barriere
architettoniche, per il contenimento del consumo energetico degli edifici e
per realizzare parcheggi destinati a servizio delle unità immobiliari o
dell'edificio, nonché per la produzione di energia mediante l'utilizzo di
impianti di cogenerazione, fonti eoliche, solari o comunque rinnovabili da
parte del condominio o di terzi che conseguano a titolo oneroso un diritto
reale o personale di godimento del lastrico solare o di altra idonea
superficie comune;
3) l'installazione di impianti centralizzati per la ricezione
radiotelevisiva e per l'accesso a qualunque altro genere di flusso
informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino
alla diramazione per le singole utenze, ad esclusione degli impianti che non
comportano modifiche in grado di alterare la destinazione della cosa comune
e di impedire agli altri condòmini di farne uso secondo il loro diritto».
In assenza di siffatta delibera condominiale, giusta il disposto di cui al
secondo comma del citato art. 2 L. n. 13/1989, i condòmini interessati
all’adozione di strumenti di superamento delle cd. barriere architettoniche
sono, dunque, legittimati esclusivamente ad «installare, a proprie spese, servoscala nonché strutture mobili e facilmente rimovibili» o «modificare
l'ampiezza delle porte d'accesso, al fine di rendere più agevole l'accesso
agli edifici, agli ascensori e alle rampe dei garages».
In altri termini, per come del resto ribadito dall’art. 10, comma 3, del DL
n. 76/2020, ciascun partecipante alla comunione o al condominio può sì
realizzare a proprie spese ogni opera di cui agli articoli 2 della legge 09.01.1989, n. 13, e 119 del decreto-legge 19.05.2020, n. 34, anche
servendosi della cosa comune ma pur sempre “nel rispetto dei limiti di cui
all'articolo 1102 del codice civile” e, quindi, laddove siffatti limiti non
vengano rispettati –come nel caso in esame- e ci si trovi dinnanzi ad una
“innovazione”, deve necessariamente intervenire una delibera assembleare.
Le disposizioni sopra citate sono, peraltro, conferma nel disposto di
cui all’art. 78 D.P.R. n. 380/2001, secondo cui:
«1. Le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni da attuare negli
edifici privati dirette ad eliminare le barriere architettoniche di cui
all'articolo 27, primo comma, della legge 30.03.1971, n. 118, ed
all'articolo 1 del decreto del Presidente della Repubblica 24.07.1996,
n. 503, nonché la realizzazione di percorsi attrezzati e la installazione di
dispositivi di segnalazione atti a favorire la mobilità dei ciechi
all'interno degli edifici privati, sono approvate dall'assemblea del
condominio, in prima o in seconda convocazione, con le maggioranze previste
dall'articolo 1136, secondo e terzo comma, del codice civile.
2. Nel caso in cui il condominio rifiuti di assumere, o non assuma entro tre
mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le deliberazioni di cui al comma 1,
i portatori di handicap, ovvero chi ne esercita la tutela o la potestà di
cui al titolo IX del libro primo del codice civile, possono installare, a
proprie spese, servoscala nonché strutture mobili e facilmente rimovibili e
possono anche modificare l'ampiezza delle porte d'accesso, al fine di
rendere più agevole l'accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe
delle autorimesse».
---------------
... per l'annullamento,
previa sospensione dell’efficacia
quanto al ricorso n. 9236 del 2020:
- dell’Autorizzazione con prescrizioni rilasciata dalla Soprintendenza
Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma del 25.07.2020
protocollo n. 30888, notificata a mezzo pec in pari data avente ad oggetto
l’installazione di un ascensore per il superamento delle Barriere
Architettoniche nel cortile condominiale del fabbricato in Roma via
-OMISSIS-;
- di ogni altro atto presupposto preparatorio, connesso e consequenziale con
quello impugnato e, in particolare, per quanto occorrer possa,
dell’Autorizzazione con prescrizioni rilasciata dalla Soprintendenza
Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma, del 22.06.2020, prot. n. 26449;
nonché per la condanna al rilascio di provvedimento di autorizzazione ex
art. 21 D.Lgs. 42/2004, emendato dalle prescrizioni illegittime impugnate,
in conformità all'istanza ed al progetto in atti, come in narrativa;
quanto al ricorso n. 9622 del 2020:
- dell'autorizzazione con prescrizioni rilasciata dalla Soprintendenza
Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma del 25.07.2020, prot.
n. 30888 avente ad oggetto l’installazione di ascensore per il superamento
delle Barriere Architettoniche nel cortile condominiale del fabbricato in
Roma, via -OMISSIS-;
- dell'autorizzazione con prescrizioni rilasciata dalla Soprintendenza
Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma, del 22.06.2020, prot. n. 26449
...
Con ricorso notificato in data 22.10.2020 e depositato in data
11.11.2020, i ricorrenti -OMISSIS-., in qualità di condòmini del fabbricato multiscale (Scala “A” e Scala “B”), sito in Roma, via -OMISSIS-, censito
al -OMISSIS-, risalente al 1700 e sottoposto a vincolo culturale diretto ex
L. n. 1089/1939 e D.M. del 10.07.1957, hanno impugnato il provvedimento prot.
n. 30888 del 25.07.2020, con cui la Soprintendenza Speciale Archeologia
Belle Arti e Paesaggio di Roma -in adesione all’istanza ex art. 21 D.lgs.
n. 42/2004, presentata in data 07.11.2018 al prot. n. 28749 e,
successivamente, integrata- ha autorizzato il richiedente condòmino arch.
-OMISSIS- all’installazione, nel cortile condominiale del fabbricato in
parola, di un ascensore per il superamento delle Barriere Architettoniche a
condizione, per quanto di interesse, che:
a) l’ascensore venga realizzato solamente fino al quinto piano, escludendo
lo sbarco al piano delle terrazze;
b) sia garantito il distacco minimo dell’ascensore e dei pianerottoli dalle
finestre che affacciano sulla corte interna.
I ricorrenti hanno, altresì, impugnato anche la precedente autorizzazione
del 22.06.2020, prot. n. 26449 -pur ritenendola superata da quella prot.
n. 30888 del 25.07.2020– con cui la Soprintendenza aveva imposto quale
unica condizione che venisse garantito il distacco minimo dell’ascensore e
dei pianerottoli dalle finestre che affacciano sulla corte interna.
A sostegno del gravame, affidato a plurimi motivi di diritto (“I. VIOLAZIONE
E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 2 E 7 DELLA LEGGE 241/1990, DELL’ART. 5
DELLA LEGGE 09.01.1989, N. 13 E DELL’ART. 21 E 22 DEL D.LGS. 42/2004.
ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI LEGITTIMAZIONE E DI ISTRUTTORIA. ILLOGICITÀ
DELLA MOTIVAZIONE”;
“II. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 21 E
22 DEL D.LGS. 42/2004, DELL’ART. 2 DELLA LEGGE N. 13/1989 E DELL’ART. 78 DEL
D.P.R. N. 380/2001. ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI LEGITTIMAZIONE E DI
ISTRUTTORIA, TRAVISAMENTO DEI FATTI, DIFETTO DEI PRESUPPOSTI, INCOERENZA
DELLA MOTIVAZIONE, IN CONSIDERAZIONE DELLA NON COINCIDENZA SOGGETTIVA TRA
RICHIEDENTE E BENEFICIARI DELL’IMPIANTO, IN CONSIDERAZIONE DELLA VALUTAZIONE
DELL’INTERESSE ALLA REALIZZAZIONE DELL’IMPIANTO SULLA SCORTA DI DOCUMENTI
SANITARI DI UN SOGGETTO DIVERSO DAL RICHIEDENTE ED IN CONSIDERAZIONE DELLA
MANCATA PREVISIONE DELLO SBARCO NEGLI APPARTAMENTI DEI BENEFICIARI
POTENZIALI”;
“III VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 2 E 4 DELLA
LEGGE N. 13/1989 E DELL’ART. 78 DEL D.P.R. N. 380/2001. ECCESSO DI POTERE PER
ASSENZA DEI PRESUPPOSTI, DIFETTO DI ISTRUTTORIA, CONTRADDITTORIETÀ”;
“IV)
VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 21 E 22 DEL D.LGS. N. 42/2004.
ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI ISTRUTTORIA, DIFETTO DI LEGITTIMAZIONE E
TRAVISAMENTO DEI FATTI”;
“V. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 3
DELLA LEGGE N. 241/1990 PER GENERICITÀ DELLA MOTIVAZIONE. ECCESSO DI POTERE
PER TRAVISAMENTO DEI FATTI, DIFETTO DI ISTRUTTORIA”), i ricorrenti,
sostanzialmente interessati -al pari del sig. Pi., dichiarato invalido- al procedimento avviato in data
07.11.2018 (prot. n. 28749), dall’arch.
-OMISSIS-, hanno dedotto la necessità che la Soprintendenza approvasse il
progetto così come da quest’ultimo presentato e, quindi, senza le condizioni
sopra specificate, in quanto unica soluzione possibile al fine di superare
adeguatamente le barriere architettoniche esistenti presso l’edificio
condominiale.
In particolare, il progetto in questione prevedeva che l’ascensore venisse
realizzato nell’ambito della chiostrina condominiale, in corrispondenza
della Scala “B” (rampa di piani 5, con larghezza di appena 80 cm, tale da
non consentire neanche l'ubicazione di un montascale per le persone anziane
più disagiate), con sbarco sul terrazzo di copertura comune.
In tal modo,
l’impianto in parola, senza alcun modo pregiudicare i valori culturali
sottesi al vincolo imposto sul fabbricato condominiale, sarebbe stato idoneo
a soddisfare le esigenze non solo dei condòmini della Scala “B”, ma anche
dei proprietari degli appartamenti posti ai piani alti della Scala “A”
(rampa di quattro piani, che va restringendosi, in corrispondenza del quinto
piano, fino ad arrivare a cm 70 e conduce, tramite una ulteriore ed impervia
scala a chiocciole al terrazzo condominiale), nella quale non sarebbe
possibile installare alcun impianto ascensore, avendo la stessa valore
artistico e monumentale.
Ad avviso dei ricorrenti, quindi, il posizionamento dell’ascensore nel sito
proposto e la previsione dello sbarco dello stesso sul terrazzo condominiale
costituirebbero condizioni indispensabili per superare le barriere
architettoniche e consentire, quindi, l’accesso alla propria abitazione ai
condòmini proprietari di appartamenti siti ai piani alti della Scala “A”
mediante l’ascensore, tra cui la sig.ra -OMISSIS-.
La previsione progettuale
dello sbarco dell’impianto sul terrazzo, lungi dal costituire un mero quid pluris, finalizzato a recare utilità aggiuntive ed accessorie, si
inserirebbe, in modo organico ed indefettibile nel disegno finalizzato a
risolvere i gravi ed insuperabili disagi costituiti dalla presenza di
autentiche barriere architettoniche per l’intero stabile.
Le condizioni apposte dalla Soprintendenza all’autorizzazione prot. n. 30888
del 25.07.2020, consistenti tanto nell’inibizione del predetto sbarco
quanto nel mantenimento del distacco minimo dell’ascensore e dei
pianerottoli dalle finestre che affacciano sulla corte interna, renderebbero
non fattibile e non utile l’intervento, così di fatto vanificandolo, senza
alcun vantaggio per gli interessi pubblici sottesi al vincolo.
Con atto di intervento ad opponendum depositato in data 19.11.2020, i
condòmini -OMISSIS-, dopo aver rappresentato, in fatto:
a) di aver proposto autonomo ricorso avverso l’autorizzazione oggetto del
presente giudizio (ricorso n. 9622/2020 R.R.);
b) l’inesistenza di una
delibera condominiale che avesse approvato i lavori di installazione
dell’impianto in contestazione, hanno contestato, sotto vari profili, tanto
l’ammissibilità quanto la fondatezza del gravame.
Il -OMISSIS-, costituitosi in giudizio, dopo aver rappresentato di non
essere stato mai informato né coinvolto nel procedimento da cui sono
derivati i provvedimenti oggetto di gravame, ha sotto vari profili dedotto
l’inammissibilità/infondatezza del gravame.
Ciascuna delle parti costituite, con successive memorie difensive e di
replica, corredate da corposa documentazione, ha insistito nelle proprie
ragioni.
Con successivo ricorso notificato in data 19.11.2020 e depositato in data
20.11.2020, assunto al n. 9622/2020 R.R., riunito a quello precedente giusta
ordinanza collegiale n. 7259 del 17.06.2021, i condòmini -OMISSIS-,
-OMISSIS- hanno impugnato tanto l’Autorizzazione con prescrizioni rilasciata
dalla Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma del
25.07.2020, prot. n. 30888, conosciuta in data 10.10.2020, quanto
la precedente Autorizzazione con prescrizioni prot. n. 26449 del 22/06/2020,
rilasciata dalla medesima Soprintendenza e conosciuta in data 22.10.2020.
I condòmini in parola hanno evidenziato, in fatto:
- di non aver partecipato all’iniziativa sostanzialmente assunta, per come
evincibile dagli atti istruttori del procedimento culminato con l’adozione
degli atti impugnati, dai condòmini -OMISSIS-
- di essere contrari a tale installazione, essendo quest’ultima unicamente
diretta ad incrementare il valore del patrimonio immobiliare di alcuni dei
beneficiari (molti dei quali neppure abiterebbero nel fabbricato ed
avrebbero destinato i loro immobili ovvero intenderebbero destinarli a Bed
and Breakfast o affittacamere) a danno degli altri condòmini.
Siffatta
installazione, per come autorizzata dalla Soprintendenza, arrecherebbe serio
pregiudizio al fabbricato perché, essendo ancorato alla parete della
facciata ed alle logge, pregiudicherebbe non soltanto il decoro
architettonico ma anche la staticità dell’edificio, già oggetto alla fine
del 1800 di un intervento di sopraelevazione, scaricando il suo peso sulla
(antica) muratura del piano interrato (sorreggente l’intero fabbricato).
L’ascensore de quo vulnererebbe, inoltre, la sicurezza e l’agibilità di
alcune unità immobiliari, a causa della sottrazione di parte del già piccolo
cortile, privandole dell’aria e della luce ed inoltre precluderebbe ai
ricorrenti sia l’uso futuro della nuova opera, che di installare un altro
ascensore all’interno del cortile condominiale.
Il ricorso in questione risulta affidato ad una pluralità di motivi di
diritto tra cui, il primo, per come appresso rubricato:
- “I. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 2 E 7 DELLA LEGGE
241/1990, DELL’ART. 5 DELLA LEGGE 09.01.1989, N. 13 E DELL’ART. 21 E 22
DEL D.LGS. 42/2004. ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI LEGITTIMAZIONE E DI
ISTRUTTORIA. ILLOGICITÀ DELLA MOTIVAZIONE”.
I provvedimenti autorizzativi oggetto di impugnazione sarebbero illegittimi
per violazione degli artt. 1120, 1121 c.c. e dell’art. 2 della Legge n.
13/1989 in quanto rilasciati dalla Soprintendenza Speciale Archeologia Belle
Arti e Paesaggio di Roma ad esclusiva istanza di alcuni condòmini e non
anche previa delibera dell’Assemblea Condominiale, quest’ultima deputata -per come imposto dalla normativa summenzionata e con le maggioranze ivi
previste, trattandosi dell’autorizzazione di vere e proprie “innovazioni”
della cosa comune- ad impegnare la volontà di tutti i partecipanti al
condominio.
Sono stati, altresì, proposti gli ulteriori motivi di gravame appresso
sintetizzati.
- “II. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 21 E 22 DEL D.LGS.
42/2004, DELL’ART. 2 DELLA LEGGE N. 13/1989 E DELL’ART. 78 DEL D.P.R. N.
380/2001. ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI LEGITTIMAZIONE E DI ISTRUTTORIA,
TRAVISAMENTO DEI FATTI, DIFETTO DEI PRESUPPOSTI, INCOERENZA DELLA
MOTIVAZIONE, IN CONSIDERAZIONE DELLA NON COINCIDENZA SOGGETTIVA TRA
RICHIEDENTE E BENEFICIARI DELL’IMPIANTO, IN CONSIDERAZIONE DELLA VALUTAZIONE
DELL’INTERESSE ALLA REALIZZAZIONE DELL’IMPIANTO SULLA SCORTA DI DOCUMENTI
SANITARI DI UN SOGGETTO DIVERSO DAL RICHIEDENTE ED IN CONSIDERAZIONE DELLA
MANCATA PREVISIONE DELLO SBARCO NEGLI APPARTAMENTI DEI BENEFICIARI
POTENZIA”;
-
“III. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 2 E 4 DELLA LEGGE N.
13/1989 E DELL’ART. 78 DEL D.P.R. N. 380/2001. ECCESSO DI POTERE PER ASSENZA
DEI PRESUPPOSTI, DIFETTO DI ISTRUTTORIA, CONTRADDITTORIETÀ”;
- “IV) VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 21 E 22 DEL D.LGS. N.
42/2004. ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI ISTRUTTORIA, DIFETTO DI
LEGITTIMAZIONE E TRAVISAMENTO DEI FATTI”;
- “V. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 3 DELLA LEGGE N. 241/1990
PER GENERICITÀ DELLA MOTIVAZIONE. ECCESSO DI POTERE PER TRAVISAMENTO DEI
FATTI, DIFETTO DI ISTRUTTORIA”;
...
1. Per ragioni di priorità logico-giuridica, ritiene il Collegio di dover
principiare dallo scrutinio del ricorso n. 9622/2020 R.R. il quale è fondato
e, come tale, deve essere accolto.
2. Coglie, più precisamente, nel segno la censura preliminare ed assorbente
rispetto a tutte le altre, secondo cui i provvedimenti autorizzativi oggetto
di gravame sono stati rilasciati dalla Soprintendenza Speciale Archeologia
Belle Arti e Paesaggio di Roma in favore di soggetti non legittimati,
dovendosi ritenere tale esclusivamente il Condominio di Via -OMISSIS- il
quale, per come dallo stesso affermato in seno al ricorso n. 9236/2020 R.R.,
non ha mai deliberato l’installazione dell’impianto in contestazione.
3. L’apprezzamento della carenza di legittimazione a richiedere
l’autorizzazione in parola in capo al sig. -OMISSIS-, così come agli altri
condòmini sostanzialmente intervenuti nel corso del procedimento, passa
dalla preliminare valutazione circa la natura giuridica dell’intervento
edilizio in contestazione, coincidente con l’installazione di un ascensore
all’interno di un cortile condominiale.
Siffatta valutazione, trattandosi di una questione pregiudiziale involgente
diritti soggettivi la cui risoluzione è necessaria per la definizione
dell’odierna res controversa, ben può essere effettuata dal Tribunale,
ancorché senza efficacia di giudicato, secondo quanto espressamente previsto
dall’art. 8, comma 1, c.p.a.
3.1 Orbene l’installazione di un ascensore all’interno di un cortile
condominiale è qualificabile, ad avviso del Collegio, in termini di
“innovazione”, in quanto, in violazione di quanto previsto dall’art. 1102 c.c., determina una modifica strutturale del cortile medesimo rispetto alla
sua primitiva configurazione, risultandone nel contempo alterata la sua
naturale funzione e destinazione comune, che è quella di dare luce ed aria
alle unità immobiliari che compongono l’edificio (cfr. Cassazione civile
sez. II,
21.01.2022 n. 1849; Cassazione civile sez. II,
24.12.2021 n. 41490).
Ebbene, la decisione di assoggettare il cortile condominiale a siffatta
“innovazione” avrebbe dovuto essere assunta, necessariamente, dal
Condominio, sia pure con le maggioranze di cui all’art. 2, comma 1, l. n.
13/1989 (nel testo modificato dall'articolo 27, comma 1, della Legge 11.12.2012 n. 220 e successivamente dall'articolo 10, comma 3, lettera a),
del D.L. 16.07.2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla Legge
11.09.2020, n. 120) a norma del quale:
«1. Le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni da attuare negli
edifici privati dirette ad eliminare le barriere architettoniche di cui
all'articolo 27, primo comma, della legge 30.03.1971, n. 118, ed
all'articolo 1, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 27.04.1978, n. 384, nonché la realizzazione di percorsi attrezzati e la
installazione di dispositivi di segnalazione atti a favorire la mobilità dei
ciechi all'interno degli edifici privati, sono approvate dall'assemblea del
condominio, in prima o in seconda convocazione, con le maggioranze previste
dal secondo comma dell' articolo 1120 del codice civile. Le innovazioni di
cui al presente comma non sono considerate in alcun caso di carattere
voluttuario ai sensi dell'articolo 1121, primo comma, del codice civile. Per
la loro realizzazione resta fermo unicamente il divieto di innovazioni che
possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato,
di cui al quarto comma dell'articolo 1120 del codice civile».
In proposito, l’art. 1120, comma II, del codice civile prevede che:
«[II]. I condòmini, con la maggioranza indicata dal secondo comma
dell'articolo 1136, possono disporre le innovazioni che, nel rispetto della
normativa di settore, hanno ad oggetto:
1) le opere e gli interventi volti a migliorare la sicurezza e la salubrità
degli edifici e degli impianti;
2) le opere e gli interventi previsti per eliminare le barriere
architettoniche, per il contenimento del consumo energetico degli edifici e
per realizzare parcheggi destinati a servizio delle unità immobiliari o
dell'edificio, nonché per la produzione di energia mediante l'utilizzo di
impianti di cogenerazione, fonti eoliche, solari o comunque rinnovabili da
parte del condominio o di terzi che conseguano a titolo oneroso un diritto
reale o personale di godimento del lastrico solare o di altra idonea
superficie comune;
3) l'installazione di impianti centralizzati per la ricezione
radiotelevisiva e per l'accesso a qualunque altro genere di flusso
informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino
alla diramazione per le singole utenze, ad esclusione degli impianti che non
comportano modifiche in grado di alterare la destinazione della cosa comune
e di impedire agli altri condòmini di farne uso secondo il loro diritto».
In assenza di siffatta delibera condominiale, giusta il disposto di cui al
secondo comma del citato art. 2 L. n. 13/1989, i condòmini interessati
all’adozione di strumenti di superamento delle cd. barriere architettoniche
sono, dunque, legittimati esclusivamente ad «installare, a proprie spese, servoscala nonché strutture mobili e facilmente rimovibili» o «modificare
l'ampiezza delle porte d'accesso, al fine di rendere più agevole l'accesso
agli edifici, agli ascensori e alle rampe dei garages».
4. In altri termini, per come del resto ribadito dall’art. 10, comma 3, del DL
n. 76/2020, ciascun partecipante alla comunione o al condominio può sì
realizzare a proprie spese ogni opera di cui agli articoli 2 della legge 09.01.1989, n. 13, e 119 del decreto-legge 19.05.2020, n. 34, anche
servendosi della cosa comune ma pur sempre “nel rispetto dei limiti di cui
all'articolo 1102 del codice civile” e, quindi, laddove siffatti limiti non
vengano rispettati –come nel caso in esame- e ci si trovi dinnanzi ad una
“innovazione”, deve necessariamente intervenire una delibera assembleare.
4.1 Le disposizioni sopra citate sono, peraltro, conferma nel disposto di
cui all’art. 78 D.P.R. n. 380/2001, secondo cui:
«1. Le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni da attuare negli
edifici privati dirette ad eliminare le barriere architettoniche di cui
all'articolo 27, primo comma, della legge 30.03.1971, n. 118, ed
all'articolo 1 del decreto del Presidente della Repubblica 24.07.1996,
n. 503, nonché la realizzazione di percorsi attrezzati e la installazione di
dispositivi di segnalazione atti a favorire la mobilità dei ciechi
all'interno degli edifici privati, sono approvate dall'assemblea del
condominio, in prima o in seconda convocazione, con le maggioranze previste
dall'articolo 1136, secondo e terzo comma, del codice civile.
2. Nel caso in cui il condominio rifiuti di assumere, o non assuma entro tre
mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le deliberazioni di cui al comma 1,
i portatori di handicap, ovvero chi ne esercita la tutela o la potestà di
cui al titolo IX del libro primo del codice civile, possono installare, a
proprie spese, servoscala nonché strutture mobili e facilmente rimovibili e
possono anche modificare l'ampiezza delle porte d'accesso, al fine di
rendere più agevole l'accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe
delle autorimesse».
5. L’esegesi della normativa di riferimento sopra trascritta consente,
quindi, di affermare che il Condominio di -OMISSIS- costituiva l’unico
soggetto giuridico abilitato a chiedere alla Soprintendenza, ai sensi
dell’art. 21 D.lgs. n. 42/2004, l’autorizzazione all’installazione
dell’ascensore nel cortile condominiale.
In assenza di siffatta deliberazione, l’Autorità tutoria del vincolo
culturale cui il fabbricato condominiale risulta assoggettato non avrebbe
potuto rilasciare le autorizzazioni oggetto di impugnazione che, per
l’effetto, si appalesano illegittime per difetto di legittimazione dei
richiedenti (cfr. TAR Trentino-Alto Adige, Trento, sez. I, 13/08/2020, n.
138).
6. In conclusione, il ricorso n. 9622/2020 è fondato e, come tale, deve
essere accolto, in adesione alla preliminare ed assorbente censura sopra
scrutinata.
Ne consegue l’annullamento dell'autorizzazione, con prescrizioni, prot. n.
30888, rilasciata dalla Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e
Paesaggio di Roma in data 25.07.2020 e della precedente autorizzazione
del 22.06.2020, prot. n. 26449.
6.1 Il ricorso n. 9236/2020, in disparte le plurime questioni di
ammissibilità dello stesso sulle quali è possibile soprassedere, è, dunque,
improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, avendo ad oggetto
provvedimenti amministrativi di cui è stato disposto l’annullamento per i
motivi sopra indicati (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 21.02.2022 n. 2061 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
gennaio 2022 |
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CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi dell'art. 34 del D.P.R. n. 380/2001, "Gli interventi e le opere
realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire sono rimossi o
demoliti a cura e spese dei responsabili dell'abuso".
Costituisce, inoltre, ius receptum che l'ordine di demolizione in questione
può essere adottato nei confronti dell’attuale proprietario, anche se non
responsabile dell'abuso edilizio, perché l'abuso costituisce illecito
permanente e tali misure hanno carattere ripristinatorio, né la loro
irrogazione esige l'accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si
imputa la realizzazione dell'abuso.
...
In specie, l’ordine impugnato è stato ingiunto (unicamente) nei confronti di
un soggetto (i.e. il condominio):
i) che non rientra in nessuna delle due esposte
categorie, dovendosi precisare al riguardo che il condominio costituisce un
mero ente di gestione, privo di personalità giuridica, spettando la
proprietà dei beni comuni ai singoli condomini;
ii) che, dunque, non può dirsi passivamente
legittimato rispetto all’ordine stesso. Ciò conclamando, secondo quanto già
statuito da condivisibile giurisprudenza, la sua illegittimità per
violazione dell’invocato paradigma normativo.
---------------
1. Con il ricorso in esame, depositato in data 07/12/2021, il Condominio
deducente (in persona del legale rappresentante pro tempore) ha
impugnato il provvedimento del Comune di Potenza, in epigrafe specificato,
recante l’ordine di demolizione di un manufatto abusivo ad esso afferente.
1.1. L’impugnazione è affidata a plurimi motivi, tra cui in particolare la
deduzione del difetto di legittimazione passiva della parte ricorrente.
...
4. Il ricorso è fondato nei sensi appresso specificati.
Coglie nel segno il primo motivo di impugnazione –con assorbimento di
ogni altra censura– atteso che:
- ai sensi dell'art. 34 del D.P.R. n. 380/2001, "Gli interventi
e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire sono
rimossi o demoliti a cura e spese dei responsabili dell'abuso".
Costituisce, inoltre, ius receptum che l'ordine di demolizione in
questione può essere adottato nei confronti dell’attuale proprietario, anche
se non responsabile dell'abuso edilizio, perché l'abuso costituisce illecito
permanente e tali misure hanno carattere ripristinatorio, né la loro
irrogazione esige l'accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si
imputa la realizzazione dell'abuso;
- in specie, l’ordine impugnato è stato ingiunto (unicamente) nei
confronti di un soggetto:
i) che non rientra in nessuna delle due esposte
categorie, dovendosi precisare al riguardo che il condominio costituisce un
mero ente di gestione, privo di personalità giuridica, spettando la
proprietà dei beni comuni ai singoli condomini (cfr. Cassazione civile, sez.
un., 18/09/2014, n. 19663);
ii) che, dunque, non può dirsi passivamente
legittimato rispetto all’ordine stesso. Ciò conclamando, secondo quanto già
statuito da condivisibile giurisprudenza (cfr. TAR Campania, sez. VIII,
10/07/2020, n. 3005; TAR Lombardia, sez. II, 29/07/2019 n. 1764; TAR
Campania, Salerno, sez. II, 29/11/2019, n. 2126), la sua illegittimità per
violazione dell’invocato paradigma normativo.
5. In conclusione, il ricorso merita accoglimento per le ragioni esposte e,
per l’effetto, va disposto l’annullamento del provvedimento impugnato (TAR
Basilicata,
sentenza 14.01.2022 n. 14 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2021 |
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agosto 2021 |
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CONDOMINIO:
Vicini di casa, vademecum anti-liti.
Rumori, immissioni, condizionatori, animali: come affrontare i conflitti che
più spesso ostacolano la convivenza.
Rumori
e schiamazzi, specie adesso che con l’estate è ripresa la vita notturna,
disturbi provenienti dagli animali domestici, ma anche scarso rispetto delle
regole condominiali e di civile convivenza.
Sono queste le principali cause
di lite tra i vicini. Secondo una recente ricerca dell’Osservatorio Sara
Assicurazioni, ben un proprietario su cinque sarebbe persino disposto a
cambiare casa pur di risolvere il problema che lo affligge.
Tuttavia per una
persona su due la soluzione migliore è il dialogo, mentre soltanto il 5% del
campione ricorrerebbe a un avvocato. Vediamo allora quali sono e come si
possono affrontare i dissidi che più spesso ostacolano la pacifica
convivenza nello stesso caseggiato o in edifici limitrofi. (...continua) (articolo ItaliaOggi Sette del 23.08.2021). |
luglio 2021 |
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CONDOMINIO:
APPALTI – Contratto di appalto – Risarcimento danni per
l’esecuzione di lavori su parti comuni di un edificio
condominiale – CONDOMINIO – Omessa vigilanza da parte del
condominio nell’esecuzione dei lavori – Responsabilità
dell’appaltatore, del condominio e dell’amministratore –
RISARCIMENTO DEL DANNO – Pretesa risarcitoria nei confronti
dell’amministratore in qualità di rappresentante del
condominio – Diritto di rivalsa contro l’appaltatore.
In tema di risarcimento danni per
l’esecuzione di lavori su parti comuni di un edificio
condominiale, poiché il condominio è un ente di gestione
privo di personalità giuridica distinta da quella dei
singoli condomini, il condòmino che ritenga di essere stato
danneggiato da un’omessa vigilanza da parte del condominio
nell’esecuzione dei lavori dovrà rivolgere la propria
pretesa risarcitoria nei confronti dell’amministratore, in
qualità di rappresentante del condominio, il quale, a sua
volta, valuterà se agire in rivalsa contro l’appaltatore
stesso (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 16.07.2021 n. 20322 - link a www.ambientediritto.it). |
anno 2020 |
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luglio 2020 |
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EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza ha osservato che l'art. 1117 cod. civ.
stabilisce che le parti comuni dell'edificio sono oggetto di
proprietà comune dei condomini, con la conseguenza che il
Condominio non vanta alcun diritto reale sulle stesse.
Secondo una consolidata giurisprudenza, difatti, il
Condominio è un mero ente di gestione, privo di personalità
giuridica.
Siffatto principio è stato peraltro confermato anche dopo le
modifiche introdotte nel codice civile dalla legge n. 220
del 2012 (Modifiche alla disciplina del condominio negli
edifici), poiché quest'ultima, pur avendo attribuito un
attenuato grado di soggettività al condominio, non lo ha
comunque fatto assurgere al rango di ente dotato di vera e
propria personalità giuridica.
Da tutto quanto sopra si ricava che le parti comuni
dell'edificio non sono di proprietà dell'ente condominio, ma
dei singoli condomini. A tanto consegue che la misura volta
a colpire l'abuso realizzato sulle parti comuni deve essere
indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli
condomini, in quanto unici (com)proprietari delle stesse.
---------------
Ai sensi dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 la demolizione
delle opere abusivamente realizzate è ingiunta dal Comune al
“proprietario e al responsabile dell’abuso”.
Nella fattispecie, la sanzione ripristinatoria è stata
rivolta nei confronti del Condominio ... il quale
sicuramente non può essere individuato come proprietario
nemmeno delle parti comuni del complesso immobiliare (al
netto del fatto che l’ordinanza non chiarisce affatto se gli
abusi riguardano parti di proprietà esclusiva dei singoli
condomini ovvero parti comuni).
La giurisprudenza citata dal ricorrente (TAR Lombardia,
Milano n. 1774/2019) che il Collegio condivide ha osservato
che l'art. 1117 cod. civ. stabilisce che le parti comuni
dell'edificio sono oggetto di proprietà comune dei
condomini, con la conseguenza che il Condominio non vanta
alcun diritto reale sulle stesse.
Secondo una consolidata giurisprudenza, difatti, il
Condominio è un mero ente di gestione, privo di personalità
giuridica (cfr. Cass. civ., II, 16.12.2015, n. 25288;
06.08.2015, n. 16562; VI, 22.05.2015, n. 10679; TAR
Lombardia, Milano, II, 05.12.2016, n. 2302).
Siffatto principio è stato peraltro confermato anche dopo le
modifiche introdotte nel codice civile dalla legge n. 220
del 2012 (Modifiche alla disciplina del condominio negli
edifici), poiché quest'ultima, pur avendo attribuito un
attenuato grado di soggettività al condominio, non lo ha
comunque fatto assurgere al rango di ente dotato di vera e
propria personalità giuridica (Cass. civ., SS.UU.,
18.09.2014, n. 19663).
Da tutto quanto sopra si ricava che le parti comuni
dell'edificio non sono di proprietà dell'ente condominio, ma
dei singoli condomini. A tanto consegue che la misura volta
a colpire l'abuso realizzato sulle parti comuni deve essere
indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli
condomini, in quanto unici (com)proprietari delle stesse
(TAR Lombardia, Milano, II, 05.12.2016, n. 2302) (TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 10.07.2020 n. 3005 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2019 |
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novembre 2019 |
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ATTI AMMINISTRATIVI - CONDOMINIO: L'ordinanza
di demolizione adottata nei confronti dell'amministratore del condominio è
illegittima poiché non risulta essere né proprietario del bene su cui gli
abusi sono stati commessi e neppure il responsabile degli stessi.
Invero, “…la misura volta a colpire l’abuso
realizzato sulle parti comuni deve essere indirizzata esclusivamente nei
confronti dei singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle
stesse”.
---------------
... per l’annullamento dell’ordinanza di demolizione n. 49/URB data
28.06.2019 emessa dal Comune di Roccapiemonte;
...
1. Con l’ordinanza di demolizione n. 49/URB del 01.07.2019, l’ente locale
indicato in epigrafe, constata la sussistenza di “variazioni del
perimetro dell’edificio, nonché modifica del prospetto e diversa
sistemazione esterna, comportanti una difformità plani-volumetrica rispetto
ai titoli edilizi rilasciati”, con riferimento all’edificio ubicato nel
medesimo Comune, in via ..., n. 104/106, ha ingiunto la demolizione delle
opere abusive.
L’ordinanza in questione è stata rivolta ai proprietari delle singole
porzioni immobiliari dell’edificio, alla società che ha presumibilmente
realizzato l’immobile e, infine, “all’amministratore del Condominio nella
persona di Al.Li. …”.
2. Contro questa ordinanza ha proposto ricorso proprio quest’ultimo
destinatario dell’ordine di demolizione, il quale, con il primo motivo, ha
dedotto il suo difetto di legittimazione passiva.
3. Si è costituito in giudizio il Comune intimato, il quale ha contestato il
ricorso ex adverso proposto, senza però argomentare alcunché circa la
censura appena riassunta.
4. All’udienza del 20.11.2019, constatata la completezza del contraddittorio
e degli altri presupposti di legge, il Collegio, previo avviso alle parti ai
sensi dell’art. 60 c.p.a., ha trattenuto la causa in decisione.
Ai sensi dell’art. 31 D.P.R. n. 380 del 2001 “Il dirigente o il
responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di
interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero
con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell'articolo 32, ingiunge
al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione,
indicando nel provvedimento l'area che viene acquisita di diritto, ai sensi
del comma 3”.
La norma è chiara, nel suo dato testuale, nell’individuazione dei possibili
destinatari dell’ordine di demolizione, individuandoli nel proprietario del
bene sul quale è stata commessa la violazione edilizia e nel responsabile
della stessa, ove le due persone non coincidano.
Rispetto a tale inequivocabile dato normativo risulta alquanto inspiegabile
la ragione per la quale il Comune di Roccapiemonte abbia rivolto la sua
attività provvedimentale nei confronti di un soggetto che non rientra in
nessuna delle due categorie prese in considerazione dalla norma di legge. La
motivazione del provvedimento non chiarisce, infatti, la ragione di una
simile, improvvida iniziativa.
L’assunto appena esposto è confermato anche da alcuni precedenti del G.A.,
citati nel proprio ricorso dall’odierno ricorrente.
In particolare, il TAR Lombardia–Milano, sez. II, 29.07.2019 n. 1764 rileva
che “…la misura volta a colpire l’abuso realizzato sulle parti comuni
deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli condomini,
in quanto unici (com)proprietari delle stesse”.
5. Il provvedimento adottato risulta allora illegittimo in parte qua,
ossia nella misura in cui individua quale destinatario del comando anche
l’odierno ricorrente, che non risulta essere né proprietario del bene su cui
gli abusi sono stati commessi e neppure il responsabile degli stessi.
Conseguentemente, va accolto il primo motivo di ricorso, con
assorbimento delle altre ulteriori doglianze, e va disposto l’annullamento
del provvedimento, limitatamente all’interesse dell’odierno ricorrente (TAR
Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 29.11.2019 n. 2126 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
luglio 2019 |
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CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Abuso
realizzato su parti comuni di un edificio.
Le parti comuni dell’edificio non sono
di proprietà dell’ente condominio, ma dei singoli condomini;
a tanto consegue che la misura volta a colpire l’abuso
realizzato sulle parti comuni deve essere indirizzata
esclusivamente nei confronti dei singoli condomini, in
quanto unici (com)proprietari delle stesse
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 29.07.2019 n. 1764 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
SENTENZA
2.1. La doglianza è fondata.
Come già evidenziato da questa Sezione, l’art. 1117 cod.
civ. stabilisce che le parti comuni dell’edificio sono
oggetto di proprietà comune dei condomini, con la
conseguenza che il Codominio non vanta alcun diritto reale
sulle stesse.
Secondo una consolidata giurisprudenza, difatti, il
Condominio è un mero ente di gestione, privo di personalità
giuridica (cfr. Cass. civ., II, 16.12.2015, n. 25288;
06.08.2015, n. 16562; VI, 22.05.2015, n. 10679; TAR
Lombardia, Milano, II, 05.12.2016, n. 2302). Siffatto
principio è stato peraltro confermato anche dopo le
modifiche introdotte nel codice civile dalla legge n. 220
del 2012 (Modifiche alla disciplina del condominio negli
edifici), poiché quest’ultima, pur avendo attribuito un
attenuato grado di soggettività al condominio, non lo ha
comunque fatto assurgere al rango di ente dotato di vera e
propria personalità giudica (Cass. civ., SS.UU., 18.09.2014,
n. 19663).
Da tutto quanto sopra si ricava che le parti comuni
dell’edificio non sono di proprietà dell’ente condominio, ma
dei singoli condomini.
A tanto consegue che la misura volta a colpire l’abuso
realizzato sulle parti comuni deve essere indirizzata
esclusivamente nei confronti dei singoli condomini, in
quanto unici (com)proprietari delle stesse (TAR Lombardia,
Milano, II, 05.12.2016, n. 2302).
L’ordine rivolto al Condominio risulta quindi illegittimo,
in ragione del difetto di legittimazione passiva dello
stesso con riguardo alla repressione degli abusi edilizi. |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: L’installazione
di un ascensore di un condominio non richiede il permesso di costruire,
trattandosi della realizzazione di un volume tecnico, necessario per
apportare un’innovazione allo stabile, e non di una costruzione strettamente
intesa.
---------------
Le dimensioni minime di un ascensore sono quelle prescritte
dall’art. 8.1.12, lett. c), del d.m. LL.PP. n. 236/1989 recante "Prescrizioni
tecniche necessarie a garantire l'accessibilità, l'adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica
sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e dell'eliminazione delle
barriere architettoniche".
Tale disciplina trova applicazione non solo per nuove costruzioni, ma
anche per quelle preesistenti, discorrendosi nel testo delle disposizioni
del richiamato d.m. di “adeguamento” (art. 8.1.12, lett. c) e di “spazi
costruiti” (art. 2, lett. m).
Quella appena cennata è, invero, l’unica normativa dedicata all’istallazione
degli impianti ascensore, mancando ogni riferimento al tema nel corpus
normativo sull’edilizia (T.U. Edilizia e altre fonti normative connesse).
Tuttavia, la normativa di cui al d.m. richiamato è derogabile –nel senso che
si può richiedere di realizzare al di sotto delle dimensioni minime
prescritte– solo nei termini di cui al
d.p.r. 19/01/2015 n. 8, premunendosi di titolo autorizzatorio ad
hoc di competenza ministeriale.
---------------
Venendo all’esame del merito dell’impugnativa, il Collegio osserva
che il ricorso è infondato e va respinto.
Nella narrativa in fatto dell’atto introduttivo il Condominio ricorrente
allega che l’impianto ascensore, alla cui realizzazione il Comune resistente
ha negato l’assenso mediante la declaratoria di inefficacia della SCIA
presentata in data 10/05/2018 qui impugnata, era sottodimensionato rispetto
a quelle “convenzionali”, id est rispetto alla dimensioni minime prescritte
dall’art. 8.1.12, lett. c), del d.m. LL.PP. n. 236/1989 recante "Prescrizioni
tecniche necessarie a garantire l'accessibilità, l'adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica
sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e dell'eliminazione delle
barriere architettoniche", disciplina che –contrariamente a quanto opinato
dalla difesa attorea, trova applicazione non solo per nuove costruzioni, ma
anche per quelle preesistenti, discorrendosi nel testo delle disposizioni
del richiamato d.m. di “adeguamento” (art. 8.1.12, lett. c) e di “spazi
costruiti” (art. 2, lett. m).
Quella appena cennata è, invero, l’unica normativa dedicata all’istallazione
degli impianti ascensore, mancando ogni riferimento al tema nel corpus
normativo sull’edilizia (T.U. Edilizia e altre fonti normative connesse).
Peraltro, secondo il più recente indirizzo giurisprudenziale,
l’installazione di un ascensore di un condominio non richiede il permesso di
costruire, trattandosi della realizzazione di un volume tecnico, necessario
per apportare un’innovazione allo stabile, e non di una costruzione
strettamente intesa (cfr. TAR Abruzzo, Pescara, 09.04.2018, n. 134;
TAR Lombardia, Milano, II, 30.06.2017, n. 1479; TAR Liguria, I, 29.01.2016, n. 97).
La normativa di cui al d.m. richiamato è peraltro derogabile –nel senso che
si può richiedere di realizzare al di sotto delle dimensioni minime
prescritte– solo nei termini di cui al
d.p.r. 19/01/2015 n. 8, premunendosi
di titolo autorizzatorio ad hoc di competenza ministeriale, del tutto
mancante nel caso di specie (cfr. motivazione dell’atto impugnato).
Sulla base dei soli due rilievi appena svolti (insussistenza delle
dimensioni minime prescritte per gli impianti ascensori e assenza della
deroga) –senza necessità, dunque, di approfondire la tematica, molto
controversa tra le parti e di certo non trascurabile ai fini delle esigenze
di sicurezza, sulla necessità di assicurare il cd. “giro barella”
nella cassa scale– il ricorso può ritenersi infondato
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 22.07.2019 n. 4025 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Ascensore
esterno, meno vincoli. Impianto anti-barriere a meno di 10 metri dalle
finestre. La giurisprudenza: opere che eliminano ostacoli architettonici
realizzabili in deroga alle norme.
Sì all'ascensore esterno all'edificio da costruire
molto vicino alle finestre degli appartamenti. E ciò perché le opere che
eliminano le barriere architettoniche ben possono essere realizzate in
deroga ai regolamenti e agli atti di normazione primaria, dunque anche
all'art. 9 del dm 1444/1968 che prescrive la «distanza minima assoluta di
dieci metri tra pareti finestrate». Il tutto grazie alla sentenza
costituzionale 251/2008, che ha indicato i problemi dei diversamente abili
come «nodi dell'intera collettività».
È quanto emerge dalla
sentenza 17.07.2019 n. 1659
pubblicata dalla II Sez. del TAR Lombardia-Milano.
Combinato disposto.
Accolto il ricorso dell'invalido dopo che il dirigente dello sportello unico
per l'edilizia del Comune ha bloccato la Scia per la realizzazione
dell'impianto di sollevamento.
L'anziano, che vive al quarto piano con la
moglie, risulta inabile al lavoro al 35% ed è disponibile a realizzare un servoscala: risulta impossibile portare la cabina al livello del
pianerottolo. Sbaglia l'ente locale quando nega il titolo abilitativo in
deroga alla distanza tra pareti finestrate.
Non c'è dubbio che anche
l'ascensore esterno sia un'opera che abbatte le barriere architettoniche, al
di là del fatto che sia un disabile a servirsene. E dopo l'intervento della
Consulta deve ritenersi che il combinato disposto degli articoli 78 e 79 del
Tu per l'edilizia consenta di realizzare anche l'impianto esterno al di là
delle distanze previste dai regolamenti e pure dall'art. 9 del dm 1444/1968, a
patto che siano rispettate quelle indicate dagli articoli 873 e 907 c.c.
Non
conta che l'ascensore serva un solo piano dell'edificio: si può fare in modo
che l'impianto risulti utile anche ad altri.
Senza discrezionalità.
Possono derogare alle distanze dei regolamenti edilizi non solo gli impianti
tecnologici ma anche i volumi tecnici per favorire la mobilità dei disabili:
sono opere che consentono di superare le barriere architettoniche. Via
libera, dunque, al progetto che prevede sia l'ascensore sia la scala esterni
all'immobile realizzati in deroga alle norme sulle distanze minime tra
fabbricati previste dai regolamenti edilizi.
È quanto emerge dalla
sentenza
27.03.2018 n. 809, pubblicata dalla I Sez. del TAR Lombardia-Milano.
Bocciato il ricorso del vicino: lecito il piano che prevede la realizzazione
dei manufatti che si trovano a nove metri invece di dieci rispetto alla
costruzione confinante. Parla chiaro il dm 236/1989 all'articolo 2, lettera
A), punti a) e b): sono barriere architettoniche gli ostacoli fisici che
costituiscono fonte di disagio per la mobilità di chiunque e in particolare
per chi ha capacità motoria ridotta o impedita.
L'intervento è realizzato
proprio per adeguare l'edificio di tre piani alla normativa pro disabili:
accanto alla costruzione dell'ascensore e della scala esterna sono demolite
le vecchie scale condominiali interne troppo strette per montare il servoscala. In tal caso è automatica e specifica la deroga alle distanze fra
costruzioni previste dagli strumenti urbanistici, senza la necessità di
valutazioni discrezionali da parte dell'amministrazione.
Ma devono essere
rispettate le distanze ex articoli 873 e 907 Cc. Il confinante non riesce a
dimostrare che vi sarebbero valide alternative al progetto presentato né che
i manufatti costituirebbero un'ingiusta servitù a carico della sua
proprietà: l'art. 79 del Tu dell'edilizia non esclude il principio di
reciprocità nell'applicazione della normativa in deroga al regime sulle
distanze.
Bilanciamento inadeguato.
Il legislatore guarda con favore alle persone che hanno difficoltà a
muoversi. Basta la Scia per realizzare in condominio l'ascensore che serve a
superare le barriere: il permesso di costruire è superfluo perché l'impianto
rappresenta un mero volume tecnico. Il Comune non può bocciare il progetto
dell'ente sul rilievo che non rispetta le dimensioni minime senza verificare
se c'è possibilità di deroga o suggerire alternative.
È quanto emerge dalla
sentenza
11.01.2019 n. 175 del TAR Campania-Napoli, Sez. IV.
Il ricorso del condominio viene accolto
perché risulta insufficiente la motivazione del provvedimento di stop. Da
una parte la Scia è sufficiente in quanto l'ascensore serve ad apportare
un'innovazione allo stabile che non costituisce una costruzione in senso
stretto; dall'altra l'amministrazione viene meno alla necessità di un
bilanciamento fra l'interesse pubblico all'osservanza della normativa di
riferimento e l'interesse del condominio a limitare l'impatto delle barriere
architettoniche.
È lo stesso dm 236/1986, nel dare attuazione alla legge
13/1989, a prescrivere che l'ascensore vada installato negli edifici con più
di tre livelli. E l'articolo 7.5 autorizza il sindaco del Comune a concedere
una deroga quando per motivi strutturali l'impianto non può rispettare gli
standard dimensionali prescritti. Insomma: l'ente deve motivare in modo
rigoroso le condizioni che impediscono l'installazione nel vano scale.
Bene primario.
Il
Comune non può limitarsi a stoppare i lavori se la Scia per l'ascensore a
spese del disabile risulta protocollata da più di un mese: è invece tenuto a
ricorrere all'autotutela perché il titolo deve ritenersi consolidato.
L'autorizzazione al progetto non può essere ostacolata dalle questioni di
natura privatistica poste dai condomini contro la realizzazione
dell'impianto. Anzi, la giurisprudenza della Cassazione richiede «attenzione
civile» nei confronti delle persone con problemi di deambulazione che si
fanno carico delle spese laddove l'elevatore può attenuare la loro
condizione di disagio.
È quanto emerge dalla
sentenza 07.01.2019 n. 9, pubblicata
dalla III Sez. del TAR Puglia-Bari.
Accolto il ricorso della signora con difficoltà di movimento che abita al
terzo piano e vuole realizzare l'impianto nel pozzo della luce condominiale.
Alcuni proprietari esclusivi lamentano che ne sarebbe compromesso il loro
godimento delle parti comuni dell'edificio perché la cabina può limita la
visibilità e toglie aria al cavedio. Ma sono doglianze da rivolgere al
giudice civile. E in ogni caso è l'inerzia dell'amministrazione che consente
al privato di eseguire l'intervento edilizio in base all'art. 23, comma 6, dpr 380/2001: per un solo giorno di ritardo il provvedimento dell'ente locale
risulta illegittimo.
L'istruttoria degli uffici, poi, è lacunosa: non
emergono elementi secondo i quali l'ascensore può incidere su stabilità e
sicurezza dell'edificio, mentre la relazione tecnica di parte attesta il
contrario. E soprattutto le sentenze di legittimità sono dalla parte delle
opere che agevolano la fruizione del bene primario dell'abitazione da parte
di chi si trova in condizioni di disabilità.
Pregiudizio e serietà.
Il favore del legislatore vuol dire anche meno vincoli. La Soprintendenza
non può bocciare il progetto dell'ascensore esterno che serve alla persona
anziana solo perché la realizzazione dell'impianto in cortile può arrecare
un pregiudizio all'immobile vincolato: la legge contro le barriere
architettoniche impone all'amministrazione di valutare i rischi che corre il
bene tutelato considerando anche la situazione del richiedente, che ha
problemi di mobilità.
È quanto emerge dalla
sentenza
25.09.2018 n. 9557,
Sez. II-quater del TAR Lazio-Roma.
Accolto il ricorso della signora che chiede di installare l'elevatore nel
cortile di un edificio di pregio nel centro storico della Capitale.
La
vicenda è finita al Consiglio di stato che ha annullato il parere negativo Mibact: in seguito le Belle Arti si dichiarano disponibili a valutare
l'installazione di un montascale invece che dell'ascensore.
Il punto è che
in base al regolamento di attuazione della legge 13/1989 il primo tipo
d'impianto non equivale al secondo: può essere utilizzato come alternativa
solo negli interventi di adeguamento o per superare modeste differenze di
quota. Soprattutto l'amministrazione non effettua alcun bilanciamento degli
interessi: troppo generico il riferimento alle dimensioni del cortile e alle
aperture esistenti, mentre non risulta spesa una parola sulla salute della
richiedente.
Normativa di favore anche per le persone non disabili ma solo anziane con
disagi fisici e difficoltà motorie: l'amministrazione deve verificare la
serietà del pregiudizio all'immobile e l'impatto del progetto rispetto al
fabbricato in relazione alle esigenze di tutela richieste dall'interessata.
Insomma: i vincoli non possono essere superati in automatico ma il Mibac
deve motivare in modo adeguato il diniego
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.08.2019). |
marzo 2019 |
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CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Paletti
anti-sosta, basta la Scia. Non serve il permesso di
costruire. Stop alle demolizioni. Lo
indica una sentenza del Tar Campania sui dissuasori per auto
e rifiuti in condominio.
Tornano a sperare i condomini assediati dalle auto e dal
deposito incontrollato di rifiuti. Non vanno abbattuti i
paletti anti-sosta e immondizia selvaggi perché la
demolizione è la sanzione che colpisce le opere realizzate
senza permesso di costruire, mentre per i dissuasori basta
la segnalazione certificata d'inizio attività.
È quanto emerge dalla
sentenza 05.03.2019 n. 1255, pubblicata dalla III
Sez. del TAR Campania-Napoli, che spezza una lancia per gli
edifici dei centri storici ostaggio di auto, moto e
immondizia.
Secondo la giurisprudenza amministrativa il comune non può
ignorare le richieste del condominio che vuole mettere un
divieto di sosta con dissuasori, tutelare con paletti il
passo carrabile o allargare il marciapiede all'ingresso del
comprensorio. Ma se l'immobile è di pregio niente paletti in
ferro. Senza dimenticare che l'amministrazione può far
rimuovere le opere abusive dal parcheggio condominiale anche
se la strada è chiusa da un lato.
Restano dove sono i paletti piantati dal condominio: sbaglia
l'ente locale a ordinarne la rimozione. Per i dissuasori
basta la semplice Scia perché contano soltanto natura e
dimensioni delle opere e dopo la posa dei manufatti l'area
resta accessibile a tutti, in primis ai pedoni, tranne che
alle macchine.
Il ricorso dell'ente di gestione contro il comune del
Napoletano è accolto perché l'installazione dei paletti
rientra nell'inserimento degli elementi accessori ex
articolo 3, lettera c), del Testo unico dell'edilizia:
l'unica sanzione che può scattare è quella pecuniaria di cui
all'articolo 37, comma primo, dello stesso dpr 308/2001. I
paletti «incriminati» dalla polizia municipale, in effetti,
sono alti soltanto un metro e hanno un diametro di dieci
centimetri per dieci: non si tratta di manufatti in grado di
incidere in modo permanente sull'assetto del territorio
perché possono essere facilmente rimossi.
D'altronde neppure l'amministrazione locale contesta che
facciano da dissuasori al parcheggio non autorizzato e
all'abbandono dei rifiuti. Né conta che l'area sia soggetta
a vincolo paesaggistico: l'ente locale non indica in modo
esplicito quale sarebbe l'incidenza negativa delle opere.
I precedenti.
Nuovo contraddittorio.
È illegittimo il
silenzio-inadempimento serbato dal comune sulla segnalazione
dei condomini che chiedono sia allargato il marciapiede
oppure installato un divieto di sosta con dissuasori: così
neppure riescono a entrare nel palazzo. Il parcheggio
selvaggio si trasforma in barriera architettonica e
l'amministrazione locale ha l'obbligo almeno di pronunciarsi
sull'istanza del condominio sulla base dei poteri che gli
derivano dal codice della strada sulla gestione della
circolazione stradale dei veicoli e dei pedoni in città.
È quanto emerge dalla sentenza 423/2018, pubblicata dalla I
Sez. del Tar Toscana.
Accolto il ricorso dell'ente di gestione e dei singoli
condomini: non giova al comune obiettare che nell'edificio
non risultano residenti che abbiano difficoltà motorie. Il
punto è che il condominio è certificato contro le barriere
architettoniche interne, ma risulta difficilmente
accessibile da fuori: a impedire il passaggio sul
marciapiede poco profondo sono le auto parcheggiate l'una a
ridosso dell'altra e i bauletti che sporgono dagli scooter.
Ed è dalle stesse relazioni depositate dall'amministrazione
che emerge come siano fondate le istanze del condominio. In
effetti gli uffici dell'ente stanno valutando l'allargamento
del marciapiede e l'installazione del divieto di sosta, ma
senza dissuasori. Su questo il giudice non può intervenire,
ma la scelta discrezionale che sarà adottata dall'ente dovrà
di nuovo essere vagliata nel contraddittorio.
Obbligo di manutenzione.
Il comune non può far finta di niente anche quando è il
passo carrabile dello stabile nella strada stretta a essere
schiavo del parcheggio selvaggio: deve rispondere entro un
mese all'istanza dei condomini che chiedono l'installazione
di paletti o di un divieto di sosta all'altezza del numero
civico in modo da poter entrare e uscire dal palazzo usando
anche loro l'auto. E se l'amministrazione non provvede in
tempo arriva il commissario indicato dal prefetto.
Lo stabilisce la sentenza 4280/2015, pubblicata dalla I Sez.
del Tar Campania.
La grana scoppia perché uno dei condomini in preda a una
colica non può uscire dal cancello con la macchina per
essere accompagnato al pronto soccorso. La polizia
municipale conferma: lo spazio di manovra davanti al passo
carrabile è troppo angusto anche a causa dei veicoli
parcheggiati sul marciapiede. E in caso di emergenza
un'ambulanza avrebbe difficoltà a intervenire in zona.
L'ente locale, dunque, non può rimanere inerte: ha un
preciso obbligo di vigilanza sulle strade e sulle relative
pertinenza in quanto proprietaria delle infrastrutture, ne
deve garantire «la destinazione pubblica e il pacifico
utilizzo da parte degli utenti».
Ed è lo stesso codice della strada a imporre al comune di
installare la segnaletica stradale a partire dal divieto di
sosta (articolo 37) e i paletti dissuasori autorizzati dal
ministero dei Trasporti da «utilizzare come impedimento
materiale alla sosta abusiva» dei veicoli (art. 42). Se
l'amministrazione locale non provvede, a rispondere
all'istanza dei cittadini sarà un funzionario dell'ufficio
territoriale del governo indicato dal prefetto.
Utilizzo legittimo.
Bisogna fare i conti anche con le Soprintendenze, però. Il
comune non può vietare al condominio di utilizzare il
cortile come parcheggio dei veicoli di proprietari e
inquilini anche se l'edificio in pieno centro storico
risulta sottoposto a vincolo dai Beni culturali. E ciò
perché lo stabile si trova in un'area che è «residenziale»
secondo il piano regolatore generale: la destinazione
indicata dalle norme di attuazione prg risulta estesa agli
spazi di pertinenza. L'ente di gestione, tuttavia, non può
delimitare l'area di sosta con paletti di ferro perché
rovinano l'acciottolato di pregio, come ha stabilito la
Soprintendenza.
È quanto emerge dalla sentenza 98/2019, pubblicata dalla II
Sez. del Tar Piemonte.
Il condominio fa annullare l'ordinanza del dirigente del
servizio edilizia che vieta di parcheggiare in cortile. Pesa
l'esposto di uno dei proprietari esclusivi che denuncia il
posteggio selvaggio sotto il suo balcone. L'amministrazione
minaccia di applicare sanzioni all'ente di gestione in caso
d'inottemperanza ex articolo 7-bis primo comma Tuel. In
realtà sono più di quarant'anni che le macchine vengono
parcheggiate in cortile con il permesso dell'assemblea:
l'impiego dell'area risulta legittimo in quanto costituisce
una delle possibili forme ordinarie utilizzazione dell'area
di pertinenza all'edificio residenziale.
Il condominio, comunque, deve provvedere a delimitare gli
spazi della sosta con elementi a terra come stalli o strisce
dipinte perché i paletti stop-auto sono incompatibili con il
decoro architettonico dell'edificio.
Apertura sufficiente.
Attenzione, infine, ai paletti in ferro nel parcheggio
condominiale. La rimozione ordinata dal comune scatta anche
se l'area su cui i dissuasori sono installati risulta
proprietà dell'edificio: ciò che conta è l'uso pubblico
della strada su cui affaccia il caseggiato, mentre il fatto
che la via sia chiusa da un lato non basta a renderla
privata.
È quanto emerge dalla sentenza 1224/2015, pubblicata dalla
II Sez. del Tar Sicilia.
Niente da fare, stavolta, per il condominio: deve
rassegnarsi a far sparire catene e lucchetti che blindano le
auto parcheggiate sotto il palazzo come ha ordinato il
servizio edilizia pubblica e privata del comune.
All'amministrazione non può disconoscersi il potere di far
abbattere le opere abusive. E i dissuasori messi a bordo
strada ostacolano il passaggio di eventuali mezzi di
soccorso.
È poi escluso che la strada dove sorge il fabbricato possa
davvero essere ritenuta privata: inutile eccepire il fatto
che la via sia chiusa da un lato e non metta in
comunicazione due pubbliche vie, risulta infatti sufficiente
che l'apertura da un lato consenta l'accesso da e per una
strada pubblica.
Affinché una strada possa rientrare nella categoria vicinale
pubblica è prevista una serie di requisiti, fra i quali il
passaggio esercitato a titolo di servitù da una collettività
di persone appartenenti a un gruppo territoriale. E il
diritto di uso pubblico può ben essere affermato solo perché
l'utilizzo si protrae da tempo (articolo
ItaliaOggi Sette del 18.03.2019).
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MASSIMA
Il ricorso è fondato alla stregua delle seguenti
considerazioni.
In primo luogo, diversamente da quanto sostiene parte
ricorrente l’intervento effettuato non
ricade tra le attività libere (indicate tra l’altro in modo
tassativo all’art. 6 del t.u. n. 380 del 2001, in deroga al
generale obbligo di munirsi di un titolo abilitativo per
eseguire interventi edilizi, ciò di cui occorre tenere conto
per una corretta lettura e interpretazione dello stesso art.
6), avendo riguardo da un lato alle tipologie delle
fattispecie liberalizzate e, dall’altro, all’entità
dell’opera posta in essere, che non corrisponde alla
descrizione delle attività di cui alle lettere c) e d) del
citato art. 6.
Tuttavia coglie nel segno il profilo di censura con cui
parte ricorrente ritiene che nel caso qui in esame non venga
in discussione un’ipotesi di trasformazione
edilizio–urbanistica, o di alterazione permanente
dell’assetto del territorio, o di nuova costruzione, tale da
esigere il previo rilascio del permesso di costruire ai
sensi e per gli effetti di cui all’art. 10 del d.P.R. n. 380
del 2001.
Deve invece ritenersi,
sulla falsariga di quanto affermato dal Giudice di appello
in una fattispecie del tutto simile a quella oggetto di
causa, che l’intervento ricada nel campo di
applicazione dell’art. 22 del d.P.R. n. 380/2001, in tema di
SCIA (cfr. Cons.
Stato, sez. VI, 16.07.2015, n. 3554).
Sulla questione, intuitivamente affine,
dell’assoggettamento, o meno, delle recinzioni, a permesso
di costruire, la giurisprudenza amministrativa di primo
grado, afferma che la valutazione sulla
necessità, o meno, del permesso di costruire, va compiuta in
base ai parametri della natura e delle dimensioni delle
opere, e della loro destinazione e funzione
(si vedano, tra le altre, TAR Campania, n. 3328/2013 e n.
1542/2012, TAR Lombardia, n. 6266/2009, TAR Lazio, n.
8644/2009, TAR Veneto, n. 1215/2011, TAR Calabria, n.
1299/2014, TAR Lombardia–Brescia, n. 118/2013 e altre),
sicché quando, ad esempio, vengono eseguite
opere in muratura e la recinzione non è facilmente
rimuovibile, l’intervento, essendo idoneo a incidere in modo
permanente sull’assetto edilizio del territorio, esige il
previo rilascio del permesso di costruire, ma a tal fine
occorre avere riguardo a tutte le opere realizzate nel loro
complesso.
Invero questa Sezione di recente ha ritenuto che: <<la
posa di sei paletti infissi nel suolo, destinati a
sorreggere una recinzione di rete metallica senza opere
murarie, costituisce un manufatto di limitato impatto
urbanistico e visivo, essenzialmente destinato al solo scopo
di delimitare la proprietà per separarla dalle altre, per
cui l’intervento non richiede il rilascio di un permesso di
costruire, fatta salva ovviamente l’osservanza dei vincoli
paesaggistici (cfr.
TAR Brescia, sez. II, 25/09/2018, n. 907; TAR Roma, sez. II,
04/09/2017, n. 9529; Cons. St., sez. IV, 15/12/2017, n.
5908)>> (cfr.
TAR Campania, Sez. III, 24.12.2018, n. 7333).
Ciò posto, l’intervento in argomento, alla
luce delle caratteristiche e delle dimensioni dello stesso
(10 paletti dell’altezza di mt. 1 ciascuno e diametro 10x10,
si vedano le foto prodotte in giudizio), ricade nel campo di
applicazione dell’art. 22 del d.P.R. n. 380/2001, cioè, tra
quelli realizzabili con il regime semplificato della d.i.a.,
la cui mancanza non è sanzionabile con la rimozione o la
demolizione, previste dall'art. 31 del d.P.R. n. 380/2001
per l'esecuzione di interventi in assenza del permesso di
costruire, o in totale difformità del medesimo ovvero con
variazioni essenziali, ma con l'applicazione della mera
sanzione pecuniaria prevista dal successivo art. 37 per
l'esecuzione di interventi in assenza della prescritta
denuncia di inizio di attività.
In primo luogo, non è stata eseguita nessuna opera muraria
significativa. I paletti apposti, uniti al suolo mediante un
basamento di calcestruzzo assai sottile, risultano
distanziati tra loro in modo tale da consentire un facile
accesso pedonale all’area ed effettivamente sembrano
svolgere una funzione, non contestata dal Comune, di
dissuasori della sosta e dell’abbandono dei rifiuti. Viene
in rilievo, nel complesso, un’opera finalizzata a delimitare
la proprietà del condominio ricorrente (non si tratta
neppure di una recinzione, essendo l’area “tuttora
liberamente accessibile a tutti, salvo che alle autovetture”),
rimovibile in maniera tutt’altro che disagevole e, come
tale, inidonea a incidere sull’assetto edilizio del
territorio.
Non vi è poi alcun concreto elemento, a parte la generica e
immotivata asserzione del Comune resistente, di incidenza
negativa sul paesaggio nei termini di cui all’art. 146 del
d.lgs. n. 42/2004, come invece addotto nel gravato
provvedimento, laddove la limitata evidenza dell’intervento
avrebbe richiesto una più esplicita indicazione in tal
senso.
Poiché dunque la realizzazione dei paletti
per cui è causa doveva farsi rientrare nella fattispecie
dell’inserimento di elementi accessori di cui all’art. 3,
comma 1, lett. c), del t.u. n. 380 del 2001, ne consegue che
l’intervento eseguito in assenza di titolo ex art. 22 d.P.R.
n. 380/2001 porterebbe alla sanzione pecuniaria di cui
all’art. 37, co. 1 d.P.R. n. 380/2001.
In definitiva il ricorso deve essere accolto e l’ordinanza
impugnata conseguentemente deve essere annullata. |
anno 2018 |
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settembre 2018 |
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CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Ascensore
in cortile, più tutele. Condomino risarcito se l’installazione toglie luce e
aria. La Cassazione su una fattispecie ante riforma
applicabile anche nel nuovo regime.
Il proprietario di un immobile può sempre chiedere il risarcimento del danno
al condominio per l'ascensore installato in cortile se questo toglie aria e
luce al suo appartamento e lo priva dei diritti su una parte comune
dell'edificio. L'azione di risarcimento, infatti, è un'opzione del tutto
autonoma rispetto alla richiesta di demolizione e non è subordinata
all'impugnazione della delibera, dal momento che la decisione che ha
disposto la realizzazione del manufatto è nulla e la sua invalidità può
essere rilevata d'ufficio dal giudice.
È quanto emerge dalla
sentenza 26.09.2018 n. 23076 della
II Sez. civile della Corte di Cassazione che è
intervenuta in una fattispecie anteriore alla riforma del condomino ma che,
in base all'ultimo comma dell'articolo 1120 del cc, trova applicazione anche
nel nuovo regime.
Il caso. Una
signora ha convenuto in giudizio il condominio chiedendo il risarcimento dei
danni subiti a causa della realizzazione di un ascensore nella corte interna
dell'edificio, danno consistente nella riduzione di aria e luce al suo
appartamento posto al piano terra e nell'impedimento all'uso di una
rilevante porzione della corte occupata dalla nuova struttura.
I giudici di
merito hanno respinto la domanda sul presupposto che le delibere che avevano
deciso l'installazione dell'impianto di ascensore non erano state impugnate.
La vertenza è così giunta in Cassazione.
Le motivazioni. I
giudici di legittimità hanno ricordato che l'installazione di un ascensore
su area comune costituisce innovazione che è vietata se rende talune parti
comuni dell'edificio inservibili all'uso e al godimento anche di un solo
condomino, comportandone una sensibile menomazione dell'utilità, secondo
l'originaria costituzione della comunione.
Tale concetto di inservibilità non può consistere nel semplice disagio
subito ma è costituito dalla concreta inutilizzabilità della res communis
secondo la sua naturale fruibilità, ovvero dalla sensibile menomazione
dell'utilità che il condomino precedentemente ricavava dal bene.
Nella
specie, la ricorrente affermava che la realizzazione dell'impianto di
ascensore le aveva impedito di far uso di una rilevante porzione di tale
area comune e le aveva altresì ridotto sensibilmente la luce e l'aria
fruibili dal suo appartamento. La delibera dell'assemblea, pertanto, ha
affermato la Cassazione, avendo leso i diritti individuali del singolo,
doveva essere considerata nulla e non semplicemente annullabile.
L'irrilevanza della preventiva impugnazione.
La nullità di una delibera condominiale comporta che la stessa, a differenza
delle ipotesi di annullabilità, non implichi la necessità di tempestiva
impugnazione nel termine di trenta giorni previsto dall'articolo 1137 del
codice civile.
Una deliberazione nulla non può, pertanto, finché (o perché) non impugnata
nel termine di legge, ritenersi valida ed efficace nei confronti di tutti i
partecipanti. Un conto, infatti, sono le delibere annullabili e un altro le
nulle: nel primo caso l'amministratore è tenuto a darvi attuazione fino a
quando non sono rimosse con l'accoglimento dell'impugnazione; nel secondo
non sorge in capo all'organo di gestione il potere-dovere di eseguire la
decisione e la nullità può essere rilevata d'ufficio dal giudice, come
avviene per i contratti ex articolo 1421 Cc, quando l'invalidità rientra fra
gli elementi costitutivi della domanda su cui bisogna decidere.
L'accertamento dell'invalidità, in sostanza, è pregiudiziale rispetto al
risarcimento soltanto in caso di delibere annullabili ma non vale nei casi
di nullità.
Il principio. La
Suprema corte, alla luce di quanto sopra indicato, ha formulato il principio
di diritto secondo cui la delibera dell'assemblea di condominio, che privi
un singolo partecipante dei propri diritti individuali su una parte comune
dell'edificio, rendendola inservibile all'uso e al godimento dello stesso,
integra un fatto potenzialmente idoneo ad arrecare danno al condomino
medesimo; quest'ultimo, lamentando la nullità della suddetta delibera, ha
perciò la facoltà di chiedere una pronuncia di condanna del condominio al
risarcimento del danno, dovendosi imputare alla collettività condominiale
gli atti compiuti e l'attività svolta in suo nome, nonché le relative
conseguenze patrimoniali sfavorevoli, e rimanendo il singolo condomino
danneggiato distinto dal gruppo ed equiparato a tali effetti a un terzo.
Essendo la nullità della delibera dell'assemblea fatto ostativo
all'insorgere del potere-dovere dell'amministratore di eseguire la stessa,
l'azione risarcitoria del singolo partecipante nei confronti del condominio
è ravvisabile non soltanto come scelta subordinata alla tutela demolitoria
ex articolo 1137 del codice civile, ma anche come opzione del tutto
autonoma.
La rimozione del manufatto che viola la privacy.
L'ascensore esterno al palazzo può «inciampare» però anche nella violazione
della privacy. Infatti una struttura realizzata davanti alle finestre di un
appartamento va rimossa se limita la proprietà immobiliare di un altro
condomino quanto a soleggiamento, aerazione e, soprattutto, riservatezza.
Ad affermarlo anche questa volta è stata la Corte di Cassazione con la sentenza 23.10.2017 n. 24972 che ha respinto il ricorso di una donna chiamata in
giudizio dalla proprietaria dell'appartamento sottostante per aver
realizzato un ascensore esterno al fabbricato.
La limitazione della proprietà.
Secondo i giudici di legittimità l'installazione dell'ascensore aveva
prodotto una grave limitazione della proprietà della ricorrente, costretta a
tenere spesso le finestre chiuse per non subire «intrusioni visive».
Inoltre
la scomparsa del coniuge della controparte, portatore di handicap motorio,
aveva determinato l'inesistenza di quella «situazione esistenziale» che si
voleva porre a fondamento della legittimità dell'installazione
dell'ascensore.
Né migliore fortuna poteva avere la circostanza che in precedenza era stata
piantata nello stesso luogo una siepe, dal momento che, ha concluso la
Cassazione, l'aver piantato una siepe è cosa ben diversa dalla realizzazione
di un ascensore.
Stop all'ascensore che ostacola i traslochi.
È da annullare inoltre la delibera condominiale che approva i lavori di
installazione di un ascensore nel palazzo se l'opera impedisce anche a un
solo condomino i trasporti di mobili o un trasloco.
L'impianto sicuramente aumenta la comodità d'uso e valorizza l'immobile ma
non si può realizzare quando riduce l'utilità ricavata dal singolo
proprietario.
A stabilirlo è stato il Tribunale di Roma con la sentenza
n. 379/2018 della V Sez. civile secondo il quale non esiste un diritto
assoluto a costruire l'ascensore.
Una compromissione ingiustificata.
Per stabilire che l'opera non era fattibile è bastata una perizia che ha
accertato l'esistenza di spazi angusti una volta realizzata l'opera.
Nel
caso in esame le scale dell'edificio avevano un andamento circolare e il
progetto ne riduceva la larghezza a soli ottanta centimetri.
In questo modo uno dei condomini sarebbe stato «prigioniero» in casa, senza
la possibilità di farsi consegnare un frigorifero o un letto nuovo e,
dunque, il progetto va rifatto perché compromette in modo eccessivo e non
giustificabile il diritto del singolo proprietario esclusivo, anche se
l'installazione dell'impianto ben può comportare alcune limitazioni sulle
parti comuni del palazzo.
Gli interventi consentiti a spese di uno solo.
Non tutte le installazioni degli ascensori sono però contrarie alla legge o
necessitano del consenso della maggioranza condominiale.
Non può infatti
essere demolito il vano ascensore realizzato in cortile a spese di un solo
proprietario, senza il consenso degli altri, quando l'opera non pregiudica i
diritti di godimento altrui sulle parti comuni.
A stabilirlo è stata la
Corte di Cassazione con la sentenza 12.10.2017 n. 23995
(articolo ItaliaOggi Sette del 08.10.2018). |
CONDOMINIO: Ascensore,
spese divise tra tutti. Inclusi nel riparto anche negozi e locali del piano
terra. Una pronuncia della Cassazione in merito al rifacimento dell’impianto
condominiale.
Anche i proprietari dei negozi o dei locali siti al
piano terra con accesso diretto dalla strada sono tenuti a concorrere nelle
spese di manutenzione straordinaria o di sostituzione dell'impianto di
ascensore.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con l'ordinanza
12.09.2018 n. 22157.
Il caso concreto.
Nella specie una condomina proprietaria di alcuni locali posti al piano
terra e con accesso dalla pubblica via si era rifiutata di sostenere la
quota di spese condominiali richiestale in occasione del rifacimento
dell'impianto di ascensore. La stessa era quindi stata raggiunta da un
decreto ingiuntivo ottenuto dall'amministratore, verso il quale aveva
spiegato opposizione.
La condomina, richiamato il contenuto del regolamento
condominiale (di natura contrattuale), il quale prevedeva l'appartenenza
dell'impianto di ascensore in comproprietà pro indiviso e indivisibile a
tutti i proprietari di unità immobiliari, ponendo a loro carico in
proporzione dei rispettivi valori delle singole porzioni le spese per il
rinnovamento o la manutenzione straordinaria, ed esonerando viceversa dalla
contribuzione nelle spese ordinarie e di esercizio i condomini che non
potessero servirsene, riteneva infatti che dal medesimo non si potesse
desumere l'obbligo di partecipazione alle spese anche di quei condomini
proprietari di soli locali aventi accesso dalla strada pubblica.
In primo
grado l'opposizione era stata accolta, ma la sentenza era stata prontamente
appellata dal condominio, il quale era invece risultato vincitore nel
giudizio di secondo grado. La Corte di appello, infatti, aveva ritenuto
legittima la ripartizione delle spese deliberata dall'assemblea per i lavori
di sostituzione dell'impianto e che aveva incluso fra i debitori anche la condomina opponente. Quest'ultima aveva quindi deciso di impugnare la
sentenza di secondo grado dinanzi alla Corte di cassazione.
La decisione della Suprema corte.
I giudici di legittimità, nel respingere il ricorso in questione,
confermando quindi il riparto delle spese operato dal condominio, hanno
quindi avuto modo di chiarire meglio quali siano i criteri che presiedono
alla suddivisione dei costi degli interventi sull'impianto di ascensore.
Già prima della riformulazione dell'art. 1124 c.c. a opera della legge n.
220/2012 di riforma del condominio la giurisprudenza aveva chiaramente
distinto l'ipotesi dell'installazione ex novo di un impianto di ascensore
nell'edificio che ne fosse privo da quella della manutenzione straordinaria
e/o della sostituzione del medesimo. Mentre nella prima ipotesi la relativa
spesa andava suddivisa secondo il tradizionale criterio di cui all'art. 1123 c.c., ovvero proporzionalmente al valore dei millesimi di proprietà di
ciascun condomino, nel secondo caso essa andava ripartita secondo il
criterio indicato dall'art. 1124 c.c. per la manutenzione straordinaria
delle scale.
Ora, come si diceva, detta conclusione è stata per così dire
ratificata dal legislatore, poiché il nuovo art. 1124 c.c. fin dalla sua
rubrica chiarisce che la disposizione si applica sia alle scale che agli
ascensori. La disposizione in questione contiene quindi una deroga al
criterio generale di riparto di cui all'art. 1123 c.c., poiché dispone che
la relativa spesa debba essere ripartita per metà in base ai millesimi di
proprietà e per l'altra metà esclusivamente in ragione dell'altezza di
ciascun piano dal suolo.
La medesima disposizione chiarisce che ove
l'edificio condominiale sia composto da più scale e impianti di ascensore,
gli stessi debbano essere mantenuti soltanto dai condomini al servizio dei
quali gli stessi sono stati previsti. L'art. 1124 c.c., inoltre, dispone
espressamente che per piano debbano intendersi anche le cantine, o palchi
morti, le soffitte o camere a tetto e i lastrici solari, ovviamente quando
gli stessi non siano di proprietà comune.
Nell'ordinanza in questione viene evidenziato come l'impianto di ascensore
debba quindi essere accomunato, per identità di funzione, alle scale, in
quanto anch'esso mezzo indispensabile per accedere al tetto e al terrazzo di
copertura (come anticipato, detta parificazione è ora anche di tipo
normativo).
Trattasi infatti di parte indiscutibilmente comune, tanto è vero
che l'art. 1117 c.c. annovera espressamente detto impianto fra i beni e i
servizi che si presumono comuni a tutti i condomini, salvo risulti
diversamente dal titolo. Di conseguenza l'ascensore appartiene in
comproprietà anche ai condomini proprietari di negozi o locali posti al
piano terreno e con accesso dalla via pubblica, poiché anche essi ne
fruiscono, «quanto meno», si legge nell'ordinanza, «in ordine alla
conservazione e manutenzione della copertura dell'edificio».
Ne discende che
anche i predetti condomini devono concorrere alle spese di manutenzione
straordinaria e/o sostituzione dell'impianto in rapporto e in proporzione
all'utilità che possono in ipotesi trarne, salvo esista un titolo contrario.
Come si è ripetuto più volte, la regola di cui sopra può essere derogata da
un titolo contrario. «Come tutti i criteri legali di ripartizione delle
spese condominiali», si legge nell'ordinanza in questione, «anche quello di
ripartizione delle spese di manutenzione e sostituzione degli ascensori può
essere derogato, ma la relativa convenzione modificatrice della disciplina
legale deve essere contenuta o nel regolamento condominiale (che perciò si
definisce di natura contrattuale) o in una deliberazione dell'assemblea che
venga approvata all'unanimità, ovvero con il consenso di tutti i condomini».
Per questo motivo i giudici di legittimità hanno ritenuto corretta la
decisione della corte di appello, la quale aveva valutato che nel
regolamento condominiale in questione non vi era alcuna disposizione
derogatoria del regime legale di ripartizione delle spese dell'impianto di
ascensore.
In altri termini, secondo la sesta sezione civile della
Cassazione, nella specie la ricorrente era caduta in una sorta di errore di
prospettiva, contestando che nel regolamento non vi fosse una disposizione
sulla quale si potesse fondare il proprio obbligo di contribuzione alle
spese, laddove quest'ultimo, come visto, discende direttamente dalla legge e
il regolamento può se mai disporre una deroga, circostanza che comunque non
ricorreva nel caso concreto.
L'opposizione al decreto ingiuntivo condominiale.
Visto che nella specie si trattava di un procedimento di opposizione al
decreto ingiuntivo ottenuto dal condominio verso un comproprietario in mora
nel pagamento delle spese comuni, i giudici di legittimità hanno avuto anche
il modo di ribadire alcuni principi validi in questo tipo di contenzioso in
rapporto alla perdurante efficacia della delibera condominiale sulla quale
si fondi l'obbligo impositivo e che non sia stata nel frattempo
giudizialmente sospesa.
In detto giudizio, infatti, il condomino che contesti l'ordine giudiziale di
pagamento non può far utilmente valere questioni attinenti alla mera
annullabilità della delibera assembleare di ripartizione della spesa.
«Tale
delibera», spiega la Cassazione, «costituisce infatti titolo sufficiente del
credito del condominio e legittima non solo la concessione del decreto
ingiuntivo, ma anche la condanna del condomino a pagare le somme nel
processo oppositorio a cognizione piena ed esauriente, il cui ambito è
dunque ristretto alla verifica della (perdurante) esistenza della
deliberazione assembleare di approvazione della spesa e di ripartizione del
relativo onere».
Un diverso comportamento da parte del giudice
dell'opposizione è dunque ammissibile soltanto ove si dia la prova che
l'efficacia della predetta deliberazione sia stata giudizialmente sospesa o
che la stessa sia stata addirittura annullata.
La VI Sez. civile della Suprema corte ha tuttavia a sua volta ribadito
il recente orientamento di legittimità per cui, fermo quanto sopra, il
giudice dell'opposizione può rilevare, anche d'ufficio, eventuali vizi di
legittimità della sottostante delibera assembleare ove gli stessi ne
implichino la nullità e non la semplice annullabilità, trattandosi
dell'applicazione di atti la cui validità rappresenta un elemento
costitutivo della domanda
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.09.2018). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Sopraelevazioni e decoro architettonico: chiarimenti dalla
Cassazione.
Sulla distinzione tra aspetto architettonico e decoro
architettonico.
Con l'ordinanza
12.09.2018 n. 22156, la Corte di
Cassazione (VI Sez. civile) ricorda che “l'art. 1127
c.c. sottopone il diritto di sopraelevazione del
proprietario dell'ultimo piano dell'edificio ai limiti
dettati dalle condizioni statiche dell'edificio che non la
consentono, ovvero dall'aspetto architettonico dell'edificio
stesso, oppure dalla conseguente notevole diminuzione di
aria e luce per i piani sottostanti”.
L'aspetto architettonico, cui si riferisce l'art. 1127,
comma 3, c.c., quale limite alle sopraelevazioni, “sottende,
peraltro, una nozione sicuramente diversa da quella di
decoro architettonico, contemplata dagli artt. 1120, comma
4, 1122, comma 1, e 1122-bis c.c., dovendo l'intervento
edificatorio in sopraelevazione comunque rispettare lo stile
del fabbricato e non rappresentare una rilevante disarmonia
in rapporto al preesistente complesso, tale da pregiudicarne
l'originaria fisionomia ed alterare le linee impresse dal
progettista, in modo percepibile da qualunque osservatore.
Il giudizio relativo all'impatto della sopraelevazione
sull'aspetto architettonico dell'edificio va condotto, in
ogni modo, esclusivamente in base alle caratteristiche
stilistiche visivamente percepibili dell'immobile
condominiale, e verificando l'esistenza di un danno
economico valutabile, mediante indagine di fattodemandata al
giudice del merito, il cui apprezzamento sfugge al sindacato
di legittimità, se, come nel caso in esame, congruamente
motivato”.
“D'altro canto”, ricorda la Cassazione, “questa Corte ha
anche affermato che le nozioni di aspetto architettonico ex
art. 1127 c.c. e di decoro architettonico ex art. 1120 c.c.,
pur differenti, sono strettamente complementari e non
possono prescindere l'una dall'altra, sicché anche
l'intervento edificatorio in sopraelevazione deve rispettare
lo stile del fabbricato, senza recare una rilevante
disarmonia al complesso preesistente, sì da pregiudicarne
l'originaria fisionomia ed alterarne le linee impresse dal
progettista”.
Ora, “perché rilevi la tutela dell'aspetto architettonico di
un fabbricato, agli effetti, come nella specie, dell'art.
1127, comma 3, c.c., non occorre che l'edificio abbia un
particolare pregio artistico, ma soltanto che questo sia
dotato di una propria fisionomia, sicché la sopraelevazione
realizzata induca in chi guardi una chiara sensazione di
disarmonia. Perciò deve considerarsi illecita ogni
alterazione produttiva di tale conseguenza, anche se la
fisionomia dello stabile risulti già in parte lesa da altre
preesistenti modifiche, salvo che lo stesso, per le modalità
costruttive o le modificazioni apportate, non si presenti in
uno stato di tale degrado complessivo da rendere ininfluente
allo sguardo ogni ulteriore intervento” (commento tratto da
www.casaeclima.com).
---------------
MASSIMA
E' noto come l'art. 1127 c.c. sottopone il diritto di
sopraelevazione del proprietario dell'ultimo piano
dell'edificio ai limiti dettati dalle condizioni statiche
dell'edificio che non la consentono, ovvero dall'aspetto
architettonico dell'edificio stesso, oppure dalla
conseguente notevole diminuzione di aria e luce per i piani
sottostanti.
L'aspetto architettonico, cui si
riferisce l'art. 1127, comma 3, c.c., quale limite alle
sopraelevazioni, sottende, peraltro, una nozione sicuramente
diversa da quella di decoro architettonico,
contemplata dagli artt. 1120, comma 4, 1122, comma 1, e
1122-bis c.c., dovendo l'intervento edificatorio in
sopraelevazione comunque rispettare lo stile del fabbricato
e non rappresentare una rilevante disarmonia in rapporto al
preesistente complesso, tale da pregiudicarne l'originaria
fisionomia ed alterare le linee impresse dal progettista, in
modo percepibile da qualunque osservatore.
Il giudizio relativo all'impatto della sopraelevazione
sull'aspetto architettonico dell'edificio va condotto, in
ogni modo, esclusivamente in base alle caratteristiche
stilistiche visivamente percepibili dell'immobile
condominiale, e verificando l'esistenza di un danno
economico valutabile, mediante indagine di fatto demandata
al giudice del merito, il cui apprezzamento sfugge al
sindacato di legittimità, se, come nel caso in esame,
congruamente motivato
(cfr. Cass. Sez. 6-2, 28/06/2017, n. 16258; Cass. Sez. 2,
15/11/2016, n. 23256; Cass. Sez. 2, 24/04/2013, n. 10048;
Cass. Sez. 2, 07/02/2008, n. 2865; Cass. Sez. 2, 22/01/2004,
n. 1025; Cass. Sez. 2, 27/04/1989, n. 1947).
D'altro canto, questa Corte ha anche affermato che
le nozioni di aspetto architettonico ex art.
1127 c.c. e di decoro architettonico ex art. 1120 c.c.,
pur differenti, sono strettamente complementari e non
possono prescindere l'una dall'altra, sicché anche
l'intervento edificatorio in sopraelevazione deve rispettare
lo stile del fabbricato, senza recare una rilevante
disarmonia al complesso preesistente, sì da pregiudicarne
l'originaria fisionomia ed alterarne le linee impresse dal
progettista (Cass.
Sez. 6 - 2, 25/08/2016, n. 17350).
Ora, perché rilevi la tutela dell'aspetto
architettonico di un fabbricato, agli effetti, come nella
specie, dell'art. 1127, comma 3, c.c., non occorre che
l'edificio abbia un particolare pregio artistico, ma
soltanto che questo sia dotato di una propria fisionomia,
sicché la sopraelevazione realizzata induca in chi guardi
una chiara sensazione di disarmonia.
Perciò deve considerarsi illecita ogni alterazione
produttiva di tale conseguenza, anche se la fisionomia dello
stabile risulti già in parte lesa da altre preesistenti
modifiche, salvo che lo stesso, per le modalità costruttive
o le modificazioni apportate, non si presenti in uno stato
di tale degrado complessivo da rendere ininfluente allo
sguardo ogni ulteriore intervento
(Corte di Cassazione, Sez. VI civile,
ordinanza
12.09.2018 n. 22156). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Tutela dell'aspetto architettonico di un fabbricato -
Nozioni di aspetto architettonico e di decoro architettonico
- Diversità e complementarietà
- Qualifiche e limiti alle sopraelevazioni - Distonia con i
ritmi architettonici del fabbricato - Fattispecie:
Demolizione di una veranda costruita sul terrazzo di
copertura - Giurisprudenza - Artt. 1120 e 1127 c.c..
Le nozioni di aspetto architettonico ex
art. 1127 c.c. e di decoro architettonico ex art. 1120 c.c.,
pur differenti, sono strettamente complementari e non
possono prescindere l'una dall'altra, sicché anche
l'intervento edificatorio in sopraelevazione deve rispettare
lo stile del fabbricato, senza recare una rilevante
disarmonia al complesso preesistente, sì da pregiudicarne
l'originaria fisionomia ed alterarne le linee impresse dal
progettista (Cass.
Sez. 6 - 2, 25/08/2016, n. 17350).
Pertanto, l'aspetto architettonico, cui si
riferisce l'art. 1127, comma 3, c.c., quale limite alle
sopraelevazioni, sottende, peraltro, una nozione sicuramente
diversa da quella di decoro architettonico, contemplata
dagli artt. 1120, comma 4, 1122, comma 1, e 1122-bis c.c.,
dovendo l'intervento edificatorio in sopraelevazione
comunque rispettare lo stile del fabbricato e non
rappresentare una rilevante disarmonia in rapporto al
preesistente complesso, tale da pregiudicarne l'originaria
fisionomia ed alterare le linee impresse dal progettista, in
modo percepibile da qualunque osservatore.
Il giudizio relativo all'impatto della sopraelevazione
sull'aspetto architettonico dell'edificio va condotto, in
ogni modo, esclusivamente in base alle caratteristiche
stilistiche visivamente percepibili dell'immobile
condominiale, e verificando l'esistenza di un danno
economico valutabile, mediante indagine di fatto demandata
al giudice del merito, il cui apprezzamento sfugge al
sindacato di legittimità, se, come nel caso in esame,
congruamente motivato
(cfr. Cass. Sez. 6-2, 28/06/2017, n. 16258; Cass. Sez. 2,
15/11/2016, n. 23256; Cass. Sez. 2, 24/04/2013, n. 10048;
Cass. Sez. 2, 07/02/2008, n. 2865; Cass. Sez. 2, 22/01/2004,
n. 1025; Cass. Sez. 2, 27/04/1989, n. 1947).
Ora, perché rilevi la tutela dell'aspetto
architettonico di un fabbricato, agli effetti, come nella
specie, dell'art. 1127, comma 3, c.c., non occorre che
l'edificio abbia un particolare pregio artistico, ma
soltanto che questo sia dotato di una propria fisionomia,
sicché la sopraelevazione realizzata induca in chi guardi
una chiara sensazione di disarmonia. Perciò deve
considerarsi illecita ogni alterazione produttiva di tale
conseguenza, anche se la fisionomia dello stabile risulti
già in parte lesa da altre preesistenti modifiche, salvo che
lo stesso, per le modalità costruttive o le modificazioni
apportate, non si presenti in uno stato di tale degrado
complessivo da rendere ininfluente allo sguardo ogni
ulteriore intervento (Corte
di Cassazione, Sez. VI civile,
ordinanza 12.09.2018 n. 22156 - link a www.ambientediritto.it). |
giugno 2018 |
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CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla riconducibilità, o meno, del pianerottolo, sito sulle scale
condominiali, ad una pertinenza dell'abitazione.
Secondo la giurisprudenza di legittimità, rientrano
nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si
svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti
al pubblico né accessibili a terzi, senza il consenso del titolare, compresi
i luoghi destinati all'esercizio di attività lavorativo o professionale; ed
infatti, per "luogo aperto al pubblico", deve intendersi quello al quale
chiunque può accedere a determinate condizioni, ovvero quello frequentabile
da un'intera categoria di persone o comunque da un numero indeterminato di
soggetti, che abbiano la possibilità giuridica e pratica di accedervi, senza
la legittima opposizione di chi sul luogo esercita un potere di fatto o di
diritto.
Acclarate tali nozioni, di "luogo aperto al pubblico" e, a contrario, di
"privata dimora", è conseguenziale ritenere il pianerottolo, antistante
l'abitazione, come riconducibile alla prima categoria, e non ad un luogo,
rientrante nel concetto di abitazione ovverosia luogo di privata dimora.
Conferma specifica si ricava da altre pronunce, secondo le quali, ai fini
dell'integrazione del reato di interferenze illecite nella vita privata
(art. 615-bis cod. pen.), deve escludersi che le scale condominiali ed i
relativi pianerottoli siano "luoghi di privata dimora" cui estendere la
tutela penalistica alle immagini ivi riprese, trattandosi di zone che non
assolvono alla funzione di consentire l'esplicazione della vita privata al
riparo di sguardi indiscreti, essendo destinate all'uso di un numero
indeterminato di soggetti.
Ed ancora, il pianerottolo delle scale di un fabbricato in condominio
costituisce luogo aperto al pubblico in quanto consente l'accesso ad
un'indistinta categoria di persone e non soltanto ai condomini.
Il discrimine fra le due figure è rappresentato, pertanto, dalla possibilità
di accesso da parte di un'intera categoria di persone o comunque da un
numero indeterminato di soggetti che abbiano la possibilità giuridica e
pratica di accedere senza legittima opposizione di chi sul luogo esercita un
potere di fatto o di diritto.
---------------
1. Il ricorso è fondato e merita accoglimento.
La problematica centrale riguarda la nozione di luogo pubblico o
aperto al pubblico, posto che il reato contravvenzionale, ex art. 4
legge n. 110/1975, implica il porto in luogo pubblico o aperto al pubblico.
Ed invero, nell'ambito del presente procedimento, il contrasto è insorto,
proprio a seguito dell'affermazione, contenuta nella sentenza impugnata,
circa la riconducibilità del pianerottolo, sito sulle scale condominiali, ad
una pertinenza dell'abitazione dell'imputato.
Secondo la giurisprudenza di legittimità, rientrano nella nozione di
privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non
occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico
né accessibili a terzi, senza il consenso del titolare, compresi i luoghi
destinati all'esercizio di attività lavorativo o professionale (Sez. U, n.
31345 del 23/03/2017 - dep. 22/06/2017, D'Amico, Rv. 270076); ed infatti,
per "luogo aperto al pubblico", deve intendersi quello al quale
chiunque può accedere a determinate condizioni, ovvero quello frequentabile
da un'intera categoria di persone o comunque da un numero indeterminato di
soggetti, che abbiano la possibilità giuridica e pratica di accedervi, senza
la legittima opposizione di chi sul luogo esercita un potere di fatto o di
diritto (Sez. 3, n. 29586 del 17/02/2017 - dep. 14/06/2017, C., Rv. 270251).
Acclarate tali nozioni, di "luogo aperto al pubblico" e, a contrario,
di "privata dimora", è conseguenziale ritenere il pianerottolo,
antistante l'abitazione, come riconducibile alla prima categoria, e non ad
un luogo, rientrante nel concetto di abitazione ovverosia luogo di
privata dimora.
Conferma specifica si ricava da altre pronunce, secondo le quali, ai fini
dell'integrazione del reato di interferenze illecite nella vita privata
(art. 615-bis cod. pen.), deve escludersi che le scale condominiali ed i
relativi pianerottoli siano "luoghi di privata dimora" cui estendere
la tutela penalistica alle immagini ivi riprese, trattandosi di zone che non
assolvono alla funzione di consentire l'esplicazione della vita privata al
riparo di sguardi indiscreti, essendo destinate all'uso di un numero
indeterminato di soggetti (Sez. 5, n. 34151 del 30/05/2017 - dep.
12/07/2017, P.C. in proc. Tinervia, Rv. 270679).
Ed ancora, il pianerottolo delle scale di un fabbricato in condominio
costituisce luogo aperto al pubblico in quanto consente l'accesso ad
un'indistinta categoria di persone e non soltanto ai condomini.
(applicazione in tema di porto abusivo di armi) (Sez. 1, n. 934 del
28/09/1982 - dep. 03/02/1983, CHIAPPERO, Rv. 157237).
Il discrimine fra le due figure è rappresentato, pertanto, dalla possibilità
di accesso da parte di un'intera categoria di persone o comunque da un
numero indeterminato di soggetti che abbiano la possibilità giuridica e
pratica di accedere senza legittima opposizione di chi sul luogo esercita un
potere di fatto o di diritto (Sez. 5, n. 22890 del 10/04/2013 - dep.
27/05/2013, Ambrosio, Rv. 256949) (Corte di Cassazione, Sez. V penale,
sentenza 01.06.2018 n. 24755). |
marzo 2018 |
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CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA:
Il Collegio è
propenso ad accogliere l’opinione che, per la costituzione
di un condominio, si possa prescindere da un atto formale
qualora sussistano più parti di un edificio in comunione pro
indiviso, essendo l’istituto configurabile anche tra edifici
strutturalmente autonomi, appartenenti ciascuno a singoli
soggetti, tra i quali vi siano opere comuni, pur se
distaccate, destinate al loro godimento e servizio.
---------------
In tema di condominio, l’art. 1127, comma 1, del c.c.
prevede che “il proprietario dell’ultimo piano dell'edificio
può elevare nuovi piani o nuove fabbriche, salvo che risulti
altrimenti dal titolo. La stessa facoltà spetta a chi è
proprietario esclusivo del lastrico solare”.
I commi 2 e 3 prevedono quanto segue: “La sopraelevazione
non è ammessa se le condizioni statiche dell'edificio non la
consentono. I condomini possono altresì opporsi alla
sopraelevazione, se questa pregiudica l'aspetto
architettonico dell'edificio ovvero diminuisce notevolmente
l'aria o la luce dei piani sottostanti”.
La nozione di sopraelevazione, oggetto della disciplina
appena riportata, trova applicazione nei casi in cui il
proprietario dell’ultimo piano dell’edificio condominiale
esegua nuovi piani o nuove fabbriche, ovvero trasformi
locali preesistenti aumentandone le superfici e le
volumetrie.
La ratio giustificatrice della norma va ricercata nel fatto
che la sopraelevazione sfrutta lo spazio sovrastante
l'edificio ed occupa la colonna d'aria su cui esso insiste,
per cui l’esercizio di tale diritto non resta subordinato
alla prestazione del consenso da parte degli altri condomini
purché non sia compromessa la statica e l'architettura dello
stabile e non siano presenti limitazioni alla luce o
all'aria del sottostante appartamento.
---------------
La giurisprudenza amministrativa si è pronunciata sul
diritto del condomino, proprietario dell’ultimo piano, di
sopraelevare come disciplinato dall'art. 1127 c.c., in
quanto la questione non ha carattere solo civilistico, ma
incide sulle condizioni per il rilascio del titolo
abilitativo.
In proposito, ha puntualizzato che, se si ritiene, come
precisato dalla Corte di Cassazione, che il proprietario
dell'ultimo piano possa sopraelevare senza il consenso degli
altri condomini, “ne deriva che anche l'autorizzazione alla
costruzione dell'antenna possa prescindere dalla prova della
proprietà esclusiva del tetto, essendo necessario e
sufficiente che l'istante sia proprietario dell'ultimo
piano, ….”.
Più in generale, la facoltà di sopraelevare spetta ex lege
al proprietario dell’ultimo piano dell'edificio (o al
proprietario esclusivo del lastrico solare) e il suo
esercizio, che non necessita di alcun riconoscimento da
parte degli altri condomini, può essere precluso soltanto in
forza di un'espressa pattuizione che, in sostanza,
costituisca una servitù altius non tollendi a favore degli
stessi.
Nel caso di specie, da un lato non sussiste tra i condomini
un precedente accordo in senso contrario, e dall’altro non
viene dimostrato –in positivo– un pregiudizio statico o di
decoro (la Commissione per il Paesaggio ha emesso parere
positivo) o di igiene dell’edificio.
Pertanto, gli odierni controinteressati erano titolari del
diritto a sopraelevare.
---------------
La Società ricorrente censura il provvedimento comunale
18/03/2015, di rilascio del permesso di costruire in
sanatoria per la realizzazione del sopralzo di un sottotetto
e di un balcone.
...
2. Anche la seconda censura non è passibile di
positivo scrutinio.
2.1 Il Collegio è propenso ad accogliere l’opinione che, per
la costituzione di un condominio, si possa prescindere da un
atto formale qualora sussistano più parti di un edificio in
comunione pro indiviso, essendo l’istituto configurabile
anche tra edifici strutturalmente autonomi, appartenenti
ciascuno a singoli soggetti, tra i quali vi siano opere
comuni, pur se distaccate, destinate al loro godimento e
servizio (cfr. Corte di Cassazione, sez. II civile –
14/12/2017 n. 30046 che richiama Corte di Cassazione, sez.
II civile – 12/11/1998 n. 11407): come hanno sottolineato i
controinteressati, nel caso di specie sussistono tutti i
presupposti sostanziali per definire “condominio” il
complesso composto dall’edificio le cui unità immobiliari
appartengono ad -OMISSIS- S.r.l. e ai Sig.ri -OMISSIS- e
-OMISSIS-, nonché ad altri soggetti.
Infatti, anche se il compendio contempla gli appartamenti in
blocchi separati e autonomi tra loro, nell’atto notarile
30/12/2010 (doc. 3 ricorrente - pagina 1) si dà atto della
comproprietà delle corti comuni (sub. 5, 18 e 19 del mappale
58).
2.2 Sotto altro versante, appare acclarato in base alle
deduzioni delle parti e agli atti di causa che l’assemblea è
stata convocata e che la ricorrente non vi ha partecipato,
dopo aver ricevuto l’avviso oltre il termine minimo (pari a
5 giorni) normativamente previsto. In ogni caso, è pacifico
che -OMISSIS- non ha manifestato alcun consenso alla
realizzazione dell’intervento.
Sul punto, a prescindere dalla perdurante impugnabilità
della deliberazione assembleare, si tratta di chiarire se è
necessario il consenso unanime dei condomini o comunque
l’approvazione del soggetto che può ricevere un incisivo
pregiudizio (come il ricorrente, immediato confinante che
occupa i piani immediatamente inferiori dell’edificio
oggetto di sopraelevazione).
Il Collegio ritiene di dare al quesito risposta negativa.
2.3 In tema di condominio, l’art. 1127, comma 1, del c.c.
prevede che “il proprietario dell’ultimo piano
dell'edificio può elevare nuovi piani o nuove fabbriche,
salvo che risulti altrimenti dal titolo. La stessa facoltà
spetta a chi è proprietario esclusivo del lastrico solare”.
I commi 2 e 3 prevedono quanto segue: “La sopraelevazione
non è ammessa se le condizioni statiche dell'edificio non la
consentono. I condomini possono altresì opporsi alla
sopraelevazione, se questa pregiudica l'aspetto
architettonico dell'edificio ovvero diminuisce notevolmente
l'aria o la luce dei piani sottostanti”.
La nozione di sopraelevazione, oggetto della disciplina
appena riportata, trova applicazione nei casi in cui il
proprietario dell’ultimo piano dell’edificio condominiale
esegua nuovi piani o nuove fabbriche, ovvero trasformi
locali preesistenti aumentandone le superfici e le
volumetrie. La ratio giustificatrice della norma va
ricercata nel fatto che la sopraelevazione sfrutta lo spazio
sovrastante l'edificio ed occupa la colonna d'aria su cui
esso insiste (Tribunale di Trento – 11/07/2017), per cui
l’esercizio di tale diritto non resta subordinato alla
prestazione del consenso da parte degli altri condomini
purché non sia compromessa la statica e l'architettura dello
stabile e non siano presenti limitazioni alla luce o
all'aria del sottostante appartamento (Consiglio di Stato,
sez. IV – 09/05/2017 n. 2118).
2.4 La giurisprudenza amministrativa si è pronunciata sul
diritto del condomino, proprietario dell’ultimo piano, di
sopraelevare come disciplinato dall'art. 1127 c.c., in
quanto la questione non ha carattere solo civilistico, ma
incide sulle condizioni per il rilascio del titolo
abilitativo.
In proposito, TAR Calabria Catanzaro, sez. I – 19/11/2015 n.
1749 ha puntualizzato che, se si ritiene, come precisato
dalla Corte di Cassazione, che il proprietario dell'ultimo
piano possa sopraelevare senza il consenso degli altri
condomini, “ne deriva che anche l'autorizzazione alla
costruzione dell'antenna possa prescindere dalla prova della
proprietà esclusiva del tetto, essendo necessario e
sufficiente che l'istante sia proprietario dell'ultimo
piano, ….”.
Più in generale, la facoltà di sopraelevare spetta ex
lege al proprietario dell’ultimo piano dell'edificio (o
al proprietario esclusivo del lastrico solare) e il suo
esercizio, che non necessita di alcun riconoscimento da
parte degli altri condomini, può essere precluso soltanto in
forza di un'espressa pattuizione che, in sostanza,
costituisca una servitù altius non tollendi a favore
degli stessi (TAR Liguria, sez. I – 09/07/2015 n. 651, che
richiama TAR Sardegna, sez. II – 14/03/2013 n. 224).
Nel caso di specie, da un lato non sussiste tra i condomini
un precedente accordo in senso contrario, e dall’altro non
viene dimostrato –in positivo– un pregiudizio statico o di
decoro (la Commissione per il Paesaggio ha emesso parere
positivo) o di igiene dell’edificio. Ulteriori riflessioni
su tali aspetti saranno sviluppate con l’esame dell’ultimo
motivo di ricorso. Pertanto, gli odierni controinteressati
erano titolari del diritto a sopraelevare.
2.5 La mancata indicazione, nell’accordo del 16/02/2015
(doc. 1-L ricorrente), del diritto di proprietà esclusiva di
-OMISSIS- sulla striscia contigua al muro perimetrale in
lato sud-ovest interessato dal sopralzo (e della
comproprietà della corte comune) integra indubbiamente una
lacuna, le cui conseguenze saranno esaminate in raccordo con
le successive doglianze. Per il momento, non affiora un dolo
evidente nella rappresentazione dello stato dei luoghi, che
possa ex se insinuare un vizio nel titolo edilizio
rilasciato (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 26.03.2018 n. 341 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA:
La Corte di Cassazione –sulla questione
relativa al rispetto delle distanze all'interno di un
condominio– ha richiamato il condiviso principio di diritto
secondo il quale <<Le norme sulle distanze sono applicabili
anche tra i condomini di un edificio condominiale, purché
siano compatibili con la disciplina particolare relativa
alle cose comuni, cioè quando l'applicazione di quest'ultima
non sia in contrasto con le prime; nell'ipotesi di
contrasto, la prevalenza della norma speciale in materia di
condominio determina l'inapplicabilità della disciplina
generale sulle distanze che, nel condominio degli edifici e
nei rapporti tra singolo condomino e condominio, è in
rapporto di subordinazione rispetto alla prima. Pertanto,
ove il giudice constati il rispetto dei limiti di cui
all'art. 1102 c.c. , deve ritenersi legittima l'opera
realizzata anche senza il rispetto delle norme dettate per
regolare i rapporti tra proprietà contigue, sempre che venga
rispettata la struttura dell'edificio condominiale>>.
La Corte di Cassazione ha poi statuito che “In tema di
condominio, ai sensi dell'art. 1102 c.c., comma 1, ciascun
condomino è libero di servirsi della cosa comune, anche per
fine esclusivamente proprio, traendo ogni possibile utilità,
purché non alteri la destinazione della cosa comune e
consenta un uso paritetico agli altri condomini. …”.
In buona sostanza, le norme in tema di distanze legali
recedono quando sono in contrasto con i principi
fondamentali sui quali si regge il condominio, per cui
sarebbe possibile aprire una finestra sul cortile comune
anche senza rispettare le distanze dall’appartamento di un
altro condomino, in quanto la funzione del cortile è quella
di dare luce ad aria.
---------------
L’art. 90 del DPR 380/2001 consente le sopraelevazioni nel
rispetto degli strumenti urbanistici vigenti, mentre l’art.
1127 del c.c. permette di sopraelevare sull'ultimo piano
dell'edificio, ma non esonera certo dall'osservanza delle
norme in materia di distanze tra costruzioni.
Sempre ai fini del rispetto delle distanze legali tra
costruzioni, va osservato che la sopraelevazione di un
edificio preesistente, determinando un incremento della
volumetria del fabbricato, va qualificata come nuova
costruzione, sicché deve rispettare la normativa sulle
distanze vigente al momento della sua realizzazione, non
potendosi automaticamente giovare del diritto di prevenzione
caratterizzante la costruzione originaria, che si esaurisce
con il completamento, strutturale e funzionale, di quest'ultima.
---------------
La Società ricorrente censura il provvedimento comunale
18/03/2015, di rilascio del permesso di costruire in
sanatoria per la realizzazione del sopralzo di un sottotetto
e di un balcone.
...
3.4 Non sussiste neppure la dedotta violazione dell’altezza
massima, prevista in metri 10,5 dalle NTA.
Il limite –che lo strumento urbanistico riferisce
all’altezza “media” quando il solaio di copertura non
sia orizzontale e quando il terreno o la strada siano in
pendenza– risulta infatti rispettato dall’intervento dei
controinteressati, come si evince dai disegni e dalle tavole
esibite. Emerge chiaramente che l’altezza media
dell’edificio – pari a 10,31 metri – rispetta la previsione
di cui all’art. 5 del Piano delle Regole di -OMISSIS- (cfr.
allegati n. 4 e n. 5 controinteressati).
Non è sufficiente, al riguardo, lamentare una mancata “verifica
in loco” da parte dei tecnici del Comune, visto che il
meccanismo di calcolo non è stato contestato dalla parte
ricorrente attraverso la produzione di una perizia ovvero
l’elaborazione di cifre differenti.
Infine, i vani ricavati nel sottotetto aventi altezza media
ponderale non superiore a 1,80 metri sono esclusi dal
computo dell’altezza, e non vi sono ragioni per ritenere
inapplicabile la disposizione (ancorché siano stati
effettuati interventi pregressi, non affiorando il
complessivo superamento del limite).
3.5 Viceversa, i Sigg.ri -OMISSIS- e -OMISSIS- hanno
indebitamente violato, con la creazione del sopralzo, la
distanza minima di 5 metri dal confine con la striscia di
area di proprietà della Società ricorrente, che corre in
adiacenza lungo il muro perimetrale sud ovest.
3.6 La Corte di Cassazione (sez. II civile – 27/02/2014 n.
47471) –sulla questione relativa al rispetto delle distanze
all'interno di un condominio– ha richiamato il condiviso
principio di diritto, affermato anche con la propria
sentenza n. 6546 del 18/03/2010, secondo il quale <<Le
norme sulle distanze sono applicabili anche tra i condomini
di un edificio condominiale, purché siano compatibili con la
disciplina particolare relativa alle cose comuni, cioè
quando l'applicazione di quest'ultima non sia in contrasto
con le prime; nell'ipotesi di contrasto, la prevalenza della
norma speciale in materia di condominio determina
l'inapplicabilità della disciplina generale sulle distanze
che, nel condominio degli edifici e nei rapporti tra singolo
condomino e condominio, è in rapporto di subordinazione
rispetto alla prima. Pertanto, ove il giudice constati il
rispetto dei limiti di cui all'art. 1102 c.c. , deve
ritenersi legittima l'opera realizzata anche senza il
rispetto delle norme dettate per regolare i rapporti tra
proprietà contigue, sempre che venga rispettata la struttura
dell'edificio condominiale>>.
La Corte di Cassazione, sez. II civile – 11/6/2013 n. 14652,
ha poi statuito che “In tema di condominio, ai sensi
dell'art. 1102 c.c., comma 1, ciascun condomino è libero di
servirsi della cosa comune, anche per fine esclusivamente
proprio, traendo ogni possibile utilità, purché non alteri
la destinazione della cosa comune e consenta un uso
paritetico agli altri condomini. …”.
3.7 In buona sostanza, le norme in tema di distanze legali
recedono quando sono in contrasto con i principi
fondamentali sui quali si regge il condominio, per cui
sarebbe possibile aprire una finestra sul cortile comune
anche senza rispettare le distanze dall’appartamento di un
altro condomino, in quanto la funzione del cortile è quella
di dare luce ad aria.
Tuttavia, nella fattispecie all’esame del Collegio, la
distanza rileva rispetto a un’area pacificamente di
proprietà esclusiva del confinante.
L’art. 90 del DPR 380/2001 consente le sopraelevazioni nel
rispetto degli strumenti urbanistici vigenti, mentre l’art.
1127 del c.c. permette di sopraelevare sull'ultimo piano
dell'edificio, ma non esonera certo dall'osservanza delle
norme in materia di distanze tra costruzioni (Corte di
cassazione, sez. II civile – 25/07/2016 n. 15295).
Sempre ai fini del rispetto delle distanze legali tra
costruzioni, va osservato che la sopraelevazione di un
edificio preesistente, determinando un incremento della
volumetria del fabbricato, va qualificata come nuova
costruzione, sicché deve rispettare la normativa sulle
distanze vigente al momento della sua realizzazione, non
potendosi automaticamente giovare del diritto di prevenzione
caratterizzante la costruzione originaria, che si esaurisce
con il completamento, strutturale e funzionale, di quest'ultima
(TAR Campania Napoli, sez. VIII – 14/03/2017 n. 1465 e la
giurisprudenza civile ivi menzionata).
3.8 Non è in altri termini appropriato il richiamo al
principio dell'inoperatività, nel condominio, della
normativa sulle distanze legali, dal momento che tale
principio è valido con riferimento alle opere eseguite sulle
parti comuni e non si estende invece ai rapporti fra i
singoli condomini e le rispettive proprietà esclusive.
Si concorda dunque con quanto affermato dalla parte
ricorrente nella memoria di replica per cui, nel caso
specifico, le unità immobiliari delle parti in causa sono
perfettamente autonome e ciò che risulta violata è la
distanza del sopralzo –qualificabile come “nuova
costruzione”– rispetto alla porzione esclusiva di area
scoperta di proprietà della ricorrente (e non rispetto ad
una porzione di area condominiale).
3.9 Da ultimo, la ricorrente lamenta che il balcone sarebbe
stato realizzato sul muro perimetrale in lato sud-ovest in
violazione dell’art. 905 del c.c., che pone il divieto di
aprire vedute dirette verso il fondo del vicino a meno di 1
metro e mezzo di distanza dal medesimo fondo.
La prospettazione non convince.
Nella memoria finale, i controinteressati hanno
efficacemente affermato (senza contestazione sul punto della
parte avversaria) che il balcone costruito sul lato
sud-ovest non crea alcun affaccio sulla striscia di
proprietà di -OMISSIS- S.r.l., dal momento che i poggioli
del piano secondo ne impediscono la vista. Con gli altri
proprietari limitrofi, i Sigg.ri -OMISSIS- e -OMISSIS- hanno
sottoscritto la scrittura privata del 16/02/2015 (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 26.03.2018 n. 341 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2017 |
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ottobre 2017 |
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CONDOMINIO: Telecamere,
meglio il fai-da-te. Sulle posizioni incerte
prevale l'autoregolamentazione. Discordanti
le tesi di garante privacy, giudici penali e
civili sulle riprese: ecco la via d'uscita.
Telecamere sulle parti comuni: sì, no,
forse. Il garante dice di no, il giudice
penale dà l'ok; il giudice civile non ha
ancora una posizione univoca.
Nel frattempo o si sceglie l'alea
giudiziaria o ci si mette d'accordo tra
privati.
L'ultimo caso è stato affrontato dal
TRIBUNALE di Avellino (sentenza
30.10.2017, solo ora resa nota).
Il vicino installa all'esterno del suo
cancello una telecamera, puntata sulla
proprietà esclusiva dei dirimpettai, che si
sentono costantemente spiati. La telecamera
è puntata sul vialetto di accesso alle
abitazioni.
Chi ha installato la telecamera ha subito
furti di appartamento e intende tutelare la
propria sicurezza.
Il vicino non gradisce che siano prese le
immagini sugli spostamenti suoi e di chi lo
viene a trovare.
Garante contro giudici.
Per il fatto non c'è una sola regola, ma più
regole in conflitto tra loro.
Una regola fa prevalere la sicurezza;
l'altra la riservatezza. La seconda viene
applicata dal garante della privacy; la
prima viene applicata, ma non in maniera
concorde, dai giudici dei tribunali.
In attesa che una delle autorità si adegui
all'orientamento dell'altra, bisogna sapere
a cosa si va incontro se si va dall'una o
dall'altra.
Se si va dal garante è molto probabile
ricevere un ordine di non trattare dati con
la telecamera sul vialetto; ma non bisogna
dimenticare che i provvedimenti sono
impugnabili davanti al giudice.
Se si va dal giudice penale è molto
probabile che chi ha messo la telecamera sul
vialetto sarà assolto dal reato di
interferenze illecite sulla vita privata; se
si va dal giudice civile (subito o in
opposizione a provvedimenti del garante),
bisogna considerare che qualche giudice di
merito ritiene vincolanti il provvedimento
del garante (divieto di riprese delle parti
comuni) e che qualche altro giudice si
pronuncia indipendentemente dal
provvedimento di garante (e quindi dà il via
libere alle telecamere sul vialetto).
Facile constatare un groviglio di
incertezze, rispetto al quale l'unica
soluzione ragionevole sarebbe
l'autoregolamentazione: gli interessati si
siedono attorno al tavolo e, cercando di
capire le rispettive ragioni, stilano il
loro regolamento sulla videosorveglianza del
vialetto.
Magari riusciranno a darsi delle regole
(contrattuali) sull'oggetto della ripresa,
sui tempi delle riprese, sulla conservazione
e sulla cancellazione delle immagini, sui
costi da condividere e in che misura, ecc.
Se questo non è possibile, allora via libera
al contenzioso. Ma non dimentichiamo che
nelle more di una legge o di un orientamento
consolidato della giurisprudenza, qualcuno
potrà mettere le telecamere e qualcun altro
no, qualcuno dovrà subire di essere ripreso
mentre dal cancello di ingresso percorre il
vialetto che porta all'uscio di casa sua e
qualcun altro, invece, no.
Ma passiamo a esaminare i vari passaggi e le
varie tesi contrapposte, che sono, tra
l'alto, riepilogate dalla sentenza del
Tribunale di Avellino.
Non è penale.
Non c'è responsabilità penale per
interferenze alla vita privata (articolo
615-bis del codice penale): le scale di un
condominio e i pianerottoli delle scale
condominiali non assolvono la funzione di
consentire l'esplicazione della vita privata
al riparo da sguardi indiscreti, perché
sono, in realtà, destinati all'uso di un
numero indeterminato di soggetti. Di
conseguenza, per i giudici penali, non
comportano interferenze illecite nella vita
privata le videoriprese del «pianerottolo»
di un'abitazione privata, oltre che
dell'area antistante all'ingresso di un
garage condominiale; le videoregistrazioni
dell'ingresso e del piazzale di accesso a un
edificio sede dell'attività di una società
commerciale; l'area condominiale destinata a
parcheggio e del relativo ingresso.
La legge sulla privacy.
L'articolo 5, comma 3, del dlgs 196/2003
dispone che «il trattamento di dati
personali effettuato da persone fisiche per
fini esclusivamente personali è soggetto
all'applicazione del codice della privacy
solo se i dati sono destinati a una
comunicazione sistematica o alla diffusione».
Alla ripresa di immagini del vialetto non si
applica il codice della privacy, perché il
trattamento è eseguito dal resistente per
finalità esclusivamente personali, relative
alla tutela dell'incolumità della famiglia e
della proprietà.
Posizione garante privacy.
Il garante per la protezione dei dati
personali nel suo provvedimento in materia
di videosorveglianza dell'08/04/2010
(pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 99
del 29/4/2010), quanto ai trattamenti
effettuati per finalità esclusivamente
personali, non accompagnati da comunicazione
sistematica o diffusione di dati, ha preso
una posizione di cautela.
Anche se non si applica la disciplina del
codice della privacy, al fine di evitare di
incorrere nel reato di interferenze illecite
nella vita privata (articolo 615-bis codice
penale), ha scritto il garante, l'angolo
visuale delle riprese deve essere comunque
limitato ai soli spazi di propria esclusiva
pertinenza (per esempio antistanti
all'accesso alla propria abitazione)
escludendo ogni forma di ripresa, anche
senza registrazione di immagini, relativa ad
aree comuni (cortili, pianerottoli, scale,
garage comuni) oppure ad ambiti antistanti
all'abitazione di altri condomini.
La posizione del tribunale.
Se non è penale, siano di fronte a un
illecito civile?
Alcuni tribunali, come quello di Avellino,
che è in buona compagnia, prendono le
distanze dal garante.
Le indicazioni dettate dal garante, dicono i
sostenitori di questo orientamento, non
tengono conto, del fatto che le aree comuni
non rientrano nei concetti di domicilio, di
privata dimora e di appartenenza di essi.
Inoltre, per essere al riparo da occhi
indiscreti non basta che un certo
comportamento venga tenuto in luoghi di
privata dimora, ma occorre altresì che esso
avvenga in condizioni tali da renderlo
tendenzialmente non visibile ai terzi: se
l'azione può essere liberamente osservata
dai terzi senza dover ricorrere a
particolari accorgimenti, il titolare del
domicilio non può avanzare una pretesa di
riservatezza.
Quindi, secondo questo filone, le parti
comuni di un edificio ben possono essere
oggetto di sorveglianza video,
contrariamente a quanto affermato nel citato
provvedimento del garante.
In sostanza, il garante, nel momento in cui
ha dato le indicazioni sopra riportate su
quale angolo visuale dovrebbero tenere le
telecamere, ha affermato che seguire tale
indicazioni è necessario al fine di «evitare
di incorrere nel reato di interferenze
illecite nella vita privata» (articolo
615-bis codice penale).
Però le sentenze penali, hanno escluso che
la ripresa relativa ad aree comuni (cortili,
pianerottoli, scale, garage comuni) oppure
ad ambiti antistanti all'abitazione di altri
condomini integri di per sé reato,
ogniqualvolta si tratti di spazio fisico
direttamente e materialmente accessibile
nonché visibile da parte di chiunque, senza
che sia necessario il consenso di nessuno.
Quindi, nota il tribunale di Avellino, il
garante, per mezzo delle indicazioni da lui
fornite con il provvedimento del 2010
(relative a evitare che l'angolo visuale
della telecamera riprenda «aree comuni
(cortili, pianerottoli, scale, garage
comuni) ovvero ad ambiti antistanti
all'abitazione di altri condomini» ha
fornito un'interpretazione del reato di cui
all'art. 615-bis c.p. in buona parte
smentita dalla giurisprudenza di
legittimità.
Quindi se le indicazioni del Garante non
sono corrette, allora non possono in alcun
modo vincolare o condizionare il giudice
civile.
I passaggi del giudice civile sono i
seguenti:
1. il trattamento di dati effettuato da chi riprende il vialetto,
oltre a non essere penalmente rilevante, non
è neppure soggetto al codice della privacy;
2. il vialetto oggetto di ripresa da parte della telecamera è
spazio fisico direttamente e materialmente
accessibile da parte di chiunque (non
essendovi alcun cancello o altro ostacolo
apposto all'inizio di esso), senza che sia
necessario il consenso di nessuno;
3. bisogna tener conto del diritto alla tutela dell'incolumità
fisica;
4. ritenere che la telecamera dovrebbe avere un angolo visuale tale
da escludere del tutto la ripresa del
vialetto di accesso significherebbe frustare
del tutto lo scopo dell'apposizione della
telecamera, la quale potrebbe a questo punto
essere rivolta solo verso l'interno della
dimora dell'interessato, senza poter in
alcun modo identificare chi percorra il
vialetto anche con scopi eventualmente
illeciti o penalmente rilevanti di
aggressione all'incolumità fisica;
5. l'apposizione della telecamera con angolo visuale relativo al
solo vialetto è proporzionata a quanto sia
necessario per la tutela dell'incolumità
fisica e non viola, nell'ambito del
necessario bilanciamento da operare tra
diritti aventi entrambi fondamento
costituzionale, il diritto alla riservatezza
altrui
(articolo ItaliaOggi
Sette del
22.01.2018). |
settembre 2017 |
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CONDOMINIO: Ascensore,
subentro possibile. I nuovi comproprietari devono rifondere i costi agli
altri. La Cassazione: impianti installabili anche
solo a carico di una parte dei condomini.
L'installazione dell'ascensore nell'edificio che ne sia privo può essere
effettuata anche da una parte dei condomini, che ne sopporteranno per intero
la relativa spesa. Gli altri condomini, ove in prosieguo volessero
utilizzare a loro volta l'impianto, saranno tenuti a rifondere ai primi una
quota delle spese sostenute, opportunamente rivalutata, divenendone così
comproprietari.
Lo ha chiarito la II Sez. civile della Corte di Cassazione nella
recente
sentenza 04.09.2017 n. 20713.
Il caso concreto.
Nella specie alcuni condomini avevano citato in giudizio i comproprietari
che avevano provveduto a installare l'ascensore nel fabbricato per sentire
accertare il costo dell'impianto e le relative quote di contribuzione nelle
spese di gestione e manutenzione.
Il tribunale, espletata la consulenza
tecnica d'ufficio, ritenuta implicita nella domanda svolta quella di
riconoscimento del diritto degli attori all'acquisizione della comproprietà
dell'impianto, aveva dunque accertato il costo complessivo
dell'installazione e aveva determinato la quota di contribuzione di ciascuno
di essi nelle relative spese.
La sentenza era però stata appellata dai
condomini che avevano originariamente provveduto all'installazione
dell'ascensore, i quali avevano contestato la mancanza di interesse ad agire
degli attori, che non avevano espressamente richiesto l'accertamento del
proprio diritto di partecipare alla comunione dell'impianto. Inoltre,
secondo gli appellanti, i giudici di primo grado avevano errato
nell'applicare al caso in questione la disciplina delle innovazioni di cui
all'art. 1121 c.c., trattandosi di un'opera privata.
La Corte di appello
aveva però integralmente confermato la decisione. Di qui il ricorso in
Cassazione.
L'installazione dell'ascensore nell'edificio che ne sia
privo. Nella sentenza n.
20713/2017 i giudici di legittimità hanno in primo luogo evidenziato come
gli impianti suscettibili di utilizzazione separata, casistica nella quale
rientra sicuramente l'ascensore, possano essere realizzati ex novo
nell'edificio condominiale anche senza la relativa approvazione assembleare,
ovvero a cura e spese di alcuni condomini soltanto.
Infatti l'installazione
di un ascensore nel fabbricato che ne sia privo costituisce un'innovazione
delle parti comuni, in quanto realizza una modificazione materiale del vano
scale. L'opera andrebbe quindi deliberata in assemblea con il quorum di cui
al quinto comma dell'art. 1136 c.c., ovvero dalla maggioranza degli
intervenuti, che rappresentino almeno i due terzi dei millesimi totali di
valore dell'edificio.
Tuttavia, proprio perché trattasi di impianti suscettibili di utilizzazione
separata, anche uno solo dei condomini può provvedervi a sua cura e spese.
La base normativa di tale conclusione, come evidenziato dalla Suprema corte
nella sentenza in questione, deve rintracciarsi nell'art. 1102 c.c.,
disposizione che fonda il relativo diritto e ne circoscrive i limiti e le
modalità di esplicazione. In base a essa, infatti, ciascun partecipante alla
comunione può servirsi del bene comune, anche apportandovi a proprie spese
le modificazioni necessarie per un migliore godimento, a condizione che non
ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne
parimenti uso secondo il proprio diritto.
In questo caso le spese di installazione dell'impianto, diversamente da
quelle relative alla manutenzione e alla ricostruzione dell'ascensore già
esistente, non vanno ripartite ai sensi dell'art. 1124 c.c., bensì secondo
gli ordinari criteri di cui all'art. 1123 c.c., ovvero secondo il valore
proporzionale della proprietà di ciascuno dei compartecipanti. I condomini
inizialmente non interessati all'innovazione possono infatti successivamente
cambiare idea e, in questo caso, hanno il diritto di usare a loro volta
dell'impianto, partecipando alla relativa spesa e diventandone quindi
comproprietari.
La ripartizione delle spese tra i vecchi e i nuovi
comproprietari. Quindi l'ascensore
installato nell'edificio che ne sia privo per iniziativa di uno o più
condomini non rientra nella proprietà comune di tutti i partecipanti al
condominio (non è un bene condominiale), ma è oggetto di comunione
(comproprietà) fra i soli condomini che ne abbiano sopportato le relative
spese.
Tuttavia, come detto, l'art. 1121, comma 3, c.c. fa espressamente
salva la facoltà per i condomini estranei alla comunione dell'impianto di
entrare a farne parte e di utilizzare a propria volta l'ascensore. Da qui
però l'obbligo degli stessi sia di rifondere agli altri comproprietari i
costi sostenuti per l'originaria installazione dell'impianto e per gli
interventi di manutenzione nel frattempo effettuati sia di contribuire nelle
successive spese di conduzione (energia elettrica e manutenzione).
Il criterio di riparto della compartecipazione alle spese di installazione,
come già preannunciato, è quello ordinario di cui all'art. 1123 c.c., ovvero
quello del valore proporzionale delle rispettive proprietà dei condomini che
utilizzano l'impianto. La spesa inizialmente sostenuta dai condomini che
abbiano provveduto a installare ex novo l'impianto (e sulla quale andrà
quindi calcolata la quota che il nuovo comproprietario dovrà rifondere agli
originari comunisti) deve essere però aggiornata al suo valore attuale, per
evitare ingiustificati arricchimenti in favore del nuovo arrivato.
Solitamente per la rivalutazione si fa riferimento agli indici Istat dei
prezzi al consumo. Occorre però anche tenere conto del naturale degrado
dell'ascensore, normalmente individuato nel deprezzamento dell'impianto
causato dagli anni trascorsi dalla sua installazione.
Il procedimento di calcolo utilizzato per l'individuazione della somma
dovuta dal condomino subentrante agli originari comproprietari dell'impianto
è quello di detrarre dalla somma dei costi di installazione e di
manutenzione dell'opera già sostenuti, rivalutata in base agli indici Istat
e integrata con gli interessi legali, il valore del deprezzamento subito dal
medesimo a seguito dell'utilizzo continuato e della naturale obsolescenza.
L'importo così determinato, che rappresenta il valore dell'impianto, dovrà
quindi essere moltiplicato per i millesimi di proprietà del condomino
subentrante e il relativo risultato dovrà essere diviso per la somma dei
millesimi di tutti i nuovi comproprietari (originari e subentrante).
Ciò sulla base di una semplice equazione, nella quale il valore
dell'impianto sta ai millesimi totali dei condomini comproprietari
(originari e subentrante) come l'importo da rifondere (incognita) sta ai
millesimi del solo condomino che chieda di entrare a far parte della
comunione.
La somma che ne risulta sarà quella che il nuovo comproprietario dovrà
versare ai condomini che si erano inizialmente presi carico
dell'installazione dell'ascensore. La stessa dovrà quindi essere ripartita
fra questi ultimi sulla base dei rispettivi millesimi di proprietà (si veda
la tabella in pagina)
(articolo ItaliaOggi Sette del 18.09.2017).
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MASSIMA
L’installazione “ex novo” di un ascensore in un
edificio in condominio (le cui spese, a differenza di quelle relative alla
manutenzione e ricostruzione dell’ascensore già esistente, vanno ripartite
non ai sensi dell’art. 1124 c.c., ma secondo l’art. 1123 c.c., ossia
proporzionalmente al valore della proprietà di ciascun condomino)
costituisce innovazione che può essere deliberata dall’assemblea
condominiale con le maggioranze prescritte dall’art. 1136 c.c., oppure
direttamente realizzata con il consenso di tutti i condomini, così divenendo
l’impianto di proprietà comune.
Trattandosi, tuttavia, di impianto suscettibile di utilizzazione separata,
proprio quando l’innovazione, e cioè la modificazione materiale della cosa
comune (nella specie, il vano scale) conseguente alla realizzazione
dell’ascensore, non sia stata approvata in assemblea (lo stesso art. 1121
c.c., al comma 2, parla di maggioranza dei condomini che abbia “deliberata o
accettata” l’innovazione), essa può essere attuata anche a cura e spese di
uno o di taluni condomini soltanto (con i limiti di cui all’art. 1102 c.c.),
salvo il diritto degli altri di partecipare in qualunque tempo ai vantaggi
dell’innovazione, contribuendo nelle spese di esecuzione e di manutenzione
dell’opera.
L’ascensore, installato nell’edificio dopo la costruzione di quest’ultimo
per iniziativa di parte dei condomini, non rientra nella proprietà comune di
tutti i condomini, ma appartiene in proprietà a quelli di loro che l’abbiano
impiantato a loro spese.
Ciò dà luogo nel condominio ad una particolare comunione parziale dei
proprietari dell’ascensore, analoga alla situazione avuta a mente dall’art.
1123, comma 3, c.c., comunione che è distinta dal condominio stesso, fino a
quando tutti i condomini non abbiano deciso di parteciparvi.
L’art. 1121, comma 3, c.c. fa, infatti, salva agli altri condomini la
facoltà di partecipare successivamente all’innovazione, divenendo partecipi
della comproprietà dell’opera, con l’obbligo di pagarne pro quota le spese
impiegate per l’esecuzione, aggiornate al valore attuale
(tratta da https://renatodisa.com). |
giugno 2017 |
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CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA:
Per approvare le innovazioni che sono
dirette ad eliminare le barriere architettoniche negli
edifici privati basta il voto favorevole di tanti condomini
che rappresentino almeno metà del valore dell’intero
edificio (cfr. art. 1120 c.c. che rinvia al secondo comma
dell’art. 1136 c.c.).
Nella fattispecie de qua, la ricorrente ha affermato di
essere proprietaria della metà dell’immobile su cui andrebbe
a poggiarsi il montapersone e, quindi, ciò conferma la
sussistenza di un titolo idoneo per ottenere il rilascio del
permesso di costruire per la realizzazione dell’ascensore.
Difatti, “l’installazione di un ascensore rientra fra le
opere dirette ad eliminare le barriere architettoniche, di
cui all’art. 27, comma 1, della legge 03.03.1971, n. 118, e
all’art. 1, comma 1, del d.P.R. 27.04.1978, n. 384, e perciò
costituisce innovazione che, ai sensi dell’art. 2, legge
02.01.1989, n. 13, è approvata dall’assemblea con la
maggioranza prescritta dall’art. 1136, comma 2, c.c..
Lo stesso art. 2, legge n. 13/1989, stabilisce che, nel caso
in cui il condominio rifiuti di assumere, o non assuma entro
tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le
deliberazioni aventi per oggetto le innovazioni volte
all’eliminazione delle barriere architettoniche, i portatori
di handicap possono installare, a proprie spese, le
strutture occorrenti al fine di rendere più agevole
l’accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe dei
garages, fermo quanto disposto dagli articoli 1120, comma 4,
e 1121, comma 3, c.c. (all’esito delle modifiche introdotte
dalla legge 11.12.2012, n. 220)”.
Pertanto, il rigetto del permesso di costruire appare
illegittimo in relazione alla normativa che regola
l’attività comunale in materia di rilascio dei titoli
edilizi, secondo l’interpretazione giurisprudenziale
consolidata.
Difatti sulla base dell’art. 11 del D.P.R. n. 380 del 2001,
il Comune nel verificare l’esistenza in capo al richiedente
un permesso edilizio di un idoneo titolo di godimento
sull’immobile, non deve risolvere eventuali conflitti di
interesse tra le parti private in ordine all’assetto
proprietario, ma deve accertare soltanto il requisito della
legittimazione soggettiva di colui che richiede il permesso.
In tal senso, l’Amministrazione è tenuta a svolgere un
livello minimo di istruttoria che comprende l’acquisizione
di tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la
sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra
chi propone l’istanza e il bene giuridico oggetto
dell’autorizzazione, senza che l’esame del titolo di
godimento operato dalla p.a. costituisca un’illegittima
intrusione in ambito privatistico, essendo finalizzato
soltanto ad assicurare un ordinato svolgimento delle
attività sottoposte al controllo autorizzatorio.
Dunque, sebbene si debba escludere, anche al fine di non
aggravare il procedimento, che l’Amministrazione sia tenuta
a svolgere complessi e laboriosi accertamenti, non si può
prescindere da una verifica minima e di immediata
realizzazione, pena un’insufficiente istruttoria.
---------------
Quanto alle caratteristiche dell’ascensore e alla sua facile
rimovibilità si deve altresì sottolineare come
l’eliminazione delle barriere architettoniche che
impediscono la piena accessibilità degli edifici, limitando
la possibilità per le persone affette da handicap di
svolgere pienamente la propria personalità e di avere una
normale vita di relazione, attiene ad esigenze di rilievo
costituzionale primario, riconducibili anzitutto alle
previsioni degli artt. 2 e 3 della Costituzione.
A fronte della rilevanza di tali interessi, è compito del
Comune evidenziare l’eventuale sussistenza di alternative
praticabili rispetto all’intervento proposto, altrimenti il
diniego puro e semplice risulta illegittimo, tenuto conto
del contenuto derogatorio della normativa ordinaria delle
disposizioni in materia di abbattimento delle barriere
architettoniche.
Del resto, la giurisprudenza di legittimità ha recentemente
affermato che “l’installazione di un ascensore, allo scopo
dell’eliminazione delle barriere architettoniche, realizzata
su parte di aree comuni (nella specie, un’area destinata a
giardino), deve considerarsi indispensabile ai fini
dell’accessibilità dell’edificio e della reale abitabilità
dell’appartamento, e rientra, pertanto, nei poteri spettanti
ai singoli condomini ai sensi dell’art. 1102 c.c..
Di talché, nel valutare il contrasto delle opere, cui fa
riferimento l’art. 2 della legge n. 13/1989, con la
specifica destinazione delle parti comuni, sulle quali esse
vanno ad incidere, occorre tenere conto altresì del
principio di solidarietà condominiale, secondo il quale la
coesistenza di più unità immobiliari in un unico fabbricato
implica di per sé il contemperamento, al fine dell’ordinato
svolgersi di quella convivenza che è propria dei rapporti
condominiali, di vari interessi, tra i quali deve includersi
anche quello delle persone disabili all’eliminazione delle
barriere architettoniche, oggetto di un diritto fondamentale
che prescinde dall’effettiva utilizzazione, da parte di
costoro, degli edifici interessati”.
Infine, secondo il più recente indirizzo giurisprudenziale,
l’installazione di un ascensore all’esterno di un condominio
non richiederebbe nemmeno il permesso di costruire,
trattandosi della realizzazione di un volume tecnico
necessario per apportare un’innovazione allo stabile e non
di una costruzione strettamente intesa.
---------------
4. Con la seconda censura si assume l’illegittimità
del diniego comunale, in quanto la ricorrente avrebbe
dimostrato la sussistenza di un idoneo titolo giuridico per
procedere all’installazione del manufatto, peraltro
caratterizzato da un limitato impatto strutturale e dalla
sua facile rimovibilità.
4.1. La doglianza è fondata.
L’art. 78 del D.P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che “1.
Le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni da
attuare negli edifici privati dirette ad eliminare le
barriere architettoniche di cui all’articolo 27, primo
comma, della legge 30.03.1971, n. 118, ed all’articolo 1 del
decreto del Presidente della Repubblica 24.07.1996, n. 503,
nonché la realizzazione di percorsi attrezzati e la
installazione di dispositivi di segnalazione atti a favorire
la mobilità dei ciechi all’interno degli edifici privati,
sono approvate dall’assemblea del condominio, in prima o in
seconda convocazione, con le maggioranze previste
dall’articolo 1136, secondo e terzo comma, del codice
civile.
2. Nel caso in cui il condominio rifiuti di assumere, o non
assuma entro tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le
deliberazioni di cui al comma 1, i portatori di handicap,
ovvero chi ne esercita la tutela o la potestà di cui al
titolo IX del libro primo del codice civile, possono
installare, a proprie spese, servoscala nonché strutture
mobili e facilmente rimovibili e possono anche modificare
l’ampiezza delle porte d’accesso, al fine di rendere più
agevole l’accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe
delle autorimesse.
3. Resta fermo quanto disposto dagli articoli 1120, secondo
comma, e 1121, terzo comma, del codice civile”.
La predetta disposizione è pressoché identica a quella
contenuta nell’art. 2 della legge n. 13 del 1989, come
modificata con l’art. 27 della legge n. 220 del 2012.
In primo luogo, va evidenziato che per approvare le
innovazioni che sono dirette ad eliminare le barriere
architettoniche negli edifici privati basta il voto
favorevole di tanti condomini che rappresentino almeno metà
del valore dell’intero edificio (cfr. art. 1120 c.c. che
rinvia al secondo comma dell’art. 1136 c.c.).
Nella fattispecie de qua, la ricorrente ha affermato
–senza smentita sul punto né da parte comunale né dai
controinteressati, che hanno però sostenuto di essere
proprietari di due terzi del giardino comune (cfr. pag. 2
della memoria difensiva)– di essere proprietaria della metà
dell’immobile su cui andrebbe a poggiarsi il montapersone e,
quindi, ciò conferma la sussistenza di un titolo idoneo per
ottenere il rilascio del permesso di costruire per la
realizzazione dell’ascensore (sull’applicabilità della
disciplina condominiale anche al c.d. condominio minimo, cfr.
Cass. civ., II, 02.03.2017 n. 5329; VI, 03.04.2012, n.
5288).
Difatti, “l’installazione di un ascensore rientra fra le
opere dirette ad eliminare le barriere architettoniche, di
cui all’art. 27, comma 1, della legge 03.03.1971, n. 118, e
all’art. 1, comma 1, del d.P.R. 27.04.1978, n. 384, e perciò
costituisce innovazione che, ai sensi dell’art. 2, legge
02.01.1989, n. 13, è approvata dall’assemblea con la
maggioranza prescritta dall’art. 1136, comma 2, c.c. (Cass.
Sez. 2, Sentenza n. 28920 del 27/12/2011; Cass. Sez. 2,
Sentenza n. 8286 del 20/04/2005; Cass. Sez. 2, Sentenza n.
14384 del 29/07/2004).
Lo stesso art. 2, legge n. 13/1989, stabilisce che, nel caso
in cui il condominio rifiuti di assumere, o non assuma entro
tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le
deliberazioni aventi per oggetto le innovazioni volte
all’eliminazione delle barriere architettoniche, i portatori
di handicap possono installare, a proprie spese, le
strutture occorrenti al fine di rendere più agevole
l’accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe dei
garages, fermo quanto disposto dagli articoli 1120, comma 4,
e 1121, comma 3, c.c. (all’esito delle modifiche introdotte
dalla legge 11.12.2012, n. 220)” (Cass. civ., VI,
09.03.2017, n. 6129).
Pertanto, il rigetto del permesso di costruire appare
illegittimo in relazione alla normativa che regola
l’attività comunale in materia di rilascio dei titoli
edilizi, secondo l’interpretazione giurisprudenziale
consolidata.
Difatti sulla base dell’art. 11 del D.P.R. n. 380 del 2001,
il Comune nel verificare l’esistenza in capo al richiedente
un permesso edilizio di un idoneo titolo di godimento
sull’immobile, non deve risolvere eventuali conflitti di
interesse tra le parti private in ordine all’assetto
proprietario, ma deve accertare soltanto il requisito della
legittimazione soggettiva di colui che richiede il permesso.
In tal senso, l’Amministrazione è tenuta a svolgere un
livello minimo di istruttoria che comprende l’acquisizione
di tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la
sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra
chi propone l’istanza e il bene giuridico oggetto
dell’autorizzazione, senza che l’esame del titolo di
godimento operato dalla p.a. costituisca un’illegittima
intrusione in ambito privatistico, essendo finalizzato
soltanto ad assicurare un ordinato svolgimento delle
attività sottoposte al controllo autorizzatorio.
Dunque, sebbene si debba escludere, anche al fine di non
aggravare il procedimento, che l’Amministrazione sia tenuta
a svolgere complessi e laboriosi accertamenti, non si può
prescindere da una verifica minima e di immediata
realizzazione, pena un’insufficiente istruttoria (ex
multis, Consiglio di Stato, V, 17.06.2014, n. 3096; IV,
06.03.2012, n. 1270; TAR Lombardia, Milano, II, 31.01.2017,
n. 235; TAR Campania, Napoli, VIII, 05.11.2015, n. 5137).
Nel caso di specie, quanto evidenziato dalla parte
ricorrente in sede procedimentale non poteva che determinare
l’Amministrazione a rilasciare il richiesto di permesso di
costruire.
4.2. Quanto alle caratteristiche dell’ascensore e alla sua
facile rimovibilità, oltre a ciò che è stato evidenziato
nella Relazione tecnica allegata al ricorso –in cui si è
specificato che il posizionamento e la sua struttura ne
rendono agevole la rimozione e non determinano un rilevante
sull’immobile (all. 23 al ricorso)– si deve altresì
sottolineare come l’eliminazione delle barriere
architettoniche che impediscono la piena accessibilità degli
edifici, limitando la possibilità per le persone affette da
handicap di svolgere pienamente la propria personalità e di
avere una normale vita di relazione, attiene ad esigenze di
rilievo costituzionale primario, riconducibili anzitutto
alle previsioni degli artt. 2 e 3 della Costituzione (cfr.
Corte costituzionale, sentenza n. 167 del 10.05.1999).
A fronte della rilevanza di tali interessi, è compito del
Comune evidenziare l’eventuale sussistenza di alternative
praticabili rispetto all’intervento proposto, altrimenti il
diniego puro e semplice risulta illegittimo, tenuto conto
del contenuto derogatorio della normativa ordinaria delle
disposizioni in materia di abbattimento delle barriere
architettoniche (TAR Lombardia, Milano, II, 03.07.2015, n.
1541).
Del resto, la giurisprudenza di legittimità ha recentemente
affermato che “l’installazione di un ascensore, allo
scopo dell’eliminazione delle barriere architettoniche,
realizzata su parte di aree comuni (nella specie, un’area
destinata a giardino), deve considerarsi indispensabile ai
fini dell’accessibilità dell’edificio e della reale
abitabilità dell’appartamento, e rientra, pertanto, nei
poteri spettanti ai singoli condomini ai sensi dell’art.
1102 c.c. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 14096 del 03/08/2012).
Di talché, nel valutare il contrasto delle opere, cui fa
riferimento l’art. 2 della legge n. 13/1989, con la
specifica destinazione delle parti comuni, sulle quali esse
vanno ad incidere, occorre tenere conto altresì del
principio di solidarietà condominiale, secondo il quale la
coesistenza di più unità immobiliari in un unico fabbricato
implica di per sé il contemperamento, al fine dell’ordinato
svolgersi di quella convivenza che è propria dei rapporti
condominiali, di vari interessi, tra i quali deve includersi
anche quello delle persone disabili all’eliminazione delle
barriere architettoniche, oggetto di un diritto fondamentale
che prescinde dall’effettiva utilizzazione, da parte di
costoro, degli edifici interessati (Cass. Sez. 2, Sentenza
n. 18334 del 25/10/2012)” (Cass. civ., VI, 09.03.2017,
n. 6129).
Infine, secondo il più recente indirizzo giurisprudenziale,
l’installazione di un ascensore all’esterno di un condominio
non richiederebbe nemmeno il permesso di costruire,
trattandosi della realizzazione di un volume tecnico
necessario per apportare un’innovazione allo stabile e non
di una costruzione strettamente intesa (cfr. TAR Liguria, I,
29.01.2016, n. 97).
4.3. Ciò determina l’accoglimento anche della predetta
censura.
5. In conclusione, il ricorso introduttivo deve essere
dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di
interesse, mentre il ricorso per motivi aggiunti deve essere
accolto, con il conseguente annullamento del diniego
comunale del 27.06.2016, prot. n. 14981U (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 30.06.2017 n. 1479 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Si
possono installare antenne per radioamatori su tetti
condominiali senza titolo edilizio.
Le antenne come quella di cui si è
dotato il ricorrente possono essere installate senza che sia
necessario il rilascio di un titolo edilizio, una nozione
che si può derivare con maggiore precisione dopo l’entrata
in vigore del d.lvo 2003, n. 259.
---------------
A diversa conclusione non può indurre la menzione operata in
motivazione di due norme del regolamento edilizio comunale
che imporrebbero l’acquisizione di un titolo edilizio per
legittimare l’installazione del manufatto di che si tratta.
Al riguardo va considerato innanzitutto che l’art. 3, comma
2, del dpr 06.06.2001, n. 380 spiega un effetto sulla
gerarchia delle fonti del diritto in materia edilizia che
inibisce la possibilità di ritenere che un regolamento
locale possa considerare un’attività costruttiva in modo
differente rispetto ai principi generali posti dalla norma
di legge citata.
Oltre a ciò il collegio deve richiamare adesivamente la
motivazione della propria ordinanza cautelare (2000, n.
1167) nella parte in cui essa evidenziava l’impossibilità di
derivare dalla lettura delle norme di regolamento l’obbligo
di acquisizione del titolo edilizio per l’installazione
dell’antenna.
---------------
L’impugnazione è relativa ad un atto con cui il comune di
Genova ha ingiunto all’interessato la rimozione dell’antenna
per radioamatore installata sulla copertura dell’immobile
condominiale ubicato in via ... 19. Il bene si eleva per
circa undici metri.
In relazione alle censure proposte il collegio deve
premettere una considerazione generale e assorbente in
ordine alla situazione soggettiva dedotta: risulta infatti
dall’esame della prevalente giurisprudenza in argomento (tar
Lazio, Latina, 2011/861, tar Abruzzo, Pescara, 2009, n. 207,
tar Piemonte, 2002, n. 2156) che le antenne come quella di
cui si è dotato il ricorrente possono essere installate
senza che sia necessario il rilascio di un titolo edilizio,
una nozione che si può derivare con maggiore precisione dopo
l’entrata in vigore del d.lvo 2003, n. 259.
La tesi è poi corroborata e non già smentita dalla
giurisprudenza citata dalla difesa comunale, posto che le
pronunce allegate presuppongono l’intervento autorizzativo
della p.a. solo nel caso in cui l’impianto riguardi un sito
paesisticamente rilevante, cosa che l’atto in questione non
allega si sia verificato.
Ne deriva che, al di là delle censure dedotte, il
provvedimento è carente nel presupposto che lo fonda, posto
che esso non specifica la ragione per cui in una zona
paesisticamente non significativa sarebbe necessario munirsi
di un titolo edilizio per installare un’antenna da
radioamatore.
A diversa conclusione non può indurre la menzione operata in
motivazione di due norme del regolamento edilizio comunale
che imporrebbero l’acquisizione di un titolo edilizio per
legittimare l’installazione del manufatto di che si tratta.
Al riguardo va considerato innanzitutto che l’art. 3, comma
2, del dpr 06.06.2001, n. 380 spiega un effetto sulla
gerarchia delle fonti del diritto in materia edilizia che
inibisce la possibilità di ritenere che un regolamento
locale possa considerare un’attività costruttiva in modo
differente rispetto ai principi generali posti dalla norma
di legge citata. Oltre a ciò il collegio deve richiamare
adesivamente la motivazione della propria ordinanza
cautelare (2000, n. 1167) nella parte in cui essa
evidenziava l’impossibilità di derivare dalla lettura delle
norme di regolamento l’obbligo di acquisizione del titolo
edilizio per l’installazione dell’antenna.
Il ricorso è pertanto fondato e va accolto, conseguendo da
ciò la condanna del comune soccombente alle spese di lite
sostenute dall’interessato, oneri che vengono liquidati
equamente date la natura della controversia e la lontananza
nel tempo dei fatti per cui è lite
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 20.06.2017 n. 540 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
febbraio 2017 |
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CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Tra
soletta e travi lo spazio non è comune. Cassazione. Quando
il piano di sopra «occupa» il controsoffitto di quello
sottostante deve risarcire il danno e il valore diminuito.
Lo spazio tra le travi e la soletta
non è comune: il proprietario di un’unità immobiliare non
può occupare con propri manufatti la parte sottostante la
sua soletta e invadere lo spazio vuoto esistente tra questa
e le travi lignee che la sorreggono. Questo spazio infatti
non fa parte integrante del solaio e dunque non è in
comunione tra i due appartamenti, l’uno sovrastante
all’altro.
Così hanno deciso i giudici supremi della Corte di
Cassazione, Sez. II civile, con la
sentenza 14.02.2017 n. 3893, stabilendo che detto
spazio è una volumetria che può essere utilizzata solo da
parte del proprietario del piano sottostante: così come il
pavimento che si poggia sul solaio appartiene esclusivamente
al proprietario dell’abitazione sovrastante, che lo può
utilizzare come meglio crede, il volume invece esistente tra
le travi e la soletta è parte del soffitto dell’unità
sottostante e può dunque essere liberamente utilizzato dal
proprietario di questa.
Era successo che a seguito di importanti lavori di
ristrutturazione eseguiti in un appartamento, consistiti
anche nella sostituzione dell’esistente solaio in legno con
altro in latero-cemento, si era abbassato il livello del
soffitto del locale sottostante. Il che aveva comportato
l’invasione degli spazi vuoti tra l’originario solaio e le
travi a vista su cui questo gravava.
S u tale presupposto i giudici di primo e secondo grado, pur
riconoscendo l’avvenuto abbassamento della soletta, avevano
escluso che ciò avesse comportato una diminuzione della
volumetria del locale sottostante in quanto il nuovo solaio
aveva occupato il solo comune spazio tra le travi lignee e
lo spazio vuoto tra una trave e l’altra.
Di diverso avviso la Cassazione, che ha affermato che la
comunione della soletta tra le due unità immobiliari, mentre
si estende alle travi aventi la funzione di sostegno e che
fanno parte della struttura portante del solaio, non va
invece ad interessare lo spazio ricompreso tra queste ed il
solaio stesso, che resta pertanto nella piena disponibilità
del piano sottostante. Alla riduzione della volumetria del
locale corrisponde naturalmente il diritto del suo
proprietario di vedersi risarcito il danno, anche in
relazione alla riduzione del valore del locale.
La questione risolta dalla Suprema Corte è di frequente
ricorrenza nei casi in cui, nel procedere alla
ristrutturazione delle cosiddette “abitazioni di ringhiera”,
si ricavano all’interno di esse i servizi igienici dapprima
esistenti solo in comune con altre abitazioni. Il minimo
spessore delle solette in legno non lascia spazio alla posa
di tubature, talché queste vengono spesso posizionate
nell’intercapedine che si crea tra la soletta e la
controsoffittatura che il proprietario della sottostante
unità ha ben fissato sulle travi portanti.
I problemi
sorgono quando si decide di portare a vista la travatura che
caratterizza il soffitto ed ecco che riappare tutto ciò che
arbitrariamente è stato posizionato al di sotto della comune
soletta. Da qui la decisione della Cassazione (articolo Il Sole 24 Ore del 21.02.2017).
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MASSIMA
Il terzo motivo è fondato.
Ed invero, come questa Corte ha già affermato,
il solaio esistente fra i piani sovrapposti di un
edificio è oggetto di comunione fra i rispettivi proprietari
per la parte strutturale che, incorporata ai muri
perimetrali, assolve alla duplice funzione di sostegno del
piano superiore e di copertura di quello inferiore, mentre
gli spazi pieni o vuoti che accedono al soffitto od al
pavimento, e non sono essenziali all'indicata struttura
rimangono esclusi dalla comunione e sono utilizzabili
rispettivamente da ciascun proprietario nell'esercizio del
suo pieno ed esclusivo diritto dominicale
(Cass. 2868/1978).
Deve dunque escludersi che la comunione si
estenda oltre che alle travi, aventi funzione di sostegno
del solaio e che, pacificamente, fanno parte di detta
struttura portante
(Cass. 13606/2000), allo spazio esistente
tra le stesse, integrante volumetria di esclusiva
utilizzazione da parte del proprietario del piano
sottostante.
Ed invero, come dal solaio deve essere
distinto il pavimento che poggia su di esso, che appartiene
esclusivamente al proprietario dell'abitazione sovrastante e
che può essere, quindi, da questo liberamente rimosso o
sostituito secondo la sua utilità e convenienza
(Cass. 7464/1994), cosi pure dev'essere
distinto il volume esistente tra le travi, che costituisce
il soffitto dell'appartamento sottostante ed è dunque
liberamente utilizzabile dal proprietario di questo. |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Assenso dei condomini per sopraelevare l’ultimo piano di un
edificio condominiale.
---------------
Concessione edilizia – Sopraelevazione ultimo piano di un
edificio condominiale – Assenso proprietari dei piani
sottostanti – Non occorre.
Per la sopraelevazione dell'ultimo
piano di un edificio condominiale non è necessario l'assenso
dei proprietari dei piani sottostanti (1).
---------------
(1) Ha chiarito il Trga Trento che il diritto di sopraelevare (art.
1127 cod. civ.) spetta ex lege al proprietario
dell’ultimo piano dell’edificio, o al proprietario esclusivo
del lastrico solare, e non necessita di alcun riconoscimento
da parte degli altri condomini. L'art. 1120 cod. civ. trova
unicamente applicazione alle innovazioni dirette al
miglioramento o all’uso più comodo, ovvero al maggior
rendimento, delle cose comuni, regolando le questioni
relative alle maggioranze necessarie per la loro
approvazione, ma non disciplina affatto il diritto di
sopraelevare.
Tale diritto, ricomprendente sia l’esecuzione di nuovi piani
sia la trasformazione di locali preesistenti con aumento
delle superfici e delle volumetrie (Cass. n. 2865 del 2008),
spetta -ove l’ultimo piano appartenga pro diviso a più
proprietari- a ciascuno di essi nei limiti della propria
porzione di piano, con utilizzazione dello spazio aereo
sovrastante la stessa (Cass. n. 4258 del 2006).
I limiti al diritto di sopraelevazione, previsti nei commi 2
e 3 dell’art. 1127 cod. civ., assumono carattere assoluto
solo per quanto concerne il profilo statico (nella
fattispecie non in discussione) dell’edificio, residuando la
possibilità di eventuali opposizioni dei condomini per le
diverse ragioni di ordine architettonico o di notevole
diminuzione di aria o di luce ai piani sottostanti (Cass. n.
2708 del 1996), in ordine alle quali, tuttavia, le
controversie ricadono nella giurisdizione del giudice
ordinario, trattandosi di questioni prettamente civilistiche
(Cass., S.U., n. 1552 del 1986;
Cons. St., sez. V, 21.11.2003, n. 7539), senza
compromissioni nella sede amministrativa, ove il rilascio
del titolo abilitativo edilizio deve ritenersi conseguibile,
nella materia in esame, fatti salvi i diritti dei terzi (Tar
Catanzaro, sez. I, 19.11.2015, n. 1749) (TRGA
Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 06.02.2017 n. 45
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
... per l'annullamento del provvedimento a firma del
segretario comunale del Comune di Primiero San Martino di
Castrozza prot. n. 5892/P di data 15.06.2016 avente ad
oggetto “variante alla ce n. n. 18/2012 del 13.04.2012
inerente il progetto di rifacimento e risanamento della
copertura della p.m. 4 p.ed. 164 sita in Val di Roda - CC.
Tonadico II - esito cec – sospensione del procedimento”,
nonché del presupposto parere del 09.06.2016 della Commissione
per la pianificazione territoriale e il paesaggio della
Comunità di Primiero, nella parte in cui prescrive la
produzione del c.d. "Allegato A" per il rilascio del
permesso di costruire in variante richiesto dalla
ricorrente;
...
La ricorrente, proprietaria di un’unità immobiliare (p.m. 4
p.ed. 167) sita all’ultimo piano di un edificio
condominiale, impugna –previa richiesta di sospensione- il
provvedimento in epigrafe con cui il Comune di Primiero San
Martino di Castrozza ha sospeso la trattazione della domanda
di variante -ad una precedente concessione edilizia-
inoltrata dall’interessata per la sopraelevazione della
porzione di piano che le appartiene.
Il provvedimento di sospensione è stato adottato
dall’amministrazione comunale sulla scorta del parere della
commissione edilizia con cui l’organo consultivo ha ritenuto
necessario l’acquisizione “della liberatoria dei soggetti
aventi diritto sulle parti oggetto di intervento in quanto
l’intervento proposto si configura nella fattispecie
dell’innovazione, così come definita dall’articolo 1120 del
codice civile in quanto le modifiche richieste sulla parte
comune comportano una trasformazione radicale della
medesima, con esecuzione di opere che eccedono il limite
della conservazione, dell’ordinaria amministrazione e del
godimento della cosa, importandone una modificazione tale
che può incidere sull’interesse di tutti i condomini”.
...
2. Ciò posto, il Collegio ritiene che il ricorso sia fondato
per le seguenti ragioni.
2.1.
Il diritto di sopraelevare (art. 1127 cod. civ.) spetta ex lege al proprietario dell’ultimo piano dell’edificio, o
al proprietario esclusivo del lastrico solare, e non
necessita di alcun riconoscimento da parte degli altri
condomini. Peraltro, l’art. 1120 cod. civ. trova unicamente
applicazione alle innovazioni dirette al miglioramento o
all’uso più comodo, ovvero al maggior rendimento, delle cose
comuni, regolando le questioni relative alle maggioranze
necessarie per la loro approvazione, ma non disciplina
affatto il diritto di sopraelevare
(cfr. Cass. n. 15504/2000).
2.2.
Tale diritto, ricomprendente sia l’esecuzione di nuovi
piani sia la trasformazione di locali preesistenti con
aumento delle superfici e delle volumetrie (cfr. Cass. n.
2865/2008), spetta -ove l’ultimo piano appartenga pro
diviso a più proprietari- a ciascuno di essi nei limiti
della propria porzione di piano, con utilizzazione dello
spazio aereo sovrastante la stessa
(cfr. Cass. n. 4258/2006).
2.3.
I limiti al diritto di sopraelevazione, previsti nel
secondo e terzo comma dell’art. 1127 cod. civ., assumono
carattere assoluto solo per quanto concerne il profilo
statico
(nella fattispecie non in discussione)
dell’edificio, residuando la possibilità di eventuali
opposizioni dei condomini per le diverse ragioni di ordine
architettonico o di notevole diminuzione di aria o di luce
ai piani sottostanti
(cfr. Cass. n. n. 2708/1996),
in ordine
alle quali, tuttavia, le controversie ricadono nella
giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di
questioni prettamente civilistiche
(cfr. Cass. SU, n.
1552/1986; Cons. di Stato, n. 7539/2003),
senza
compromissioni nella sede amministrativa, ove il rilascio
del titolo abilitativo edilizio deve ritenersi conseguibile,
nella materia in esame, fatti salvi i diritti dei terzi
(cfr. Tar Calabria Catanzaro n. 1749/2015).
3. Applicando le surriferite coordinate alla fattispecie, il
ricorso si appalesa fondato, anzitutto, per la mancata
considerazione ed applicazione, da parte
dell’amministrazione, della peculiare disciplina regolante
il diritto alla sopraelevazione.
4. Inoltre, dalla disamina dell’estratto progettuale della
variante richiesta (doc. 7 fasc. ricorrente) non emerge una
soluzione realizzativa contrastante con il diritto a
sopraelevare riconosciuto dall’art. 1127 cod. civ., nel
mentre i motivi addotti nel parere della Commissione
edilizia - su cui è basato il provvedimento di sospensione
impugnato - circa una pretesa, e del tutto genericamente
esposta, trasformazione radicale della parte comune, non
sono corredati da alcuna (necessaria) spiegazione, e sono
rimasti viepiù indimostrati nel corso dell’intero giudizio.
5. All’accoglimento del ricorso per le suesposte ragioni
consegue l’annullamento degli atti impugnati. |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Nel
rilascio di titoli edilizi può ritenersi sufficiente che
l’Amministrazione verifichi in capo all’istante l’esistenza
di un titolo che formalmente lo legittimi al rilascio del
titolo abilitante a suo favore, senza dover procedere ad una
accurata e approfondita disamina dei rapporti civilistici o a svolgere complesse
ricognizioni giuridico-documentali sul titolo di proprietà
o di altro diritto reale che si estenda fino alla ricerca di
eventuali fattori limitativi, preclusivi o estintivi del
titolo di disponibilità necessario all’intervento, allegato
da chi presenta istanza edilizia, ed è proprio questa la
ragione per la quale i titoli edilizi vengono rilasciati con
la formula "fatti salvi i diritti dei terzi".
---------------
La
giurisprudenza, al fine di escludere la sussistenza di una
lesione al decoro dell’edificio, ritiene sufficiente che
l’innovazione non comporti una rilevante disarmonia al
complesso preesistente e che non pregiudichi l'originaria
fisionomia estetica dell’edificio determinandone un
deprezzamento.
Tali elementi non appaiono sussistere nel caso all’esame
atteso che l’ascensore è stato collocato nel punto di minor
impatto sull’edificio e dalla strada, mediante il
prolungamento di uno sporto già presente nella muratura, con
un intervento che non si rivela incompatibile con le
caratteristiche e la tipologia edilizia preesistente.
---------------
Con il secondo motivo il ricorrente sostiene che i controinteressati erano privi di legittimazione nel
richiedere ed ottenere il titolo edilizio necessario ad
intervenire su parti comuni dell’edificio condominiale,
perché l’intervento, alterando il decoro dell’immobile, non
avrebbe dovuto essere approvato a maggioranza, come è
avvenuto nel caso all’esame (è stato approvato a maggioranza
di due terzi del condominio rappresentanti complessivi
689,75 millesimi dell’intero edificio, del condominio), ma
all’unanimità.
Al fine di comprovare la lesione al decoro il ricorrente
allega una relazione del 25.01.2016 dagli stessi
commissionata del Prof. Arch. Gi.Gi..
Anche tali censure non possono essere condivise.
Va premesso che nel rilascio di titoli edilizi può ritenersi
sufficiente che l’Amministrazione verifichi in capo
all’istante l’esistenza di un titolo che formalmente lo
legittimi al rilascio del titolo abilitante a suo favore,
senza dover procedere ad una accurata e approfondita
disamina dei rapporti civilistici o a svolgere complesse
ricognizioni giuridico-documentali sul titolo di proprietà
o di altro diritto reale che si estenda fino alla ricerca di
eventuali fattori limitativi, preclusivi o estintivi del
titolo di disponibilità necessario all’intervento, allegato
da chi presenta istanza edilizia, ed è proprio questa la
ragione per la quale i titoli edilizi vengono rilasciati con
la formula "fatti salvi i diritti dei terzi" (ex pluribus
cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 04.09.2012, n. 4676;
Consiglio di Stato, Sez. IV, 08.06.2011, n. 3508).
Il provvedimento impugnato in ogni caso non si è limitato a
considerare l’esistenza della deliberazione condominiale che
a maggioranza ha approvato l’intervento, ma, con
considerazioni motivate e che appaiono prive di vizi logici,
si è spinto ad indicare quali sono i motivi per i quali il
Comune ritiene insussistente una lesione al decoro
dell’immobile, precisando che si tratta di un edificio che
non presenta un particolare pregio e che non è sottoposto né
a tutela monumentale, né a grado di protezione dallo
strumento urbanistico comunale in base alla
caratterizzazione dei valori storici, architettonici,
tipologici ed ambientali, che per gli interventi è stata
ottenuta l’autorizzazione paesaggistica e che non risultano
snaturate le caratteristiche dell’edifico.
La relazione commissionata dal ricorrente del 25.01.2016 del Prof. Arch. Gi.Gi. accede invece ad una
non condivisibile nozione di “decoro architettonico”
talmente ampia da comportare che ogni modifica alle parti
comuni dell’edificio costituisce di per sé un pregiudizio al
decoro dello stesso.
Una tale conclusione tuttavia non è in linea con la
giurisprudenza, la quale, al fine di escludere la
sussistenza di una lesione al decoro dell’edificio, ritiene
sufficiente che l’innovazione non comporti una rilevante
disarmonia al complesso preesistente e che non pregiudichi
l'originaria fisionomia estetica dell’edificio
determinandone un deprezzamento, elementi questi che non
appaiono sussistere nel caso all’esame atteso che
l’ascensore è stato collocato nel punto di minor impatto
sull’edificio e dalla strada, mediante il prolungamento di
uno sporto già presente nella muratura, con un intervento
che non si rivela incompatibile con le caratteristiche e la
tipologia edilizia preesistente (peraltro va rilevato che in
tal senso sono le conclusioni formulate dal consulente
tecnico d’ufficio nel giudizio civile pendente tra le parti:
cfr. doc. 1 depositato in giudizio dai controinteressati il
20.10.2016).
L’assunto secondo il quale l’intervento avrebbe dovuto
essere approvato all’unanimità anziché a maggioranza dei
condomini è pertanto privo di riscontri e deve essere
respinto
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 10.01.2017 n. 23 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
La lamentata violazione delle distanze dai
confini da parte dell’ascensore esterno deve essere
respinta.
Invero, trattasi di un vano tecnico necessario al
superamento delle barriere architettoniche, cui risulta
applicabile la deroga di cui all’art. 79 del DPR 06.06.2001, n. 380, la quale, in base ai criteri interpretativi
elaborati dalla giurisprudenza, deve ritenersi applicabile,
nella parte in cui prevede interventi volti alla
eliminazione delle barriere architettoniche,
indipendentemente dalla effettiva utilizzazione degli
edifici stessi da parte delle persone in possesso di
apposita certificazione di handicap grave, e che rientra
anche nella deroga di cui all’art. 12, comma 2, della l.r. 29.11.2013, n. 32, per la quale “gli
ascensori esterni e i sistemi di sollevamento realizzati al
fine di migliorare l’accessibilità agli edifici sono da
considerarsi volumi tecnici, esclusi pertanto dal calcolo
del volume o della superficie e soggetti alle norme del
codice civile in materia di distanze”.
Parimenti da respingere è la doglianza con la quale il
ricorrente lamenta la violazione delle distanze previste
dall’art. 907 c.c. dalla propria veduta, in quanto, come è
noto, tale norma non trova applicazione in ambito
condominiale.
---------------
Anche il terzo motivo con il quale il ricorrente lamenta la
violazione delle distanze dai confini da parte
dell’ascensore esterno deve essere respinto.
Si tratta infatti di un vano tecnico necessario al
superamento delle barriere architettoniche, cui risulta
applicabile la deroga di cui all’art. 79 del DPR 06.06.2001, n. 380, la quale, in base ai criteri interpretativi
elaborati dalla giurisprudenza, deve ritenersi applicabile,
nella parte in cui prevede interventi volti alla
eliminazione delle barriere architettoniche,
indipendentemente dalla effettiva utilizzazione degli
edifici stessi da parte delle persone in possesso di
apposita certificazione di handicap grave (in tali termini cfr. Corte Costituzionale 10.05.1999, n, 167; Tar
Veneto, Sez. II, 05.04.2007, n. 1122), e che rientra
anche nella deroga di cui all’art. 12, comma 2, della legge
regionale 29.11.2013, n. 32, per la quale “gli
ascensori esterni e i sistemi di sollevamento realizzati al
fine di migliorare l’accessibilità agli edifici sono da
considerarsi volumi tecnici, esclusi pertanto dal calcolo
del volume o della superficie e soggetti alle norme del
codice civile in materia di distanze”.
Parimenti da respingere è la doglianza con la quale il
ricorrente lamenta la violazione delle distanze previste
dall’art. 907 c.c. dalla propria veduta, in quanto, come è
noto, tale norma non trova applicazione in ambito
condominiale (ex pluribus cfr. Cassazione civile, Sez. II,
30.06.2014, n. 14809).
In definitiva il ricorso e la domanda risarcitoria devono
essere respinte
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 10.01.2017 n. 23 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2016 |
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maggio 2016 |
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CONDOMINIO: Il lastrico solare resta comune.
Condominio. Bocciata la pretesa di un proprietario che
reclamava la proprietà esclusiva dopo aver sbarrato
l’accesso agli altri.
Per escludere
la natura di «parte comune» del lastrico solare non è
sufficiente che chi ne reclama la proprietà esclusiva ne
avesse precluso l’accesso agli altri condòmini.
Questo il principio
espresso dalla Corte di Cassazione -Sez. II civile- con la
sentenza 05.05.2016 n. 9035.
La vicenda prende le mosse da una coppia di coniugi che,
dopo aver acquistato alcuni appartamenti, conveniva in
giudizio la società venditrice, chiedendo che alla stessa
venisse ordinata la remissione in pristino del lastrico
solare che aveva riservato a sé.
La causa arrivava alla Cassazione che affermava che la
natura comune del bene non potesse essere esclusa in alcun
modo dal fatto che la società (ora condòmino) avesse privato
da alcuni anni gli altri condòmini dell’accesso diretto al
bene tramite le scale.
La Corte ricordava anzitutto come il lastrico solare sia
inserito esplicitamente tra le «parti comuni» elencate
dall’articolo 1117 del Codice civile, e che, in particolare,
già una recente decisione (la 4501/2015) della Cassazione
aveva così affermato: «La natura condominiale del lastrico
solare, affermata dall’art. 1117 Cod. civ., può essere
esclusa soltanto da uno specifico titolo in forma scritta,
essendo irrilevante che il singolo condòmino non abbia
accesso diretto al lastrico, se questo riveste, anche a
beneficio dell’unità immobiliare di quel condòmino, la
naturale funzione di copertura del fabbricato comune”.
Quindi
è stato ribadito che il diritto di condominio sulle parti
comuni (quali appunto il lastrico solare) può essere escluso
se per le obbiettive caratteristiche del bene serve in modo
esclusivo all’uso al godimento di un solo condòmino.
Nel caso affrontato, invece, il lastrico solare non aveva
perso la propria natura condominiale, rimanendo infatti “al
servizio” quale copertura del fabbricato comune nonostante
un solo condòmino avesse materialmente privato gli altri
condomini della possibilità di accedervi.
Secondo la Cassazione, inoltre, per vincere la presunzione
di comunione delle parti comuni elencate dall’articolo 1117
del Codice civile occorre verificare se se nel primo atto di
trasferimento di un unità immobiliare la proprietà del bene
potenzialmente rientrante tra le parti comuni sia stata o
meno riservata ad uno solo dei contraenti. Cosa che non era
affatto avvenuta in questo caso (articolo Il Sole 24 Ore del
06.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
aprile 2016 |
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CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Parcheggi, vendite dal 2005. Resta il vincolo pertinenziale
se ultimati prima del 16 dicembre.
Spazi privati. Per la Cassazione cessioni vietate a chi è
estraneo al condominio.
Il problema
dei parcheggi nelle aree urbane continua ad assumere
primaria importanza, se si considera anche il susseguirsi di
disposizioni normative riguardanti la materia e le
molteplici pronunce da parte dei giudici.
Non possono, in ogni caso, essere autorizzate nuove
costruzioni se queste non vengono corredate di aree
destinate a parcheggio. La misura dell’area da destinare a
parcheggio è quella prevista dall’articolo 41-sexies della
legge 1150/1942 (e successive modifiche): un metro quadrato
ogni dieci metri cubi di costruito.
Spetta alla pubblica amministrazione accertare la conformità
degli spazi così destinati alla misura proporzionale
stabilita dalla legge.
Con l’entrata in vigore della legge 246/2005 è venuto meno
il vincolo di pertinenzialità tra parcheggi costruiti
nell’immobile (o nelle aree a esso pertinenti) e le unità
immobiliari site nell’immobile stesso, avendo l’articolo 12
della legge eliminato il diritto reale a favore di queste.
Così le aree di parcheggio si possano vendere liberamente
anche a soggetti estranei al condominio. Tale disposizione
conferma comunque l’obiettivo di imporre ai costruttori di
unità immobiliari di realizzare adeguati spazi di
parcheggio, senza alcun vincolo soggettivo di destinazione
in favore di queste.
La norma non è applicabile alle costruzioni e ai relativi
parcheggi realizzati prima del 16.12.2005, data di entrata
in vigore della legge, perché alla stessa non può
attribuirsi alcune effetto retroattivo. In tal senso si è
espressa la recente
sentenza
22.04.2016 n. 8220 della Corte di Cassazione, Sez. II
civile (relatore Antonio Scarpa), sul presupposto che
l’articolo 12 della legge 246/2005 «non ha effetto
retroattivo, né natura imperativa; ne consegue che nei casi
in cui, al momento dell’entrata in vigore della nuova
disciplina risultassero già stipulati gli atti di vendita
delle singole unità immobiliari, trova applicazione la
disciplina anteriore di cui al citato articolo 41-sexies
delle legge 1150 del 1942».
Quest’ultima imponeva, per le
nuove costruzioni, un vincolo soggettivo di destinazione fra
le unità immobiliari e gli spazi di parcheggio, vincolo che
impediva la circolazione libera di questi ultimi: box e
spazi di parcheggio già di pertinenza di un appartamento
sono destinati a restare così per sempre.
La sentenza, soffermandosi in modo analitico
sull’operatività dell’articolo 41-sexies e riprendendo
concetti già affermati dalla Suprema Corte, ribadisce che si
tratta di una norma imperativa e inderogabile, in
correlazione degli interessi pubblicistici da essa
perseguiti, che opera non soltanto nel rapporto fra il
costruttore o proprietario di edificio e l’autorità
competente in materia urbanistica, ma anche nei rapporti
privatistici riguardanti questi spazi, nel senso di imporre
la loro destinazione a uso diretto delle persone che
stabilmente occupano le costruzioni o a esse abitualmente
accedono.
Non sono ammesse deroghe mediante atti privati di
disposizione degli stessi spazi, le cui clausole difformi
sono perciò sostituite di diritto dalla medesima norma
imperativa, al punto che nel giudizio intercorrente tra gli
acquirenti degli immobili illegittimamente privati del
diritto all’uso dell’area a parcheggio e i terzi che abbiano
acquistato porzioni di tale area, la nullità di cui
all’articolo 1418 del Codice civile dei negozi stipulati dai
primi, nella parte in cui ha omessa tale inderogabile
destinazione, è rilevabile d’ufficio anche in via
incidentale.
Sotto tale profilo però precisa che si può giungere alla
nullità solo se, al momento della realizzazione degli
edifici, il costruttore ha fatto riserva di una ben
determinata e identificata area da destinare a parcheggio e
sempre che manchi un successivo trasferimento del medesimo
spazio su altre aree comunque idonee a tale utilizzazione al
momento del rilascio della nuova concessione in variante.
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Usucapione possibile per le aree di sosta.
Il caso. Usi non contestati.
La proprietà
delle aree interne e circostanti ai fabbricati di nuova
costruzione, su cui grava il vincolo pubblicistico di
destinazione a parcheggio, può essere acquistata anche per
usucapione. Il principio è confermato dalla sentenza 8820/16
con cui i giudici di legittimità confermano che il «possesso
utile ai fini di usucapione decorre in danno del
proprietario dal momento dell’atto di acquisto, essendo
soltanto a far tempo da esso possibile considerare
distintamente il diritto dominicale (trasferito) e quello al
parcheggio (non trasferito) sull’area destinata a
parcheggio».
Per la Cassazione l’usucapione in favore degli
acquirenti ha effetto estintivo anche del vincolo
pubblicistico di destinazione, stante l’efficacia
retroattiva reale dell’usucapione stessa.
Per gli acquisti «a titolo derivativo» invece opera il
principio per cui il vincolo di destinazione impresso alle
aree destinate a parcheggio non impedisce che il
proprietario dell’area possa riservare a sé, o trasferire a
terzi, il diritto di proprietà sull’area o su parti di essa,
fermo però il succitato diritto d’uso da parte dei
proprietari delle unità immobiliari site nel fabbricato
(articolo Il Sole 24 Ore del
03.05.2016).
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MASSIMA
IV. E' dapprima infondato il decimo motivo di ricorso.
Basta
ribadire, in proposito, come, secondo il costante
orientamento di
questa Corte,
la Part. 12, comma 9, della legge 28.11.2005, n.
246, che ha modificato l'art. 41-sexies della legge 17.08.1942, n.
1150, ed in base al quale gli spazi per parcheggio possono
essere
trasferiti in modo autonomo rispetto alle altre unità
immobiliari, non
ha effetto retroattivo, né natura imperativa; ne consegue
che nei casi
in cui, come quello in esame, al momento dell'entrata in
vigore della
nuova disciplina risultassero già stipulati gli atti di
vendita delle singole unità immobiliari, trova applicazione
la disciplina anteriore,
di cui al citato art. 41-sexies della legge n. 1150 del 1942
(Cass. 05.06.2012, n. 9090; Cass. 01.08.2008, n. 21003).
V. Il primo ed il secondo motivo del ricorso principale, la
cui
trattazione unitaria risulta opportuna per la loro
connessione, sono
invece fondati, per quanto di ragione.
Entrambi i motivi
sono
radicati sul presupposto della decisività del riscontro
dell'efficacia
di giudicato (diretto o riflesso) da attribuire alla
sentenza della Corte
d'Appello di Roma n. 388/1992 (intervenuta a suo tempo tra
gli
acquirenti degli appartamenti compresi negli edifici siti in
Roma,
Via ..., n. 685, Via ..., n. 16, e Via
..., n. 4 e la costruttrice S.r.l. Ed.Eg.), nei
confronti
degli attuali ricorrenti, i quali avevano a loro volta
acquistato i posti
auto, box e negozi realizzati nell'area da destinare a
parcheggio.
A
proposito di tale pronuncia, la Corte di merito ha affermato
che la
stessa non avesse efficacia in senso stretto di giudicato,
ma
comunque rivelasse "effetto riflesso nei confronti degli
appellati,
che, pur essendo rimasti estranei al detto giudizio, sono
titolari di
diritti ed obblighi, dipendenti dalla situazione giuridica
definitiva in
quel processo".
Ora, è vero che questa Corte ha più volte
affermato
che una sentenza passata in giudicato, anche quando non
possa
avere l'effetto vincolante di cui all'art. 2909 c.c., può
avere
comunque l'efficacia riflessa di prova o di elemento di
prova
documentale in ordine alla situazione giuridica che abbia
formato
oggetto dell'accertamento giudiziale, e che tale efficacia
indiretta
può essere invocata da chiunque vi abbia interesse,
spettando al
giudice di esaminare la sentenza prodotta a tale scopo e
valutarne
liberamente il contenuto, anche in relazione agli altri
elementi di giudizio rinvenibili negli atti di causa (da
ultimo, Cass. 20.02.2013, n. 4241).
Quel che tuttavia fa difetto nel caso in
esame, per
ravvisare, come fatto dalla Corte di Roma, un'efficacia
riflessa della
sentenza n. 388/1992 riguardo alle parti di questo giudizio,
che a
quello culminato nell'invocata pronuncia non parteciparono,
è il
presupposto della titolarità in capo a questi ultimi di
diritti ed
obblighi dipendenti dalla situazione giuridica definita in
quel primo
processo. L'assunto a base della statuizione qui impugnata
evidente
postula che solo l'efficacia ultra partes di quella sentenza
del 1992
possa rendere opponibile agli attuali ricorrenti l'ivi
conseguita
declaratoria del diritto reale ex lege all'uso del
parcheggio.
Vale,
all'opposto, un diverso principio, conforme al consolidato
orientamento di questa Corte, e nella sostanza seguito dalla
stessa
pronuncia qui impugnata, per il quale
il vincolo di
destinazione
impresso agli spazi per parcheggio dall'art. 41-sexies della
legge 17.08.1942, n. 1150, secondo il testo introdotto dalla
legge 06.08.1967 n. 765, art. 18, norma di per sé imperativa, non può
subire
deroghe mediante atti privati di disposizione degli stessi
spazi, le cui
clausole difformi sono perciò sostituite di diritto dalla
medesima
norma imperativa. Tale vincolo si traduce in una limitazione
legale
della proprietà, che può essere fatta valere, con
l'assolutezza tipica
dei diritti reali, nei confronti dei terzi che ne contestino
l'esistenza e
l'efficacia.
Pertanto
coloro che abbiano acquistato le
singole unità
immobiliari dall'originario costruttore-venditore, il
quale,
eludendo il vincolo, abbia riservato a sé la proprietà di
detti spazi,
ben possono agire per il riconoscimento del loro diritto
reale d'uso
direttamente nei confronti dei terzi ai quali l'originario
costruttore
abbia alienato le medesime aree destinate a parcheggio.
In
un tale giudizio (qual è quello in esame),
intercorrente tra
gli acquirenti
degli immobili illegittimamente privati del diritto all'uso
dell'area
pertinente a parcheggio ex art. 18 della legge 06.08.1967, n. 765,
ed i terzi che abbiano acquistato porzioni di tale area, la
nullità dei
negozi stipulati dai primi, nella parte in cui sia stata
omessa tale
inderogabile destinazione, con conseguente loro integrazione
"ope
legis", è rilevabile anche "incidenter tantum", sicché non
deve
necessariamente correlarsi alla verifica della sussistenza e
dell'opponibilità, in via immediata o, appunto, riflessa, di
un
giudicato conseguito nei confronti dell'originario
costruttore-venditore.
Come pure,
in un giudizio così congegnato, non si
impone nemmeno che sia convenuto il costruttore-venditore,
pur
spettando a questo l'eventuale diritto (personale) a
conseguire
l'integrazione del prezzo di acquisto da coloro che agiscano
per
ottenere il riconoscimento del loro diritto d'uso sugli
spazi vincolati
a parcheggio (Cass. 14.11.2000, n. 14731; Cass. 25.03.2004, n. n. 5755).
VI. Può poi passarsi all'analisi congiunta del quarto e
dell'ottavo
motivo di ricorso, anch'essi in logica connessione.
Questi
criticano
la sentenza della Corte di Roma, ai sensi dell'art. 360, n.
3, 4 e 5,
c.p.c., per non aver dato sufficiente rilievo nel suo
ragionamento alle
concessioni in variante ed in sanatoria, ed ai conseguenti
certificati
di abitabilità, che accompagnavano i titoli di acquisto
degli attuali
ricorrenti, provvedimenti che comprovavano il rispetto della
destinazione a parcheggio dell'area riservata; e per aver
determinato
l'asservimento a parcheggio di un'area di mq. 7.354,90,
anziché di
mq. 6.354,90.
In particolare, è oggetto di doglianza la frase della
pronuncia
d'appello secondo la quale l'art. 41-sexies della legge n.
1150/1942
"opera nel rapporto tra il costruttore o proprietario di
edificio e
l'autorità competente in materia urbanistica", sicché
quest'ultima
"non può porre nel nulla gli atti d'obbligo, formati col
Comune dal
costruttore, al fine del rilascio della licenza edilizia".
Tali patti
d'obbligo, secondo quanto illustra la stessa sentenza
impugnata a
pagina 32, individuavano in mq. 6.354,90 l'area da destinare
a
parcheggio. Il Tribunale ha invece determinato in mq.
7.354,90 la
stessa area, disponendo il prosieguo istruttorio per
individuare
tramite CTU consistenza e posizione di quest'area.
I due motivi sono parzialmente fondati, per quanto di
ragione.
Non esiste il denunciato vizio di ultrapetizione in quanto
la
normativa urbanistica, dettata dall'art. 41-sexies della
legge n. 1150
del 1942, si limita a prescrivere, per i fabbricati di nuova
costruzione, una misura proporzionale alla cubatura totale
dell'edificio da destinare obbligatoriamente a parcheggi,
pari ad un
metro quadrato per ogni venti metri cubi di costruito,
secondo i
parametri applicabili per l'epoca dell'edificazione. Tale
misura
proporzionale è imposta dalla legge, sicché l'eventuale
metratura
prospettata dalla parte con l'atto introduttivo di un
giudizio volto al
riconoscimento del diritto d'uso a parcheggio ha solo valore
indicativo, per cui non incorre in ultrapetizione il giudice
che, sulla
base delle risultanze processuali, determini l'estensione
della
relativa area in misura pure diversa e maggiore da quella
inizialmente quantificata dall'istante.
Per la concreta attuazione, invece, della costituzione del
diritto reale
di uso per parcheggio, soltanto in assenza di relativa
previsione nell'atto concessorio, o nel regolamento
condominiale, o negli atti di
acquisto dei singoli appartamenti, è consentito chiedere al
giudice
tale identificazione (Cass. 11.08.1997, n. 7474). Ai
fini del
rispetto del vincolo di destinazione impresso agli spazi per
parcheggio dall'art. 41-sexies citato, infatti, il rapporto
tra la
superficie delle aree destinate a parcheggio e la volumetria
del
fabbricato, così come richiesto dalla legge, va
effettivamente
verificato a monte dalla P.A. nel rilascio della concessione
edilizia.
La rimozione del vincolo a parcheggio sulle aree individuate
in sede
di rilascio della concessione edilizia come condizione
essenziale per
lo stesso rilascio, può tuttavia avvenire tramite una nuova
concessione in variante, al fine di trasferirlo su altre
zone
riconosciute idonee. L'art. 41-sexies della Legge
urbanistica opera,
pertanto, come norma di relazione nei rapporti privatistici
e come
norma di azione nel rapporto pubblicistico con la P.A., la
quale non
può autorizzare nuove costruzioni che non siano corredate di
dette
aree, costituendo l'osservanza della norma condizione di
legittimità
della licenza (o concessione) di costruzione, e alla quale
esclusivamente spetta l'accertamento della conformità degli
spazi
alla misura proporzionale stabilita dalla legge e della loro
idoneità
ad assicurare concretamente la prevista destinazione.
Manca,
pertanto, nel ragionamento seguito dalla Corte di Roma, la
verifica,
sollecitata dagli appellanti, dell'eventuale adeguato
trasferimento
dello spazio destinato a parcheggio, inizialmente fissato
coi patti
d'obbligo ed impressa nella concessione, su altre aree
comunque
idonee a tale utilizzazione, il che, come ora ricordato, ben
può
avvenire mediante il rilascio di una nuova concessione in
variante
(quali quelle dedotte dagli attuali ricorrenti), non avendo
il giudice ordinario il potere di attribuire agli acquirenti
di singole unità
immobiliari il diritto di impiegare come parcheggio uno
spazio, pur
se di proprietà del costruttore-venditore, in tutto o in
parte diverso
da quello destinato a tale uso, secondo la prescrizione
della
concessione edilizia, originaria o in variante (cfr. Cass.
30.07.1999, n. 6894; Cass. 14.11.2000, n. 14731; Cass. 05.05.2003, n. 6751; Cass. 13.01.2010, n. 378).
Sempre questa Corte ha affermato come
gli spazi che debbono
essere riservati a parcheggio ex art. 41-sexies possono
essere ubicati
indifferentemente nelle nuove costruzioni ed anche nelle
aree di
pertinenza delle stesse, trattandosi di modalità entrambe
idonee a
soddisfare l'esigenza, costituente la "ratio" della norma,
di
deflazione della domanda di spazi per parcheggio nelle aree
destinate alla pubblica circolazione, non essendo, peraltro,
consentito al giudice di sindacare le scelte compiute in
proposito
dalla P.A. (Cass. 22.02.2006, n. 3961).
Quanto, infine, alla rilevanza da attribuire nella presente
lite agli atti
d'obbligo intercorsi tra la società costruttrice e il Comune
di Roma,
torna utile richiamare l'insegnamento espresso
reiteratamente da
questa Corte, in forza del quale l'atto con il quale un
proprietario-costruttore si sia impegnato nei confronti del Comune, ai
fini del
rilascio della concessione edilizia, a conferire una
particolare
destinazione a determinate superfici, non è riconducibile
alla figura
del contratto a favore di terzi, di cui all'art. 1411 c.c.,
sia perché non
costituisce un contratto di diritto privato, sia perché non
ha neppure
la specifica autonomia e natura di fonte negoziale di un
regolamento
dei contrapposti interessi delle parti stipulanti,
caratterizzandosi,
piuttosto, come atto intermedio del procedimento
amministrativo volto al conseguimento del provvedimento concessorio finale, dal
quale promanano soltanto poteri autoritativi della P.A. e
non la
possibilità per i terzi privati di accampare diritti sulla
sua base.
Ne
consegue che,
per il rispetto dell'obbligo di destinazione
assunto dal
proprietario-costruttore, salva l'ipotesi che esso sia stato
trasfuso in
una disciplina negoziale all'atto del trasferimento della
singola unità
immobiliare da lui realizzata, i singoli condomini non hanno
alcuna
azione, fermo il diritto al risarcimento del danno qualora
l'inosservanza dell'obbligo concreti una violazione delle
norme
urbanistiche (Cass. 20.11.2006, n. 24572; Cass. 23.02.2012, n. 2742).
VII. Sono parzialmente fondati, per quanto di ragione,
altresì, il
terzo, il sesto ed il settimo motivo di ricorso, da trattare
congiuntamente sempre perché connessi.
La Corte d'appello ha, in estrema sintesi e facendo salve le
diversità
delle singole posizioni scrutinate, riconosciuto in favore
degli
appellanti principali ed incidentali l'acquisto dei
rispettivi beni per
usucapione decennale, fermo restando il vincolo di
destinazione a
parcheggio.
Ora, questa Corte ha effettivamente più volte riconosciuto
come "la
proprietà delle aree interne o circostanti ai fabbricati di
nuova
costruzione, su cui grava il vincolo pubblicistico di
destinazione a
parcheggio, può essere acquistata per usucapione, non
comportandone tale vincolo indisponibilità, inalienabilità e
incommerciabilità" (Cass. 15.11.2002, n. 16053; Cass.
07.06.2002, n. 8262).
Tale possesso utile a fini di
usucapione
decorre in danno del proprietario dal momento dell'atto di
acquisto,
essendo soltanto a far tempo da esso possibile considerare
distintamente il diritto dominicale (trasferito) e quello al
parcheggio
(non trasferito) sull'area destinata a parcheggio.
Non è
stata oggetto
di censura la sentenza impugnata nella parte in cui la
stessa ha
riconosciuto l'usucapione abbreviata ex art. 1159 c.c. in
favore
degli appellanti. La soluzione adottata avrebbe dovuto
indurre, in
verità, ad affrontare il profilo della configurabilità
dell'usucapione
decennale, ai sensi dell'art. 1159 c.c., in favore di colui
che abbia
acquistato, come nella specie, un'area di parcheggio asseritamente
vincolata al diritto d'uso "ex lege", quanto, in
particolare, alla
sussistenza del requisito del titolo idoneo a trasferire la
proprietà,
trattandosi di atto nullo per contrarietà a norme imperative
(cfr., in
senso contrario all'ammissibilità, Cass. 24.05.2013, n.
12996).
La questione è tuttavia sottratta all'esame di questa Corte
giacché,
come detto, non oggetto di gravame.
Ora, è evidente che la ravvisata usucapione in favore dei
terzi
acquirenti dell'area di parcheggio, a differenza di quanto
afferma la
sentenza della Corte di Roma, avrebbe effetto estintivo
anche del
vincolo pubblicistico di destinazione, in forza
dell'efficacia
retroattiva reale dell'usucapione stessa.
Quanto, viceversa, agli acquisti a titolo derivativo, opera
davvero il
principio per cui
il vincolo di destinazione impresso alle
aree
destinate a parcheggio, interne o circostanti ai fabbricati
di nuova
costruzione, di cui all'art. 41-sexies, legge n. 1150 del
1942, non
impedisce che il proprietario dell'area possa riservare a sé,
o
trasferire a terzi, il diritto di proprietà sull'intera
area, o su parti di
essa, fermo restando il succitato diritto d'uso da parte dei
proprietari
delle unità immobiliari site nel fabbricato (Cass. 24.11.2003,
n. 17882; Cass. 27.12.2011, n. 28950).
Tuttavia, nella vicenda oggetto di questo giudizio, perché
si possa
correttamente affermare la nullità ex art. 1418 c.c. di
quella parte dei
contratti di compravendita immobiliare nella quale al
trasferimento
della proprietà sulle singole porzioni dell'edificio non si
era
accompagnato anche quello della proprietà o, quanto meno,
del
diritto reale d'uso sulle pertinenziali porzioni dello
spazio riservato
al parcheggio degli edifici di Via ..., n. 685, Via ..., n. 16, e Via
..., n. 4, occorre
accertare:
1)
l'avvenuta riserva, al momento della realizzazione di tali
edifici,
all'interno degli atti d'obbligo intercorsi tra la società
costruttrice e
il Comune di Roma, se richiamati dagli atti di trasferimento
delle
singola unità immobiliari, e della concessione edilizia, di
una
determinata ed identificata area da destinare a parcheggio,
come
richiesto dalla Legge urbanistica;
2) il mancato successivo
trasferimento del medesimo spazio destinato a parcheggio nei
patti
d'obbligo e nella concessione, su altre aree comunque idonee
a tale
utilizzazione al momento del rilascio della nuova
concessione in
variante.
Solo, infatti, la determinazione di uno preciso spazio,
interno od
esterno agli edifici, idoneo ad essere utilizzato a scopo di
parcheggio, e la successiva stipulazione d'atti di
compravendita
delle singole porzioni immobiliari con espressa esclusione o
mancata menzione del contestuale trasferimento della
proprietà o
del diritto reale d'uso sulle pertinenziali porzioni del
detto spazio
riservato, consentono di pervenire alla dichiarazione di
nullità di
quegli atti.
Ove sia, diversamente,
accertato che, pur previsto negli
atti
d'obbligo e nella concessione edilizia, lo spazio da adibire
a parcheggio non sia stato affatto riservato a tal fine in
corso di
costruzione e sia stato impiegato, invece, per realizzarvi
manufatti
od opere d'altra natura (quali, nella specie, negozi) da
destinare a
diversa utilizzazione (ipotesi, cioè diversa, da quella in
cui allo
spazio realizzato conformemente al progetto sia stata
successivamente data una diversa destinazione in sede di
vendita),
non può dirsi nemmeno mai costituito il rapporto di pertinenzialità
ex lege voluto dalla legge urbanistica, sicché non
può ravvisarsi la
nullità parziale dei contratti di vendita aventi ad oggetto
quei diversi
manufatti, né farsi luogo a tutela ripristinatoria per
ottenere la
realizzazione ex novo dello spazio da destinare a parcheggio
non
riservato in corso d'edificazione, ammettendosi unicamente
una
tutela risarcitoria (Cass. 18.04.2003, n. 6329; Cass.
05.05.2009, n. 10341).
Secondo i principi generali di allocazione dell'onere
istruttorio,
spetta in ogni caso agli attori, i quali deducano la nullità
degli atti di
acquisto da parte di terzi di un'area di parcheggio
vincolata al diritto
d'uso ex art. 41-sexies Legge urbanistica, di provare che i
beni
oggetto di tali alienazioni siano compresi nell'ambito ben
delimitato
da tale norma (ovvero nell'apposito spazio riservato per
parcheggio
in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni venti
metri
cubi di costruzione, concretamente destinato a tal fine in
sede di
realizzazione del fabbricato), in quanto elemento
costitutivo del loro
asserito diritto, giacché ogni spazio ulteriore è
completamente
svincolato da detta disciplina e può, quindi, essere
liberamente
venduto, locato o costituire oggetto di altri negozi
giuridici (Cass. 23.01.2006, n. 1221). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Il condominio stoppa la Scia.
No all'ok al locale hot travestito da circolo culturale.
I casi in cui i rapporti di vicinato arrivano davanti al Tar
a causa di atti del comune.
Il Tar riporta la pace in condominio. Le liti fra vicini
finiscono davanti al giudice amministrativo, invece che
ordinario, quando un provvedimento del comune può mettere
fine ai litigi nello stabile. Ma può anche darsi che a far
scoppiare la guerra sia stato proprio un atto dell'ente, per
esempio la Scia troppo frettolosa che dà l'ok a operare nel
palazzo a un inquilino davvero scomodo: il night a luci
rosse travestito da circolo culturale.
Ecco allora che il condominio fa annullare la verifica di
inizio attività del locale perché il sopralluogo
dell'amministrazione è stato insufficiente.
È quanto emerge
dalla
sentenza
12.04.2016 n. 4333, pubblicata della Sez. II-ter
del TAR Lazio-Roma.
Interessi delicati. Al piano terra del fabbricato si è
installato un vero e proprio sexy night club, con tanto di lap dance. Ma il condominio impugna la Scia di trasferimento
del presunto circolo, che nella sede precedente era
qualificato anche formalmente come locale pubblico. I
residenti sospettano che il tesseramento all'ingresso sia
solo un espediente per bypassare il regolamento condominiale
e il suo divieto di affittare locali nel palazzo a chi fa
spettacoli.
Eppure dopo le verifiche del comune le attività
svolte nei locali sono state dichiarate compatibili con la
natura di associazione culturale. Il ricorso del condominio
è accolto perché l'amministrazione deve accertare se al
piano più basso dell'edificio si tengono davvero show senza
autorizzazioni e licenze di polizia.
Controlli a sorpresa. Decisive le prove portate dal
condominio: è massiccia la campagna pubblicitaria
dell'associazione che promuove i numeri di strip tease anche
su internet. Sussiste dunque l'offerta al pubblico di un
genere di intrattenimento riconducibile alla nozione di
pubblico spettacolo, con l'inevitabile corollario di un
rumoroso pubblico sgradito ai residenti.
Il comune non
riesce a smentire l'attendibilità delle indicazioni
provenienti dalla controparte. E invia anche controlli a
sorpresa: gli interessi in gioco sono molto delicati per la
natura dell'attività che si tiene nei locali e l'intervento
dell'amministrazione risulta doveroso perché si tratta di
questioni che investono la pubblica sicurezza. All'ente
locale non resta che pagare le spese di lite.
Sfera giuridica. Passiamo a un altro vicino sgradito:
l'autolavaggio. Fra spazzoloni e lance a spruzzo i residenti
non ce la fanno più. Chi vive o lavora in zona ha diritto di
verificare se l'impianto è autorizzato a svolgere attività
tanto rumorose. E il comune deve mettere a disposizione dei
confinanti il titolo in base al quale opera l'impresa che
disturba il riposo e le occupazioni: non risulta necessaria
l'intenzione di fare causa all'azienda.
È quanto emerge
dalla
sentenza
01.04.2015 n. 4909, pubblicata dalla Sez. II-bis
del TAR Lazio-Roma.
Già in passato si è scoperto che
l'autolavaggio fracassone non aveva diritto a utilizzare
l'aspirapolvere. Ora i confinanti vogliono sapere se
l'impianto ha ricevuto qualche altro permesso o continua a
operare nell'illegalità. E non c'è bisogno di scomodare
«l'informazione ambientale» di cui al decreto legislativo
195/2005: basta la legge sulla trasparenza così come
modificata nel 2009. Chi abita vicino all'impianto ha un
interesse qualificato ad accedere ai documenti per evitare
un danno alla sua sfera giuridica.
Addio barbecue. Infine: il giudice spegne il barbecue. Stop
al forno del confinante che è stato realizzato senza
permesso di costruire ma solo con la Scia in sanatoria: il
vicino ottiene l'annullamento del provvedimento autorizzatorio mettendo fine ai fumi molesti che invadono
casa sua, specie nel weekend.
È quanto emerge dalla
sentenza 24.09.2015 n. 900, pubblicata dal TAR
Calabria-Reggio Calabria.
In ambito urbanistico il concetto di pertinenza del cespite
risulta più restrittivo che in campo civile e non si può
invocare quando manca un rapporto di stretta
consequenzialità con l'immobile principale: la fornace è una
costruzione autonoma che ha bisogno della concessione
(articolo ItaliaOggi Sette del 09.05.2016). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Il posto auto spetta solo se previsto nel progetto edilizio.
Contenzioso. I diritti di chi acquista.
Chi compra un appartamento in condominio ha diritto
all’area parcheggio solamente se questa esiste nella
struttura, altrimenti gli spetta un risarcimento.
La
sentenza
11.04.2016 n. 7065,
Sez. II civile della Corte di Cassazione, è intervenuta sul caso di
due fratelli, convenuti in giudizio da un terzo condòmino,
che affermava come –in una compravendita tra gli stessi–
essi avessero illegittimamente occupato tutta l’area
parcheggio condominiale.
I due proprietari chiamati in giudizio si difendevano
specificando come, in base alle leggi, all’acquisto di un
immobile in condominio un’area andasse destinata a
parcheggio esclusivo, a prescindere dalla sua preesistenza.
La Suprema Corte ha chiarito l’applicabilità al caso
concreto della legge 765/1967 che all’articolo 18 afferma che
«nelle nuove costruzioni e anche nelle aree di pertinenza
delle costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi
spazi per parcheggi in misura non inferiore a un metro
quadrato per ogni 20 metri cubi di costruzione» e specifica
che l’eventuale contratto di compravendita di un immobile in
condominio sprovvisto dell’area parcheggio sarebbe stato
affetto da nullità parziale.
La disciplina dei parcheggi condominiali prevede svariati
oneri: in capo al venditore, quello di prevedere questa
pertinenza nel contratto di vendita (Cassazione, sentenza
5755/2004), per il costruttore del palazzo, invece, di
dotare il condominio di una serie di parcheggi di metratura
sufficiente a servire tutte le abitazioni (Cassazione,
sentenza 3961/2006) e –da ultimo– per la pubblica
amministrazione, di effettuare un controllo sui progetti di
costruzione degli stabili e verificare se essi hanno
predisposto parcheggi sufficienti a servire le costruende
unità immobiliari (Cassazione, sentenza 378/2010).
In conclusione, quindi, l’acquirente ha diritto a vedersi
riconosciuto il diritto all’area parcheggio, a condizione
però che essa esista, dato che, come specifica la Cassazione
«l’effettiva esistenza di uno spazio destinato a parcheggio
proporzionato alla cubatura totale dell’edificio nel
provvedimento abilitativo all’edificazione è condizione per
il riconoscimento giudiziale del diritto reale al suo uso da
parte degli acquirenti delle singole unità immobiliari del
fabbricato».
In caso, quindi, di mancanza dell’area non si potrà
domandare al giudice una tutela reale, ma solo risarcitoria
verso il proprio venditore, il costruttore dello stabile o –addirittura– verso la pubblica amministrazione in caso si
sia resa colpevole di un mancato controllo sui progetti e
abbia autorizzato la costruzione del palazzo condominiale
senza le aree parcheggio previste dalla legge (articolo Il Sole 24 Ore del
03.05.2016).
----------------
MASSIMA
10. I primi due motivi, congiuntamente esaminati per la
loro connessione, si rivelano 'infondati'.
10.1. Quanto al primo rilievo dedotto, il motivo non attinge
la ratio decidendi
sottesa alla sentenza impugnata.
Invero, la corte d'appello salernitana, prendendo le mosse
dal tenore dell'atto di
compravendita intercorso tra La.Vi. ed El.Gi. (il quale
prevedeva, tra l'altro, che il trasferimento avesse altresì
ad oggetto, oltre
all'appartamento, "ogni accessorio, accessione, dipendenza,
pertinenza ... così come
pervenuto alla parte venditrice"), ha dato per assodato che
la quota parte dell'area
destinata a parcheggio trasferita dalla Immobiliare Fi.
alla El. fosse pari, a seguito dell'atto di rettifica
del 22.11.1972, a mq. 21,24 (anziché a mq. 52,14, come
concordato con l'atto notarile del 27.10.1972).
Tanto è vero
che, con riferimento
esclusiva a questa ridotta area, ha riconosciuto al La. il diritto reale d'uso sulla
quota parte di dimensioni di mq. 14,58 di pertinenza
dell'appartamento acquistato
con l'atto pubblico del 20.12.1990 (quale porzione del più
ampio box di mq. 21,24).
Da ciò consegue che non ricorrevano i presupposti affinché il
La. individuasse
nei contraenti del contratto di compravendita del 27.10.1972
i soggetti legittimati sul
piano passivo a soddisfare la sua pretesa.
In ogni caso, il Tribunale di Salerno, per come riportato
nello stesso ricorso, si era
limitato ad affermare che fu proprio l'atto di rettifica del
22.11.1972 ad aver
concretato un "atto contra legem", e che "la palese nullità
di esso andava dedotta ....
nei confronti di diversi soggetti, e comunque non solo della
El.Gi.". Si
trattava, pertanto, di affermazione resa "incidenter tantum"
e quindi sottratta
all'efficacia del giudicato, anche perché la necessità di
statuire con tale efficacia sul
punto avrebbe comportato l'esigenza di integrità del
contraddittorio, invece esclusa
dal Tribunale proprio in relazione all'oggetto della domanda
proposta.
D'altro canto, ed ancora, la preventiva declaratoria di
nullità dell'atto di rettifica del
22.11.1972 non è condizione indispensabile per
pervenire alla conseguente
invalidità della compravendita stipulata il 10.12.1990, oggetto di questa
causa.
Il vincolo di destinazione impresso agli spazi per
parcheggio dall'art. 41-sexies della legge 17.08.1942, n. 1150, secondo il testo
introdotto dall'art. 18
della legge 06.08.1967, n. 765, norma di per sé
imperativa, non può subire
deroghe mediante atti privati di disposizione degli stessi
spazi, le cui clausole
difformi sono perciò sostituite di diritto dalla medesima
norma imperativa.
Tale
vincolo si traduce in una limitazione legale della
proprietà, che può essere fatta
valere, con l'assolutezza tipica dei diritti reali, nei
confronti dei terzi che ne
contestino l'esistenza e l'efficacia. Pertanto in un
giudizio (qual è quello in esame),
intercorrente tra l'acquirente di un immobile che si assume
illegittimamente privato
del diritto all'uso dell'area pertinente a parcheggio ex
art. 18 della legge 06.08.1967, n. 765, ed un terzo che
abbia acquistato porzione di tale area, la nullità del
negozio stipulato da quest'ultimo, nella parte in cui sia
stata omessa tale
inderogabile destinazione, con conseguente integrazione "ope
legis", non deve
necessariamente correlarsi alla preventiva dichiarazione di
nullità dell'atto di
vendita intercorso con l'originario costruttore-venditore
(argomenta da Cass. 14.11.2000, n. 14731; Cass. 25.03.2004, n. n. 5755).
10.2. Con riferimento all'asserito giudicato formatosi sulla
statuizione del Tribunale
in virtù della quale comunque al La. sarebbe stato
trasferito il diritto di
usufruire del parcheggio nell'area comune condominiale (id
est, della quota
condominiale dell'area di parcheggio), va ricordato che il
giudicato non si estende
ad ogni proposizione contenuta in una sentenza con carattere
di semplice
affermazione incidentale, atteso che per aversi giudicato
implicito è necessario che
tra la questione decisa in modo espresso e quella che si
vuole tacitamente risolta
sussista un rapporto di dipendenza indissolubile, e dunque
che l'accertamento
contenuto nella motivazione della sentenza attenga a
questioni che ne costituiscono
necessaria premessa ovvero presupposto logico indefettibile
(Cass. 05.07.2013, n.
16824).
Nel caso di specie, anche a voler prescindere dal fatto che
lo stesso Tribunale di
Salerno ha espressamente (cfr. pag. 10 del ricorso) chiarito
che "per inciso"
formulava l'ulteriore considerazione secondo cui l'area di
parcheggio, all'origine,
era stata compresa tra i beni condominiali poi ceduti pro
quota al La. con
l'atto del 1994, è evidente che tra questa affermazione e la
questione assorbente che
aveva indotto il giudice di primo grado a rigettare la
domanda attorea (quella per cui
l'attore avrebbe dovuto semmai chiedere -nei confronti di
altri soggetti- la nullità
dell'atto di rettifica con il quale la sua dante causa aveva
accettato la riduzione della
quota ideale dell'area di parcheggio spettante ai due
appartamenti da lei
originariamente acquistati) non è configurabile alcun
rapporto di dipendenza
indissolubile.
L'affermazione del Tribunale di Salerno
"sinallagma contrattuale che
comunque, per inciso, non deve essere riequilibrato, in
quanto l'area di parcheggio, all'origine, fu compresa tra i
beni condominiali, che risultano ceduti pro quota al
La." appare enunciazione puramente incidentale, ovvero
considerazione priva
di relazione causale col deciso, e perciò sottratta
all'autorità del giudicato, la quale è
circoscritta oggettivamente in conformità alla funzione
della pronunzia giudiziale,
diretta a dirimere la lite nei limiti delle domande
proposte.
11. Il terzo ed il quarto motivo, anch'essi esaminati
congiuntamente per evidenti
ragioni di connessione, risultano, invece, fondati per
quanto di ragione.
Quanto al primo profilo, va rilevato che la corte d'appello
ha considerato che la
dante causa aveva legittimamente alienato al germano
l'intera area parcheggio in
precedenza acquistata, e per questa ragione ha dichiarato la
nullità, sia pure parziale,
della compravendita intercorsa tra i due germani.
Secondo la consolidata elaborazione di questa Corte, invero,
nel fabbricato
condominiale di nuova costruzione ed anche nelle relative
aree di pertinenza, ove il
godimento dello spazio per parcheggio -nella misura di un
metro quadrato per ogni
venti metri cubi di costruito, ai sensi della norma
imperativa ed inderogabile di cui
all'art. 41-sexies della legge n. 1150 del 1942, introdotto
dall'art.18 della legge n.
765 del 1967- non sia assicurato in favore del singolo
condomino, essendovi un
titolo contrattuale che attribuisca ad altri la proprietà
dello spazio stesso, si ha nullità
di tale contratto, nella parte in cui sia omessa tale
inderogabile destinazione, con
integrazione "ope legis" del contratto tramite
riconoscimento di un diritto reale di
uso di detto spazio in favore del condomino, nella misura
corrispondente ai
parametri della disciplina normativa applicabile per l'epoca
dell'edificazione (Cass.
24.11.2003, n. 17882; Cass. 27.12.2011, n.
28950).
Alla nullità del contratto di compravendita di unità
immobiliari, nella parte in cui
risulti sottratta (mediante riserva al venditore o
trasferimento a terzi) la superficie
destinata all'inderogabile funzione di parcheggio, consegue
l'integrazione della
convenzione negoziale "ope legis", con l'attribuzione, in
favore dell'acquirente
dell'unità immobiliare, del diritto reale d'uso di tale
area, e, in favore dell'alienante,
del corrispettivo ulteriore (da concordarsi tra le parti, o,
in difetto, da determinarsi dal giudice), così ripristinando
direttamente l'equilibrio del sinallagma contrattuale
(Cass. 18.04.2000, n. 4977).
Coerentemente con tale
impostazione, la corte di
merito ha dichiarato la nullità parziale dell'atto del
10.12.1990 nella parte relativa al
trasferimento "integrale" dell'area destinata a parcheggio
all'acquirente El.Li.
D'altra parte, la ricorrente evidenzia (cfr. pagg. da 7 a 9
del ricorso) che il Ctu
nominato dal Tribunale, le cui conclusioni venivano accolte
nella sentenza di primo
grado, avesse accertato che l'area da riservare a parcheggio
proporzionata alla
volumetria dei due appartamenti interno 10 e interno 11, in
origine acquistati da
Gi.El., doveva essere pari a mq. 34,80, mentre la
zona coperta da questa
ricevuta era pari soltanto a mq. 21,24, perciò mancando mq.
13,56 alla quota di
legge. Lo stesso perito aveva quindi stimato in mq. 10,90 il
diritto alla quota ideale
dell'area di parcheggio spettante ad El.Li., traendo
la conseguenza che,
almeno con riferimento ai residui mq. 10,34, El.Gi. avesse sottratto
l'area alla sua destinazione per quanto concerne l'altro
appartamento di cui si era
riservata la proprietà (e che poi ha ceduto al La.).
E' quindi incontroverso che l'area residua riconosciuta a
Giuliana Elefante con l'atto
di rettifica del 22.11.1972 (pari complessivamente a
mq. 21,24) non
garantisse a nessuno dei due appartamenti, poi da questa
alienati a diversi soggetti, i
parametri plano-volumetrici previsti dalla legge
urbanistica. Il controricorrente
ribadisce in questa sede come tale area di parcheggio, per
quanto insufficiente
rispetto ai criteri di legge, non fosse stata asservita in
quell'atto di rettifica all'uno o
all'altro degli appartamenti, e perciò ne pretende una
quota.
Ora, secondo consolidata interpretazione giurisprudenziale,
la norma dettata dall'art.
41-sexies della legge n. 1150 del 1942, si limita a
prescrivere, per i fabbricati di
nuova costruzione, una misura proporzionale alla cubatura
totale dell'edificio da
destinare obbligatoriamente a parcheggi, pari ad un metro
quadrato per ogni venti
metri cubi di costruito, secondo i parametri applicabili per
l'epoca dell'edificazione.
Per la concreta attuazione, invece, della costituzione del
diritto reale di uso per parcheggio, soltanto in assenza di
relativa previsione nell'atto concessorio, o nel
regolamento condominiale, o negli atti di acquisto dei
singoli appartamenti, è
consentito chiedere al giudice tale identificazione (Cass.
11.08.1997, n. 7474).
Ai fini del rispetto del vincolo di destinazione impresso
agli spazi per parcheggio
dall'art. 41-sexies citato, infatti, il rapporto tra la
superficie delle aree destinate a
parcheggio e la volumetria del fabbricato, così come
richiesto dalla legge, va effettivamente verificato a monte
dalla P.A. nel rilascio della concessione edilizia
(cfr. Cass. 30.07.1999, n. 6894; Cass. 14.11.2000,
n. 14731; Cass. 05.05.2003, n. 6751; Cass. 13.01.2010, n. 378).
Sempre questa Corte ha affermato come gli spazi che debbono
essere riservati a
parcheggio ex art. 41-sexies possono essere ubicati
indifferentemente nelle nuove
costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle stesse,
trattandosi di modalità
entrambe idonee a soddisfare l'esigenza, costituente la "ratio"
della norma, di
deflazione della domanda di spazi per parcheggio nelle aree
destinate alla pubblica
circolazione, non essendo, peraltro, consentito al giudice
di sindacare le scelte
compiute in proposito dalla P.A. (Cass. 22.02.2006, n.
3961).
Ed allora, nella vicenda oggetto di questo giudizio, perché
si possa correttamente
affermare la nullità parziale ex art. 1418 c.c. dell'atto
pubblico del 10.12.1990, come
affermato dalla Corte d'Appello di Salerno, riconoscendo al La. il diritto reale
d'uso sull'area di parcheggio occorre accertare l'avvenuta
riserva, al momento della
realizzazione dell'edificio di via ..., n. 21, di
Salerno, all'interno della
concessione edilizia, di una sufficiente ed individuata area
da destinare a
parcheggio, come richiesto dalla Legge urbanistica.
Solo,
infatti, la determinazione
di uno preciso spazio, interno od esterno all'edificio,
idoneo ad essere utilizzato a
scopo di parcheggio, e la successiva stipulazione di un atto
di compravendita della
singola porzione immobiliare con espressa esclusione o
mancata menzione del
contestuale trasferimento della proprietà o del diritto
reale d'uso sulle pertinenziali
porzioni del detto spazio riservato, consentono di pervenire
alla dichiarazione di
nullità di quell'atto.
Ove sia, diversamente, accertato che,
pur previsto nella concessione edilizia, lo spazio
sufficiente da adibire a parcheggio secondo le
proporzioni di legge, non fosse stato affatto riservato in
corso di costruzione o fosse
stato impiegato, invece, per realizzarvi opere d'altra
natura da destinare a diversa
utilizzazione (ipotesi, cioè diversa, da quella in cui allo
spazio realizzato
conformemente al progetto fosse stata successivamente data
una diversa
destinazione in sede di vendita), non può dirsi nemmeno mai
costituito il rapporto di
pertinenzialità ex lege voluto dalla legge urbanistica,
sicché non può ravvisarsi la
nullità parziale dei contratti di vendita aventi ad oggetto
quello spazio, né farsi luogo
a tutela ripristinatoria per ottenere la realizzazione ex
novo dello spazio da destinare
a parcheggio non riservato in corso d'edificazione,
ammettendosi unicamente una
tutela risarcitoria.
In sostanza, l'effettiva esistenza di
uno spazio destinato a
parcheggio proporzionato alla cubatura totale dell'edificio
nel provvedimento
abilitativo all'edificazione è condizione per il
riconoscimento giudiziale del diritto
reale al suo uso da parte degli acquirenti delle singole
unità immobiliari del
fabbricato (Cass. 18.04.2003, n. 6329; Cass. 22.02.2006, n. 3961; Cass.
07.05.2008, n. 11202; Cass. 11.02.2009, n. 3393;
Cass. 05.05.2009, n.
10341; Cass. 08.08.2014, n. 17813).
Non è corretto, quindi, riconoscere un diritto reale di uso
in favore del La. in
una misura comunque non corrispondente ai parametri di cui
all'art. 41-sexies della
legge n. 1150 del 1942, in modo soltanto da condividere i
disagi dell'insufficienza
dell'area di parcheggio con Li.El., altro subacquirente di Gi.El., in
quanto l'integrazione "ope legis" del contratto di acquisto
del ricorrente non può che
avvenire, sussistendone le specificate condizioni di fatto,
nella proporzione
aritmetica stabilita dalla citata norma imperativa ed
inderogabile.
Né nella
motivazione della corte d'appello risulta esplicitato se il
diritto reale d'uso in favore
di Lauriello Vincenzo sul sufficiente spazio destinato a
parcheggio potesse trovare
pieno esercizio sulle aree esterne al fabbricato comunque
idonee a garantire la
prescrizione normativa della legge urbanistica.
Secondo i principi generali di allocazione dell'onere
istruttorio, spetta in ogni caso all'attore, il quale deduca
la nullità dell'atto di acquisto da parte di terzi di
un'area di
parcheggio vincolata al diritto d'uso ex art. 41-sexies
Legge urbanistica, di provare
che il bene oggetto di tale alienazione sia compreso
nell'ambito ben delimitato da
tale norma (ovvero nell'apposito spazio riservato per
parcheggio in misura non
inferiore ad un metro quadrato per ogni venti metri cubi di
costruzione,
concretamente destinato a tal fine in sede di realizzazione
del fabbricato), in quanto
elemento costitutivo del suo asserito diritto (Cass.
23.01.2006, n. 1221). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI -
CONDOMINIO:
Climatizzatori, l'Arpa deve comunicare i dati sul
rumore.
Fuori i decibel dell'impianto «fracassone»,
nero su bianco. Il singolo condomino ha
diritto di conoscere dall'Agenzia regionale
che tutela l'ecosistema a quanto ammontano
le immissioni sonore prodotte dell'impianto
di condizionamento dell'aria attivo nello
stabile: si tratta infatti di una vera e
propria informazione ambientale, in base
alla direttiva Ue recepita in Italia con il
decreto legislativo 195/2005, che ha una
portata più ampia rispetto alla mera
normativa sulla trasparenza di cui agli
articoli 22 e seguenti della legge 241/1990.
È quanto emerge dalla
sentenza 04.04.2016 n. 4018,
pubblicata dalla Sez. I-ter del TAR
Lazio-Roma.
Interesse qualificato.
L'impianto rumoroso è al servizio di alcuni
negozi. E ora l'Agenzia di protezione
ambientale ha trenta giorni di tempo per
fornire al condomino i dati che ha rilevato
sul frastuono prodotto dal climatizzatore.
La norma ex articolo 3, comma 1, del decreto
legislativo 195/2005 parla chiaro: «L'autorità
pubblica rende disponibile l'informazione
ambientale detenuta a chiunque ne faccia
richiesta, senza che questi debba dichiarare
il proprio interesse».
Nel nostro caso non c'è dubbio che il
condomino sia invece portatore di un
interesse qualificato: anzitutto perché che
vive nello stabile e poi perché le
rilevazioni Arpa sono state compiute proprio
dall'appartamento di sua proprietà
esclusiva.
Né la richiesta può ritenersi irragionevole:
si tratta di informazioni di competenza
sulle misure che deve adottare l'Agenzia.
Che dunque paga le spese di lite (articolo
ItaliaOggi Sette del 25.04.2016).
---------------
MASSIMA
... per l'annullamento del silenzio-diniego sulla
richiesta di accesso ai documenti
amministrativi.
...
Con il presente ricorso, proposto ai sensi
dell'art. 116 c.p.a., la ricorrente contesta
il silenzio serbato dall'ARPA Lazio sulla
propria istanza di accesso a documenti
rilevanti in tema di accertamento delle
immissioni sonore provocate dall’impianto di
condizionamento all’interno del condominio
di via ... n. 26.
In primo luogo occorrere premettere che,
secondo il disposto dell'art. 3, comma 1,
del D.Lgs. n. 195/2005, “l'autorità
pubblica rende disponibile... l'informazione
ambientale detenuta a chiunque ne faccia
richiesta, senza che questi debba dichiarare
il proprio interesse”.
Da ciò deriva che l'accesso alle
informazioni ambientali ha una portata ben
più ampia rispetto a quello ai sensi degli
artt. 22 e ss. della legge n. 241/1990.
Deve poi aggiungersi che la ricorrente è
residente all’interno dello stesso
condominio e gli accertamenti risultano
eseguiti proprio nella abitazione ove abita
la ricorrente.
È evidente, dunque, che si tratta di "informazioni
ambientali" e che la odierna ricorrente
risulti portatrice di un interesse
giuridicamente qualificato all’ottenimento
della richiesta documentazione.
Va inoltre considerato che l'oggetto della
richiesta di accesso è puntualmente
indicato, per cui allo stesso non osta
l'impedimento di cui all'art. 5, comma 1,
lett. c), del d.lgs. n. 195/2005,
rappresentato dalla sua eccessiva
genericità.
Né può ritenersi che tale istanza sia
irragionevole rispetto alle finalità di cui
all'art. 1: si tratta di atti recanti
informazioni ambientali relative
all'adozione di misure, di competenza
dell'interpellata ARPA Lazio.
Infine non si rinviene alcuna delle ragioni
di riservatezza individuate all’art. 5
D.Lgs. 195/2005.
Ne deriva che il ricorso è fondato e deve
essere accolto, con obbligo di ostensione,
mediante visione ed estrazione di copia, dei
suindicati documenti, oggetto dell'istanza
di accesso, in capo ad ARPA Lazio, entro il
termine di 30 giorni, decorrente dalla
comunicazione in via amministrativa o, se
anteriore, dalla notificazione della
presente sentenza. |
CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha condivisibilmente negato la natura di costruzione all’ascensore realizzato all’esterno di un caseggiato, in quanto l’aggiunta di tale manufatto non avrebbe potuto essere ammessa dalla conformazione della tromba delle scale o degli altri ambienti interni.
Tale orientamento è giunto all’esito di una riflessione che ha portato a delineare la nozione di volume tecnico come quell'opera edilizia priva di alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, che viene destinata a contenere gli impianti serventi di una costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali della costruzione medesima. Si tratta di quegli impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che tuttavia non possono essere ubicati all'interno di questa, come quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore.
La nozione così introdotta è derivata appunto dalla consapevolezza maturata in giurisprudenza relativamente al significato della proprietà, soprattutto condominiale, in una società che è mutata anche anagraficamente, e che considera l’ascensore come un bene indispensabile non solo alla vita delle persone con problemi di deambulazione, ma anche di coloro che trovano sempre più difficoltoso salire e scendere i numerosi piani di scale che li separano dalle vie pubbliche (nel caso in questione sino a quattro livelli sopra quello terreno).
---------------
Nel
conflitto tra le esigenze dei condòmini disabili abitanti ad un piano alto e quelle degli altri partecipanti al condominio, per i quali il pregiudizio derivante dall'installazione di ascensore si risolverebbe non già nella totale impossibilità di un ordinario uso della scala comune ma soltanto in disagio e scomodità derivanti dalla relativa restrizione e nella difficoltà di usi eccezionali della stessa, vanno privilegiate le prime, adottando una soluzione conforme ai principi costituzionali della tutela della salute (art. 32) e della funzione sociale della proprietà (art. 42), rimuovendo un grave ostacolo alla fruizione di un primario bene della vita, quello dell'abitazione, da parte di persone versanti in condizioni di minorazione fisica e riconoscendo la facoltà, agli stessi, di apportare a proprie spese una modifica alla cosa comune, sostanzialmente e nel complesso migliorativa, in quanto suscettibile di utilizzazione anche da parte degli altri condomini.
--------------- ... per l'annullamento provvedimento n. 8806/2014 avente ad oggetto istanza per realizzazione ascensore per abbattimento barriere architettoniche con richiesta di immediata sospensione dei lavori. ...
Con il ricorso introduttivo del giudizio il
condominio odierno ricorrente e altri
proprietari impugnavano gli atti di cui in
epigrafe, contenenti le note comunali che
hanno escluso un intervento inibitorio dei
lavori assentiti di realizzazione di un
ascensore esterno inteso a superare le
barriere architettoniche di accesso, nonché il
relativo assenso paesaggistico.
Nel ricostruire in fatto e in diritto la
vicenda, all'atto impugnato si muovevano
pertanto le seguenti censure:
- in tema di edilizia, violazione degli artt. 3 l. 241/1990 e 37 tu
edilizia, 6 d.l. 138/2011, eccesso di potere
per difetto di motivazione e di istruttoria,
per mancato esame delle diffide di parte
ricorrente;
- violazione degli artt. 97 Cost., 10, 11 e 27 tu edilizia, 2 ss.
l. 13/1989, 1120 s. c.c., eccesso di potere
sotto diversi profili, per assenza di
legittimazione a richiedere tale tipologia di
intervento;
- in tema di paesaggio, violazione degli artt. 136 e 146 d.lgs.
42/2004 e diversi profili di eccesso di
potere, basandosi l’assenso paesaggistico su
di un presupposto errato quale la pretesa
invisibilità da visuali prospettiche
pubbliche.
Parte controinteressata si costituiva in
giudizio e, controdeducendo punto per punto,
concludeva per la declaratoria di tardività e
per il rigetto del gravame. Il Comune intimato
non si costituiva in giudizio.
... Peraltro, il ricorso appare comunque infondato nel merito, anche in relazione ai dedotti profili edilizi, in specie alla luce della recente giurisprudenza fatta propria dalla Sezione rispetto alla quale, anche per esigenze di certezza del diritto, non sussistono ragioni di mutamento. In analoga fattispecie (cfr. sent. 1002/2015), è stato evidenziato che “la giurisprudenza (Cass. n. 2566/2011 e CdS n. 6253/2012) ha condivisibilmente negato la natura di costruzione all’ascensore realizzato all’esterno di un caseggiato, in quanto l’aggiunta di tale manufatto non avrebbe potuto essere ammessa dalla conformazione della tromba delle scale o degli altri ambienti interni. Tale orientamento è giunto all’esito di una riflessione che ha portato a delineare la nozione di volume tecnico come quell'opera edilizia priva di alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, che viene destinata a contenere gli impianti serventi di una costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali della costruzione medesima. Si tratta di quegli impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che tuttavia non possono essere ubicati all'interno di questa, come quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore. La nozione così introdotta è derivata appunto dalla consapevolezza maturata in giurisprudenza relativamente al significato della proprietà, soprattutto condominiale, in una società che è mutata anche anagraficamente, e che considera l’ascensore come un bene indispensabile non solo alla vita delle persone con problemi di deambulazione, ma anche di coloro che trovano sempre più difficoltoso salire e scendere i numerosi piani di scale che li separano dalle vie pubbliche (nel caso in questione sino a quattro livelli sopra quello terreno)". Sulla scorta di tale orientamento, appaiono prima facie infondati i rilievi dedotti. Sia il
primo motivo, avendo in ogni caso parte ricorrente formulato le proprie osservazioni, oggetto di valutazione negativa in sede di risposta.
In proposito, va fatto ulteriore riferimento a quell’orientamento prevalente a mente del quale l'obbligo dell'Amministrazione di prendere in considerazione gli scritti defensionali di parte nell'ambito del procedimento amministrativo, non si traduce in puntuale confutazione della mera rimostranza negativa, essendo sufficiente la completezza motivazionale dell'atto complessivamente valutato, allorché da esso possano agevolmente e unicamente desumersi comunque le ragioni giuridiche ed i presupposti di fatto posti a base della decisione. Sia il
secondo motivo, con cui vengono dedotti rilievi di carattere parzialmente civilistico.
In proposito, per un verso va ulteriormente richiamata la giurisprudenza civile predetta, a mente della quale nel conflitto tra le esigenze dei condòmini disabili abitanti ad un piano alto e quelle degli altri partecipanti al condominio, per i quali il pregiudizio derivante dall'installazione di ascensore si risolverebbe non già nella totale impossibilità di un ordinario uso della scala comune ma soltanto in disagio e scomodità derivanti dalla relativa restrizione e nella difficoltà di usi eccezionali della stessa, vanno privilegiate le prime, adottando una soluzione conforme ai principi costituzionali della tutela della salute (art. 32) e della funzione sociale della proprietà (art. 42), rimuovendo un grave ostacolo alla fruizione di un primario bene della vita, quello dell'abitazione, da parte di persone versanti in condizioni di minorazione fisica e riconoscendo la facoltà, agli stessi, di apportare a proprie spese una modifica alla cosa comune, sostanzialmente e nel complesso migliorativa, in quanto suscettibile di utilizzazione anche da parte degli altri condomini. Nella specie parte ricorrente, nei limiti di sindacato propri della presente sede di legittimità, non ha fornito elementi tali da integrare la violazione dell’uso della cosa comune che va garantito a tutti, invocando questioni tipiche di una controversia civilistica. Sul restante versante, amministrativo, le censure appaiono generiche –costituenti in prevalenza in un collage di massime giurisprudenziali privo di un concreto riferimento alla fattispecie in esame- e non tali da scalfire i principi di recente espressi dalla sezione (TAR Liguria, Sez. II,
sentenza 29.01.2016 n. 97 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
marzo 2016 |
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CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Niente dehors per il bar senza sì del condominio.
Addio dehors per il bar se il titolare non ha fatto i conti
con il condominio prima di rivolgersi al comune per il
permesso. Stop all'autorizzazione unica concessa
all'esercizio pubblico dallo sportello attività produttive
dell'ente locale: la struttura a padiglione, infatti, va
considerata aderente alla facciata dello stabile e dunque
non può essere installata su una parete dell'edificio senza
prima ottenere il nulla osta di tutti coloro che risultano
proprietari del muro perimetrale.
È quanto emerge dalla
sentenza 04.03.2016 n. 379, pubblicata dalla
II Sez. del TAR
Toscana.
È proprio il regolamento comunale a imporre il
previo nulla osta dei proprietari o dell'amministratore
dell'edificio quando si verifica il «contatto-aderenza» con
la superficie esterna di un fabbricato: sbaglia dunque
l'amministrazione laddove interpreta le norme ritenendo
necessaria l'autorizzazione preventiva solo se i tiranti
della struttura a padiglione devono essere agganciati alla
parete.
Al comune non resta che pagare le spese di giudizio
(articolo ItaliaOggi Sette del 09.05.2016). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Per il dehors serve il sì del condominio. Poteri
di veto. I proprietari devono dare il consenso alla
realizzazione del manufatto in aderenza alla facciata.
Il conduttore di un immobile destinato ad uso birreria che
intende realizzare nell’area antistante il locale un dehors
che verrà montato solo in aderenza alla facciata non può
essere autorizzato dal comune a realizzare l’opera se non
dimostra di aver ottenuto il consenso della collettività
condominiale.
È questo il
principio affermato dal TAR Toscana -Sez. II- nella
sentenza 04.03.2016 n. 379.
La vicenda prendeva l’avvio quando il titolare di un locale
birreria, facente parte di un caseggiato, decideva di
realizzare, nello spazio antistante il locale condotto in
locazione, un dehors temporaneo con possibilità di
chiusura stagionale in cui installare tavoli, sedie.
Il progetto definitivo prevedeva che la struttura portante
del dehors non fosse ancorata alla parete
condominiale, ma fosse realizzata soltanto in aderenza del
muro perimetrale con montanti verticali in acciaio
indipendenti.
L’opera, quindi, veniva autorizzata, ma una condòmina
richiedeva al comune l’annullamento in via di autotutela del
provvedimento autorizzatorio, per la mancanza di nulla osta
da parte del condominio. La richiesta veniva respinta, anche
perché tutti gli altri condomini (compreso il proprietario
del locale-birreria) con apposita comunicazione, avevano
confermato l’autorizzazione ad occupare l’area privata
antistante il pubblico esercizio.
La questione, poi, è stata sottoposta all’attenzione del Tar
che ha dato torto al titolare della birreria, rilevando che
la domanda volta ad ottenere la concessione e/o
l’autorizzazione per la costruzione di spazi di ristoro
all’aperto annessi a locali di pubblico esercizio, con
occupazione di tutta l’area esterna condominiale, richiede
il consenso degli altri condòmini (inclusa la ricorrente che
non ha mai prestato il suo assenso), anche nel caso in cui
la struttura venga posta solo a contatto dell’edificio.
A diversa conclusione si potrebbe arrivare, però, se il
dehors fosse realizzato con le stesse modalità ma con
occupazione parziale del cortile: in tal caso, infatti, se
si considera che i rapporti condominiali richiedono il
continuo rispetto del principio di solidarietà, il quale
richiede un costante equilibrio fra le esigenze e gli
interessi di tutti i partecipanti alla comunione, qualora
sia prevedibile (come nel caso in questione) che gli altri
partecipanti alla comunione non possano fare un pari uso
della cosa comune, la modifica apportata alla stessa dal
condomino potrebbe ritenersi legittima
(articolo
Il Sole 24 Ore del 19.04.2016).
---------------
MASSIMA
... per l'annullamento:
- del provvedimento Autorizzativo Unico n. 152 del
29.07.2013 con cui il Dirigente del Settore Urbanistica e
Suap ha autorizzato il Sig. Er.Si., nella sua qualità di
legale rappresentante dell’impresa “Pi. Bar di Er.Si. & C.
<<ad occupare l’area privata antistante il pubblico
esercizio denominato “Bar Lume” posto in via Rinchiosa,
angolo Via Garibaldi al fine di poter installare tavoli,
sedie e strutture a padiglione con temporanea possibilità di
chiusura stagionale […]>>, nonché degli atti connessi,
presupposti e conseguenti nonché per il risarcimento:
- dei danni subiti e subendi dalla ricorrente per effetto
degli illegittimi provvedimenti impugnati;
...
2. Il primo motivo del ricorso introduttivo del presente
giudizio è fondato.
La circostanza,
infatti, che “la struttura portante del
dehors da installare non verrà agganciata alla parete
condominiale, ma sostenuta da montanti verticali in acciaio
indipendenti”,
come si legge nel provvedimento autorizzativo impugnato,
non esonerava dalla necessità di ottenere il previo
consenso da parte dei proprietari della facciata medesima.
A riguardo va rilevato come sia incontestato che il progetto
per la realizzazione del dehors di cui si discute sia
quello graficamente rappresentato nel documento prodotto
dalla ricorrente come all. 18, consegnato al Comune
nell’aprile del 2013, nel quale si trova espressamente
scritto “Dehors distaccato 1 cm dalla facciata con
struttura indipendente”.
Ora, l’Allegato L del Regolamento edilizio comunale al punto
2.8 prevede, con riferimento alle “strutture a padiglione
temporanee con possibilità di chiusura stagionale”, il
generale divieto di ogni infissione al suolo e alla parete
dell’edificio di pertinenza.
Tuttavia, il quarto comma del citato punto 2.8 stabilisce
che “nel caso di presenza di marciapiede
sopraelevato di larghezza tale da consentire la coesistenza
del manufatto e del percorso pedonale, il manufatto stesso
può essere collocato in aderenza alla facciata a condizione
che venga comunque garantita una striscia libera di almeno 2
metri di larghezza a partire dal filo esterno del
marciapiede”.
Ed è questa la fattispecie in cui rientra, secondo il
progetto di cui si è detto, la struttura per cui è causa,
per la quale, dunque, viene consentita la collocazione in
aderenza alla facciata, mentre rimane vietata ogni
infissione alla stessa.
Inoltre, il citato Allegato L del Regolamento edilizio
comunale al punto 1.2 lett. c richiede in via generale, per
tutte le domande volte ad ottenere la concessione e/o
l’autorizzazione per la costruzione di spazi di ristoro
all’aperto annessi a locali di pubblico esercizio di
somministrazione, il “nulla-osta del proprietario o
dell’amministratore dell’immobile qualora la struttura venga
posta a contatto dell’edificio”; ciò in piena coerenza
con la disciplina del condominio negli edifici (artt. 1117 e
ss. cod. civ.).
Ne discende che, oltre al divieto di
infissione-aggancio alla parete condominiale, viene
stabilito altresì che il contatto-aderenza –essendo i due
termini sinonimi– dell’edificio richiede il previo
nulla-osta dei proprietari o dell’amministratore
dell’immobile.
Ciò significa che
l’amministrazione non avrebbe dovuto ridurre la questione di
cui si controverte all’esistenza o meno dell’”aggancio”
alla parete, ma avrebbe dovuto prendere in considerazione la
specifica disciplina regolamentare del “contatto-aderenza”
con l’edificio per dedurne la necessità del suddetto
nulla-osta dei proprietari.
E’ evidente, infatti, che la progettata
struttura, proprio in quanto distaccata di un solo
centimetro dalla facciata, non può non essere considerata
come aderente alla facciata stessa, con la conseguenza che
la sua collocazione richiedeva il previo nulla-osta di tutti
i proprietari della medesima, in quanto muro perimetrale
condominiale ai sensi dell’art. 1117 cod. cic., ivi incluso
quello della ricorrente che non risulta, invece, aver mai
prestato il suo assenso a tal fine. |
febbraio 2016 |
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AMBIENTE-ECOLOGIA -
CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Fogne, allaccio senza permessi.
Tar Campania. Non serve l’autorizzazione del condominio.
L’ente locale
non deve acquisire l’assenso del condominio o degli altri condòmini, se l’opera che il singolo vuole realizzare
riguarda parti comuni dell’edificio strettamente
pertinenziali alla propria unità immobiliare. Tali opere,
del resto, rientrano negli interventi che il condòmino,
titolare del provvedimento abilitativo, ha piena facoltà di
eseguire.
Lo puntualizza il
TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, con la
sentenza 26.02.2016 n. 1077.
Apre il caso, il proprietario di un appartamento che –comunicata al Comune l’intenzione di voler effettuare
interventi di ordinaria manutenzione relativi alla
ritinteggiatura, sostituzione e riparazione dei rivestimenti
di cucina e bagno, con sostituzione degli igienici–
collegava, in realtà, l’impianto igienico-sanitario al
sottoservizio fognario nel cortile condominiale. Di qui, il
provvedimento comunale di sospensione dei lavori e
ripristino dello stato dei luoghi, seguito dall’ordine di
sgombero.
Provvedimenti impugnati dal condòmino in quanto l’intervento
consiste nella posa di una tubatura in Pvc per collegare un
impianto igienico alla rete fognaria preesistente senza
l’esecuzione di opere murarie, e in quanto tale non è
soggetto al regime della Dia, rientrando nell’attività
libera edilizia che non necessita di alcun titolo
abilitativo.
Ricorso accolto.
Il provvedimento gravato –afferma il
Tribunale– è illegittimo. La posa in opera della conduttura
in Pvc per il collegamento di un impianto igienico alla rete
fognante rientra nell’ambito dell’attività libera di cui
all’articolo 6 del Dpr 380/2001.
E dato che ai sensi
dell’articolo 3, comma 1, lettera b), della stessa norma si
trattava di manutenzione straordinaria, che non aveva inciso
su parti strutturali dell’edificio, né comportato l’aumento
delle unità immobiliari o l’incremento dei parametri
urbanistici, l’opera non necessitava di Dia.
Irrilevante, anche la critica mossa dal Comune circa
l’assenza di previa autorizzazione degli altri condòmini.
Consenso che, concludono i giudici amministrativi, non
occorreva: «esclusa la necessità di un titolo abilitativo
edilizio, l’indispensabilità del consenso dei condòmini per
la realizzazione dell’opera diviene una questione relativa
all’esercizio del diritto di proprietà o, comunque, inerente
ai rapporti civilistici tra condòmini» (articolo Il Sole 24 Ore del 23.08.2016).
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MASSIMA
La posa in opera della conduttura in
PVC per il collegamento di un impianto igienico alla rete
fognante rientra nell’ambito dell’attività libera ex art. 6
D.P.R. n. 380/2001.
Ai sensi dell'articolo 3, comma 1, lettera b), di
quest’ultimo D.P.R., sono ricomprese nella categoria degli
interventi di manutenzione straordinaria “le
opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire
parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare
ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici,
sempre che non alterino i volumi e le superfici delle
singole unità immobiliari e non comportino modifiche delle
destinazioni di uso”.
L’opera posta in essere rientra in
quest’ultima categoria. La stessa è, infatti, volta a
realizzare o integrare i servizi igienico-sanitari e non ha
alterato volumi o superfici.
Il citato art. 6 del D.P.R. n. 380/2001, nel testo vigente
ratione temporis, prevedeva che potessero essere
eseguiti senza alcun titolo abilitativo “gli interventi
di manutenzione straordinaria di cui all'articolo 3, comma
1, lettera b), ivi compresa l'apertura di porte interne o lo
spostamento di pareti interne, sempre che non riguardino le
parti strutturali dell'edificio, non comportino aumento del
numero delle unità immobiliari e non implichino incremento
dei parametri urbanistici”.
Nel caso di specie l’intervento non riguarda parti
strutturali dell'edificio, né comporta aumento del numero
delle unità immobiliari o incremento dei parametri
urbanistici.
L’opera in esame non necessitava, pertanto,
della D.I.A., e risulta, pertanto, illegittima la sanzione
comminata ex art. 37 D.P.R. n. 380/2001, riservata
all’omissione di tale titolo edilizio.
Inoltre, il Collegio rileva per completezza come, in ogni
caso, l’omissione della D.I.A. avrebbe potuto comportare
l’applicazione della sanzione pecuniaria ma non di quella
ripristinatoria adottata invece dal Comune, peraltro
sommandola a quella pecuniaria.
Fermo quanto indicato, si rileva ancora
come da accogliere risulti anche la censura relativa alla
mancanza della necessità del consenso di tutti i condomini
per l’esecuzione dell’opera.
Ciò in primo luogo perché, una volta esclusa la necessità di
un titolo abilitativo edilizio,
l’indispensabilità del consenso dei condomini per la
realizzazione dell’opera diviene una questione relativa
all’esercizio del diritto di proprietà o, comunque, inerente
ai rapporti civilistici tra condomini.
L’eventuale necessità del consenso, e la
pretesa alla stessa connessa, sarà quindi nel caso
tutelabile ad opera degli interessati dinanzi alla
competente autorità giudiziaria ordinaria, ma non riguarderà
l’esercizio del potere autorizzatorio o sanzionatorio del
Comune in materia di governo del territorio e, in
particolare, in materia urbanistica ed edilizia.
Il Collegio, inoltre, ritiene di poter applicare quella
giurisprudenza amministrativa secondo cui,
in caso di realizzazione di un'opera da parte di un singolo
sulle parti comuni dell'edificio, ma strettamente
pertinenziale alla propria unità immobiliare, l'ente locale
non è tenuto a richiedere il previo assenso del condominio
interessato, ovvero degli altri condomini
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, Sent., 28.02.2011, n. 367),
assumendosi che il singolo condomino ha facoltà di
eseguire opere che, ancorché incidano su parti comuni
dell'edificio, siano strettamente pertinenti alla sua unità
immobiliare, sotto i profili funzionale e spaziale, con la
conseguenza che egli va considerato come soggetto avente
titolo per ottenere il provvedimento abilitativo e che il
mancato assenso del condominio concerne esclusivamente
tematiche privatistiche, cui resta estranea
l'amministrazione
(Cons. Stato Sez. VI, 09.02.2009, n. 717).
Il suddetto principio costituisce evidentemente applicazione
della norma contenuta nell'articolo 1102 c.c., in base al
quale "ciascun partecipante può servirsi
della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e
non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso
secondo il loro diritto".
Il ricorso principale va quindi accolto. |
CONDOMINIO:
Amministratori senza incarico. Se manca la
delibera, la nomina può essere tacita.
La Cassazione sulla gestione di fatto del condominio e
sulla durata del mandato.
Per amministrare un condominio non occorre necessariamente
un incarico formale. Ove, infatti, manchi la delibera
assembleare di nomina dell'amministratore (e, quindi, anche
l'annotazione delle generalità del medesimo nello speciale
registro di cui all'art. 1130, comma 1, n. 7, c.c.), lo
stesso può considerarsi in carica per tacito rinnovo del
mandato, ove risulti un comportamento concludente da parte
dei condomini, che lo abbiano considerato tale a tutti gli
effetti, rivolgendosi abitualmente al medesimo in detta
veste e senza mai metterne in discussione i poteri di
gestione e la rappresentanza del condominio.
Questo il principio che emerge dalla
sentenza 04.02.2016 n. 2242 della II Sez. civile
della Corte di Cassazione.
La decisione in questione arriva tra l'altro proprio nel
momento in cui più ferve il dibattito sulla durata del
mandato dell'amministratore condominiale a seguito della
nuova disposizione introdotta dalla legge n. 220/2012 di
riforma del condominio (si veda ItaliaOggi Sette dell'08.02.2016) e potrebbe aggiungere ulteriori elementi di
riflessione.
Il caso concreto.
Nella specie un condominio aveva presentato opposizione nei
confronti del decreto ingiuntivo ottenuto nei suoi confronti
dal condominio per il mancato pagamento dei relativi oneri.
L'opposizione era stata respinta e il condomino aveva allora
impugnato la sentenza dinanzi alla Corte di appello,
contestando in via pregiudiziale, per la prima volta, il
difetto di legittimazione attiva del condominio, poiché la
procura rilasciata in relazione al procedimento monitorio
era stata rilasciata da un soggetto che non risultava essere
formalmente l'amministratore.
I giudici di secondo grado
avevano però evidenziato come l'eccezione in questione fosse
tardiva, non essendo stata proposta nel giudizio di prime
cure, e comunque infondata nel merito, in quanto nel corso
del procedimento era emerso che il soggetto di cui si
contestava la qualifica di amministratore avesse svolto
varie attività in rappresentanza del condominio, per esempio
partecipando alle assemblee per l'approvazione del riparto
delle spese e inviando la diffida di pagamento al condomino
opponente. Anche l'appello era stato dunque rigettato e il
condomino aveva allora deciso di ricorrere in Cassazione.
La decisione della Suprema corte.
Anche la Cassazione ha però rigettato l'eccezione
pregiudiziale in questione, chiarendo meglio i contorni
della questione ed esprimendo interessanti considerazioni in
tema di nomina dell'amministratore condominiale.
I giudici di legittimità hanno in primo luogo chiarito come
l'eccezione in questione non riguardasse propriamente il
difetto di legittimazione attiva del condominio, quanto
piuttosto il preteso difetto del potere di rappresentanza di
quest'ultimo in capo al soggetto che aveva fornito il
mandato al legale incaricato di richiedere l'emissione del
decreto ingiuntivo per il mancato pagamento delle spese
comuni.
La seconda sezione civile della Cassazione, nel fare proprie
le conclusioni alle quali erano pervenuti i giudici di
merito, ha quindi evidenziato come alla nomina
dell'amministratore, giusto il rapporto contrattuale di
mandato che regolamenta i rapporti di quest'ultimo con la
compagine condominiale, sia applicabile l'art. 1392 c.c.,
che disciplina i requisiti di forma della procura, ovvero
dell'atto con cui un soggetto conferisce a un terzo il
potere di compiere atti giuridici in nome proprio e dal
quale sorge il diritto di rappresentanza.
Detta disposizione codicistica prevede che la procura sia efficace soltanto
laddove abbia la forma prescritta per l'atto che il
procuratore (rappresentante) è chiamato a concludere. Ne
discende, quindi, che la stessa deve avere necessariamente
forma scritta soltanto laddove l'atto da compiere necessiti
a sua volta, per esplicare i propri effetti, della medesima
forma. In caso contrario la procura potrà anche essere
verbale o tacita, ovvero desunta da comportamenti
concludenti.
Sulla base di questa disposizione i giudici di legittimità
hanno quindi concluso che la nomina dell'amministratore,
anche in mancanza di una specifica delibera assembleare (e
della conseguente annotazione delle generalità del medesimo
nello speciale registro di cui all'art. 1130, comma 1, n. 7,
c.c.), possa desumersi dal comportamento concludente dei
condomini che abbiano considerato una data persona quale
amministratore condominiale, rivolgendosi abitualmente a
questa per il disbrigo delle varie questioni legate alla
gestione del condominio, senza mai metterne in discussione i
relativi poteri e la rappresentanza.
Si tratta, a ben vedere, del riconoscimento della figura
dell'amministratore condominiale di fatto, figura
generalmente ritenuta non configurabile dalla dottrina. A
maggior ragione dopo la riforma del 2012, che ha preteso una
maggiore formalizzazione del rapporto tra amministratore e
condomini, sia prevedendo una sorta di accettazione della
nomina assembleare, sia richiedendo come obbligatorio, a
pena di nullità della delibera, la presentazione di un
preventivo relativo al compenso richiesto, sia ammettendo
che la nomina possa essere subordinata dall'assemblea alla
stipula di una polizza assicurativa per la responsabilità
civile, sia ancora indicando una serie di requisiti
necessari per tale nomina, la verifica dei quali è
nuovamente lasciata all'assemblea. Questi e ulteriori
adempimenti connessi alla designazione dell'amministratore
sembrano infatti difficilmente conciliabili con una nomina
tacita.
La questione della durata del mandato
dell'amministratore condominiale.
La posizione espressa dalla Suprema corte sulle modalità di
nomina dell'amministratore potrebbe quindi incidere anche
sul dibattito in corso relativamente alla durata
dell'incarico, alle modalità del suo rinnovo e alla
permanenza dell'istituto della c.d. prorogatio.
Non è chiaro, infatti, quale sia la durata del mandato
dell'amministratore condominiale. Il vecchio art. 1129 c.c.
si limitava a stabilire che quest'ultimo restasse in carica
per un anno. Si riteneva, quindi, per il combinato disposto
di cui agli artt. 66 disp. att. c.c. e 1135 c.c., che lo
stesso dovesse sempre ottenere la conferma dell'incarico
annuale da parte dell'assemblea (con le stesse maggioranze
previste per la prima nomina, salvo qualche isolata
decisione di merito di segno contrario), ossia una nuova
nomina della durata di un anno. Nel caso in cui non fosse
stata raggiunta la necessaria maggioranza, si ricorreva
quindi generalmente all'applicazione analogica dell'istituto
della c.d. prorogatio, in base al quale l'amministratore era
temporaneamente legittimato a curare gli interessi del
condominio in attesa della decisione assembleare sulla
conferma del suo incarico o sulla nomina di un nuovo
mandatario.
Con il nuovo art. 1129, comma 10, c.c., il legislatore ha
quindi confermato che la durata dell'incarico
dell'amministratore è annuale, ma ha altresì sibillinamente
aggiunto che il relativo incarico si intende rinnovato per
eguale durata. Di qui l'incertezza interpretativa sulla
reale durata del mandato. Il dibattito si è quindi
incentrato da una parte sul funzionamento di detto
meccanismo di rinnovo automatico ex lege e, dall'altra,
sulla necessità o meno di inserire all'ordine del giorno
dell'assemblea la questione della nomina/conferma
dell'amministratore.
Sul primo tema vi è chi sostiene la tesi
dell'indeterminatezza temporale di tale meccanismo di
rinnovo, nel senso che il mandato continuerebbe tacitamente
anno dopo anno, salvo che ne intervenga la revoca. Un altro
orientamento, recentemente fatto proprio dai tribunali di
Milano e Cassino, ritiene invece che il rinnovo automatico
valga soltanto per il primo biennio di durata in carica
dell'amministratore.
Il secondo aspetto sul quale si è acceso il dibattito è
stato quindi quello relativo all'obbligo di continuare a
indicare tra le questioni all'ordine del giorno
dell'assemblea ordinaria quella relativa alla
conferma/revoca dell'amministratore. I menzionati precedenti
giudiziali di Milano e Cassino hanno infatti avallato la
prassi di non indicare più tale questione all'ordine del
giorno, anche se soltanto per il primo rinnovo biennale.
Detta omissione da parte dell'amministratore è infatti stata
giudicata conforme alla nuova disciplina condominiale,
secondo la quale la durata annuale dell'incarico è
tacitamente prorogabile per un altro anno, salvo delibera di
revoca assunta dall'assemblea
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.04.2016). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Aree
vincolate a parcheggio, chiarimenti sul calcolo delle
superfici. Cassazione: misura non inferiore ad un metro
quadrato per ogni dieci metri cubi di costruzione.
Dal vincolo di destinazione degli spazi
a parcheggio sorge un automatico diritto reale d'uso in capo
all'acquirente delle unità immobiliari interne all'edificio,
restando nulla ogni clausola contraria.
Lo ha confermato la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con
la
sentenza 04.02.2016 n. 2236.
La suprema Corte ricorda che il vincolo di destinazione è
inderogabile, ma opera in favore della indifferenziata
comunità dei condòmini, tanto che, se per l'attuazione di
esso è necessario identificare la superficie da assoggettare
all'uso normativamente previsto, secondo le misure ("non
inferiore ad un metro quadrato per ogni metro cubo di
costruzione") dalla stessa norma stabilite, il
condominio, in assenza di relativa previsione o nell'atto
concessorio, o nel regolamento condominiale, o negli atti d
acquisto dei singoli appartamenti, deve chiedere al giudice
tale identificazione, e pertanto non può ex se, con
delibera, costituire il vincolo pubblicistico di
destinazione predetta, scegliendo l'ubicazione degli
appositi spazi su più ampia area del costruttore-venditore.
Peraltro, qualora ad attivarsi non sia il condominio o un
gruppo di condòmini, anche un singolo condòmino può farlo.
UN METRO QUADRATO PER OGNI DIECI METRI CUBI
DI COSTRUZIONE. La
Cassazione rammenta inoltre che la legge urbanistica -art.
41-sexies Legge 1150/1942- conteneva all'epoca la previsione
in base alla quale "nelle nuove costruzioni ed anche
nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono
essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non
inferiore ad un metro quadrato per ogni venti
(successivamente ex art. 2 l. n. 122 del 1989: dieci) metri
cubi di costruzione".
La Corte di legittimità precisa che la nozione di
costruzione, che è diversa da quella di volume o volumetria,
suscettibile di margini di opinabilità, implica
indefettibilmente il riferimento anche ai muri esterni,
giacché non può concepirsi costruzione senza i muri
perimetrali che la delimitano (commento tratto da
www.casaeclima.com).
---------------
2) Con i primi due motivi di ricorso viene denunciata
violazione e falsa applicazione degli artt. 18 L. 765/1967
(cd L. ponte), 26 L. 47/1985 e art. 818 cc e dell'art. 12
della legge 246/2005.
Parte ricorrente realisticamente ammette che la Corte di
appello ha applicato un orientamento della giurisprudenza di
legittimità secondo cui dal vincolo di
destinazione degli spazi a parcheggio sorge un automatico
diritto reale d'uso in capo all'acquirente delle unità
immobiliari interne all'edificio, restando nulla ogni
clausola contraria.
In forza di tali principi (riassunti da Cass. 23845/2013; v.
poi esemplificativamente 4733/2015) il
vincolo di destinazione è inderogabile, ma opera in favore
della indifferenziata comunità dei condòmini, tanto che,
come è noto, se per l'attuazione di esso è necessario
identificare la superficie da assoggettare all'uso
normativamente previsto, secondo le misure ("non
inferiore ad un metro quadrato per ogni metro cubo di
costruzione") dalla stessa norma stabilite, il
condominio, in assenza di relativa previsione o nell'atto
concessorio, o nel regolamento condominiale, o negli atti d
acquisto dei singoli appartamenti, deve chiedere al giudice
tale identificazione, e pertanto non può, ex se, con
delibera, costituire il vincolo pubblicistico di
destinazione predetta, scegliendo l'ubicazione degli
appositi spazi su più ampia area del costruttore-venditore
(Cass. 7474/1997).
Peraltro, qualora ad attivarsi non sia il condominio o un
gruppo di condòmini, anche un singolo condòmino può farlo.
2.1) Parte ricorrente, dopo un'ampia ricostruzione, chiede
alla Corte di Cassazione (cfr. pag. 23 in principio) il
mutamento dell'orientamento consolidatosi e attacca la
sentenza sulla base di due preminenti considerazioni:
a) la circostanza che dal regime creato in giurisprudenza,
che può portare alla proprietà comune dell'area (v Cass.
730/2008, ma non è questo il caso), potrebbe derivare un
utilizzo, da parte dei condòmini, in violazione della norma
imperativa, perché essi potrebbero decidere di vendere o
dare in locazione a terzi i posti auto; ovvero un
paradossale non utilizzo, qualora essi, privi di autovetture
lasciassero liberi gli spazi.
b) il contrasto tra il principio della destinazione ad area
di parcheggio indifferenziata e la parte della sentenza in
cui "accerta il diritto d'uso della sig. Ri., sull'area
di parcheggio di 74,88 mq individuata quale integrazione di
quella già destinata allo scopo rispetto ai parametri
normativi".
2.2) La Corte reputa che non vi siano
ragioni per discostarsi dall'orientamento giurisprudenziale
dominante e osserva che gli inconvenienti ipotizzati in
ricorso non siano plausibile chiave per modificare
l'interpretazione da tempo data alla materia.
Il legislatore ha inteso attribuire alla
comunità condominiale la disponibilità di una superficie a
parcheggio stabilita sulla base di una principio di
rilevazione della realtà sociale che non è certo smentito
dall'evoluzione di questi decenni di applicazione della
Legge Ponte, giacché corrisponde a comune esperienza che
quel rapporto volumi/superficie conduce semmai a
insoddisfacente risposta alle esigenze condominiali. Queste
ultime, inoltre, sono quanto mai mutevoli dal punto di vista
soggettivo, cosicché non si può far dipendere da circostanze
casuali il senso del dictum legislativo.
Va escluso inoltre che la sentenza impugnata si sia posta in
contrasto con i principi generali cui si è fatto
riferimento. Ancorché sia vero che al punto 3) del
dispositivo si dica che viene "assegnata in uso" a
Ri.Vi. l'area per parcheggio vetture di 74,88 mq da
staccarsi dalla maggior proprietà del piano cantinato di
Se.Fi., tale disposizione va letta unitamente alla
motivazione e avendo riguardo alla domanda iniziale e al
senso complessivo dei termini usati.
Ora, se si considera:
- che l'attrice chiese (sentenza pag. 5) la "restituzione
a parcheggio condominiale delle aree descritte" e quindi
non un attribuzione in proprietà o in uso personale;
- che la motivazione della sentenza di appello ha
chiaramente parlato di area da restituire alla "sua
destinazione di parcheggio condominiale, con vincolo reale";
- che essa ha stabilito la facoltà del convenuto di
scegliere la porzione di mq 74,88 che avrà la funzione di
assicurare l'effettività della destinazione «a uso di
parcheggio»>;
- che la giurisprudenza di questa Corte (Cass. 1214/2012) ha
già avuto modo di riconoscere che ove l'azione per il
riconoscimento del diritto reale d'uso sia stata proposta da
uno solo dei condomini, il giudice di merito può addirittura
individuare un preciso spazio fisico per la sosta dei
veicoli di proprietà del condòmino istante, senza che di
tale decisione possa dolersi il costruttore del complesso
immobiliare;
- che tutto il giudizio è stato istruito non in vista
esclusiva della realizzazione del diritto del singolo, ma
del rispetto della complessiva proporzione tra volume
edificato e area destinata,
se ne desume che la sentenza di appello abbia solo inteso
riconoscere il diritto condominiale e pronunciato in
dispositivo in favore della istante, solo quale parte che ha
agito per far valere un diritto proprio ma che vanta quale
condòmina, il cui accertamento ridonda a beneficio di tutto
il condominio; grazie al richiamo contenuto in sentenza il
diritto riconosciuto può inoltre essere fatto valere anche
esecutivamente dalla stessa parte attrice direttamente.
Non vi è quindi alcuna contraddizione tra quanto accertato
sulla base della normativa vigente (che regola diritti sorti
all'epoca) e quanto stabilito in dispositivo.
3) Il secondo motivo, come si è accennato, sollecita una
rivisitazione della interpretazione consolidata, nella parte
in cui non adopera l'art. 12 della L. 246/2005, che ha
liberalizzato (secondo parte istante in modo "assoluto")
la commerciabilità degli spazi di parcheggio.
Orbene, è vero che la disposizione di cui
all'art. 12, nono comma, della legge n. 246 del 2005 ha
modificato l'art. 41-sexies della legge n. 1150 del 1942
inserendo un secondo comma all'art. 41-sexies e stabilendo
che gli spazi per parcheggio possono essere trasferiti in
modo autonomo rispetto alle altre unità immobiliari.
Tuttavia rimane insuperabile la lettura datane da Cass.
4264/2006, a mente della quale la nuova norma trova
applicazione soltanto per il futuro, vale a dire per le sole
costruzioni non realizzate o per quelle per le quali, al
momento della sua entrata in vigore, non erano ancora state
stipulate le vendite delle singole unità immobiliari. <<L'efficacia
retroattiva della norma va infatti esclusa, in quanto, da un
lato, non ha natura interpretativa, per mancanza del
presupposto necessario a tal fine, costituito dalla
incertezza applicativa della disciplina anteriore, e,
dall'altro, perché le leggi che modificano il modo di
acquisto dei diritti reali o il contenuto degli stessi non
incidono sulle situazioni maturate prima della loro entrata
in vigore>>.
Nonostante siano trascorsi circa dieci anni da tale lettura,
il legislatore non è intervenuto per modificarla, restando
così rafforzate le rationes decidendi.
4) Il terzo motivo lamenta violazione e falsa applicazione
artt. 978 e 979 c.c. e art. 1026 cc.
La censura contesta la ricostruzione giurisprudenziale del
diritto reale d'uso sulle aree di parcheggio e chiede che
esso sia legato alla vita dell'usufruttuario, restando
altrimenti privo di durata e tale da espropriare il
proprietario costruttore, la proprietà del quale sarebbe
compromessa, in violazione della disciplina costituzionale.
La censura non merita soverchia considerazione, sol che si
consideri che il riconoscimento al
condòmino del diritto reale d'uso costituisce reazione
dell'ordinamento a una scelta, in parte illegittima, del
proprietario costruttore. Questi avrebbe dovuto alienare
l'area di parcheggio insieme alle unità abitative: avendo
voluto riservarsi la proprietà si è volontariamente esposto
alla limitazione posta a suo carico dalla legge urbanistica,
che, nella specie, è stato necessario imporgli per via
giudiziaria.
5) Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione
dell'art. 18 L. 765/1967, art. 26 L. 47/1985 e art. 818 c.c.
- errata determinazione del calcolo dello spazio di
parcheggio ex art. 18.
Parte ricorrente sostiene che la sentenza erroneamente non
ha conteggiato i 32 mq di garage venduti ai signori Ca.-Ca.
e i 49 mq di altro garage rimasto al ricorrente e poi
trasferito a terzi unitamente agli uffici.
Si duole del fatto che la sentenza abbia ritenuto necessario
che gli spazi di parcheggio siano vincolati all'uso diretto
e indifferenziato degli occupanti l'edificio.
Afferma che in tal modo si nega la possibilità di trasferire
con i singoli atti i posti auto agli acquirenti degli
appartamenti, eventualità da ritenere legittima, con
possibilità di libera rivendita.
Il quinto motivo (violazione e falsa applicazione art. 18 L.
765/1967, art. 26 L. 47/1985 e art. 818 cc e vizi di
motivazione) verte sullo stesso punto attaccato nel
precedente e torna a lamentare la contraddizione che sarebbe
insita nell'avere affermato l'uso indifferenziato sulle aree
a parcheggio e nell'avere poi assegnato alla Ricupero i
74,88 mq mancanti (profilo b). In ogni caso vi sarebbe
contraddizione tra detta assegnazione individuale e il non
avere considerato i metri quadrati di area che il
proprietario aveva assegnato a sé e ai Ca.Ca..
Le due doglianze sono destituite di fondamento, in
considerazione di quanto già spiegato sub 2.2).
Invano parte ricorrente fa leva sulla fraseologia usata nel
dispositivo della sentenza. Essa non ha trasferito la
titolarità della proprietà alla Ri. personalmente, come ha
invece fatto il Fi. nel vendere a terzi le due aree che
vorrebbe conteggiare; ha solo riconosciuto l'estendersi del
diritto indifferenziato dei condomini sull'area che era
stata esclusa e ha (con la imprecisa formula "assegna in
uso") riconosciuto all'attrice il potere di far valere
su detta area (che peraltro secondo la Corte d'appello potrà
essere scelta dal convenuto ricorrente) la destinazione a
parcheggio condominiale che era stata chiesta e che è stata
chiaramente sancita in motivazione.
E' implicito nella giurisprudenza
confermata, e invano criticata, che il costruttore non può
far conteggiare nell'area vincolata i parcheggi che
costruisce e aliena liberamente, senza riguardo al vincolo.
Tale regime di libera vendita è compatibile con le
costruzioni post 1967, ma solo quanto alle aree di
parcheggio eccedenti il limite delle aree da sottoporre al
vincolo legale, le quali per essere riconosciute devono
essere identificabili dai singoli atti di vendita.
Per la superficie vincolata ex lege
765/1967 il proprietario, che voglia riservarsi la proprietà
o cederla a terzi
(v. Cass. 11261/2003), deve comunque
salvaguardare con tali atti che sia rispettata la
destinazione di legge, che riserva stabilmente
(come sottolinea la sentenza, pag. 31) i
relativi spazi all'uso delle persone che stabilmente abitano
le singole unità immobiliari del fabbricato,
limite che nel ricorso il Fi. non dichiara e documenta di
aver posto, nei sensi di cui si è prima discusso, ai terzi
da lui aventi causa.
La violazione del vincolo è implicita nella
sua scelta di dividere l'area vincolata più vasta da queste
piccole aree riservate e nel suo intendimento di considerare
queste aree liberamente rivendibili dagli acquirenti.
6) Il sesto motivo denuncia violazione e falsa applicazione
dell'art. 18 L. 765/1967 e dell'art. 9 circolare LLPP n.
3210/1967 nonché vizi di motivazione.
Viene qui riproposta la questione relativa al calcolo della
superficie da destinare a parcheggio e quindi della
correlata cubatura al netto o al lordo dei muri perimetrali
dell'edificio.
Parte ricorrente reputa, citando la circolare ministeriale,
che la cubatura debba essere computata detraendo i muri
perimetrali esterni.
La censura è infondata.
Il testo normativo, che prevale sulle
letture che possono aver fornito datate circolari, anteriori
alla vita dell'istituto e alla sua elaborazione nel mondo
giuridico, depone nel senso voluto dalla sentenza impugnata.
La legge urbanistica (art. 41-sexies Legge 1150/1942)
conteneva all'epoca la previsione in base alla quale "nelle
nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle
costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi spazi
per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato
per ogni venti (successivamente ex art. 2 l. n. 122 del
1989: dieci) metri cubi di costruzione".
La nozione di costruzione, che è diversa da quella di volume
o volumetria, suscettibile di margini di opinabilità,
implica indefettibilmente il riferimento anche ai muri
esterni, giacché non può concepirsi costruzione senza i muri
perimetrali che la delimitano.
La doglianza va quindi respinta.
6.1) Il motivo presenta un altro profilo, concernente la
mancata considerazione, nella superficie a suo tempo
effettivamente vincolata, degli spazi (un'area di 33,22 mq,
ricorso pag. 39) «occupati da "muro di confine",
"marciapiede e gabbia cancello" e "gradini interno cortile"»,
manufatti considerati dalla Corte di appello quali "ostacoli
fissi".
Secondo il ricorrente trattasi invece di spazi funzionali al
parcheggio e come tali da conteggiare.
La questione è posta anche nel settimo motivo, in cui si
deduce che questi ostacoli fissi erano descritti in progetto
ed erano ormai goduti dai condòmini.
Anche questa doglianza merita il rigetto.
Con apprezzamento di merito incensurabile in sede di
legittimità, la Corte di appello ha ritenuto che i manufatti
non fossero da includere nel computo del parcheggio e che
l'area da essi occupata fosse "superficie effettivamente
non disponibile". Invano il ricorso invoca il diverso
parere del consulente sulla loro funzionalità e la
inclusione dei manufatti nel progetto approvato: la
descrizione dei manufatti conforta l'opinione della Corte,
facendola apparire congrua e logica, dunque, si ripete, non
sindacabile dal giudice di legittimità
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 04.02.2016 n. 2236). |
gennaio 2016 |
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CONDOMINIO - VARI:
Il gattaro deve ripulire il terrazzo.
Gli animali domestici che fanno litigare i condomini danno
filo da torcere anche ai comuni. Non saranno
quarantaquattro, ma i gatti del confinante sporcano e fanno
rumore: si tratta di una vera colonia felina che l'amante
degli animali sfama ogni giorno sul terrazzo di casa sua.
Che dopo, però, è un vero e proprio campo di battaglia,
disseminato di piatti di plastica sporchi e altri rifiuti.
Il vicino non ce la fa più e chiama la Municipale: scatta
l'ispezione Asl. Allora il sindaco del comune impone al «gattaro»
di ripulire il terrazzo e far vaccinare e sterilizzare gli
animali. E l'ordinanza è legittima perché l'interessato, pur
non proprietario dei gatti, ne risulta comunque «tenutario»
sulla base della legge 201/2010 sulla tutela degli animali
di compagnia.
Lo stabilisce la
sentenza 12.01.2016 n. 3, pubblicata dal TAR
Sicilia-Catania, III Sez..
Finalità e qualità.
Il gattaro deve ridurre entro il limite di legge il numero
di animali della colonia nel suo terrazzo. Ciò che conta è
il potere di fatto esercitato sui gatti, determinato dalla
volontà dell'uomo di occuparsi degli animali, tanto da dar
loro da mangiare nella sua proprietà, per quanto a
intervalli non regolari.
Non rileva allora la finalità, tanto meno di lucro, del
rapporto con la colonia felina. Fondamentale invece è la
qualità dell'interessato, definito nell'ordinanza sindacale
«tenutario», conformemente alle norme della
Convenzione del Consiglio d'Europa recepita con la legge
201/2010, dove è presente più volte la locuzione «ogni
animale tenuto o destinato a essere tenuto dall'uomo»
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.04.2016). |
anno 2015 |
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dicembre 2015 |
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CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Ascensore, all’esterno meno limiti.
Deroga a distanze e vedute se il manufatto è classificabile
come «volume tecnico».
Barriere architettoniche. Le condizioni della giurisprudenza
amministrativa e di legittimità per superare i vincoli
all’installazione.
Posizionare un ascensore
all’esterno di un edificio può costituire una scelta tecnica
obbligata specie nei centri storici, dove gli immobili più
antichi di solito non consentono di realizzare l’impianto
all’interno del caseggiato. Da questa scelta obbligata
possono però derivare una serie di problematiche,
soprattutto in materia di distanze, di titoli abilitativi e
di autorizzazioni paesaggistiche, che la giurisprudenza ha
risolto in relazione alla natura giuridica del manufatto.
Il volume tecnico
Il TAR Liguria, Sez. I, con la
sentenza 03.12.2015 n. 1002, ha respinto il ricorso con cui un confinante aveva
impugnato il provvedimento comunale che assentiva al
condominio proprietario del palazzo di fronte la
realizzazione di un ascensore esterno. I giudici liguri
hanno affermato la natura di volume tecnico del manufatto e
hanno di conseguenza escluso la violazione delle norme in
tema di vedute e di distanze tra costruzioni (articoli 907 e
873 del Codice civile).
Nella sentenza si ricorda
innanzitutto che per volume tecnico deve intendersi
quell’opera edilizia priva di una autonomia funzionale,
anche potenziale, destinata a contenere gli impianti
serventi di una costruzione principale per soddisfarne le
esigenze tecniche. In questa nozione rientrano anche gli
impianti che non possono essere ubicati all’interno della
costruzione, ma che devono considerarsi necessari per il
pieno utilizzo dell’abitazione, tra cui, appunto,
l’ascensore.
La decisione condivide sul punto l’orientamento già espresso
dalla Cassazione (n. 2566/2011) secondo cui questa nozione
di volume tecnico rispecchia il mutamento anche demografico
della nostra società, che ormai «considera l’ascensore come
un bene indispensabile non solo alla vita delle persone con
problemi di deambulazione, ma anche di coloro che trovano
sempre più difficoltoso salire e scendere i numerosi piani
di scale che li separano dalle vie pubbliche».
Il Tar ha inoltre escluso la violazione dell’articolo 79,
comma 2, del Dpr n. 380/2001, che impone il rispetto delle
distanze anche nel caso di opere finalizzate alla
eliminazione di barriere architettoniche, nell’ipotesi in
cui tra queste ed gli altri fabbricati «non sia interposto
alcuno spazio o alcuna area di proprietà o di uso comune».
Viene richiamata al riguardo la pronuncia del Consiglio di
Stato n. 6253/2012, secondo cui nell’interpretazione di tale
norma va dato rilievo al Dm n. 236/1989, ovvero il
regolamento di attuazione della legge sulle barriere
architettoniche. L’articolo 2 del decreto, infatti,
qualifica come spazio esterno «l’insieme degli spazi aperti,
anche se coperti, di pertinenza dell’edificio o di più
edifici» e come parti comuni dell’edificio «quelle unità
ambientali che servono o che connettono funzionalmente più
unità immobiliari».
Applicando questo criterio interpretativo all’ultima parte
dell’articolo 79, comma 2, appare chiaro che il legislatore,
nel far riferimento a spazi o aree «di proprietà o di uso
comune», ha inteso richiamare non solo il dato giuridico
dell’esistenza di una comproprietà o di una servitù di uso
comune, ma anche il semplice elemento materiale
dell’esistenza di uno spazio comunque denominato, che per le
sue caratteristiche si presti a essere impiegato dai
residenti di entrambi gli immobili confinanti.
Inoltre la
definizione di parte comune non presuppone che le unità
immobiliari siano parte di un medesimo edificio; anzi, dal
combinato disposto con la definizione di spazio esterno si
ricava che uno spazio esterno comune può certamente
interessare anche più edifici.
Il vincolo paesaggistico
Sempre in relazione alla natura di volume tecnico, il Tar
Campania, con la sentenza n. 6431/2014, ha poi ricordato che
in base all’articolo 7, comma 2, della legge n. 13/1989
sull’eliminazione delle barriere architettoniche, gli
ascensori esterni ai manufatti anche se alterano la sagoma
dell’edificio sono soggetti a mera autorizzazione (oggi
sostituita dalla Dia), grazie all’articolo 48 della legge n.
457/1978.
I giudici napoletani hanno anche evidenziato come la stessa
ratio che in materia urbanistica porta a escludere i volumi
tecnici dal calcolo della volumetria edificabile induce
ugualmente a escludere gli stessi dal divieto di rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria.
Dunque per i
giudici gli interventi che abbiano dato luogo alla
realizzazione di soli volumi tecnici, quali gli ascensori,
rientrano nell’eccezione di cui all’articolo 167, comma 4, lettera a), del Codice dei beni culturali (Dlgs n.
42/2004) e sono pertanto suscettibili di accertamento della
compatibilità paesaggistica (anche se, in senso contrario si
è espresso il Consiglio di Stato, sezione IV, con la
sentenza n. 2222 del 29.04.2014).
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In condominio via libera possibile con 500 millesimi.
Gli spazi comuni. I contrari possono non pagare.
L’installazione
di un ascensore in un edificio che ne è sprovvisto
costituisce un’innovazione, quindi in condominio la delibera
deve essere assunta in assemblea con un numero di voti che
rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno 2/3
del valore millesimale dell’edificio (articolo 1136, comma
5, del Codice civile).
È ritenuta una innovazione utile, ma consentita soltanto se
non arrechi pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del
fabbricato, non alteri il decoro architettonico o non renda
talune parti dell’edificio inservibili all’uso o al
godimento anche di un solo condomino, da intendersi come
sensibile menomazione dell’utilità che costui può trarre
dalla cosa comune.
L’uso delle parti comuni
Il concetto di inservibilità della cosa comune non può però
consistere nel semplice disagio subìto rispetto alla sua
nomale utilizzazione, ma è costituito dalla sua concreta
inutilizzabilità secondo la sua naturale fruibilità
(Cassazione, sentenza n. 18334/2012).
La valutazione è senza dubbio più severa nel caso in cui
l’ascensore sia installato all’interno dell’edificio, dove
il sacrificio che subiscono le dimensioni delle scale o
dell’atrio è più sentito. Ma anche quando l’impianto viene
posizionato all’esterno possono insorgere problemi, fermi
restando gli identici presupposti per ritenere legittima
l’opera.
Esiste in ogni caso un “principio di solidarietà
condominiale” che ha un peso nelle decisioni tra vicini di
casa, soprattutto se agevolano chi è disabile oppure
semplicemente anziano.
Il principio è stato recepito, oltre che da consolidata
giurisprudenza (vedi da ultimo Cassazione, n. 16486/2015),
anche dalla riforma del condominio (legge n. 220/2012), che
modificando l’articolo 1120 del Codice civile ha disposto
che le innovazioni dirette ad eliminare le barriere
architettoniche, tra cui appunto l’installazione
dell’ascensore, possono essere deliberate con il voto
favorevole della maggioranza degli intervenuti in assemblea
portatori di almeno la metà del valore millesimale.
La disciplina si applica in via generale a tutti gli
edifici, non necessariamente solo a quelli in cui dimorino
soggetti affetti da menomazioni o limitazioni funzionali
permanenti, perché la norma serve a consentire la
“visitabilità” degli edifici da parte di tutti coloro che
hanno occasione di accedervi, compresi eventuali portatori
di handicap.
Le spese
Si tratta comunque di una innovazione voluttuaria, nel senso
che la decisione della maggioranza non obbliga i contrari a
partecipare alla spesa. Paga solo chi intende usufruire del
servizio.
Nulla vieta ad alcuni condomini di esprimersi favorevolmente
all’installazione e di dichiarare di non volersi
avvantaggiare dell’ascensore, con la conseguenza che coloro
che invece si servono dell’impianto dovranno sopportare
anche la quota di spesa dei condomini non aderenti.
I contrari possono sempre, anche in tempi successivi,
entrare a far parte della comunione, rimborsando le spese
sostenute dai proprietari dell’impianto, versando cioè una
quota comprensiva del costo dell’installazione e della
manutenzione straordinaria eventualmente eseguita nel corso
degli anni: il tutto tenendo magari presente, da un lato, la
svalutazione della moneta nel frattempo intervenuta e,
dall’altro, il minor valore dell’opera per vetustà, uso e
obsolescenza (articolo Il Sole 24 Ore del
18.01.2016). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
L'ascensore è un bene necessario.
L'ascensore esterno all'edificio non è una vera e propria
costruzione: il condominio ben può realizzarlo a meno di tre
metri dal confine con la proprietà del vicino, a patto che
la tromba delle scale sia troppo stretta per ospitare la
cabina. E ciò perché la popolazione italiana invecchia
sempre di più e l'impianto va considerato come un bene
necessario per evitare agli anziani di fare le scale a
piedi.
È quanto emerge dalla
sentenza 03.12.2015 n. 1002, pubblicata dalla I
Sez. del TAR Liguria, la regione del nostro Paese dove la
crescita zero si fa sentire di più.
Il ricorso del confinante è accolto, ma per un vizio
procedurale sul titolo edilizio e non per la lamentata
violazione delle norme sulle distanze fra edifici. Secondo
la giurisprudenza della Cassazione deve essere considerato
ogni opera edilizia priva di alcuna autonomia funzionale,
anche potenziale, che risulta destinata a contenere gli
impianti serventi di una costruzione principale per esigenze
tecnico-funzionali.
Nella categoria rientrano le condotte idriche e termiche che
non è possibile realizzare all'interno dello stabile. E
altrettanto vale per l'ascensore: anche i piccoli spazi
previsti appunto per la salita e la discesa dei passeggeri
non possono far mutare l'opinione in materia.
Insomma: il computo delle distanze tra le proprietà non può
tener conto dell'innovazione rappresentata dalla colonna
dell'ascensore progettato dal condominio. Spese del giudizio
compensate appunto perché il ricorso è in parte respinto
(articolo ItaliaOggi del 12.01.2016).
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MASSIMA
L’ingegner Lu.Be. si ritenne leso dalle
determinazioni indicate nell’epigrafe per il cui
annullamento notificò l’atto 29.07.2015, depositato il
04.08.2015, affidato alle seguenti censure:
-
violazione dell’art. 7 della legge 07.08.1990, n. 241 in tema
di partecipazione, imparzialità, pubblicità e trasparenza
dell’azione amministrativa, eccesso di potere per
contraddittorietà tra provvedimenti, illogicità, erroneità
manifesta, ingiustizia grave e manifesta.
- Violazione dell’art. 3 della legge 07.08.1990, n. 241,
dell’art. 9, comma 1, del dm 1444 del 1968, dell’art. 79 del
dpr 06.06.2001, n. 380, degli artt. 873 e 907 cod. civ.,
eccesso di potere per insufficiente istruttoria e
motivazione, travisamento dei fatti e dei presupposti,
erroneità manifesta.
Si è costituito in causa il condominio di Recco in via
Cavour 52 che ha chiesto respingersi la domanda.
Con atto debitamente notificato è intervenuta in causa la
signora Ch.No. che ha chiesto respingersi la
domanda.
Con atto notificato il 16.10.2015, depositato il 26.10.2015,
il ricorrente ha dedotto il seguente ulteriore motivo:
-
violazione dell’art. 3 della legge 07.08.1990, n. 241,
dell’art. 9, comma 1, del dm 1444 del 1968, dell’art. 79 del
dpr 06.06.2001, n. 380, degli artt. 873 e 907 cod. civ., della
normativa in tema di superamento delle barriere
architettoniche, omessa motivazione, travisamento dei fatti
e degli atti presupposti.
Le parti hanno depositato memorie e documenti.
L’impugnazione è rivolta contro gli atti del comune di Recco
che hanno assentito la realizzazione dell’ascensore con
sporti di uscita sulla facciata a settentrione del
condominio resistente: si tratta di un immobile elevato per
cinque piani fuori terra che dalla documentazione risulta
non avere altre possibilità di installare l’ascensore al
servizio dei suoi abitanti. Il fabbricato di proprietà
dell’interessato è ubicato in posizione retrostante rispetto
al condominio, sì che si pongono questioni soprattutto sulle
distanze tra il bene in progetto e l’abitazione del
ricorrente.
L’amministrazione condominiale presentò perciò la d.i.a. che
preannunciava l’inizio delle opere, il ricorrente intervenne
nel procedimento, ottenne la sospensione dei lavori, la cui
esecuzione è stata invece legittimata dall’impugnata revoca
della citata sospensione.
Con il primo motivo l’interessato denuncia la violazione
procedimentale che vizierebbe la revoca impugnata, in quanto
trattasi di un atto che incide su una pregressa situazione
tutelata, sì che la sua perdita di efficacia può essere
decisa solo previo il rispetto delle garanzie
procedimentali; nella specie tale osservanza non vi sarebbe
stata, posto che l’atto con cui l’amministrazione
preannunciava l’intendimento di revocare la precedente
sospensione dell’efficacia della d.i.a. è stato inviato il
06.05.2015, che tale comunicazione venne ricevuta dall’odierno
ricorrente il 13.05.2015, e che l’atto lesivo è datato
18.05.2013.
Su tali presupposti il collegio deve convenire con la
censura, posto che la revoca della sospensione
dell’efficacia della d.i.a. che era stata decisa informava
favorevolmente la situazione giuridica del ricorrente, sì
che egli avrebbe avuto titolo ad avere per tempo la
comunicazione ed a controdedurre.
Il motivo è pertanto fondato, ma la sua attitudine a
comportare l’annullamento delle determinazioni impugnate
(art. 21-octies della legge 07.08.1990, n. 241) potrà essere
apprezzata all’esito dell’esame degli ulteriori profili
dedotti.
Con la seconda articolata censura il ricorrente lamenta
nell’ordine la violazione:
-
dell’art. 9 del dm 02.04.1968, n. 1444;
-
dell’art. 79 del dpr 06.06.2001, n. 380;
-
degli artt. 873 e 907 del codice civile.
La norma di cui al decreto 1444/1968 sarebbe violata in
quanto non intercorrerebbe il necessario distacco tra la
parete finestrata dell’immobile di proprietà
dell’interessato e la cabina dell’ascensore che è prevista
in vetro con poggioli installati ai diversi piani, così da
permettere il transito degli utenti verso gli appartamenti
posti ai vari livelli.
La violazione denunciata deriverebbe dalla misurazione
operata dal tecnico officiato dal ricorrente, che tuttavia
ha considerato le distanze esistenti tra i due fabbricati
tracciando una linea in diagonale, e con ciò violando le
regole che la condivisa giurisprudenza ha istituito al
riguardo (cass. 25.06.1993, n. 7048, tar Sardegna, 14.05.2014,
n. 335) che ritiene invece illegittimo l’apprezzamento dei
distacchi tra gli edifici avvalendosi del criterio radiale.
Ne consegue che non avendo i due immobili una diretta frontistanza la misura indicata è erronea e non può essere
condivisa.
Con un successivo profilo di impugnazione il ricorrente
lamenta che la cabina dell’ascensore sarà posta a meno di
tre metri dal muro confinario esistente tra le due
proprietà, bene su cui è tra l’altro edificato un parapetto
che consente la vista sul condominio, sì che la nuova
edificazione si porrebbe in violazione degli artt. 873 e 907
cod. civ..
In ordine alla prima delle norme citate si osserva che
la
giurisprudenza (cass.
03.02.2011, n. 2566 e cons. Stato, 6253
del 2012) ha condivisibilmente negato la natura di
costruzione all’ascensore realizzato all’esterno di un
caseggiato, in quanto l’aggiunta di tale manufatto non
avrebbe potuto essere ammessa dalla conformazione della
tromba delle scale o degli altri ambienti interni.
La decisione soprattutto della corte di cassazione è giunta
all’esito di una riflessione che ha portato a delineare la
nozione di volume tecnico come quell'opera edilizia priva di
alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, che viene
destinata a contenere gli impianti serventi di una
costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali della
costruzione medesima. Si tratta di quegli impianti necessari
per l'utilizzo dell'abitazione che tuttavia non possono
essere ubicati all'interno di questa,
come quelli connessi alla condotta idrica, termica o
all'ascensore.
La nozione così introdotta è derivata appunto dalla
consapevolezza maturata in giurisprudenza relativamente al
significato della proprietà, soprattutto condominiale, in
una società che è mutata anche anagraficamente, e che
considera l’ascensore come un bene indispensabile non solo
alla vita delle persone con problemi di deambulazione, ma
anche di coloro che trovano sempre più difficoltoso salire e
scendere i numerosi piani di scale che li separano dalle vie
pubbliche (nel caso in questione sino a quattro livelli
sopra quello terreno).
L’applicazione dei condivisi principi giurisprudenziali al
caso di specie comporta la dichiarazione di infondatezza del
motivo in esame, posto che il computo delle distanze tra le
proprietà non può tener conto dell’innovazione rappresentata
dalla colonna dell’ascensore in progetto, non dovendosi
mutare tale opinione solo perché la rappresentazione grafica
del manufatto erigendo prefigura degli spazi destinati allo
sbarco degli utenti ai diversi livelli; si tratta infatti
degli accessori di un manufatto che non va considerato
volume tecnico per le ragioni esposte, sì che anche i
piccoli spazi previsti appunto per la salita e la discesa
dei passeggeri non possono far mutare l’opinione al
riguardo.
Un’ulteriore censura va esaminata, benché essa presupponga
la disattesa considerazione dell’ascensore come costruzione,
e come tale ne afferma la soggezione alla disciplina sulle
distanze legali.
Rileva al riguardo il ricorrente che il vano ascensore in
progetto fronteggerà la parete rocciosa che si contrappone
alla facciata nord del condominio controinteressato, e che
venne scavata alla base al tempo della costruzione del
caseggiato.
La deduzione è corroborata dalla citazione della
giurisprudenza che, ai fini del controllo del rispetto delle
distanze legali, considera i rilievi di terra creati
dall’opera dell’uomo alla stregua di una costruzione, così
come può dirsi almeno in parte per la parete posta a
settentrione del condominio.
L’assunto è ulteriormente sviluppato con la considerazione
della proprietà del muro o parete in capo al ricorrente,
ovvero con quella della comproprietà del versante tra le
parti in causa, cosa che legittimerebbe comunque
l’interessato a dedurre il vizio in considerazione.
Il tribunale non può condividere neppure questo motivo.
Non è infatti prodotto alcun documento che permetta di
ritenere che la proprietà del ricorrente si estenda sino al
muro, dovendosi per ciò ritenere la carenza di idonei titoli
a dar la prova del diritto affermato.
Per sostenere la tesi in esame nel corso dell’udienza per la
discussione della causa il difensore del ricorrente ha fatto
riferimento a quanto si deduce dai documenti nn. 12 e 13
prodotti dal condominio il 16.10.2015 per affermare che il
confine tra le proprietà in contestazione passa sul colmo
della parete, restando così insufficiente il distacco tra la
facciata della casa ed il fronte roccioso.
Anche in questo caso è possibile rilevare che l’interessato
nulla ha allegato in ordine al diritto vantato sui beni in
questione, sì che la mera produzione ad opera della
controparte di una raffigurazione dello stato dei luoghi può
difficilmente essere ricondotta alla nozione di asserzione
fatta contra se.
Appare piuttosto corretto l’esame della situazione in fatto
alla luce della norme che il codice civile dedica al
rapporto tra proprietà vicine, risultando corretto affermare
che la specie è regolata dall’art. 881 c.c., in quanto la
stessa memoria notificata contenente i motivi aggiunti
espone che in caso di pioggia l’acqua scorre sulla parete di
che si tratta e così in direzione del fondo condominiale.
Ciò configura la situazione del piovente, terminologia
utilizzata dalla norma citata per attribuire la titolarità
esclusiva del diritto reale sul muro a colui che deve
sopportare la caduta delle acque da un tetto o appunto lungo
un muro.
Deve pertanto concludersi che anche a voler considerare
l’ascensore alla stregua di una costruzione non è dal muro
divisorio che possono misurarsi le distanze di legge,
trattandosi di un bene che, allo stato delle produzioni e
nei limiti della cognizione prevista dall’art. 8 c.p.a., va
attribuito in piena proprietà al condominio
controinteressato.
E’ poi dedotta l’illegittimità degli atti impugnati, nella
parte in cui integrano la violazione dell’art. 907 cc che
deriverebbe dalla vicinanza tra la cabina dell’ascensore in
progetto ed il prospetto da cui il ricorrente dichiara di
esercitare il diritto di veduta sul fondo del condominio
sottostante.
La censura è pertanto nel senso che il
prospetto (ad esempio immagine di cui al doc. 11 della
produzione del condominio 16.10.2015) posto sulla sommità
della parete o muro che suddivide i rispettivi fondi aggetta
sul condominio, sì che risulterebbero illegittimi gli atti
impugnati nella parte in cui hanno ammesso la possibilità di
apporre la cabina dell’ascensore ad una distanza inferiore a
quella prevista dalla norma denunciata, che a sua volta
richiama la modalità di misurazione del distacco che è
prevista dall’art. 905 cc.
Il motivo così formulato peraltro collide con la
condivisa
giurisprudenza (ad esempio cass.
07.04.2015, n. 6927) che nega
la possibilità di configurare l’esistenza del diritto di
veduta quando il suo esercizio sia previsto dalla sommità di
un muro che costituisce elemento divisorio tra due o più
fondi: nella specie sì è già rilevata la scarsa chiarezza
circa il confine tra i fondi, ma è certo che la doglianza si
basa sulla violazione del diritto che il ricorrente
ritrarrebbe dagli atti impugnati ove l’ascensore fosse posto
a distanza inferiore a quella di legge rispetto al punto
sommitale della parete.
La tutela legale di una consimile situazione di fatto è
peraltro esclusa dalla lettura data dalla corte di
cassazione alla norme denunciate, con che anche questo
motivo non può trovare favorevole considerazione.
Tali conclusioni inducono a ritenere inammissibili anche le
censure proposte con i motivi aggiunti, posto che la mancata
prova della posizione differenziata in capo al ricorrente
esclude che egli possa legittimamente censurare
l’inserimento del nuovo ascensore nella facciata nord del
condominio resistente.
In conclusione l’infondatezza o l’inammissibilità di tutti i
rilievi sollevati dal ricorrente esclude l’incidenza
dell’omissione procedimentale rilevata nel corso dell’esame
del primo motivo di impugnazione sulla legittimità dei
provvedimenti (art. 21-octies citato).
Il ricorso va pertanto accolto in parte, in parte respinto o
dichiarato inammissibile, ma gli atti impugnati non possono
essere annullati
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 03.12.2015 n. 1002 - link a www.giustizia-amministratva.it). |
novembre 2015 |
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CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Il magazzino non può usare la canna fumaria.
Impianti. Per la Cassazione occorre il legame di
accessorietà dell’unità immobiliare.
Il ripristino
dell’impianto di riscaldamento centralizzato non può essere
rivendicato dalle unità immobiliari che per loro
conformazione non sono servite da tale impianto.
La Corte di Cassazione, con
sentenza
27.11.2015 n. 24296, ha affermato che il proprietario di un magazzino non
servito dall’impianto di riscaldamento centralizzato, per
ragioni di conformazione dell’edificio, non può
legittimamente vantare un diritto di condominio
sull’impianto medesimo, perché questo non è legato all’unità
immobiliare da una relazione di accessorietà (che si
configura come il fondamento tecnico del diritto di
condominio), ossia da un collegamento strumentale, materiale
e funzionale consistente nella destinazione all’uso o al
servizio della medesima.
In sostanza, un condòmino agiva in giudizio chiedendo che
fosse dichiarata la nullità della delibera con la quale
l’assemblea condominiale aveva disposto la demolizione della
parte finale della canna fumaria e la sua chiusura, con ciò
pregiudicando il suo diritto all’utilizzo di tale impianto.
In realtà, il condòmino la usava dal 1993 come canna fumaria
del camino posto in un locale al piano terra di sua
proprietà. Ma quella canna era stata abbandonata sin dal
1985, per effetto della trasformazione dell’impianto di
riscaldamento centralizzato in autonomo. Il condominio aveva
poi deciso la demolizione a causa del pericolo di crollo.
La Corte di cassazione, confermando la decisione del giudice
distrettuale, ha evidenziato che il collegamento è stato
operato tra la canna fumaria e il camino posto nel locale
magazzino al piano terra di proprietà del ricorrente, sicché
è irrilevante che all’interno dello stabile la parte istante
fosse proprietaria di un’altra unità immobiliare.
Infatti,
la relazione di accessorietà, che si configura come il
fondamento tecnico del diritto di condominio, va considerata
su base reale, in relazione a ciascun piano o porzione di
piano in proprietà esclusiva, senza che a tal fine abbia
rilievo il vincolo pertinenziale creato dal singolo
condomino tra più unità immobiliari di sua esclusiva
proprietà all’interno dello stesso edificio condominiale. Il
presupposto per l’attribuzione della proprietà comune in
favore di tutti i compartecipi viene meno se le cose, gli
impianti, i servizi di uso comune, per oggettivi caratteri
strutturali e funzionali, siano necessari per l’esistenza o
per l’uso (ovvero siano destinati all’uso o al servizio) di
alcuni soltanto dei piani o porzioni di piano dell’edificio.
Rispetto all’impianto di riscaldamento centralizzato, il
proprietario del magazzino non può dunque rivendicare la
natura condominiale del bene (articolo Il Sole 24 Ore
dell'08.12.2015).
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MASSIMA
Va in primo luogo osservato che, contrariamente a quanto
ritenuto dal ricorrente, non ha rilievo la titolarità, in
capo al Do., anche di un appartamento (al quinto piano)
nell'ambito dello stesso fabbricato condominiale, perché
nella specie la controversia attiene all'utilizzo della
canna fumaria per il tramite del collegamento operato con il
camino posto nel locale magazzino al piano terra di
proprietà del medesimo Do..
E la relazione di accessorietà, che si configura come il
fondamento tecnico del diritto di condominio, va
considerata, su base reale, in relazione a ciascun piano o
porzione di piano in proprietà esclusiva, senza che a tal
fine abbia rilievo il vincolo pertinenziale creato dal
singolo condomino tra più unità immobiliari di sua esclusiva
proprietà all'interno dello stesso edificio condominiale.
Occorre prendere le mosse dagli accertamenti compiuti dalla
Corte d'appello:
(a) il locale magazzino di cui il ricorrente è proprietario
e a tutela del quale ha agito per vedersi riconosciuto il
diritto all'utilizzo della canna fumaria non era servito
dall'impianto termico centralizzato quando questo era in
esercizio;
(b) il Do. ha realizzato all'interno del locale un caminetto
che ha provveduto a collegare alla canna fumaria.
Ritiene il Collegio, in conformità della propria
giurisprudenza (Cass., Sez. II, 07.06.2000, n. 7730), che
il proprietario dell'unità immobiliare (nella specie,
magazzino) che, per ragioni di conformazione dell'edificio,
non sia servita dall'impianto di riscaldamento
centralizzato, non può legittimamente vantare un diritto di
condominio sull'impianto medesimo, perché questo non è
legato alla detta unità immobiliari da una relazione di
accessorietà (che si configura come il fondamento tecnico
del diritto di condominio), e cioè da un collegamento
strumentale, materiale e funzionale consistente nella
destinazione all'uso o al servizio della medesima.
Il presupposto per l'attribuzione della
proprietà comune in favore di tutti i compartecipi
viene meno, difatti, se le cose, gli impianti, i servizi di
uso comune, per oggettivi caratteri strutturali e
funzionali, siano necessari per l'esistenza o per l'uso
(ovvero siano destinati all'uso o al servizio) di alcuni
soltanto dei piani o porzioni di piano dell'edificio.
Correttamente, pertanto, la Corte d'appello ha escluso che
l'utilizzazione della canna fumaria, per lo scarico dei fumi
dal camino realizzato nel magazzino a piano terra,
rientrasse in un'ipotesi di uso frazionato della cosa
comune, non essendo l'impianto termico e la canna fumaria,
per oggettivi caratteri strutturali e funzionali, a servizio
di quel locale. Cade anche la premessa della censura di
violazione degli artt. 1120 e 1136 cod. civ., prospettata
sul presupposto di una condominialità rispetto a quel bene
che invece non sussiste. |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Il disabile ha diritto al «prolungamento» dell’ascensore. Condominio. Tribunale di Milano.
Un milanese
ultraottantenne, residente al quinto piano, vince in
tribunale la causa contro il condominio che gli bocciava la
richiesta di far arrivare fino al suo piano, a proprie
spese, l’ascensore che aveva capolinea solo al quarto. Il
prolungamento è invece un suo pieno diritto secondo il
Tribunale di Milano (XIII sezione civile, giudice
monocratico Giacomo Rota), che gli ha dato ragione con la
sentenza 12.11.2015 n. 12791.
Il contenzioso prende le mosse dalla proposta dell’anziano
condòmino di innalzare il vano dell’impianto di un ulteriore
piano, fino al suo alloggio, il tutto a sue spese. E correda
la richiesta con pareri tecnici e progetto.
Infine (maggio 2014) si arriva all’assemblea, che boccia il
prolungamento perché i lavori potrebbero ledere il decoro
del palazzo (di notevole pregio architettonico) e la
stabilità e sicurezza dell’immobile. La delibera è quindi
impugnata in Tribunale.
Entrano in scena l’articolo 1120 del Codice civile, che
riguarda le innovazioni vietate (legittimabili solo
all’unanimità), e il 1102, che autorizza gli interventi che
il singolo può realizzare a sue spese, purché non alterino
la destinazione della cosa comune e non impediscano agli
altri un pari uso.
Il giudice monocratico ha chiarito che il singolo non ha
bisogno di chiedere autorizzazioni all’assemblea per
realizzare innovazioni che rimangano nei binari di entrambi
gli articoli: nei limiti di legge, è un inalienabile diritto
soggettivo, salvo eventuali circostanziati limiti precisati
nel regolamento contrattuale.
In ogni caso, spetta ai dissenzienti dimostrare, in
concreto, i motivi che ostano all’innovazione. Ma
l’assemblea, osserva il giudice, ha respinto la proposta
senza fornire l’onere della prova dell’asserito rischio per
la stabilità. E ha sostenuto che i lavori avrebbero impedito
l’uso dell’ascensore per un po’ di tempo: un problema, dato
il grave stato di salute di alcuni condomini. Ma la
circostanza è stata ritenuta dal giudice ininfluente per
valutare la legittimità del diniego, e ha accertato il
diritto del condòmino a fare i lavori, condannando il
condominio alle spese di giudizio (articolo Il Sole 24 Ore
dell'11.12.2015). |
ottobre 2015 |
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CONDOMINIO: Le
«varie ed eventuali» non ammettono delibere.
Prevale l’obbligo di preventiva
informazione.
Assemblee. Vademecum sull’uso dello spazio
aperto nell’ordine del giorno.
A fine assemblea,
l’ultimo punto dell’ordine del giorno
presenta invariabilmente la dicitura “varie
ed eventuali”. Ma cosa può concretamente
significare? E cosa si può decidere davvero?
I giuristi che hanno indagato la formula
sono concordi nel ritenere che la voce in
esame sia volta a individuare:
1) comunicazioni rese dall’amministratore o
dai condomini senza l’impegno di spesa,
salvo il caso di minimi esborsi;
2) suggerimenti e raccomandazioni rivolte
dai condomini alla persona
dell’amministratore;
3) richieste di chiarimenti allo stesso
amministratore al fine di ottenere
indicazioni operative in ordine a
particolari condotte o prassi applicative;
4) richieste di inserimento di una
determinata questione o argomento all’ordine
del giorno di una prossima assemblea;
5) relazioni di aggiornamento su questioni
già oggetto di precedente discussione
all’esito di mandati esplorativi o di
attività di scrutinio e selezione di
preventivi di spesa;
6) argomenti di secondaria importanza e di
minimo rilievo pratico e comunque tali da
non richiedere una specifica menzione
nell’ordine del giorno e di essere oggetto
di una deliberazione assembleare.
Ma quali criticità può sollevare l’eventuale
inserimento di questa voce, apparentemente
innocente, nell’ordine del giorno?
La questione principale è data dalle
conseguenze che possono determinarsi a
fronte di una eventuale discussione e
deliberazione da parte dell’organo
assembleare. Infatti, le delibere assunte
sotto la voce in esame, potendo violare
l’obbligo di preventiva informazione dei
condomini convocati in assemblea, si
prestano a essere impugnate al fine di farne
accertare la loro invalidità.
Tale voce, infatti «non può tradursi in
un contenitore eterogeneo, da cui far
scaturire argomenti a sorpresa per gli
ignari condomini» (così afferma il
Tribunale di Roma, sentenza del 19.06.2012,
n. 12684). Ciò ha condotto parte della
dottrina e della giurisprudenza a orientarsi
per una tesi decisamente restrittiva, la
quale ritiene che, pur consentendo tale voce
la discussione in sede assembleare di
qualsiasi argomento, ancorché lo stesso non
figuri espressamente nell’ordine del giorno,
nessuna deliberazione, a pena di
annullabilità, può invece essere assunta
all’esito della discussione medesima.
Ne consegue che se, a seguito
dell’informazione e della relativa
discussione sul punto, emerga la necessità
di adottare una decisione in merito a
qualche argomento ritenuto particolarmente
rilevante e bisognoso di una più
approfondita valutazione, la delibera dovrà
necessariamente essere rimandata a una
successiva riunione, nella quale sarà
inserito tale argomento nell’ordine del
giorno con una voce specifica.
La giurisprudenza, soprattutto di merito, ha
segnato i limiti di impiego della formula di
stile offrendo un ventaglio di fattispecie
concrete senza dubbio idonee a orientare la
condotta dell’amministratore e della stessa
assemblea dei condòmini.
In particolare, tra le deliberazioni assunte
dall’assemblea che risultano non idonee a
essere inserite sotto la dizione “varie
ed eventuali” si segnalano:
1) l’esecuzione di lavori di rifacimento
della facciata dell’edificio condominiale,
precisandosi, al riguardo, che il relativo
argomento debba al contrario essere
specificamente inserito nell’avviso di
convocazione dell’assemblea, in quanto
attinente alla materia dell’amministrazione
straordinaria del bene comune;
2) la diffida assembleare alla rimozione di
piante posizionate sul balcone di un
condomino;
3) la costituzione di un fondo speciale
finalizzato a fronteggiare spese
condominiali urgenti;
4) il pagamento del compenso a un
professionista il quale abbia prestato la
propria opera a vantaggio del condominio,
laddove tale spesa non sia contemplata
nell’ordine del giorno e ove non sia
raggiunta la prova circa il conferimento
dell’incarico stesso;
5) la decisione di abbattimento di un albero
proposta dal condomino quale utilizzatore
esclusivo di un giardinetto condominiale;
6) la decisione di stipulare un contratto di
assicurazione contro gli incendi;
7) l’autorizzazione concessa a un condomino
per la realizzazione di una pensilina;
8) la decisione di diniego all’installazione
da parte di un condomino di una canna
fumaria sul muro perimetrale dello stabile
condominiale
(articolo
Il Sole 24 Ore del 27.10.2015). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Libertà di parabola, limiti all’installazione.
Tlc. Sul tetto solo se non c’è spazio nei locali privati.
L’installazione
di una parabola o antenna sul terrazzo condominiale può
essere effettuata dal condòmino non arbitrariamente, ma
tenendo conto del libero uso della proprietà comune da parte
degli altri condòmini, nel rispetto del decoro
architettonico e se non c’è la possibilità di utilizzare
spazi propri.
L’applicazione di tali regole, fissate
dall’articolo 1122-bis del Codice civile, sono state
ribadite dal TRIBUNALE di Roma con la sentenza n. 9279/2015.
A fronteggiarsi sono un condominio e una società conduttrice
di un ampio locale commerciale all’interno del fabbricato.
La società chiede all’amministratore una copia delle chiavi
di accesso al terrazzo condominiale, per poter installare
un’antenna parabolica per la ricezione del segnale
satellitare, utile per lo svolgimento della propria attività
lavorativa, comprendente gestione di attività di front e
back office, recapito corrispondenza e sorveglianza non
armata. L’amministratore si rifiuta di consegnare le chiavi,
negando il diritto all’uso del bene comune.
La disputa, dopo l’esito negativo della procedura di
mediazione, arriva in Tribunale dove la società ribadisce il
suo diritto all’installazione della parabola, che le avrebbe
fatto risparmiare anche 84 euro al mese rispetto
all’abbonamento Adsl che aveva in essere. Il condominio, dal
canto suo, sostiene che il diritto vantato dalla società non
sia assoluto, ma che deve invece «considerarsi subordinato
alla condizione della impossibilità di utilizzare spazi
propri»: condizione che nel caso non sussisteva, potendo la
società «installare l’antenna sulle mura del fabbricato da
essa condotto in locazione».
Il Tribunale ha rigettato la richiesta della società, alla
luce del costante indirizzo giurisprudenziale che riconosce
l’esistenza del diritto a installare parabole e antenne sul
terrazzo condominiale, prevedendo però alcuni limiti:
l’impianto non deve impedire il libero uso della proprietà
comune da parte degli altri condomini; non deve recar danno
alla proprietà comune, specie sotto il profilo del decoro
architettonico; e deve risultare l’impossibilità per il
condomino di utilizzare spazi propri.
E in riferimento a
tale ultimo limite, la non adeguatezza degli spazi propri
deve essere provata. Nel caso di specie, la società non solo
non ha fornito la prova della impossibilità di installare
l’impianto sull’immobile da essa condotto in locazione, ma
la parabola, come affermato dalla Ctu, avrebbe potuto
effettivamente essere installata sulla porzione di
fabbricato della stessa società (articolo Il Sole 24 Ore del
27.10.2015). |
luglio 2015 |
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AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIO:
Cassonetti solo in cortile se c’è il «porta a
porta». Raccolta rifiuti. Tar Piemonte.
I cassonetti vanno messi nei cortili
condominiali nel caso di raccolta di rifiuti “porta a
porta”.
Il TAR Piemonte,
Sez. I, con la
sentenza 10.07.2015 n.
1169 ha ritenuto che i condòmini sono tenuti a
posizionare i cassonetti della raccolta differenziata
all’interno dei cortili quando in ambito cittadino siano
attuati i sistemi di raccolta differenziata “porta a porta”.
Il condominio ricorrente aveva impugnato l’atto con cui il
gestore del servizio pubblico di raccolta, trasporto e
smaltimento dei rifiuti urbani del Comune di Torino, aveva
imposto al condominio di procedere alla collocazione dei
cassonetti della raccolta differenziata all’interno del
cortile condominiale, con l’obbligo di esporli sulla
pubblica via nelle aree e nei giorni stabiliti dal gestore.
A parere del condominio l’internalizzazione dei rifiuti non
costituirebbe un principio di carattere generale, e in ogni
caso ne consentirebbe la derogabilità in presenza di
specifici presupposti .
Il Tar non ha condiviso l’argomentazione, ritenendo che il
regolamento comunale di gestione dei rifiuti urbani
prevedesse la collocazione dei cassonetti sul suolo pubblico
salvo che non fossero attuati in ambito cittadino sistemi di
raccolta differenziata “porta a porta”, nel qual caso
scatterebbe il diverso principio secondo cui i proprietari
privati hanno l’obbligo di posizionare i cassonetti della
raccolta differenziata all’interno degli spazi pertinenziali
di proprietà e di esporli su suolo pubblico nei giorni e
nelle ore di raccolta stabiliti dal gestore del servizio
pubblico.
Pertanto, avendo il Comune di Torino introdotto già da tempo
il sistema di raccolta differenziata “porta a porta” in
ambito cittadino, estendendolo gradualmente nel corso del
tempo alle diverse zone cittadine, il principio generale
applicabile risultava quello della collocazione dei
cassonetti all’interno degli spazi pertinenziali di
proprietà privata.
Il Tar, pur riconoscendo che la circolare del presidente
della giunta regionale n. 3 del 25.07.2005 ammetteva
delle deroghe nel caso in cui l’internalizzazione dei
cassonetti poteva costituire intralcio o ostacolo al
passaggio nelle stesse pertinenze dei fabbricati o dare
luogo a problemi igienici, ha ritenuto che nel caso di
specie il gestore non aveva imposto al condominio una
precisa collocazione dei cassonetti, ma i suoi dipendenti si
erano limitati ad individuare quella collocazione come la
più confacente.
In altre parole, il contenuto dell’imposizione del gestore
era limitato all’obbligo del condominio di collocare i
cassonetti all’interno del cortile condominiale. Restava in
facoltà del condominio proporre al gestore una diversa
collocazione dei cassonetti all’interno del cortile
condominiale che arrecasse minor pregiudizio alle ragioni
dei condomini e che nel contempo fosse tecnicamente
attuabile senza pregiudizio per l’efficace gestione del
servizio pubblico di raccolta dei rifiuti urbani.
La circostanza poi che l’internalizzazione dei cassonetti
avrebbe sottratto dei posti già adibiti a parcheggio, a
parere del Tribunale era irrilevante, trattandosi di meri
interessi privati destinati a recedere a fronte
dell’interesse pubblico alla corretta realizzazione del
sistema di raccolta dei rifiuti “porta a porta”
(articolo Il Sole 24 Ore del
29.12.2015). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Disabili, va concesso il nullaosta comunale alla piattaforma.
Condominio. Andrebbe indicata l’alternativa praticabile.
Se un condòmino richiede al comune la possibilità di installare,
nel vano scale condominiale, una piattaforma elevatrice,
anche in deroga al regolamento edilizio, la domanda non può
essere rifiutata per l’esistenza in astratto di soluzioni
tecnicamente praticabili ma deve fondarsi sull’indicazione
di reali alternative concretamente praticabili.
Questo il
principio contenuto nella motivazione della
sentenza
03.07.2015 n. 1541 del TAR
Lombardia-Milano, Sez. II.
La vicenda che ha portato alla decisione citata prende
l’avvio quando due condòmini chiedevano al Comune il
permesso per installare nel vano scale una piattaforma
elevatrice necessaria per il superamento delle barriere
architettoniche presenti nell’edificio, opera che peraltro
l’assemblea del caseggiato con apposita delibera (allegata
alla domanda) aveva autorizzato.
Il Comune, però, con due note, sottolinea la necessità di
modificare il progetto in quanto non idoneo ad assicurare la
larghezza minima della rampa di scale e delle porte interne
della piattaforma di elevazione prevista dal regolamento
edilizio. E in ogni caso sarebbe impossibile concedere
deroghe ai regolamenti comunali per la praticabilità
dell’alternativa tecnica consistente nella realizzazione di
un montascale (che non avrebbe richiesto l’assenso del
comune e del condominio).
I condòmini protestano ma il Comune non tiene conto delle
ragioni chiarite dal tecnico dei condòmini, per le quali
veniva ritenuta non praticabile l’installazione di un
montascale. E nega il permesso di costruire, ribadendo la
possibilità di realizzare soluzioni alternative.
Secondo il Tar Lombardia, che ha annullato provvedimento del
Comune, il rigetto della domanda di permesso di costruire,
con la quale è stata chiesta la deroga alle norme
regolamentari, non può fondarsi sulla semplice esistenza in
astratto di ulteriori soluzioni tecnicamente praticabili, ma
richiede la precisa indicazione di reali alternative
concretamente praticabili.
Questa rigorosa conclusione è pienamente giustificabile se
si considera che l’interesse del disabile all’eliminazione
delle barriere architettoniche è tutelato da diverse norme,
anche costituzionali.
Del resto l’esistenza solo in astratto di altre possibili
soluzioni, potrebbe spingere il cittadino ad individuare
altri progetti, che potrebbero però poi a loro volta
risultare non realizzabili. In ogni caso, come precisano i
giudici amministrativi, la “soluzione montascale” non può
rappresentare un’alternativa tecnica effettivamente
praticabile e rispettosa del regolamento edilizio, bensì una
soluzione utile solo per evitare il rilascio di un titolo
edilizio e l’assenso dell’assemblea condominiale
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.10.2015).
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MASSIMA
2. Venendo al merito, deve preliminarmente scrutinarsi
il primo motivo del ricorso per motivi aggiunti, avente
carattere potenzialmente assorbente delle ulteriori censure,
con il quale si allega l’illegittimità del diniego di
permesso di costruire, in quanto intervenuto dopo la
ritenuta formazione del silenzio-assenso.
Il motivo è infondato, per un duplice ordine di ragioni.
2.1 Sotto un primo profilo, risulta comprovato in atti che
l’intervento progettato prevedeva anche l’installazione di
una pedana all’esterno dell’edificio e, quindi, richiedeva,
sotto questo profilo, l’autorizzazione paesaggistica, stante
il vincolo cui è sottoposto l’intero complesso immobiliare.
La formazione del silenzio-assenso è, quindi, espressamente
esclusa ai sensi dell’articolo 20, comma 8, del d.P.R. n.
380 del 2001 e dell’articolo 38, comma 10, della legge
regionale n. 12 del 2005.
2.2 Deve, poi, rilevarsi che –anche prescindendo dalle
considerazioni sopra svolte– il silenzio-assenso non
avrebbe potuto in ogni caso formarsi, essendo intervenuto in
data 28.11.2013 il preavviso di provvedimento
negativo.
Contrariamente a quanto ritenuto dalla difesa dei
ricorrenti, l’interruzione dei termini procedimentali a
seguito del preavviso di diniego costituisce istituto di
portata generale e, come tale, da ritenere applicabile anche
con riferimento al permesso di costruire (v. Cons. Stato,
Sez. IV, 19.03.2015, n. 1515, ove, in fattispecie analoga
alla presente, concernente l’allegata formazione per
silenzio-assenso di un permesso di costruire soggetto alla
disciplina dell’articolo 13 della legge regionale
dell’Emilia Romagna 25.11.2002, n. 31, si rileva la
mancata prospettazione di ragioni convincenti per ritenere
non applicabile l’articolo 10-bis della legge n. 241 del
1990).
Nel caso di specie, dopo l’emissione del preavviso di
provvedimento negativo, il diniego del permesso di costruire
è intervenuto entro i termini previsti dall’articolo 38
della legge regionale n. 12 del 2005, peraltro inferiori
rispetto a quelli previsti dall’articolo 20 del d.P.R. n.
380 del 2001.
In particolare, il termine per la conclusione del
procedimento ha ripreso a decorre alla scadenza del termine
di sette giorni assegnato nel preavviso di diniego per la
presentazione di osservazioni (05.12.2013). E’ quindi
intervenuta, il 09.01.2014 –ossia dopo trentacinque
giorni– la relazione del responsabile del procedimento, che
è quindi tempestiva rispetto al termine di quarantacinque
giorni cui al comma 3 dell’articolo 38 della legge regionale
n. 12 del 2005. Il provvedimento finale è stato emesso,
infine, il 16.01.2014, ossia dopo sette giorni, nel
rispetto del termine di quindici giorni previsto per
l’ultimo segmento procedimentale dall’articolo 38, comma 7,
della legge regionale n. 12 del 2005.
2.3 E’, infine, da escludersi che la nota comunale del 16.01.2014 possa rilevare quale (illegittimo) atto di
autotutela, trattandosi del diniego con cui si è concluso il
procedimento avviato con la presentazione dell’istanza di
permesso di costruire e –come detto– di provvedimento
intervenuto nei termini e non successivamente alla
prospettata formazione del titolo per silentium.
2.4 In definitiva, per le suesposte ragioni, deve
respingersi il primo mezzo del ricorso per motivi aggiunti.
3. Possono quindi esaminarsi le censure articolate con il
primo motivo del ricorso introduttivo, con le quali i
ricorrenti si dolgono delle affermazioni contenute nella
comunicazione comunale del 10.10.2013 e nel preavviso
di provvedimento negativo, laddove vi si afferma che
l’intervento progettato non sarebbe conforme alle
disposizioni del Regolamento edilizio e del Regolamento
locale di igiene (affermazione, questa, che è richiamata
anche dal provvedimento finale di diniego, nel quale si
evidenzia che “l’intervento così come proposto non è
comunque conforme al vigente Regolamento Edilizio”).
3.1 A riguardo, ritiene il Collegio di non poter accedere
alla tesi dei ricorrenti, secondo i quali le disposizioni
regolamentari richiamate dal Comune –recanti le regole
tecniche sulla larghezza delle scale e delle porte degli
ascensori– non sarebbero applicabili nel caso di specie e,
quindi, l’intervento proposto potrebbe essere realizzato
senza alcuna deroga alle disposizioni del Regolamento
edilizio e del Regolamento locale di igiene.
3.2 Viene anzitutto in considerazione l’articolo 139, comma
1 del Regolamento edilizio, ove si legge che “Le scale di
uso comune sono disciplinate, quanto a lunghezza, dimensioni
e chiusure dalla normativa vigente in materia. Deve in ogni
caso essere garantita la possibilità del trasporto di
soccorso delle persone”.
Il rinvio alla “normativa vigente in materia” è stato
correttamente inteso dal Comune come volto a determinare il
richiamo dell’articolo 3.6.10 del Regolamento locale di
igiene, il quale prevede che “La larghezza della rampa e dei
pianerottoli deve essere commisurata al numero dei piani,
degli alloggi e degli utenti serviti, comunque non deve
essere inferiore a m. 1,20 riducibili a m. 1,00 per le
costruzioni fino a due piani e/o ove vi sia servizio di
ascensore. Nei casi di scale che collegano locali di
abitazioni, o che collegano vani abitativi con cantine,
sottotetti dello stesso alloggio, ecc. può essere consentita
una larghezza di rampa inferiore e comunque non minore di m.
0,80”.
Ora, i ricorrenti ritengono che le suddette disposizioni non
possano trovare applicazione nel caso di specie.
3.2.1 Quanto all’articolo 139 del Regolamento edilizio, esso
è contenuto nel Capo III, rubricato “Gli edifici”, che si
apre con l’articolo 135, il quale –secondo i ricorrenti–
delimiterebbe l’ambito di applicazione dell’intero Capo ai
soli “interventi di nuova costruzione”.
Al riguardo, deve tuttavia evidenziarsi che l’articolo 135
del Regolamento edilizio si riferisce alle “Distanze e
altezze”. Non a caso, le parole “Negli interventi di nuova
costruzione” sono seguite dall’indicazione della distanza
minima dal confine con proprietà di terzi da osservarsi
nelle costruzioni. La disposizione non risulta, quindi, aver
inteso delimitare l’ambito applicativo dell’intero Capo, ma
si riferisce solo alle regole sulle distanze applicabili
alle nuove costruzioni.
D’altro canto, deve pure tenersi presente che l’articolo 181
del Regolamento edilizio dispone che “Il presente
regolamento si applica ai progetti edilizi presentati a far
data dalla sua entrata in vigore”. Le disposizioni contenute
nel Regolamento sono, quindi, applicabili in linea di
massima –e salva la concessione di deroghe– a tutti gli
interventi successivi, a prescindere dalla circostanza che
abbiano ad oggetto edifici esistenti o nuove costruzioni.
A tale conclusione non osta la previsione dell’articolo 123
del medesimo Regolamento edilizio, concernente “Eliminazione
e superamento delle Barriere Architettoniche”, il quale
stabilisce che: “1. Nell’ambito dell’ambiente costruito e
non costruito devono essere realizzati tutti gli interventi
atti a favorirne la massima fruibilità da parte di tutte le
persone disabili, colpite da handicap sia temporaneo che
permanente, con ridotte o impedite capacità motorie,
sensoriali, mentali e psichiche, per garantire loro una
migliore qualità della vita col superamento di ogni forma di
emarginazione e di esclusione sociale.
2. A tal fine negli edifici e negli spazi esterni, in tutti
gli interventi edilizi, nonché nei cambi di destinazione,
devono essere previste e realizzate tutte le soluzioni
conformi alla disciplina vigente in materia di eliminazione
e superamento delle barriere architettoniche.
3. I progettisti, in armonia col contesto più ampio in cui
si inserisce l’intervento, possono proporre soluzioni
innovative e alternative a quelle usuali, che, debitamente
documentate, dimostrino comunque il rispetto delle finalità
stabilite dalle specifiche leggi vigenti in materia di
superamento e abbattimento di barriere, per un utilizzo
ampliato ed in piena autonomia e sicurezza dell’ambiente da
parte di tutte le persone, in special modo per i portatori
di handicap.
4. In particolare, a partire dalle modalità e
caratteristiche indicate dalle norme vigenti al momento
della realizzazione dell’opera e in condizioni di adeguata
sicurezza ed autonomia, devono essere garantiti i requisiti
di adattabilità, visitabilità, accessibilità.”.
L’articolo 123 non costituisce, invero, una disposizione
alternativa rispetto a quella dell’articolo 139, ma sancisce
un generale favor –in conformità ai principi costituzionali
e alle previsioni della disciplina normativa nazionale e
regionale– nei confronti degli interventi di abbattimento
delle barriere architettoniche.
La disposizione, quindi, non detta regole esaustive e
alternative per la realizzazione degli interventi volti a
realizzare tale finalità, ma enuncia principi e criteri
rilevanti al fine della eventuale concessione di deroghe
alle altre previsioni del Regolamento, proprio in vista del
conseguimento dell’obiettivo della piena accessibilità degli
edifici da parte dei portatori di handicap (v. in
particolare il comma 3).
3.2.2 Quanto all’articolo 3.6.10 del Regolamento locale di
igiene, la non applicabilità nel caso di specie deriverebbe
–secondo i ricorrenti– dalle previsioni dell’articolo
3.0.0 del medesimo Regolamento, ove si stabilisce che “Le
norme del presente Titolo non si applicano alle situazioni
fisiche esistenti e già autorizzate o comunque conformi alla
previgente normativa” (primo comma).
Ritiene tuttavia il Collegio che la prevista inapplicabilità
alle previsioni del Regolamento locale di igiene alle
situazioni preesistenti e già autorizzate debba essere letta
unicamente come affermazione dell’inesistenza di un obbligo
di adeguamento alle nuove regole degli edifici già
realizzati in conformità alla disciplina previgente. Ciò,
però, fermo restando che le previsioni del Regolamento
debbano essere osservate –in linea di massima, e fatta
salva la possibilità di concessione di deroghe– anche in
tutti i casi di interventi da eseguire sulle costruzioni
esistenti.
Tali conclusioni sono confermate dai successivi commi del
medesimo articolo 3.0.0, ove si legge che:
- “Le norme si applicano, per gli aspetti inerenti l’igiene
e la sanità pubblica, a tutti i nuovi interventi soggetti al
rilascio di concessione o autorizzazione da parte del
Sindaco” (secondo comma):
- “Agli edifici esistenti o comunque autorizzati all’uso,
per interventi anche parziali di ristrutturazione,
ampliamenti e comunque per tutti gli interventi di cui alle
lettere b), c) e d) dell’art. 31 della Legge 05.08.1978,
n 457, si applicheranno le norme del presente Titolo fermo
restando che per esigenze tecniche documentabili saranno
ammesse deroghe agli specifici contenuti in materia di
igiene della presente normativa purché le soluzioni
comportino oggettivi miglioramenti igienico sanitari” (terzo
comma);
- “A motivata e documentata richiesta possono adottarsi
soluzioni tecniche diverse da quelle previste dalle norme
del presente Titolo, purché tali soluzioni permettano
comunque il raggiungimento dello stesso fine della norma
derogata” (quinto comma).
In altri termini, la disposizione del Regolamento locale di
igiene non può essere interpretata come volta a consentire,
in via generale, di apportare, senza alcun limite, modifiche
alle costruzioni esistenti e oggi conformi alla normativa
vigente, in modo da renderle difformi da tali nuovi
standard.
La possibilità di non applicare le previsioni del
regolamento di igiene –in linea di principio operanti anche
per gli interventi da eseguire su costruzioni già
autorizzate– è, invece, prevista e subordinata alla
concessione di apposite deroghe.
3.3 Analoghe considerazioni valgono anche con riferimento
all’articolo 131, comma 2, primo periodo del Regolamento
edilizio, il quale dispone che “La larghezza di passaggio
netto delle porte esterne non deve essere inferiore a 90 cm
e per le porte interne non inferiore a cm 80”.
Secondo l’avviso dei ricorrenti, tale previsione non
dovrebbe trovare applicazione nel caso di specie, poiché
l’unica disciplina cui il Comune avrebbe dovuto fare
riferimento sarebbe quella dell’articolo 127 del Regolamento
edilizio, il quale prevede la realizzazione di piattaforme
elevatrici o servoscala “solo nel caso di interventi in
edifici esistenti nei quali vi sia comprovata impossibilità
tecnica di superamento di dislivelli mediante la
realizzazione di rampe”.
E invero, la circostanza che debba trovare applicazione il
predetto articolo 127 non esclude, di per sé,
l’applicabilità anche delle disposizioni in materia di
larghezza delle porte, contenute all’articolo 131, posto che
l’intervento di che trattasi ha ad oggetto proprio la
realizzazione di una piattaforma elevatrice dotata di porte,
e considerato che nessuna previsione concernente la
larghezza delle porte è contenuta all’articolo 127.
3.4 In definitiva, deve concludersi rilevando che
all’intervento proposto sono applicabili –in linea di
principio– le previsioni degli articoli 131 e 139 del
Regolamento edilizio e 3.6.0 del Regolamento locale di
igiene. Nella specie, poiché il progetto presentato dai
ricorrenti non consente di assicurare la larghezza minima
della rampa di scale e la larghezza minima delle porte della
piattaforma elevatrice previste dalle suddette previsioni,
lo stesso può essere realizzato solo subordinatamente alla
concessione di una deroga ai regolamenti comunali.
L’immediata applicabilità delle disposizioni richiamate dal
Comune risulta, del resto, essere stata riconosciuta anche
dagli stessi ricorrenti, i quali hanno proposto espressa
istanza di deroga alle norme regolamentari.
Per tutte le suesposte ragioni, devono conseguentemente
rigettarsi le censure articolate dai ricorrenti con il primo
motivo del ricorso introduttivo, con le quali si afferma la
possibilità di assentire l’intervento senza necessità di
derogare ai vigenti regolamenti comunali.
4. Ciò posto, al fine di esaminare le residue censure
proposte dai ricorrenti con il secondo motivo del ricorso
introduttivo (attinente alla mancata considerazione delle
possibilità di deroga alle previsioni regolamentari), e con
il secondo motivo del ricorso per motivi aggiunti (attinente
alla mancanza di corrispondenza tra le ragioni ostative al
rilascio del permesso di costruire indicate nel preavviso di
diniego e quelle poi enunciate nel provvedimento finale di
rigetto della domanda) occorre premettere che tutte le
disposizioni regolamentari richiamate dal Comune e ostative
alla realizzazione dell’intervento risultano essere
suscettibili di deroga.
4.1 Si è già detto della derogabilità delle norme del
Regolamento locale di igiene, prevista dalle richiamate
previsioni dei commi terzo e quinto dell’articolo 3.0.0.
4.2 Quanto agli articoli 131 e 139 del Regolamento edilizio,
la derogabilità delle relative previsioni discende dal
disposto dell’articolo 182 del medesimo Regolamento, in base
al quale “Salvo quanto previsto nei precedenti articoli,
eventuali deroghe al presente Regolamento possono essere
consentite esclusivamente con deliberazione del Consiglio
Comunale, fatti comunque salvi i pareri obbligatori per
l’esecuzione degli interventi edilizi da parte della
Commissione Edilizia, della Commissione del Paesaggio e
degli Organi di Vigilanza”.
4.3 Deve poi soggiungersi, per completezza, che non è invece
rilevante, nella specie, la previsione dell’articolo 3,
comma 1, della legge 09.01.1989, n. 13 –richiamata dai
ricorrenti– in quanto la disposizione si riferisce alla
possibilità di realizzare interventi di abbattimento delle
barriere architettoniche in deroga “alle norme sulle distanze
previste dai regolamenti edilizi (...)”.
Non risulta rilevante neppure la previsione dell’articolo 20
della legge regionale 20.02.1989, n. 6 (“Norme
sull'eliminazione delle barriere architettoniche e
prescrizioni tecniche di attuazione”), poiché la
disposizione in questione, pure richiamata dai ricorrenti,
si riferisce alla possibilità di concedere deroghe –in
presenza di vincoli culturali o paesaggistici o di
“impossibilità tecnica connessa agli elementi statici ed
impiantistici degli edifici oggetto dell'intervento”–
rispetto alle sole norme volte all’abbattimento delle
barriere architettoniche contenute nell’allegato alla stessa
legge.
Potrebbe, semmai, avere un ambito applicativo in parte
rilevante ai fini del presente giudizio la disposizione
dell’articolo 19, comma 1, della stessa legge regionale n. 6
del 1989, che prevede espressamente la possibilità di
concedere deroghe in favore di interventi specificamente
finalizzati all'abbattimento delle barriere architettoniche
e localizzative; sennonché anche tale disposizione si
riferisce alla sola deroga “agli standard, limiti o vincoli
previsti dagli strumenti urbanistici vigenti”, e non quindi
alle previsioni dei regolamenti comunali, rilevanti nel caso
di specie.
4.4 In definitiva, la derogabilità tanto del Regolamento
edilizio, quanto del Regolamento locale di igiene risulta
dalle stesse previsioni dei suddetti regolamenti.
5. Venendo quindi all’esame delle modalità per la
concessione di deroghe alle previsioni dei regolamenti
comunali invocate dal -OMISSIS- nel caso oggetto del
presente giudizio, deve tenersi presente che, sulla base del
quadro normativo sopra ricostruito:
- la concessione di eventuali deroghe al Regolamento locale
di igiene risulta essere subordinata all’accertamento che
“le soluzioni comportino oggettivi miglioramenti igienico-sanitari” (nelle fattispecie di cui al terzo comma
dell’articolo 3.0.0, sopra riportato) e che le soluzioni
tecniche diverse da quelle previste dal Regolamento
“permettano comunque il raggiungimento dello stesso fine
della norma derogata” (articolo 3.0.0, quinto comma);
- la deroga alle previsioni del Regolamento edilizio è
invece subordinata a un’apposita deliberazione del Consiglio
comunale (articolo 182),
il quale dovrà peraltro tenere
conto delle finalità di piena accessibilità degli edifici da
parte delle persone portatrici di handicap (finalità
richiamate dall’articolo 123 del Regolamento, e
riconducibili ai principi enunciati dalla Costituzione e
attuati dalla disciplina legislativa statale e regionale).
6. Ciò posto, deve osservarsi che le ragioni poste alla base
del diniego di permesso di costruire consistono, in buona
sostanza:
(i) nella ritenuta impossibilità di concedere deroghe ai
regolamenti comunali per la praticabilità dell’alternativa
tecnica consistente nella realizzazione di un montascale;
(ii) nella realizzabilità di tale soluzione alternativa
senza alcun atto di assenso del Comune e del condominio;
(iii) nella mancanza di autorizzazione paesaggistica.
6.1 Di tali ragioni, solo quella sub (ii) risulta essere
stata effettivamente preannunciata nel preavviso di
provvedimento negativo.
E invero, nella relazione del tecnico dei ricorrenti,
depositata agli atti del procedimento in data 08.11.2013, era stata illustrata, con dovizia di argomenti, la
necessità di prescegliere la soluzione progettuale
consistente nella realizzazione di una piattaforma
elevatrice, indicando le ragioni per le quali veniva
ritenuta non praticabile l’installazione di un montascale
(v. doc. 9 dei ricorrenti).
A fronte di tale dettagliata relazione, nella comunicazione
di motivi ostativi il Comune non ha indicato la soluzione
consistente nella realizzazione di un montascale quale
alternativa tecnica rispetto all’intervento proposto dai
ricorrenti. L’Ente si è, infatti, limitato a richiamare la
previsione dell’articolo 78 del d.P.R. n. 380 del 2001,
ossia una disposizione che si riferisce alle possibilità di
libera installazione di “servoscala nonché strutture mobili
e facilmente rimovibili”. Tali soluzioni non sono state,
quindi, indicate quali alternative tecniche effettivamente
praticabili e idonee a consentire il rispetto della
disciplina regolamentare, bensì quali soluzioni che
avrebbero consentito di evitare tanto la necessità del
rilascio di un titolo edilizio, quanto quella dell’assenso
dell’assemblea condominiale.
Soltanto nella “Relazione finale e proposta di provvedimento
per la pratica n. 215/2013-0”, richiamata nel provvedimento
di diniego (doc. 15 del controinteressato), viene
effettivamente presa in considerazione la praticabilità
tecnica della soluzione consistente nella realizzazione di
un montascale, e tale soluzione viene indicata quale
alternativa praticabile.
Le suddette valutazioni sono state, però, poste alla base
del diniego senza consentire alla parte di controdedurre in
merito ai dati fattuali presi in considerazione dal Comune e
alle considerazioni tecniche svolte dal Responsabile del
procedimento.
6.2 Ora, quanto alla predetta motivazione sub (ii), deve
osservarsi che –come osservato dai ricorrenti nel secondo
motivo del ricorso introduttivo– tale ragione, pur
ritualmente preannunciata nel preavviso di provvedimento
negativo, non può di per sé fondare il diniego del permesso
di costruire.
L’esistenza di una astratta ipotesi progettuale tale da non
richiedere alcun titolo edilizio né l’assenso del condominio
potrebbe, invero, formare oggetto di un mero “suggerimento”
informale al richiedente da parte dell’Ufficio tecnico.
L’Amministrazione non può, tuttavia, esimersi dal verificare
se sussistono le condizioni per assentire l’intervento
richiesto, sia quanto alla legittimazione del soggetto
richiedente, sia con riguardo al merito della soluzione
progettuale proposta.
Nel caso di specie, il primo di tali profili
(legittimazione) avrebbe dovuto essere verificato in
concreto dal Comune, posto che la domanda di permesso di
costruire era corredata dalla delibera condominiale di
assenso all’intervento, solo successivamente sospesa
nell’ambito del giudizio civile promosso dal sig. -OMISSIS-.
D’altro canto, la circostanza che l’installazione di un
montascale non richieda il rilascio del titolo edilizio di
per sé non consente di ritenere che tale soluzione possa
essere realizzabile anche in violazione della normativa
tecnica sulla larghezza delle scale, in assenza di apposita
deroga.
In definitiva, la (teorica) libera realizzabilità della
soluzione “montascale” non fa di tale opzione, di per sé,
un’alternativa tecnica effettivamente praticabile rispetto
al progetto presentato dai richiedenti.
6.3 Quanto alle ulteriori ragioni sub (i) e sub (iii), la
loro mancata evidenziazione nel preavviso di diniego non
assume, nella specie, rilevanza meramente formale, ma
riveste carattere sostanziale, per le ragioni che seguono.
6.3.1 Per ciò che attiene alla motivazione sub (iii), i
ricorrenti, ove fossero stati portati a conoscenza della
necessità dell’autorizzazione paesaggistica, avrebbero
potuto presentare la relativa domanda.
In alternativa, sarebbe stata possibile anche la modifica
dell’istanza di permesso di costruire, con rinuncia
all’installazione della modesta opera consistente nella
pedana esterna, volta al superamento di pochi gradini. E
invero –come chiarito da Cons. Stato, Sez. VI, 05.03.2014, n. 1032–
l’abbattimento delle barriere
architettoniche può essere realizzato anche in modo parziale
e tale da non soddisfare completamente le esigenze di
soggetti non deambulanti in modo autonomo, i quali non sono
gli unici destinatari della normativa, che fa riferimento
anche ai soggetti a “capacità motoria ridotta”, come tali in
grado di superare alcuni gradini, ma non diversi piani di
scale.
6.3.2 Per ciò che attiene alla motivazione sub (i), la
mancata indicazione, nel preavviso di diniego, delle ragioni
in base alle quali il Comune ha ritenuto che l’installazione
di un montascale possa costituire un’alternativa
praticabile, ha impedito ai ricorrenti di prendere in esame
le considerazioni tecniche poste alla base di tale
valutazione e di interloquire eventualmente con il Comune in
merito alla effettiva praticabilità della prospettata
soluzione alternativa, fornendo elementi fattuali e
valutativi in relazione agli elementi contenuti nella
relazione finale del Responsabile del procedimento.
Al riguardo, il Collegio condivide bensì quanto affermato
nel provvedimento impugnato, ossia che la possibilità di
concedere deroghe ai regolamenti edilizi debba ammettersi
soltanto in assenza di alternative valide ed effettivamente
praticabili.
Tuttavia, è proprio nel modus procedendi attraverso il quale
il Comune ha ritenuto di poter ravvisare l’esistenza di una
alternativa tecnica che l’intero iter procedimentale, e il
provvedimento comunale, manifestano i vizi allegati dai
ricorrenti.
Occorre invero tenere presente che l’eliminazione delle
barriere architettoniche che impediscono la piena
accessibilità degli edifici, limitando la possibilità per le
persone affette da handicap di svolgere pienamente la
propria personalità e di avere una normale vita di
relazione, attiene ad esigenze di rilievo costituzionale
primario, riconducibili anzitutto alle previsioni degli
articoli 2 e 3 della Costituzione.
A fronte della rilevanza di tali interessi, la sussistenza
di alternative praticabili rispetto all’intervento proposto
–ossia il presupposto per la concessione della deroga alle
previsioni dei regolamenti comunali– costituisce una
legittima ragione di diniego del permesso di costruire solo
laddove l’individuazione di tali alternative emerga e rilevi
in concreto, alla luce di tutti i dati fattuali rilevanti
nel caso di specie.
In altri termini, il rigetto della domanda di permesso di
costruire, con la quale sia stata chiesta la deroga alle
norme regolamentari, non può fondarsi sulla mera esistenza
in astratto di ulteriori soluzioni tecnicamente praticabili,
ma –laddove il richiedente abbia illustrato, come nella
specie, la non praticabilità, a suo avviso, di altre idonee
soluzioni– deve muovere dall’evidenziazione di soluzioni
che, sulla base delle circostanze fattuali note, siano da
ritenere come reali alternative, ossia come possibilità
effettivamente e concretamente praticabili.
E invero, laddove si ritenesse che l’esistenza solo in
astratto di altre possibili soluzioni costituisca una
ragione sufficiente per il rigetto dell’istanza di deroga
alle norme regolamentari, si finirebbe con il frustrare le
finalità stesse della deroga, oltre che i principi
costituzionali sopra richiamati, esponendo il richiedente a
elaborare altre soluzioni progettuali, che potrebbero però
poi a loro volta risultare non effettivamente fattibili.
Proprio per tali ragioni è necessario che la valutazione
tecnica del Comune in merito all’idoneità della soluzione
proposta dal richiedente, in deroga ai regolamenti comunali,
sia compiuta con il pieno coinvolgimento nell’istruttoria
procedimentale del soggetto istante, il cui apporto può
consentire la piena acquisizione di tutti gli elementi
fattuali e valutativi rilevanti nel caso di specie.
6.4 In conclusione, sul punto, le censure articolate dai
ricorrenti con il secondo motivo del ricorso introduttivo e
con il secondo motivo del ricorso per motivi aggiunti devono
essere accolte, nei sensi e nei termini di quanto fin qui
esposto, con assorbimento degli ulteriori profili di censura
articolati negli stessi motivi, e non rilevanti ai fini
della decisione del ricorso.
7. L’accoglimento delle domande di annullamento proposte dai
ricorrenti comporta, per l’effetto, l’annullamento della
nota comunale datata 14.11.2013 e del provvedimento di
diniego del permesso di costruire.
8. Non può, invece, trovare accoglimento la domanda di
risarcimento del danno, poiché i ricorrenti non hanno
fornito alcuna prova del pregiudizio subito, laddove il
relativo onere, per consolidato orientamento
giurisprudenziale, ricade interamente sulla parte che si
assume danneggiata (cfr., tra le più recenti, Cons. Stato,
Sez. IV, 26.08.2014, n. 4293).
D’altro canto, l’annullamento del permesso di costruire
lascia residuare un ampio margine di valutazione al Comune
al fine di verificare la sussistenza dei presupposti per il
rilascio del permesso di costruire in deroga ai regolamenti,
per cui –mancando un accertamento in ordine all’effettiva
spettanza del bene della vita richiesto– l’accoglimento
dell’impugnazione non può costituire il presupposto per
l'accoglimento della domanda di risarcimento del danno (v.
Cons. Stato, Ad. Plen., 03.12.2008 n. 13; Id., Sez. IV,
04.09.2013 n. 4439; TAR Lombardia, Sez. II, 16.03.2015, n. 729). |
aprile 2015 |
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CONDOMINIO: Impianti, chi si distacca paga.
Il condominio non può sopportare i costi di adattamento.
La Cassazione sul riparto spese di riscaldamento autonomo e
valvole termostatiche.
Nel caso in cui un condomino abbia provveduto a installare
nel proprio appartamento un impianto autonomo di
riscaldamento aggiuntivo a quello centralizzato, la
successiva installazione delle valvole termostatiche che
comporti la difficoltà di tenere distinti i consumi relativi
ai diversi impianti può essere corretta dal punto di vista
tecnico, ma gli eventuali maggiori costi derivanti da tale
adattamento rimangono interamente a carico del condomino che
vi ha dato causa.
Questo il principio che si può evincere
dalla
sentenza
29.04.2015 n. 8724 della II Sez. civile della
Corte di Cassazione.
Nel caso di specie un condomino aveva impugnato la delibera
con cui l'assemblea aveva deciso di installare le valvole
termostatiche sui singoli elementi radianti collegati al
riscaldamento centralizzato e di ripartire i consumi annuali
per il 20% in base alla tabella millesimale e per l'80%
secondo i consumi effettivi rilevati dai contatori. Il
condomino, che sosteneva di avere installato un impianto
aggiuntivo autonomo nel proprio appartamento, si lamentava
del fatto che così facendo sarebbe stato tecnicamente
impossibile distinguere i consumi dell'impianto comune da
quelli dell'impianto autonomo, così di fatto privandolo del
diritto di utilizzare anche quest'ultimo in alternativa a
quello centralizzato, pena l'addebito di spese
ingiustificate e comunque non controllabili.
L'impugnazione, disattesa in primo grado, era invece stata
accolta dai giudici di appello, costringendo quindi il
condominio a portare la questione dinanzi alla Suprema
corte.
I giudici di legittimità hanno quindi avuto modo di chiarire
in primo luogo il fatto che la scelta (libera) di ogni
condomino di distaccarsi dall'impianto centralizzato, oltre
a dover essere esercitata con le modalità volta per volta
previste dalla normativa temporalmente e territorialmente
applicabile, non può mai concretarsi in un aggravio di costi
per la collettività condominiale, essendo finalizzata a
soddisfare interessi personali. Tuttavia, ferma restando la
legittimità della delibera condominiale con la quale si
adotti il sistema di termoregolazione, la Cassazione ha
parimenti osservato come sia nel diritto del condomino che
si sia distaccato dall'impianto centralizzato ottenere, ove
tecnicamente possibile, di eliminare il rischio di una
sovrapposizione dei consumi con soluzioni che non comportino
maggiori costi per la compagine condominiale.
Di qui la decisione di cassare la sentenza impugnata e di
rinviarla ad altra sezione della corte di appello, proprio
allo scopo di appurare nello specifico la possibilità
tecnica di installare, a parità di spesa, le valvole
termostatiche con modalità tali da rendere trasparenti i
consumi dell'impianto centralizzato e di quello autonomo. In
caso contrario, infatti, ove cioè detta soluzione comporti
maggiori spese per gli altri condomini, i giudici sono stati
chiari nell'evidenziare come i relativi costi non possano
che essere sopportati dal condomino nell'interesse esclusivo
del quale sia stato installato l'impianto autonomo.
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L'iter corretto da seguire.
La riforma del condominio ha inserito nell'ambito della
normativa condominiale una nuova disposizione che consente
il distacco dall'impianto centralizzato. Questa possibilità
era già stata ammessa dai giudici, che avevano anche
precisato le condizioni per distaccarsi dall'impianto
comune.
La legge di riforma si è limitata a recepire i principi
affermati dalla giurisprudenza, senza precisare però il
corretto iter da seguire per evitare un distacco
illegittimo. Si deve considerare, infatti, che l'impianto di
riscaldamento viene dimensionato e progettato per servire un
determinato numero di unità immobiliari. Di conseguenza il
distacco (soprattutto se multiplo) può determinare problemi
tecnici tali da non garantire condizioni climatiche adeguate
nei vari alloggi. Il problema è che la legge non prevede
l'obbligo di preventiva informazione all'amministratore o
all'assemblea.
Tuttavia, se si vuole scongiurare il pericolo
di interminabili liti giudiziarie, il condomino che intende
distaccarsi (prima di iniziare le operazioni) dovrà
informare l'amministratore (che a questo punto dovrà
rimettere la questione all'assemblea), dimostrando la
sussistenza delle condizioni di legge e, cioè, l'assenza di
notevole squilibrio termico e la mancanza di aggravio delle
spese.
In ogni caso il condomino rinunciante, mentre è esonerato
dal dover sostenere le spese per l'uso del servizio
centralizzato, è invece obbligato a concorrere nelle spese
di conservazione e manutenzione (e messa a norma)
dell'impianto centralizzato. È vero, infatti, che il
condomino non perde la proprietà proporzionale
dell'impianto, bensì ne rinuncia al solo godimento.
- Il notevole squilibrio termico. Bisogna rilevare che se
l'abitazione del condominio che si vuole distaccare si
trova, per esempio, al primo piano dello stabile, confinante
sopra e sotto e su tutti i lati con vani di proprietà di
altri condomini che usufruiscono dello stesso impianto di
riscaldamento, ne deriva, per immediata percezione, che
l'interruzione del riscaldamento nei locali al primo piano
comporterà per i vicini una diminuzione di calore.
Come
hanno chiarito i giudici, però, la diminuzione di calore che
subiscono i condomini confinanti con il distaccato non può
essere considerata come notevole squilibrio termico.
Tuttavia se lo squilibrio può non essere notevole con un
distacco o due, potrebbe quasi sicuramente esserlo al terzo
o al quarto (dipendendo dal numero delle unità servite).
Pertanto i primi condomini potranno distaccarsi, mentre
quelli successivi, incorrendo nel divieto, dovranno
astenersene. Occorrerà pertanto valutare caso per caso a
seconda dei singoli impianti interessati.
- L'aggravio delle spese. Secondo la legge è sufficiente
l'aumento di pochi centesimi di spesa a carico degli altri
condomini perché si concretizzi l'aggravio di spesa e quindi
il distacco sia da considerarsi illegittimo. Pertanto,
seppure lo squilibrio funzionale fosse minimo, ma il
distacco determinasse un piccolo aumento di spesa, la
rinuncia al servizio sarebbe illegittima. Di conseguenza i
soggetti che si distaccano rimangono obbligati alla
corresponsione anche delle spese di esercizio (carburante,
corrente elettrica ecc.) se e nella misura in cui dal loro
distacco non consegua una diminuzione di tali oneri a carico
degli altri condomini: se le spese rimangono uguali non è
corretto che i rimanenti fruitori del servizio si facciano
carico anche delle spese di chi non ne fruisce.
- Il problema del contrasto tra legislazione nazionale e
regionale. La legge di riforma del condominio si è quindi
preoccupata che dall'intervento non derivino squilibri
all'impianto termico o aggravi di spesa per gli altri
condomini, ma ha totalmente ignorato di considerare se
l'intervento (o gli interventi nel medesimo palazzo) non
vadano a inquinare o a consumare di più rispetto a quanto
già faceva l'impianto centralizzato.
In altre parole, la
nuova norma che consente il distacco non è inserita in una
disciplina organica avente a oggetto il contenimento dei
consumi energetici e, pertanto, non è preordinata al
perseguimento di finalità di risparmio energetico né di
riduzione delle emissioni inquinanti. Tutto questo in
controtendenza rispetto a quanto prevede quella diversa
legislazione nazionale che ha recepito le direttive europee
in materia di contenimento de consumi energetici, la quale
preferisce il mantenimento degli impianti centralizzati
rispetto alla creazione di nuovi impianti autonomi.
Del resto, emerge come anche nella disciplina regionale si
ritenga preferibile -dal punto di vista tecnico- il
mantenimento degli impianti centralizzati negli edifici
esistenti, impedendo la loro trasformazione in impianti
autonomi, a meno che non esistano cause tecniche o di forza
maggiore che rendono necessaria tale trasformazione. In
particolare le regioni più virtuose, esercitando la
concorrente potestà legislativa loro spettante in materia,
hanno introdotto da tempo divieti o limitazioni
all'installazione di impianti termici individuali.
Così la regione Piemonte ha ritenuto, nell'ambito della sua
potestà legiferante, di vietare, in un'ottica di
salvaguardia dell'aria e del miglioramento delle prestazioni
energetiche degli edifici piemontesi, gli interventi
finalizzati al distacco e alla trasformazione di impianti
centralizzati in autonomi negli edifici che hanno più di 4
unità abitative.
Nella legislazione della regione Lombardia,
nel caso di edifici costituiti da o più unità immobiliari
nelle quali si sia optato per l'installazione di impianti
termici indipendenti per ciascuna unità immobiliare, anche a
seguito di decisione condominiale di dismissione
dell'impianto termico centralizzato o di decisione autonoma
del singoli, permane invece l'obbligo di produrre, oltre a
una relazione tecnica, l'attestato di prestazione
energetica.
In altre parole è fatto obbligo al responsabile
dell'impianto autonomo di realizzare preliminarmente una
verifica energetica che metta a confronto diverse soluzioni
impiantistiche, redigendo altresì una relazione con le
motivazioni della soluzione prescelta. E quando la somma dei
singoli impianti è uguale o maggiore di 100 kW, oltre alla
relazione tecnica e all'Ace, bisogna produrre anche la
diagnosi energetica
(articolo ItaliaOggi Sette del 18.05.2015). |
gennaio 2015 |
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CONDOMINIO: La scala di accesso al tetto resta comune.
Condominio. Occorre un titolo valido per poter «inglobare»
gli spazi dell’ultimo piano.
La scala per
raggiungere il tetto del condominio non si tocca. Anche se
gli spazi comuni usati per l’accesso sono ormai in uso
esclusivo a un condòmino.
Il caso è abbastanza frequente, soprattutto in città: la
fame di terrazzi e sottotetti ha portato in molti casi
all’acquisto di quelli che erano beni comuni, o alla loro
concessione in uso esclusivo a chi possiede l’appartamento
dell’ultimo piano.
In molte situazioni, però, l’accesso al tetto è assicurato
da una scala che, partendo dall’ultimo piano (di regola dal
pianerottolo) esce sul tetto o sbuca su un terrazzo comune
da cui si accede al tetto con un’ulteriore scala. Quando il
terrazzo o il lastrico solare vengono però ceduti in
esclusiva, spesso l’idea che questi accessi vengano usati
impropriamente dai condòmini, attraversando uno spazio che
ormai si considera di proprietà, spinge i concessionari del
diritto a rendere difficile o addirittura impossibile
l’accesso. Si tratta, ovviamente, di un comportamento
illegittimo, di cui la Corte di Cassazione, Sez. II civile, si è occupata da ultimo
con la
sentenza
08.01.2015 n. 40.
Nel caso affrontato dalla Corte la proprietaria dell’unità
immobiliare all’ultimo piano aveva anche un terrazzo in uso
esclusivo e la mansarda con una servitù di accesso a favore
del condominio per la manutenzione del tetto. Al terrazzo si
accedeva con una scala condominiale. La condòmina, però,
inglobava il volume scala nel suo appartamento, installando
una scaletta verticale disagevole e pericolosa.
Il condominio inziava un contenzioso che lo vedeva
vittorioso in primo e secondo grado ma la condòmina non si
arrendeva. La Cassazione le ha dato a sua volta torto,
affermando che i motivi da lei dedotti sono infondati:
«poiché nella specie l’area in contestazione riguarda parte
del vano scala e gli ultimi tre gradini della originaria
scala in legno che collegava, assieme al pianerottolo, il
vano alla porta d’accesso al terrazzo condominale, vale, ai
fini della prova della proprietà comune in capo ai condòmini,
la norma dell’articolo 1117 del Codice civile, relativa alle
parti dell’edificio che, in difetto di prova contraria (da
fornirsi a opera del condòmino) debbono presumersi comuni».
E dato che dai titoli non era emerso un diritto ma al
contrario l’inglobamento era solo una «mera circostanza di
fatto», la Cassazione ha confermato la condanna della condòmina a ripristinare a sue spese la «situazione dei
luoghi quale esistente prima dei lavori di ristrutturazione
entro 120 giorni»; in mancanza, veniva autorizzato il
condominio a provvedere e ad addebitare i costi alla condòmina inadempiente (articolo Il Sole 24 Ore del 09.01.2015). |
anno 2014 |
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novembre 2014 |
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CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Bed & breakfast senza permessi.
Non è cambio di destinazione d’uso, niente stop per
regolamento.
Spazi privati. Anche gli asili nido possono essere allestiti
nell’appartamento nel rispetto delle regole comuni.
Aguzzare l'ingegno e
inventarsi un mestiere, soprattutto quando le offerte di
lavoro sono ridotte al lumicino, può rivelarsi la scelta
giusta. Se poi l'impiego in questione si svolge direttamente
a casa e comporta investimenti contenuti, l'idea comincia a
essere davvero appetibile. È il caso dei bed and breakfast e
degli asili nido famiglia, due modi intelligenti per
guadagnare utilizzando l'alloggio in cui si risiede, sia
esso di proprietà o in affitto.
Il bed and breakfast è un'attività a carattere saltuario,
svolta a conduzione familiare da privati che utilizzano
parte della propria casa per offrire un servizio di alloggio
e prima colazione. In condominio non è necessaria
l'approvazione dell'assemblea, a meno che gli atti notarili
di acquisto o il regolamento condominiale non vietino
espressamente questo tipo di attività, differente dalla
pensione o dall'affittacamere.
Con la
sentenza
20.11.2014 n. 24707, confermando la
decisione della Corte d'appello, la Corte di Cassazione -Sez.
II civile- ha inoltre
stabilito che l'attività di b&b è consentita anche in
presenza di un regolamento condominiale che vieti, come nel
caso specifico, di «destinare gli appartamenti a uso diverso
da quello di civile abitazione o di ufficio professionale
privato». Secondo il giudice di appello «l'utilizzo degli
appartamenti a tale scopo non comporta il cambio di
destinazione d'uso ai fini urbanistici» e, cosa ancora più
importante, proprio la definizione di “civile abitazione”
citata nel regolamento, risulta essere un presupposto
fondamentale per lo svolgimento dell'attività di b&b.
Il condòmino può anche realizzare tutte le opere che ritiene
opportune, a patto che non provochino danni alle cose comuni
o pregiudizi alle proprietà esclusive altrui.
Per prima cosa, occorre recarsi allo Sportello unico della
attività produttive del Comune d'appartenenza e compilare la
Scia, la segnalazione certificata di inizio attività. Non
serve nessuna iscrizione alla sezione speciale del registro
delle imprese, mentre devono essere rispettati alcuni
requisiti, come quelli igienico-sanitari previsti dal
regolamento edilizio e dal regolamento d'igiene comunale,
oltre alla normativa vigente in materia di sicurezza e di
somministrazione di cibi e bevande. In linea di massima,
anche se ogni regione detta le proprie regole, è necessario
che le stanze abbiano dimensioni adeguate e siano presenti
due servizi igienici (se l'attività si svolge in più di una
stanza). E ancora occorre garantire: l'accesso diretto alle
camere da letto destinate agli ospiti; il cambio di
biancheria almeno tre volte alla settimana (e all'arrivo do
ogni nuovo ospite) e la pulizia quotidiana dei servizi.
Il responsabile dell'attività, oltre a registrare le
presenze e comunicarle alle autorità di pubblica sicurezza,
è tenuto a sottoscrivere una polizza assicurativa di
responsabilità civile, per eventuali danni arrecati agli
ospiti. Le tariffe, sono decise liberamente e vanno
comunicate alla Provincia, che ogni anno redige un elenco
dettagliato con le strutture ricettive operanti nel
territorio di competenza.
Per quanto riguarda gli asili nido in famiglia, bisogna
prestare un po' più di attenzione al regolamento
condominiale. Qualora, ad esempio, non siano consentiti
«assembramenti o passaggi più o meno consistenti di persone
che possano determinare un disturbo per la collettività
condominiale», anche se non esplicitamente indicato il
servizio può essere vietato.
Appurata la possibilità di iniziare l'attività in
condominio, occorre presentare il progetto a Comune e Asl,
con la descrizione dettagliata della propria attività. Anche
in questo caso ci sono dei requisiti da rispettare e, come
per i b&b, ogni regione ha dettato le proprie norme. A
cominciare dai locali in cui si svolge il servizio: c'è
bisogno di uno spazio per l'accoglienza; un'area gioco
protetta; una zona riposo con lettini separata dal resto
della casa; un bagno con fasciatoio e una cucina dove
preparare i pasti.
In Trentino, la regione italiana dove il nido famiglia è più
diffuso, il responsabile dell'attività è obbligato a seguire
un corso di formazione da 250 ore, con lezioni in aula e
tirocinio pratico. Solitamente, si possono accudire fino a
un massimo di sei bambini e i costi variano dai 3 ai 6 euro
all'ora, senza nessuna quota d'iscrizione.
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In sintesi
01 IL REGOLAMENTO
Con la sentenza 24707 del 20.11.2014 la Cassazione ha
inoltre stabilito che l’attività di b&b è consentita anche
in presenza di un regolamento condominiale che vieti, come
nel caso specifico, di «destinare gli appartamenti a uso
diverso da quello di civile abitazione o di ufficio
professionale privato»
02 NIENTE PARTITA IVA
L’attività di bed and breakfast non è considerata un vero
e proprio lavoro e quindi
non necessita di iscrizione
alla Camera di Commercio e apertura di partita Iva
03 LA SOSPENSIONE
Il responsabile dell’attività è però obbligato a sospenderla
per tre mesi l’anno, anche non consecutivi, e affittare un
numero massimo di tre camere per sei posti letto.
04 L’ASILO NIDO
Un po’ più complesso è avviare un nido famiglia. In molti
casi è obbligatorio un titolo
di studio, in altri è sufficiente seguire un corso ad hoc.
Non è sempre necessario costituire un’impresa
o far parte di una cooperativa:
se, ad esempio, ad avviare l’asilo è una famiglia,
basterà una scrittura
privata tra le famiglie associate. Attenzione al
regolamento: se, esempio, non siano consentiti
«assembramenti
o passaggi più o meno consistenti di persone
che possano determinare
un disturbo per la collettività condominiale»,
anche se non esplicitamente indicato il servizio può
essere vietato (articolo Il Sole 24 Ore
del 02.12.2014).
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MASSIMA
Non è illegittimo adibire
l’abitazione privata condominiale ad attività commerciale di
“affitta camere”, purché non si dimostri l’effettivo
pregiudizio in danno ai vicini di casa.
Le disposizioni contenute nel regolamento condominiale che
si risolvano nella compressione delle facoltà e dei poteri
inerenti al diritto di proprietà dei singoli partecipanti,
devono essere espressamente e chiaramente manifestate dal
testo o, comunque, devono risultare da una volontà
desumibile in modo non equivoco da esso.
L’interpretazione del giudice di merito del regolamento
condominiale è insindacabile dalla Cassazione salvo vizi
logici. E il giudice di appello, nel caso di specie, con
ragionamento «coerente» e «logico» ha ritenuto che il
regolamento non vietasse l’attività ricettiva «tenuto conto
che la destinazione a civile abitazione costituisce il
presupposto per la utilizzazione di una unità abitativa ai
fini dell’attività di bed and breakfast».
Una affermazione coerente anche con il regolamento regionale
del Lazio n. 16 del 2008, in cui si chiarisce che l’utilizzo
degli appartamenti a tale scopo non comporta il cambio di
destinazione d’uso ai fini urbanistici
(link a http://renatodisa.com). |
ottobre 2014 |
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CONDOMINIO:
Animali e condominio.
Domanda
Il divieto di tenere
animali è una regola legittima da inserire nel regolamento
di condominio?
Risposta
Il quinto comma dell'art.
1138 del cod. civ., introdotto dalla legge di riforma del
condominio n. 220/2012, efficace dal 17/6/2013, dispone che
«le norme del regolamento non possono vietare di
possedere o detenere animali domestici».
Pur non mancando opinioni di segno opposto, la tesi più
accreditata -conforme agli orientamenti manifestatisi in
passato in seno alla Corte di cassazione, che si ritengono
essere stati deliberatamente recepiti dal legislatore nella
riforma del condominio- è che tale preclusione (quella,
appunto, di vietare gli animali in condominio) operi
soltanto con riferimento ai regolamenti di tipo assembleare
approvati a partire dal 18.06.2013 e non per quelli
assembleari già in vigore prima di tale data, né per quelli
di tipo «contrattuale» posto che con riferimento a
questi ultimi il 4° comma dello stesso art. 1138 da sempre
dispone che «le norme del regolamento non possono in
alcun modo menomare i diritti di ciascun condomino, quali
risultano dagli atti di acquisto e dalle convenzioni»
-intendendosi per tali anche i regolamenti contrattuali– «e
in nessun caso possono derogare alle disposizioni degli
artt. 1118, 2° comma, 1119, 1120, 1129, 1131, 1132, 1136 e
1137» (articolo ItaliaOggi Sette del 13.10.2014). |
luglio 2014 |
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CONDOMINIO: Ascensore
installabile autonomamente.
Domanda
Sono
l'amministratore di un condominio, un condomino del quale
intende realizzare un ascensore a proprie spese e ritiene
non necessaria l'autorizzazione dell'assemblea. Vorrei
conoscere quale è l'orientamento della giurisprudenza in
materia.
Risposta
La pretesa del
condomino appare fondata. Anche di recente la Cassazione ha
affermato (sent. n. 10582/2014, che ha confermato la
sentenza della Corte di appello) che è legittima
l'installazione di un ascensore esterno a servizio e a spese
di un solo condomino, senza previa autorizzazione
dell'assemblea.
L'installazione dell'ascensore esterno a servizio esclusivo
di un'unità immobiliare costituisce un'innovazione legittima
che può essere eseguita a spese del proprietario (pertanto
non richiede l'autorizzazione del condominio) se non
pregiudica la stabilità o il decoro architettonico
dell'edificio.
In base alla propria giurisprudenza (Cass. n. 14096/2012),
la Suprema corte ha affermato che «in tema di condominio,
l'installazione di un ascensore, al fine dell'eliminazione
delle barriere architettoniche, realizzata da un condomino
su parte di un cortile e di un muro comuni, deve
considerarsi indispensabile ai fini dell'accessibilità
dell'edificio e della reale abitabilità dell'appartamento, e
rientra, pertanto, nei poteri spettanti ai singoli condomini
ai sensi dell'art. 1102 c.c., senza che, ove siano
rispettati i limiti di uso delle cose comuni stabiliti da
tale norma, rilevi, la disciplina dettata dall'art. 907 c.c.
sulla distanza delle costruzioni dalle vedute, neppure per
effetto del richiamo ad essa operato nell'art. 3, 2° c.,
della legge n. 13/1989, non trovando detta disposizione
applicazione in ambito condominiale»
(articolo ItaliaOggi Sette del 07.07.2014). |
giugno 2014 |
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CONDOMINIO: Parti comuni, cambi difficili. La convocazione deve arrivare
per raccomandata o per mail certificata.
I locali accessori. Per variare la destinazione l'avviso di
assemblea va affisso almeno 30 giorni prima.
Maggioranza speciale e
regole di convocazione dell'assemblea differenti rispetto a
quelle ordinarie per il cambio di destinazione d'uso in
condominio.
Con la riforma (la legge 11.12.2012, n.
220, entrata in vigore il 18.06.2013) è diventato
più difficile che in passato variare la finalità a cui sono
adibiti locali e porzioni di immobili comuni. Si pensi, ad
esempio, al cambio di destinazione d'uso dei locali di
portineria e alloggio del portiere, quando sia stato
soppresso il servizio di portierato.
Partiamo dalle regole per approvare la variazione. Nel
regime anteriore alla legge 220/2012, la modifica avveniva
con la stessa maggioranza prevista dall'articolo 1136,
quinto comma del Codice civile, per le innovazioni. Cioè la
maggioranza dei condomini oltre ai due terzi dei millesimi.
Da un anno il quadro è cambiato. L'articolo 1117-ter del
Codice civile, introdotto dalla legge di riforma, stabilisce
infatti che la destinazione d'uso delle parti comuni possa
essere modificata «con un numero di voti che rappresenta i
quattro quinti dei partecipanti al condominio e i quattro
quinti del valore dell'edificio».
Pertanto è necessaria la maggioranza per i cambi di
destinazione d'uso.
Anche la nuova norma, comunque, ribadisce comunque che il
cambio è permesso solo se non reca pregiudizio alla
stabilità o sicurezza del fabbricato, al pari godimento di
tutti i condomini e a patto che non ne alteri il decoro.
Comunque si sia arrivati alla versione finale del testo
dell'articolo 1136, il risultato è che oggi il riuso di
spazi condominiali non più utilizzati è ostacolato,
piuttosto che agevolato.
Oltre alle maggioranze, sono più stringenti rispetto alla
situazione antecedente anche i termini di convocazione
dell'assemblea.
L'avviso d'indizione deve essere affisso per non meno di 30
giorni consecutivi nei «locali di maggior uso comune o negli
spazi a tale fine destinati».
La comunicazione ai singoli proprietari, invece, deve
arrivare mediante lettera raccomandata o mezzi telematici
equipollenti con almeno 20 giorni di anticipo. Ciò significa
che non dovrebbe essere ammesso un semplice fax o la
consegna a mano.
Infine, all'interno della convocazione è necessario indicare
quali siano le parti comuni oggetto della modificazione e
quale la nuova destinazione d'uso proposta. Pena la nullità
della convocazione.
Sulla conseguente e logica nullità anche della delibera
(eventualmente approvata nel corso di una riunione nulla)
non c'è, invece, ancora chiarezza. Ma quasi certamente
toccherà alla magistratura offrire, di fronte al presentarsi
di casi concreti, le prime indicazioni sul punto.
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Passo per passo
01|LA MAGGIORANZA
Per approvare un cambio di destinazioni d'uso, dopo la
riforma, occorre il consenso dei quattro quinti dei
partecipanti al condominio, che rappresenti almeno i quattro
quinti dei millesimi
02|I LIMITI
Il cambio è permesso solo se non reca pregiudizio alla
stabilità o sicurezza del fabbricato, al pari godimento di
tutti i condomini e a patto che non ne alteri il decoro.
03|L'ASSEMBLEA
L'avviso di convocazione deve essere affisso per non meno di
30 giorni consecutivi nei locali di maggior uso comune o
negli spazi a tale fine destinati mentre la comunicazione ai
singoli proprietari deve arrivare per raccomandata o mezzi
telematici equipollenti con almeno 20 giorni di anticipo.
Quindi risultano inammissibili il fax o la consegna a mano.
04|I CONTENUTI
Nella convocazione è necessario indicare quali siano le
parti comuni oggetto della modificazione e quale la nuova
destinazione d'uso proposta, pena la nullità della
convocazione (articolo Il
Sole 24 Ore del 17.06.2014). |
CONDOMINIO: L'antenna
satellitare ammessa nel rispetto del decoro della casa.
Che cosa fare se un
condomino ha installato un'antenna satellitare facendo
passare i cavi in ogni dove e i suoi vicini se ne lamentano?
In casi del genere, l'assemblea potrebbe risolvere il
problema.
Nel marasma di «padelloni» che spesso infestano le facciate
interne degli edifici, la lamentela principale ha riguardato
l'alterazione del decoro. All'amministratore spetta la prima
valutazione dello stato dei luoghi e un compito: spiegare ai
condomini che il decoro architettonico cede il passo al
diritto all'informazione. Non solo: è sempre utile ricordare
che la valutazione della lesione del decoro architettonico
dev'essere eseguita tenendo in considerazione la percezione
comune di determinate opere ed installazioni (giudice di
pace di Grosseto, sentenza 1038 del 19.08.2011);
parabole, condizionatori e simili, dice la sentenza, sono
percepiti come normali impianti che non sono in grado
d'incidere oltremodo sull'aspetto del condominio.
Insomma
considerare violazione del decoro l'installazione di
un'antenna parabolica non è cosa così scontata.
In questo contesto la riforma del condominio ha previsto un
rimedio, passato sotto silenzio: l'articolo 155-bis delle
Disposizioni di attuazione del Codice civile. Partiamo
dall'articolo 1122-bis del Codice. Tale norma riguarda gli
impianti installati dopo il 18.06.2013 (entrata in
vigore della legge 220/2012 di riforma del condominio). Per
quelli installati prima di tale data, però, le norme codicistiche prevedono un rimedio specifico; è qui che
assume rilievo l'articolo 155-bis delle Disposizioni.
La
norma, infatti, consente all'assemblea di deliberare –con
le maggioranze semplici previste per la prima e seconda
convocazione– le prescrizioni necessarie a far sì che gli
impianti non centralizzati per la ricezione radiotelevisiva
e per l'accesso a qualunque altro genere di flusso
informativo (anche da satellite e via cavo) non rechino
pregiudizio alla sicurezza, alla stabilità e al decoro
dell'edificio. In sostanza, per tutti i casi analoghi,
l'assemblea può imporre l'adozione di accorgimenti con spese
a carico del condomino interessato. L'amministratore cui è
stata segnalata una situazione simile, quindi, avrà il
compito di convocare l'assise per le più opportune decisioni
in merito.
Si badi che le prescrizioni assembleari devono attenere
all'uso delle cose comuni sicuro e alla salvaguardia del
decoro senza mai potersi spingere al dettato di accorgimenti
che, di fatto, vanificherebbero il diritto d'uso del
singolo. Quindi al condomino che ritiene le prescrizioni
lesive dei propri diritti spetta sempre il rimedio
dell'impugnazione della delibera assembleare.
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I punti chiave
01|I RISCHI
Le antenne televisive poste a servizio delle singole unità
immobiliari sono in grado di alterare il decoro
architettonico dell'edificio
02|IL RIMEDIO
Le norme permettono di ovviare al problema anche per gli
impianti installati prima dell'entrata in vigore della
riforma; l'amministratore convoca l'assemblea e la stessa, a
maggioranza semplice, può deliberare l'adeguamento degli
impianti
03|L'IMPUGNAZIONE
Il condomino cui sono rivolte le prescrizioni può
contestarle in assemblea e comunque impugnare la
deliberazione (articolo Il
Sole 24 Ore del 17.06.2014). |
maggio 2014 |
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CONDOMINIO:
D. de Paolis,
Assemblee condominiali. Tabella completa ed aggiornata delle
maggioranze per deliberare (Bollettino di
Legislazione Tecnica n. 5/2014). |
marzo 2014 |
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CONDOMINIO: Impermeabilizzazione soletta.
Domanda
In caso d'infiltrazione dal giardino di proprietà esclusiva
soprastante verso la sottostante autorimessa condominiale,
come va ripartita la spesa?
Risposta
Per la più recente giurisprudenza della Corte di cassazione
(sent. 15841/2011 e 2243/2012) occorre fare applicazione
dell'art. 1125 c.c. («Manutenzione e ricostruzione dei
soffitti, delle volte e dei solai»), ai sensi del quale «Le
spese per la manutenzione e ricostruzione dei soffitti,
delle volte e dei solai sono sostenute in parti eguali dai
proprietari dei due piani l'uno all'altro sovrastanti,
restando a carico del proprietario del piano superiore la
copertura del pavimento e a carico del proprietario del
piano inferiore l'intonaco, la tinta e la decorazione del
soffitto».
Così facendo, le spese relative alla manutenzione e nuova
impermeabilizzazione della struttura portante che funge da
base del giardino esclusivo e da copertura dell'autorimessa
sono ripartite in parti uguali fra il proprietario del
giardino, da un lato, e i comproprietari dell'autorimessa
dall'altro. A carico dei comproprietari dell'autorimessa
resta invece la spesa per l'intonaco e la tinteggiatura
della facciata inferiore della struttura. L'eventuale
pavimentazione superiore sarà invece a carico del
proprietario del giardino (articolo ItaliaOggi
Sette del
31.03.2014). |
CONDOMINIO:
Risparmio energetico.
Domanda
Quali sono le maggioranze che in assemblea possono approvare
interventi di risparmio energetico?
Risposta
La materia è stata modificata anche di recente e, allo
stato, è regolata da due diverse norme (art. 1120, 2° c.,
cod. civ. e art. 26, 2° c., L. 10/1091), il cui rapporto non è
del tutto chiaro.
La prima norma sembra richiedere che gli interventi
costituenti innovazioni «per il contenimento del consumo
energetico» siano approvati «con un numero di voti che
rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la
metà del valore dell'edificio», e ciò sempre, tanto in prima
quanto in seconda convocazione (art. 1136, 4° c).
L'art. 26, 2° c., citato, invece, stabilisce che «Per gli
interventi sugli edifici e sugli impianti volti al
contenimento del consumo energetico e all'utilizzazione
delle fonti di energia di cui all'articolo 1, individuati
attraverso un attestato di certificazione energetica o una
diagnosi energetica realizzata da un tecnico abilitato, le
pertinenti decisioni condominiali sono valide se adottate
con la maggioranza degli intervenuti, con un numero di voti
che rappresenti almeno un terzo del valore dell'edificio».
Questa seconda disposizione, caratterizzata da un più basso
quorum, sembra differire dalla prima ed essere applicabile
in funzione del fatto che l'intervento, a prescindere dalla
sua natura di innovazione, sia assistito da «un attestato
di certificazione energetica o una diagnosi energetica»
(articolo ItaliaOggi
Sette del
31.03.2014). |
CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA:
Si intendono per barriere architettoniche –ai
sensi dell’art. 2, lett. A), punti a) e b) del d.m. n. 236/1989–
- “gli ostacoli fisici che sono fonte di disagio per la mobilità di chiunque ed in particolare di coloro che, per qualsiasi causa, hanno una capacità motoria ridotta o impedita, in forma permanente o temporanea”, ovvero
- “gli ostacoli che limitano o impediscono a chiunque la comoda e sicura utilizzazione di parti, attrezzature e componenti”
sicché, appare evidente che fra tali ostacoli debbano annoverarsi le scale dei palazzi a più piani, non affrontabili in assoluto da soggetti deambulanti con sussidi ortopedici, o comunque fonte di affaticamento –e, dunque, di “disagio”– per chiunque, a causa dell’età o di patologie di varia natura, abbia ridotte capacità di compiere sforzi fisici. Non può ragionevolmente negarsi, pertanto, che l’installazione di ascensori –certamente fonte di maggiore comodità per chiunque utilizzi un immobile– costituisca anche rimozione di barriere architettoniche, fonte di difficoltà crescente, a seconda del grado di disabilità: non a caso, detti impianti sono espressamente considerati nell’art. 7, comma 2, della legge n. 13/1989.
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Con sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Roma, sez.
II-quater, n. 4347/2007 del 14.05.2007 (che non risulta notificata) è stato
in parte accolto ed in parte (limitatamente alla domanda risarcitoria)
dichiarato inammissibile il ricorso proposto dalla CO. s.p.a. (Co.Se.As.Pu.),
per l’annullamento della nota della Soprintendenza n. 16267/B del
18.02.2004, con cui veniva ordinata la sospensione dei lavori, per
l’installazione di ascensori nel vano scala dei complessi edilizi siti in
Latina, piazza ... nn. 1 e 9, nonché di ogni atto presupposto (ivi compresa
la nota n. prot. 6567/B del 06.08.2003) e per l’accertamento del
silenzio-assenso, formatosi ai sensi degli articoli nn. 4 e 5 della legge n.
13/1989 e della circolare del Ministero dei Lavori Pubblici n. 1669/U.L. del
22.06.1989, sull’istanza di N.O. presentata il 21.12.2002.
Nella citata sentenza –disposta l’estromissione di due soggetti intervenuti
in giudizio– erano ritenute fondate le prospettazioni difensive, riferite ad
intervenuto superamento dei termini perentori, imposti dalla citata legge n.
13/1989 per la rimozione delle barriere architettoniche, a tutela dei
soggetti disabili.
Avverso la pronuncia in questione proponevano appello (n. 7966/07,
notificato il 04.10.2007) il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e
la Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio del Lazio, in
base alle seguenti argomentazioni difensive:
I) Sulla normativa applicabile: le opere di cui trattasi non
sarebbero rientrate nell’ambito degli interventi per il superamento delle
barriere architettoniche, soggetti alla disciplina della legge n. 13/1989
–tenuto conto anche del regolamento di attuazione, emanato con d.m. n. 236
del 14.06.1989– in quanto la quota di prima fermata degli ascensori
–coincidendo con il piano rialzato– avrebbe comunque lasciato sussistere
sette gradini, non superabili autonomamente da persone disabili, con
conseguente applicabilità della disciplina generale, contenuta nel d.lgs. n.
490/1999; il silenzio assenso, di cui all’art. 4 della citata legge n.
13/1989, non si sarebbe comunque formato, non avendo la Co. ottemperato a
richieste di integrazione documentale e dovendo ritenersi necessario
l’esplicito assenso della Soprintendenza;
II) Sulla mancata partecipazione al procedimento: con motivazione,
“sufficientemente espressa nel provvedimento” l’immediata sospensione
dei lavori in corso sarebbe stata giustificata con riferimento
all’irreversibile compromissione delle “peculiarità formali e sostanziali
di parti del compendio architettonico, sottoposto ad azione di tutela”;
III) Considerazioni finali: pur non volendo ostacolare l’abolizione
delle barriere architettoniche, l’Amministrazione avrebbe inteso tutelare il
vincolo artistico gravante sul bene interessato, in rapporto al quale i
lavori di cui trattasi sarebbero stati fonte di grave alterazione dello
stile e della funzionalità del complesso architettonico tutelato, in
presenza di soluzioni alternative, che avrebbero consentito di conciliare
gli interessi contrapposti.
La società appellata, costituitasi in giudizio, presentava articolate
controdeduzioni in rapporto alle tesi difensive sopra sintetizzate e su tale
base la causa è passata in decisione.
Premesso quanto sopra, il Collegio ritiene che l’appello non possa trovare accoglimento, con riferimento alla duplice ed assorbente questione sottoposta a giudizio: la riconducibilità di lavori –finalizzati all’installazione di ascensori nei vani scala di alcuni immobili– alla normativa vigente sul superamento delle barriere architettoniche e, in caso affermativo, la conformità dell’atto impugnato a detta normativa. Sotto il primo profilo, la risposta non può che essere affermativa, tenuto conto della nozione, deducibile dalla legge
09.01.1989, n. 13 (“Disposizioni per favorire il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati”), nonché dalle relative norme attuative, approvate con d.m. 14.06.1989, n. 236 (“Prescrizioni tecniche necessarie a garantire l’accessibilità, l’adattabilità, e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e della eliminazione delle barriere architettoniche”), ma anche ricorrendo a dati di comune esperienza (rilevanti per il giudizio, sul piano probatorio, ex art. 115, comma 2, c.p.c.).
Si intendono infatti per barriere architettoniche –ai sensi dell’art. 2, lettera A), punti a) e b) del citato d.m. n. 236/1989– “gli ostacoli fisici che sono fonte di disagio per la mobilità di chiunque ed in particolare di coloro che, per qualsiasi causa, hanno una capacità motoria ridotta o impedita, in forma permanente o temporanea”, ovvero “gli ostacoli che limitano o impediscono a chiunque la comoda e sicura utilizzazione di parti, attrezzature e componenti”: appare evidente che fra tali ostacoli debbano annoverarsi le scale dei palazzi a più piani, non affrontabili in assoluto da soggetti deambulanti con sussidi ortopedici, o comunque fonte di affaticamento –e, dunque, di “disagio”– per chiunque, a causa dell’età o di patologie di varia natura, abbia ridotte capacità di compiere sforzi fisici. Non può ragionevolmente negarsi, pertanto, che l’installazione di ascensori –certamente fonte di maggiore comodità per chiunque utilizzi un immobile– costituisca anche rimozione di barriere architettoniche, fonte di difficoltà crescente, a seconda del grado di disabilità: non a caso, detti impianti sono espressamente considerati nell’art. 7, comma 2, della citata legge n. 13/1989. Al fine di confutare le conclusioni sopra esposte, l’appellante si limita a segnalare, nel
primo ordine di censure, che nel caso di specie la quota di prima fermata degli ascensori di cui trattasi “coincide sempre con il piano rialzato e mai con il piano terreno, mantenendo, in tal modo, rampe di sette gradini non superabili autonomamente da persone disabili”, senza “realizzazione contestuale di strumenti alternativi per il superamento di queste barriere”: l’infondatezza di tali argomentazioni emerge con chiarezza dal testo delle norme regolamentari in precedenza riportate, che non impongono la totale rimozione delle barriere architettoniche, cessando di considerarle tali qualora –per le condizioni esistenti nell’immobile interessato– detta rimozione possa essere soltanto parziale e non soddisfare, quindi, pienamente le esigenze di soggetti non deambulanti in modo autonomo. Questi ultimi, tuttavia, non sono gli unici destinatari della norma, che fa riferimento anche a “capacità motoria ridotta”, riconducibile a soggetti in grado di superare sette gradini, ma non anche quattro o più piani di scale. Posto, dunque, che deve ritenersi positivamente accertata l’applicabilità della legge n. 13/1989 alla installazione di ascensori, resta da stabilire se detta normativa risulti violata, o meno, con l’emanazione degli atti impugnati in primo grado di giudizio. Anche a tale quesito la risposta non può che essere affermativa, a conferma delle conclusioni raggiunte nella sentenza appellata. Deve essere sottolineato al riguardo che quando, come nel caso di specie, l’immobile sia stato oggetto di notifica ai sensi dell’art. 2 della legge
01.06.1939, n. 1089 (sostituito, alle date che qui interessano, dall’art. 23 del d.lgs. 29.10.1999, n. 490), poiché ritenuto di interesse artistico o storico, il parere della Soprintendenza –prescritto per “opere di qualunque genere che si intendano eseguire” sul medesimo– viene sottoposto ad una disciplina acceleratoria speciale, nel caso appunto che dette opere siano finalizzate a rimuovere barriere architettoniche: l’art. 5 della citata legge n. 13/1989 prescrive infatti che la Soprintendenza debba pronunciarsi entro 120 giorni, “anche impartendo, ove necessario, apposite prescrizioni” e richiamando il precedente articolo 4, nelle parti (commi 2, 4 e 5) in cui la mancata pronuncia nel termine prescritto “equivale ad assenso”, con possibile diniego “solo ove non sia possibile realizzare le opere senza serio pregiudizio del bene tutelato”, specificando nella motivazione “la natura e la serietà del pregiudizio….in rapporto al complesso in cui l’opera si colloca e con riferimento a tutte le alternative eventualmente prospettate dall’interessato”.
Nella situazione in esame, non sembra si possa dubitare che la procedura descritta non sia stata rispettata, in presenza di una richiesta di autorizzazione, inoltrata dal professionista incaricato alla Soprintendenza il 21.12.2002 (che nell’atto di appello si afferma ricevuta –senza mutare i termini della questione– in data
08.01.2003), con successiva nota della medesima Soprintendenza del 06.08.2003 (n. prot. 6567/B, che la società interessata, peraltro, afferma di non avere ricevuto) intesa a comunicare lo stato di sospensione della pratica, in attesa di documentazione integrativa.
Nel frattempo, il Comune di Latina aveva prima (il 04.02.2003) diffidato Co. s.p.a. dal dare inizio ai lavori, oggetto di DIA presentata il 15.01.2003, e poi revocato tale diffida, avendo preso atto dell’iter autorizzativo avviato e da ritenere, ormai, concluso per silenzio assenso.
Avuta notizia della revoca il 16.06.2003, la Soprintendenza emetteva quindi il provvedimento di sospensione dei lavori n. prot. 16267/B del 14.02.2004, citando la precedente nota del
06.08.2003: entrambi tali atti erano oggetto di impugnativa da parte di Co. s.p.a., che negava di avere avuto conoscenza prima di allora della richiesta di documentazione integrativa.
In tale contesto, lo stesso atto di appello non contiene alcun riferimento a provvedimenti –anche istruttori– emanati nel termine perentorio previsto dalla legge, limitandosi ad affermare genericamente che le integrazioni documentali sarebbero state richieste al professionista incaricato da Co., ing. St., in un incontro svoltosi nel febbraio del 2003.
Tale operato, privo di qualsiasi riscontro documentale, non può ritenersi conforme alla normativa speciale in precedenza citata, che –in considerazione dei delicati interessi, sottostanti alla rimozione delle barriere architettoniche– non condizionava affatto i lavori all’approvazione espressa del Soprintendente, ma consentiva di ritenere acquisita detta approvazione per silenzio assenso dopo 120 giorni dalla presentazione dell’istanza, delimitando in modo rigoroso le ipotesi di diniego.
La formulazione della norma, che prevede la possibilità di assenso con prescrizioni, o il diniego motivato, ma solo in presenza di “serio pregiudizio” del bene tutelato, rende realmente marginale la possibilità di sospendere il termine perentorio in questione, se non nell’ipotesi eccezionale di istanza gravemente incompleta e inidonea a consentire l’avvio di qualsiasi istruttoria.
Anche detta sospensione, ove pure ritenuta ammissibile, avrebbe dovuto essere disposta con provvedimento circostanziato e motivato, che la stessa Amministrazione non afferma di avere emesso. Ove poi fossero state acquisite in sede di sopralluogo, nel febbraio 2003, informazioni tali da far ravvisare –come si legge nell’atto di appello– “l’impossibilità”, per le caratteristiche formali e per le dimensioni dei vani scala, di inserire impianti elevatori “senza procurare nocumento a parti strutturali di beni tutelati”, appare singolare l’omessa tempestiva adozione di un atto di diniego motivato e l’adozione a circa un anno di distanza di un ordine di sospensione di lavori, che la documentazione fotografica in atti mostra pressoché ultimati, senza che sui problemi strutturali anzidetti venga fornita ulteriore documentazione tecnica.
In tale contesto, il Collegio ritiene che l’Amministrazione abbia esercitato tardivamente –e quindi, data la sussistenza di un termine perentorio non rispettato, illegittimamente– il proprio potere interdittivo, potendo la stessa fare ricorso, dopo la maturazione del silenzio assenso, solo all’esercizio della potestà di autotutela, purché ne sussistessero i presupposti, anche in rapporto all’art. 21-nonies della legge n. 241/1990.
Le medesime ragioni, che nei termini sopra precisati consentono di respingere le argomentazioni difensive, contenute nel primo ordine di censure, giustificano il rigetto anche delle considerazioni successive, in cui si prospettano, in modo del tutto apodittico, “irreversibile compromissione”, o “grave alterazione” dello stile e della funzionalità dell’immobile tutelato, senza che risultino comprensibili, ancora una volta, i motivi per cui un simile negativo apprezzamento non abbia dato luogo a tempestivo provvedimento di diniego. In base alle argomentazioni svolte, in conclusione, il Collegio ritiene che
l’impugnativa debba essere respinta; quanto alle spese giudiziali, tuttavia,
la delicatezza degli interessi coinvolti ne rende equa, ad avviso del
Collegio stesso, la compensazione (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 05.03.2014 n. 1032 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO: Canne fumarie, pochi vincoli.
È consentita l'installazione sul muro perimetrale.
La Cassazione: il manufatto non è equiparabile a una
costruzione, ma a un accessorio.
Il singolo condomino può utilizzare il muro condominiale per
installare una canna fumaria anche ove la stessa venga
collocata a ridosso del terrazzo di proprietà di un altro
condomino, poiché detto manufatto non è equiparabile a una
costruzione, ma costituisce un semplice accessorio di un
impianto, non essendo quindi sottoposto alla disciplina
legale sulla distanza delle costruzioni previste.
È il
principio espresso dalla Corte di Cassazione, Sez. II
civile, nella
sentenza
03.03.2014 n. 4936.
Il fatto. Un condomino del piano terra chiedeva
all'assemblea di poter installare sul muro perimetrale
dell'edificio una canna fumaria necessaria per l'evacuazione
dei fumi del camino collocato all'interno del suo
appartamento. L'assemblea, dopo aver valutato la situazione,
autorizzava con due diverse delibere l'installazione e, in
entrambe le riunioni, il verbale veniva sottoscritto da
tutti i condomini presenti. Il condomino del piano terra
procedeva quindi all'esecuzione dell'opera, che veniva
realizzata in conformità alle prescrizioni del regolamento
edilizio comunale. Successivamente, però, il proprietario
dell'attico, che aveva prestato il consenso sottoscrivendo i
verbali assembleari, cambiava opinione e si rivolgeva
all'autorità giudiziaria, sostenendo che la canna fumaria
impediva il suo diritto di veduta dal parapetto del terrazzo
di sua esclusiva pertinenza.
Il tribunale però riteneva l'installazione della canna
fumaria legittima. Rigettato in primo grado, il ricorso
veniva accolto dalla Corte d'appello, che ordinava al
condomino del piano terra di demolire la canna fumaria di
sfogo del camino realizzato nell'appartamento di sua
proprietà, condannandolo al pagamento delle spese del doppio
grado di giudizio. Per i giudici di secondo grado anche la
canna fumaria poteva, infatti, essere fatta rientrare nella
categoria delle costruzioni e quindi doveva rispettare le
distanze legali. Del resto dal contratto di compravendita,
osservava la Corte d'appello, risultava che il terrazzo
davanti al quale era stata collocata la canna fumaria fosse
di proprietà esclusiva del proprietario dell'attico. Ragion
per cui quest'ultimo aveva diritto di fruirne e di
esercitare la veduta, diretta e obliqua, come previsto dalla
normativa in materia di distanze legali fra costruzioni.
Contro tale decisione il condomino del piano terra ricorreva
in Cassazione, ritenendo errata la sentenza d'appello nella
parte in cui aveva applicato la disciplina generale delle
distanze anziché le norme speciali in tema di condominio che
consentono al singolo condomino di realizzare opere sulle
parti comuni. In ogni caso il ricorrente obiettava pure che
il terrazzo era connaturale alla struttura di copertura
dell'edificio ed era quindi di natura condominiale.
La decisione della Suprema corte. La Cassazione ha quindi
confermato la legittimità dell'installazione della canna
fumaria in questione sulla base di un articolato
ragionamento. In primo luogo i giudici hanno confermato come
la terrazza a livello, quale accessorio rispetto
all'alloggio posto allo stesso piano, prevalga su quella di
copertura dell'appartamento sottostante e, se dal titolo non
risulti il contrario, la terrazza medesima debba ritenersi
appartenente al proprietario dell'attico, di cui
strutturalmente e funzionalmente è parte.
Confermata la proprietà esclusiva del terrazzo, la Corte ha
concentrato la propria attenzione sul rapporto intercorrente
tra le norme generali in tema di distanze e la disciplina
del condominio. In particolare la Cassazione ha precisato
come ciascun condomino abbia il diritto di utilizzare la
parete perimetrale dell'edificio, avente natura
condominiale, per l'apposizione della canna fumaria, anche
senza alcuna autorizzazione da parte degli altri condomini,
purché, come nel caso in esame, si rispettino i limiti
previsti dalla legge, cioè non si alteri la destinazione del
muro e non si impedisca agli altri partecipanti di farne
ugualmente uso, a nulla rilevando la disciplina sulla
distanza delle costruzioni dalle vedute.
In altre parole, se sono stati rispettati i limiti sopra
detti previsti dalla normativa condominiale, deve ritenersi
legittima l'opera che sia stata realizzata in violazione
delle norme dettate per regolare i rapporti tra proprietà
esclusive, distinte e contigue. Del resto, come conclude la
Cassazione, la canna fumaria (che è un tubo in metallo) non
è una costruzione, ma un semplice accessorio di un impianto,
e quindi la sua installazione sul muro perimetrale deve
sempre ritenersi consentita, a meno che la stessa abbia
dimensioni del tutto abnormi e superiori alla media
(articolo ItaliaOggi Sette del 07.04.2014). |
CONDOMINIO: Canna fumaria, limiti solo dal regolamento.
Condominio. Solo l'accordo contrattuale può stabilire
divieti all'uso delle parti comuni che non siano previsti
dal Codice civile.
Quando si
tratta di installare una nuova canna fumaria (in genere per
esercizi pubblici di ristorazione) occorre fare i conti con
i divieti imposti dal regolamento di condominio e con le
caratteristiche minime di funzionalità e di efficienza
fissati da ponderose normative di sicurezza e di igiene.
Superati tutti questi ostacoli, spesso scatta l'opposizione
del vicino che lamenta la violazione delle distanze legali e
invoca il proprio diritto di condomino.
La materia era stata perfettamente illustrata dalla
giurisprudenza dei nostri Tribunali, in particolare dal
Tribunale di Milano (sentenza dell'08.02.2013) che
hanno dettato princìpi condivisi dalla Corte di Cassazione,
Sez. II civile,
con la recentissima
sentenza
03.03.2014 n. 4936.
Appunto la sentenza della Corte di Cassazione permette di
fornire un chiaro vademecum.
In primo luogo, è stato ribadito che le canne fumarie non
hanno natura di costruzione e quindi non sono soggette alle
precisa distanza legale di cui all'articolo 907 del Codice
civile (tre metri dal fondo del vicino).
L'indicazione è puntuale e merita di essere ribadita, per
evitare inutili contenziosi: in materia di canne fumarie, si
possono individuare ed invocare le norme richiamate più
avanti ma non può invocarsi il rispetto della distanza di
tre metri che riguarda le vere e proprie costruzioni
suscettibili di determinare intercapedine e non i semplici
impianti tecnologici, accessori di unità immobiliari.
In secondo luogo, è stato ribadito che l'installazione di
una canna fumaria lungo il muro perimetrale di un edificio
condominiale non è in contrasto con la natura del muro
comune e quindi può essere attuata dal singolo condomino,
purché nel rispetto dell'articolo 1102 del Codice civile,
per il quale il nuovo manufatto deve rispettare il decoro
architettonico dell'edificio e non violare il pari diritto
degli altri condòmini ad usare la parete comune. E deve
superare la doverosa comparazione tra i diritti chiamati in
discorso (bilanciamento degli interessi).
Da ultimo, poiché la canna fumaria comporta anche emissioni
di fumi o di vapori, occorrerà avere attenzione per la
salubrità e per l'eliminazione di odori.
Succinto è il compendio finale: non entra in discorso una
distanze legale fissa ma la disciplina che i condomini si
siano data in virtù del regolamento contrattuale.
In difetto di regolamento contrattuale la canna fumaria può
dirsi illegittima soltanto se viola apprezzabilmente i
diritti degli altri partecipanti al condominio al decoro
architettonico ed alla salubrità (articolo Il Sole 24 Ore del 04.03.2014). |
febbraio 2014 |
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CONDOMINIO:
M. Pugliese,
Nell’assemblea condominiale, quando deve essere convocato il
nudo proprietario? E quando invece deve essere convocato
l’usufruttuario? (28.02.2014 - link a
www.diritto.it). |
CONDOMINIO:
D. Gambetta,
Nullità della clausola del regolamento condominiale con
previsione di sanzioni non pecuniarie: integrità
dell’ordinamento e necessaria limitazione dell’autotutela
nei rapporti tra privati. Nota alla sentenza della Corte
Cass. n. 820 del 16/01/2014 (28.02.2014 - link a
www.diritto.it). |
gennaio 2014 |
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CONDOMINIO: Terrazze, più equità nelle spese.
I proprietari pagano in base ai metri quadrati coperti.
Sentenza della Cassazione sulla ripartizione dei costi di
ricostruzione dei lastrici solari.
Maggiore equità nella suddivisione delle spese di
riparazione o ricostruzione del lastrico solare.
Secondo la
sentenza
23.01.2014 n. 1451 della Corte di Cassazione, Sez. II
civile, gli appartamenti sottostanti devono
contribuire nei due terzi delle spese di cui all'art. 1126
c.c. sulla base dei metri quadrati che risultano
effettivamente coperti e non per l'intero valore millesimale
attribuito all'unità immobiliare.
Secondo il codice civile
quando l'uso dei lastrici solari non è comune a tutti i
condomini, quelli che ne hanno l'uso o la proprietà
esclusivi sono, infatti, tenuti a contribuire per un terzo
nelle predette spese, mentre gli altri due terzi sono a
carico di tutti gli altri proprietari delle unità
sottostanti. Quanto sopra vale anche per la cosiddetta
terrazza a livello (di proprietà o uso esclusivo del
proprietario dell'ultimo piano) che svolge la stessa
funzione di copertura. In ogni caso rimangono a carico del
proprietario le spese attinenti alle parti che non svolgono
funzione di copertura (si pensi alla manutenzione dei
parapetti, alle ringhiere ecc.).
La ripartizione della parte di spesa di 1/3. La ripartizione
della spesa di un terzo non presenta particolare difficoltà.
Tuttavia nel caso in cui il lastrico sia comune a due o più
condomini la quota andrà divisa sulla base delle relative
percentuali di comproprietà o uso esclusivo.
La ripartizione della parte di spesa di 2/3: i soggetti
interessati. L'obbligo di pagare le spese dei due terzi del
lastrico non deriva dalla sola generica qualità di
condomino, ma anche dal fatto di essere proprietario di una
unità immobiliare compresa nella colonna d'aria sottostante
a esso.
Il criterio della doppia contribuzione. Può capitare che il
condomino che ha l'uso esclusivo del lastrico solare sia
contemporaneamente proprietario di un appartamento
sottostante o di una parte di esso (se, come nel caso
risolto dalla Cassazione, sia a due livelli): in tal caso
questi è soggetto alla cosiddetta doppia contribuzione. In
pratica sarà tenuto al pagamento per intero della quota di
1/3, nonché di una quota aggiuntiva dei 2/3.
Il problema degli appartamenti parzialmente coperti: la
ripartizione per millesimi. È anche possibile che tra gli
appartamenti sottostanti al lastrico ve ne sia qualcuno
coperto solo in parte. Tuttavia, secondo alcuni precedenti
giurisprudenziali, l'art. 1126 c.c. farebbe riferimento alla
porzione di piano intesa non come parte della proprietà, ma
come intera unità immobiliare (anche perché detta
disposizione non distingue in alcun modo tra immobili
totalmente e parzialmente coperti dal lastrico). Secondo
questa interpretazione sarebbe quindi sufficiente che si
trovi sotto il lastrico solare anche una piccola parte di un
appartamento perché il proprietario debba concorrere alla
ripartizione dei 2/3 delle spese con tutti i millesimi
attribuiti alla relativa unità immobiliare (tra le altre,
Trib. Pescara 05/10/2006).
Appartamenti parzialmente coperti: la ripartizione in base
ai millesimi di proprietà effettivamente interessati dalla
copertura. In questi casi, tuttavia, come sostenuto anche
dalla Cassazione, sembra maggiormente equo procedere a una
ripartizione basata sulle effettive quote millesimali delle
porzioni di piano coperte, quindi opportunamente rapportata
(ovvero ridotta) alla quantità di superficie dell'unità
immobiliare posta realmente al di sotto del lastrico.
In altre parole il criterio più idoneo per suddividere
questo tipo di oneri sarebbe quello di rapportarli
all'utilità che ogni proprietario trae dalla funzione di
copertura del lastrico: le unità immobiliari coperte solo in
parte non dovranno partecipare alla ripartizione della spesa
sulla base di tutti i millesimi di competenza, ma solo con
una parte determinata tenendo conto dei metri quadrati
coperti (trib. Milano 07/11/1994) (articolo ItaliaOggi Sette
del 17.02.2014). |
anno 2013 |
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dicembre 2013 |
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CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA:
Se è vero che il Comune ha l'obbligo di
verificare il rispetto da parte dell'istante dei limiti
privatistici, è anche vero che il controllo da parte
dell'Ente locale consiste in una semplice presa d'atto dei
titoli, senza che vi sia alcuna necessità di procedere ad
un’accurata e approfondita disamina dei rapporti tra
condomini.
In particolare deve del tutto escludersi l’obbligo del
Comune di effettuare complessi accertamenti diretti a
ricostruire tutte le vicende riguardanti la titolarità
dell'immobile, ovvero di prodigarsi nella ricerca di
eventuali limitazioni negoziali al diritto di costruire.
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Le innovazioni sulle parti comuni dell'edificio
condominiale, per essere rilevanti, devono essere infatti
“significative”, cioè devono alterare la particolare
struttura e la complessiva armonia che conferiscono al
fabbricato una propria specifica identità e, comunque, non
devono risolversi in apprezzabili limitazioni del normale
godimento della parte di bene di proprietà esclusiva.
Il profilo del decoro architettonico va poi valutato con
riferimento all'intero edificio condominiale, ed anche al
riguardo l'alterazione deve risultare “apprezzabile” alla
luce della necessità di trovare una situazione di equilibrio
tra i contrapposti interessi della comunità condominiale e
del singolo condomino.
Al riguardo, se è
vero che il Comune ha l'obbligo di verificare il rispetto da
parte dell'istante dei limiti privatistici, è anche vero che
il controllo da parte dell'Ente locale consiste in una
semplice presa d'atto dei titoli, senza che vi sia alcuna
necessità di procedere ad un’accurata e approfondita
disamina dei rapporti tra condomini (cfr. Consiglio di
Stato, Sez. VI 20/12/2011 n. 6731).
In particolare deve del tutto escludersi l’obbligo del
Comune di effettuare complessi accertamenti diretti a
ricostruire tutte le vicende riguardanti la titolarità
dell'immobile, ovvero di prodigarsi nella ricerca di
eventuali limitazioni negoziali al diritto di costruire
(cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV 08/06/2011 n. 3508).
Le innovazioni sulle parti comuni dell'edificio
condominiale, per essere rilevanti, devono essere infatti “significative”,
cioè devono alterare la particolare struttura e la
complessiva armonia che conferiscono al fabbricato una
propria specifica identità e, comunque, non devono
risolversi in apprezzabili limitazioni del normale godimento
della parte di bene di proprietà esclusiva (arg. Cassazione
Civile, ord. 30.01.2012, n. 1326). Il profilo del decoro
architettonico va poi valutato con riferimento all'intero
edificio condominiale, ed anche al riguardo l'alterazione
deve risultare “apprezzabile” alla luce della
necessità di trovare una situazione di equilibrio tra i
contrapposti interessi della comunità condominiale e del
singolo condomino (cfr. Cassazione Civile, Sezione 2,
27.12.2011, n. 28919).
Nella medesima scia ricostruttiva si osserva che non è
compito del Comune indagare se, ai sensi dell'art. 1102
c.c., l’innovazione alterasse o meno la destinazione della
porzione di giardino, o si risolvesse in una rilevante
limitazione dell’uso degli altri partecipanti al condominio
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 20.12.2013 n. 6165
- link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Sebbene sia condivisibile
l’orientamento giurisprudenziale secondo cui il Comune non è
tenuto a “procedere ad un’accurata ed approfondita disamina
dei rapporti tra i condomini”, altrettanto lo è anche
l’ulteriore specificazione secondo cui, “qualora vi sia un
conclamato dissidio fra i comproprietari in ordine
all'intervento progettato, la scelta dell'amministrazione di
assentire comunque le opere (in base al mero riscontro della
conformità agli strumenti urbanistici) evidenzia un grave
difetto istruttorio e motivazionale, perché non dà conto
dell'effettiva corrispondenza tra l'istanza edificatoria e
la titolarità del prescritto diritto di godimento”.
A tale proposito il Collegio ritiene che,
sebbene sia condivisibile l’orientamento giurisprudenziale
secondo cui il Comune non è tenuto a “procedere ad
un’accurata ed approfondita disamina dei rapporti tra i
condomini” (Cons. Stato, IV, 04.05.2010, n. 2546),
altrettanto lo sia anche l’ulteriore specificazione secondo
cui, “qualora vi sia un conclamato dissidio fra i
comproprietari in ordine all'intervento progettato, la
scelta dell'amministrazione di assentire comunque le opere
(in base al mero riscontro della conformità agli strumenti
urbanistici) evidenzia un grave difetto istruttorio e
motivazionale, perché non dà conto dell'effettiva
corrispondenza tra l'istanza edificatoria e la titolarità
del prescritto diritto di godimento” (cfr TAR Campania
Napoli Sez. II, Sent., 07.06.2013, n. 3019)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 18.12.2013 n. 1145 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
novembre 2013 |
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CONDOMINIO: Terzo responsabile, restano escluse le società di persone.
Condominio. Impianti di riscaldamento.
LE RESTRIZIONI/
Potranno svolgere la funzione solo le società per azioni e
in accomandita per azioni, le Srl e le Coop a responsabilità
limitata.
Il «terzo responsabile» per il riscaldamento non potrà
essere una società di persone.
Dal 12.07.2013 (data di entrata in vigore del Dpr 16.04.2013 n. 74, attuativo del Dlgs 192/2005) sono
cambiate le competenze del terzo responsabile. Queste
risultano ora essere: esercizio, conduzione, controllo,
manutenzione dell'impianto termico, rispetto delle
disposizioni di legge in materia di efficienza energetica,
sicurezza e tutela dell'ambiente. La nomina è una facoltà e
non un obbligo.
Nel caso di impianti termici con potenza nominale superiore
a 350 kW è necessario essere in possesso di certificazione
UNI EN ISO 9001 relativa all'attività di gestione e
manutenzione degli impianti termici, o attestazione
rilasciata ai sensi del Dpr 207/2010.
La delega non è consentita nel caso di singole unità
immobiliari residenziali in cui il generatore o i generatori
non siano installati in locale tecnico esclusivamente
dedicato.
Il ruolo di terzo responsabile di un impianto è
incompatibile con il ruolo di venditore di energia per il
medesimo impianto, e con le società a qualsiasi titolo
legate al ruolo di venditore, in qualità di partecipate o
controllate o associate in Associazione Temporanea di
Impresa o aventi stessa partecipazione proprietaria o aventi
in essere un contratto di collaborazione, a meno che la
fornitura sia effettuata nell'ambito di un contratto di
«servizio energia» (Dlgs 115/2008).
Cosa diversa è, invece, la conduzione degli impianti termici
civili. Nel caso in cui la potenza termica sia superiore a
0.232 MW, l'incaricato deve essere munito di un patentino di
abilitazione.
Ma l'individuazione del soggetto che può assumere l'incarico
è determinato dall'allegato A del Dlgs 192/2005,
recentemente modificato dal Dm del 22.11.2012. Secondo
la norma il terzo responsabile dell'impianto termico è una
«persona giuridica» in possesso dei requisiti. Ma se la
precedente versione comprendeva anche le "persone fisiche",
queste, ora, sono escluse. Il termine "persona giuridica"
sta ad indicare un complesso organizzato di persone e di
beni al quale l'ordinamento giuridico attribuisce la
capacità giuridica, cioè la possibilità per un soggetto di
essere titolare di diritti e doveri. E secondo il codice
civile, sono persone giuridiche solo le Società a
Responsabilità Limitata, le Società per Azioni, le Società
in Accomandita per Azioni e le Società Cooperative a
Responsabilità limitata.
Quindi non possono assumere l'incarico di terzo responsabile
le imprese individuali, le Società in Nome Collettivo, le
Società Semplici e le Società in Accomandita Semplice. È
stata operata una restrizione di non poco conto, andando a
escludere molte attività dalla possibilità di ricoprire
l'incarico che, sino a pochi mesi addietro, hanno svolto.
Soprattutto considerando che nell'ambito dell'artigianato,
quindi con organizzazioni societarie personali e non
giuridiche, non sono poche le realtà imprenditoriali che
svolgono attività di «terzo responsabile» dell'impianto di
riscaldamento.
Tra le associazioni che si sono poste la
questione, l'Anaci (Associazione degli amministratori
condominiali) è arrivata alla conclusione di dare
indicazione agli associati di non stipulare contratti con
soggetti diversi dalle persone giuridiche
(articolo Il Sole 24 Ore del
26.11.2013). |
CONDOMINIO: Ex amministratore, carte da consegnare.
Condominio. Sì alla tutela d'urgenza.
È ammissibile il ricorso al procedimento d'urgenza previsto
dall'articolo 700 del Codice di procedura civile per
ottenere la consegna dei documenti relativi al condominio
dall'amministratore cessato dall'incarico.
Lo sostiene il
Tribunale di Reggio Calabria (giudice Minutoli) in
un'ordinanza del 4 novembre.
Nei fatti, il condominio aveva chiesto che al proprio
precedente amministratore, a cui era stato revocato il
mandato, fosse ordinato di restituire la documentazione
sulla gestione dello stabile; questo per proporre un'azione
di merito per accertare l'inadempimento contrattuale e
ottenere il risarcimento del danno.
Il tribunale, «pur nella
consapevolezza di contrarie opinioni giurisprudenziali (che
prospettano, ad esempio, la possibilità del ricorso al
procedimento per decreto ingiuntivo)», premette che si può
ritenere consentito agire in via d'urgenza. Infatti, «in
relazione alle notorie incombenze del l'amministrazione di
un condominio», la mancata disponibilità della
documentazione contabile può determinare, per il condominio
e per ciascun condomino, un grave pregiudizio «non
agevolmente commisurabile né dunque facilmente riparabile,
se non altro per la possibilità che essa determini una
situazione di impasse durevole nel tempo».
Circa la verosimile fondatezza del diritto (fumus boni iuris),
il giudice osserva che l'amministratore ricopre «un ufficio
di diritto privato assimilabile al mandato con
rappresentanza» e deve quindi rendere in originale ciò che
ha ricevuto per conto del condominio (articolo 1713 del
Codice civile), con responsabilità per i danni che derivino
dall'omessa o tardiva restituzione.
Quanto al pregiudizio
nel ritardo (periculum in mora), il giudice riconosce che si
rischiano danni di natura pecuniaria, non tutelabili, di per
sé, in via d'urgenza. Ma, aggiunge, la condotta omissiva del
precedente amministratore può comportare anche danni che
trascendono i profili economici. In altri termini, il tempo
necessario per il giudizio a cognizione piena potrebbe
pregiudicare il diritto alla conoscenza di crediti o
provocare decadenze o altre conseguenze legate a mancate
iniziative processuali o extragiudiziali.
In accoglimento della domanda, all'ex amministratore è
quindi ordinata la consegna dei documenti
amministrativo-contabili relativi alla sua gestione
condominiale. La questione è stata più volte trattata dalla
giurisprudenza di merito, che perlopiù l'ha risolta come il
tribunale reggino. E la riforma del condominio (legge
220/2012), nel riscrivere l'articolo 1129 del Codice civile,
ha previsto che, alla cessazione del l'incarico,
l'amministratore deve consegnare tutta la documentazione in
suo possesso afferente al condominio e ai singoli condomini
e a eseguire le attività urgenti per evitare pregiudizi agli
interessi comuni (articolo Il Sole 24 Ore del
25.11.2013). |
CONDOMINIO:
Vizi «noti» anche senza perizia. Gravi difetti
dell'opera commissionata in appalto.
Il termine di prescrizione dell'azione di garanzia, prevista
dall'articolo 1667, comma 3, del Codice civile, nel caso di
opere realizzate in appalto e affette da vizi occulti o non
conoscibili, perché non apparenti all'esterno, decorre dalla
scoperta dei vizi, che è da ritenersi acquisita dal giorno
in cui il committente abbia avuto conoscenza degli stessi. E
la conoscenza dei vizi si può ritenere comunque acquisita
quando al committente sono stati comunicati in qualsiasi
modo, senza che sia necessaria una verifica tecnica dei vizi
stessi.
Con queste motivazioni la Corte di Cassazione, Sez. III
civile, con la
sentenza 22.11.2013 n. 26233, ha respinto il ricorso
presentato da un condominio che aveva citato in giudizio
l'impresa cui furono commissionati i lavori, perché fosse
dichiarato risolto il contratto d'appalto del 22.06.1993 per
grave inadempimento del convenuto e perché fossero accertati
i gravi difetti dell'opera commissionata in appalto, siccome
causati dalla cattiva e superficiale esecuzione del lavori.
Ma il tribunale dichiarò il condominio decaduto dall'azione,
in base all'articolo 1667 del Codice civile, con sentenza
poi confermata dalla Corte d'appello. ... (articolo
Il Sole 24 Ore del 09.12.2013 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIO: Autoclave, caldaie, cancelli: il problema va segnalato
all'amministratore.
Una delle principali fonti di discussione tra condomini è
rappresentata dal rumore proveniente dai vicini. Ma accade
spesso che il singolo condomino sia disturbato anche dal
rumore eccessivo proveniente dagli impianti comuni
(ascensore, autoclave, caldaia, scatto automatico del
cancello comune ecc.).
In tale ultimo caso è opportuno denunciare il problema al
responsabile della gestione degli impianti comuni, cioè
all'amministratore di condominio. Quest'ultimo, al fine di
verificare il rispetto dei limiti massimi di rumorosità, si
può rivolgere a un tecnico competente in acustica (o al
comune, che inoltra la richiesta all'Arpa, Agenzia regionale
protezione ambiente).
Se l'amministratore non interviene o
non prende provvedimenti in un tempo ragionevole non resta
che ricorrere all'autorità giudiziaria (competente in questa
materia è il giudice di pace) con una causa che va intentata
contro il condominio.
Quando il rumore degli impianti è intollerabile.
Il condomino che è disturbato dai rumori provenienti dagli
impianti condominiali si può tutelare chiedendo al
condominio il rispetto del limite della cosiddetta normale
tollerabilità prevista dalla legge. Stabilire quando tale
limite è superato non è facile perché lo stesso è variabile
da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona. In
ogni caso se il rumore degli impianti rimane entro i livelli
massimi fissati dalle normative di tutela ambientale ciò non
costituisce circostanza sufficiente a escludere in concreto
l'intollerabilità delle immissioni mentre, al contrario, il
superamento di detti livelli deve ritenersi senz'altro
illecito.
Secondo i giudici, però, per valutare se un rumore
supera o meno il limite di legge è necessario effettuare due
misurazioni: quella relativa all'immissione di rumore,
quando la sorgente in esame è funzionante, e quella del
cosiddetto rumore di fondo, quando detta sorgente non è
funzionante. L'immissione di rumore non deve superare il
limite massimo della normale tollerabilità, che è uguale a 3
decibel oltre il rumore di fondo. Da sottolineare che se
questo limite in una prima rilevazione non risulta superato
non è detto che invece risulti intollerabile poco tempo
dopo.
Come hanno spiegato recentemente i giudici, infatti, i
rumori degli impianti possono cambiare nel tempo in
relazione a una molteplicità di fattori (frequenza d'uso
della fonte, sua manutenzione, intensità volumetrica,
additivi di ogni tipo, modifica del rumore di fondo ecc.).
In altre parole il funzionamento per lunghi periodi degli
impianti rende inevitabile il deteriorarsi di meccanismi,
cuscinetti e guarnizioni che assicurano nei macchinari la
riduzione del rumore metallico.
La stanza da letto del condomino vicino alla caldaia.
Non c'è dubbio, per esempio, che un condomino abbia il pieno
diritto di godere secondo le sue personali abitudini ed
esigenze la propria camera da letto, anche se questa sia
confinante con il vano caldaia che emette rumori fastidiosi
anche di notte. In tal caso, come già accaduto, il giudice
può ordinare, invece che il divieto dell'uso dell'impianto,
l'esecuzione di opere atte a eliminare i rumori o a
ricondurli nei limiti della tollerabilità.
Così, per
esempio, la centrale termica può essere collocata su un
pavimento galleggiante, si possono installare giunti
elastici sulle tubazioni, elementi antivibranti di supporto
delle pompe di circolazione, una cuffia sul bruciatore ecc.
Se però tali rimedi non sono sufficienti è possibile pure
ordinare al condominio la rimozione della centrale termica
condominiale dal luogo in cui era stata installata in altro
locale insonorizzato.
Il problema dell'autoclave e dell'ascensore
Un disturbo insopportabile può provenire anche da
un'autoclave o dall'ascensore condominiale, anche se tali
impianti producono una rumorosità discontinua dovuta agli
avviamenti e alle fermate: in tal caso il livello sonoro che
meglio rappresenta il disturbo è rappresentato dai picchi
massimi raggiunti. Tuttavia anche in queste ipotesi le
immissioni intollerabili, seppure discontinue, sono da
considerare certamente dannose.
Per l'ascensore è possibile eliminare il disturbo imponendo
al condominio di intervenire con l'installazione di supporti
antivibranti dell'argano-motore, l'insonorizzazione del
locale tecnico e, negli ascensori vecchi, di attutire
l'impatto della chiusura delle ante della cabina. Per quanto
riguarda l'autoclave, se il ricorso all'installazione di
pannelli isolanti o rimedi simili non risolve i problemi del
singolo condomino, non rimane che ordinare la rimozione
dell'autoclave da collocare poi in altro luogo
(articolo ItaliaOggi Sette del
18.11.2013). |
CONDOMINIO: Via rapida per riscuotere le spese condominiali.
Prima applicazione dell'obbligo di agire entro sei mesi.
Dopo la riforma. All'amministratore non serve più
l'autorizzazione dell'assemblea.
Corsia rapida per recuperare i contributi dai condomini
morosi. L'amministratore, infatti, può ottenere un decreto
di ingiunzione al pagamento immediatamente esecutivo in base
allo stato di ripartizione approvato dall'assemblea senza
che ci sia bisogno di un'autorizzazione ad hoc da parte
dell'assemblea stessa. Né è necessario mettere in mora
preventivamente il condomino inadempiente, neanche quando lo
preveda una clausola del regolamento di condominio.
Sono
questi alcuni dei profili precisati dalla giurisprudenza
negli ultimi mesi, dopo l'entrata in vigore, lo scorso 18
giugno, delle novità introdotte dalla riforma del condominio
(legge 220 del 2012).
Inoltre, sempre secondo la riforma, l'amministratore deve
agire entro sei mesi dalla chiusura dell'esercizio nel quale
il credito esigibile è compreso. Attenzione: nel caso –piuttosto comune– degli esercizi scaduti al 30 giugno, al
termine mancano poche settimane.
La riscossione
In particolare, la riforma ha modificato l'articolo 63 delle
disposizioni di attuazione del Codice civile, in parte
ricalcando una prassi condominiale consolidata. Il nuovo
articolo 63 chiarisce, appunto, che all'amministratore non
occorre l'autorizzazione dell'assemblea per ottenere un
decreto ingiuntivo, immediatamente esecutivo nonostante
opposizione, per riscuotere i crediti dai condomini morosi.
Ma il decreto non può essere emesso se la spesa non è stata
prima approvata dall'assemblea. Infatti, perché il giudice
pronunci ingiunzione di pagamento, in base all'articolo 633
del Codice di procedura civile, è necessario che sia dia
prova scritta del diritto fatto valere. Questa prova
scritta, nel caso dei contributi condominiali, è costituita
dal documento da cui risulta l'approvazione da parte
dell'assemblea della relativa spesa.
Il mancato puntuale pagamento delle quote da parte dei
condomini potrebbe creare problemi all'amministratore, non
essendo in grado di fronteggiare gli impegni assunti per
conto dei condòmini. Tuttavia, l'amministratore che non
avvia la procedura esecutiva per riscuotere gli oneri
condominiali dai condomini morosi non commette
automaticamente un atto di cattiva gestione. Infatti,
l'amministratore non è responsabile se prova di avere
notificato ai condomini gli atti di precetto. Poi, il fatto
di non avere intrapreso la procedura esecutiva vera e
propria si giustifica –secondo l'ordinanza 20100 del 2
settembre scorso della Cassazione– sulla base della non
sicura solvibilità dei condomini.
I rapporti con i terzi
La tempestività nella riscossione forzosa delle somme da
parte dell'amministratore, che –in base al nuovo testo
dell'articolo 1129, comma 9, del Codice civile– deve essere
fatta entro sei mesi dalla chiusura del l'esercizio nel
quale il credito esigibile è compreso, evita di esporre i
condomini morosi alle azioni di recupero da parte dei terzi
creditori.
In passato, la responsabilità dei condomini per le
obbligazioni assunte dal condominio seguiva la regola della
solidarietà verso i creditori e della parziarietà nei
rapporti interni. In caso di morosità nei pagamenti di
alcuni condomini per un debito del condominio verso terzi
(ad esempio, per lavori), il creditore poteva agire, per il
recupero del suo credito, per l'intero importo direttamente
nei confronti di un solo condomino il quale, a sua volta,
poteva agire, in via di regresso, pro quota, nei confronti
dei morosi.
La situazione è cambiata dopo la sentenza 9148 del 2008
delle Sezioni unite della Cassazione, che ha introdotto il
principio della parziarietà, per cui le obbligazioni e la
conseguente responsabilità dei condomini sono passate a
essere governate dal criterio della parziarietà: vale a dire
che ogni condomino risponde soltanto per la propria quota di
competenza. Secondo le Sezioni unite, infatti, «considerato
che l'obbligazione ascritta a tutti i condomini, ancorché
comune, è divisibile trattandosi di somma di denaro, che la
solidarietà nel condominio non è contemplata da nessuna
disposizione di legge e che l'articolo 1123 del Codice
civile non distingue il profilo esterno da quello interno
(...), le obbligazioni e la susseguente responsabilità dei
condomini sono governate dal criterio della parziarietà».
La riforma del condominio ha ora reintrodotto la solidarietà
del debito del condominio, precisando, però, che i creditori
non possono agire nei confronti degli obbligati in regola
con i pagamenti, se non dopo l'escussione degli altri
condomini. I creditori devono cioè dimostrare di avere agito
nei confronti del moroso che non vuole pagare e di non
potersi soddisfare sul patrimonio di quest'ultimo prima di
rivolgersi ai condomini in regola.
Inoltre, per rendere il quadro trasparente, l'amministratore
è tenuto a comunicare ai creditori non ancora soddisfatti
che lo interpellino i dati dei condomini morosi
(articolo Il Sole 24 Ore del
18.11.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIO: Bloccato l'ascensore rumoroso.
Stop all'impianto che produce immissioni intollerabili.
La Cassazione conferma le ragioni di una condomina e la
condanna del condominio.
Stop agli impianti di ascensore rumorosi in condominio. La
Cassazione ha infatti individuato nelle disposizioni
speciali a tutela dell'ambiente i parametri oggettivi per
valutare la soglia di normale tollerabilità delle immissioni
rumorose anche nei rapporti tra i privati.
Questa
l'interessante conclusione contenuta nella
sentenza
06.11.2013 n. 25019
pronunciata dalla II Sez. civile della Suprema.
Il caso concreto. Nella specie una condomina aveva citato dinanzi al giudice
di pace di Ancona il proprio condominio, in persona
dell'amministratore pro tempore, perché fossero dichiarate
illegittime le immissioni acustiche provenienti
dall'ascensore condominiale e perché, conseguentemente, ne
fosse ordinata la cessazione con condanna alla realizzazione
di tutte le conseguenti opere necessarie. Nonostante le
eccezioni difensive formulate dal condominio costituitosi in
giudizio, il giudice, in parziale accoglimento della domanda
della condomina, aveva riconosciuto l'illegittimità delle
immissioni acustiche provenienti dall'ascensore, ordinandone
la cessazione e demandando all'assemblea, sulla scorta della
relazione resa dal consulente tecnico d'ufficio, di
provvedere all'attuazione dei rimedi indispensabili allo
scopo.
Il condominio, per nulla soddisfatto dell'esito del
procedimento, aveva quindi impugnato la sentenza dinanzi al
tribunale. Anche detto giudice, tuttavia, accogliendo
pienamente le valutazioni operate dal consulente tecnico
d'ufficio, il quale aveva rilevato che l'ascensore produceva
emissioni rumorose superiori ai limiti imposti dalla legge,
aveva confermato la valutazione di intollerabilità di queste
ultime.
La decisione della Suprema corte. La seconda sezione civile
della Cassazione, nel respingere a sua volta l'impugnazione
proposta dal condominio avverso la sentenza di appello, ha
chiarito che i criteri per la determinazione dei limiti
massimi di esposizione al rumore indicati dal dpcm del 01.03.1991, ancorché dettati per la tutela generale del
territorio, possono essere utilizzati come parametro di
riferimento anche per stabilire l'intensità e quindi la
soglia di tollerabilità delle immissioni rumorose nei
rapporti tra privati, dunque anche in ambito condominiale.
Tuttavia i giudici di legittimità hanno ritenuto che tali
criteri debbano essere considerati come un limite minimo e
non massimo, dato che gli stessi sono meno rigorosi di
quelli applicabili nei singoli casi ai sensi dell'art. 844
c.c., norma generale sulle immissioni, con la conseguenza
che, in difetto di altri eventuali elementi, il loro
superamento è idoneo a determinare la violazione della
predetta disposizione codicistica.
Nella specie, sulla base delle risultanze della consulenza
tecnica d'ufficio, era stato accertato il superamento della
normale tollerabilità delle emissioni provenienti
dall'ascensore condominiale prendendo come parametro di
riferimento il criterio comparativo tra il rumore con e
senza la sorgente disturbante nella differenza massima di 3
decibel. La Suprema corte ha comunque inteso chiarire come i
parametri di cui al dpcm del 01.03.1991, pur potendo
essere considerati come criteri minimali di partenza al fine
di stabilire l'intollerabilità delle emissioni che li
eccedano, non siano vincolanti per il giudice civile che,
nell'accertamento discrezionale dell'entità delle immissioni
nell'ambito privatistico, può anche motivatamente
discostarsene, pervenendo a un giudizio di intollerabilità
ex art. 844 c.c. anche nelle ipotesi in cui i limiti minimi
di legge non siano stati superati
(articolo ItaliaOggi Sette del
18.11.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIO: Il rumore si valuta con criteri ampi.
Condominio. Cassazione su decibel e ascensore.
Se l'ascensore è rumoroso, il problema è condominiale e non
del singolo proprietario.
La II Sez. civile della
Corte di Cassazione, presieduta da Roberto Triola, ha depositato ieri
la
sentenza 06.11.2013 n. 25019, con la quale ha esaminato il caso di una condòmina che chiedeva che venissero dichiarate illegittime
le immissioni acustiche dell'ascensore e che il condominio
provvedesse a realizzare «tutte le conseguenti opere
necessarie».
Il Giudice di pace di Ancona dichiarava effettivamente
l'illegittimità delle immissioni. L'appello del condominio
veniva rigettato dal Tribunale di Ancona, che lo condannava
anche alle spese.
La Cassazione ha anzitutto ricordato che i criteri adottati
per definire la normale tollerabilità, cioè quelli definiti
dal Dpcm del 01.03.1991, essendo meno rigorosi di quelli
desumibili dall'articolo 844 del Codice civile, sono
comunque accettabili. Possono cioè essere utilizzati anche
per individuare la soglia di tollerabilità delle immissioni
rumorose nei rapporti tra privati purché, però, considerati
come un limite minimo e non massimo.
Ma il Tribunale di Ancona aveva preso a parametro proprio il
superamento di 3 decibel del rumore di fondo ma ampliando
anche il dettato dell'articolo 844 del Codice civile con la
valutazione del livello medio dei rumori di zona (a
carattere residenziale e con scarsa presenza di attività
commerciali e di servizi), alle rilevazioni e agli
accertamenti delle Asl e al riconoscimento della loro
rumorosità (non fisiologica) da parte della stessa assemblea
condominiale. E in ogni caso, ha ricordato la Cassazione, il
giudice di merito può discostarsi dalle norme dettate a
tutela dell'ambiente, secondo il suo «prudente
apprezzamento», e utilizzare il criterio dell'articolo 844
del Codice civile, senza che questo sia oggetto di sindacato
di legittimità.
La Cassazione ha quindi rigettato tutti i motivi di ricorso
indicato dal condominio e confermando anche la condanna al
pagamento di tutte le spese che il Tribunale di Ancona aveva
espresso ribaltando quanto disposto al riguardo dal Giudice
di Pace
(articolo Il Sole 24 Ore del
07.11.2013). |
ottobre 2013 |
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CONDOMINIO:
Il riscaldamento non si taglia. Nessun blocco
dall'amministratore contro il condominio moroso.
Giustizia. Per il tribunale di Milano
l'interruzione del servizio lede il diritto costituzionale
alla salute.
Il servizio di
riscaldamento non si tocca anche se il condomino è moroso:
lo ha stabilito il Tribunale di Milano nel procedimento
(ruolo generale 72656/13, sezione XIII civile) promosso in
via d'urgenza da un condominio che, sul presupposto
dell'esistenza di una sua morosità nel pagamento delle quote
dovute, si era visto sospendere l'erogazione del
riscaldamento da parte di altro condominio tenuto per
contratto a fornirgliela.
Tra le due parti era sorta contestazione circa l'ammontare
del debito dell'una verso l'altra proprio in relazione al
riscaldamento erogato e così all'amministratore del
condominio erogante non era parso vero di dare esecuzione al
nuovo disposto dell'articolo 63, terzo comma, delle
disposizioni attuative del Codice civile che lo autorizza,
pur in difetto di qualsivoglia autorizzazione contenuta nel
regolamento (invece richiesta nel vecchio testo pre-riforma)
a sospendere il condominio moroso dalla fruizione dei
servizi suscettibili di godimento separato e di quello del
riscaldamento. Detto e fatto e un elevato numero di famiglie
si è trovata all'improvviso al freddo, senza alcun preavviso
e/o avvertimento.
Il ricorso al giudice è stato fulmineo proprio per ottenere
la ripresa del servizio e altrettanto rapida è stata la
decisione del giudice.
«La privazione di una fornitura essenziale per la vita,
quale il riscaldamento in periodo invernale, è suscettibile
di ledere diritti fondamentali delle persone, di rilevanza
costituzionale, quale il diritto alla salute (articolo 32
Costituzione)», argomenta il giudice. Comunque, «il diritto
che con la sospensione del servizio si intende tutelare è
puramente economico e sempre riparabile». Di qui, ricorrendo
i presupposti di pericolo di danno grave ed irreparabile
alla salute dei condomini, l'ordine impartito
all'amministratore di provvedere subito a garantire
l'erogazione del servizio di riscaldamento ai presunti
morosi.
È vero che la legge consente all'amministratore, nel
caso di morosità del condomino che si protrae per un
semestre, di sospendergli l'erogazione di quei servizi che
possono essere da lui goduti separatamente, fermo comunque
il diritto del condominio di procedere per il recupero della
morosità maturata e che eventualmente andrà a maturare.
Altrettanto vero è, però, che il terzo comma dell'articolo
63 delle disposizione attuative del Codice civile va
applicato con estrema prudenza da parte dell'amministratore
e in situazioni talmente gravi da non consentirgli diversa
soluzione, proprio per il rispetto dovuto verso coloro che
invece adempiono con regolarità i propri obblighi pecuniari
verso il condominio.
Rimane dunque preferibile che il regolamento, o in ultima
analisi l'assemblea, continui a indicare le modalità ed i
casi in presenza dei quali l'amministratore può avvalersi
del rimedio in esame, ad esempio individuando una soglia
minima di mora in presenza della quale scatta la sospensione
dal servizio. Nel silenzio, è chiaro però che il nuovo
potere discrezionale conferito all'amministratore dal nuovo
terzo comma dell'articolo 63 deve essere da lui dosato con
la diligenza del buon padre di famiglia, rimanendo comunque
salvo il sindacato dell'autorità giudiziaria sul suo operato
e dunque sulla sua personale responsabilità.
Resta poi da stabilire, nel silenzio della legge, da quando
decorre il semestre scaduto il quale si possa procedere alla
sospensione della fruizione dei servizi comuni (articolo Il Sole 24 Ore del
29.10.2013). |
CONDOMINIO: Delibere dal giudice solo con citazione.
Le conseguenze della riforma.
Per impugnare una delibera assembleare occorre l'atto di
citazione e non più il ricorso.
È uno degli effetti della
riforma del condominio (legge 220/2012) e, in particolare,
delle modifiche all'articolo 1137 del Codice civile.
Lo ha
chiarito il Tribunale di Milano (giudice Giacomo Rota) che,
con il provvedimento del 21.10.2013 nel procedimento
56369/2013, ha dichiarato inammissibile l'impugnazione della
delibera proposta da un condomino con ricorso anziché con
atto di citazione.
Il ragionamento del giudice milanese si fonda sul
presupposto che nel nuovo testo dell'articolo 1137 del
Codice civile, secondo cui contro le deliberazioni contrarie
alla legge o al regolamento ogni condomino assente,
dissenziente o astenuto può adire l'autorità giudiziaria
chiedendo l'annullamento, è stato espunta la formula «fare
ricorso», sostituita con la più generica frase «adire
l'autorità giudiziaria». Il che significa che il condomino,
per impugnare le delibere dell'assemblea, deve avvalersi
solo dell'atto di citazione, essendo il ricorso un mezzo
eccezionale per radicare un giudizio il cui uso, in quanto
tale, deve essere espressamente indicato dalla legge.
Il nuovo articolo 1137 del Codice civile ha recepito il
principio già dettato dalla Cassazione (sentenza 8491/2011),
che aveva individuato nell'atto di citazione l'unico
strumento di gravame. Va dunque abbandonata la teoria
dell'equipollenza degli strumenti di impugnazione, sostenuta
in precedenza (si veda la sentenza 8440/2011 della
Cassazione), che permetteva l'indistinto utilizzo della
citazione a udienza fissa oppure del ricorso.
Il ricorso non è di per sé idoneo a radicare il giudizio di
impugnazione e nemmeno a determinare l'effettivo
contraddittorio con il condominio convenuto, perché è
sprovvisto sia dell'indicazione dell'udienza fissa alla
quale quest'ultimo dovrà costituirsi, sia degli avvertimenti
previsti dagli articoli 163 e 164 del Codice di procedura
civile.
Né è possibile fare leva sul principio della conservazione
degli atti e del raggiungimento dello scopo, essendo il
ricorso privo della "chiamata in giudizio" perché appunto
manca, al momento della presentazione, l'indicazione
dell'udienza, elemento a cui deve poi provvedere il giudice
investito della controversia.
Nel caso deciso dal tribunale di Milano, il ricorso era
stato tempestivamente depositato presso la cancelleria del
giudice nei termini previsti dalla legge, ma nulla era stato
notificato al condominio entro 30 giorni, così che lo
stesso, nella persona del suo amministratore, aveva già
maturato un legittimo affidamento circa l'acquisita
esecutività della delibera impugnata.
Il giudice milanese recepisce la necessità di rispettare le
esigenze di certezza delle situazioni giuridiche di natura
condominiale, che non consentono di allungare i termini di
impugnazione e, anzi, impongono una rapida cristallizzazione
delle decisioni assembleari.
Quindi, dopo l'entrata in vigore della legge 220/2012 (il 18
giugno scorso), per introdurre il giudizio di impugnazione
di delibera assembleare occorre l'atto di citazione, che ha
lo scopo di proporre una domanda giudiziale e,
contestualmente, di chiamare in giudizio il convenuto
affinché possa difendersi. Solo così l'amministratore,
presso il cui domicilio va notificato l'atto di
impugnazione, può sapere se la delibera dell'assemblea,
decorsi 30 giorni dal voto o, per gli assenti, da quando
hanno ricevuto il verbale, si può ritenere definitiva (articolo Il Sole 24 Ore del 28.10.2013). |
CONDOMINIO: Sottotetto, rigore sui divieti.
Clausole regolamentari inderogabili da leggi regionali.
Gli effetti di una sentenza della Corte
di cassazione sull'utilizzo delle parti comuni.
I divieti contenuti nel regolamento condominiale
sull'utilizzo delle parti comuni rimangono impermeabili
anche a eventuali disposizioni di favore contenute nelle
leggi regionali. E così, in materia di destinazione dei
sottotetti, le clausole regolamentari non possono essere
derogate dai condomini nemmeno facendosi scudo delle leggi
emanate a livello regionale per favorire il recupero delle
soffitte.
Lo ha chiarito la II Sez. civile della Corte di
Cassazione con la
sentenza
24.10.2013 n. 24125.
Nella specie alcuni condomini avevano chiesto che il
tribunale inibisse la prosecuzione di opere iniziate
nell'appartamento sito al piano solaio del medesimo
edificio, opere che avrebbero concretato violazione del
regolamento condominiale, che vietava la trasformazione
d'uso del sottotetto, con conseguenti ripercussioni sulla
struttura e sul decoro architettonico dell'immobile. Visto
l'esito negativo del giudizio di primo grado, i medesimi
condomini avevano quindi provveduto ad appellare la sentenza
di rigetto emessa dal tribunale, senza però ottenere il
risultato sperato. Di qui il successivo ricorso in
Cassazione.
In sede di legittimità i supremi giudici, nel cassare la
sentenza impugnata, hanno però correttamente evidenziato la
portata del divieto contenuto nel regolamento del condominio
in questione –regolamento di natura contrattuale– nel
quale di disponeva espressamente che i condomini non
potessero mutare la destinazione del sottotetto a uso
deposito. A questo proposito la Cassazione ha ribadito come
le norme contenute nei regolamenti condominiali posti in
essere per contratto possano imporre limitazioni al
godimento e alla destinazione di uso degli immobili in
proprietà esclusiva dei singoli condomini, disposizioni che
si risolvono nella compressione delle facoltà e dei poteri
inerenti al diritto di proprietà dei singoli partecipanti e,
in quanto costituiscono oneri reali o servitù reciproche,
afferiscono immediatamente al bene immobile, purché
espressamente e chiaramente manifestate dal documento
contrattuale.
Ma nel caso in questione i giudici di legittimità hanno
anche bacchettato i giudici di appello per avere attribuito
efficacia di ius superveniens alla legge regionale per il
recupero dei sottotetti che, secondo la sentenza impugnata,
avrebbe avuto la meglio sui principi previsti in tema di
interpretazione del regolamento condominiale e sugli
specifici divieti previsti da quest'ultimo. Anche in questo
caso la Cassazione ha ribadito la propria giurisprudenza
formatasi in materia, secondo la quale anche la
regolarizzazione di una costruzione mediante il c.d. condono
delle violazioni di norme urbanistiche perpetrate nel
realizzarla esplica effetti soltanto sul piano
pubblicistico, precludendo alla pubblica amministrazione
l'applicazione delle previste sanzioni, ma non incide in
alcun modo sui diritti dei terzi direttamente pregiudicati
dall'attività costruttiva oggetto di sanatoria.
In
particolare i giudici hanno chiarito che una eventuale legge
regionale finalizzata al recupero ai fini abitativi dei
sottotetti con l'obiettivo di contenere il consumo di nuovo
territorio e favorire la messa in opera di interventi
tecnologici per il contenimento dei consumi energetici, pur
evidentemente autorizzando e anzi auspicando gli interventi
di recupero dei sottotetti, non può mai produrre l'effetto
di sanare le conseguenze della violazione del regolamento
contrattuale condominiale commessa dai condomini, con
connessa caducazione del diritto spettante agli altri
condomini di pretenderne la puntuale osservanza.
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Sì alla trasformazione in abitazione se non ci sono rischi
per la sicurezza.
Accade spesso che un condomino, titolare del sottotetto,
decida di trasformarlo in abitazione. Se nel regolamento o
successiva delibera non è previsto alcun limite alla facoltà
di utilizzazione e destinazione di questa particolare parte
comune, i singoli condomini non possono opporsi alla
trasformazione in locale abitabile, a meno che non vi sia il
rischio di pregiudizi alla sicurezza o alla stabilità
dell'edificio.
La trasformazione (lecita) del sottotetto: i diritti del
singolo condomino
Se i pericoli sopra detti non esistono, il singolo condomino
può procedere alla trasformazione. Da notare che, qualora un
sottotetto venga trasformato in vani abitabili, ciò non
comporta l'insorgere di alcun diritto in capo agli altri
condomini, a nulla rilevando che le opere siano o non siano
legittime nei confronti della pubblica amministrazione, in
relazione agli strumenti urbanistici vigenti. In ogni caso è
possibile richiedere l'allaccio ai servizi condominiali:
l'allaccio di nuove utenze a una rete di servizi (fognaria,
elettrica, idrica o di altro tipo) è, infatti, per sua
natura capace di accogliere nuove utenze.
Tuttavia è
possibile negare l'autorizzazione all'allaccio se il
condominio dimostra che, per motivi tecnici, l'allaccio di
una sola nuova utenza incide sulla funzionalità
dell'impianto. In caso contrario, però, l'assemblea non può
ostacolare l'uso di quei servizi comuni indispensabili alla
trasformazione con il preciso intento di impedire mutamenti
di destinazione. Del resto il condomino ha molte più
possibilità di intervenire sulle parti comuni di quanto
normalmente si pensi. Così, ad esempio, può installare
un'autoclave per portare l'acqua fino all'ultimo piano,
creare un'apertura sul pianerottolo comune, modificare
l'andamento del tetto ecc.
Sottotetto e regolamento di condominio
Non è raro trovare nel regolamento una norma che prevede il
divieto di utilizzo delle unità immobiliari di proprietà
esclusiva dei singoli condomini per fini diversi da quelli
previsti al momento della costruzione e dell'acquisto del
caseggiato. L'obiettivo di tali divieti è quello di evitare un godimento
e un uso di servizi e parti comuni eccedenti le facoltà del
condomino che operi la trasformazione di locali. In tal caso
il divieto della norma regolamentare è applicabile anche a
un bene (sottotetto) che, pur se di pertinenza
dell'appartamento di un condominio, risulti costruito,
realizzato e acquistato non come vano abitabile ma come
deposito e, in quanto tale, destinato a un utilizzo (diverso
da quello di abitazione) non modificabile in virtù del
divieto previsto dal regolamento condominiale.
Ma non è possibile trasformare il sottotetto in vano
abitabile neppure se il regolamento contenga una clausola
contrattuale che impedisce di compiere qualsiasi opera
interna. Quanto sopra vale però solo nel caso in cui dette
clausole siano valide. A tale proposito bisogna ricordare
che tali norme del regolamento se predisposte
dall'originario proprietario dello stabile devono essere
accettate dai condomini nei rispettivi atti di acquisto o
con atti separati. Se deliberate, invece dall'assemblea,
esse debbono essere approvate all'unanimità, dovendo in
mancanza considerarsi nulle, perché eccedenti i limiti dei
poteri dell'assemblea.
In ogni caso, se il regolamento è trascritto o richiamato
nei singoli atti di acquisto, anche gli acquirenti sono
tenuti a osservare scrupolosamente queste limitazioni alle
proprietà esclusive. Queste considerazioni valgono anche per
quelle disposizioni del regolamento che permettono la
trasformazione del sottotetto soltanto nel caso in cui le
opere necessarie siano autorizzate dall'assemblea dei
condomini.
Anche tali clausole hanno natura contrattuale e, quindi,
sono valide solo se sono state predisposte dall'originario
proprietario del caseggiato e accettate nei singoli atti
d'acquisto, oppure se sono state deliberate all'unanimità in
un'assemblea.
La violazione del regolamento
Nella ristrutturazione di un sottotetto si pongono una serie
di problemi in misura molto superiore a quello che accade in
una normale ipotesi di ristrutturazione, problemi che
consigliano di operare con una certa accortezza. È quindi
consigliabile, prima di mettersi all'opera, richiedere un
consiglio all'amministratore, il quale conosce eventuali
divieti contenuti nel regolamento di condominio. Se però un
condomino, ignorando la presenza di particolari divieti
regolamentari, trasforma illecitamente il sottotetto in
abitazione è inevitabile la reazione del condominio.
In particolare, a fronte del mutamento di destinazione
abusivo del sottotetto che il proprietario esclusivo del
locale realizzi mediante opere esclusivamente interne, in
violazione di un vincolo imposto dal regolamento del
condominio, deve escludersi che gli altri condomini possano
conseguire l'eliminazione di dette opere interne, potendo
soltanto ottenere l'inibizione del diverso uso. Si potrebbe
ad esempio sostenere che il titolare del sottostante
appartamento risulti danneggiato a causa dei maggiori rumori
derivanti dalla destinazione ad abitazione del sottotetto,
prima utilizzato solo saltuariamente come soffitta
(articolo ItaliaOggi Sette
dell'11.11.2013). |
CONDOMINIO: Il regolamento blocca la mansarda.
Il patto contrattuale può vietare le modifiche alle
destinazioni d'uso «non conformi».
Cassazione. La Corte si pronuncia sulla libertà del singolo
di intervenire sulla sua unità immobiliare nell'ambito del
condominio.
Il sottotetto non può diventare una mansarda se il
regolamento condominiale contrattuale lo vieta: e a nulla
vale l'uso comune di trasformare quei locali in abitazioni
se non c'è il via libera dell'assemblea che consente di
cambiare la destinazione d'uso.
La Corte di Cassazione, Sez. II civile, con
la
sentenza
24.10.2013 n. 24125, accoglie il ricorso di
alcuni condomini che non volevano concedere agli acquirenti
di un sottotetto adibito a stenditoio-magazzino la
possibilità di farne un'abitazione bohèmienne.
Un desiderio che era stato avallato nei primo grado di
giudizio dai giudici di merito che avevano consentito agli
acquirenti di proseguire i lavori di adeguamento alla nuova
destinazione, basandosi sulla «intrinseca destinazione
abitativa delle mansarde», come previsto anche dalla legge
regionale 15/1996 che poneva il solo vincolo di non alterare
la volumetria. La Cassazione però prende le distanze dalla
lettura del tribunale e della Corte d'appello e invita al
rispetto della destinazione naturale dei locali di proprietà
esclusiva. Nel contratto di compravendita, infatti, l'ambìto
spazio era descritto come un locale rustico appartenente
alla categoria catastale C/2 che notoriamente destina
l'immobile ad essere utilizzato come magazzino. La stessa
cosa era prevista nel regolamento condominiale.
La Suprema corte ricorda quindi che «le norme contenute nei
regolamenti condominiali posti in essere per contratto
possono imporre limitazioni al godimento e alla destinazione
d'uso degli immobili di proprietà esclusiva dei condomini».
Più in dettaglio, la Cassazione ha osservato che, secondo il
costante orientamento della stessa, il canone ermeneutico da
usare nell'esame di un contratto (quale il regolamento
condominiale contrattuale) è quello del senso letterale
delle parole e delle espressioni usate nel testo; tuttavia,
il rilievo da assegnare alla formulazione letterale deve
essere verificato alla luce dell'intero contesto
contrattuale e non in una parte soltanto. Proprio per
questo, prosegue la Cassazione, la decisione della Corte di
merito (La Corte d'appello di Milano) è sbagliata: per non
aver tenuto conto dell'intero contenuto della clausola
contrattuale «il cui spirito è volto a imporre a ciascun
condomino il rispetto della destinazione naturale dei locali
di proprietà esclusiva».
Nel rogito, infatti, l'unità era descritta locale rustico,
di categoria catastale C/2 (magazzini e locali di deposito),
mentre la Corte di merito si è basata sulla «circostanza
astratta che i locali venduti avessero come loro
destinazione naturale quella abitativa», senza accertare
quale fosse l'effettiva destinazione dell'immobile ma
considerando solo la «potenziale vocazione delle mansarde a
essere abitate». La Cassazione ha quindi introdotto un
importante richiamo alla destinazione catastale quale
elemento scriminante nell'individuazione della destinazione,
soprattutto quando le variazioni fossero state espressamente
vietate dal regolamento condominiale contrattuale.
Inoltre, la Corte d'appello è stata censurata anche per aver
attribuito l'efficacia di ius superveniens alla legge della
Regione Lombardia 15/1996, che aveva facilitato la
trasformazione di mansarde in sottotetti: questa norma
avrebbe caducato le conseguenze della violazione del
regolamento contrattuale, regolarizzando la situazione a
priori.
La Suprema Corte, però, ha distinto tra i due piani
di rapporti: uno pubblicistico, tra il privato e
l'amministrazione, e l'altro privatistico, tra il soggetto
che ha operato la violazione e gli altri titolari di diritti
soggettivi (tutelati dal regolamento condominiale
contrattuale): la previsione di regolarizzazione delle opere
(in questo caso il cambio di destinazione d'uso) dal punto
di vista urbanistico «attiene al punto di vista
amministrativo, penale e fiscale ma non pure ai fini
privatistici, cosicché nelle controversie tra privati detta
regolarizzazione non può incidere negativamente sui diritti
dei terzi»
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.10.2013). |
CONDOMINIO:
In condominio telecamere decise a maggioranza.
Il condominio è un luogo di stretta convivenza e quindi
bisogna saper dosare la trasparenza nella gestione della
cosa comune e il diritto alla riservatezza di ciascuno,
tutelato dal Codice della privacy. Così l'amministratore
dovrà saper conciliare di volta in volta queste due
necessità –che la legge considera ugualmente importanti–
senza che l'una prevalga sulla seconda o possa danneggiarla.
Il nuovo articolo 1122-ter del Codice civile, introdotto
dalla riforma del condominio (legge 220/2012), si occupa per
la prima volta della videosorveglianza. E stabilisce che
l'assemblea condominiale, con la maggioranza degli
intervenuti che rappresentino almeno metà dei millesimi, può
deliberare l'installazione di videocamere sulle parti comuni
dell'edificio.
Il Garante della privacy ha giustamente distinto tra le
riprese svolte dai singoli condomini a scopi personali e
quelle che invece vengono effettuate dal condominio per
controllare le sue parti comuni.
Il primo caso si riferisce a quando il condomino intende
sorvegliare la propria porta di casa oppure il posto auto.
Dato che le immagini non verranno diffuse né comunicate a
terzi, non si applica il Codice della privacy. Quindi, per
esempio, non c'è l'obbligo di segnalare con un cartello la
presenza della videocamera. L'importante è che il sistema di
videosorveglianza sia installato in modo tale che
l'obiettivo della telecamera riprenda unicamente la porta
d'ingresso e non il pianerottolo, così come la videocamera
posta nel box dovrà riprendere unicamente il proprio posto
auto e non l'intero garage.
Invece, nel caso di telecamere poste dal condominio per
sorvegliare le parti comuni, dovranno essere adottate tutte
le misure e le precauzioni previste dal Garante, cioè:
- le persone che transiteranno nelle aree sorvegliate
dovranno essere informate con appositi cartelli delle
presenza delle telecamere;
- nel caso di impianti collegati alle forze dell'ordine,
sarà necessario apporre uno specifico cartello che lo
evidenzi;
- le immagini registrate potranno essere conservate per un
periodo limitato, cioè sino a un massimo di 24-48 ore, fatte
salve specifiche esigenze, come la chiusura di esercizi
oppure di uffici che hanno sede nel condominio, o di
ulteriore conservazione in relazione ad indagini della
polizia o comunque di natura giudiziaria;
- le telecamere condominiali dovranno riprendere solo le
aree comuni da controllare, evitando la ripresa di luoghi
circostanti quali strade, altri edifici, edifici commerciali
eccetera;
- i dati raccolti dovranno essere protetti con idonee e
preventive misure di sicurezza, in modo da consentirne
l'accesso solo alle persone autorizzate oppure al titolare o
al responsabile del trattamento dei dati (che ben potrà
essere anche lo stesso amministratore del condominio).
Il mancato rispetto di queste prescrizioni, a seconda dei
casi, comporterà:
- l'inutilizzabilità dei dati personali trattati (lo prevede
l'articolo 11, comma 2, del Codice della privacy);
- l'adozione di provvedimenti di blocco o divieto del
trattamento disposti dal Garante (articolo 143, comma 1,
lettera c, del Codice);
- l'applicazione delle sanzioni amministrative o penali ed
esse collegate (articoli 161 e seguenti del Codice), oltre
ovviamente ad eventuali richieste di risarcimento da parte
di eventuali soggetti danneggiati.
Lo stesso si può dire in relazione ai videocitofoni che
rilevano immagini, talvolta anche tramite registrazione.
Se il sistema è installato esclusivamente a fini personali e
le immagini non sono destinate alla comunicazione
sistematica o alla diffusione, il Garante non interviene
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.10.2013). |
CONDOMINIO: Sito internet a prova di privacy.
Accesso alla pagina web condominiale da proteggere.
I chiarimenti contenuti nel vademecum del Garante
sulla gestione delle informazioni.
Internet e condominio a prova di privacy. Sul sito web
condominiale gli amministratori possono caricare
esclusivamente informazioni relative alla gestione dei beni
e dei servizi comuni, alle quali possono avere accesso solo
i condomini tramite la predisposizione e l'utilizzo di
apposite credenziali di autenticazione (vale a dire una
username e una password).
Questo uno dei chiarimenti
contenuti nel nuovo
vademecum redatto dal Garante
sull'applicazione in ambito condominiale della normativa sul
trattamento dei dati personali di cui al dlgs n. 196/2003
(consultabile sul sito internet dell'Authority,
all'indirizzo www.garanteprivacy.it).
La privacy, quindi, si aggiorna alla riforma del condominio
o, meglio, l'Autorità garante prende atto con piacere del
fatto che la legge n. 220/2012, direttamente o
indirettamente, abbia confermato punto per punto le
indicazioni a suo tempo fornite con il provvedimento
generale del 18 maggio 2006 (giungendo anche a colmare, con
il nuovo art. 1122-ter c.c., la lacuna a suo tempo
denunciata relativamente alle maggioranze necessarie per
approvare l'installazione di impianti di videosorveglianza
delle parti comuni; si veda il relativo approfondimento).
Quanto sopra è particolarmente evidente, ad esempio, in tema
di accesso alla documentazione detenuta dall'amministratore
per la gestione dei beni e dei servizi comuni e al conto
corrente condominiale. In questi anni, infatti, è capitato
più volte che alcuni amministratori alla ricerca di uno
stratagemma per impedire ai condomini di fare copia dei
documenti relativi alla gestione condominiale si
trincerassero dietro a non meglio specificate esigenze di
privacy, di fatto operando un'applicazione del tutto
distorta dei principi di cui al dlgs n. 196/2003.
Il
legislatore della riforma ha però finalmente dissipato
qualsiasi dubbio in proposito, chiarendo sia il fatto che i
condomini abbiano un vero e proprio diritto di visionare e
fare copia della documentazione condominiale detenuta
dall'amministratore (nei giorni e negli orari che questi ha
l'obbligo di comunicare preventivamente: art. 1129, comma 2,
c.c.) sia il fatto che tale diritto si estenda anche alla
consultazione del conto corrente condominiale, sempre per il
tramite di quest'ultimo (art. 1129, comma 7, c.c.).
Occorre quindi evidenziare come la possibilità recentemente
ammessa dalla legge n. 220/2012 l'amministratore può
attivare un sito internet condominiale (art. 71-ter disp.
att. c.c.) si muove proprio nella medesima direzione,
essendo finalizzata a rendere più facile e immediato
l'accesso alla medesima documentazione in formato
elettronico, rendendo quindi più trasparente ed economica la
gestione dei beni e dei servizi comuni.
Da questo punto di
vista il Garante privacy ha quindi opportunamente prescritto
che sul sito internet tenuto dall'amministratore debbano
essere pubblicate soltanto le informazioni relative alla
gestione del condominio e che l'accesso dei condomini sia
protetto mediante l'implementazione di specifiche username e
password personali, in modo da evitare che soggetti estranei
possano accedere a informazioni che, come detto, sono
riservate alla sola compagine condominiale.
--------------
Via libera alla videosorveglianza. Riservatezza da
rispettare.
Via libera alla videosorveglianza in condominio, ma nel
rispetto della riservatezza dei condomini e dei terzi. La
crescente esigenza di sicurezza delle collettività
condominiali o dei singoli partecipanti al condominio ha
determinato l'installazione massiccia di sistemi
videosorveglianza, ritenuti strumenti particolarmente utili
per la protezione da ingressi di terzi malintenzionati.
È
necessario però che tali installazioni avvengano nel
rispetto dell'esigenza dei condomini o di terzi di muoversi,
non controllati, nel proprio domicilio e/o all'interno delle
aree comuni.
L'impianto di videosorveglianza del singolo condomino. Nel
caso di installazione di un sistema di videosorveglianza
effettuata dal singolo condomino per fini esclusivamente
personali la disciplina del dlgs n. 196/2003 non trova
applicazione qualora i dati non siano comunicati
sistematicamente a terzi ovvero diffusi, risultando comunque
necessaria l'adozione di cautele.
In tale ipotesi possono
rientrare, a titolo esemplificativo, strumenti di
videosorveglianza idonei a identificare coloro che si
accingono a entrare in luoghi privati (videocitofoni, ovvero
altre apparecchiature che rilevano immagini o suoni, anche
tramite registrazione), oltre a sistemi di ripresa
installati nei pressi di immobili privati e all'interno di
caseggiati e loro pertinenze (quali posti auto e box).
Benché non trovi applicazione la disciplina del c.d. Codice
privacy, al fine di evitare di incorrere nel reato di
interferenze illecite nella vita privata, l'angolo visuale
delle riprese deve essere comunque limitato ai soli spazi di
propria esclusiva pertinenza.
In altre parole il sistema di
videosorveglianza deve essere installato in maniera tale che
l'obiettivo della telecamera posta di fronte alla porta di
casa riprenda esclusivamente lo spazio antistante l'accesso
alla propria abitazione e non tutto il pianerottolo o
l'atrio, oppure il proprio posto auto e non tutto il garage.
La videosorveglianza condominiale.
La legge n. 220/2012 di riforma del condominio, eliminando
dubbi e incertezze, ha introdotto nel sistema della
disciplina condominiale la videosorveglianza. La nuova
normativa prescrive infatti che le deliberazioni concernenti
l'installazione sulle parti comuni di impianti volti a
consentire la videosorveglianza debbano essere approvate
dall'assemblea con un numero di voti che rappresenti la
maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore
dell'edificio.
È di tutta evidenza che la delibera di installazione
dell'impianto di videosorveglianza adottata a maggioranza
debba rispettare tutte le misure e le precauzioni previste
dal codice privacy e dal provvedimento generale del Garante
in tema di videosorveglianza. Di conseguenza l'approvazione
di un sistema di videosorveglianza condominiale è
consentita, in presenza di concrete situazioni di pericolo,
quando altri mezzi di difesa meno invasivi siano risultati
inutili e riducendo al minimo l'utilizzazione di dati
personali.
In particolare, gli adempimenti da porre in essere sono i
seguenti: apposizione di un cartello informativo, tempi di
conservazione delle immagini per un periodo limitato
tendenzialmente non superiore alle 24-48 ore, anche in
relazione a specifiche esigenze come la chiusura di esercizi
e uffici che abbiano sede nel condominio o a periodi di
festività (e per tempi di conservazione superiori ai sette
giorni è comunque necessario richiedere una verifica
preliminare al Garante), individuazione del personale che
possa visionare le immagini con atto di nomina del
responsabile e incaricato del trattamento, limitazione
rigorosa dell'angolo visuale delle riprese ai soli spazi di
esclusiva pertinenza del condominio, senza possibilità di
invasione visiva o di registrazione di aree e di unità
immobiliari estranee al condominio stesso.
Il mancato rispetto di queste prescrizioni, a seconda dei
casi, può comportare l'inutilizzabilità dei dati personali
trattati, l'adozione di provvedimenti di blocco o divieto
del trattamento disposti dal Garante e l'applicazione delle
sanzioni amministrative o penali collegate alle singole
violazioni di legge, oltre ovviamente a eventuali richieste
di risarcimento da parte di eventuali soggetti danneggiati
(articolo ItaliaOggi Sette del 21.10.2013). |
CONDOMINIO - VARI: Telecamere fuori da spazi altrui.
Privacy. Le condizioni per ammettere
la videosorveglianza.
Le riprese
effettuate a salvaguardia della proprietà privata sono
ammesse alla duplice condizione che non invadano ambiti di
pertinenza esclusiva di terzi e, al contempo, rispettino le
disposizioni sulla sicurezza dei dati acquisiti.
Lo afferma
il Tribunale di Reggio Calabria (giudice Genovese) in
un'ordinanza del 25.09.2013.
La controversia ha avuto inizio a seguito della richiesta di
tutela avanzata in via d'urgenza, in base all'articolo 700
del Codice di procedura civile, da una signora residente al
piano terra di un fabbricato a più elevazioni, perché gli
abitanti dei livelli superiori avevano collocato un impianto
di videosorveglianza che riprendeva sia gli spazi comuni sia
quelli usati solo da lei.
Il giudice chiarisce, innanzitutto, che la difesa della
riservatezza trova il proprio presupposto nell'articolo 2
della Costituzione, che, riconoscendo e garantendo i diritti
inviolabili dell'uomo, contiene una sorta di clausola aperta
che consente di adeguare la tutela dei diritti primari
«all'evoluzione del comune sentire sociale». Il tribunale
osserva inoltre che l'inviolabilità del domicilio, prevista
dall'articolo 14 della Costituzione, si esplica non solo
nella facoltà di escludere qualcuno da determinati luoghi,
ma anche nel diritto alla riservatezza su quanto si compie
nei medesimi spazi. L'ordinanza richiama poi la sentenza
14346/2012 della Cassazione, per la quale il titolare del
domicilio non può accampare una pretesa alla riservatezza
quando l'azione, pur svolgendosi nell'ambito di una dimora
privata, è liberamente visibile dagli estranei senza
ricorrere a particolari accorgimenti.
Nei fatti, il consulente tecnico d'ufficio aveva verificato
che le registrazioni sull'hard-disk si cancellavano
automaticamente dopo 24 ore e il sistema di
videosorveglianza era dotato di password non gestibile
dall'utente né, a maggior ragione, da eventuali terzi che si
fossero introdotti nello stabile. Sotto questo profilo era
dunque rispettato l'articolo 31 del Codice della privacy (Dlgs
196 del 2003), per il quale i dati personali oggetto di
trattamento devono essere custoditi e controllati, anche in
relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso
tecnico, in modo da ridurre al minimo i rischi non solo di
una loro distruzione o perdita, ma pure di un accesso non
autorizzato o comunque di un trattamento non consentito o
non conforme alle finalità della raccolta.
Non tutte le
telecamere, però, inquadravano spazi destinati all'uso
comune, dal momento che una di esse riprendeva la porta di
ingresso a un vano utilizzato solo dalla ricorrente. E
poiché a causa di quello stato di fatto i diritti alla
riservatezza e all'inviolabilità del domicilio erano lesi in
modo permanente e non suscettibile di tutela per
equivalente, il giudice condanna i resistenti a rimuovere o
a schermare quella telecamera (articolo Il Sole 24 Ore del 21.10.2013). |
CONDOMINIO:
L’amministratore condominiale: compiti e responsabilità -
Le novità alla luce della legge n. 220/2012 (articolo
ItaliaOggi Sette del 21.10.2013). |
CONDOMINIO: La delibera vincolante salva l'amministratore.
Condominio. Quando la ditta
inadeguata la sceglie l'assemblea.
L'amministratore del condominio non può essere condannato
per aver puntato sulla ditta sbagliata se l'appalto è stato
deciso con una delibera che era costretto ad attuare.
La
Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la
sentenza 15.10.2013 n. 42347,
accoglie il ricorso di un amministratore condannato dal
tribunale a pagare un'ammenda, perché per far tagliare un
albero di grandi dimensioni aveva scelto una ditta senza
verificarne le credenziali e non aveva messo in guardia gli
operai sugli eventuali rischi dell'ambiente in cui
operavano. Mentre, secondo i giudici di merito,
l'amministratore rivestiva il ruolo di datore di lavoro con
i relativi oneri. L'amministratore aveva portato i suoi
argomenti in Cassazione e si era difeso, senza però puntare
sull'argomento vincente. Ad avviso del ricorrente la
decisione di rivolgersi a una ditta senza inserirsi in alcun
modo nell'organizzazione, nella direzione e nell'esecuzione
dei lavori lo metteva al riparo dalle responsabilità tipiche
del datore di lavoro.
La Suprema corte dà atto al ricorrente che l'amministratore
assume la posizione di garanzia propria del datore di lavoro
solo quando procede direttamente all'organizzazione dei
lavori nell'interesse del condominio, ma respinge la tesi
che la decisione di appaltarli non comporti alcuna
responsabilità.
Come committente l'amministratore ha comunque il dovere di
accertare in primo luogo l'idoneità tecnico-professionale
della ditta individuata, nel caso specifico risultata tanto
inconsistente da imporre un subappalto.
La condanna viene però annullata. I giudici di merito non
avevano sciolto un nodo fondamentale per affermare la
responsabilità penale.
L'appalto era stato deciso e assegnato con una delibera che
l'imputato, in virtù del suo ruolo, era tenuto ad attuare.
La pena non è giustificata se manca la prova che
l'amministratore godeva dell'autonomia e dei poteri
decisionali per disattendere la scelta dei condomini. Un
argomento che era sfuggito anche al diretto interessato che
aveva scelto un'altra linea di difesa
(articolo Il Sole 24 Ore del
16.10.2013). |
CONDOMINIO: La trasparenza batte la privacy. È obbligatoria l'affissione
dei dati dell'amministratore.
Le linee guida del garante sugli
adempimenti a seguito della riforma del condominio.
La privacy non stoppa la trasparenza condominiale. I dati
sul sito web dello stabile devono, però, essere appannaggio
dei soli condomini. Attenzione, inoltre, ai videocitofoni:
se sono come le telecamere della videosorveglianza, sono
necessari cartelli e le immagini devono essere eliminate in
tempi brevi.
Sono queste alcune delle indicazioni del
manuale
"Il condominio e la privacy", predisposto dal garante
della privacy e aggiornato alla riforma del condominio
(legge 220/2012).
Dati dell'amministratore.
La reperibilità dell'amministratore non contrasta con la
privacy. Il vademecum del garante richiama la riforma del
condominio, nella parte in cui prevede che l'amministratore
sia tenuto a comunicare ai condomini anche i propri dati
anagrafici e professionali, il codice fiscale o, se si
tratta di società, la denominazione e la sede legale. Le
generalità, il domicilio e i recapiti, inclusi quelli
telefonici, dell'amministratore (o della persona che svolge
funzioni analoghe a quelle dell'amministratore) devono
essere anche affissi all'ingresso del condominio o nei
luoghi di maggior transito. Si tratta di informazioni
funzionali all'adempimento degli obblighi contrattuali
dell'amministratore, il quale non può invocare il velo della
privacy per non farsi rintracciare dai condomini.
Rendicontazione trasparente.
La legge di riforma ha rafforzato la trasparenza
condominiale. Il garante prende atto che l'amministratore è
obbligato a far transitare le somme ricevute a qualunque
titolo dai condomini o da terzi e anche quelle a qualsiasi
titolo erogate per conto del condominio, su uno specifico
conto corrente postale o bancario, intestato al condominio
stesso. Nessun ostacolo dal fronte privacy all'accesso alla
rendicontazione: ogni condomino ha diritto di chiedere, per
il tramite dell'amministratore, di prendere visione ed
estrarre copia, a proprie spese, della rendicontazione
periodica.
Videocitofoni.
Di regola l'installazione del videocitofono non pone
problemi di privacy. Diverso è, però, il discorso per i
videocitofoni di ultima generazione e, anche, per altre
apparecchiature che rilevano immagini o suoni, anche tramite
registrazione. Questi strumenti possono talvolta essere
equiparati ai sistemi di videosorveglianza. E allora
scattano le stesse regole previste dal Codice della privacy
e dal provvedimento generale del garante in tema di
videosorveglianza. A meno che non si tratti di sistemi
installati da persone fisiche per fini esclusivamente
personali e le immagini non siano destinate alla
comunicazione sistematica o alla diffusione (per esempio su
Internet). Se il videocitofono, quindi, è installato da un
singolo o da una famiglia per finalità esclusivamente
personali, non occorre mettere il cartello per segnalare la
presenza dell'apparecchio di ripresa.
Maggiorazione per la videosorveglianza.
La riforma del condominio ha precisato il quorum richiesto
per poter installare un sistema di videosorveglianza
condominiale. L'assemblea può deliberare l'installazione di
un sistema di videosorveglianza sulle parti comuni solo con
un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli
intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio.
Sito web del condominio.
La riforma della normativa condominiale ha sancito che il
condominio può avere il suo sito internet: può essere una
piattaforma per rendere disponibili i documenti relativi
alla gestione dell'edificio. Lo stesso garante sottolinea
che, attraverso il sito web, le persone che ne hanno diritto
possono consultare ed estrarre copia dei documenti
condominiali. La prerogativa non riguarda tutti coloro che
accedono al sito internet dello stabile: devono quindi
essere previste delle procedure, per esempio
l'autenticazione tramite password individuale, che
consentano l'accesso sicuro a tali documenti digitali. Le
cautele devono essere maggiori nel caso in cui siano
trattati dati sensibili, come quelli che si riferiscono alle
condizioni di salute di una persona o quelli giudiziari.
Affittuario.
L'affittuario non può accedere ai dati sulla gestione del
condominio. Beninteso può esercitare il diritto di accesso
ai propri dati personali e gli altri diritti garantiti dal
codice della privacy. In riferimento alla normativa sulla
privacy, non può però chiedere l'accesso ai dati sulla
gestione del condominio
(articolo ItaliaOggi dell'11.10.2013). |
CONDOMINIO: Privacy in casa.
Sul web accesso limitato ai condòmini.
LE REGOLE DEL GARANTE/
L'Authority ha rinnovato le disposizioni da seguire per
rispettare i limiti alla diffusione dei dati personali.
Il garante della Privacy detta le nuove regole dopo la
riforma del condominio. Con il
vademecum pubblicato ieri sul
sito (www.garanteprivacy.it) si sono aggiunte parecchie
precisazioni sul corretto comportamento da tenere
(specialmente da parte dell'amministratore).
Anzitutto i numeri telefonici: l'amministratore può usarli
solo se pubblici (cioè negli elenchi pubblici) o con il
consenso espresso e non possono essere comunicati a terzi.
Peggio ancora per i dati sanitari, il cui uso è permesso
solo in caso di delibere o lavori su barriere
architettoniche o per danni subiti negli spazi comuni.
Mentre al contrario deve comunicare ai condomini i suoi
recapiti (anche telefonici), che vanno anche affissi
sull'edificio.
In assemblea, invece, non può partecipare un esterno tranne
i delegati o i tecnici chiamati a illustrare un problema (ma
solo per il tempo necessario). E anche la videoregistrazione
è lecita solo con il consenso di tutti gli interessati.
Viene confermato che in bacheca non si possono affiggere
comunicazioni personali né riguardanti le morosità (sui
morosi, però, i condomini possono avere notizie direttamente
dall'amministratore). I dati sui morosi vanno invece
comunicati ai creditori, come previsto dalla riforma del
condominio (legge 220/2012). Il rendiconto del c/c bancario,
come prescrive la riforma, è accessibile a ogni condomino.
Sulla videosorveglianza non ci sono grandi novità: lecita
quella per fini personali effettuata da persone fisiche
(sulla porta dell'appartamento) e anche sulle aree comuni,
segnalandola e conservando le registrazioni per non oltre 48
ore.
Nuove, invece, le regole sul condominio digitale, dato che è
la riforma a prevedere la possibilità dei siti web
condominiali: potranno essere messi online solo i documenti
adottati con delibera e l'accesso è riservato ai condomini,
tramite password individuale.
Ogni condomino ha poi il "diritto di accesso" per conoscere
i suoi dati custoditi dall'amministratore ma non quelli
riferiti all'intero condominio (per esempio i dati relativi
al contratto di locazione di un'unità immobiliare di
proprietà condominiale) a meno che non sia stato incaricato
espressamente dall'assemblea. Gli inquilini non possono
accedere ai dati sulla gestione condominiale, ma solo ai
propri.
In ogni caso anche il singolo condomino che ne venga a
conoscenza non può comunicare a terzi i dati personali degli
altri condomini senza il loro consenso. Escluse dalla
disciplina della privacy sono invece le normali
comunicazioni tra vicini, tranne che vengano diffuse sul web
o su cartelli affissi nell'edificio (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.10.2013). |
CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Ai
sensi dell’art. 1127 cod. civ. il diritto del proprietario
dell’ultimo piano alla sopraelevazione incontra tre limiti:
- le condizioni statiche dell’edificio devono consentire la
sopraelevazione: trattasi di divieto assoluto, cui è
possibile ovviare se, con il consenso unanime dei condomini,
il proprietario sia autorizzato all’esecuzione delle opere
di rafforzamento e di consolidamento necessarie a rendere
idoneo l’edificio a sopportare il peso della nuova
costruzione;
- non deve esserci pregiudizio dell’aspetto architettonico
(inteso come stile architettonico dell’edificio);
- non deve determinarsi una notevole diminuzione di aria e
di luce per i piani sottostanti: sia il limite precedente
che il presente sono limiti per i quali è prevista
l’opposizione facoltativa dei singoli condomini
controinteressati.
---------------
Il divieto di sopraelevazione, per inidoneità delle
condizioni statiche dell’edificio, previsto dall’art. 1127,
comma 2, c. c., va interpretato non nel senso che la
sopraelevazione è vietata soltanto se le strutture
dell’edificio non consentono di sopportarne il peso, ma nel
senso che il divieto sussiste anche nel caso in cui le
strutture son tali che, una volta elevata la nuova fabbrica,
non consentano di sopportare l’urto di forze in movimento
quali le sollecitazioni di origine sismica.
Pertanto, qualora le leggi antisismiche prescrivano
particolari cautele tecniche da adottarsi, in ragione delle
caratteristiche del territorio, nella sopraelevazione degli
edifici, esse sono da considerarsi integrative dell’art.
1127, comma 2, c.c., e la loro inosservanza determina una
presunzione di pericolosità della sopraelevazione che può
essere vinta esclusivamente mediante la prova, incombente
sull’autore della nuova fabbrica, che non solo la
sopraelevazione, ma anche la struttura sottostante sia
idonea a fronteggiare il rischio sismico.
---------------
Nella specie, trattandosi di zona sismica, ed attesa la
natura integrativa dell’art. 1127 cpv. cod. civ., ascritta
alle leggi antisismiche, il consenso unanime dei condomini
(mancante nella specie) avrebbe dovuto esercitarsi per
l’appunto sulle particolari cautele da adottarsi, nella
sopraelevazione, per la prevenzione del rischio in
questione.
... per l’annullamento:
- a) del diniego di cui alla nota, prot. n. 2800 del
30.01.2012, successivamente comunicato, a firma congiunta
del Responsabile del Servizio Sportello Unico Edilizia
Privata e del Responsabile del Settore 4° del Comune di
Pontecagnano Faiano, con il quale è stata respinta l’istanza
di permesso di costruire per l’ampliamento, ai sensi
dell’art. 4 della l. r., n. 19/09 e ss. mm. ii., di un
fabbricato sito alla via Veneto;
...
La ricorrente, quale proprietaria esclusiva, in virtù di
atto di donazione, rep. n. 19595, racc. 6376 dell’01.02.1979,
di un sottotetto, sito alla via Veneto n. 12 del Comune di Pontecagnano Faiano, distinto in catasto al foglio 7, p.lla
n. 771, rappresentava che, in data 20.07.2010, in
considerazione del regime di favore, introdotto dalla l.r.
Campania n. 19/2009, aveva depositato apposita istanza (prot.
n. 20509), ai fini dell’ampliamento e del cambio di
destinazione d’uso del predetto sottotetto in abitazione;
che, in esito al prescritto iter, il Comune di Pontecagnano
Faiano, con nota del 19.09.2011, le aveva comunicato i
motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza; in
particolare, era stata evidenziata la necessità di
acquisire:
a) “l’autorizzazione esplicita, espressa nelle forme di
legge, della parte rimanente dell’assetto proprietario
dell’intero fabbricato (...)”;
b) “l’autorizzazione esplicita (...) della proprietà
dell’intero fabbricato in aderenza”;
che, nei termini di cui all’art. 10 bis, aveva depositato
un’articolata memoria, con la quale aveva evidenziato che:
a) ai sensi dell’art. 1127 c. c., il parere degli altri
condomini alla sopraelevazione non sarebbe stato necessario,
essendo la stessa espressamente consentita dalla predetta
disposizione normativa;
b) aveva comprovato il pieno diritto ad effettuare
costruzioni in sopraelevazione, come da titolo di proprietà;
c) aveva fornito elaborati grafici, dai quali s’evinceva che
l’intervento proposto non alterava l’aspetto architettonico
dell’immobile;
d) aveva evidenziato che il fabbricato era stato realizzato,
in aderenza a quello limitrofo; pertanto, non sarebbe stato
necessario alcun ulteriore atto di assenso dei proprietari
dell’immobile in aderenza; lamentava che la P. A., senza
tener conto dell’esatta portata di detta memoria, aveva
comunque respinto l’istanza; avverso detto provvedimento
articolava, pertanto, le seguenti censure: ...
...
Va poi precisato che ai sensi dell’art. 1127 cod. civ. il diritto
del proprietario dell’ultimo piano alla sopraelevazione
incontra tre limiti:
-
le condizioni statiche dell’edificio devono consentire la
sopraelevazione: trattasi di divieto assoluto, cui è
possibile ovviare se, con il consenso unanime dei condomini,
il proprietario sia autorizzato all’esecuzione delle opere
di rafforzamento e di consolidamento necessarie a rendere
idoneo l’edificio a sopportare il peso della nuova
costruzione;
-
non deve esserci pregiudizio dell’aspetto architettonico
(inteso come stile architettonico dell’edificio);
-
non deve determinarsi una notevole diminuzione di aria e di
luce per i piani sottostanti: sia il limite precedente che
il presente sono limiti per i quali è prevista l’opposizione
facoltativa dei singoli condomini controinteressati.
Né opera il richiamato principio della prevenzione in quanto
secondo il consolidato orientamento della Corte di
cassazione “in tema di rispetto delle distanze legali tra
costruzioni, la sopraelevazione di un edificio preesistente,
determinando un incremento della volumetria del fabbricato,
è qualificabile come nuova costruzione; ne consegue
l’applicazione della normativa vigente al momento della
modifica e l’inoperatività del criterio della prevenzione se
riferito alle costruzioni originarie, in quanto sostituito
dal principio della priorità temporale correlata, al momento
della sopraelevazione” (Cass. 11.06.2008 n. 15572;
03/01/2011 n. 74).
In conformità a tali considerazioni, e tenute altresì
presenti la argomentazioni esposte nella memoria difensiva
del controinteressato S.A., diffusamente riportate
in narrativa, osserva il Tribunale come, diversamente da
quanto sostenuto nel primo motivo di ricorso, il diritto
alla sopraelevazione attribuito al proprietario dell’ultimo
piano dell’edificio non è assoluto, ma incontra “tre limiti,
dei quali il primo (le condizioni statiche) introduce un
divieto assoluto, cui è possibile ovviare soltanto se, con
il consenso unanime dei condomini, il proprietario sia
autorizzato all’esecuzione delle opere di rafforzamento e di
consolidamento necessarie a rendere idoneo il fabbricato a
sopportare il peso della nuova costruzione, mentre gli altri
due limiti (il pregiudizio delle linee architettoniche e la
diminuzione di aria e di luce) presuppongono l’opposizione
facoltativa dei singoli condomini interessati”.
Prescindendo per il momento da tali ultimi due limiti, è
indubbio che nella specie manca il consenso della parte
rimanente dell’assetto proprietario dell’intero fabbricato,
necessario in vista del conseguimento dell’autorizzazione
all’esecuzione delle opere di rafforzamento e consolidamento
necessarie a rendere idoneo il fabbricato a sopportare il
peso dell’intera costruzione, e tanto per l’opposizione del
condomino Scalea Antonio, comproprietario del secondo piano
del’edificio de quo.
Si tenga altresì presente che, come opportunamente rilevato
da S.A. nello scritto difensivo in atti: “Il
divieto di sopraelevazione, per inidoneità delle condizioni
statiche dell’edificio, previsto dall’art. 1127, comma 2, c.
c., va interpretato non nel senso che la sopraelevazione è
vietata soltanto se le strutture dell’edificio non
consentono di sopportarne il peso, ma nel senso che il
divieto sussiste anche nel caso in cui le strutture son tali
che, una volta elevata la nuova fabbrica, non consentano di
sopportare l’urto di forze in movimento quali le
sollecitazioni di origine sismica. Pertanto, qualora le
leggi antisismiche prescrivano particolari cautele tecniche
da adottarsi, in ragione delle caratteristiche del
territorio, nella sopraelevazione degli edifici, esse sono
da considerarsi integrative dell’art. 1127, comma 2, c.c.,
e la loro inosservanza determina una presunzione di
pericolosità della sopraelevazione che può essere vinta
esclusivamente mediante la prova, incombente sull’autore
della nuova fabbrica, che non solo la sopraelevazione, ma
anche la struttura sottostante sia idonea a fronteggiare il
rischio sismico” (Cassazione civile – Sez. II, 30.05.2012, n. 8643).
Nella specie, trattandosi di zona sismica, ed attesa la
natura integrativa dell’art. 1127 cpv. cod. civ., ascritta
alle leggi antisismiche, il consenso unanime dei condomini
(mancante nella specie) avrebbe dovuto esercitarsi per
l’appunto sulle particolari cautele da adottarsi, nella
sopraelevazione, per la prevenzione del rischio in questione (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 10.10.2013 n. 2039 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO:
IL CONDOMINIO E LA PRIVACY (Garante per la protezione
dei dati personali,
vademecum 10.10.2013). |
CONDOMINIO:
In condominio nulla osta al bar.
Contro il rumore c'è la chanche di ottenere il risarcimento
dei danni. Cassazione. Il
regolamento non può imporre limiti nei locali privati senza
il consenso scritto del proprietario.
LA CONDIZIONE/ La tutela penale è possibile se il disturbo
coinvolge un numero intedeterminato di persone oltre al
condomino del piano di sopra
Non si può vietare a un condomino di adibire i locali di sua
proprietà a bar, cornetteria e circolo ricreativo.
Ciò vale anche quando il regolamento di condominio e una
delibera condominiale vietano ai condomini di installare nei
locali dell'edificio attività idonee ad arrecare disturbo
alla quiete pubblica e incompatibili con il decoro e la
tranquillità dell'edificio stesso.
È quanto stabilito dalla
Corte di Cassazione,
sentenza
08.10.2013 n. 22892,
decidendo una lite che vedeva contrapposti due condomini: il
primo si lamentava del rumore e delle immissioni
intollerabili fino a tarda notte provenienti dall'attività
di intrattenimento e vendita di alcolici svolta in un locale
di proprietà di altro condomino, nello stesso fabbricato.
Il ragionamento seguito dalla Suprema Corte parte dal
presupposto che i limiti all'utilizzazione delle proprietà
esclusive previste da una delibera condominiale possono
comportare un restringimento dei poteri di godimento
dell'immobile da parte del proprietario, ma solo se il
consenso a tali limitazioni è espresso in forma scritta dal
soggetto delegato dal condomino (articolo 1350 del Codice
civile).
La delibera assunta da tutti i condomini, anche delegati, è
valida, ma non può imporre limitazioni alla proprietà se il
delegato non ha una specifica delega ad accettare tale
limite.
Se invece alla delibera fosse intervenuto il condomino in
proprio, la limitazione sarebbe operante.
La Corte di cassazione, tuttavia, non nega tutela al
condomino che deve sopportare schiamazzi e rumori fino a
tarda notte in quanto è possibile chiedere il risarcimento
dei danni, come ad esempio il deprezzamento del valore del
proprio immobile.
Possono inoltre essere risarciti danni morali, biologici
(stress, insonnia, disagi) provocati dalle immissioni
superiori alla soglia di normale tollerabilità derivanti da
bar e locali aperti fino a tarda notte.
Oltre alla tutela risarcitoria, per chi risiede ai piani
superiori di esercizi aperti al pubblico o di circoli
ricreativi, vi è anche una tutela penale (articolo 659 del
Codice penale): ma quest'ultima, sottolinea la Corte di
cassazione 28874/2013, opera solo se i rumori disturbano un
numero indeterminato di persone e non il solo condomino del
piano di sopra
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.10.2013). |
CONDOMINIO: Partendo
dalla premessa secondo cui l’amministratore di condominio
non ha autonomi poteri, ma si limita ad eseguire le
deliberazioni dell’assemblea ovvero a compiere atti
conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni
dell'edificio (art. 1130 Cod. civ.), anche in materia di
azioni processuali il potere decisionale spetta solo ed
esclusivamente all’assemblea, la quale deve deliberare se
agire in giudizio, se resistere e se impugnare i
provvedimenti in cui il condominio risulta soccombente.
Un tale potere decisionale non può competere in via autonoma
all’amministratore che, per sua natura, non è un organo
decisionale ma meramente esecutivo del condominio. Ove tale
potere spettasse all’amministratore, questi potrebbe anche
autonomamente non solo costituirsi in giudizio ma anche
impugnare un provvedimento senza il consenso dell'assemblea
e, in caso di ulteriore soccombenza, far sì che il
condominio sia tenuto a pagare le spese processuali, senza
aver in alcun modo assunto decisioni al riguardo.
Non vi è dubbio, quindi, che, in base a questo orientamento
l’amministratore può proporre ricorso giurisdizionale
nell’interesse del condominio che rappresenta solo in
presenza di una specifica autorizzazione assembleare, la
sola a poter esprimere il relativo potere decisionale, anche
in campo processuale.
Deve richiamarsi in questa sede
l’indirizzo giurisprudenziale più volte espresso dalla Corte
di Cassazione e recentemente avallato dalle Sezioni Unite
(cfr. Cass., SS.UU., 06.08.2010, n, 18331) che, partendo
dalla premessa secondo cui l’amministratore di condominio
non ha autonomi poteri, ma si limita ad eseguire le
deliberazioni dell’assemblea ovvero a compiere atti
conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni
dell'edificio (art. 1130 Cod. civ.), giunge alla conclusione
che, anche in materia di azioni processuali, il potere
decisionale spetta solo ed esclusivamente all’assemblea, la
quale deve deliberare se agire in giudizio, se resistere e
se impugnare i provvedimenti in cui il condominio risulta
soccombente. Un tale potere decisionale non può competere in
via autonoma all’amministratore che, per sua natura, non è
un organo decisionale ma meramente esecutivo del condominio.
Ove tale potere spettasse all’amministratore, questi
potrebbe anche autonomamente non solo costituirsi in
giudizio ma anche impugnare un provvedimento senza il
consenso dell'assemblea e, in caso di ulteriore soccombenza,
far sì che il condominio sia tenuto a pagare le spese
processuali, senza aver in alcun modo assunto decisioni al
riguardo.
Non vi è dubbio, quindi, che, in base a questo
orientamento, che la Sezione condivide, l’amministratore può
proporre ricorso giurisdizionale nell’interesse del
condominio che rappresenta solo in presenza di una specifica
autorizzazione assembleare, la sola a poter esprimere il
relativo potere decisionale, anche in campo processuale.
Nel caso di specie, tale autorizzazione deve ritenersi
mancante
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 08.10.2013
n. 4944 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO: Impianti termici, rischio caos.
L'adeguamento può essere bloccato dall'assemblea.
Gli effetti del dpr n. 74/2013: il soggetto
responsabile è comunque l'amministratore.
Adeguamento degli impianti termici: rischio paralisi per il
condominio con responsabilità a carico dell'amministratore.
Secondo le nuove regole introdotte dal dpr n. 74/2013, in
vigore dal 12 luglio scorso, ove l'assemblea condominiale
non deliberi di stanziare i fondi per gli interventi
necessari all'efficienza dell'impianto di riscaldamento, non
potrà essere fornita alcuna delega all'esterno e l'eventuale
soggetto terzo responsabile già nominato decadrà
automaticamente dall'incarico, essendo altresì tenuto a
darne pronta comunicazione alla regione, provocando l'avvio
della relativa attività di controllo.
In casi del genere
l'amministratore condominiale rischia quindi di rimanere con
il cerino in mano, in quanto soggetto per legge responsabile
della gestione dell'impianto comune. La situazione appena
descritta potrebbe poi risultare ulteriormente aggravata ove
si dovesse interpretare in maniera restrittiva la nuova
disposizione in tema di opere di manutenzione straordinaria
introdotta dalla legge n. 220/2012 di riforma del
condominio, essendo a quel punto necessario addirittura
precostituire un fondo speciale prima di avviare i lavori.
Chi è onerato della responsabilità. In ambito condominiale
il responsabile dell'impianto termico è per legge
l'amministratore, trattandosi di uno dei beni comuni dei
quali si compone il condominio. All'amministratore spetta
quindi ordinariamente l'esercizio, la conduzione, il
controllo, la manutenzione e il rispetto delle disposizioni
di legge. Ciò significa che quest'ultimo deve adoperarsi
affinché l'impianto termico centralizzato sia sempre ben
funzionante, garantendone il corretto esercizio e la
doverosa manutenzione. Tuttavia, sul piano pratico, si deve
rilevare come la complessità tecnica delle operazioni
necessarie per intervenire sull'impianto comune costringa
l'assemblea a delegarne l'esercizio e la manutenzione a un
soggetto terzo responsabile dotato delle necessarie
competenze tecniche.
Il dpr n. 74/2013 prevede che in caso di impianti non
conformi alle disposizioni di legge la delega non possa
essere rilasciata, salvo che sia contestualmente conferito
al terzo responsabile l'incarico di procedere alla messa a
norma dell'impianto. Il delegante deve inoltre porre in
essere ogni atto, fatto o comportamento necessario a che il
terzo responsabile possa adempiere agli obblighi previsti
dalla legge e garantire la copertura finanziaria per
l'esecuzione dei necessari interventi nei tempi concordati.
Negli edifici in condominio il decreto prevede che detta
garanzia debba essere fornita con apposita delibera
dell'assemblea dei condomini. In tale ipotesi, sempre
secondo quanto disposto dal dpr, la responsabilità degli
impianti resta in carico all'amministratore, fino alla
comunicazione dell'avvenuto completamento degli interventi
necessari, da inviarsi per iscritto da parte del delegato
entro e non oltre cinque giorni dal termine dei lavori.
Nel caso in cui la necessità di intervenire sull'impianto
sorga soltanto una volta rilasciata la delega, il terzo
responsabile è tenuto a farne tempestivamente comunicazione
in forma scritta al delegante e, in ambito condominiale,
l'amministratore deve espressamente autorizzare il terzo
responsabile, previa apposita delibera condominiale, a
effettuare i predetti interventi entro il termine davvero
brevissimo di dieci giorni dalla comunicazione di cui sopra,
facendosi carico dei relativi costi. In assenza della
delibera condominiale, la delega del terzo responsabile
decade automaticamente e quest'ultimo è tenuto a farne
pronta segnalazione alla regione o alla provincia autonoma
competente per territorio.
La situazione potrebbe poi diventare letteralmente esplosiva
ove si ritenesse di interpretare la disposizione di cui
all'art. 1135, comma 1, n. 4, c.c. come obbligo di
precostituire un fondo speciale di importo pari
all'ammontare dei lavori.
Chi è il soggetto terzo responsabile dell'impianto. Il terzo
responsabile è il soggetto che, in possesso dei requisiti
previsti dalle normative vigenti e comunque di capacità
tecnica, economica e organizzativa adeguata al numero, alla
potenza e alla complessità degli impianti gestiti, può
essere delegato dal soggetto che per legge è responsabile
dell'impianto termico (nel caso del condominio, come detto,
l'amministratore) ad assumere la responsabilità
dell'esercizio, della conduzione, del controllo, della
manutenzione e dell'adozione delle misure necessarie al
contenimento dei consumi energetici.
Bisogna precisare che, come previsto dalla nuova normativa,
per l'atto di assunzione di responsabilità da parte del
terzo è richiesto un contratto scritto che gli impone per
legge di non delegare ad altri le responsabilità assunte,
potendo ricorrere solo occasionalmente al subappalto o
all'affidamento di alcune attività di sua competenza. Quanto
sopra dovrebbe porre un freno a situazioni di subappalto
diffuso da parte di grandi imprese di servizi di
manutenzione che delegavano a terzi le attività di
manutenzione ordinaria e, talvolta, anche il ruolo di terzo
responsabile, con conseguente elusione dell'obbligo vigente
per il manutentore di possedere le certificazioni di qualità
previste dalla legge. In ogni caso non può essere conferito
tale incarico a colui che sia anche venditore di energia per
il medesimo impianto o a società a qualsiasi titolo legate
alla vendita
(articolo ItaliaOggi Sette del 07.10.2013). |
CONDOMINIO: Le deliberazioni del condominio non ledano i diritti
individuali. La Cassazione
sull'attribuzione delle spese che ricadono tra quelle
comuni.
Le deliberazioni dell'assemblea condominiale, sebbene
adottate a maggioranza, non possono ledere diritti
individuali attribuendo ad alcuni dei condomini parti di
spese circa l'impianto di riscaldamento che non ricadono,
per espressa previsione del regolamento contrattuale, tra
quelle comuni.
Lo ha stabilito la II Sez. civile della Corte di
Cassazione con
sentenza
03.10.2013 n. 22634.
Il caso su cui si è espressa la Suprema corte riguardava
alcuni condomini che non erano comproprietari in virtù
dell'esistenza di un regolamento contrattuale che, superando
la c.d. presunzione di condominialità, li aveva esclusi dal
condominio su quel bene. In questo contesto, pertanto, era
giusta la conclusione di considerare nulla la deliberazione
di approvazione della ripartizione delle spese.
Circa la presunzione di condominialità appare opportuno, in
questa sede, osservare che la giurisprudenza afferma che i
beni indicati nell'art. 1117 c.c., si intendono comuni per
presunzione derivante sia dall'attitudine oggettiva che
dalla concreta destinazione degli stessi al servizio comune
(si veda Cass. 13.03.2009, n. 6175). E una recentissima
sentenza della Cassazione (sez. II civ., 26.07.2012, n.
13262) ha sottolineato tale principio affermando che l'art.
1117 c.c. (nuova formulazione aggiornato dall'art. 1, legge
11.12.2012, n. 220, in vigore dal 17.06.2013) pone
una presunzione di condominialità per i beni ivi indicati,
la cui elencazione non è tassativa. In parole povere, i beni
indicati nell'art. 1117 c.c. si presumono comuni sino a
prova contraria.
Gli Ermellini hanno, quindi sottolineato che «i condomini
debitori, a fronte della contestazione delle spese di
riscaldamento, hanno legittimamente esercitato la facoltà di
imputazioni riconosciuta dall'art. 1193 c.c. con riferimento
alle spese di gestione ordinaria, non intendendo invece
estinguere, perché ritenute non dovute, quelle di
riscaldamento oggetto di causa». Aggiungendo, poi, che si
era dinanzi ad un caso «di delibera incidente sui diritti
individuali dei condomini (...), vertendosi sulla
sussistenza del diritto e non sulla mera determinazione
quantitativa del riparto spese per avere il condominio
addebitato a detti condomini importi relativi all'impianto
di riscaldamento che la sentenza impugnata ha escluso
riguardasse i locali siti ai piani sottotetto appartenenti
ai resistenti, per espressa disposizione del regolamento
condominiale (non contestata dall'appellante condominio),
costituente titolo contrario idoneo a vincere la presunzione
di comproprietà dell'impianto di riscaldamento, ex art. 1117
c.c.»
(articolo ItaliaOggi Sette del 14.10.2013). |
settembre 2013 |
|
CONDOMINIO: Non
si ravvisano limiti sostanziali a richiedere e conseguire il
titolo edilizio nell'ambito di intervento edilizio
riconducibile all'art. 1102 c.c., il quale consente le
modificazioni apportate dal singolo condomino, senza
necessità del consenso degli altri partecipanti alla
comunione, tese a trarre dal bene comune una particolare
utilità aggiuntiva rispetto a quella goduta dagli altri
condomini, ivi compresa l'installazione sul muro di elementi
ad esso estranei posti al servizio esclusivo della singola
unità immobiliare, purché non precluda agli altri condomini
l'uso del muro comune e non ne alteri la normale
destinazione con interventi di eccessiva vastità.
Ciò premesso, nella specie non si ravvisano limiti
sostanziali a richiedere e conseguire il titolo edilizio, in
quanto si tratta di intervento riconducibile all'art. 1102
c.c., il quale consente le modificazioni apportate dal
singolo condomino, senza necessità del consenso degli altri
partecipanti alla comunione, tese a trarre dal bene comune
una particolare utilità aggiuntiva rispetto a quella goduta
dagli altri condomini, ivi compresa l'installazione sul muro
di elementi ad esso estranei posti al servizio esclusivo
della singola unità immobiliare, purché non precluda agli
altri condomini l'uso del muro comune e non ne alteri la
normale destinazione con interventi di eccessiva vastità
(cfr., in relazione ad analoga fattispecie concernente
l’installazione di canna fumaria, TAR Toscana, 29.04.2009, n. 724, nonché Id. 27.09.2012, n. 1569.
In sostanza, non può dubitarsi della riconducibilità
all'ambito degli interventi contemplati dall'art. 1102 c.c.
di tutte le modificazioni -apportabili dal singolo
condomino, senza bisogno del consenso degli altri
partecipanti alla comunione- che consentono di trarre dal
bene comune una particolare utilità aggiuntiva rispetto a
quella goduta dagli altri condomini, ivi compresa
l'installazione sul muro di elementi ad esso estranei posti
al servizio esclusivo della singola unità immobiliare,
purché non precluda agli altri condomini l'uso del muro
comune e non ne alteri la normale destinazione con
interventi di eccessiva vastità (ferme restando, beninteso,
le iniziative di tutela giurisdizionale esperibili dai
condomini in sede civile).
Le esposte ragioni militano nel senso della fondatezza del
gravame, con conseguente annullamento del provvedimento
impugnato, nella parte in cui subordina l’efficacia della
autorizzazione al conseguimento del previo consenso della
compagine condominiale
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 27.09.2013 n. 1985 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO:
Condominio. Le caratteristiche e le criticità del nuovo
istituto che debutterà in via sperimentale per quattro anni.
Mediazione con tempi lunghi.
Presenza dell'amministratore e maggioranze richiederanno più
dei 3 mesi previsti.
ALL'INCONTRO/ Il mediatore può prorogare i termini della
prima comparizione.
La mediazione torna in condominio ma ora, nella sua
applicazione pratica, i mediatori dovranno fare i conti con
problemi di non facile risoluzione.
Con la pubblicazione della legge 98/2013 sulla «Gazzetta
ufficiale» del 20 agosto, l'attivazione della mediazione
rimane, in un ambito importante e a forte tasso di
litigiosità come quello del condominio, una condizione di
procedibilità dell'azione giudiziale. Il fine è sempre lo
stesso: orientare a una ricomposizione della lite che faccia
perno sui veri bisogni delle parti contrapposte, che possono
essere anche di natura personale ed emotiva, dove magari
l'aspetto economico –trattato davanti al giudice– diventa
davvero secondario.
Proprio nelle liti condominiali, infatti, il più delle volte
si discute di comportamenti dei vicini non più sostenibili,
come l'uso scorretto e gli abusi sulle parti comuni, la
violazione del decoro architettonico o l'osservanza del
regolamento.
I punti salienti di questa mediazione rivisitata (illustrati
nella scheda a fianco) sono piuttosto chiari. Inoltre il
nuovo articolo 71-quater delle disposizioni di attuazione
del Codice civile aiuta meglio a comprendere quali sono le
controversie che possono essere oggetto di mediazione, ossia
quelle derivanti dalla violazione o dall'errata applicazione
delle norme del codice che riguardano «il condominio negli
edifici» e le relative disposizioni di attuazione.
L'amministratore è legittimato a partecipare solo se
l'assemblea ha validamente deliberato in tal senso con la
maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore
dell'edificio. Il mediatore, proprio per questo motivo, può
prorogare i termini della prima comparizione. Infine,
l'accordo dovrà essere approvato dall'assemblea con la
stessa maggioranza sopra descritta e di ciò deve tener conto
il mediatore nel fissare il termine per la sottoscrizione
dello stesso.
Ed è proprio qui che iniziano i problemi. Sembrerebbe che al
primo incontro informativo l'amministratore possa
partecipare solo se ha ottenuto il consenso dell'assemblea.
Se cosi è, risulta già stravolto l'intento del legislatore,
perché ciò significa che il primo incontro dovrà essere
procrastinato di almeno qualche mese.
Quindi si rischia di vanificare il termine di durata
dell'intero procedimento che la legge prevede debba essere
contenuto in tre mesi. L'articolo 71-quater delle
disposizioni di attuazione prevede per l'appunto delle
proroghe, ma questo vuol dire sempre stravolgere l'intento
della mediazione, che è proprio quello di comporre una lite
in termini rapidi e poco costosi.
La soluzione, oltre che nell'indispensabile accelerazione
che l'amministratore dovrà imprimere alla convocazione
dell'assemblea, andrà ricercata in una prassi intelligente
degli organi di mediazione specializzati.
Inoltre, ci sono materie che di per sé sono suscettibili di
mediazione solo se il mediatore possiede competenze
speciali. Si pensi alla modifica o alla revisione delle
tabelle millesimali per cui non si riesce a raggiungere la
maggioranza, oppure al problema del decoro architettonico di
un edificio che un condomino ritiene essere stato violato. È
evidente che occorre una preparazione attenta su materie i
cui aspetti tecnici sono preponderanti.
Questi sono tutti interrogativi a cui la mediazione farà
fronte e darà le sue risposte e il Ministero, dopo i quattro
anni previsti –e ci si auspica non più interrotti– di
sperimentazione dell'istituto, ne esaminerà i risultati
anche ai fini di eventuali correttivi (articolo Il Sole 24 Ore del
22.09.2013). |
CONDOMINIO: Cassazione. La demolizione del muro di proprietà del
condominio determina un danno da fatto illecito.
Case confinanti, niente varchi.
Esclusa la possibilità di aprire passaggi tra immobili in
stabili diversi.
L'affittuario che demolisce un muro condominiale per aprire
un passaggio con un appartamento che sta in un altro palazzo
deve rimettere le cose a posto e pagare i danni. Anche se
tra gli appartamenti un varco c'era già.
La Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la
sentenza
18.09.2013 n. 21395, censura
il comportamento di una società che, avendo in affitto due
appartamenti in stabili diversi, li aveva messi in
comunicazione demolendo un muro di proprietà del condominio.
A finire in tribunale, in prima battuta era stato il
proprietario che, a sua volta aveva chiamato in causa gli
affittuari, responsabili di aver eseguito i lavori. Il
tribunale non aveva fatto torto a nessuno, condannando
entrambi alla ricostruzione e al pagamento dei danni,
quantificati in 25mila euro. Con il ricorso in Corte
d'appello si "salvava" il proprietario e veniva condannato
l'affittuario al ripristino e al versamento di 10mila euro
di danni.
Alla base della condanna l'accusa di aver messo a dura prova
solai e fondamenta e di aver gettato le basi per una servitù
sulle parti comuni.
La ricorrente dal canto suo si era difesa affermando
l'esistenza sia di una preesistente servitù di passaggio sia
di un altro varco tra i due appartamenti.
L'apertura di una seconda porta comunicante nel muro
perimetrale non costituiva dunque, secondo gli affittuari,
una nuova servitù né un aggravamento della prima perché ne
lasciava inalterati il contenuto, la portata e l'oggetto,
mentre cambiava solo le modalità di esercizio. Nel suo
ricorso la "banda del buco" negava di aver provocato un
danno al condominio che non era stato neppure limitato nel
suo diritto di proprietà, perché non aveva accesso in
nessuno dei due locali messi in comunicazione.
La pensa diversamente la Cassazione che conferma l'uso
indebito della cosa comune, anche se fa segnare un punto a
favore del ricorrente sulla quantificazione del danno.
La Suprema corte prende atto dell'esistenza di un altro
accesso situato in un'altra parte della casa ma nega che
questo possa costituire un lasciapassare per aprirne altri.
«L'apertura di un altro e diverso varco –si legge nella
sentenza– non può essere ritenuta una semplice modalità di
esercizio "ampliativa" della preesistente facoltà, o in essa
ricompresa ai sensi dell'articolo 1027 del Codice civile, ma
determina un onere nuovo e diverso a carico del fondo
servente».
La seconda via poneva le premesse per la costituzione di
un'ulteriore servitù e aumentava il peso a carico delle
strutture del palazzo, entrando così in rotta di collisione
con quanto previsto dall'articolo 1067 del Codice civile,
che vieta al proprietario del fondo dominante di creare le
condizioni per rendere più gravosa la condizione del fondo
servente.
Per riparare al danno non basta neppure rimettere le cose
come stavano ma è necessario un risarcimento per
equivalente. Il passaggio incriminato è stato realizzato
demolendo il muro del condominio e dunque non è vero, come
voleva il ricorrente, che il diritto di proprietà è rimasto
integro. In più, l'accertata demolizione era destinata a
separare un condominio da un'altro. Un pregiudizio
qualificabile come danno dipendente da un fatto illecito.
Su un punto, però, la Cassazione dà ragione al ricorrente:
la Corte d'appello non ha indicato un valido criterio di
liquidazione. La Suprema corte ammette la possibilità per il
giudice di merito di indicare il danno in via presuntiva
quando non ha elementi sufficienti a determinarlo con
esattezza. Ma l'unico parametro individuato dai giudici di
seconda istanza nel tempo intercorso tra la demolizione
dell'opera demolitrice e la data della sentenza di appello
non fornisce alcuna indicazione sulla reale entità del danno
e non aiuta a capire se la cifra di 10mila euro «non
simbolica ma significativa» è proporzionata (articolo Il Sole 24 Ore del
19.09.2013). |
CONDOMINIO: Riforma
del Condominio: nodo distacco impianto termico centralizzato
(10.09.2013 - link a www.leggioggi.it). |
CONDOMINIO - VARI:
M. Pugliese,
Far cadere la cenere o le cicche di sigarette sul terrazzo
dell'inquilino sottostante, può comportare conseguenze
penali
(10.09.2013 - link a www.diritto.it). |
CONDOMINIO: Condominio. La Cassazione interviene sulla decorrenza del
termine annuale di prescrizione.
Denuncia dopo la perizia per l'edificio con gravi difetti.
Quando un condominio agisce per i vizi di costruzione
dell'edificio, i termini prescrizionali di un anno decorrono
dalla data di asseveramento della perizia stragiudiziale che
accerta i danni, e non dalle lettere in cui denuncia
sinteticamente i vizi.
La questione è stata chiarita dalla
Corte di Cassazione, Sez. II civile (presidente Felicetti,
relatore Matera), con la
sentenza
09.09.2013 n. 20644.
Il condominio aveva segnalato, nei termini previsti dal
comma 1 dell'articolo 1669 del Codice civile, la presenza di
gravi vizi costruttivi (sgretolamento dell'asfalto dei
cortili e crepe nell'intonaco delle facciate) e aveva
inviato due lettere, nelle quali esponeva i problemi così
come erano rilevabili a vista. Poi aveva fatto la regolare
denunzia (prevista dal comma 2 dello stesso articolo), che
era nei termini solo considerando la data di asseverazione
della perizia stragiudiale ma non le lettere che erano state
inviate al costruttore segnalando i vizi.
Quest'ultimo ha sollevato in Cassazione proprio la questione
della tardività della denuncia, sostenendo che le lettere,
anche se «sintetiche», erano sufficienti a far valere la
garanzia e quindi la denuncia era tardiva. La Suprema Corte,
però, ha respinto il ricorso (pur compensando le spese),
perché il danneggiato deve avere la conoscenza completa dei
danni e solo questa è idonea a determinare il decorso del
doppio termine. E la conoscenza dovrà ritenersi conseguita
«solo all'atto dell'acquisizione di idonei accertamenti
tecnici», valutabili solo dal giudice di merito.
Non solo: la Cassazione ha anche respinto il motivo che
mirava a considerare non «gravi» i difetti rilevati:
la gravità non dipende solo da fenomeni che incidano su «staticità,
durata e conservazione dell'edificio» ma si configurano
anche in riferimento a una parte limitata dell'edificio,
purché incidano in maniera rilevante sulla funzionalità
della parte stessa, proprio come il distacco dell'intonaco (articolo
Il Sole 24 Ore del 10.09.2013).
---------------
massima
1. Ai fini del computo dei termini
annuali posti dall'art. 1669 CC -il primo di decadenza per
effettuare la "denunzia" ed il secondo, che dalla denunzia
stessa prende a decorrere, di prescrizione per promuovere
l'azione-, deve aversi riguardo alla "scoperta" del vizio,
che si identifica con la conoscenza sia della gravità dei
difetti sia del collegamento causale di essi con l'attività
progettuale e costruttiva espletata.
2. Ai fini della responsabilità dell'appaltatore ex art.
1669 c.c., costituiscono gravi difetti dell'edificio non
solo quelli incidenti sulla struttura e sulla funzionalità
dell'opus, ma anche i vizi costruttivi che menomano
apprezzabilmente il normale godimento della cosa o
impediscono che questa fornisca l'utilità cui è destinata,
come il crollo o il disfacimento del rivestimento esterno
dell'edificio, ovvero il distacco dell'intonaco, che, pur
non alterando le strutture portanti dell'edificio, alteri,
per la notevole estensione delle superfici interessate, il
normale godimento dell'immobile e la sua funzione economica.
3. La nozione di grave difetto di costruzione, infatti,
ricomprendendo ogni deficienza o alterazione che vada ad
intaccare in modo significativo sia la funzionalità
dell'opera che la sua normale utilizzazione, è riferibile
anche alle parti comuni di un edificio in condominio e,
quindi, anche ai viali di accesso pedonali
(link a http://www.neldiritto.it). |
agosto 2013 |
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CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Caldaie in condominio sempre con camino sul tetto.
Regole tecniche. La modifica con la
legge 90/2013.
LA PRESCRIZIONE/ Dal 1° settembre sarà precluso installare
ex novo impianti verdi con scarico a parete.
Sull'obbligo di canna fumaria esterna per le caldaie
individuali e centralizzate in condominio il Dl 63/2013,
recentemente convertito nella legge 90/2013, ha chiuso un
complicato cerchio normativo, intervenendo sulla questione
del "distacco". Ma bisogna partire dall'anno scorso per
ricostruire il sistema normativo.
La riforma del condominio (legge 220/2012) ha così
modificato l'articolo 1118, comma 4 del Codice civile: «Il
condomino può rinunciare all'utilizzo dell'impianto
centralizzato di riscaldamento o di condizionamento, se dal
suo distacco non derivano notevoli squilibri di
funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condomini. In
tal caso il rinunziante resta tenuto a concorrere al
pagamento delle sole spese per la manutenzione straordinaria
dell'impianto e per la sua conservazione e messa a norma».
Il legislatore ha reso di fatto possibile il distacco
dall'impianto di riscaldamento centrale, recependo le
indicazioni della Cassazione.
Ma esisteva ancora un ostacolo al distacco, costituito
dall'articolo 5, comma 9, del Dpr 412/1993, come modificato
dal Dpr 551/1999: la norma prescriveva in ogni caso lo scarico
dei prodotti della combustione sopra il tetto dell'edificio,
obbligo concretamente possibile da rispettare soltanto per
gli utenti dell'ultimo piano. Questo ostacolo è stato
rimosso con il Dl 179/2012, coordinato con la legge di
conversione 221/2012, che ha infatti sostituito
quell'articolo del Dpr 412/1993 con una norma più permissiva
che consentiva lo scarico a parete a condizione di
installare generatori a condensazione della classe più
efficiente e meno inquinante.
Queste disposizioni e la possibilità di scaricare a parete i
prodotti della combustione hanno generato lo sconcerto di
molti operatori. In particolare gli amministratori di
stabili sono sommersi da richieste di distacco che non sanno
come contrastare, in considerazione del fatto che la legge
non richiede il loro consenso, né il consenso dell'assemblea
del condominio. D'altra parte sono molti i tecnici che
sostengono che, se è incerto dimostrare i "gravi squilibri"
(quando sono lievi, medi, o gravi?), è invece certo che vi è
sempre un aggravio di spesa per gli altri condomini, se non
altro perché è uno in meno a pagare le spese fisse, quali
conduzione, manutenzione e dispersioni delle parti comuni.
Erano intense anche le proteste dei condomini sovrastanti,
sinora costretti a respirare i fumi di quelli sottostanti.
La protesta di condomini e aziende portatrici di interesse è
stata raccolta dal legislatore che, con la legge 90/2013 di
conversione del Dl 63/2013, ha introdotto l'articolo 17-bis,
che ha di nuovo sostituito l'articolo 5, comma 9, del Dpr
412/1993 con un nuovo testo: ora è sempre consentito lo
scarico a parete ma solo per gli impianti termici esistenti
prima del 31.08.2013 e a condizione che si tratti di
generatori a condensazione della classe più efficiente e
meno inquinante.
Per tutti gli altri diventa obbligatorio «lo sbocco sopra il
tetto», tranne, appunto, che si tratti di sostituzione di
impianti individuali già esistenti in «stabili
plurifamiliari» (qualora non esistano già canne fumarie
individuali idonee da sfruttare), oppure quando si tratti di
stabili soggetti a interventi solo «conservativi» (case
storiche o con vincoli di vario genere), sempre che non
abbiano già canne fumarie idonee. Gli scaldacqua
unifamiliari non sono considerati «impianti termici».
Restano quindi pochissimi giorni per installare ex novo
impianti individuali «puliti» che non impongano la canna
fumaria sino al tetto. Dal 1° settembre il "distacco", anche
con generatori "verdi", diventerà di fatto impossibile, dato
che installare la propria canna fumaria sino al tetto
comporta problemi davvero enormi nella maggior parte dei
casi. Solo in caso di «impossibilità tecnica» la relazione
asseverata di un tecnico consentirà comunque di evitare la
canna fumaria sino al tetto (articolo Il Sole 24 Ore del 23.08.2013). |
CONDOMINIO - EDILIZIA
PRIVATA:
La domanda di rilascio
del permesso di costruire ovvero la denuncia di inizio di
attività possono essere presentate dal proprietario
dell’immobile ovvero da chi ne abbia titolo.
L’espressione “titolo per richiederlo” è correntemente
intesa dalla giurisprudenza amministrativa nel senso di
posizione che civilisticamente costituisca titolo per
esercitare sul fondo un’attività costruttiva, ammettendosi
in tal senso che la posizione legittimante enunciata nella
disposizione normativa in esame non coincide con il solo
diritto di proprietà, ma anche con altri diritti reali o
addirittura personali di godimento, purché attribuiscano al
titolare la facoltà di attuare interventi sull’immobile.
A fronte di ciò, l’Amministrazione comunale è per certo
chiamata a svolgere un’attività istruttoria per accertare la
sussistenza del titolo legittimante di colui che chiede il
rilascio del titolo edilizio, anche mediante d.i.a.,
competendo in tal senso all’Amministrazione medesima la
verifica, in capo al richiedente, di un titolo sostanziale
idoneo a costituire la posizione legittimante senza alcuna
ulteriore e minuziosa indagine che si estenda fino alla
ricerca di eventuali fattori limitativi, preclusivi o
estintivi del titolo di disponibilità dell’immobile allegato
da colui che presenta l’istanza.
Significativo –del resto– è al riguardo anche l’art. 42,
comma 8, lett. a), della L. R. 12 del 2005, laddove si
dispone che il dirigente o il responsabile dell’ufficio
competente verifichi, in relazione alla d.i.a., “la
regolarità formale e la completezza della documentazione”.
La verifica del possesso del titolo a costruire costituisce
pertanto un presupposto, la cui mancanza impedisce
all’Amministrazione comunale di procedere oltre nell’esame
del progetto, anche se deve escludersi un obbligo
dell’Amministrazione comunale stessa di effettuare complessi
accertamenti diretti a ricostruire tutte le vicende
riguardanti l’immobile.
---------------
L’Amministrazione comunale, allorquando inizia l’istruttoria
per il rilascio di un titolo edilizio formale (nonché, ora,
allorquando svolge l’istruttoria conseguente all’avvenuta
presentazione di una segnalazione certificata di inizio di
attività – s.c.i.a. edilizia, a’ sensi dell’art. 19 della L.
07.08.1990 n. 241 nel testo ad oggi in vigore), non è per
certo obbligata ad acquisire informazioni sulla circostanza
che l’assemblea condominiale abbia eventualmente inibito al
singolo condomino di realizzare le opere sostanzianti un
sopralzo dell’edificio: ma il richiedente il titolo edilizio
ovvero chi presenta la s.c.i.a. è comunque onerato, prima di
iniziare i lavori, ad impugnare la deliberazione
dell’assemblea condominiale lesiva del proprio diritto, a’
sensi e per gli effetti dell’art. 1137, secondo comma, cod.
civ., essendo anche ammesso al riguardo l’incidente di
sospensione cautelare della deliberazione medesima.
Risulta altrettanto assodato che il condominio, ove abbia
adottato una deliberazione che vieti l’esecuzione dei lavori
al singolo condomino, può pure incidere nella sfera
giuridica di quest’ultimo e –segnatamente– sulla sua
posizione di interesse legittimo intervenendo a’ sensi
dell’art. 7 e ss. della L. 241 del 1990 nel procedimento
relativo al rilascio del permesso di costruire ovvero in
quello conseguente alla presentazione della s.c.i.a. e
chiedendo quindi all’Amministrazione comunale di non
accogliere le richieste del condomino medesimo conformemente
al predetto deliberato assembleare, ovvero anche l’adozione
di ogni possibile provvedimento in autotutela.
Il Collegio,
per parte propria, rileva che, a’ sensi dell’art. 11, comma
1, e dell’art. 23, comma 1, del T.U. approvato con D.P.R. 06.06.2001 n. 380, la domanda di rilascio del permesso di
costruire, ovvero la denuncia di inizio di attività possono
essere presentate dal proprietario dell’immobile ovvero da
chi ne abbia titolo.
Tali disposizioni riproducono nella sostanza l’art. 4, primo
comma, della L. 28.01.1977 n. 10, in forza del quale
“la concessione (edilizia) è data dal sindaco al
proprietario dell’area o a chi abbia titolo per
richiederla”, e sono a loro volta recepite in Lombardia
dall’art. 35, comma 1, della L. R. 12 del 2005, laddove –per l’appunto– analogamente si dispone che il permesso di
costruire sia rilasciato “al proprietario dell’immobile o a
chi abbia titolo per richiederlo”.
Va precisato che l’espressione “titolo per richiederlo” è
correntemente intesa dalla giurisprudenza amministrativa nel
senso di posizione che civilisticamente costituisca titolo
per esercitare sul fondo un’attività costruttiva (cfr. al
riguardo, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 28.05.2001 n.
2882 e 15.03.2001 n. 1507, nonché Sez. IV, 15.02.1985 n. 47), ammettendosi in tal senso che la posizione
legittimante enunciata nella disposizione normativa in esame
non coincide con il solo diritto di proprietà, ma anche con
altri diritti reali o addirittura personali di godimento,
purché attribuiscano al titolare la facoltà di attuare
interventi sull’immobile.
A fronte di ciò, il Collegio reputa che l’Amministrazione
comunale era ed è per certo chiamata a svolgere un’attività
istruttoria per accertare la sussistenza del titolo
legittimante di colui che chiede il rilascio del titolo
edilizio, anche mediante d.i.a., competendo in tal senso
all’Amministrazione medesima la verifica, in capo al
richiedente, di un titolo sostanziale idoneo a costituire la
posizione legittimante senza alcuna ulteriore e minuziosa
indagine che si estenda fino alla ricerca di eventuali
fattori limitativi, preclusivi o estintivi del titolo di
disponibilità dell’immobile allegato da colui che presenta
l’istanza (così, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 04.02.2004 n. 368).
Significativo –del resto– è al riguardo anche l’art. 42,
comma 8, lett. a), della L. R. 12 del 2005, laddove si
dispone che il dirigente o il responsabile dell’ufficio
competente verifichi, in relazione alla d.i.a., “la
regolarità formale e la completezza della documentazione”.
La verifica del possesso del titolo a costruire costituisce
pertanto un presupposto, la cui mancanza impedisce
all’Amministrazione comunale di procedere oltre nell’esame
del progetto, anche se deve escludersi un obbligo
dell’Amministrazione comunale stessa di effettuare complessi
accertamenti diretti a ricostruire tutte le vicende
riguardanti l’immobile.
---------------
L’Amministrazione
comunale, allorquando inizia l’istruttoria per il rilascio
di un titolo edilizio formale (nonché, ora, allorquando
svolge l’istruttoria conseguente all’avvenuta presentazione
di una segnalazione certificata di inizio di attività – s.c.i.a. edilizia, a’ sensi dell’art. 19 della L. 07.08.1990 n. 241 nel testo ad oggi in vigore), non è per certo
obbligata ad acquisire informazioni sulla circostanza che
l’assemblea condominiale abbia eventualmente inibito al
singolo condomino di realizzare le opere sostanzianti un
sopralzo dell’edificio: ma il richiedente il titolo edilizio
ovvero chi presenta la s.c.i.a. è comunque onerato, prima di
iniziare i lavori, ad impugnare la deliberazione
dell’assemblea condominiale lesiva del proprio diritto, a’
sensi e per gli effetti dell’art. 1137, secondo comma, cod.
civ., essendo anche ammesso al riguardo l’incidente di
sospensione cautelare della deliberazione medesima (cfr.
ivi, nonché la corrispondente disciplina contenuta nel nuovo
testo dell’articolo medesimo, conseguente alla novella
introdotta al riguardo dall’art. 15 della L. 11.12.2012 n. 220, che trova peraltro applicazione solo a
decorrere dal 18.06.2013).
Non consta che nella specie la deliberazione adottata
dall’assemblea condominiale sia stata sospesa.
Risulta altrettanto assodato che il condominio, ove abbia
adottato una deliberazione che vieti l’esecuzione dei lavori
al singolo condomino, può pure incidere nella sfera
giuridica di quest’ultimo e –segnatamente– sulla sua
posizione di interesse legittimo intervenendo a’ sensi
dell’art. 7 e ss. della L. 241 del 1990 nel procedimento
relativo al rilascio del permesso di costruire ovvero in
quello conseguente alla presentazione della s.c.i.a. e
chiedendo quindi all’Amministrazione comunale di non
accogliere le richieste del condomino medesimo conformemente
al predetto deliberato assembleare, ovvero anche l’adozione
di ogni possibile provvedimento in autotutela (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 21.08.2013
n. 4234 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
luglio 2013 |
|
CONDOMINIO:
A. Celeste,
Alzata irragionevolmente
l’asticella per … il superamento delle barriere
architettoniche (tratto da www.ipsoa.it - Immobili
& proprietà n. 7/2013). |
CONDOMINIO: Abitazioni, sicurezza vs privacy.
Telecamere ok per effettivi pericoli. D'obbligo il cartello.
Alcune cautele da osservare per
lasciare la propria casa senza creare problemi ai vicini.
Case da mettere in sicurezza prima di ogni partenza. Accanto
alle misure più tradizionali, dagli interventi strutturali
(inferriate, tapparelle blindate, vetri antisfondamento,
porte blindate ecc.) all'installazione di impianti di
antifurto, dalla stipula di polizze assicurative alla
vigilanza privata, occorre fare i conti con le nuove
tecnologie, senza però tralasciare di adempiere agli
obblighi previsti dalla legge a tutela dei terzi, con
particolare riferimento ai sistemi di videosorveglianza.
Una nuova e forse inaspettata fonte di rischio deriva, ad
esempio, dai social network, ormai sempre più diffusi tra
giovani e meno giovani.
Tuttavia l'ansia di condivisione delle foto e delle altre
informazioni relative alle ferie può essere abilmente
sfruttata dai malintenzionati per essere sicuri di potere
avere mano libera nell'appartamento.
Occorre quindi sforzarsi di utilizzare con maggiore
attenzione i vari Facebook, Twitter e servizi simili, quanto
meno restringendo le possibilità di accesso da parte di
estranei alle proprie informazioni personali.
Ma lo stesso consiglio vale anche per la più classica
segreteria telefonica (o per l'impostazione di risposta
automatica alle e-mail): meglio evitare di inserire messaggi
che chiariscano in modo inequivocabile la prolungata assenza
da casa.
Le innovazioni tecniche riguardano anche strumenti di
protezione tradizionali come le porte blindate: meglio
essere sempre aggiornati sugli ultimi modelli di serratura e
sulle chiavi di nuova generazione, falsificabili con
maggiore fatica.
L'innovazione tecnologica la fa poi da padrona in materia di
antifurti e videosorveglianza (alcune videocamere o più
semplici webcam sono ad esempio in grado di inviare le
immagini anche sugli smartphone).
Vi sono poi delle telecamere con specifici sensori che
possono avvertire via e-mail il proprietario di casa sulla
rilevazione di movimenti o variazioni di temperatura
nell'appartamento (segnali che potrebbero ad esempio seguire
all'apertura di una porta o di una finestra).
Tuttavia occorre considerare che l'installazione di
telecamere, pur costituendo sicuramente un ottimo deterrente
per scoraggiare i terzi malintenzionati, può anche
condizionare la libertà degli altri condomini di muoversi
all'interno delle aree comuni. Di conseguenza se il
proprietario vuole installare degli impianti di
videosorveglianza per registrare e conservare le immagini
dovrà rispettare determinati principi e adottare particolari
cautele a tutela della privacy degli altri condomini.
L'installazione di telecamere è infatti possibile a
condizione che ricorrano concrete situazioni di pericolo, di
regola costituite da furti o danneggiamenti già
verificatisi.
È comunque vietata l'installazione con scopo deterrente di
telecamere finte o non funzionanti, in quanto la sola loro
presenza può condizionare il movimento e il comportamento
delle persone. Inoltre, il sistema di videosorveglianza può
essere installato soltanto quando altre misure (es. sistemi
comuni di allarme, blindatura o protezione rinforzata di
porte e portoni, cancelli automatici ecc.) siano valutate
insufficienti o inattuabili. Si deve comunque escludere
qualsiasi uso superfluo o eccessivo del sistema.
Il singolo condomino che abbia installato un sistema di
videosorveglianza a protezione dell'appartamento o di
eventuali pertinenze è tenuto a informare i vicini con
appositi cartelli, che devono essere collocati prima del
raggio di azione della telecamera e devono essere visibili
in ogni condizione di illuminazione, allorché il sistema di
videosorveglianza sia eventualmente attivo in orario
notturno.
Inoltre è importante sottolineare che le immagini registrate
potranno essere conservate per un periodo limitato, cioè
sino a un massimo di 24 ore, fatte salve specifiche esigenze
per indagini della polizia.
Da sottolineare, infine, che l'angolo visuale delle riprese
deve essere comunque limitato ai soli spazi antistanti
l'accesso all'abitazione. Il mancato rispetto di queste
prescrizioni, a seconda dei casi, può comportare
l'applicazione di sanzioni amministrative o penali, oltre
ovviamente a eventuali richieste di risarcimento da parte
dei soggetti danneggiati (articolo
ItaliaOggi Sette del 29.07.2013). |
CONDOMINIO:
Condominio. I complessi con più edifici. Spese per il decoro
a carico di tutti.
IL PRINCIPIO/ Agli elementi ornamentali non si applica il
criterio secondo cui il costo è addossato soltanto a chi ne
trae utilità
Devono essere divise tra tutti i condomini le spese che
riguardano il decoro architettonico del complesso, anche se
gli interventi sono fatti su un solo edificio.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione che, con la sentenza
23.07.2013 n. 17875, ha confermato la decisione della Corte
d'appello che ha annullato due delibere condominiali
riguardanti l'esecuzione di lavori di manutenzione di più
edifici (un immobile principale e due palazzine poste sul
fondo del cortile interno) facenti parte del medesimo
condominio.
In particolare, un condomino, proprietario di unità
immobiliari in uno dei due edifici separati, aveva impugnato
le delibere contestando la ripartizione delle spese su base
millesimale perché –aveva sostenuto– in contrasto con la
legge e con il regolamento condominiale.
Il tribunale aveva respinto le domande, che invece sono
state poi accolte dalla Corte d'appello. I giudici di
secondo grado hanno infatti sottolineato che le due
palazzine si devono considerare del tutto separate e
autonome, sia strutturalmente che funzionalmente, dal corpo
di fabbrica principale. Quindi, si deve escludere il
carattere comune per le spese concernenti la conservazione
di muri e coperture, la posa dei portoni, il rifacimento dei
pluviali riguardanti l'edificio principale, che non hanno
alcun riflesso diretto sulla porzione autonoma costituita
dalle due palazzine, che costituiscono un condominio
parziale. Si applica, quindi, il criterio indicato
dall'articolo 1123, comma 3, del Codice civile: le spese
sono a carico solo dei condomini che ne traggono utilità.
Ma lo stesso principio, secondo i giudici, non vale per le
spese riguardanti il decoro architettonico (fregi
ornamentali, targhette citofoniche, lampade a braccio) della
facciata o dello stabile principale, perché si tratta di
"bene comune" a tutto il complesso condominiale. Quindi, le
spese devono essere ripartite tra tutti i condomini, inclusi
i proprietari delle unità immobiliari che si trovano nelle
due palazzine separate.
Tra l'altro, proprio il rispetto del decoro architettonico,
inteso come "bene comune" da tutelare, alla stregua di
qualunque altro bene comune, sia sotto il profilo estetico,
sia, soprattutto, sotto il profilo economico (si veda la
sentenza della Cassazione 3436/97) è stato posto come limite
dalla riforma del condominio (legge 220/2012) a varie forme
di intervento. Si tratta delle modificazioni delle
destinazioni di uso (articolo 1117-ter), delle innovazioni
(articolo 1120), delle opere su parti di proprietà privata
(articolo 1122), dell'installazione, non centralizzata, di
impianti di ricezione radiotelevisiva e di produzione di
energia da fonti rinnovabili (articolo 1122-bis) (articolo Il Sole 24 Ore del
02.09.2013). |
CONDOMINIO:
Nuovi paletti ai condizionatori.
Da rispettare decoro, utilizzo della facciata, immissioni.
Slalom tra i divieti per
l'installazione. Limiti dai regolamenti di condominio e
comunali.
Condominio e condizionatori: un matrimonio difficile ma non
impossibile. Con l'arrivo della stagione calda capita spesso
di dover affrontare problemi legati all'installazione dei
condizionatori nel rispetto della normativa condominiale e
della quiete dei propri vicini.
Vediamo di elencare, in
estrema sintesi, quelli più ricorrenti.
Le problematiche connesse all'installazione dei
condizionatori in facciata.
Il primo genere di difficoltà sorgono in relazione
all'utilizzo della facciata dell'edificio condominiale per
l'installazione del relativo impianto. A questo proposito si
ricorda come la legge di riforma del condominio (n. 220/12),
in vigore dallo scorso 18 giugno, abbia inserito a pieno
titolo la stessa nella più ampia categoria delle parti
comuni di proprietà di tutti i condomini. L'installazione in
facciata del corpo motore del condizionatore in genere non
crea particolari problemi di statica e sicurezza, ma può
creare questioni in tema di estetica dell'edificio.
Si
ripropone, allora, l'annosa questione dell'impatto visivo
che il manufatto può avere sul decoro dello stabile. Tale
problema, però, non riguarda solo la parte esterna
dell'edificio condominiale, ma può interessare anche altre
parti comuni. Così, recentemente, due condomini sono stato
condannati a rimuovere i motori di due condizionatori (e
tutti i manufatti di sostegno) sistemati nell'androne del
fabbricato (Cassazione, sentenza del 13.05.2013, n.
11386). Secondo i giudici supremi, infatti, la destinazione
dell'androne non è solo quella del libero transito
dall'esterno verso il cortile interno del comprensorio, ma
anche quella di conferire e preservare il decoro
all'ingresso medesimo, a prescindere dalle condizioni
estetiche e di manutenzione dell'immobile.
Il concetto di decoro architettonico. Il decoro
architettonico consiste nell'estetica data dall'insieme
delle linee e delle strutture ornamentali che caratterizzano
l'edificio e imprimono al medesimo una determinata
fisionomia: si tratta quindi di un bene comune il cui
mantenimento è tutelato a prescindere dalla validità
estetica delle modifiche che si intendono apportare.
È
necessario sottolineare che si deve parlare di decoro
architettonico non solo in relazione a edifici di
particolare pregio, ma anche in relazione a costruzioni
popolari che, comunque, hanno una loro linea, che può quindi
essere danneggiata da opere che la modifichino, anche quando
le stesse siano state eseguite per assicurare particolari
utilità per l'uso o godimento delle unità immobiliari di
proprietà esclusiva dei singoli condomini. In ogni caso
l'alterazione del decoro ben può correlarsi alla
realizzazione di opere che, pur se minime, vadano a mutare
l'originario aspetto anche soltanto di singoli elementi o
punti del fabbricato.
Quando i condizionatori compromettono il decoro. Alla luce
di quanto sopra risulta evidente che un condomino può
certamente installare in facciata un condizionatore di
piccole dimensioni che, come tale, non vada a stravolgere
l'armonia del caseggiato, soprattutto se, per colore e
posizione, sia destinato a essere poco visibile. Al
contrario, se un condomino installa un motore del
condizionatore di mastodontiche dimensioni, su una parte
esterna dell'edificio e nelle immediate vicinanze di alcune
finestre, si determina un'alterazione del decoro
architettonico e, di conseguenza, un deprezzamento
dell'intero fabbricato che il giudice può liberamente
quantificare senza bisogno di particolare motivazione.
Questo principio vale anche in caso di installazione
effettuata sulla facciata interna dell'edificio e
indipendentemente dal fatto che siano già presenti in
facciata opere e manufatti oppure altri condizionatori, pur
di minori dimensioni, o contatori del gas con relative
tubazioni: tali circostanze, secondo i giudici, quand'anche
arrechino un pregiudizio all'estetica dell'edificio, non per
questo legittimano l'ulteriore aggravio che il
condizionatore di considerevoli dimensioni di per sé provoca
al decoro dell'immobile.
Il problema delle immissioni. Per l'installazione dei
condizionatori non è richiesto il rispetto delle norme di
legge in tema di distanze: il manufatto può occupare parte
del muro perimetrale della proprietà del vicino o essere
sistemato in adiacenza della proprietà del condomino
limitrofo. Tuttavia l'impianto non può comportare immissioni
intollerabili in direzione della proprietà dei vicini (cioè
si deve evitare la fuoriuscita rilevante di vapore o acqua
calda o la produzione di rumori insopportabili).
Per quanto
riguarda il rumore i giudici hanno precisato che eccedono la
normale tollerabilità le immissioni sonore che superino di
tre decibel la c.d. rumorosità di fondo, intesa come il
complesso dei rumori di origine varia (spesso non
esattamente individuabili) presenti nel contesto ambientale
in esame. Accertata l'intollerabilità delle immissioni da
rumore proveniente dalle macchine di condizionamento
dell'aria, ai danneggiati spetta il risarcimento del danno
in relazione al periodo nel quale la situazione di disagio
sia perdurata.
Quando addirittura si può commettere un reato. Non è raro
che scatti anche la condanna penale nei confronti di coloro
che installano condizionatori rumorosi nelle proprie
abitazioni o nei luoghi delle rispettive attività
professionali. Si parla, in questi casi, di disturbo alla
quiete delle persone che abitano alloggi limitrofi, anche
nel caso in cui a lamentarsi dei rumori sia soltanto uno dei
nuclei familiari residenti nel condominio.
A stabilirlo è
stata la Corte di cassazione, che con la recente sentenza n.
28874/2013 ha convalidato la somministrazione di 200 euro di
multa ai danni del gestore di un centro commerciale
responsabile di aver montato dei condizionatori le emissioni
dei quali erano percepite fino al quarto piano del
condominio sovrastante. In questo caso l'imprenditore è
stato condannato anche a risarcire i danni morali subiti dai
condomini del quarto piano che precedentemente lo aveva
denunciato, contattando altresì un tecnico dell'Arpa per
misurare i decibel fastidiosi.
I limiti all'installazione: il regolamento
di condominio e quello comunale.
Se una norma del regolamento di condominio vieta
espressamente l'installazione di condizionatori in facciata
il singolo condomino non può che attenersi a tale
disposizione che, però, è valida solo se è contenuta in un
regolamento predisposto dal costruttore del caseggiato (c.d.
contrattuale) ed è stata accettata dai singoli acquirenti
degli appartamenti negli atti di acquisto oppure deliberata
dalla totalità dei condomini.
Questo significa che in tali casi il singolo condomino non
può installare un condizionatore in facciata nemmeno se è
stato autorizzato dall'assemblea con una delibera approvata
a maggioranza. In ogni caso, prima di installare un impianto
sul muro condominiale, è importante verificare anche che non
siano previste limitazioni nei regolamenti comunali: questi
ultimi, infatti, possono prevedere, ad esempio, il divieto
di installare condizionatori sulle pareti esterne degli
edifici del centro storico (articolo ItaliaOggi
Sette del 15.07.2013). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
In base all’art. 11,
comma primo, del d.P.R. 06.06.2001 n. 980, il permesso di
costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi
abbia titolo per richiederlo.
Quindi, il Comune, prima di rilasciare il titolo, ha sempre
l'onere di verificare la legittimazione del richiedente,
accertando che questi sia il proprietario dell'immobile
oggetto dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne
abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire
l'attività edificatoria.
---------------
Nel caso di specie è pacifico che gli interventi per i quali
è stato richiesto il titolo edilizio riguardano, non solo le
unità immobiliari poste all’ultimo piano dell’edificio, ma
anche il tetto di quest’ultimo: in particolare riguardano
anche la creazione di cinque abbaini e tre prese di luce,
due delle quali apribili.
Ciò premesso va osservato che, in base all’art. 1117, n. 1,
del codice civile, il tetto è oggetto di proprietà comune
dei proprietari delle singole unità immobiliari che
compongono l'edificio.
Ne consegue che i singoli proprietari non possono,
singolarmente, apportare modificazioni allo stesso, essendo
invece necessaria, ai sensi dell’art. 1120 del codice
civile, una apposita deliberazione dell’assemblea
condominiale, assunta con le maggioranze stabilite dall’art.
1136 dello stesso codice.
Nel caso concreto la richiesta del controinteressato non è
stata preceduta da alcuna deliberazione avente carattere
autorizzatorio; sicché deve ritenersi che questi fosse privo
di legittimazione a richiedere il titolo edilizio.
Decisivo, ai fini della soluzione della controversia, è il primo
motivo, avente carattere assorbente, con il quale la
ricorrente lamenta che il sig. L.L., odierno controinteressato, sarebbe stato privo della legittimazione
a richiedere il permesso di costruire poi rilasciato, atteso
che le opere che si intendono realizzare investono parti
comuni dell’edificio (nella specie il tetto), e che quindi
la richiesta avrebbe dovuto essere preceduta da una delibera
condominiale di contenuto autorizzatorio.
In proposito, va osservato che, in base all’art. 11, comma
primo, del d.P.R. 06.06.2001 n. 980, il permesso di
costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi
abbia titolo per richiederlo.
Secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale, il
Comune, prima di rilasciare il titolo, ha sempre l'onere di
verificare la legittimazione del richiedente, accertando che
questi sia il proprietario dell'immobile oggetto
dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un
titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività
edificatoria (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 04.04.2012
n. 1990).
Nel caso di specie è pacifico che gli interventi per i quali
è stato richiesto il titolo edilizio riguardano, non solo le
unità immobiliari poste all’ultimo piano dell’edificio, ma
anche il tetto di quest’ultimo: in particolare riguardano
anche la creazione di cinque abbaini e tre prese di luce,
due delle quali apribili.
Ciò premesso va osservato che, in base all’art. 1117, n. 1,
del codice civile, il tetto è oggetto di proprietà comune
dei proprietari delle singole unità immobiliari che
compongono l'edificio.
Ne consegue che i singoli proprietari non possono,
singolarmente, apportare modificazioni allo stesso, essendo
invece necessaria, ai sensi dell’art. 1120 del codice
civile, una apposita deliberazione dell’assemblea
condominiale, assunta con le maggioranze stabilite dall’art.
1136 dello stesso codice.
Nel caso concreto la richiesta del controinteressato non è
stata preceduta da alcuna deliberazione avente carattere
autorizzatorio; sicché deve ritenersi, conformemente a
quanto sostenuto dalla ricorrente, che questi fosse privo di
legittimazione a richiedere il titolo edilizio (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 11.07.2013 n. 1820 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO: Ritorna l'obbligo di conciliare per le liti condominiali.
Agli incontri solo l'amministratore.
La mediazione? Vicina di casa.
Competenti gli organismi nella circoscrizione dell'edificio.
Ritorna la mediazione obbligatoria per le controversie
condominiali, arricchita dalle specifiche novità previste
dalla legge di riforma n. 220/2012, entrata in vigore lo
scorso 18 giugno: gli unici organismi di mediazione
competenti saranno quelli con sede nella circoscrizione del
tribunale in cui si trova l'edificio condominiale, agli
incontri potrà partecipare soltanto l'amministratore, previa
delibera assembleare, l'eventuale proposta di conciliazione
dovrà essere approvata dalla maggioranza degli intervenuti
all'assemblea che rappresentino almeno la metà del valore
dell'immobile e alla stessa potrà essere attribuita
efficacia esecutiva soltanto ove sottoscritta dai legali
delle parti che abbiano partecipato all'incontro.
Il vizio di delega e l'intervento del governo con il c.d.
decreto Fare. Con l'ormai famosa sentenza del 24.10.2012 la Corte
costituzionale aveva dichiarato l'illegittimità
costituzionale per eccesso di delega legislativa del dlgs n.
28/2010 nella parte in cui era stata prevista
l'obbligatorietà della mediazione, ossia il suo carattere di
condizione di procedibilità per tutta una serie di
controversie, tra le quali anche quelle in materia
condominiale. Tuttavia, con il recentissimo decreto legge
approvato dal governo lo scorso 15 giugno (c.d. decreto
Fare), si è deciso di reintrodurre detta obbligatorietà,
prevedendo altresì ulteriori e importanti novità relative
alla procedura di mediazione. Per quanto riguarda lo
specifico delle liti condominiali, dette novità vanno quindi
coordinate con le altrettanto rilevanti innovazioni
contenute nella legge di riforma del condominio, delle quali
finora si è poco parlato.
Il concetto di controversia in materia di condominio. L'art.
5 del dlgs n. 28/2010, normativa quadro in materia di
mediazione, nella nuova versione post c.d. decreto Fare,
obbliga quindi le parti a far precedere l'eventuale azione
giudiziaria in materia di condominio da un tentativo di
risoluzione bonaria della controversia presso specifici
organismi iscritti in un apposito registro tenuto presso il
ministero della giustizia. In primo luogo è opportuno
ricordare che anche per questo tipo di controversie vige la
regola generale sull'ambito di applicazione oggettivo della
mediazione stabilita dall'art. 2, comma 1, del dlgs n.
28/2010, in base alla quale è possibile sottoporre a
tentativo di conciliazione soltanto i diritti disponibili.
Per quanto riguarda le controversie in materia di condominio
non è stato però così semplice provvedere alla delimitazione
del relativo ambito oggettivo, perché in questo caso la
disposizione di cui al predetto art. 5 si prestava a
interpretazioni contrastanti. Il nuovo art. 71-quater disp.
att. c.c. introdotto dalla legge di riforma del condominio
ha quindi opportunamente chiarito che per detto tipo di
controversie si intendono quelle derivanti dalla violazione
o dall'errata applicazione delle disposizioni codicistiche
relative al condominio negli edifici e, dunque, alle liti
tra condomini e condominio e a quelle tra condomini,
allorché esse vertano su una di dette questioni.
Occorre anche aggiungere, per completezza, che in ambito
condominiale non è necessario far precedere l'azione
giudiziale dal tentativo di mediazione nei seguenti casi:
a) ricorsi per decreto ingiuntivo, inclusa l'opposizione,
fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e
sospensione della provvisoria esecuzione (l'amministratore
potrà quindi continuare con la normale prassi usualmente
seguita in materia di morosità condominiale per assicurare
alla cassa comune gli oneri evasi dai condomini in ritardo
nei pagamenti);
b) procedimenti urgenti e cautelari (si pensi ai ricorsi
urgenti ex art. 700 c.p.c. per tutelare, ad esempio, i beni
comuni da pericoli imminenti) e procedimenti ex art. 696-bis
c.p.c. (procedimento di consulenza tecnica preventiva),
questi ultimi menzionati dal c.d. decreto Fare;
c) procedimenti possessori, fino all'adozione di
provvedimenti interdittali;
d) procedimenti in camera di consiglio (dunque, ad esempio,
nei casi di domanda di nomina/revoca dell'amministratore di
condominio).
La scelta dell'organismo di mediazione. L'art. 4 del dlgs n.
28/2010 prevede la massima libertà per i privati di
scegliere l'organismo di mediazione che preferiscono,
ovviamente tra quelli iscritti nel predetto registro
ministeriale, senza fare riferimento a criteri processuali,
quale ad esempio quello della competenza per luogo. In
generale le parti sono quindi pienamente libere di scegliere
l'organismo di mediazione sulla base delle proprie
motivazioni personali, che potrebbero essere le più
disparate.
Sono però evidenti i limiti di un meccanismo di
scelta così liberale: se da una parte si facilita al massimo
il privato nel decidere la soluzione a questi più
congeniale, dall'altra si offre il destro a possibili
strategie volte a mettere in difficoltà la controparte e a
ostacolarne la presenza in mediazione, con la speranza di
lucrare sulle possibili ricadute negative che la mancata
partecipazione al tentativo di mediazione può avere in sede
processuale.
Anche su questo aspetto il nuovo art. 71-quater disp. att.
c.c. ha però inserito una disposizione del tutto peculiare
per il condominio, sicuramente destinata a riaprire il
dibattito, mai sopito, sul criterio di scelta dell'organismo
di mediazione. La nuova disposizione introdotta dalla legge
n. 220/2012 prevede infatti che la domanda di mediazione per
le controversie condominiali debba essere presentata, a pena
di inammissibilità, presso un organismo di mediazione
ubicato nella circoscrizione del tribunale nella quale il
condominio è situato (articolo ItaliaOggi Sette
dell'01.07.2013). |
giugno 2013 |
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CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
A. Nicola,
Gli impianti non centralizzati di ricezione
radiotelevisiva e di produzione di energia da fonti
rinnovabili (Immobili & proprietà n. 6/2013 - tratto
da www.ipsoa.it). |
CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA:
Antenne centralizzate, regole tecniche stese da privati.
Il decreto del mse di gennaio 2013 evidenzia non poche
problematiche applicative.
È stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 25 del 30
gennaio scorso un decreto del Ministero dello sviluppo
economico (22.01.2013) che detta le «regole tecniche
relative agli impianti condominiali centralizzati d'antenna
riceventi del servizio di radiodiffusione».
Il decreto
disciplina gli impianti centralizzati d'antenna
condominiali, di nuova installazione, che ricevono i segnali
del servizio di radiodiffusione, terrestre e satellitare e
ne effettuano la distribuzione nell'edificio. Disciplina,
altresì, la progettazione e la realizzazione degli impianti
d'antenna riceventi il servizio di radiodiffusione
conseguenti al riutilizzo di parte della banda Uhf da parte
dei servizi di comunicazione elettronica.
Il provvedimento dispone che gli impianti centralizzati
d'antenna siano realizzati in modo da «ottimizzare la
ricezione delle stazioni emittenti radiotelevisive
ricevibili e annullare o minimizzare l'esigenza del ricorso
ad antenne riceventi individuali, in modo tale da garantire
i diritti inderogabili di libertà delle persone nell'uso dei
mezzi di comunicazione elettronica».
Fissate queste caratteristiche generali, il provvedimento
passa a dettare ulteriori norme per «la progettazione, la
realizzazione e la manutenzione di impianti» che rispettino
le caratteristiche di cui sopra. In particolare, gli
impianti centralizzati d'antenna (stabilisce ancora l'art.
4) non devono determinare condizioni discriminatorie tra le
stazioni emittenti i cui programmi siano contenuti
esclusivamente in segnali terrestri primari e satellitari né
condizioni discriminatorie nella distribuzione dei segnali
alle diverse utenze. L'utilizzo di un mezzo trasmissivo,
poi, non deve comportare l'esclusione di altri mezzi
trasmissivi che siano da considerare equivalenti o
complementari tra loro.
Ma quali devono essere i «criteri realizzativi» delle
antenne centralizzate? La risposta è contenuta nell'art. 6
del decreto, ove si dispone che «i riferimenti per la
conformità di progettazione, installazione e manutenzione
degli impianti centralizzati d'antenna sono: a) la direttiva
2004/108/Ce relativa agli aspetti di compatibilità
elettromagnetica; b) le pertinenti norme e guide tecniche di
impianto del Cei e i relativi riferimenti normativi europei Cenelec e in particolare la guida Cei 100-7 e le norme della
serie En 50083 ed ENn60728 per gli aspetti funzionali e di
sicurezza».
Per progettare, installare e fare la manutenzione delle
antenne centralizzate, insomma, bisogna seguire regole che
non sono contenute nel decreto ministeriale di cui ci stiamo
occupando, né in altre disposizioni legislative o
regolamentari. Tali regole sono infatti contenute, oltre che
in una direttiva europea, in documenti realizzati da due
enti di natura privata: il Cei (Comitato elettrotecnico
italiano) e il Cenelec (Comitato europeo di normazione
elettrotecnica).
E come ci si procura questi documenti, visto che (come
detto) non si tratta di leggi o decreti? Ebbene, in questo
caso è necessario procurarsi un volume intitolato Guide Cei
sugli impianti d'antenna per la ricezione Tv. Volume, deve
precisarsi, che non è disponibile gratuitamente, ma che è
necessario acquistare al prezzo di 130 euro. Senza,
oltretutto, che tale acquisto possa da qualcuno essere
evitato per effetto, ad esempio, dell'invio della
pubblicazione o di suoi estratti in copia da parte di un
terzo (come potrebbe essere, ad esempio, un'Associazione
territoriale della Confedilizia). Le indicazioni sul volume
sono infatti inequivoche: «Tutti i diritti sono riservati.
Nessuna parte del documento può essere riprodotta, messa in
rete o diffusa con un qualsiasi mezzo senza il consenso
scritto del Cei».
È legittimo tutto ciò? A leggere quanto affermato dal Tar
del Lazio nella sentenza n. 5413 dell'01/04/2010 (ottenuta
dalla Confedilizia con riferimento a un decreto in materia
di ascensori) parrebbe proprio di no. In quell'occasione,
infatti, i giudici amministrativi hanno ritenuto illegittime
quelle previsioni che, nell'imporre prestazioni a privati
proprietari, lascino «ampio spazio nella loro individuazione
ad una associazione privata» (l'Uni, nel caso di specie,
ente analogo a quelli citati nel decreto sulle antenne),
«alle cui libere determinazioni, assunte nel tempo e
finalizzate ad un continuo adeguamento delle tecniche di
valutazione dei rischi degli impianti, da essa imposte,
dipende la loro progressiva quantificazione e i vantaggi
economici che l'associazione ne ricava».
Ma il Tar aggiungeva anche: «La riprova della anomala e
ingiustificata posizione di vantaggio che ad essa si è
ritenuto di assicurare, in danno dei proprietari, è già
nell'obbligo fatto ai privati proprietari di acquisire, ad
un prezzo esoso, limitatamente ad una sola copia del
cartaceo recante il testo delle norme tecniche da osservare
e «ad esclusivo uso del cliente», la licenza da parte
dell'Uni ad utilizzare la normativa tecnica da essa
predisposta, di cui è ritenuta proprietaria e che per questa
ragione non è pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, come
sarebbe doveroso per ogni normativa che alla collettività si
impone di applicare».
Il testo integrale del provvedimento può essere scaricato
(da parte dei titolari della relativa password) dalla banca
dati riservata del sito internet della Confedilizia
(articolo Italia Oggi del 22.06.2013). |
CONDOMINIO: Condominio.
Le nuove regole richiedono maggioranze più alte per la
rimozione.
La riforma peggiora i quorum sulle barriere architettoniche.
IL VOTO PER LE INNOVAZIONI/
Prima bastavano un terzo di condomini e 334 millesimi, ora
serve la maggioranza degli intervenuti in assemblea e almeno
500 millesimi
INTERVENTO INDIVIDUALE/
Se l'assemblea non vota l'intervento entro un mese dalla
richiesta, il condomino potrà installare il servoscala o
altra struttura a sue spese.
L'esigenza più sentita in condominio dai diversamente abili,
dagli anziani e da tutti coloro colpiti da un handicap o,
più semplicemente, da difficoltà motorie è quella di potersi
muovere senza difficoltà in condominio, di poter scendere le
scale, prendere l'ascensore, di poter godere della propria
autonomia e non sentirsi "blindati" a casa propria.
Invece, purtroppo, si assiste spesso a casi di persone
disabili che da anni non possono uscire di casa perché
impossibilitati ad entrare in ascensori con porte troppo
piccole, o addirittura non possono neppure scendere le scale
perché abitano al sesto piano e non c'è un servoscala.
Queste sono le barriere architettoniche e nel 2013 la
riforma adottata dal legislatore ha complicato le cose
invece di migliorarle.
Per la determinazione del concetto di «barriera
architettonica» il legislatore fa riferimento all'articolo
27, comma 1, della legge 118/1971, nella quale si definisce
barriera architettonica qualsiasi impedimento fisico a
ostacolo alla vita di relazione dei minorati. La barriera
architettonica, quindi, può essere una scala, un gradino,
una rampa troppo ripida.
Già da tempo la normativa, in particolare la legge n. 13 del
09.01.1989 (disposizioni per favorire il superamento e
l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici
privati) e la legge n. 104 del 05.02.1992 (legge quadro
per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle
persone handicappate) non si è limitata a innalzare il
livello di tutela in favore di questi soggetti ma ha segnato
un radicale mutamento di prospettiva rispetto al modo stesso
di affrontare i loro problemi, considerati ora non più
questioni solo individuali, ma tali da dover essere assunti
dall'intera collettività.
Così l'accessibilità, definita dall'articolo 2 del decreto
ministeriale n. 236 del 14.06.1989 come la «possibilità,
anche per persone con ridotta o impedita capacità motoria o
sensoriale, di raggiungere l'edificio e le sue singole unità
immobiliari, di entrarvi agevolmente e di fruire di spazi e
di attrezzature in condizioni di adeguata sicurezza ed
autonomia» è divenuta una qualità essenziale degli edifici
privati di nuova costruzione ad uso di civile abitazione
(vedi anche il capo III del Dpr n. 380 del 06.06.2001,
ovvero il testo unico delle disposizione legislative e
regolamentari in materia edilizia), quale conseguenza
dell'affermarsi nella coscienza sociale, del dovere
collettivo di rimuovere preventivamente ogni possibile
ostacolo alla esplicazione dei diritti fondamentali delle
persona affette da handicap fisici.
Anche la Corte Costituzionale è intervenuta con la sentenza
n. 167 del 10.05.1999, in tema di servitù di passaggio
coattivo, riconfermando i principi già espressi nella
normativa e sottolineando come qualsiasi impedimento e/o
ostacolo all'accessibilità dell'immobile abitativo e, quale
riflesso necessario, alla socializzazione dei soggetti
portatori di handicap, comporti una lesione del fondamentale
diritto alla salute intesa nel significato proprio
dell'articolo 32, comprensivo anche della salute psichica, la
cui tutela deve essere di grado pari a quello della salute
fisica.
La depressione quale conseguenza dell'isolamento, per
esempio, è una delle tipiche patologie psichiche conseguenti
a situazioni del genere, ed è tutt'altro che infrequente,
perché chiusi in casa ci si "spegne" letteralmente.
Oggi, per gli edifici già esistenti (la grande maggioranza)
il legislatore, con la legge di riforma n. 220/2012 (entrata
in vigore quattro giorni fa), invece di diminuire il quorum
necessario per deliberare le modifiche da apportare alle
parti comuni dirette al superamento o all'eliminazione delle
barriere architettoniche, lo ha aumentato.
In particolare se l'articolo 2 della legge 13/1989 prevedeva
che per queste modifiche o innovazioni fosse sufficiente in
seconda convocazione il voto favorevole di un terzo dei
partecipanti al condominio, portatori di almeno un terzo dei
millesimi, ora, con la riforma, sia in prima che in seconda
convocazione è necessario il voto favorevole espresso dalla
maggioranza degli intervenuti in assemblea e almeno la metà
del valore millesimale dell'edificio (articolo 1120 del
Codice civile).
Se l'assemblea risponde negativamente o non risponde entro
un mese dalla richiesta (con la legge 13/1989 erano previsti
tre mesi), il condomino potrà sempre a propria cura e spese
installare il servoscala e tutte quelle strutture mobili che
possono consentirgli una vita, nel vero senso della parola
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.06.2013). |
CONDOMINIO: In
vigore. Scatta la legge 220/2012: quali disposizioni vanno
immediatamente applicate e quali no.
Condominio, debutta la riforma.
Da oggi operative le nuove maggioranze e i limiti alle
deleghe.
IN COMPAGNIA/
Cade il divieto di tenere animali domestici contenuto nei
regolamenti condominiali assembleari.
La riforma del condominio debutta oggi e le nuove norme,
dopo un periodo di sei mesi di "digestione" da parte del
mondo immobiliare, sono ora efficaci. Non tutte le nuove
disposizioni avranno però un impatto immediato sulla realtà
condominiale.
La legge 220/2012 non ha espressamente
disciplinato le conseguenze della sua entrata in vigore con
norme transitorie e, pertanto, solo il richiamo ai principi
generali dell'ordinamento può indicare quali norme avranno
immediata applicazione e quali mostreranno la loro incidenza
su un arco di tempo più lungo.
In ogni caso, non tutte le norme sono di facile
applicazione: tanto che «Il Sole 24 Ore», in collaborazione
con tutte le associazioni della proprietà e degli
amministratori condominiali, ha proposto alcune modifiche
tecniche che stanno per essere inserite in un disegno di
legge presentato dal deputato Salvatore Torrisi (si veda a
pagina 18).
Il principio generale cui rifarsi è quello previsto
dall'articolo 11 delle Disposizioni sulle preleggi del
Codice civile, relativo all'irretroattività: la legge non
può disporre che per il futuro, con la conseguenza che la
norma si applica solo ai rapporti giuridici nati sotto la
sua vigenza. Nella realtà condominiale, tuttavia, non è
sempre facile capire quali fattispecie debbano sottostare
alle nuove disposizioni sin da oggi e quali invece debbano
trovare la loro definizione nelle norme anteriormente
vigenti.
Si può dire con ragionevole certezza che saranno
immediatamente applicabili quelle norme che non innovano
nulla rispetto alla disciplina previgente, in quanto
immutate oppure volte a disciplinare specificamente
fattispecie che prima avevano definizione generale e che in
forza di una costante lettura giurisprudenziale trovavano
lettura analoga a quella che oggi la riforma detta
espressamente: si pensi alla disciplina delle parti comuni
(articolo 1117 del Codice civile, e alla disciplina del
sottotetto), all'articolo 1118 del Codice civile (ivi
compresa la questione del distacco dall'impianto di
riscaldamento), al consenso unanime previsto dall'articolo
1119 per la divisione dei beni comuni, all'obbligo per
l'amministratore di esibire e rilasciare copia della
documentazione agli aventi diritto, alle cause non tassative
e codificate di grave irregolarità che possono dar luogo a
revoca dell'amministratore (articolo 1129), all'obbligo di
rendiconto annuale (articolo 1130 del Codice civile),
l'autonomia dell'amministratore nella richiesta di decreto
ingiuntivo (articolo 63 delle Disposizioni di attuazione del
Codice civile), alla prededuzione delle spese condominiali
in sede fallimentare (articolo 30 della legge 220/2012).
Vi sono poi norme che paiono applicabili alle realtà già
esistenti, ma solo per quelle compiute dal 18.06.2013,
come quelle relative alle attività sulle parti comuni
previste dagli articoli 1117 bis e 1122-ter, anche se
l'articolo 155 bis delle Disposizioni di attuazione prevede
la possibilità per l'assemblea di intervenire anche sugli
impianti già esistenti alla data di entrata in vigore (la
lettura di alcuni interpreti –ovvero che tali norme si
applicherebbero solo agli edifici costruiti o ai condomìni
costituiti dopo tale data– pare eccessivamente
restrittiva); rientrano in questa previsione anche le norme
relative a revisione e modifica delle tabelle millesimali
(articolo 69 delle Disposizioni di attuazione), alla tenuta
dei registri relativi alla "anagrafica condominiale"
(articolo 1130 del Codice civile), alla convocazione,
funzionamento e maggioranze dell'assemblea (compresi i
limiti di 200 millesimi per le deleghe nei condomìni con
oltre 20 condòmini e il divieto de delegare
l'amministratore), nonché all'impugnativa dei relativi
deliberati (articoli 1135, 1136, 1137 del Codice civile e 66
e 67 delle Disposizioni di attuazione). Appare infine idonea
a incidere sulla legittimità anche dei regolamenti
condominiali esistenti la norma di cui all'articolo 1130,
quinto comma del Codice civile, che qualifica illegittimo il
divieto di detenere animali domestici.
Il principio di irretroattività comporta invece che le norme
sulla gestione annuale o comunque su attività che hanno
avuto inizio sotto la precedente normativa e non hanno
ancora esaurito i loro effetti si applichino solo
all'esaurirsi di questi effetti: quindi le norme relative a
nomina, revoca, durata e relativi risvolti
dell'amministratore (articolo 1129 del Codice civile)
troveranno applicazione alle nomine effettuate dopo tale
data; le nuove modalità di rendicontazione (articolo 1130
bis) sono applicabili ai bilanci degli esercizi iniziati
nella vigenza della nuova norma; così quelle relative alla
responsabilità patrimoniale (articolo 63 delle Disposizioni
di attuazione e 67 delle Disposizioni di attuazione) si
applicheranno alle obbligazioni sorte dopo il 18.06.2013.
In tema processuale, infine, vanno ritenute applicabili
anche ai giudizi pendenti le nuove norme di natura
processuale (articolo 1137 del Codice civile e 64 e 69 delle
Disposizioni di attuazione), fatti salvi gli effetti ormai
definitivi
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.06.2013). |
CONDOMINIO:
Dall'amministratore al bilancio. Riforma del condominio al
via.
In vigore dal 18 giugno la legge n. 220/2012.
Formazione e nuovi adempimenti.
Al via la riforma del condominio. Trascorso il periodo di
sei mesi dalla pubblicazione in G.U. della legge n.
220/2012, questa settimana entrano in vigore le modifiche
apportate agli articoli 1117 e seguenti del codice civile e
delle relative disposizioni di attuazione.
Le novità
principali riguardano le nuove attribuzioni
dell'amministratore, che di fatto deve tornare sui banchi di
scuola. Chi si dedicherà per la prima volta a questa
attività dovrà infatti essere in possesso di un diploma di
scuola secondaria di secondo grado e avere svolto un corso
di formazione in materia di amministrazione condominiale.
Solo chi potrà dimostrare di avere già esercitato detta
attività per almeno un anno a partire dal giugno 2010 potrà
invece fare a meno di detti requisiti, salvo l'obbligo di
frequentare i corsi di formazione periodica. Saranno invece
esentati da qualsiasi obbligo formativo, tanto iniziale
quanto periodico, quei condomini che si assumano l'onere di
amministrare il proprio condominio.
Quanto sopra rischia
però di rimanere sulla carta, almeno fino a che non si
stabilisca come debbano essere organizzati i corsi di
formazione: su quali materie debbano vertere, quale sia il
monte ore minimo da rispettare, chi possa organizzarli. Il
controllo sul possesso dei requisiti di legge da parte
dell'amministratore rimane comunque demandato agli stessi
condomini: dovrà essere infatti l'assemblea a verificare,
prima della nomina e durante lo svolgimento del mandato, se
il candidato possa o meno aspirare a svolgere e/o a
continuare detta attività.
I requisiti che devono essere posseduti dall'amministratore
condominiale. La legge n. 220/2012, oltre a rafforzare
prerogative e obblighi dell'amministratore condominiale, ha
voluto anche restringere le modalità di accesso a detta
attività, pur senza giungere all'istituzione di un vero e
proprio registro.
Oltre ai requisiti di formazione, il nuovo
art. 71-bis disp. att. c.c. ha quindi previsto che possano
svolgere detta attività soltanto quei soggetti che abbiano
il godimento dei diritti civili, non siano stati condannati
per alcuni specifici delitti, non siano stati sottoposti a
misure di prevenzione divenute definitive, salvo che non sia
intervenuta la riabilitazione, non siano interdetti o
inabilitati, non siano stati inseriti nell'elenco dei
protesti cambiari.
La perdita dei predetti requisiti
comporta la cessazione ex lege dall'incarico, con la
conseguenza che i condomini dovranno attivarsi (anche uno
solo di essi) per convocare l'assemblea e provvedere alla
nomina di un nuovo amministratore.
I nuovi compiti dell'amministratore. Vediamo allora di
sintetizzare i nuovi compiti attribuiti all'amministratore
dalla nuova legge di riforma (si veda anche la tabella
relativa alle nuove attribuzioni di cui all'art. 1130 c.c.).
a) Obblighi di comunicazione ai condomini: in caso di nomina
e per ogni successivo mandato, vi è l'obbligo di comunicare
ai condomini i propri dati anagrafici e professionali, il
proprio codice fiscale e, qualora si tratti di società, la
denominazione e la sede legale della stessa, l'indirizzo dei
locali in cui si trovano i registri obbligatori, nonché dei
giorni e delle ore nelle quali ciascun condomino interessato
può accedere a detti locali ed estrarre copia della
documentazione.
b) Obbligo di stipulare apposita polizza assicurativa per la
responsabilità professionale e di comunicarne gli estremi ai
condomini: l'amministratore, al momento dell'accettazione
della nomina, se previsto dall'assemblea, deve presentare ai
condomini una polizza individuale di responsabilità civile
per gli atti compiuti nell'esercizio del mandato.
c) Obbligo di affiggere le generalità dell'amministratore in
un luogo di pubblico accesso: si tratta di una norma di
civiltà, il cui adempimento era rimasto fino a oggi legato
alla correttezza dell'amministratore o alle disposizioni
regolamentari di qualche ente locale più illuminato. È
infatti evidente come sia di pubblico interesse poter
risalire con immediatezza al nominativo e al recapito del
soggetto chiamato per legge a rappresentare il condominio
nei rapporti con i terzi.
d) Obbligo di aprire un conto corrente condominiale e di far
transitare esclusivamente su quest'ultimo le entrate e le
uscite condominiali: anche questa disposizione risponde a
un'esigenza di elementare trasparenza nell'amministrazione
delle somme di denaro di proprietà altrui. Tuttavia, a oggi,
detto fondamentale obbligo di diligenza era rimesso al buon
cuore dell'amministratore condominiale o a specifiche
indicazioni del regolamento o di deliberazioni assembleari.
e) Obbligo di consegna della documentazione condominiale o
di singoli condomini alla cessazione dell'incarico: viene
ulteriormente ribadito, anche in sede normativa, l'obbligo
dell'amministratore di passaggio delle consegne alla
cessazione dell'incarico. Detto obbligo potrà essere assolto
mediante consegna della documentazione condominiale o di
singoli condomini sia a questi ultimi sia al nuovo
amministratore designato dall'assemblea. Viene poi
ulteriormente specificato che l'amministratore dimissionario
resta comunque tenuto ad adottare eventuali interventi
urgenti nell'interesse delle parti comuni anche dopo la
cessazione dell'incarico, qualora non possa utilmente
attivarsi il nuovo amministratore (ad esempio perché non
ancora nominato dall'assemblea), senza diritto a ulteriore
compenso.
f) Obbligo di riscuotere le somme dovute dai condomini:
viene introdotto l'obbligo dell'amministratore di riscuotere
quanto dovuto dai condomini alle casse comuni entro il
termine di sei mesi dalla chiusura dell'esercizio contabile
nel quale è compreso il credito vantato. L'intervento
dell'assemblea, lungi dal costituire una condizione per il
recupero forzoso dei crediti condominiali, può invece
sollevare l'amministratore da detto obbligo normativo. Detto
obbligo va altresì correlato a quanto specificamente
previsto in tema di morosità condominiale dall'art. 63 Disp.
att. c.c.
g) Obbligo di specificare l'ammontare del compenso al
momento della nomina: per evitare possibili contenziosi in
materia, il legislatore ha anche deciso di obbligare
l'amministratore a dichiarare espressamente, a pena di
nullità della nomina stessa, l'ammontare del compenso
richiesto sia in occasione della prima nomina sia per i
successivi rinnovi del mandato biennale.
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La gestione diventa trasparente.
Con la legge n. 220/2012 si è voluta rendere più trasparente
e professionale la gestione del condominio, incidendo
soprattutto sulla figura dell'amministratore. Formazione
iniziale e periodica, esercizio dell'attività in forma
societaria, conto corrente condominiale, polizza
assicurativa, divieto di accettare deleghe per l'assemblea,
obbligo di mettere i condomini in grado di visionare e fare
copia della documentazione, obbligo di provvedere in tempi
certi al recupero della morosità, delineano infatti una
nuova forma di gestione del condominio, più aperta alle
esigenze dei comproprietari.
La legge di riforma ha quindi operato un riordino generale
della disciplina del condominio, uniformandosi alle
soluzioni individuate dalla più recente giurisprudenza di
legittimità, rimettendo mano alle disposizioni che regolano
il funzionamento dell'assemblea (con un generale
abbassamento delle maggioranze necessarie per l'adozione
delle deliberazioni e una serie di utili chiarimenti sulle
modalità di convocazione e partecipazione, diretta e
delegata), la contabilità condominiale (per garantire una
maggiore trasparenza, anche avvalendosi di un revisore dei
conti), l'impugnazione giudiziale delle deliberazioni
assembleari, l'applicazione delle sanzioni previste dal
regolamento per i condomini che non ne rispettino il
contenuto, la revisione e la modifica delle tabelle
millesimali.
L'intervento di riforma non è certo andato esente da
critiche e richieste di chiarimenti (si pensi alla questione
della natura parziaria o solidale delle obbligazioni
condominiali e alla nuova disciplina della modificazione
d'uso delle parti comuni, così come al diritto del singolo
condomino di distaccarsi dall'impianto comune di
riscaldamento e all'approvazione degli interventi di
manutenzione straordinaria e delle innovazioni con
obbligatoria costituzione di un fondo speciale di importo
pari all'ammontare dei lavori). Tuttavia esso ha
rappresentato il frutto di un intenso lavoro di mediazione
tra esigenze diverse e, soprattutto, ha il merito di avere
aggiornato una normativa per molti versi anacronistica (articolo
ItaliaOggi Sette del 17.06.2013). |
CONDOMINIO:
Le novità sulla casa. Adempimenti subito operativi
Registri, deleghe e polizze: il «nuovo» amministratore.
Da domani la riforma del condominio impone ai professionisti
di adeguarsi.
Pronti, via. Parte domani la rivoluzione in condominio,
veicolata dalla riforma approvata alla fine dell'anno
scorso, con la legge 220/2012, che entra in vigore il 18
giugno, dopo una vacatio di sei mesi. Debuttano così le
regole "corrette" per le assemblee, le maggioranze e i
lavori. E arrivano una serie di nuovi vincoli per gli
amministratori, che devono rivedere da subito le loro prassi
operative per far fronte alle richieste fatte dalla riforma,
spesso in nome della trasparenza e di una maggiore tutela
dei condòmini.
I requisiti
A cambiare, innanzitutto, sono le condizioni per ricoprire
l'incarico di amministratore: tra l'altro, occorre
rispettare i requisiti di onorabilità, godere dei diritti
civili, avere il diploma di scuola secondaria di secondo
grado, frequentare un corso di formazione e seguire
l'aggiornamento periodico. E se i nuovi obblighi del titolo
di studio e della formazione iniziale risparmiano chi ha
fatto l'amministratore per almeno un anno negli ultimi tre,
agli altri devono adeguarsi anche i professionisti già in
carica: chi perde (o ha perso) i requisiti di onorabilità e
i diritti civili decade immediatamente dall'incarico.
I nuovi obblighi
Da domani, poi, diventa un obbligo generalizzato in tutta
Italia quella che, finora, è stata una misura operativa solo
in alcuni Comuni: nell'androne del condominio (o comunque
nel luogo di accesso o di maggiore uso comune) deve essere
affissa una targa con le generalità, il domicilio e i
recapiti dell'amministratore.
Ma apporre una targa nei condomini amministrati non è certo
l'adempimento più oneroso imposto dalla riforma. Recependo
un orientamento consolidato della Cassazione –e una buona
norma di prassi già diffusa tra i professionisti– la legge
impone di avere un conto corrente condominiale (bancario o
postale) dedicato per ogni edificio, su cui devono
transitare i contributi dei condòmini e le somme ricevute da
terzi, oltre ai pagamenti fatti per conto del condominio. Da
domani, per chi non rispetta il nuovo obbligo, la sanzione è
pesante: la mancata apertura e il mancato uso del conto
costituiscono «grave irregolarità», che giustifica la revoca
dell'incarico, anche da parte del giudice su ricorso di un condòmino.
Non solo. Con l'entrata in vigore della riforma,
l'amministratore deve iniziare a curare una serie di
registri: in molti casi sono già utilizzati, ma, da domani,
chi non li istituisce e aggiorna può incappare anche in una
revoca giudiziale per «grave irregolarità». Si tratta del
registro dei verbali, dove annotare le mancate costituzioni
dell'assemblea, le deliberazioni e le dichiarazioni dei condòmini, con, in allegato, il regolamento di condominio.
Poi, il registro di nomina e revoca degli amministratori,
dove devono essere indicate, in ordine cronologico, le date
di nomina e di revoca di ciascun amministratore e gli
estremi del decreto di revoca giudiziaria se è intervenuto
il giudice. Infine, l'amministrazione deve istituire (anche
in modalità informatica) il registro di contabilità, dove
annotare tutte le operazioni in ordine cronologico ed entro
30 giorni da quando vengono effettuate.
I rapporti con i condòmini
La riforma interviene anche sulle relazioni tra
l'amministratore e i condòmini. Intanto, per le assemblee
che si terranno da domani in poi, qualsiasi sia l'ordine del
giorno, i condòmini che non parteciperanno non potranno più
delegare l'amministratore, ma dovranno incaricare un altro
condòmino o un terzo. Inoltre, l'amministratore deve
diventare il "controllore" delle posizioni dei condòmini.
La riforma tiene infatti a battesimo il registro di anagrafe
condominiale, in cui l'amministratore deve raccogliere le
generalità dei proprietari –con codice fiscale, residenza e
domicilio– e i dati catastali di ogni unità immobiliare.
Molti professionisti si sono già attivati nelle scorse
settimane, ma è solo da domani che, in caso di mancata
risposta per più di 30 giorni, si possono reperire le
informazioni addebitando i costi ai proprietari (articolo
Il Sole 24 Ore del 17.06.2013). |
CONDOMINIO:
In condominio anche criceti, pesci rossi e passerotti.
Circolare del notariato sulle novità
introdotte dalla riforma.
In condominio anche i criceti, i pesci rossi e i passerotti.
Non solo cani e gatti. E questo da subito, anche se il
vecchio regolamento di condominio lo vietava espressamente.
L'interpretazione della riforma del condominio (legge
220/2012), data dallo
studio
23.05.2013 n. 320-2013/C del Consiglio
nazionale del notariato, mette in evidenza l'immediata
incidenza delle nuove disposizioni in vigore dal 18.06.2013. Questo vale anche per la disciplina dei subentri nella
proprietà degli appartamenti condominiali e per le sanzioni
a carico di chi viola il regolamento.
Vediamo, dunque, i
passaggi salienti dello studio dei notai.
ANIMALI - Durante l'iter parlamentare si è passati
dall'ammettere in condominio gli animali da compagnia agli
animali domestici. Lo scopo è stato quello di tenere fuori
gli animali pericolosi, gli animali da fattoria e tutti gli
animali che non hanno consuetudini familiari. Ma la
disposizione deve essere interpretata con ragionevolezza e,
quindi, sono da ammettere non solo cani e gatti (che possono
anche fruire degli spazi comuni), ma anche pesci, criceti e
cavie e uccellini da gabbia (che stanno dentro la casa del
padrone). Questa nuova regola si applica automaticamente,
senza bisogno di modificare la difforme clausola del
regolamento condominiali, automaticamente sostituito.
SUBENTRI - La riforma del condominio ha previsto la nuova
regola per cui chi vende rimane responsabile delle spese
condominiali se non invia all'amministratore una copia
autentica dell'atto di vendita. Considerata la vessatorietà
della norma, lo studio notarile cerca, per lo meno, di
attenuarne il rigore, considerando che il venditore possa
far avere all'amministratore o la copia autentica o un
documento equivalente, come ad esempio una dichiarazione di
avvenuta vendita rilasciata dal notaio subito dopo il
rogito.
La riforma ripete invece la regola della
responsabilità di chi acquista anche per le spese
condominiali relative all'anno in corso e a quello
precedente. Lo studio notarile ricorda che per anno si
intende l'anno di gestione e non l'anno solare o civile. Lo
studio fa un esempio: se l'alienante di una unità
immobiliare trasferisce la stessa il 18.04.2013 e ha
debiti condominiali risalenti al mese di maggio 2011,
l'acquirente può essere chiamato a risponderne solidalmente
se l'esercizio condominiale si chiude il 30 aprile di ogni
anno, mentre non lo sarà se la gestione del condominio ha
come termine di chiusura annuale il 31 marzo. In ogni caso
lo studio notarile consiglia a chi vende e a chi acquista di
disciplinare espressamente in apposite clausole dell'atto
notarile i rispettivi carichi delle spese condominiali.
SANZIONI - Chi viola il regolamento condominiale rischia una
multa fino a 200 euro e in caso di recidiva fino a 800 euro.
Chissà, si legge nel documento, che questo non basti a
rivitalizzare l'istituto.
REGOLAMENTO
- Secondo le nuove norme il regolamento, una volta approvato
dall'assemblea, deve essere allegato al registro dei verbali
delle assemblee. Secondo i notai sarebbe opportuno estendere
l'obbligo di allegazione, introdotto dalla nuova norma,
anche al regolamento contrattuale: così si potrebbero
superare le frequenti difficoltà nel reperimento di
quest'ultimo regolamento, che deve essere allegato negli
atti di trasferimento
(articolo ItaliaOggi del 14.06.2013). |
CONDOMINIO: Condominio solare.
Il fotovoltaico, se c'è maggioranza.
La riforma (in vigore dal 18/6) apre al bonus del
65%.
Sarà più semplice installare impianti per la produzione di
energia rinnovabile sulle parti comuni dell'edificio: si
abbassa infatti il quorum delle assemblee di condominio. La
legge di riforma del condominio, al countdown per l'entrata
in vigore dal 18 giugno prossimo, prescrive infatti che con
la maggioranza dei presenti all'assemblea e la metà del
valore dell'edificio si possa decidere sulle innovazioni che
riguardano gli impianti fotovoltaici.
Ora, va ricordato che l'articolo 14 del decreto legge
63/2013, prevede che siano agevolati con detrazione fiscale
del 65% fino al 30/6/2014 gli interventi di riqualificazione
energetica su parti comuni dei condomini, o su tutte le
unità immobiliari del condominio. Dunque, l'agevolazione
c'è, ma ne restano esclusi impianti di riscaldamento,
impianti geotermici e scaldacqua a pompa di calore, già
agevolati dal conto termico.
Cosa cambia.
Dal 18 giugno con decisione a maggioranza sarà possibile
installare impianti per la produzione di energia da fonti
rinnovabili sul lastrico solare negli edifici condominiali o
nella parti private dei singoli condomini. Condomini che
potranno deliberare la realizzazione di interventi per la
riduzione dei consumi energetici dell'edificio e la
produzione di energia. Sia attraverso impianti di
cogenerazione sia attraverso fonti rinnovabili.
A prevederlo è l'art. 7 della legge 220/2012 (che, come
detto, entra in vigore il 18 giugno prossimo, decorsi sei
mesi di tempo per prepararsi alle novità).
La legge riforma l'intera disciplina del condominio. E
l'art. 7 introduce un nuovo articolo nel codice civile: dopo
l'articolo 1122 inserisce il 1122-bis. Questo dispositivo
consente l'installazione di impianti per la produzione di
energia da fonti rinnovabili destinati al servizio di
singole unità del condominio sul lastrico solare, su ogni
altra idonea superficie comune e sulle parti di proprietà
individuale dell'interessato. Qualora si rendano necessarie
modifiche di parti comuni, l'interessato ne dovrà dare
comunicazione all'amministratore indicando il contenuto
specifico e le modalità di esecuzione degli interventi.
L'assemblea potrà anche stabilire modalità alternative di
esecuzione o imporre cautele a salvaguardia di stabilità,
sicurezza o decoro architettonico dell'edificio stesso.
E, ai fini dell'installazione degli impianti di risparmio
energetico, la stessa assemblea provvederà, dietro richiesta
degli interessati, a ripartire l'uso del lastrico solare e
delle altre superfici comuni, salvaguardando diverse forme
di utilizzo previste dal regolamento di condominio
(articolo ItaliaOggi del 14.06.2013). |
CONDOMINIO: 18.06.2013:
inizia il conto alla rovescia per la riforma del condominio!
Per i lettori di BibLus-net lo Speciale con tutte le novità.
E’ ufficialmente partito il conto alla rovescia per
l’entrata in vigore della riforma del condominio.
La riforma (Legge 220/2012) attesa da oltre 70 anni entra in
vigore il prossimo 18 giugno.
Tante sono le novità introdotte, tra cui nuovi requisiti e
obblighi per l’amministratore, ridefinizione dei quorum per
le assemblee, obbligo del conto corrente, decreto ingiuntivo
per condomini morosi, apertura del sito internet
condominiale.
Dal 18 giugno, dunque, cambiano le regole!
Allo scopo di fornire ai lettori una guida con le novità
contenute nella legge 220/2012, la redazione di BibLus-net
ha realizzato uno
speciale interamente dedicato alla Riforma del Condominio.
Il documento allegato a questo articolo propone un’ampia e
agile sintesi della Riforma ed è divisa in quattro sezioni:
◾ L’amministratore
i requisiti, la nomina e la revoca, la polizza assicurativa,
il sito web, il conto corrente condominiale, la tenuta dei
registri, la riscossione forzosa dei crediti
◾ Le parti comuni
la modifica della destinazione d’uso, l’installazione di
antenne e pannelli solari, il distacco dall’impianto
centralizzato, le innovazioni agevolate, la
videosorveglianza
◾ Il regolamento e l’assemblea
i quorum, le sanzioni, gli animali domestici, la delega, la
convocazione
◾ Il bilancio, le tabelle e le spese
il rendiconto annuale e il registro di contabilità, la
revisione delle tabelle, il recupero dei crediti, la
solidarietà passiva
Sono presenti, inoltre, 4 utilissime Appendici che
contengono:
◾ Tavola sinottica degli adempimenti dell’amministratore
◾ Tabella delle nuove maggioranze assembleari
◾ Tavole sinottiche delle modifiche normative
◾ Tutta la disciplina del condominio dopo la riforma
(13.06.2013 - link a www.acca.it). |
CONDOMINIO: LA RIFORMA DEL CONDOMINIO/
Condominio, le maggioranze ora non sono più agevolate.
La legge 220/2012 ostacola l'utilizzo delle
corsie preferenziali per raggiungere il quorum.
Un vero e proprio giallo sulle maggioranze agevolate. Con la
legge n. 220/2012 di riforma della disciplina del condominio
negli edifici, che entrerà in vigore la prossima settimana,
diventerà per esempio più difficile installare un ascensore
in un edificio condominiale giovandosi di quello che fino a
oggi era il canale preferenziale dell'abbattimento delle
cosiddette barriere architettoniche.
La nuova legge, che
pure ha generalmente abbassato i quorum necessari per
l'approvazione delle deliberazioni assembleari, anche se nel
lodevole intento di far confluire nel codice civile gran
parte delle disposizioni speciali che prevedevano
maggioranze agevolate per le innovazioni di carattere
sociale, ha però comportato, per un probabile errore di
coordinamento testuale, un deciso innalzamento di alcune
delle predette maggioranze. Tanto da far fortemente dubitare
che in questi casi, salvo un auspicabile nuovo intervento
legislativo, possa continuarsi a parlare di maggioranze
agevolate.
L'efficacia delle deliberazioni assembleari e i criteri per
l'individuazione della maggioranza. Il criterio individuato
dalla legge per la formazione della volontà del condominio è
il c.d. principio maggioritario. In base a esso la volontà
della maggioranza vale per tutti i comproprietari,
vincolando anche la minoranza dissenziente.
Tuttavia sono numerosi i contrappesi inseriti dal
legislatore per equilibrare la posizione della minoranza dei
condomini. Innanzitutto a questi ultimi è garantita la
possibilità di invertire le sorti della votazione tramite la
forza persuasiva delle proprie argomentazioni esposte
durante la discussione assembleare. La minoranza, inoltre,
ha sempre la possibilità di impugnare le deliberazioni che
ritenga illegittime e dunque pregiudizievoli dei propri
interessi, come garantito dall'art. 1337 c.c. (si veda
l'altro articolo di questa settimana).
Ma una ulteriore e importante contromisura è certamente
rappresentata dal sistema di votazione assembleare. Da un
primo punto di vista, infatti, il legislatore ha inteso
contemperare le maggioranze numeriche frutto del voto
espresso da ciascun condomino (c.d. voto per testa) con
quelle derivanti dai millesimi di proprietà attribuiti a
ciascuno di essi. Il codice civile ha poi individuato in
modo preciso le maggioranze necessarie per l'adozione delle
varie deliberazioni di competenza dell'assemblea (c.d.
quorum), distinguendo quelle necessarie alla costituzione
della riunione condominiale (c.d. quorum costitutivo) da
quelle richieste per la validità della decisione (c.d.
quorum deliberativo). L'indicazione delle maggioranze che,
volta per volta, il legislatore ha ritenuto opportune per
l'adozione di una determinata deliberazione rappresenta il
frutto di una scelta discrezionale compiuta proprio
nell'interesse del condominio e dei singoli condomini. In
altre parole, esse costituiscono il contemperamento degli
opposti interessi della collettività condominiale.
Le maggioranze semplici. Il nuovo art. 1136, comma 1, c.c.,
prevede ora dei quorum più bassi e richiede, per l'assemblea
in prima convocazione, un quorum costitutivo di condomini
che rappresentino i due terzi del valore dell'edificio e la
maggioranza (non più dei due terzi) dei partecipanti al
condominio, e un quorum deliberativo della maggioranza degli
intervenuti e di almeno la metà del valore dell'edificio.
Tuttavia è raro che le assemblee si svolgano in prima
convocazione, in quanto le maggioranze prescritte dalla
legge per le riunioni in seconda convocazione sono molto più
basse e, di conseguenza, facilitano il raggiungimento del
numero di voti necessario all'adozione delle singole
deliberazioni. Il nuovo art. 1136, n. 3, c.c., ha quindi
introdotto per la prima volta un quorum costitutivo anche
per l'assemblea in seconda convocazione, pari a un terzo dei
partecipanti al condominio e a un terzo del valore
dell'edificio, mentre il quorum deliberativo è stato
diminuito alla maggioranza degli intervenuti che rappresenti
un terzo del valore dell'edificio.
Per quanto riguarda le materie per le quali è sufficiente il
raggiungimento della maggioranza semplice, in prima o in
seconda convocazione, che, facendo applicazione di un
criterio di residualità, sono tutte quelle che non rientrino
nelle competenze dell'assemblea e per le quali la legge non
preveda una maggioranza qualificata o agevolata, si
segnalano, a titolo esemplificativo, la manutenzione
ordinaria, l'approvazione del bilancio preventivo, la
ripartizione del bilancio preventivo tra i condomini,
l'approvazione del bilancio consuntivo, l'impiego degli
eventuali residui attivi della gestione ecc.
Le maggioranze qualificate. In una serie di casi, invece, il
legislatore ha preferito derogare alle maggioranze semplici
di cui sopra e ha previsto delle maggioranze qualificate,
che richiedono un numero di voti maggiore per l'adozione
delle deliberazioni assembleari. Si tratta di numerose
disposizioni codicistiche, molte delle quali introdotte
proprio dalla legge n. 220/2012, che prevedono dei quorum
deliberativi particolari nelle ipotesi di nomina e revoca
dell'amministratore, liti attive e passive relative a
materie che esorbitano dalle attribuzioni
dell'amministratore, ricostruzione dell'edificio,
riparazioni straordinarie di notevole entità, approvazione e
modifica del regolamento condominiale, scioglimento del
condominio, innovazioni dirette al miglioramento o all'uso
più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni,
modificazioni e tutela delle destinazioni d'uso,
videosorveglianza delle parti comuni, nomina del revisore
dei conti del condominio ecc.
Le maggioranze agevolate. La legislazione speciale
successiva all'entrata in vigore del codice civile aveva man
mano previsto tutta una serie di ipotesi nelle quali, allo
scopo di agevolare l'adozione di delibere assembleari per la
realizzazione di particolari interventi di interesse
sociale, erano state previste delle maggioranze agevolate
rispetto a quelle ordinariamente necessarie in caso di
innovazioni.
Si pensi alle opere finalizzate all'abbattimento delle c.d.
barriere architettoniche (legge n. 13/1989), alla
realizzazione dei parcheggi per gli autoveicoli (legge n.
122/89), al riscaldamento (legge n. 10/1991, dlgs n. 311/2006,
legge n. 99/2009), alle antenne e agli impianti satellitari
(legge n. 249/97, legge n. 66/2001), alle infrastrutture di
ricarica elettrica dei veicoli (legge n. 134/2012).
Il nuovo art. 1120 c.c. introdotto dalla legge di riforma
del condominio ha però comportato un deciso innalzamento di
alcune delle maggioranze previste in precedenza, tanto da
far fortemente dubitare che nei casi dell'abbattimento delle
barriere architettoniche e dell'installazione delle antenne
e degli impianti satellitari, salvo un auspicabile
intervento legislativo, possa continuarsi a parlare di
maggioranze agevolate. In tema di riscaldamento, invece, il
già difficile e articolato quadro normativo sembra essere
stato ulteriormente complicato, non essendo del tutto
chiaro, dalla lettura combinata degli articoli 5 e 28 della
legge n. 220/2012, quali siano le fattispecie realmente
prese di mira dal legislatore.
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Delibera invalida con citazione.
La riforma detta le regole per l'impugnazione. Atto da
indirizzare al giudice competente.
Delibere condominiali da impugnare con atto di citazione.
Che di per sé non comporta la sospensione dell'esecuzione
della volontà assembleare, salvo che quest'ultima sia
richiesta al giudice con apposita istanza, anche precedente
all'impugnazione. La nuova legge n. 220/2012 di riforma
della disciplina del condominio, che entrerà in vigore la
prossima settimana, ha riscritto le regole per
l'impugnazione delle deliberazioni assembleari, con
importanti chiarimenti sui principali snodi del relativo
procedimento.
Le delibere annullabili, in base all'art. 1137 c.c., possono
essere impugnate giudizialmente dai condomini dissenzienti e
da quelli astenuti, nonché da quelli che non abbiano
partecipato all'assemblea, nel termine di decadenza di 30
giorni, decorrente per i primi dalla data dell'assemblea e
per questi ultimi dalla data di comunicazione del relativo
verbale.
L'invalidità delle deliberazioni assembleari. Quello
dell'invalidità delle deliberazioni assembleari costituisce
da sempre un tema particolarmente delicato nell'ambito del
diritto condominiale. La tradizionale distinzione fra
ipotesi di nullità e annullabilità, in mancanza di precise
indicazioni da parte del legislatore, ha infatti portato
all'elaborazione di una casistica giurisprudenziale quanto
mai intricata e, a volte, contraddittoria.
Con il nuovo art. 1137 c.c. il legislatore, facendo propri i
più recenti sviluppi giurisprudenziali, ha eliminato alla
radice qualsiasi dubbio sull'applicabilità della procedura
di impugnazione ivi disciplinata anche ai casi di nullità
delle delibere condominiali. Nella nuova disposizione si
parla infatti espressamente di annullamento delle
deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di
condominio da promuovere dinanzi alla competente autorità
giudiziaria nel termine perentorio di trenta giorni. Mentre
in precedenza si poteva equivocare se l'azione diretta a
fare accertare in giudizio l'invalidità delle delibere
comprendesse o meno anche i casi di nullità delle stesse, la
nuova versione dell'art. 1137 c.c. chiarisce in modo
definitivo che la stessa è finalizzata esclusivamente
all'accertamento dell'annullabilità della volontà
assembleare. Resta quindi inteso che eventuali ragioni di
nullità potranno essere contestate, in base alle regole
generali, da chiunque vi abbia interesse con un ordinario
procedimento giurisdizionale di accertamento da avviare
negli ordinari termini di prescrizione del diritto.
La legittimazione all'azione. Per poter impugnare una
deliberazione assembleare è necessario che chi agisce in
giudizio sia fornito della relativa legittimazione. Anche in
questo caso la norma di riferimento è il nuovo art. 1337
c.c., che ha specificato come la stessa spetti tanto ai
condomini presenti in assemblea e che abbiano votato in
senso contrario all'approvazione della delibera quanto a
quelli assenti quanto, infine, a quelli che, pur avendo
partecipato alla riunione condominiale, si siano astenuti
dal voto. Il termine di decadenza di 30 giorni per
l'impugnazione decorre dalla data dell'assemblea per i
dissenzienti e gli astenuti e dalla data di comunicazione
della deliberazione per gli assenti. A parte le ipotesi di
nullità, la legittimazione attiva all'impugnazione delle
deliberazioni condominiali spetta di regola solo ai
condomini, ovvero ai proprietari delle unità immobiliari
site in condominio.
Le modalità dell'impugnazione delle deliberazioni
assembleari. Il secondo comma del vecchio art. 1137 c.c.,
nell'attribuire ai condomini il potere di impugnare le
deliberazioni invalide, qualificava come «ricorso» l'atto
introduttivo del relativo giudizio. Ciò sembrava comportare
un'evidente deroga al sistema ordinario, che prevede che il
giudizio civile sia introdotto mediante citazione a udienza
fissa. Anche in questo caso è bastato poco al legislatore
per risolvere un'annosa questione che, sebbene di recente
dipanata dalla giurisprudenza di legittimità, poteva
comunque risultare insidiosa dal punto di vista pratico e
originare nuovo contenzioso.
Nel nuovo art. 1137 c.c. sparisce quindi la parola
«ricorso», risolvendo brillantemente la questione se detto
termine dovesse essere inteso in senso tecnico o atecnico e
se l'impugnazione delle deliberazioni dovesse quindi
avvenire con ricorso o con atto di citazione. La nuova
disposizione si limita infatti a enunciare che chi intende
impugnare una deliberazione assembleare che si assuma
contraria alla legge o regolamento di condominio deve
chiederne l'annullamento all'autorità giudiziaria entro il
termine di 30 giorni. Se ne deve concludere che, come è
naturale, la questione di quale sia il mezzo tecnicamente
appropriato per svolgere la suddetta impugnazione in sede
giudiziaria sia di tipo squisitamente processuale, come tale
da risolvere alla luce dei criteri indicati dal vigente
codice di procedura civile. Ora, rientrando il procedimento
in questione tra quelli ordinari, non si può che concludere
che l'impugnazione giudiziale delle deliberazioni
assembleari debba essere introdotta con atto di citazione.
La sospensione dell'efficacia della deliberazione
condominiale. Con gli ultimi due commi del novellato art.
1337 c.c. il legislatore ha quindi voluto ulteriormente
chiarire la questione della sospensione dell'efficacia della
delibera condominiale impugnata. Se, infatti, il vecchio
testo della citata disposizione si limitava a prevedere che
il ricorso per non sospendeva di per sé l'esecuzione della
deliberazione, ma che era comunque necessario uno specifico
provvedimento dell'autorità giudiziaria, l'ultimo comma del
nuovo art. 1337 c.c. si occupa specificamente di
disciplinare, seppure in via soltanto analogica, il
procedimento da seguire per richiedere al giudice di
pronunciarsi sulla sussistenza o meno delle condizioni per
ottenere la sospensione dell'efficacia dell'atto impugnato.
L'istanza di sospensione in questione, secondo i criteri
ordinari, può essere proposta tanto in costanza di causa
quanto anteriormente alla stessa. Limitatamente a
quest'ultimo caso il legislatore ha però inteso specificare
che l'istanza di sospensione dell'efficacia di una delibera
condominiale proposta autonomamente e anteriormente
all'avvio della causa di merito non sospende il termine di
decadenza di 30 giorni di cui al medesimo art. 1337 c.c.
ovvero, detto in altri termini, non equivale all'atto di
impugnazione della volontà assembleare.
A quale giudice rivolgersi. L'atto di citazione per
l'impugnazione della deliberazione condominiale sarà volta
per volta indirizzato al giudice competente per territorio e
per valore. Quanto al primo aspetto occorre evidenziare come
l'art. 23 c.p.c., adeguatamente riformulato dal legislatore
con la recente legge n. 220/2012, stabilisca espressamente
che per le cause tra condomini e tra condomini e condominio
sia competente il giudice del luogo in cui si trovano i beni
comuni o la maggior parte di essi (articolo
ItaliaOggi Sette del 10.06.2013). |
CONDOMINIO: La riforma del condominio.
Distacco dall'impianto centralizzato sulla carta.
Il distacco dall'impianto centralizzato di riscaldamento
condominiale rischia di rimanere sulla carta. Sebbene il
nuovo art. 1118 c.c., introdotto dalla legge n. 220/2012 che
entrerà in vigore la prossima settimana, abbia previsto il
diritto del singolo comproprietario di rinunciare
all'utilizzo dell'impianto comune, il suo esercizio rimane
subordinato a una serie di presupposti tecnici di difficile
realizzazione, senza per questo esentare il condomino dal
pagamento delle spese di manutenzione straordinaria e per la
conservazione e messa a norma del medesimo.
La nuova formulazione dell'art. 1118 c.c. conferma che nel
condominio la disciplina delle parti comuni si fonda sul
principio dell'indivisibilità e del pari utilizzo delle
stesse. Scopo della norma è evidentemente quello di impedire
che il singolo condomino si sottragga al contributo
obbligatorio per le spese relative ai beni e ai servizi
comuni, rinunciando al relativo diritto di utilizzo. Anche
l'impianto di riscaldamento centralizzato è un bene comune
e, come tale, il suo funzionamento dovrebbe essere regolato
dai medesimi principi di cui sopra, ivi incluso il divieto
di rinunciare al relativo diritto (e di sopportarne gli
oneri economici).
Tuttavia, con riferimento a questo
specifico impianto (e a quello, simmetrico, di
condizionamento), la giurisprudenza di legittimità aveva di
fatto elaborato il principio per cui il comproprietario ben
poteva operarne il distacco, restando però obbligato a
sostenere le spese relative alla sua conservazione (restando
pur sempre l'impianto un bene comune). La nuova legge n.
220/2012, volendo in qualche modo asseverare tale
orientamento giurisprudenziale, ha quindi previsto
espressamente il diritto di distacco del singolo condomino,
subordinandolo però alla prova rigorosa del fatto che da
tale operazione non derivino notevoli squilibri di
funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condomini.
Tuttavia non sembra che tale operazione sia fattibile dal
punto di vista tecnico e che risulti particolarmente
appetibile dal punto di vista economico, ferma restando la
necessità di operare valutazioni caso per caso. Appare
infatti generalmente difficile che il distacco di un
condomino possa davvero avvenire senza squilibrio alcuno per
l'impianto comune. E che dire, poi, degli eventuali
distacchi successivi al primo? Ammesso pure che il distacco
originario sia stato valutato tecnicamente fattibile, è di
tutta evidenza che quelli che dovessero seguire avrebbero
sempre meno possibilità di essere attuabili.
E ciò
comporterebbe un'indubbia disparità di trattamento tra il
primo condomino che dovesse optare per tale operazione e
tutti quelli che dovessero eventualmente decidere in
seguito. Dal punto di vista economico è poi tutto da
verificare se il distacco possa essere davvero conveniente
per il singolo comproprietario. Quest'ultimo, infatti, a
parte i costi che dovrebbe sopportare per installare il
nuovo impianto esclusivo, rimarrebbe comunque tenuto a
concorrere nelle spese per la manutenzione straordinaria
dell'impianto condominiale e per la sua conservazione e
messa a norma.
Occorre poi evidenziare come in alcune regioni la nuova
disposizione di cui all'art. 1118 c.c. potrebbe non essere
recepita o addirittura vietata. Poiché, infatti, quello del
distacco dall'impianto centralizzato è un argomento connesso
alla materia dell'efficienza energetica degli impianti
termici, che come tale ricade in un ambito di legislazione
concorrente tra stato e regioni, queste ultime potrebbero
anche dettare discipline più rigorose rispetto ai criteri
nazionali.
Dal punto di vista pratico è utile poi sottolineare come, a
stretto rigore, il condomino che voglia distaccarsi
dall'impianto comune non sia tenuto ad avvertire
preventivamente né l'amministratore né l'assemblea, anche se
tale modus procedendi non appare consigliabile. Il
condominio, infatti, ove non ritenesse legittimo l'operato
del singolo condomino potrebbe chiedergli di provare con una
perizia tecnica l'assenza delle predette controindicazioni
tecniche e, in ogni caso, potrebbe rivolgersi all'autorità
giudiziaria per la tutela dei propri interessi
(articolo ItaliaOggi del 06.06.2013). |
maggio 2013 |
|
CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA:
I. Meo e A. Pesce,
Fine della “selva” di antenne (Consulente
Immobiliare n. 930/2013). |
CONDOMINIO: In
condominio videosorveglianza «segnalata».
Le riprese video degli spazi comuni raggiungono finalmente
certezza normativa all'interno di una grande confusione
giurisprudenziale. Con un articolo dedicato, ossia il nuovo
articolo 1122 ter del Codice civile il legislatore della
riforma ha introdotto, nel sistema della disciplina
condominiale, la videosorveglianza.
Per le aree comuni
condominiali vi era una lacuna e la giurisprudenza che si è
occupata della questione oscillava tra il fatto che
occorresse l'unanimità dei consensi oppure una maggioranza
qualificata per deliberare l'installazione di questi
impianti.
Ora, la legge di riforma del condominio affronta
direttamente la questione. Anche in tema di
videosorveglianza la normativa tende alla semplicità, ovvero
prevede che l'assemblea, con la maggioranza degli
intervenuti che rappresentino almeno la metà dei millesimi
(articolo 1136, comma 2 del Codice civile), può deliberare
l'installazione sulle parti comuni dell'edificio di impianti
di videosorveglianza.
È di tutta evidenza che la nuova norma, limitandosi a
prevedere l'ammissibilità di una delibera di installazione
dell'impianto di videosorveglianza adottata a maggioranza,
si colloca all'interno dell'ambito di vigenza delle
prescrizioni del Codice della privacy (decreto legislativo
196/2003).
Le regole previste non risultano in alcun modo derogate e/o
superate, ma anzi integrate dai successivi provvedimenti del
Garante del 29.04.2004 e 08.04.2010 (quest'ultimo di
mera integrazione al primo), finalizzati a regolamentare la
specifica fattispecie della videosorveglianza in condominio.
In particolare, come ci chiede un lettore, andranno
osservate queste precauzioni: le persone che transiteranno
nelle aree sorvegliate dovranno essere informate con
appositi cartelli delle presenza delle telecamere; i
cartelli, qualora il sistema di videosorveglianza fosse
attivo anche in orario notturno, dovranno essere visibili
anche di notte; nel caso in cui gli impianti di
videosorveglianza fossero collegati alle forze dell'ordine,
sarà necessario apporre uno specifico cartello che lo
evidenzi; le immagini registrate potranno essere conservate
per un periodo limitato, ovvero sino a un massimo di 24 ore,
fatte salve specifiche esigenze di ulteriore conservazione
in relazione a indagini della polizia o comunque di natura
giudiziaria.
Il mancato rispetto di queste prescrizioni, a seconda dei
casi, comporterà: l'inutilizzabilità dei dati personali
trattati (articolo 11, comma 2, del codice); l'adozione di
provvedimenti di blocco o divieto del trattamento disposti
dal Garante (articolo 143, comma 1, lettera c del codice)
ed, infine, l'applicazione delle sanzioni amministrative o
penali ed esse collegate (articoli 161 e seguenti del
codice), oltre ovviamente a eventuali richieste di
risarcimento da parte di eventuali soggetti danneggiati
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.05.2013). |
aprile 2013 |
|
CONDOMINIO:
M. Sala,
Sul diritto di coabitazione con l’animale domestico
(Immobili & proprietà n. 4/2013 - tratto da
www.ispoa.it). |
CONDOMINIO: La Cassazione: in linea generale la manutenzione
straordinaria spetta all'ex proprietario.
Spese extra, le paga chi vende.
Possibile anche una diversa pattuizione con l'acquirente.
In caso di vendita di un appartamento situato in condominio
le spese per i lavori di manutenzione straordinaria sulle
parti comuni deliberate prima del trasferimento della
proprietà restano a carico del condomino venditore, anche se
l'esecuzione delle opere sia iniziata successivamente
all'acquisto.
Tuttavia non è escluso che il venditore e il compratore, con
apposito patto contenuto nel preliminare di vendita e poi
ribadito nel rogito, stabiliscano che queste spese siano
sostenute dall'acquirente e nuovo condomino che, di fatto,
si gioverà dei miglioramenti deliberati dall'assemblea.
Sono
i principi espressi dalla Corte di Cassazione, Sez. II
civile, nella recente
sentenza
10.04.2013 n. 8782.
La vicenda. Un condomino aveva deciso di vendere il proprio
appartamento. L'acquirente, venuto a sapere che erano già
stati deliberati lavori straordinari di manutenzione del
caseggiato (probabilmente dietro riduzione del prezzo, come
spesso accade), si impegna nel preliminare ad accollarsi le
spese già deliberate.
Questo il testo della clausola del
contratto preliminare poi riprodotta anche nel rogito: «Le
parti convengono che tutte le spese condominiali, alla data
di oggi eventualmente ancora dovute, gravino interamente
sulla sola parte venditrice, a eccezione di quelle attinenti
al rifacimento della terrazza condominiale, che restano a
carico della parte acquirente». Dopo il preliminare, e fino
alla data del rogito, il venditore provvede quindi ad
anticipare le spese straordinarie di rifacimento
dell'edificio nella convinzione che l'acquirente (che si era
impegnato ad accollarsi le spese) provvedesse poi al
rimborso delle stesse.
Ma l'impegno preso non viene rispettato e, conseguentemente,
l'acquirente è citato davanti al giudice di pace, che lo
condanna al pagamento dell'importo anticipato dal venditore
e relativo ai lavori di manutenzione straordinaria. Il
tribunale adito in secondo grado, però, ribalta la decisione
e condanna il venditore al pagamento delle spese processuali
di entrambi i gradi di giudizio. Il tribunale osserva che,
con la clausola contrattuale, le parti avevano espressamente
convenuto che tutte le spese condominiali, a quella data
ancora eventualmente dovute, dovessero gravare per intero
sulla sola parte venditrice, a eccezione di quelle attinenti
al rifacimento della terrazza condominiale, che restavano a
carico della parte acquirente.
Secondo il tribunale, però,
la clausola in questione comportava l'obbligo, da parte
dell'acquirente, di provvedere, per la quota gravante
sull'immobile acquistato, al pagamento delle sole spese di
rifacimento della terrazza condominiale eventualmente ancora
dovute alla data di stipula del rogito notarile e non anche
al rimborso di quanto corrisposto, a tale titolo, dal
venditore al condominio in epoca antecedente.
La decisione della Suprema corte. Tale decisione non è stata
condivisa dalla Cassazione che, in via preliminare, ha
precisato come in caso di vendita di una unità immobiliare
in condominio, nel quale siano stati deliberati lavori di
straordinaria manutenzione, ristrutturazione o innovazioni
sulle parti comuni, qualora venditore e compratore non si
siano diversamente accordati in ordine alla ripartizione
delle relative spese, è tenuto a sopportarne i costi chi era
proprietario dell'immobile al momento della delibera dei
detti interventi, avendo tale decisione assembleare valore
costitutivo della relativa obbligazione.
Tuttavia, secondo i
giudici supremi, è da ritenersi valida, nei rapporti tra
venditore e compratore, una clausola da inserire nel
contratto di compravendita che faccia ricadere l'onere per
le spese condominiali relative a lavori di straordinaria
manutenzione (deliberate e ancora da eseguire) sul
compratore.
E, secondo la Cassazione, con la clausola sopra riportata,
contrariamente a quanto ritenuto nel caso di specie dal
tribunale adito dalle parti nel secondo grado di giudizio,
le parti avevano proprio voluto ribadire la regola generale
costituita dall'onere del venditore di accollarsi tutte le
spese condominiali ordinarie eventualmente ancora dovute al
momento del rogito ma, contestualmente, avevano previsto in
modo evidente che le spese, già deliberate, per il
rifacimento del terrazzo sarebbero dovute rimanere
totalmente a carico della parte acquirente.
Quindi, in base
alla clausola esaminata, avendo il venditore corrisposto al
condominio le spese per il ripristino del terrazzo comune
secondo le scadenze stabilite dal piano di riparto
approntato dall'amministratore nelle more della stipula del
contratto di vendita, quest'ultimo aveva acquisito, al
momento del rogito, il diritto di chiedere, nei confronti
dell'acquirente, il rimborso della somme anticipate per le
spese dei lavori straordinari (articolo ItaliaOggi
Sette del 29.04.2013). |
CONDOMINIO:
Passaggi di proprietà, chi vende avvisa l'amministratore.
Capita spesso che nel caso di vendita di un appartamento
situato in condominio le parti si dimentichino di avvisare
l'amministratore condominiale dell'intervenuto passaggio di
proprietà. Eppure con detto trasferimento muta
automaticamente la composizione della compagine
condominiale, in quanto al vecchio condomino (proprietario)
si sostituisce un nuovo proprietario (e dunque anche
condomino).
Ciò comporta che, a partire dalla data del rogito
sottoscritto dinanzi al notaio, l'amministratore sarebbe
tenuto a inviare l'avviso di convocazione assembleare al
nuovo condomino (e non più al vecchio proprietario) e sempre
a quest'ultimo dovrebbe richiedere il pagamento delle spese
condominiali maturate a partire da quella data (e non più
anche al vecchio condomino).
Invero è sempre stato incerto quale delle parti della
compravendita, al di là dei doveri di cortesia, avesse
l'obbligo giuridico di avvisare l'amministratore
condominiale dell'intervenuto trasferimento della proprietà
(così come di altro diritto reale sul medesimo immobile). Da
questo punto di vista importanti novità sono state apportate
dal nuovo art. 63 disp. att. c.c. introdotto dalla legge n.
220/2012 di riforma della disciplina del condominio negli
edifici e che entrerà vigore dalla metà del prossimo mese di
giugno.
La nuova disposizione di legge prevede, infatti, che il
condomino che venda un'unità immobiliare sita in condominio
resti obbligato solidalmente con l'acquirente per i
contributi maturati successivamente al trasferimento della
proprietà e fino al momento in cui sia stata trasmessa
all'amministratore condominiale copia autentica del relativo
titolo. D'ora in avanti, quindi, chi vende, o comunque
trasferisce la proprietà o altro diritto reale, non potrà
disinteressarsi del tutto delle vicende condominiali
successive alla cessione del diritto, essendo tenuto in via
prudenziale a comunicare formalmente all'amministratore la
vicenda del suo trasferimento e, quindi, il mutamento della
compagine condominiale (anche perché l'amministratore possa
più agevolmente provvedere al nuovo incombente
dell'aggiornamento del registro dell'anagrafe dei
condomini).
In caso contrario il condomino che cede il diritto rischierà
di essere chiamato al pagamento degli oneri maturati
successivamente al trasferimento del medesimo ed
eventualmente non versati dall'avente causa, ovvero dal
nuovo condomino.
Il nuovo art. 63 disp. att. c.c., infatti, ha introdotto una
specifica ipotesi di solidarietà tra venditore e acquirente
relativamente all'obbligazione di pagamento dei contributi
condominiali, che può essere in qualche modo interrotta
soltanto con l'invio all'amministratore della copia
autentica del titolo che determina il trasferimento del
diritto sull'unità immobiliare.
Fino a quel momento, quindi, l'amministratore potrà chiedere
il versamento delle spese comuni a entrambe le parti e,
considerando che il più delle volte quest'ultimo non sarà al
corrente della compravendita, sarà altamente probabile che
ne chieda il pagamento a quello che ritiene essere il
condomino, ovvero al venditore. Si tratta quindi sicuramente
di un ottimo espediente per fare in modo che il vecchio
condomino informi l'amministratore condominiale del
passaggio di proprietà relativo all'unità immobiliare (articolo
ItaliaOggi Sette del 29.04.2013). |
CONDOMINIO: RIFORMA
CONDOMINIO/
Sicurezza, condòmini liberi.
Nessun obbligo di produrre documenti all'amministratore.
Basta la segnalazione solo in caso di effettivo
pericolo.
Il riscontro sullo stato di sicurezza dell'immobile non
comporta alcun obbligo per il condomino di produrre
documenti. Il condomino deve soltanto segnalare quando è il
caso il verificarsi di problemi che possano mettere a
repentaglio la sicurezza dell'immobile. Nulla dunque
l'amministratore può richiedere al condomino a livello di
documentazione sulla sicurezza.
L'art. 1130 c.c., così come scaturente dalla legge di
riforma del condominio, prevede al n. 6, primo periodo, che
l'amministratore debba “curare la tenuta del registro di
anagrafe condominiale contenente le generalità dei singoli
proprietari e dei titolari di diritti reali e di diritti
personali di godimento, comprensive del codice fiscale e
della residenza o domicilio, i dati catastali di ciascuna
unità immobiliare, nonché ogni dato relativo alle condizioni
di sicurezza”.
La previsione, all'evidenza, non pone particolari problemi
interpretativi, se non con riferimento ad uno specifico
punto: quale sia l'esatto significato da attribuire
all'espressione “ogni dato relativo alle condizioni di
sicurezza”.
Nel silenzio del legislatore, l'indagine non può che
prendere l'avvio da un esame letterale dell'espressione
d'interesse e, in particolare, dal termine “dato”.
Tale parola, utilizzata come sostantivo maschile, ha il
significato –secondo il dizionario Devoto Oli della lingua
italiana– di “informazione”, vocabolo quest'ultimo –sempre
secondo il citato dizionario– che a sua volta sta ad
indicare “notizia o nozione raccolta e comunicata ai fini di
un'utilizzazione pratica e immediata”.
Che il termine “dato” vada letto come sinonimo di
“informazione” trova conferma, del resto, anche nella
formulazione della disposizione in questione la quale,
sempre al n. 6, dopo aver trattato del registro di cui
sopra, così prosegue: “Ogni variazione dei dati deve essere
comunicata all'amministratore in forma scritta entro
sessanta giorni. L'amministratore, in caso di inerzia,
mancanza o incompletezza delle comunicazioni, richiede con
lettera raccomandata le informazioni necessarie alla tenuta
del registro di anagrafe. Decorsi trenta giorni, in caso di
omessa o incompleta risposta, l'amministratore acquisisce le
informazioni necessarie, addebitandone il costo ai
responsabili”.
È, dunque, lo stesso legislatore a parlare di “informazioni”
con riguardo a ciò che i condòmini sono tenuti a comunicare;
“informazioni” che, tuttavia, possono ritenersi fornite, in
relazione segnatamente alle “condizioni di sicurezza”, dando
conto –deve ritenersi– di eventuali elementi negativi
relativi a queste ultime, elementi riscontrabili nelle unità
immobiliari (ad es.: segnali di pericolo, come crepe nei
muri ecc.), richiedendo all'evidenza la legge la
comunicazione di dati afferenti –in buona sostanza, e per
meglio esprimersi– alla insicurezza. La presentazione da
parte dei condòmini di documentazione concernente la
sicurezza dei loro immobili, non troverebbe alcuna valida
giustificazione nel testo di legge (che, infatti, non parla
di allegazione –del resto di pratica, difficile attuazione– al registro di anagrafe). Non solo, ma la documentazione
potrebbe anche essere superata e non svolgere quindi alcuna
funzione così come potrebbe addirittura essere un modo per
dribblare quanto la legge prescrive (chiamando questa i condòmini a dichiarare i dati attuali di sicurezza e a
comunicare ogni variazione degli stessi).
Al di là delle considerazioni che precedono, vi è poi da
rilevare che quando il legislatore della riforma ha inteso
far riferimento ad eventuale “documentazione” o “documenti”,
lo ha fatto esplicitamente, senza giri di parole. Si pensi,
solo per fare qualche esempio, all'art. 1129, ottavo comma,
c.c. nel quale si prevede espressamente che
l'amministratore, alla cessazione dell'incarico, è tenuto
alla consegna di tutta la “documentazione” in suo possesso.
Ovvero al successivo punto 8) dello stesso art. 1130 c.c. in
cui si impone a chi amministra di conservare tutta la
“documentazione” inerente alla propria gestione. O, ancora,
all'art. 71-ter disp. att. c.c. che obbliga l'amministratore
ad attivare –su richiesta dell'assemblea– un sito internet
del condominio che consenta agli aventi diritto di
consultare ed estrarre copia in formato digitale dei
“documenti” previsti dalla delibera assembleare.
Insomma, se la voluntas legis fosse stata quella di
pretendere dai condòmini documenti sulla sicurezza, sarebbe
stato certo più chiaro e semplice ricorrere a espressioni
quali “ogni documento relativo alle condizioni di sicurezza”
oppure “tutta la documentazione relativa alle condizioni di
sicurezza”. Così però non è stato. Il che porta all'ovvia
conclusione che la legge non prevede alcun obbligo di
produzione documentale, e affermare il contrario, quindi,
significherebbe introdurre un inutile aggravio a carico dei condòmini e degli stessi amministratori. Ciò senza
considerare, peraltro, che la presentazione di eventuale
documentazione sulla sicurezza firmata da professionisti
eluderebbe lo scopo della norma, che è quello,
indubbiamente, di un'assunzione di responsabilità diretta da
parte dei proprietari degli immobili; assunzione di
responsabilità che può essere garantita solo da una
dichiarazione sottoscritta dagli stessi interessati circa
l'esistenza o meno di segnali di pericolo al momento della
comunicazione all'amministratore.
Ad ulteriore conferma della bontà delle conclusioni cui sta
conducendo la presente riflessione, c'è infine da
considerare che la previsione che qua ci occupa precisa –come abbiamo visto– che ogni variazione dei dati deve
essere “comunicata” all'amministratore, il quale, in caso di
inerzia, mancanza o incompletezza delle “comunicazioni”,
deve attivarsi con lettera raccomandata. È chiaro che, se
nei dati da comunicare si fosse voluto ricomprendere anche
un'eventuale documentazione (nello specifico, sulla
sicurezza) da presentare, sarebbe stato appropriato
stabilire che ogni variazione concernente tali dati fosse
“trasmessa” (e non “comunicata”) all'amministratore. Il
termine “comunicazioni”, poi, utilizzato, all'evidenza, come
sinonimo di “informazioni” (in conformità, del resto, al suo
significato: si veda, ancora, il dizionario Devoto Oli della
lingua italiana) non fa che avvalorare la correttezza della
lettura offerta, inizialmente, del termine “dato”.
Dunque, è da ritenersi che l'espressione d'interesse non
rechi con sé alcun obbligo di produzione documentale a
carico dei condòmini e, di conseguenza, che la comunicazione
concernente le condizioni di sicurezza sia da riferirsi ad
eventuali pericoli riscontrabili in relazione a tali
condizioni al momento di detta comunicazione. Ogni altra
diversa interpretazione, infatti, non potrebbe dirsi
rispettosa –per ciò che abbiamo potuto osservare– del
dettato normativo
(articolo ItaliaOggi del 27.04.2013). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Condominio.
Rilevanti le norme antisismiche.
Va demolito l'abuso sanato ma pericoloso.
Il condomino che realizza una costruzione sulla terrazza del
suo attico, senza osservare le norme antisismiche, è
obbligato a demolirla anche se ha ottenuto la sanatoria.
A meno che non abbia reso l'intero palazzo resistente al
terremoto.
La Corte di Cassazione, con la sentenza 10082, respinge il
ricorso della proprietaria che contestava la decisione con
la quale i giudici di merito le imponevano l'abbattimento
della sopraelevazione, nella convinzione che l'aver ottenuto
la concessione in sanatoria la mettesse automaticamente in
una condizione inattacabile.
La Suprema corte considera invece irrilevante l'atto con il
quale l'autorità amministrativa aveva dato il suo consenso
alla regolarizzazione dell'abuso, perché si trattava di un
"nulla osta" che non conteneva alcun giudizio tecnico sulla
conformità alle regole di costruzione.
I giudici della seconda sezione si basano invece su quanto
previsto dal secondo comma dell'articolo 1127 del codice
civile, che vieta la sopraelevazione quando le condizioni
statiche dello stabile possono risentirne. Una prescrizione
che la Cassazione integra con le norme antisismiche,
chiarendo che quando si decide di costruire non basta
considerare solo l'effetto del peso sull'intero edificio ma
anche, nel caso di zone sismiche, "l'urto di forze in
movimento".
Per questo chi vuole elevare una nuova "fabbrica" deve, a
sue spese e con il consenso di tutti i condomini, eliminare
qualunque possibilità di pericolo mettendo mano alle
strutture portanti del palazzo per renderle resistenti alle
scosse.
Né può essere condivisibile il punto di vista della signora
dei piani alti, che si diceva disponibile agli interventi
richiesti solo nel caso, dopo aver realizzato la costruzione
e fatte le opportune verifiche, si fosse accertata la
necessità «concreta e non teorica di dover affrontare
l'intervento di adeguamento previsto dalla normativa
antisismica».
Una visione che certamente non punta alla prevenzione e, per
questo, non riscuote alcun consenso.
L'inosservanza della legge fa automaticamente presumere la
pericolosità del manufatto e può essere smentita solo se il
suo autore è in grado di provare che, non solo la
sopraelevazione, ma anche la struttura sottostante sono a
prova di "scossa".
La strada da percorrere è dunque quella di realizzare prima
le opere che scongiurano i rischi.
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I principi
01 | IL CODICE CIVILE
La Corte chiarisce che quanto previsto dall'articolo 1127 va
esteso anche al mancato rispetto delle leggi antisismiche:
la verifica del pregiudizio per la stabilità dell'edificio,
in una zona a rischio terremoto, non può, infatti,
prescindere dall'osservanza di quelle norme
02 | LA SANATORIA
La concessione in sanatoria non ha nessuna rilevanza sulla
valutazione di illegittimità della sopraelevazione, perché
l'atto, ottenuto dall'autorità amministrativa, non contiene
giudizi tecnici
(articolo Il Sole 24 Ore del 27.04.2013). |
CONDOMINIO: RIFORMA
CONDOMINIO/
Assemblea sempre verbalizzata. Amministratore obbligato
anche in prima convocazione. In
difetto, saranno impugnabili le successive delibere.
L'amministratore del condominio potrà continuare a fissare
la riunione di condominio, in prima convocazione, il mattino
presto o la sera tardi. Dovrà però verbalizzare
necessariamente quanto accade nell'occasione. La mancata
verbalizzazione, infatti, potrebbe rendere ex se impugnabili
le eventuali delibere successivamente assunte.
Per
l'amministratore non ci sono particolari complicazioni
allorché l'assemblea sia convocata, ad esempio, presso la
sua l'abitazione. Potrebbe al contrario essere fonte di
problemi nel caso in cui la convocazione venga fissata in un
posto dove egli, all'ora indicata, potrà difficilmente
essere presente (si pensi ad una riunione da tenersi in un
ambiente esterno all'abitazione o allo studio
dell'amministratore, o al condominio, alle 3 di notte).
Questo quanto emerge dalla riforma del condominio e
dall'analisi della giurisprudenza.
Di prassi la prima convocazione dell'assemblea condominiale
viene fissata in orari particolari (es.: in notturna o alle
prime luci dell'alba), di modo che vada deserta e così,
nell'adunanza di seconda convocazione, si possano assumere
decisioni con maggioranze più basse. Ciò posto, viene da
chiedersi: è legittimo tutto questo? E come si pone detta
prassi con le novità introdotte dalla riforma riguardo la
redazione del processo verbale e le annotazioni da
effettuarsi nel registro dei verbali delle assemblee?
Iniziamo subito col dire che, al primo quesito, la
giurisprudenza ha dato risposta positiva.
La Cassazione ha osservato, infatti, che «in mancanza di una
norma che disponga il contrario, non esistono limiti di
orario alla convocazione di un'assemblea condominiale; né la
fissazione dell'assemblea in ora notturna può ritenersi
completamente preclusiva della possibilità di parteciparvi»
(sent. n. 697/00).
Detto questo, resta da vedere come la prassi di riunire
l'assemblea in prima convocazione in orari particolari si
concili con le novità introdotte dalla riforma; novità che –come accennato– sono due.
La prima è costituita dalla
modifica recata all'art. 1136, ultimo comma, c.c., in
conseguenza della quale la redazione del «processo verbale»
deve dar conto, adesso, delle «riunioni» e non più delle
«deliberazioni» dell'assemblea. La seconda riguarda
l'obbligo, posto a carico dell'amministratore, di curare –ex art. 1130, n. 7, c.c.– la tenuta del registro dei
verbali delle assemblee in cui annotare «le eventuali
mancate costituzioni» dell'organo assembleare.
Tale nuova cornice giuridica rende, all'evidenza, non più
attuale l'orientamento assertore dell'inesistenza di un
obbligo di redigere uno specifico verbale attestante
l'esperimento a vuoto della riunione in prima convocazione.
Orientamento secondo cui, ai fini della validità
dell'assemblea riunita in seconda convocazione, era
sufficiente che nel verbale di quest'ultima venisse dato
conto della prima infruttuosa convocazione (per completa
diserzione oppure per insufficiente partecipazione) e che
basava il suo assunto, in particolare, sulla mancanza di una
precisa prescrizione in materia, tale non essendo –secondo
i sostenitori di questa tesi– l'ultimo comma del citato
art. 1136, il quale, nella sua originaria formulazione,
stabiliva –come visto– che il processo verbale dovesse
avere ad oggetto, non lo svolgimento dell'assemblea, ma solo
eventuali «deliberazioni» assunte dalla stessa (Cass. sent.
n. 3862/96).
Le modifiche di cui si è detto valorizzano, invece, il
diverso orientamento che già prima che intervenisse la
riforma considerava sempre necessaria la redazione del
verbale d'assemblea costituendo detta redazione una delle
prescrizioni di forma da osservare «al pari delle altre
formalità richieste dal procedimento collegiale (avviso di
convocazione, ordine del giorno, costituzione, discussione,
votazione ecc.)»; pena: «L'impugnabilità della
delibera, in quanto non presa in conformità alla legge»
(Cass. sent. n. 5014/1999)
(articolo ItaliaOggi del 25.04.2013). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Sul
decoro architettonico giudizio discrezionale.
RISCHIO GIURIDICO/
Quasi impossibile mettersi al riparo dalla possibilità di un
contenzioso: occorrerebbero l'unanimità o l'usucapione
ventennale.
Il «decoro architettonico» è un'arma a doppio taglio. Da una
parte il concetto viene usato per impedire che a un
condomino salti in mente di rovinare la facciata del
palazzo; dall'altra rappresenta il veicolo ideale per
mettere in atto veti incrociati che blocchino qualsiasi
intervento migliorativo del proprio appartamento che abbia
un effetto anche esterno, dalle fioriere alle persiane,
dalle tende da sole al nuovo parapetto del terrazzo.
La sentenza 24.04.2013 n. 10084 commentata ieri sul Sole 24 Ore conferma un'importante
distinzione: a parlare di «aspetto architettonico» è
l'articolo 1127 del Codice civile, dedicato alle
sopraelevazioni; mentre di «decoro architettonico» si parla
all'articolo 1120, che regola invece le innovazioni.
L'articolo 1127 non è stato toccato dalla riforma della
legge 220/2012 e, al comma 3, recita: «i condomini possono
altresì opporsi alla soprelevazione se questa pregiudica
l'aspetto architettonico dell'edificio (...)».
Quindi,
parlando della costruzione di un altro piano sopra l'ultimo,
bisogna ricordare la sentenza 1025/2004, che dice: «per
accertare se una sopraelevazione pregiudica, a mente
dell'articolo 1127 Codice civile, l'aspetto architettonico
di un edificio, ciò che conta non è l'esistenza, in
quest'ultimo, di particolari pregi artistici, ma
semplicemente l'esistenza di uno stile architettonico ovvero
di determinate linee estetiche»: una volta che il nuovo
ultimo piano è stato realizzato rispettando lo stile
architettonico di quelli sottostanti, la sopraelevazione è
salva.
Ben diverso è il discorso delle innovazioni di cui
all'articolo 1120 del Codice civile: si tratta dei casi più
frequenti. L'articolo 1120 dice al comma 2 (anch'esso
rimasto identico dopo la riforma, solo che ora è il comma
4): «Sono vietate le innovazioni che possano recare
pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato,
che ne alterino il decoro architettonico (...)».
È proprio
il concetto di decoro architettonico a essere più
restrittivo perché le innovazioni sono i mutamenti «diretti
al miglioramento o all'uso più comodo o al maggior
rendimento delle cose comuni»: una definizione che di fatto
comprende qualsiasi opera. Tra l'altro, ogni condomino può
agire in giudizio per la tutela del decoro architettonico
della proprietà comune, come ha ribadito la Cassazione
(sentenza 14474/2011).
Il problema è quindi individuare cosa
sia il «decoro architettonico»: ebbene, non lo si chieda
alla Cassazione, la quale (sentenza 10350/2011) ha affermato
che (nel caso dell'installazione in facciata di una canna
fumaria per lo smaltimento fumi di una pizzeria) la
questione si risolve in un apprezzamento discrezionale,
istituzionalmente demandato al giudice di merito.
Quindi un'innovazione, anche piccola, è a rischio: e non ci
si salva certo con una delibera a maggioranza che la
approvi. Le solo strade sono una delibera all'unanimità o
che sia dimostrabile che siano trascorsi almeno vent'anni
dalla realizzazione dell'intervento.
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L'iniziativa
La riforma del condominio è a meno di due mesi dall'entrata
in vigore. Le criticità sono emerse e insieme a esse la
necessità di intervenire prima dell'entrata in vigore, per
evitare il rischio che la riforma parte zoppa. Per questo Il
Sole 24 Ore ha lanciato l'iniziativa di «correggere la
riforma». Hanno risposto praticamente tutte le associazioni
di condomini e amministratori e gli ordini interessati: Agiai, Alac, Anaci, Anaip, Anammi, Anapi, Apac, Apu, Arai,
Arpe-Federproprietà, Assocond, Asppi,
Assoedilizia-Confedilizia, Confabitare, Confappi-Fna,
Confiac, Gesticond, Mapi, Ordine degli avvocati di Milano,
Consiglio notarile di Milano, Unai, Unioncasa-Confai e Uppi.
Con le associazioni è stata elaborata una proposta di
modifica tecnica della legge 220/2012 che verrà presentata
in un convegno, trasmesso in streaming in tutta Italia, il
22 maggio. La proposta sarà presentata in Parlamento da
deputati e senatori che hanno già partecipato alla stesura
della riforma e che hanno dato la loro disponibilità ai
correttivi elaborati dal Sole 24 Ore con le associazioni
(articolo Il Sole 24 Ore 26.04.2013). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Lo stile del condominio non protegge la «bruttura».
Opera
illecita anche se conforme alle caratteristiche
dell'edificio.
La Corte di cassazione boccia l'opera architettonica che
costituisce una «bruttura dal punto di vista estetico»,
anche se questa è realizzata «seguendo il medesimo stile
architettonico utilizzato nella realizzazione
dell'edificio».
Il principio è contenuto nella sentenza 24.04.2013 n.
10084, che richiama le ragioni che stanno
dietro le parole «decoro architettonico» e «aspetto», di
volta in volta usate dal legislatore in varie norme.
La sentenza ribalta la decisione dei giudici della Corte
d'appello, che avevano dato ragione al proprietario di un
attico, che aveva realizzato sulla terrazza un nuovo corpo
di fabbrica. Secondo il condomino, «il nuovo manufatto non
costituiva una stonatura rispetto all'unitarietà
dell'edificio stesso». Questa tesi veniva motivata con il
fatto che il nuovo corpo di fabbrica aveva lo stesso stile
architettonico del palazzo.
Ma la Cassazione ha accolto il ricorso del condominio,
secondo cui in base al principio dello stile architettonico
si corre il rischio che i singoli condòmini realizzino vere
e proprie «brutture».
«La nozione di aspetto architettonico di cui all'articolo
1127 del Codice civile –spiega la Cassazione– non coincide
con quella di decoro di cui all'articolo 1120 (più
restrittiva): l'intervento edificatorio quindi dev'essere
decoroso (rispetto allo stile dell'edificio) e non deve
rappresentare comunque una rilevante disarmonia rispetto al
preesistente complesso tale da pregiudicarne le originarie
linee architettoniche».
Il quadro normativo su cui s'innesta la sentenza considera
le innovazioni non influenti sull'aspetto architettonico,
inteso come stile e quindi come caratteristica principale
con cui la costruzione si presenta a chi la guardi. Le
innovazioni, normalmente di minore consistenza rispetto alle
sopraelevazioni, assumono rilievo e sono vietate dal secondo
comma dell'articolo 1120 del Codice civile solo se incidono
sull'equilibrio delle forme e quindi sulla simmetria o sulla
proporzione tra le varie parti influenti sull'estetica
dell'edificio.
È però consentito ai regolamenti di condominio adottare una
nozione più rigorosa e di imporre divieti anche assoluti di
ogni modifica esterna. In tale modo i condomìni interessati
si danno una regola particolare, che ovviamente molto li
vincola e che talvolta può risultare anche eccessiva, in
ragione del mutare delle esigenze soggettive e anche
dell'evoluzione della tecnica.
Di tali implicazioni non sembra che la recente riforma del
condominio si sia fatta carico.
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L'iniziativa
La riforma del condominio è a due mesi dall'entrata in
vigore. Le criticità sono emerse e insieme a esse la
necessità di intervenire prima dell'entrata in vigore, per
evitare il rischio che la riforma parte zoppa.
Per questo Il Sole 24 Ore ha lanciato l'iniziativa di
«correggere la riforma». Hanno risposto praticamente tutte
le associazioni di condomini e amministratori e gli ordini
interessati: Agiai, Alac, Anaci, Anaip, Anammi, Anapi, Apac,
Apu, Arai, Arpe-Federproprietà, Assocond, Asppi,
Assoedilizia-Confedilizia, Confabitare, Confappi-Fna,
Confiac, Gesticond, Mapi, Ordine degli avvocati di Milano,
Consiglio notarile di Milano, Unai, Unioncasa-Confai e Uppi
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.04.2013). |
CONDOMINIO:
La Corte di Cassazione su effetti e limiti dei lavori di
sopraelevazione dell'immobile.
Edifici, il decoro prima di tutto.
L'intervento conforme all'aspetto può essere lesivo.
Le nozioni di decoro e aspetto architettonico sono diverse,
ma la prima ha un contenuto più restrittivo della seconda,
con la conseguenza che un intervento giudicato lesivo del
decoro di un edificio non può al tempo stesso essere
valutato conforme all'aspetto architettonico del medesimo.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con
la
sentenza 24.04.2013 n. 10048.
Nel caso in questione i giudici di legittimità hanno infatti
cassato la sentenza di merito che, pur avendo accertato la
lesione del decoro architettonico dell'edificio conseguente
alla sopraelevazione realizzata da un condomino, aveva però
ritenuto che la stessa non avesse violato anche l'aspetto
architettonico del fabbricato, rilevante ai sensi dell'art.
1127 c.c., essendosi mantenuta all'interno dello stile
proprio dell'immobile.
Sopraelevazione e aspetto architettonico dell'edificio. La
sopraelevazione consiste in un'aggiunta quantitativa in
senso verticale alla volumetria dell'edificio. In
particolare si può parlare di sopraelevazione nel caso di
opere che comportino lo spostamento in alto della copertura
del fabbricato, in modo da occupare lo spazio sovrastante e
superare l'originaria altezza dell'edificio. La nozione di
sopraelevazione non va pertanto limitata alla costruzione di
nuovi piani dell'edificio, ma si estende a ogni intervento
che comporti l'innalzamento della copertura del fabbricato.
Così, per esempio, la trasformazione della soffitta o del
sottotetto non abitabili in un piano abitabile, mediante la
modifica della pendenza del tetto della vecchia soffitta,
con una migliore utilizzazione dello spazio ricavato,
configura una mera modifica interna. Al contrario, l'opera
riguardante una soffitta inabitabile trasformata in
appartamento, con l'aumento dell'altezza media da uno a tre
metri e la realizzazione di un nuovo tetto con unico
spiovente in sostituzione di quello preesistente a doppia
falda, è da considerare come costruzione di un nuovo piano.
Se nel realizzare detta parte aggiuntiva del fabbricato
viene adottato uno stile diverso da quello della parte
preesistente dell'edificio, normalmente si determina anche
un mutamento peggiorativo dell'aspetto architettonico
complessivo, percepibile da qualunque osservatore.
Di
conseguenza, il condomino che sopraeleva non può mutare
l'aspetto architettonico del fabbricato, costruendo per
esempio un piano in stile moderno (con materiali di recente
introduzione sul mercato) su un edificio di stile classico o
neoclassico. Il pregiudizio dell'aspetto architettonico
quindi può consistere in una diminuzione del valore
dell'immobile per la diversità della linea architettonica o
dei materiali utilizzati, così come per l'altezza dei nuovi
piani, che sia completamente diversa rispetto a quelli
preesistenti, oppure ancora per il tipo di infissi (colore,
forma ecc.).
Aspetto architettonico e decoro architettonico: le
differenze. Come detto, l'art. 1127 c.c., dettato in materia
di sopraelevazione, obbliga il condomino a seguire l'aspetto
architettonico dell'edificio. Diversamente, in tema di
limiti alle innovazioni, l'art. 1120 c.c. parla di decoro
architettonico. Si tratta dello stesso concetto o di due
nozioni differenti? La giurisprudenza, con particolare
riferimento alla predetta recente pronuncia della Suprema
corte, risponde negativamente.
Per decoro architettonico del fabbricato, infatti, deve
intendersi l'estetica data dall'insieme delle linee e delle
strutture dell'edificio. L'alterazione di tale decoro può
verificarsi alla realizzazione di opere che mutino
l'originario aspetto anche soltanto di singoli elementi o
punti del fabbricato tutte le volte che il cambiamento sia
tale da riflettersi sull'insieme dell'estetica dello
stabile. Dal decoro architettonico deve essere quindi tenuto
distinto l'aspetto architettonico: mentre, infatti, il primo
è una qualità positiva dell'edificio, derivante dal
complesso delle caratteristiche architettoniche principali e
secondarie, con il secondo l'accento viene posto sulla
conservazione dello stile complessivo dell'immobile.
La distinzione non è priva di rilievo pratico: la modifica
strutturale di una parte anche di modesta consistenza
dell'edificio, infatti, pur non incidendo normalmente
sull'aspetto architettonico, può comportare il venir meno di
altre caratteristiche influenti sull'estetica dell'immobile
e, dunque, sul decoro architettonico del medesimo. La
lesione del decoro architettonico, poi, è denunziabile anche
ove incida su caratteristiche dei beni comuni (mentre la
sopraelevazione e l'aspetto architettonico riguardano opere
realizzate nelle parti esclusive). È vero, però, che per
essere legittimamente portata a termine l'opera di
sopraelevazione deve rispettare entrambe gli aspetti sopra
citati: in questi casi non basta quindi che siano osservati
soltanto i canoni inerenti all'aspetto architettonico, ma
anche quelli attinenti al decoro dell'edificio.
In quali casi non può essere contestata la violazione
dell'aspetto architettonico dell'edificio. La violazione
dell'aspetto architettonico consiste in un'incidenza di
particolare rilievo della nuova opera sullo stile
architettonico dell'edificio che, essendo immediatamente
apprezzabile da parte di persone di media preparazione
culturale, si traduce in una diminuzione del pregio estetico
ed economico del fabbricato. Quindi, il giudizio relativo
all'impatto della sopraelevazione sull'aspetto
architettonico dell'edificio va condotto avendo esclusivo
riguardo alle caratteristiche stilistiche facilmente
percepibili: in altre parole, se le la nuova opera è
assolutamente invisibile ai terzi o visibile solo da
notevole distanza dal caseggiato, la stessa non è
contestabile.
In ogni caso i condomini possono opporsi alla
sopraelevazione eseguita dal condomino dell'ultimo piano sul
suo terrazzo a livello, o lastrico solare, che pregiudichi
le caratteristiche architettoniche dell'edificio e, se
eseguita, ne possono chiedere l'abbattimento e il
risarcimento del danno. Ma la relativa azione, posta a
tutela dei proprietari esclusivi del piano sottostante,
comproprietari delle parti comuni, si prescrive per il
mancato esercizio ventennale (articolo ItaliaOggi Sette del
24.06.2013). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Attenzione
al decoro degli edifici, il manufatto che non lo rispetta va
abbattuto!
Il manufatto realizzato sopra l’ultimo piano di un
condominio che non rispetti il “decoro architettonico” va
demolito, anche se compatibile con l’aspetto architettonico
complessivo dell’edificio.
È il principio stabilito dalla Corte di Cassazione, Sez. II
civile, con la
sentenza 24.04.2013 n.
10048.
Nel caso in esame, i giudici della Corte d’Appello avevano
deciso che il manufatto costruito su una terrazza di un
edificio condominiale anche se indecoroso non andava
abbattuto poiché rispettava lo stile architettonico del
palazzo.
Di avviso contrario la Suprema Corte, secondo la quale la
nozione di decoro architettonico (art. 1120 del Codice
Civile) è più restrittiva e non coincide con quella di
aspetto architettonico (art. 1127 del Codice Civile).
Pertanto, il corpo di fabbrica aggiunto alla preesistente
costruzione, pur rispettando in linea di massima l’aspetto
architettonico, va abbattuto se arreca un pregiudizio al
decoro complessivo dell’edificio, tanto più se si tratta di
un manufatto di significativa volumetria, ben visibile
all'esterno e tale da alterare le linee originarie
dell'intero stabile
(16.05.2013 - tratto da www.acca.it). |
CONDOMINIO:
Riscaldamento, spese più eque.
Tra le novità la stima del consumo dovuto a dispersione.
Pubblicata l'ultima versione della norma
tecnica Uni 10200/2013 sulla climatizzazione.
Maggiore trasparenza nella contabilizzazione del consumo di
calore in condominio.
È stata, infatti, pubblicata la nuova
versione della norma tecnica Uni 10200/2013, elaborata
dall'Ente nazionale italiano di unificazione e disponibile a
pagamento sul sito internet www.uni.com, che fornisce i
criteri per una corretta ed equa ripartizione della spesa
per la climatizzazione invernale e per l'acqua calda
sanitaria nei condomini serviti da impianto termico
centralizzato o da impianto di teleriscaldamento.
L'aggiornamento messo a punto dall'Ente nazionale italiano
di unificazione offre, quindi, maggiori garanzie ai
condomini, permettendo di calcolare in maniera più evidente
la ripartizione pro quota della spesa totale per il
riscaldamento.
Il sistema della contabilizzazione del calore. La
contabilizzazione del calore è un sistema che consente di
calcolare il consumo di ogni appartamento in modo da operare
il riparto delle spese comuni tra i singoli condomini in
base al consumo che ciascuno di questi abbia effettivamente
registrato.
In questi casi il problema principale da affrontare è quello
del criterio da utilizzare per procedere a detta
rendicontazione. Solitamente negli edifici con impianto
centralizzato c.d. a distribuzione orizzontale si ricorre
alla c.d. contabilizzazione diretta. In questo caso i
contatori vengono collocati in corrispondenza del punto di
ingresso in ciascuna unità immobiliare della derivazione
dell'impianto di distribuzione centralizzato, in modo da
poter conteggiare la quantità di calore prelevata da ciascun
condomino. Viceversa, negli edifici con impianto c.d. a
distribuzione verticale, che rappresentano la tipologia oggi
più diffusa, si procede all'installazione di specifici
ripartitori, che sono programmati in virtù delle
caratteristiche e della potenza termica dei corpi scaldanti
sui quali sono installati e che consentono in tal modo di
determinare i consumi.
La nuova norma Uni 10200/2013. La nuova Uni introduce quindi
una maggiore trasparenza nella gestione della
contabilizzazione del calore perché prevede che nella prima
stagione di attività dell'impianto il responsabile debba
fornire agli utenti un prospetto previsionale della spesa
totale per climatizzazione invernale e acqua calda
sanitaria. Dal punto di vista tecnico, invece, la novità
principale è rappresentata dalla stima del consumo
involontario dovuto alle dispersioni della rete di
distribuzione e che influiscono comunque sulla spesa totale
da ripartire tra i condomini.
Attualmente le specifiche tecniche della norma Uni/Ts 11300
consentono di utilizzare i ripartitori per effettuare anche
detta stima.
Tuttavia la nuova norma Uni 10200 consente in alternativa di
effettuare un calcolo semplificato con l'utilizzo di
coefficienti che attribuiscono valori prestabiliti al
consumo involontario.
Un'altra novità riguarda poi i c.d. millesimi di
riscaldamento, poiché la nuova norma Uni 10200 prevede che
gli stessi possano essere ricondotti non solo ai millesimi
di potenza termica installata, come previsto sino a ora, ma
anche ai millesimi di fabbisogno di energia utile, calcolati
secondo le specifiche della predetta norma Uni/Ts 11300 (articolo
ItaliaOggi Sette del 15.04.2013). |
CONDOMINIO: È reato gettare oggetti dal balcone.
Confermata la condanna di una vicina che rovesciava
immondizia al piano di sotto.
La Corte di Cassazione,
Sez. III penale, con
sentenza
11.04.2013 n. 16459 (Presidente Squassoni, Relatore
Gazzara), ha confermato la condanna penale di una condomina
che sistematicamente utilizzava il balcone sottostante al
proprio appartamento come pattumiera gettando sigarette,
cenere e detersivi corrosivi come la candeggina.
Lo segnala
l'agenzia Agire, specializzata nel Real Estate.
La condomina maleducata aveva fatto ricorso contro la
sentenza del Tribunale di Palermo del 02.12.2011, che
l'aveva dichiarata colpevole del reato previsto dagli
articoli 81 e 674 del Codice penale per avere arrecato
molestie a una vicina gettando «nel piano sottostante ove si
trovava l'appartamento di quest'ultima, rifiuti, quali
cenere e cicche di sigarette, nonché detersivi corrosivi,
quale candeggina» e l'aveva condannata alla pena di 120 euro
di ammenda.
L'importanza della sentenza è proprio l'aver
considerato l'azione della condomina un reato: per la
precisione, quello di «getto pericoloso di cose», sanzionato
dall'articolo 674 del Codice penale. Nella sentenza il
Tribunale ha anche aumentato la pena a causa delle
reiterazione del reato, per cui è stato applicato il
capoverso dell'articolo 81 del Codice penale (si vedano i
testi di legge qui accanto).
La condomina molesta aveva presentato ricorso per
Cassazione. Il ricorso, però, è stato dichiarato
inammissibile perché «la argomentazione motivazionale,
adottata dal decidente in relazione alla concretizzazione
del reato in contestazione e alla ascrivibilità di esso in
capo alla prevenuta, si palesa logica e corretta». La
Cassazione ha quindi ritenuto corretto l'inquadramento del
comportamento della condomina nell'ambito del reato di
«getto pericoloso di cose», che in alternativa all'ammenda
prevede l'arresto sino a un mese.
Senza contare che a
nessuno fa piacere venire giudicato penalmente. Va quindi
considerata l'importanza, ai fini della deterrenza, di una
sentenza che, confermata dalla Cassazione, ha punito con
severità un comportamento che normalmente viene fatto
passare come illecito civile, dando vita, al massimo, a un
risarcimento, con i tempi eterni del rito civile e l'esborso
di pochi euro.
Ben diverso è pagare magari lo stesso importo
ma con la segnalazione sul certificato del casellario
giudiziario. Da ultimo, la Cassazione ha anche condannato la
ricorrente al pagamento delle spese processuali e al
versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma
di 1.000 euro.
---------------
LE NORME
Articolo 81. È punito con la pena che dovrebbe infliggersi
per la violazione più grave aumentata fino al triplo (..).
Alla stessa pena soggiace chi con più azioni od omissioni,
esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette anche
in tempi diversi più violazioni della stessa o di diverse
disposizioni di legge. (...)
Articolo 674. Chiunque getta o versa, in un luogo di
pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o di
altrui uso, cose atte a offendere o imbrattare o molestare
persone, ovvero, nei casi non consentiti dalla legge,
provoca emissioni di gas, di vapori o di fumo, atti a
cagionare tali effetti, è punito con l'arresto fino a un
mese o con l'ammenda fino a duecentosei euro
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.04.2013). |
CONDOMINIO:
G. T. Gomitoni,
Il “diritto” del condomino al distacco dall’impianto
di riscaldamento dopo la Riforma (Immobili &
proprietà n. 4/2013 - tratto da www.ispoa.it). |
marzo 2013 |
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CONDOMINIO: Sottotetto
esclusivo.
Domanda
In base a quali elementi, in caso di dissapori, è possibile
stabilire se un sottotetto di un edificio condominiale sia
bene comune o parte privata esclusiva?
Risposta
Quello proposto è un tema che spesso costituisce oggetto di
divergenze fra condomini e in ordine al quale si è pertanto
formata una significativa giurisprudenza anche a livello di
Corte di cassazione. In effetti, anche di recente la suprema
corte si è dovuta occupare di un contenzioso di questo tipo
e lo ha risolto (sent. 12840/2012) confermando le sentenze
dei primi due gradi di merito ma, soprattutto, ribadendo e
richiamando il consolidato orientamento formatosi presso di
essa. In pratica, il principio di diritto da seguire è che
l'appartenenza del sottotetto (e, nel caso da ultimo
esaminato, anche di una terrazza, entrambi condominiali) va
determinata in base al titolo di provenienza.
In mancanza o nel silenzio di questo, non essendo il
sottotetto compreso nel novero delle parti comuni
dell'edificio essenziali per la sua esistenza o necessarie
all'uso comune (art. 1117 c.c.) la presunzione di comunione
ai sensi del predetto articolo è applicabile solo nel caso
in cui il vano, per le sue caratteristiche strutturali e
funzionali, risulti oggettivamente destinato all'uso comune
o a un servizio di interesse condominiale. Nel caso, oggetto
della sentenza, ciò è stato escluso, considerato che dalle
verifiche compiute si era anche rilevato che l'appartamento
era collegato al sottotetto, non abitabile, da una scala
interna e che a quest'ultimo non si poteva accedere da altro
ingresso.
Pertanto, in casi come questo i giudici sono ormai soliti
valorizzare la funzione del sottotetto di mera camera
d'aria, volta a proteggere l'appartamento sottostante dal
caldo e dal freddo, escludendo la natura condominiale del
bene (articolo ItaliaOggi Sette
del 25.03.2013). |
CONDOMINIO: Riforma
del condominio. La delibera di nomina dovrà essere adottata
con la maggioranza degli intervenuti e almeno 500 millesimi.
Rinnovo tacito per l'amministratore.
Per allontanarlo occorrono la revoca o il diniego espresso
dall'assemblea a fine mandato.
I DOCUMENTI/
Non è applicabile alla conferma automatica la regola di
comunicare ogni volta i propri dati anagrafici.
La riforma del condominio prevede che «l'incarico di
amministratore ha durata di un anno e si intende rinnovato
per eguale durata» (articolo 1129, comma 10, primo periodo).
In sostanza, una formula di compromesso fra chi voleva
mantenere la durata di un anno e chi voleva invece portarla
(fra cui il Senato, in prima lettura) a due. Ma, in pratica,
cosa significa la formulazione della norma?
Punto di partenza dell'interpretazione è che la riforma
conferma in un anno la durata (certa) dell'incarico di
amministratore. Questo, salvo rinnovo (tacito). Salvo -quindi- che i condomini manifestino una volontà contraria a
tale rinnovo. In sostanza, se l'assemblea condominiale non
approvi una delibera di "diniego di rinnovazione" (mutuando
l'espressione dalla normativa delle locazioni).
La delibera in questione dovrà essere adottata -deve
ritenersi- con la stessa maggioranza prevista per la nomina
e la revoca dell'amministratore (articolo 1136, comma 4) e
quindi con un numero di voti che rappresenti la maggioranza
degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio:
ciò, sia in prima che in seconda convocazione, dato il
tenore -preciso e incondizionato: "sempre" approvate-
della precitata disposizione di cui all'articolo 1136, e
sempre fermi per la loro valenza generale (stesso articolo)
i quorum costitutivi assembleari (rispettivamente, per la
prima e seconda convocazione) di cui al primo (tanti
condomini che rappresentino i due terzi del valore
dell'edificio intero e la maggioranza dei «partecipanti al
condominio») e al terzo comma (tanti condomini che
rappresentino almeno un terzo del valore dell'intero
edificio e un terzo dei «partecipanti al condominio») del
medesimo articolo or ora citato. L'assemblea per la delibera
di "diniego di rinnovazione", dal canto suo, potrà essere
eventualmente convocata da (o a richiesta di) due condomini
(articolo 66, comma 1, delle disposizioni di attuazione del
Codice) e dovrà essere tempestivamente comunicata -e
comunque, prima della scadenza annuale- all'amministratore
(che, in ogni caso, potrà anche prenderne formalmente atto -quindi, a verbale- in sede di assemblea).
Non si ritiene automaticamente applicabile all'assemblea in
parola (e, quindi, salvo espressa deliberazione favorevole e
previo suo inserimento all'ordine del giorno dell'assemblea
stessa) quanto previsto dal secondo periodo dell'articolo
1129, comma 10, e cioè la contestuale nomina -come in caso
di revoca o dimissioni- di un nuovo amministratore: questo,
per ragioni pratiche ma anche per tuziorismo, non
prevedendolo espressamente la norma (che si limita, appunto,
alla revoca o alle dimissioni). Al proposito, va infatti
sottolineato che il "diniego di rinnovazione" è istituto del
tutto diverso dalla "revoca", potendo solo la seconda
intervenire anche nel corso del mandato, così come precisato
-con l'espressione «in ogni tempo»- all'articolo 1129,
comma 11.
Ancora, deve dirsi che non si ritiene applicabile al rinnovo
tacito la disposizione che prevede che, «ad ogni rinnovo
dell'incarico», l'amministratore condominiale comunichi i
propri dati anagrafici e le altre informazioni di cui alla
stessa disposizione (articolo 1129, comma 2). Ciò,
naturalmente, sul presupposto che sia obbligo
dell'amministratore -come si ritiene- comunicare senza
ritardo a tutti i condomini ogni variazione che intervenga,
nei dati e nelle informazioni fornite, in corso di mandato.
Per completezza, va ricordato che -nelle assemblee di cui
s'è trattato, come in ogni altra- devono essere conteggiati
fra gli intervenuti anche i conferenti delega, mentre il
condomino proprietario di più unità immobiliari sarà da
conteggiarsi in ragione di un intervenuto. Va pure
ricordato, sempre in materia di assemblee, che i quorum
costitutivi devono sussistere al momento della costituzione
dell'assemblea, essendo ininfluente che alcuni condomini si
allontanino ad assemblea in corso, fino anche ad abbattere
il quorum necessario per il suo inizio
(articolo Il Sole 24 Ore del
20.03.2013). |
CONDOMINIO: Condominio,
la riforma gioca d'anticipo.
Le regole saranno in vigore il 18 giugno ma già oggi si
possono preparare delibere e documenti.
INTRECCIO NORMATIVO/
L'impatto sarà diverso a seconda che l'edificio sia dotato
di un regolamento di tipo contrattuale o assembleare.
Applicazione delle disposizioni sulle parti comuni previste
dall'articolo 1117 del Codice civile anche in situazioni
come il supercondominio, in quanto compatibili
La riforma del condominio è già cominciata. O, meglio,
consente di giocare d'anticipo. Le nuove regole entreranno
in vigore il 18 giugno –fra tre mesi esatti–, ma fin da
subito i proprietari di casa e gli amministratori possono
cominciare a tenerne conto.
Vediamo qualche caso pratico. Chi vuole modificare la
destinazione d'uso delle parti comuni, per esempio
trasformando in parcheggio una parte del cortile o dando in
affitto la vecchia portineria in disuso, farà bene a
sbrigarsi, perché con la riforma servirà una maggioranza
rafforzata –e più difficile da raggiungere– pari a quattro
quinti dei condòmini e dei millesimi (si veda l'articolo a
destra).
Chi sta pensando di installare i pannelli solari
per produrre l'acqua calda destinata al proprio alloggio,
invece, può già iniziare a informare l'amministratore, che
avrà il tempo per suggerire eventuali alternative alla
collocazione sul tetto o comunque per convocare l'assemblea
e deliberare adeguate garanzie. E ancora, chi vorrebbe
acquistare un impianto comune di videosorveglianza può
iniziare a informarsi sui costi e a parlarne con gli altri condòmini: con la riforma il quorum scende (metà più uno
degli intervenuti in assemblea che rappresentino metà del
valore), mentre fino a oggi ci sono stati giudici che hanno
chiesto l'unanimità.
L'incrocio tra la riforma e le vecchie regole del Codice
civile del 1942 è in qualche modo inevitabile. Le nuove
norme, infatti, si applicheranno in toto ai condomini
costituitisi dal 18 giugno in poi, mentre per quelli già
esistenti bisognerà coordinarle con le disposizioni
regolamentari di ogni edificio, ferma restando la validità
delle disposizioni "contrattuali", preparate a suo tempo dal
costruttore e allegate al rogito o comunque adottate
all'unanimità.
La necessità di muoversi per tempo, invece, deriva dal fatto
che per sfruttare molte delle novità ci vogliono procedure
complesse e tempi lunghi. Pensiamo alla possibilità di
staccarsi dall'impianto di riscaldamento centralizzato. La
norma è decisamente criticabile, perché non tiene conto
delle direttive europee e delle disposizioni di settore per
il risparmio energetico (tant'è vero che ne è già stata
chiesta la modifica, si veda l'articolo in basso), ma è fuor
di dubbio che chi vuole sfruttarla deve attivarsi adesso.
Per arrivare in tempo alla prossima accensione autunnale
degli impianti, un condòmino potrebbe intanto farsi
predisporre da un tecnico una perizia per provare che dal
suo distacco non derivano aggravi dei costi né squilibri di
funzionamento per gli altri proprietari, informando nel
frattempo l'amministratore perché lo comunichi
nell'assemblea più vicina.
In altri casi è l'amministratore ad avere la possibilità di
anticipare la riforma, così da non farsi cogliere
impreparato. Per esempio, può redigere la tabella con i
giorni e gli orari di ricevimento e organizzarsi per
l'apertura di un conto corrente condominiale: due buone
prassi già abbastanza diffuse, ma non adottate ancora da
tutti. Inoltre, può convocare l'assemblea di fine mandato –ove possibile– per approvare i rendiconti e iniziare a
informare i condòmini morosi che con la riforma sarà
obbligato ad adire le vie legali entro sei mesi per il
recupero crediti, con la possibilità di sospendere
l'erogazione dei servizi in caso di gravi ritardi.
Altri adempimenti sono documentali, ma non per questo meno
importanti. L'amministratore può senz'altro iniziare a
raccogliere i dati dei condomini e dei documenti
tecnico-amministrativi e a predisporre i quattro registri
richiesti dalla riforma: registro dei verbali delle
assemblee, di nomina e revoca dell'amministratore, di
contabilità e di anagrafe condominiale. Non solo: potrebbe
anche iniziare a informarsi sull'opportunità di proporre ai
condòmini l'attivazione di un sito internet su cui
pubblicare in modo tempestivo e trasparente le informazioni
sulla gestione dell'edificio e sulle spese.
L'articolo 1117-bis sarà poi di grande aiuto per
disciplinare il supercondominio, figura giuridica frequente
nei complessi immobiliari costituiti da più edifici: in
questi casi, se manca una specifica regolamentazione, si
applicherà la normativa sul condominio, eliminando così ogni
dubbio. E se i partecipanti sono più di 60, ogni condominio
può già designare il proprio rappresentante (articolo Il Sole 24 Ore del
18.03.2013). |
CONDOMINIO: Riforma
del condominio/
Tabelle millesimali corrette a maggioranza. Ma la modifica è possibile senza assenso di
tutti solo nei casi previsti dalla legge.
IL QUADRO/ La rettifica con consenso parziale è possibile
per eliminare gli errori o per il cambio di condizioni
dell'edificio.
La riforma del condominio interviene anche sulle tabelle
millesimali. Il nuovo articolo 68 delle Disposizioni di
attuazioni del Codice civile (riscritto dalla legge di
riforma 220/2013) stabilisce che, ove non precisato dal
titolo, ai sensi dell'articolo 1118 del Codice civile, il
valore proporzionale di ciascuna unità immobiliare è
espresso in millesimi in apposita tabella allegata al
regolamento di condominio.
Ciò vale sia per l'accertamento (articolo 68) sia per la
revisione o modificazione delle tabelle (articolo 69), sia
per la ripartizione delle spese (articolo 1127 del Codice
civile), sia per la partecipazione all'assemblea (articolo
1136).
La riforma del condominio è intervenuta con il nuovo
articolo 69 stabilendo che: «I valori proporzionali delle
singole unità immobiliari espressi nella tabella millesimale
di cui all'articolo 68 possono essere rettificati o
modificati all'unanimità. Tali valori possono essere
rettificati o modificati, anche nell'interesse di un solo
condomino, con la maggioranza prevista dall'articolo 1136,
secondo comma, Cc, nei seguenti casi:
●
quando risulta che sono conseguenza di un errore;
●
quando, per le mutate condizioni di una parte dell'edificio,
in conseguenza di sopraelevazione, di incremento di
superfici o di incremento o diminuzione delle unità
immobiliari, è alterato per più di un quinto il valore
proporzionale dell'unità immobiliare anche di un solo
condomino. In tal caso il relativo costo è sostenuto da chi
ha dato luogo alla variazione.
Ai soli fini della revisione dei valori proporzionali
espressi nella tabella millesimale allegata al regolamento
di condominio ai sensi dell'articolo 68, può essere
convenuto in giudizio unicamente il condominio in persona
del l'amministratore».
La nuova normativa ha modificato sensibilmente la decisione
delle Sezioni unite della Cassazione (sentenza n.
18477/2010). La Cassazione aveva infatti disatteso
l'orientamento della giurisprudenza in base al quale per
l'approvazione o la revisione delle tabelle millesimali è
necessario il consenso di tutti i condomini (si veda
l'articolo qui sotto). L'affermazione che la necessità
dell'unanimità dei consensi dipenderebbe dal fatto che la
deliberazione di approvazione delle tabelle millesimali
costituirebbe un negozio di accertamento del diritto di
proprietà sulle singole unità immobiliari e sulle parti
comuni è in contrasto con quanto ad altri fini sostenuto
nella giurisprudenza di legittimità, e cioè che la tabella
millesimale serve solo a esprimere in precisi termini
aritmetici un già preesistente rapporto di valore tra i
diritti dei vari condomini, senza incidere in alcun modo su
tali diritti.
Quando, poi, i condomini approvano la tabella che ha
determinato il valore dei piani o delle porzioni di piano
secondo i criteri stabiliti dalla legge non fanno altro che
riconoscere l'esattezza delle operazioni di calcolo della
proporzione tra il valore della quota e quello del
fabbricato. Il valore di una cosa è quello che è, e il suo
accertamento non implica alcuna operazione volitiva, ragion
per cui il semplice riconoscimento che le operazioni sono
state compiute in conformità al precetto legislativo non può
qualificarsi attività negoziale.
Alla luce di quanto sopra esposto, le Sezioni unite della
Corte suprema avevano quindi affermato che le tabelle
millesimali non devono essere approvate con il consenso
unanime dei condomini, essendo sufficiente la maggioranza
qualificata di cui all'articolo 1136, comma 2.
Con la nuova norma (articolo 69, Disposizioni attuative Cc)
le tabelle millesimali possono essere rettificate o
modificate solo all'unanimità, salvo limitate e circoscritte
ipotesi di revisione: a) nel caso di un errore; b) quando
per le mutate condizioni di una parte dell'edificio, in
conseguenza di sopraelevazione, di incremento di superfici o
di incremento o diminuzione delle unità immobiliari, è
alterato per più di un quinto il valore proporzionale
dell'unità immobiliare. Con questa formulazione sono state
eliminate le ipotesi di espropriazione parziale o di
innovazione di vasta portata.
Infine va chiarito che gli errori rilevanti ai fini della
revisione sono quelli obiettivamente verificabili, restando
esclusa la rilevanza dei criteri soggettivi nella stima
degli elementi necessari per la valutazione.
L'errore non coincide con l'errore vizio del consenso.
* * *
L'iniziativa
01 | LE CORREZIONI DA FARE
Dalla doppia maggioranza per gli interventi di risparmio
energetico, ai nuovi obblighi (alcuni irrealizzabili) degli
amministratori, alla possibilità di "distaccarsi" dal
riscaldamento centralizzato, al fondo condominiale
obbligatorio per la straordinaria manutenzione, solo per
citarne alcune
02 | LA MOSSA VINCENTE
Per evitare che gli errori del legislatore impediscano la
riforma, Il Sole 24 Ore ha lanciato l'iniziativa di
«correggere la riforma». Hanno risposto praticamente tutte
le associazioni di condomini e amministratori e gli ordini
interessati: Agiai, Alac, Anaci, Anaip, Anammi, Anapi, Apac,
Arpe-Federproprietà, Assocond, Asppi,
Assoedilizia-Confedilizia, Confabitare, Confai, Fna,
Gesticond, Ordine degli avvocati di Milano, Unai e Uppi
---------------
Gli altri casi. Le modalità di
aggiornamento.
Per gli «indici» contrattuali correzione all'unanimità.
IL VINCOLO/ Il regolamento interno non può prevedere la
immodificabilità o la modifica a condizioni differenti da
quelle di legge.
Per comprendere appieno la portata della sentenza di
Cassazione n. 18477/2010 e delle modifiche apportate con la
legge 220/2012 è necessario spiegare cosa si intenda per
tabelle, come vengono calcolate e qual è la loro natura,
ovvero se traggono la loro origine da un atto dispositivo o
da una più semplice presa di coscienza di una valutazione
tecnica.
Sappiamo che la funzione delle tabelle è quella di
determinare i poteri e attribuire gli oneri relativi alla
gestione del condominio. Anche il nuovo articolo 68 delle
Disposizioni di attuazione del Codice civile prevede la
quantificazione delle quote in «valori millesimali»,
soffermandosi non certo a spiegare o a determinare i criteri
da utilizzare per addivenire a dette quote, bensì indicando
quello di cui non va tenuto conto (canone locatizio,
miglioramenti, stato di manutenzione di ciascuna unità
immobiliare).
Quindi la determinazione viene lasciata ai tecnici che,
partendo dai criteri indicati in una circolare del ministero
dei Lavori pubblici (la 12480 del 1966 e la 2945 del 1993)
con riferimento all'edilizia popolare, prendono in
considerazione diversi elementi, come il coefficiente di
destinazione della superficie (box, negozio, cantina,
abitazione e altro), i coefficienti di luminosità,
esposizione di piano eccetera. A ogni coefficiente si
assegna un parametro che moltiplicati con i metri quadri dà
un valore, cosiddetto "superficie virtuale" che poi viene
tradotto in millesimi.
Il processo di calcolo sembra abbastanza semplice ma a
complicarlo vi è il fatto che ogni tecnico spesso utilizza
criteri diversi a cui assegna parametri differenti e,
quindi, non è improbabile che una stessa unità immobiliare,
senza subire variazioni di sorta, se valutata da due tecnici
diversi, può essere rappresentata da valori che si
discostano anche del 20 per cento.
Per poter comprendere se davvero le tabelle possono essere
modificate all'unanimità o a maggioranza bisogna
preventivamente stabilire se le stesse hanno un'origine
negoziale, ovvero contrattuale, oppure sono un semplice atto
di adesione a una valutazione esposta da un tecnico.
Le tabelle di natura contrattuale, ovvero quelle stabilite e
sottoscritte da tutti i condomini in quanto frutto di
espressa convenzione, non sono modificabili a maggioranza
neppure dopo la sentenza del 2010. Esse hanno la stessa
natura dei regolamenti contrattuali e quindi la loro
modifica presuppone l'accettazione dell'intera compagine
condominiale. La necessità, invece, di modificare le tabelle
sopraggiunge nel caso di sopraelevazioni o di incremento di
superfici (si pensi alla chiusura di un balcone o alla
costruzione di un soppalco) o di incremento delle unità
immobiliari (si pensi al recupero dei sottotetti o alla
costruzione sotterranea di box) e in questo caso la sentenza
della Cassazione è intervenuta affermando che era
sufficiente la maggioranza, sempre che non si trattasse di
tabelle di natura convenzionale.
Si ricordi, infine, che l'articolo 72 delle Disposizioni di
attuazione, non modificato dalla legge di riforma,
stabilisce che il regolamento di condominio non può derogare
alle disposizioni del precedente articolo 69. Ciò significa
che il regolamento di condominio non può prevedere l'immodificabilità
delle tabelle millesimali né prevederne la modifica a
condizioni differenti rispetto a quelle legislativamente
stabilite (articolo Il
Sole 24 Ore del 09.03.2013). |
CONDOMINIO: Riforme.
Basta l'80% dei consensi.
In condominio arrivano piscine e campi da calcio.
La riforma del condominio (legge 220/2012) ha stabilito, in
tema di modificazioni delle destinazioni d'uso, che per
soddisfare esigenze di interesse condominiale l'assemblea,
con un numero di voti che rappresenti i quattro quinti dei
partecipanti al condominio e i quattro quinti del valore
dell'edificio, può modificare la destinazione d'uso delle
parti comuni (è il nuovo articolo 1117-ter). Una maggioranza
comunque difficile da ottenere.
In questi casi la convocazione dell'assemblea deve essere
affissa per non meno di trenta giorni consecutivi nei locali
di maggior uso comune o negli spazi a tal fine destinati e
deve effettuarsi mediante lettera raccomandata o
equipollenti mezzi telematici, in modo da pervenire almeno
venti giorni prima della data di convocazione. La
convocazione dell'assemblea, a pena di nullità, deve
indicare le parti comuni oggetto della modificazione e la
nuova destinazione d'uso. La deliberazione deve contenere la
dichiarazione espressa che sono stati effettuati gli
adempimenti previsti.
Naturalmente la nuova normativa riguarda solo le
modificazioni che siano legittime, che cioè corrispondono a
esigenze di interesse condominiale. Non sono, quindi,
consentite, se non all'unanimità, modifiche che siano
finalizzate a soddisfare l'interesse particolare di un
condomino o di un gruppo di condomini (Cassazione, sentenza
n. 17397/2004). La nuova normativa non è –per esempio–
applicabile alla trasformazione, anche solo parziale, del
tetto dell'edificio in terrazza a uso esclusivo del singolo
condomino (Cassazione, n. 5753/2007 e 24414/2006), Tra
l'altro, il nuovo articolo 1117-ter stabilisce, altresì, che
sono vietate le modificazioni d'uso che possono recare
pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato o
che ne alterano il decoro architettonico.
Limiti, questi, già sanciti dall'articolo 1120 (rimasto in
vigore) che aggiunge, riguardo alle innovazioni, che «non
devono essere rese talune parti dell'edificio inservibili
all'uso o al godimento anche di un solo condomino». Non si
può, quindi, condividere qualsiasi interpretazione di
diversificazione dei limiti e delle preclusioni tra
innovazioni e modifiche di destinazione d'uso.
E, venendo all'applicazione pratica della nuova norma, si
possono configurare alcune ipotesi: ad esempio,
installazione di una piscina, di un campo di tennis o di
calcio nell'area comune, la modifica della destinazione
pertinenziale dei locali adibiti ad alloggio del portiere,
l'accorpamento di più edifici in un unico condominio.
Riguardo alla tutela delle destinazioni d'uso il nuovo
articolo 1117-quater prevede che, nel caso di attività che
incidano negativamente e in modo sostanziale sulle
destinazioni d'uso delle parti comuni, l'amministratore o i
condomini, anche singolarmente, possono diffidare
l'esecutore e possono chiedere la convocazione
dell'assemblea per far cessare la violazione anche mediante
azioni giudiziarie. La nuova norma è solo ricognitiva di
quanto è già presente nella prassi condominiale.
L'unica effettiva modifica riguarda la facoltà di
convocazione dell'assemblea attribuita al singolo (e non più
a due condomini con 166,66 millesimi). D'altra parte, la
giurisprudenza è costante nell'affermare che ciascun
condomino è legittimato ad agire in giudizio per la tutela
del bene che interessa la generalità dei condomini
(Cassazione, sentenze 10717/2011, 7300/2010 e 3900/2010)
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.03.2013). |
CONDOMINIO: Riforme
da correggere. Una svista del legislatore rende necessario
intervenire prima del 18 giugno.
Condominio, disabili penalizzati.
Le nuove maggioranze rendono difficile eliminare le barriere.
Una delle conseguenze più imprevedibili (e probabilmente
neppure davvero voluta dal legislatore) della riforma della
disciplina sul condominio contenuta nella legge 220/2012 –che entrerà in vigore il 18 giugno– è l'elevazione della
maggioranza prevista dall'attuale normativa per deliberare
le innovazioni dirette a eliminare le barriere
architettoniche negli edifici privati.
Si tratta di una previsione che di sicuro non trova alcuna
valida giustificazione, eppure l'articolo 27 della legge di
riforma modifica l'articolo 2, comma 1, della legge 09.01.1989, n. 13 e stabilisce, con un rinvio al nuovo
comma 2 dell'articolo 1120 del Codice civile (il quale a sua
volta, rinvia al secondo comma dell'articolo 1136), che
l'assemblea condominiale delibera le innovazioni relative
all'abbattimento delle barriere architettoniche negli
edifici con un numero di voti che rappresenti la maggioranza
degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio.
Invece l'originario (e ancora in vigore fino al 18 giugno)
testo dell'articolo 2, comma 1, della legge 13/1989 ha
consentito finora di approvare queste delibere, purché
adottate in un'assemblea di seconda convocazione, con un
numero di voti che rappresenti il terzo dei partecipanti al
condominio e almeno un terzo del valore dell'edificio.
Se anche l'obiettivo fosse stato quello di rendere la
maggioranza per eliminare le barriere architettoniche più
omogenea a quelle previste da altre similari leggi speciali,
come l'articolo 26 della legge 10/1991 sul risparmio
energetico e l'articolo 2-bis, comma 13, della legge 66/2001
sugli impianti di radiodiffusione satellitare, questa non
sembra proprio una valida ragione per elevare una
maggioranza "agevolata" che risponde a una esigenza sociale
e a un principio costituzionale, come è stato evidenziato
dalle più recenti sentenze emesse dalla Corte di cassazione
sull'argomento.
Infatti, con la sentenza n. 18334/2012 la Cassazione ha
affermato che in generale i rapporti fra condomini devono
essere informati al principio di solidarietà condominiale,
secondo il quale la coesistenza di più appartamenti in un
unico edificio implica di per sé il contemperamento dei vari
interessi, e che quindi il principio di solidarietà
condominiale trova applicazione, a maggior ragione, per la
tutela dei diritti fondamentali dei disabili.
Con la precedente sentenza n. 2156/2012, relativa alla
costruzione di un ascensore nella tromba delle scale con
riduzione dei gradini, la Cassazione ha stabilito che
nell'ambito della valutazione comparativa delle opposte
esigenze (da un parte dei portatori di handicap a installare
l'ascensore e dall'altra dei condomini a continuare a fruire
nella sua interezza della scala, che viene ristretta senza
però diventare inservibile), deve prevalere la prima, in
conformità ai principi costituzionali della tutela della
salute (articolo 32 della Costituzione) e della funzione
sociale della proprietà (articolo 42).
Stando così le cose, non si comprende allora il motivo per
cui il legislatore della riforma ha deciso di elevare
l'attuale maggioranza proprio in un settore che coinvolge
interessi talmente delicati e importanti.
Dovendo la nuova disciplina entrare in vigore fra poco più
di tre mesi è allora auspicabile che la maggioranza sulle
barriere architettoniche venga riportata al suo testo
originario prima di quella data.
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01 | CORREGGERE È NECESSARIO
La riforma del condominio è a 100 giorni dall'entrata in
vigore (prevista per il 18 giugno) e ormai è stata passata
al microscopio da uffici studi ed esperti delle
associazioni, studiosi, magistrati e avvocati. Le criticità
sono emerse e insieme a esse la necessità di intervenire
prima dell'entrata in vigore, per evitare il rischio che la
riforma parte zoppa
02 | LA MOSSA VINCENTE
Per questo Il Sole 24 Ore ha lanciato l'iniziativa di
«correggere la riforma», approfittando del periodo di
"vacanza" di sei mesi concesso dalla norma (la legge
220/2012). Hanno risposto praticamente tutte le associazioni
di condomini e amministratori e gli ordini interessati: Agiai, Alac, Anaci, Anaip, Anammi, Anapi, Apac,
Arpe-Federproprietà, Assocond, Asppi,
Assoedilizia-Confedilizia, Confabitare, Fna, Gesticond,
Ordine degli avvocati di Milano, Unai e Uppi
03 | I PASSAGGI
Il primo passo è già stato fatto: l'iniziativa del Sole 24
Ore ha raccolto le adesioni del settore che, su invito del
giornale, hanno già inviato le loro proposte di modifica.
Compito del Sole è ora quello di elaborarle in un testo di
modifica normativa agile e che risolva i problemi maggiori,
quelli che davvero potrebbero impedire il decollo della
riforma. Il testo sarà condiviso da tutte le associazioni e
verrà presentato in maggio al nuovo Governo.
La presentazione
L'idea di «correggere la riforma del condominio» è maturata
negli scorsi mesi e ieri è stata lanciata sulle pagine del
Sole 24 Ore. I passaggi dell'iniziativa (illustrati qui
accanto) prevedono alla fine un convegno, organizzato dal
Sole 24 Ore, nel quale verrà presentato il disegno di legge,
risultato degli sforzi collettivi del giornale e delle
associazioni del settore
(articolo Il Sole 24 Ore del
07.03.2013). |
CONDOMINIO: Le
novità da salvare. Spazi più ampi per le iniziative dei
singoli proprietari.
Impianti individuali nelle parti comuni.
Via libera per il singolo condomino o anche a un gruppo di
loro all'installazione su parti comuni condominiali di
impianti non centralizzati per la ricezione radiotelevisiva
(le paraboliche) e per l'accesso a qualunque altro genere di
flusso informatico, anche da satellite o via cavo.
Anche se la recente normativa favorisce espressamente la
centralizzazione degli impianti di ricezione, non è certo
impedito al singolo condomino di continuare ad avvalersi di
una antenna individuale o di installarne una nuova: si
tratta del principio di libera manifestazione del pensiero
con ogni mezzo di diffusione previsto dalla Costituzione
(articolo 21). Solo un regolamento condominiale di natura
contrattuale può limitare tale facoltà.
Il nuovo articolo 1122-bis prevede anche la facoltà per il
condomino di installare impianti di energia da fonti
rinnovabili ad uso esclusivo su lastrici o su altra idonea
superficie comune (si veda il Sole 24 Ore di ieri).
Tutti questi interventi, se rispettosi dei divieti di cui si
è detto, possono essere eseguiti dal condomino senza
necessità di preventiva autorizzazione da parte
dell'assemblea e solo semmai sotto il suo vigile controllo.
Attenzione però, perché se l'installazione dei nuovi
impianti comportano delle modificazioni delle parti comuni,
allora l'interessato ha l'obbligo di indicare
all'amministratore il contenuto specifico degli interventi e
le modalità con cui vuole porli in essere.
A questo punto l'assemblea, dopo aver preso atto delle
modifiche che il condomino vuole apportare alle parti
comuni, può prescrivere soluzioni alternative di esecuzione
e imporre cautele a salvaguardia della stabilità, della
sicurezza o del decoro architettonico. La relativa delibera
deve essere assunta con l'elevata maggioranza di cui al
quinto comma dell'articolo 1136 del Codice civile, cioè con
il voto favorevole della maggioranza degli intervenuti in
assemblea portatori di almeno e due terzi dei millesimi. La
pratica condominiale insegna però che simili maggioranze
sono difficilmente raggiungibili in assemblea, quindi al
condomino resterà solo l'obbligo del rispetto dei più
generali limiti impostigli dall'articolo 1102 in tema di uso
particolare delle parti comuni
(articolo Il Sole 24 Ore del
07.03.2013). |
CONDOMINIO: Le
nuove regole. L'entrata in vigore il 18 giugno consente al
Parlamento di evitare che la norma arrivi «zoppa» al
traguardo.
Condominio, riforma da rivedere.
Va risolto il caso delle due maggioranze su opere per il
risparmio energetico.
Nella riforma del condominio sono tante le cose da cambiare
(si veda la scheda qui a fianco) ma tra le sviste del
legislatore sull'uso più o meno inteso delle parti comuni
una è decisamente vistosa: alcune modifiche al Codice civile
ora risultano in aperto contrasto con altri articoli dello
stesso Codice che non sono stati toccati dalla riforma. In
particolare, il nuovo articolo 1120, comma 2, punto 2,
prevede che le innovazioni aventi a oggetto opere e
interventi volti al contenimento del consumo energetico,
quali la produzione di energia attraverso l'uso di fonti
rinnovabili, da parte del condominio o di terzi, sul
lastrico solare o su altra idonea superficie comune, sono
disposte con la maggioranza di cui al secondo comma
dell'articolo 1136: la maggioranza degli intervenuti e
almeno la metà del valore dell'edificio.
Ma lo stesso legislatore è intervenuto a modificare
l'articolo 26, comma 2, della legge 10/1991, che prevede, per
gli stessi interventi, una maggioranza meno qualificata:
quella degli intervenuti, che rappresenti un terzo del
valore dell'edificio. Questa discrepanza così marcata
potrebbe essere giustificata dal fatto che nel secondo caso
la delibera condominiale si fonderebbe su un preventivo
attestato di certificazione energetica o, comunque, su una
diagnosi energetica che consentirebbe ai condomini di
effettuare una scelta più precisa e ponderata. Va anche
detto che in un caso, quello dell'installazione della
termoregolazione, usando l'articolo 26 (nuovo comma 5)
diventa possibile anche l'indispensabile variazione della
ripartizione delle spese, questa volta con la maggioranza
del 1120, comma 2. In ogni caso la mancanza di coordinamento
rischia fortemente di ampliare i contrasti già esistenti in
condominio.
Ma non è finita qui. Il nuovo articolo 1122-bis del Codice
civile consente l'installazione di impianti per la
produzione di energia da fonti rinnovabili, a servizio di
singoli proprietari, sul lastrico solare e su ogni altra
idonea superficie comune, oltre che, naturalmente sulle
parti di proprietà esclusiva dell'interessato senza alcuna
preventiva delibera assembleare al riguardo. Solo qualora
detti interventi vadano a modificare delle parti comuni,
l'interessato è tenuto a darne comunicazione
all'amministratore, indicando le opere che intende eseguire
e le relative modalità di esecuzione delle stesse.
Le differenze sono evidenti. Tutto si gioca sulle parole
"innovazione" e "modifica" delle parti comuni, termini tra i
quali il confine rimane molto labile, soprattutto perché il
legislatore afferma nell'articolo 1120 che questi interventi
siano di natura innovativa per poi, nell'articolo 1122-bis,
ritenere che queste opere, qualora siano nell'interesse di
un singolo proprietario, possano semmai apportare delle
modifiche alle parti comuni. Ma come contemperare questa
norma, che necessariamente prevede un uso della parte comune
a proprio esclusivo vantaggio (i pannelli solari, si sa,
occupano buona parte del tetto), con l'ultimo comma degli
articoli 1120 e 1102, rimasti invariati? In particolare
l'articolo 1120, ultimo comma, vieta di rendere «talune
parti comuni dell'edificio inservibili all'uso o al
godimento anche di un solo condomino» e l'articolo 1102
stabilisce che ciascun partecipante può servirsi della cosa
comune, purché non impedisca agli altri di farne parimenti
uso. Tutto ciò è ovviamente impraticabile: l'installazione a
favore di un singolo condomino di un impianto a pannelli
solari sul tetto o sul lastrico condominiale finirà
inevitabilmente con il compromettere pari uso di questa
parte comune da parte di altro comproprietario.
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I temi più discussi
01|L'AMMINISTRATORE
L'amministratore dovrà avere un diploma delle superiori, la
polizza Rc professionale e aver seguito un corso di
formazione iniziale e quelli periodici. Ma, se ha già svolto
questa funzione per almeno un anno nell'ultimo triennio,
potrà fare a meno di diploma e corso di formazione iniziale.
Se poi è uno dei condòmini, evita anche la Rc professionale
e la formazione periodica. Tra i nuovi obblighi
dell'amministratore c'è quello di chiedere il decreto
ingiuntivo per i morosi, entro sei mesi dal consuntivo in
cui sia indicata la spesa, e di redigere una contabilità
trasparente, con registro di contabilità, riepilogo
finanziario e nota esplicativa della gestione. I condòmini
potranno verificare i giustificativi di spesa in ogni
momento
02|LE DESTINAZIONI D'USO
La possibilità di «modificare» la destinazione d'uso delle
parti comuni è una delle novità principali e apre la strada
alla costruzione di box nel giardino o all'installazione di
impianti di cogenerazione nei locali comuni. Ci vorrà l'80%
dei condòmini e dei millesimi
03|I NUOVI IMPIANTI
Per decidere l'installazione di impianti (sull'intero
edificio) di fonti rinnovabili, ricezione televisiva,
videosorveglianza o per qualunque flusso informativo,
occorre il consenso della maggioranza degli intervenuti
all'assemblea, con almeno 500 millesimi. Gli impianti
individuali sono sempre leciti, salvo il «decoro
architettonico»
04|IL «DISTACCO»
Sancito per legge il diritto al «distacco» dal riscaldamento
centralizzato, ma solo se non emergono notevoli squilibri di
funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condomini
05|ANIMALI
Non sarà più possibile vietare la detenzione di animali
domestici con i regolamenti condominiali votati in assemblea
06|SCALE E ASCENSORI
Per scale e ascensori la suddivisione delle spese sarà
calcolata solo per metà in base al valore millesimale e per
l'altra metà esclusivamente in base al piano in cui si abita
07|IN ASSEMBLEA
Per l'assemblea in seconda convocazione ora ci vogliono
almeno un terzo dei condòmini e dei millesimi, mentre prima
questo minimo era richiesto solo per le delibere. Le
impugnazioni delle delibere possono essere fatte solo dai
condòmini assenti, dissenzienti o astenuti
(articolo Il Sole 24 Ore del
06.03.2013). |
CONDOMINIO:
Condominio.
Per i difetti di costruzione rispondono i proprietari
Non è sempre responsabile il condomino per i danni da cose
in custodia, regolati dall'articolo 2051 del Codice civile.
Infatti, risponde il proprietario, senza alcuna
compartecipazione del condominio, per i danni ricollegabili
ai difetti originari di progettazione o di esecuzione del
lastrico solare, soprattutto se tollerati.
Questo principio
è stato ribadito dalla Corte di Cassazione con la sentenza
n. 2840/2013.
La pronuncia riguarda un condomino –proprietario di una
unità immobiliare posta all'ultimo piano e del sovrastante
lastrico– che ha chiesto la condanna del condominio a
eliminare il dissesto delle strutture del proprio
appartamento provocate dalla mancata manutenzione del
lastrico, o a rifondergli le spese sostenute a questo fine,
oltre al risarcimento dei danni conseguenti alla mancata
utilizzazione dell'immobile.
Il condomino ha ottenuto pronunce favorevoli nei primi due
gradi di giudizio, ma la Cassazione ha ribaltato le sentenze
di merito, accogliendo il ricorso presentato da altri
condomini. La Suprema corte ha evidenziato che i giudici
d'appello, nel condannare il condominio a sostenere la spesa
necessaria per il rifacimento della parte esterna delle mura
perimetrali e del lastrico solare, non hanno dato conto
dell'effettiva origine dei danni. Anzi, secondo i giudici di
legittimità, la corte d'appello ha deciso prescindendo dal
concreto accertamento delle cause dei danni: vale a dire se
fossero riconducibili anche a vizi costruttivi. Mentre
proprio l'accertamento delle cause dei danni, secondo la
Cassazione, guida l'attribuzione dell'onere economico.
Infatti, per i vizi riconducibili a vetustà e a
deterioramento per difetto di manutenzione del lastrico
solare trova applicazione l'articolo 1126 del Codice civile,
che regola la ripartizione delle spese di riparazione fra i
condomini. Invece, con riferimento alla responsabilità per i
danni ricollegabili ai difetti originari di progettazione o
di esecuzione, anche in sede di ricostruzione, del lastrico
solare si applica l'articolo 2051 del Codice civile, con
l'accollo delle spese al proprietario esclusivo, senza
alcuna compartecipazione del condominio (articolo Il Sole 24 Ore
del 04.03.2013). |
febbraio 2013 |
|
CONDOMINIO:
G. Benedetti,
La responsabilità dell’amministratore per la sicurezza del
condomìnio -
Legge 11.12.2012 n. 220
(Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 2/2013 - tratto da
www.ipsoa.it). |
CONDOMINIO: Riforma
forense. Il Cnf cambia linea sull'incompatibilità. Per
l'avvocato è compatibile amministrare il condominio.
L'avvocato potrà continuare serenamente ad amministrare
condomini.
Con il
parere 20.02.2013 espresso dalla Commissione consultiva
del Consiglio nazionale forense è stata ribaltata la
risposta alla faq. n. 32 (poi scomparsa dal sito) sulla
riforma forense.
L'accurata disamina della questione, che prendeva le mosse
dall'articolo 18 della legge 247/2012, esclude
l'incompatibilità in tutte le ipotesi in cui venga svolta
l'attività di amministratore di condominio: anzitutto quella
in cui sia un lavoro dipendente, dato che non si può
instaurare un rapporto di questo tipo tra amministratore e
condominio. Poi quella dell'assunzione della qualità di
socio o amministratore di una società commerciale: il
condominio è assimilabile alla figura del consumatore e
quindi l'amministratore non potrà mai assumere tale
qualifica.
L'amministratore è un mandatario, afferma la Commissione,
quindi questo basta a escludere l'incompatibilità indicata
nell'articolo 18 della legge 247/2012 relativamente
all'esercizio di attività commerciale svolta in nome proprio
o altrui: «l'amministratore, non agendo in proprio, non
esercita nemmeno attività di impresa commerciale in nome
altrui se è vero che nemmeno i mandanti l'esercitano».
Rimane il caso più frequente, quello dell'esercizio di
lavoro autonomo svolta continuativamente o
professionalmente. Secondo la Commissione, proprio perché
l'attività «si riduce, alla fine, all'esercizio di un
mandato con rappresentanza conferito da persone fisiche, in
nome e per conto delle quali egli agisce e l'esecuzione di
mandati, consistenti nel compimento di attività giuridica
per conto ed (eventualmente) in nome altrui è esattamente
uno dei possibili modi di svolgimento dell'attività
professionale forense sicché la circostanza che essa sia
svolta con continuità non aggiunge né toglie nulla alla sua
legittimità di fondo quale espressione, appunto, di
esercizio della professione».
Assoluzione piena, quindi, per gli avvocati amministratori
condominiali, dopo che la precedente faq. n. 32 aveva
suscitato una levata di scudi (si veda Il Sole 24 Ore del 19
febbraio scorso).
La Commissione ha anche approfondito la questione esaminando
la riforma del condominio (legge 220/2012, che entrerà in
vigore il 18.06.2013), chiarendo che non «ha innovato la
figura dell'amministratore perché se ne ha ampliato, sotto
certi profili, poteri e responsabilità, non ha trasformato
l'esercizio della relativa attività in professione vera e
propria, o quanto meno in professione regolamentata» (articolo Il
Sole 24 Ore del 23.02.2013). |
CONDOMINIO: RIFORMA
FORENSE/ I legali fuori dal condominio. L'avvocato non può
avere incarico di amministratore. Il
Cnf ha aggiornato le faq sulla nuova legge professionale.
L'avvocato non può fare l'amministratore
di condominio. E il responsabile delle avvocature degli enti
pubblici deve essere un avvocato. La nuova legge
professionale (n. 247/2012) esclude che il legale possa
occuparsi della gestione dei fabbricati condominiali e
impone che la responsabilità degli uffici legali interni a
una amministrazione sia attribuita a un iscritto all'albo.
Lo chiarisce il Consiglio nazionale forense, che ha
aggiornato le faq sulla riforma forense.
Il Cnf si occupa a tutto campo degli effetti della riforma,
da ultimo con particolare attenzione sul regime delle
incompatibilità.
Amministrazioni condominiali.
La professione di avvocato è incompatibile con l'attività di
amministratore di condominio, che è diventata attività di
lavoro autonomo, svolta necessariamente in modo continuativo
o professionale. A supporto della risposta negativa il Cnf
richiama la nuova disciplina in materia di professioni
regolamentate senza albo (legge n. 4/2013). Dal canto suo la
riforma forense esclude che l'avvocato possa esercitare
qualsiasi attività di lavoro autonomo svolta continuamente o
professionalmente, fatte salve alcune eccezioni tassative.
Tra queste non compare l'amministrazione dei condomini.
Viene così modificata l'impostazione precedente a favore
della compatibilità, motivata tra l'altro dal fatto che in
assenza di un albo degli amministratori di condominio il
professionista può svolgere le due attività permanendo
sottoposto alle norme deontologiche degli avvocati (parere
Consiglio nazionale forense 25.06.2009, n. 26).
Avvocati di enti pubblici.
La legge di riforma fa salvi i diritti acquisiti degli
avvocati già iscritti nell'elenco speciale dei dipendenti di
enti pubblici. Alcune novità sono previste per le nuove
iscrizioni. In particolare bisognerà adeguare il testo dei
contratti individuali. Nel contratto di lavoro, infatti, si
devono scrivere clausole a garanzia dell'autonomia e
indipendenza di giudizio intellettuale e tecnica
dell'avvocato. Inoltre l'ente pubblico deve prevedere la
stabile costituzione di un ufficio legale nella propria
pianta organica, con specifica attribuzione della
trattazione degli affari legali dell'ente. A favore
dell'avvocato si deve prevedere l'esclusiva della
trattazione degli affari legali dell'ente a tale ufficio.
Inoltre il capo dell'ufficio deve essere un avvocato
iscritto all'elenco speciale. Infine l'avvocato responsabile
deve esercitare i propri poteri in conformità con i principi
della legge professionale.
Incompatibilità.
Lo svolgimento della professione è incompatibile con la
qualità di socio illimitatamente responsabile o di
amministratore di società di persone, aventi quale finalità
l'esercizio di attività di impresa commerciale, in qualunque
forma costituite; è incompatibile con la qualità di
amministratore unico o consigliere delegato di società di
capitali, anche in forma cooperativa, e con la qualità di
presidente di consiglio di amministrazione con poteri
individuali di gestione. Sono previste delle eccezioni
qualora l'oggetto della attività della società sia limitato
esclusivamente all'amministrazione di beni, personali o
familiari, e per gli enti e consorzi pubblici e per le
società a capitale interamente pubblico.
Eccezioni.
Tra le eccezioni alle incompatibilità la riforma elenca
l'iscrizione nell'albo dei dottori commercialisti e degli
esperti contabili, nell'elenco dei pubblicisti e nel
registro dei revisori contabili o nell'albo dei consulenti
del lavoro. Inoltre è consentito l'esercizio della
professione a docenti e ricercatori in materie giuridiche di
università, scuole secondarie (pubbliche o private
parificate), istituzioni ed enti di ricerca e
sperimentazione pubblici. Per i docenti (professori ordinari
e associati di ruolo) e ricercatori universitari a tempo
pieno permane l'iscrizione nell'elenco speciale, con al
precisazione che devono esercitare la professione nei limiti
consentiti dall'ordinamento universitario
(articolo ItaliaOggi del 13.02.2013
- tratto da www.corteconti.it). |
CONDOMINIO:
Regolamento quasi blindato.
Per le modifiche la forma scritta è requisito essenziale.
La Cassazione: non si cambia la
destinazione d'uso dei locali solo con accordo unanime.
Le modifiche al regolamento condominiale devono essere
effettuate per atto scritto perché, in mancanza, le stesse
non possono considerarsi produttive di effetti. Il
comportamento concludente osservato nel tempo dai condomini
che non si siano mai opposti ad attività contrarie a un
divieto regolamentare non può quindi mai comportare la
modifica della relativa disposizione.
Il regolamento di natura contrattuale, inoltre, vincola
tutti i condomini, compreso il comproprietario che sia anche
l'originario costruttore dell'edificio ed estensore
materiale dell'atto.
Sono questi i chiarimenti forniti dalla
II Sez. civile della Corte di Cassazione con la
sentenza 05.02.2013 n. 2668.
Il caso concreto. Nella specie un condomino proprietario di
alcuni locali a piano terreno destinati ad autorimessa era
stato citato in giudizio dall'amministratore che lamentava
il mutamento della destinazione d'uso degli stessi,
trasformati in comunità di alloggio per minori e anziani,
nonostante un espresso divieto contenuto nel regolamento
condominiale. Il proprietario si era difeso sostenendo sia
che il regolamento non lo vincolasse, in quanto originario
costruttore dell'edificio e materiale estensore dell'atto,
sia che detto divieto, a fronte della tolleranza mostrata
dalla compagine condominiale, dovesse ritenersi ormai del
tutto venuto meno. Sia in primo che in secondo grado le
eccezioni avanzate dal condomino erano però state ritenute
infondate. Di qui la decisione del proprietario dei locali
di presentare ricorso in Cassazione.
La decisione della Suprema corte. I giudici di legittimità,
nel richiamare sul punto le conclusioni alle quali erano
giunte le sezioni unite nella sentenza n. 943/99, pur
riconoscendo vigente nell'ordinamento il principio generale
della libertà di forme, hanno chiarito che la formazione del
regolamento condominiale deve necessariamente avvenire in
forma scritta, poiché il codice civile prevede (ancor più
dopo la riscrittura dell'art. 1130 operata dalla legge di
riforma n. 220/2012) che lo stesso sia allegato a un
apposito registro.
A maggior ragione, dunque, le eventuali
modifiche di quest'ultimo devono avvenire anch'esse per
iscritto, anche perché se di natura assembleare esse
risulteranno da apposite deliberazioni assembleari da
trascrivere anch'esse nello specifico registro tenuto
dall'amministratore, se di natura contrattuale le stesse
comunque incideranno su diritti reali dei condomini relativi
alle proprietà esclusive o alle parti comuni. Per questo
motivo la Suprema corte ha rigettato il ricorso presentato
dal condomino, condannandolo anche alle spese del giudizio
di legittimità.
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La potestà del proprietario ha limiti.
È convinzione diffusa tra i condomini quella di essere
padroni in casa propria nel senso, cioè, di essere liberi di
realizzare nel proprio appartamento nuovi manufatti o
modifiche interne o di potervi svolgere qualunque tipo di
attività. Spesso, però, a prescindere dai divieti di legge
in campo civilistico ed edilizio, possono esserci specifiche
norme contrattuali del regolamento condominiale predisposto
dal costruttore originario e accettate dai condomini nei
relativi atti di acquisto che possono limitare le facoltà
del singolo comproprietario all'interno delle proprietà
esclusive.
• I limiti del regolamento: il divieto di opere interne o
del mutamento di destinazione.
Se il regolamento contiene una clausola contrattuale che
impedisce di compiere qualsiasi opera interna, il singolo
condomino non può, per esempio, dividere l'abitazione in due
unità immobiliari, riunire due appartamenti con costruzione
di servizi e accessi nuovi, trasferire un bagno da un locale
all'altro, costruire un locale deposito nel giardino ecc. Da
notare che è possibile pure che una norma del regolamento
consenta al singolo condomino di eseguire opere interne, del
tipo di quelle sopra elencate, soltanto previa
autorizzazione dell'assemblea dei condomini.
Una clausola
siffatta, che sia stata accettata dall'intera collettività
condominiale, pone un ostacolo alla realizzazione di opere
interne che vale per tutti i condomini, i quali sono
costretti a rivolgersi all'assemblea per ottenere
un'autorizzazione in deroga. Che poi l'assemblea, con suo
libero apprezzamento, possa consentire a un condomino e
negare a un altro la realizzazione di una determinata opera
è conseguenza naturale di un meccanismo che i condomini
hanno accettato nel regolamento condominiale, rimettendo
alla volontà dell'assemblea tutte le decisioni in proposito.
È anche frequente che clausole regolamentari di natura
contrattuale prevedano un espresso divieto di mutare la
destinazione d'uso delle proprietà esclusive del singolo
condomino. L'obiettivo di tali divieti è quello di evitare
un godimento e un uso dei servizi e delle parti comuni
superiore alle facoltà del condomino che operi la
trasformazione dell'immobile. In presenza di tali
limitazioni, quindi, non è possibile, per esempio, il
mutamento della destinazione dei locali posti nel sottotetto
da uso soffitta in abitazione: è ovvio, infatti, che tale
modifica comporterebbe non solo la predisposizione dei
servizi essenziali di luce, acqua e gas, ma anche un maggior
aggravio di costi per i servizi condominiali e
un'alterazione dell'uso o del godimento degli stessi
rispetto ai limiti della quota millesimale di spettanza del
condomino che abbia trasformato in abitazione il sottotetto.
E naturalmente il discorso può riguardare anche la
trasformazione di negozi in abitazioni, ma anche
l'operazione opposta, cioè la trasformazione di locali
abitativi in negozi.
• Le attività vietate dal regolamento condominiale.
Se nel
regolamento si vogliono vietare alcune attività ma si
utilizzano espressioni generiche che mirano a precisare solo
gli inconvenienti indesiderati, si rende necessario
procedere a un'interpretazione delle relative clausole che
spesso, però, è fonte di controversia destinata a sfociare
in una vertenza giudiziaria. Tuttavia non sempre lo sforzo
interpretativo risulta particolarmente impegnativo. Così,
per esempio, se nel regolamento vi è il divieto di attività
notturna, non sarà certo possibile aprire nello stabile una
panetteria con annesso laboratorio, ma non si potrà
pretendere di evitare la vendita al pubblico di pane durante
il giorno. In ogni caso è opportuno che il regolamento, in
apposita clausola, indichi, con specifica descrizione, il
contenuto delle limitazioni che si intenda porre alle unità
immobiliari che compongono l'edificio.
Così se una norma
(contrattuale) del regolamento, oltre alla destinazione a
privata abitazione, preveda la possibilità di destinare gli
appartamenti solamente ad attività professionali, non sarà
possibile utilizzare gli stessi come discoteca o come bar.
Non è escluso però che nel regolamento del condominio
vengano utilizzati entrambi i criteri di individuazione
delle attività vietate (cioè quello della loro espressa
elencazione, nonché quello del riferimento ai pregiudizi che
si ha intenzione di evitare): in tal caso, secondo la
giurisprudenza, deve ritenersi, da un lato, che l'elenco
delle attività vietate non sia tassativo, dall'altro lato
che tutte le attività specificamente indicate siano di per
sé vietate, senza necessità di verificare in concreto
l'idoneità a recare i pregiudizi sopra detti.
• I limiti della normativa condominiale.
La normativa condominiale di cui agli articoli 1117 e
seguenti del codice civile prevede espressamente il divieto
riferibile al singolo di porre in essere opere sulla
proprietà esclusiva che determinino danni sulle parti
comuni. Tale principio è stato confermato anche dalla
recente legge di riforma del condominio n. 220/2012, che
proibisce lavori nella proprietà del singolo condominio che
danneggino le parti comuni dell'edificio o che determinino
pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro
architettonico dell'edificio. Il discorso, comunque,
riguarda anche quelle parti normalmente destinate all'uso
comune che siano state attribuite in proprietà esclusiva o
destinate all'uso individuale (per esempio le terrazze a
livello).
Inoltre il divieto non sembra riguardare unicamente le opere
che siano eseguite nell'unità immobiliare di proprietà
esclusiva (per esempio la modifica della parete interna di
un appartamento che potrebbe intaccare il muro maestro
comune), ma comprende anche le attività compiute nell'unità
immobiliare esclusiva (come rumore, immissioni odorose
ecc.). In ogni caso, prima di realizzare opere (o attività)
che possano mettere in pericolo le parti comuni, deve essere
preventivamente informato l'amministratore, il quale ne
riferirà quanto prima in assemblea (articolo ItaliaOggi Sette
dell'11.03.2013). |
gennaio 2013 |
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CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Furto in condominio agevolato da ponteggi: chi ne
risponde?
La sentenza in commento si pone sulla scia di quello che può
essere considerato un orientamento giurisprudenziale unanime
e ormai consolidato in tema di responsabilità dell’impresa
appaltatrice e del condominio nell’ipotesi di furto
consumato da persone introdottesi in un appartamento
attraverso i ponteggi installati per i lavori di
restauro/manutenzione dello stabile.
Tale pronuncia si differenzia da quelle emesse fino a questo
momento per la particolarità del caso concreto e per la
conclusione a cui è giunta la Corte d’Appello.
Nel caso de quo, per la prima volta, la Corte
d’Appello, sulla base di un’analisi delle circostanze
fattuali condivisa anche dal Supremo Collegio, ha dato
rilievo ad elementi mai considerati prima d’ora, per quanto
normativamente previsti quale causa di esonero di
responsabilità.
Trattasi del comportamento colposo del condomino vittima del
furto consistente, nel caso de quo, sia nella mancata
adozione di cautele nella conservazione dei gioielli poi
rubati, circostanza che secondo i giudici avrebbe agevolato,
o comunque non evitato, la commissione del furto, sia
soprattutto nell’aver aderito alla delibera con la quale il
condominio decideva di non installare sui ponteggi
l’impianto antifurto perché ritenuto troppo costoso.
Quest’ultimo elemento, in particolare, è stato ritenuto
prevalente e determinante ai fini della decisione, con
conseguente esclusione di ogni responsabilità, non solo in
capo all’impresa esecutrice dei lavori, ma anche del
condominio.
Quest’ultimo, proprio in ragione della decisione assunta,
avrebbe potuto essere considerato l’unico responsabile del
furto, responsabilità che, ai sensi dell’art. 1227 c.c.,
sarebbe stata diminuita in ragione del comportamento colposo
del condomino che non conservava adeguatamente i propri
valori.
All’impresa esecutrice dei lavori invece, essendosi limitata
ad eseguire un ordine impartitegli dal
condominio–committente, non poteva comunque essere imputato
alcun profilo di responsabilità.
Invece, nel caso specifico, l’adesione del condomino alla
delibera condominiale ha finito per annullare la
responsabilità del condominio in quanto il condomino,
aderendo alla decisione del condominio di non installare sui
ponteggi alcun impianto antifurto, si era assunto il rischio
di poter subire un furto.
Brevemente il fatto.
L’attore esponeva di aver subito nella propria abitazione un
furto, assumendo che l’esecuzione dello stesso fosse stata
agevolata dalla presenza di un ponteggio posto sulla
facciata condominiale dall’impresa incaricata di eseguire i
lavori.
Convenne pertanto in giudizio sia il condominio sia
l’impresa appaltatrice, invocandone la responsabilità,
rispettivamente, ai sensi dell’art. 2051 e dell’art. 2043, e
chiedendone la condanna in solido al risarcimento dei danni
subiti.
Il Tribunale adito, applicati gli artt. 2043 e 2051,
accoglieva la domanda attorea.
Proposto appello da parte del condominio e dell’impresa, la
Corte d’Appello di Milano, in totale riforma della sentenza
di primo grado, respingeva le domande proposte nei confronti
degli appellanti.
Proponeva quindi ricorso in Cassazione l’attore in primo
grado.
Il Supremo Collegio confermava in toto la decisione resa in
secondo grado.
Vediamo ora gli orientamenti giurisprudenziali registrati in
materia.
Tradizionalmente la giurisprudenza sia di
merito sia di legittimità individua, nell’impresa
appaltatrice, il soggetto responsabile in via principale ai
sensi dell’art. 2043 c.c. e, nel condominio, il soggetto
responsabile in via concorrente ai sensi dell’art. 2051 c.c.
Ovviamente, la responsabilità sia dell’impresa appaltatrice
sia del condominio nei confronti del condomino è di tipo
extracontrattuale, non essendo quest’ultimo parte del
contratto di appalto stipulato direttamente tra il
condominio e l’impresa esecutrice.
In particolare, la responsabilità dell’impresa appaltatrice
è ravvisata qualora quest’ultima, trascurando le più
elementari norme di diligenza e perizia e la doverosa
adozione delle cautele idonee ad impedire l’uso anomalo
delle impalcature, in violazione del principio del “neminen
laedere”, abbia colposamente creato un agevole accesso
ai ladri, ponendo così in essere le condizioni del
verificarsi del danno
(cfr. ex multis: Appello Roma, Sez. III, 11.01.2011;
Trib. Torino, Sez. IV, 23.07.2008; Cass. Civ., Sez. III,
23.05.2006, n. 12111; Cass. Civ., Sez. III, 12.04.2006, n.
8630; Cass. Civ., Sez. III, 11.02.2005, n. 2844; Cass. Civ.
Sez. III, 10.06.1998, n. 5775; Cass., civ., Sez. III,
23.05.1991, n. 5840; Cass., civ., Sez. III, 24.01.1979, n.
539).
Dal punto di vista processuale, il
condomino che agisce per ottenere il risarcimento dei danni
subiti in conseguenza di un furto deve dimostrare:
• l’evento dannoso, ovvero il furto subito e i danni
conseguenti;
• la condotta colposa del danneggiante, consistente, ad
esempio nella mancata adozione di idonee misure di cautela o
nell’installazione di un sistema non conforme alle
prescrizioni contrattuali;
• il nesso di causalità tra l’evento dannoso e la condotta
colposa.
Dal canto suo, l’impresa appaltatrice, per
andare esente da responsabilità, deve fornire la prova di
avere adottato tutte le cautele atte ad evitare che le
impalcature divengano un agevole accesso ai piani per i
ladri, e quindi idonee ad impedire una più facile esecuzione
dei furti, nonché l’eventuale prova che i ladri non si siano
serviti dei ponteggi per accedere all’appartamento del
condomino vittima del furto.
Il condominio può essere, invece, chiamato
a rispondere del danno patito dal condomino secondo un
duplice titolo di responsabilità, ovvero sia quale custode
del fabbricato ai sensi dell’art. 2051 c.c., sia per
culpa in vigilando od in eligendo, allorché
risulti che abbia omesso di sorvegliare l’operato
dell’impresa appaltatrice oppure ne abbia scelta una
manifestamente inadeguata per l’esecuzione dell’opera,
oppure quando risulti che l’impresa sia stata una semplice
esecutrice degli ordini del committente ed abbia agito quale
“nudus minister” attuandone specifiche direttive
(cfr., ex multis: Trib. Terni, 11.05.2011; Cass.
Civ., Sez. III, 17.03.2009, n. 6435; Trib. Milano, Sez. X,
20.04.2006; Cass. Civ., 09.02.1980, n. 913).
Trattandosi di responsabilità di tipo oggettivo, l’onere
probatorio a carico del condominio risulta in tal caso più
gravoso.
Il condomino, infatti, dovrà limitarsi a fornire la prova
del fatto e del danno subito, mentre il condominio si
libererà solo fornendo prova del caso fortuito, inteso in
senso lato e comprensivo, quindi, del fatto del terzo e
della colpa esclusiva del danneggiato.
Tradizionalmente, per riconoscere al
condomino il diritto al risarcimento dei danni conseguenti
al furto subito, i giudici, sia di merito sia di
legittimità, hanno ritenuto sufficiente la dimostrazione
dell’ingresso dei ladri nell’appartamento per mezzo dei
ponteggi, della presenza dei ponteggi e dell’assenza di
norme di cautela, ritenendo per contro irrilevanti eventuali
comportamenti colposi realizzati dagli stessi condomini
vittime di furti quali, ad esempio, l’aver lasciato aperte
le finestre attraverso le quali erano penetrati i ladri,
oppure l’aver lasciato incustoditi i beni di valore
sottratti (Corte
di Cassazione, Sez. III civile,
sentenza 28.01.2013 n. 1890 -
link a www.altalex.com). |
CONDOMINIO:
Furti, condominio incolpevole.
Non c'è responsabilità quando il ladro usa l'impalcatura.
La Cassazione: niente risarcimento
se l'assemblea ha votato contro l'impianto di allarme.
Per il furto subito da un condomino nel proprio appartamento
e che sia stato agevolato dai ponteggi installati per
procedere ai lavori di manutenzione delle parti comuni non
sono responsabili né l'impresa edile né il condominio ove
risulti che in assemblea i condomini, compreso quello
derubato, abbiano rinunciato a deliberare l'installazione di
sistemi antifurto.
È il principio espresso dalla III Sez. civile della Corte di
Cassazione che, nella recente
sentenza
28.01.2013 n. 1890, si è occupata del
problema della responsabilità del condominio e delle imprese
nel caso di furto in appartamento favorito dalle impalcature
erette per la ristrutturazione dello stabile condominiale.
I fatti di causa.
Questa la vicenda portata alla decisione della Cassazione:
un condomino aveva subito il furto di preziosi custoditi nel
proprio appartamento e il furto, come spesso accade, era
stato agevolato dalla presenza di ponteggi installati da
un'impresa per realizzare lavori di ristrutturazione dello
stabile condominiale. Per quanto sopra il derubato aveva
citato in giudizio sia il condomino sia l'impresa che aveva
montato le impalcature, chiedendo che tribunale condannasse
gli stessi al risarcimento dei danni subiti, cioè al
rimborso di una somma pari al valore dei preziosi sottratti
dall'abitazione.
La sentenza di primo grado aveva accolto i motivi del
ricorrente, ma la stessa era stata impugnata dall'impresa e
dal condominio che, in secondo grado, avevano vinto la
causa. Secondo la Corte d'appello non era, infatti, stata
provata la responsabilità dell'impresa. Secondo i giudici di
secondo grado sebbene il condomino derubato avesse affermato
che il furto si era verificato durante l'orario di lavoro e
le tapparelle della stanza nella quale si trovavano i
gioielli era bloccata, dalla ricostruzione dei fatti
avvenuta in giudizio era emerso invece che la sottrazione
dei preziosi si era prodotta oltre il termine di lavoro
delle maestranze, mentre la tapparella era solo abbassata e
priva di ogni sistema di blocco. Del resto era risultata la
mancata adozione, da parte del condomino, di qualsiasi
cautela idonea a evitare o a rendere più difficoltosa
l'opera di eventuali ladri: i gioielli, infatti, non si
trovavano in cassaforte, ma in una semplice scatola posta
all'interno di un armadio della camera da letto.
La posizione della Cassazione.
Le precedenti considerazioni sono state pienamente condivise
dalla Suprema corte che, in primo luogo, ha contestato
l'assoluta genericità delle critiche mosse dal condomino nei
confronti della decisione della Corte di appello. In ogni
caso i giudici supremi hanno ritenuto corretta la decisione
di merito non già perché il condominio e l'impresa avessero
adottato tutti i provvedimenti necessari a evitare i furti,
ma bensì perché vi era stata una delibera condominiale, a
cui aveva assentito anche il condomino derubato, in cui per
eccessiva onerosità l'assemblea aveva rinunciato
all'installazione dei sistemi di allarme sul ponteggio.
Era stato, infatti, dimostrato che l'impresa aveva
sollecitato l'installazione dell'antifurto proprio perché il
ponteggio poteva facilitare l'ingresso di malintenzionati,
ma l'assemblea condominiale non aveva aderito a tale
richiesta. Il condomino ricorrente, inoltre, non aveva
protetto adeguatamente i gioielli: infatti i preziosi
rubati, nonostante l'ingente valore, erano contenuti in una
scatola custodita nell'armadio e non in una cassaforte o in
un blindato.
In ogni caso il ponteggio non era risultato pericoloso, né
con caratteristiche volte ad agevolare l'intrusione di
malintenzionati nell'appartamento del derubato (posto
all'ottavo piano) (articolo ItaliaOggi Sette
del 04.03.2013). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
TRASFERIBILITA' DEI PARCHEGGI CONDOMINIALI.
L’art. 41-sexies della legge urbanistica 17.08.1942 n.
1150, introdotto dall’art. 18 della L. 06.08.1967 n.
765, il quale dispone che nelle nuove costruzioni debbono
essere riservati appositi spazi per parcheggi, stabilisce
un vincolo di destinazione, imponendo di riservare
detti spazi ad uso diretto dei proprietari delle unità
immobiliari
comprese nell’edificio, e dei loro aventi causa.
Pertanto, sono nulle e sostituite ope legis dalla norma
imperativa, ai sensi dell’art. 1419, comma 2, c.c., le
clausole
dei contratti di vendita che sottraggono le aree predette
al loro obbligatorio asservimento all’uso ed al godimento
dei condomini.
L’art. 12, comma 9, della L. 28.11.2005 n. 246,
modificativo
dell’art. 41-sexies della L. n. 1150/1942, in base
al quale gli spazi per parcheggio possono essere trasferiti
in modo autonomo rispetto alle altre unità immobiliari,
non ha efficacia retroattiva e trova applicazione per
le sole costruzioni non realizzate o per quelle per le
quali,
al momento della sua entrata in vigore, non erano ancora
state stipulate le vendite delle singole unità immobiliari.
Con la sentenza in esame la Cassazione torna ad occuparsi
del vincolo pertinenziale gravante sugli spazi per parcheggi
realizzati in un edificio condominiale.
La vicenda trae origine dalla pretesa avanzata da alcuni
condomini
di un edificio, con area seminterrata destinata a superficie
di parcheggio, nei confronti di una società immobiliare,
la quale si era riservata la proprietà nonché l’uso
esclusivo
del seminterrato in questione, procedendo alla vendita
delle singole unità abitative dell’edificio in via separata
rispetto
all’area accessoria di esso.
Accertato che il seminterrato era, in virtù della
rilasciata licenza
edilizia, destinato all’uso di parcheggio e che tale
destinazione
risultava permanente ai sensi della L. 06.08.1967, n. 765 e della L. 28.02.1985, n. 47, la
controversia
veniva decisa nel merito mediante la condanna della società
immobiliare al risarcimento dei danni subiti dai condomini
per il denegato uso del seminterrato a garage e mediante
la dichiarazione di nullità delle clausole contenute nel
regolamento di condominio e negli atti di compravendita,
nella parte in cui, riservando la proprietà e l’uso
esclusivo
del seminterrato alla società immobiliare, avevano
sottratto
tale spazio alla sua inderogabile destinazione, escludendolo
dalle operazioni di trasferimento.
Contro la decisione della Corte d’Appello la società
immobiliare
proponeva ricorso per Cassazione.
In particolare la società lamentava, per quanto qui di
interesse,
la mancata applicazione, al caso di specie, della normativa
di cui all’art. 12, comma 9, L. 28.11.2005, n. 246,
in base alla quale «gli spazi per parcheggi realizzati in
forza
della L. 17.08.1942, n. 1150, art. 41-sexies, comma 1
non sono gravati da vincoli pertinenziali di sorta né da
diritti
d’uso a favore dei proprietari di altre unità immobiliari e
sono
trasferibili autonomamente da esse», ritenendo che tale
disciplina
possa trovare applicazione anche nei giudizi già pendenti
al momento dell’entrata in vigore della stessa, in cui
non sia ancora stata definita una situazione giuridica con
una
pronuncia passata in giudicato.
E'
noto come, secondo un costante orientamento, l’art.
41-sexies
della L. n. 1150/1942, introdotto dall’art. 18 della L. n.
765/1967, disponendo che nelle nuove costruzioni ed anche
nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse debbano
essere
riservati appositi spazi per parcheggi in misura non
inferiore
ad un metro quadrato per ogni venti metri cubi di
costruzione
(rapporto poi modificato dalla L. 24.03.1989, n.
122, che ha raddoppiato la superficie minima obbligatoria
degli
spazi riservati a parcheggio), ha posto in essere una norma
imperativa ed inderogabile, in correlazione degli interessi
pubblicistici da essa perseguiti, che opera non soltanto nel
rapporto fra il costruttore o proprietario di edificio e l’autorità
competente in materia urbanistica, ma anche nei rapporti
privatistici
inerenti a detti spazi, nel senso di imporre la loro
destinazione
ad uso diretto delle persone che stabilmente occupano
le costruzioni o ad esse abitualmente accedono.
Ciò
comporta, in ipotesi di fabbricato condominiale, che,
qualora
il godimento dello spazio per parcheggio non sia assicurato
in favore del proprietario del singolo appartamento in
applicazione
dei principi sull’utilizzazione delle parti comuni
dell’edificio
o delle sue pertinenze, essendovi un titolo contrattuale
che attribuisca ad altri la proprietà dello spazio
medesimo,
deve affermarsi la nullità di tale contratto nella parte in
cui
sottrae lo spazio per parcheggio alla suddetta inderogabile
destinazione, e conseguentemente deve ritenersi il contratto
stesso integrato ope legis con il riconoscimento di un
diritto
reale di uso di quello spazio in favore di detto condomino,
salva restando la possibilità delle parti di ottenere,
anche giudizialmente,
un riequilibrio del sinallagma contrattuale (così,
ad esempio, Cass., Sez. Un., 17.12.1984, n. 6602).
Tale orientamento non è mutato per effetto della entrata in
vigore della L. 28.02.1985 n. 47, che, all’art. 26
ultimo
comma ha stabilito che gli ‘‘spazi’’ di cui all’art. 18 cit.
«costituiscono
pertinenze delle costruzioni, ai sensi e per gli effetti
degli artt. 817, 818 e 819 del codice civile». Secondo la
Suprema Corte, tale disposizione «non ha portata innovativa,
assolvendo soltanto alla funzione di conferire certezza
testuale
alle già evincibili regole secondo cui detti spazi possono
essere oggetto di atti o rapporti separati, fermo però
restando
quel vincolo pubblicistico» (Cass. civ., sez. II, 17.12.1993, n. 12495).
In definitiva, pertanto, secondo l’orientamento consolidato
«la norma richiamata istituisce fra costruzioni e spazi di
parcheggio
ad esse progettualmente annessi una relazione che
ha connotazione di necessità e di indispensabile
permanenza,
di rilievo pubblicistico e con caratteristiche di realità,
che,
nell’ipotesi in cui la costruzione sia costituita da un
fabbricato
in condominio comporta che detti spazi ricadano fra le
parti comuni dell’edificio condominiale ex art. 1117 c.c.
quando appartengano in comunione a tutti i condomini, ovvero
vengano a costituire oggetto di un diritto, reale, di uso
spettante ai condomini medesimi quando la relativa
proprietà
competa a terzi estranei alla collettività condominiale o a
uno solo dei componenti di questa»; «la normativa in
discorso
non vieta la negoziazione separata delle costruzioni e delle
aree di parcheggio ad esse pertinenti, ma esclude che tale
negoziazione possa incidere sulla permanenza del vincolo
reale di destinazione gravante sulle aree cennate» (così
Cass. civ., sez. II, 13.04.1998, n. 3422).
Come è noto, nel 2005 è intervenuto sul punto il
legislatore,
prevedendo che «Gli spazi per parcheggi realizzati in forza
del primo comma dell’art. 41-sexies L. n. 1150/1942 non sono
gravati da vincoli pertinenziali di sorta né da diritti
d’uso a
favore dei proprietari di altre unità immobiliari e sono
trasferibili
autonomamente da esse» (L. n. 246/2005).
La novità legislativa ha immediatamente suscitato un
dibattito
circa la sua applicabilità rispetto ai contratti già
conclusi.
Nella sentenza che si commenta, la Suprema Corte si conforma
alle sue precedenti pronunce sul punto, affermando
che la nuova disposizione trova applicazione soltanto per il
futuro, vale a dire per le sole costruzioni non realizzate o
per
quelle per le quali, al momento della sua entrata in vigore,
non erano ancora state stipulate le vendite delle singole
unità
immobiliari; l’efficacia retroattiva della norma va pertanto
esclusa (cfr. Cass. civ., sez. II, 24.02.2006, n.
4264; 13.01.2010, n. 378; 05.06.2012, n. 9090) (Corte
di
Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 24.01.2013 n. 1753
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 4/2013). |
CONDOMINIO:
Condominio. Le norme del regolamento.
Decoro, ok a limiti più severi del Codice.
L'ECCEZIONE/
I vincoli di tipo contrattuale possono superare anche le
previsioni di legge modificate dalla riforma.
Il regolamento condominiale può vietare qualunque
alterazione del decoro architettonico dell'edificio purché
sia di natura contrattuale.
Lo sottolinea la Corte di Cassazione, Sez. VI civile,
nella
sentenza
24.01.2013 n. 1748.
Alcuni proprietari pro indiviso di
un'unità immobiliare in un edificio, avevano citato in
giudizio il proprietario di una costruzione limitrofa con
giardino, sul quale era stata edificata una struttura in
aderenza all'immobile di loro proprietà, sino all'altezza
del lastrico solare. L'obiettivo era quello di ottenere la
demolizione della struttura, perché questa aveva alterato il
decoro architettonico del complesso edilizio, in violazione
dell'articolo 1120 del Codice civile, della normativa del
Regio decreto 1165 del 1938 e del regolamento condominiale.
Mentre il tribunale accoglieva la domanda, condannando il
convenuto a demolire l'edificazione e a pagare le spese di
lite, la corte di appello, con una decisione basata
sull'articolo 1120 del Codice civile, escludeva la lesione
del decoro architettonico dell'edificio, ritenendo che il
manufatto vi si inserisse perfettamente, non solo perché
riproduceva analoghe strutture, ma perché presentava la
stessa tipologia di immagine, di materiali, di finiture e di
colorazioni dell'intero complesso.
La Cassazione, nell'accogliere parzialmente il ricorso, ha
invece stabilito che in materia di condominio «l'autonomia
privata consente alle parti di stipulare convenzioni che
pongano limitazioni, nell'interesse comune, ai diritti dei condòmini, sia relativamente alle parti comuni, sia riguardo
al contenuto del diritto dominicale sulle parti di loro
esclusiva proprietà, senza che rilevi che l'esercizio del
diritto individuale su di esse si rifletta o meno sulle
strutture o sulle parti comuni. Ne discende che
legittimamente le norme di un regolamento di condominio –aventi natura contrattuale, in quanto predisposte dall'unico
originario proprietario dell'edificio e accettate con i
singoli atti di acquisto dai condomini ovvero adottate in
sede assembleare con il consenso unanime di tutti i
condomini– possono derogare od integrare la disciplina
legale ed in particolare possono dare del concetto di decoro
architettonico una definizione più rigorosa di quella
accolta dall'articolo 1120 del Codice civile».
Questo principio, esposto in precedenti sentenze e ribadito
nella sentenza 1748/2013, è sempre fatto salvo, nonostante
la legge di riforma del condominio, nel modificare
l'articolo 1122 del Codice civile, abbia disposto che,
nell'unità immobiliare di sua proprietà o destinata all'uso
individuale, il condòmino non può eseguire opere che
danneggino le parti comuni o determino pregiudizio alla
stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico
dell'edificio.
Il richiamo allo stesso «pregiudizio» è previsto in
altri due articoli di nuova formulazione: l'articolo
1117-ter (modifica delle destinazioni d'uso delle parti
comuni), e l'articolo 1122-bis (installazione di impianti
non centralizzati di ricezione radiotelevisiva e di
produzione di energia da fonti rinnovabili). Poiché tutti
gli articoli citati sono derogabili, il regolamento di
condominio di natura contrattuale può riportare un concetto
più o meno rigoroso di «decoro architettonico» al
quale ogni condomino dovrà attenersi (articolo Il Sole 24 Ore del 18.02.2013). |
CONDOMINIO:
Il singolo condòmino ha
la facoltà di eseguire opere che siano strettamente
pertinenti alla sua unità immobiliare, sotto i profili
funzionale e spaziale, con la conseguenza che egli va
considerato come soggetto avente titolo per ottenere a nome
proprio l’autorizzazione o la concessione edilizia
relativamente a tali opere (vedansi, in particolare, gli
articoli 1122 e 1127 del codice civile).
- Premesso:
Alla signora G., persona disabile proprietaria con il
coniuge di due unità residenziali (5^ piano ed attico) nel
condominio in via ... di Conegliano, venivano ingiunti dal
comune la demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi
per l’abusiva realizzazione al piano attico di un locale
accessorio ad uso lavanderia-stenditoio (ordinanza
16.02.2006 n. 33-prot. 8098), in conseguenza del voto
contrario all’esecuzione dei lavori espresso dall’assemblea
condominiale.
Tale parere era motivato con richiamo all’art. 53 del
regolamento edilizio, il quale consente la costruzione di
locali accessori con un massimo di mc. 150 per fabbricato,
da realizzare esclusivamente in aderenza al corpo di
fabbrica principale.
...
- Considerato:
L’odierna controversia è caratterizzata dal fatto che le
opere edili in questione -destinate ad alleviare la
disabilità della ricorrente ma contestate dal comune
resistente con riguardo al dissenso manifestato dal
condominio, il quale non intende neanche adattare la
lavanderia condominiale non agibile- devono essere
realizzate all’attico nella porzione di piano in proprietà
individuale della condòmina deducente, a sue cure e spese,
senza interessamento delle parti comuni dell’edificio se non
per l’aderenza a murature perimetrali condominiali e senza
arrecare pregiudizio agl’immobili di proprietà esclusiva di
altri condòmini (i quali perciò non sono privati, né
collettivamente né singolarmente, di nessuna pur minima
utilità dominicale, concreta o potenziale).
Dette opere, le quali non rendono talune parti comuni
dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un
solo condomino, non sono quindi in contrasto con la
specifica destinazione delle parti comuni e non vanno ad
incidere sulla proprietà condominiale, laddove il
condominio, che è un mero ente di gestione unicamente
deputato a gestire le parti comuni dell’edificio e la
funzionalità dei servizi d’interesse comune dei singoli
condòmini, ha assunto una condotta emulativa nel negare
comodità elementari per nulla pregiudizievoli agli altri
condòmini, ma indispensabili per la ricorrente.
La legge 09.01.1989 n. 13, recante disposizioni per favorire
l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici
privati e che consente, tra l’altro, le innovazioni
finalizzate a realizzare idonei accessi alle parti comuni
degli edifici e alle singole unità immobiliari a determinate
condizioni (maggioranze previste dall’art. 1136, commi
secondo e terzo, del codice civile, ovvero l’esecuzione
diretta a proprie spese, in caso di rifiuto o silenzio da
parte del condominio), nel caso qui in trattazione non è
neppure rilevante, perché il singolo condòmino ha la facoltà
di eseguire opere che siano strettamente pertinenti alla sua
unità immobiliare, sotto i profili funzionale e spaziale,
con la conseguenza che egli va considerato come soggetto
avente titolo per ottenere a nome proprio l’autorizzazione o
la concessione edilizia relativamente a tali opere (vedansi,
in particolare, gli articoli 1122 e 1127 del codice civile).
Non è pertanto comprensibile neanche il comportamento
contraddittorio assunto nella vicenda dal comune, il quale
da un canto attribuisce valore ostativo al parere contrario
all’esecuzione dei lavori in argomento espresso
dall’assemblea condominiale, e dall’altro assume come
possibile l’utilizzazione da parte della ricorrente della
volumetria autorizzabile di 150 mc. per la realizzazione di
locali accessori (art. 53 del regolamento edilizio), in
quota proporzionale ai millesimi di proprietà.
Per concludere, il ricorso va accolto sotto i profili della
contraddittorietà e del difetto d’istruttoria della domanda
edilizia, annullando l’atto impugnato e fatti salvi gli
ulteriori provvedimenti dell’amministrazione comunale,
tenuta a riprovvedere sulla questione (Consiglio di Stato,
Sez. I,
parere 18.01.2013 n. 141 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO:
Beni comuni, modifiche libere.
Basta la maggioranza. Caso a parte è l'innovazione.
Una sentenza della Cassazione chiarisce quali
sono i poteri decisionali dell'assemblea.
L'assemblea condominiale può, a maggioranza, modificare o
addirittura sopprimere un servizio comune, anche se questo è
stato istituito e disciplinato dal regolamento, a patto che
ciò non vada a incidere sui diritti dei singoli condomini.
Rientra, infatti, nei poteri dell'assemblea disciplinare i
beni e i servizi comuni per assicurarne una migliore e più
razionale utilizzazione, anche quando ciò comporti la
dismissione o il trasferimento degli stessi.
Lo ha stabilito la II Sez. civile della Corte di
Cassazione nella
sentenza
16.01.2013 n. 945.
Il caso concreto. Due condomini avevano citato dinanzi al
tribunale il proprio condominio per impugnare la delibera
con la quale era stato autorizzato a maggioranza il
passaggio della tubazione del gas in facciata e l'uso
dell'attuale pattumiera per alloggiare il nuovo contatore e
l'eventuale caldaia di produzione di acqua calda. Il
condominio aveva quindi resistito alla domanda sostenendo
che i collettori condominiali dei rifiuti avevano da tempo
perso la loro originaria destinazione comune e non ne
avevano acquistata un'altra e che pertanto la delibera era
stata assunta legittimamente, in quanto non aveva a oggetto
un'innovazione ai sensi dell'art. 1120 c.c..
Il tribunale
aveva rigettato la domanda e i condomini avevano quindi
interposto appello, ottenendo la revisione della sentenza.
La Corte di merito aveva infatti ritenuto che la decisione
dell'assemblea di allocare nel vano destinato alla
pattumiera il contatore e l'eventuale caldaia del gas
costituisse certamente una innovazione, non vietata ma pur
sempre implicante un utilizzo esclusivo, sia pure
frazionato, della parte comune, radicalmente diverso da
quello passato e da quello presente, ma non per questo
irrilevante: la presenza ai piani inferiore e superiore
delle caldaie a gas, il passaggio dei tubi, l'eventuale
esecuzione dei lavori per la messa a norma degli impianti
dovevano infatti considerarsi tutti atti innovativi,
conseguenti alla delibera. Quest'ultima, pertanto, avrebbe
dovuto essere approvata con la maggioranza dei due terzi del
valore dell'edificio, che nella specie non era stata
raggiunta. Di qui il ricorso in Cassazione da parte del
condominio.
La decisione della Suprema corte. La seconda sezione civile
della Cassazione, nell'accogliere il ricorso del condominio,
ha in primo luogo chiarito come l'assemblea abbia il potere
di decidere sull'intera gestione dei beni, degli impianti e
dei servizi comuni. Poiché nella gestione delle parti comuni
sulla base del criterio dell'unanimità la volontà contraria
di un solo partecipante al condominio sarebbe sufficiente a
impedire ogni decisione dell'assemblea, a parere della
Suprema corte basta una deliberazione a maggioranza per
modificare, sostituire o eventualmente sopprimere un
servizio, purché si rimanga nei limiti della disciplina
delle modalità di svolgimento del medesimo, senza incidere
sui diritti dei singoli condomini.
Per quanto riguarda le innovazioni, i giudici di legittimità
hanno quindi ricordato che, ai sensi dell'art. 1120 c.c., è
da considerarsi tale non qualsiasi modificazione della cosa
comune, ma solamente quelle che alterino l'entità materiale
del bene operandone la trasformazione, ovvero determinino la
trasformazione della sua destinazione, nel senso che detto
bene presenti, a seguito delle opere eseguite, una diversa
consistenza materiale ovvero sia utilizzato per fini diversi
da quelli precedenti l'esecuzione delle opere. Ove invece la
modificazione della cosa comune non assuma tale rilievo, ma
risponda allo scopo di un uso del bene più intenso e
proficuo, si versa nell'ambito di applicazione di quanto
previsto dall'art. 1102 c.c. in tema di comunione.
Nel caso di specie è stato quindi ritenuto che la decisione
dell'assemblea condominiale di sigillare le cosiddette canne
pattumiere non comportasse l'approvazione di un'innovazione
vietata, ma consistesse soltanto in una diversa modalità di
svolgimento del servizio di smaltimento dei rifiuti, che può
essere adottata dalla maggioranza dei condomini sulla base
di valutazioni di opportunità che, come tali, rimangono
insindacabili, quanto al merito, da parte dell'autorità
giudiziaria (articolo ItaliaOggi Sette
del 04.02.2013). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Parcheggi, in vendita ciò che resta. La corte di
cassazione sulle aree del fabbricato.
Una volta raggiunta la minima percentuale di
spazio-parcheggio, le altre aree del fabbricato, non
costituendo pertinenza, possono essere liberamente vendute,
locate o formare oggetto di altri negozi giuridici.
Lo ha
stabilito la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la
sentenza 16.01.2013 n. 943.
Più
propriamente, l'esimio Consesso, richiamandosi a una sua
precedente decisione adottata a Sezioni Unite, ha –definitivamente– chiarito che, in virtù dell'art. 18,
ex lege 06.08.1967, n. 765 in materia di destinazione d'uso
dei parcheggi condominiali, i «posti auto» realizzati in
eccedenza rispetto alla superficie minima normativamente
richiesta non sono soggetti a vincolo pertinenziale a favore
delle unità immobiliari del fabbricato.
Una decisione,
questa, peraltro già consacrata in due precedenti
«interventi», i quali –a loro volta e, nello specifico,–
hanno, chiaramente, concluso per la non estensibilità delle
aree eccedenti la percentuale contemplata dal succitato art.
18, ragion per cui la cessione in proprietà delle aree
stesse in favore degli occupanti delle unità abitative di
cui si compone il plesso condominiale è da ritenersi
esclusa. Del resto, anche la dottrina è unanime
nell'inquadrare i parcheggi che eccedono lo standard
vincolistico tra quelli a cd. «circolazione libera».
È,
quindi, pacifico che l'originario proprietario-costruttore
del fabbricato potrà, legittimamente, riservarsi o cedere a
terzi la proprietà dei parcheggi de quibus,
ovviamente nel rispetto del vincolo di destinazione nascente
da atto d'obbligo
(articolo ItaliaOggi del 25.04.2013). |
CONDOMINIO: Casa.
Le novità per i creditori.
In condominio la «solidarietà» è condizionata.
La riforma del condominio ripristina, in parte, il principio
di solidarietà passiva dei condomini, disatteso dalla più
recente giurisprudenza.
Con la decisione 9148/2008 le sezioni unite della Cassazione
avevano, infatti, stabilito che la responsabilità dei
condomini è retta dal criterio della parziarietà, per cui le
obbligazioni assunte nell'interesse del condominio si
imputano ai singoli componenti soltanto in proporzione delle
rispettive quote. Ne derivava che il creditore potesse
rivolgere la domanda di pagamento ai condomini solo in
proporzione alla singola quota debitoria e quindi, se
rimasse insoddisfatto, dovrebbe rivolgersi ai morosi,
controllando lo stato dei pagamenti e le tabelle millesimali
del condominio.
La decisione della Cassazione ha sollevato non poche
critiche; e con la riforma del condominio (legge 22.07.2012)
il legislatore ha reintrodotto, almeno in parte, la
solidarietà del debito del condominio. Il nuovo articolo 65
della Disposizioni di attuazione del Codice civile stabilisce
che i creditori possono agire anche nei confronti degli
obbligati in regola con i pagamenti ma solo dopo
l'escussione degli altri condomini. Inoltre, l'azione del
terzo viene agevolata dalla nuova disposizione (articolo 93
delle Disposizioni di attuazione) che fissa l'obbligo
dell'amministratore di comunicare ai creditori non ancora
soddisfatti che lo interpellino i dati dei condomini minori.
Resta da stabilire con quali modalità il terzo creditore
possa agire contro i condomini adempienti per la morosità di
altro condomino. Alcuni interpreti ritengono che il terzo
non debba solo chiedere il pagamento del dovuto ai condomini
morosi con lettera o atto di messa in mora, ma debba prima
agire in via esecutiva contro questi condomini morosi e solo
dopo possa recuperare il suo denaro dagli altri. I tempi,
quindi, diverrebbero molto lunghi.
La novità legislativa sembra comunque confermare il
principio in base al quale la sentenza ottenuta contro il
condominio costituisce titolo esecutivo nei confronti dei
singoli condomini in via solidale tra loro, ancorché non
indicati nominativamente e non siano stati dichiarati
responsabili solidalmente. Va però ricordato che il
creditore che ha già ottenuto sentenza definitiva di
condanna al pagamento di una somma di danaro nei confronti
del condominio, è carente di interesse ad agire nei
confronti del singolo condomino per il pagamento pro quota
della medesima somma (Cassazione, sentenza 20304/2004).
Complica la questione una decisione di merito che ha
affermato che non può accogliersi l'istanza di rilascio di
tante copie in forma esecutiva del predetto titolo per
quanti sono i condomini nei confronti dei quali si intenda
procedere esecutivamente pro quota, perché può agirsi solo
in base a specifico ed autonomo titolo esecutivo
relativamente alle singole quote da accertarsi in sede di
giudizio anche a cognizione sommaria (Tribunale di Catania,
sentenza del 20.05.2009).
Intanto la possibile responsabilità solidale dei condomini è
di fatto ridotta con la nuova previsione dell'articolo 1135,
n. 4, che stabilisce che l'assemblea provvede alle opere di
manutenzione straordinaria e alle innovazioni costituendo
obbligatoriamente un fondo speciale di importo pari
all'ammontare dei lavori. Raccolto doverosamente
dall'amministratore l'intero importo dei lavori da eseguire,
resta scoperta solo la eventuale ulteriore quota per le
variazioni e le aggiunte apportate in corso di opera, che
andrebbero comunque approvate preventivamente dall'assemblea
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.01.2013). |
CONDOMINIO: Telecamere, privacy
inviolata.
Sulla videosorveglianza a deliberare è la maggioranza.
La Cassazione: non ci sono gli estremi del delitto di
interferenze illecite nella vita privata.
Via libera alla videosorveglianza delle aree condominiali,
con deliberazione a maggioranza da parte dell'assemblea. La
nuova legge n. 220/2012 di riforma della disciplina del
condominio degli edifici ha, infatti, chiarito che rientra
fra le competenze assembleari la decisione in merito
all'installazione delle telecamere sulle parti comuni e ha
stabilito le necessarie maggioranze. Nel frattempo la Corte
di cassazione ha precisato che l'installazione di sistemi di
videosorveglianza non viola la privacy. Non sussistono,
infatti, gli estremi del delitto di interferenze illecite
nella vita privata (art. 615-bis del codice penale) nel caso
in cui un condomino effettui riprese dell'area condominiale
destinata a parcheggio e del relativo ingresso, trattandosi
di luoghi destinati all'uso di un numero indeterminato di
persone e, pertanto, esclusi dalla tutela penale, la quale
concerne una particolare relazione del soggetto da tutelare
con l'ambiente in cui questi vive la sua vita privata, in
modo da sottrarla a ingerenze esterne.
Lo ha ribadito la
Corte di Cassazione (Sez. II civile), nella
sentenza
03.01.2013 n. 71.
Nel caso in questione un condomino, visti i ripetuti atti
vandalici perpetrati da ignoti a danno delle parti comuni e
delle parti di proprietà esclusiva, non registrando
intervento alcuno da parte dell'amministrazione
condominiale, aveva deciso di provvedere unilateralmente
all'installazione di un impianto di videosorveglianza sulle
aree condominiali, chiedendo poi agli altri comproprietari
di rimborsagli pro quota la spesa anticipata.
Uno dei
condomini si era però rifiutato di pagare la sua parte e la
vicenda era giunta dapprima dinanzi al giudice di pace e,
quindi, addirittura presso la Suprema corte. Occorre
segnalare come nella specie il giudice di merito avesse
deciso la controversia secondo equità, pronunciandosi in
favore del condomino che si era attivato per la gestione
dell'impianto.
Questo tipo di sentenze, però, sono
impugnabili per Cassazione soltanto in relazione ai principi
informatori della materia, restando invece preclusa la
denunzia di violazione di specifiche norme di diritto
sostanziale. Nel caso in questione la condòmina ricorrente
non aveva assolto a tale onere probatorio e, quindi, anche
per tale motivo, il ricorso era stato integralmente
rigettato.
La Suprema corte, pur non potendosi pronunciare nel merito
della questione civilistica, ha tuttavia ricordato il
costante orientamento relativo alla non punibilità di tali
comportamenti ai sensi dell'art. 615-bis del codice penale (articolo
ItaliaOggi Sette dell'11.02.2013). |
CONDOMINIO: CASSAZIONE/
Decisione unilaterale giustificata dall'urgenza: rimborsate
le spese. Condomini, telecamere libere.
Chi vuole proteggersi dai furti non ha bisogno del voto.
Meno privacy nei condomini. Infatti, il condomino può
installare, senza preventivo consenso dell'assemblea, una
telecamera nel parcheggio oggetto di furti. Non solo. Si
tratta di una decisione unilaterale giustificata
dall'urgenza che dà quindi diritto al rimborso delle spese
sostenute.
È quanto affermato dalla Corte di Cassazione con
la sentenza 03.01.2013 n. 71.
In particolare la
seconda sezione civile del Palazzaccio ha respinto il
ricorso di un consorzio che lamentava l'installazione da
parte di un altro condomino, senza autorizzazione degli
altri proprietari. L'impianto era stato fatto perché l'area
era stata spesso oggetto di furto. Quindi il giudice di pace
aveva considerato la spesa affrontata da un solo
proprietario urgente e quindi rimborsabile. Non solo, ad
avviso del magistrato onorario non poteva ravvisarsi alcuna
violazione della privacy.
L'impianto della motivazione di
merito è stato integralmente confermato dalla Suprema corte
che, su quest'ultimo fronte ha ricordato che «non sussistono
gli estremi atti ad integrare il delitto di interferenze
illecite nella vita privata (art. 615-bis cod. pen.) nel
caso in cui un soggetto effettui riprese dell'area
condominiale destinata a parcheggio e del relativo ingresso,
trattandosi di luoghi destinati all'uso di un numero
indeterminato di persone e, pertanto, esclusi dalla tutela
di cui all'art. 615-bis cod. pen., la quale concerne, sia
che si tratti di «domicilio», di «privata dimora» o
«appartenenze di essi», una particolare relazione del
soggetto con l'ambiente in cui egli vive la sua vita
privata, in modo da sottrarla ad ingerenze esterne
indipendentemente dalla sua presenza».
Per quanto concerne invece il rimborso delle spese sostenute
in via d'urgenza, i giudici con l'Ermellino hanno, anche in
questo caso, confermato il verdetto del giudice di pace
ritenendo sussistente il diritto al rimborso da parte del
condomino.
Infatti, si legge in sentenza, «il ricorrente, con il
primo motivo, pur facendo genericamente riferimento ad un
principio del nostro ordinamento in tema di spese
condominiali, ha, in concreto, lamentato a tale riguardo la
sola violazione della norma di cui all'art. 1134 cod. civ.,
dolendosi della non ricorrenza dei presupposti per
l'anticipazione e la rimborsabilità di spese condominiali,
senza peraltro neppure dedurre come la regola equitativa
individuata dal giudice di pace si ponga in contrasto con il
predetto principio; né peraltro allega che il supposto
principio desunto dall'art. 1134 cod. civ. sia anche un
principio informatore della materia né tanto è allegato in
relazione al pur invocato principio di tutela di
riservatezza e della privacy»
(articolo ItaliaOggi del 04.01.2013). |
anno 2012 |
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dicembre 2012 |
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CONDOMINIO: Con
la riforma nuove procedure per arginare le attività
contrarie alle destinazioni d'uso.
Parti comuni, tutele
rafforzate.
Modifiche più semplici, purché senza danni per i singoli.
Per trasformare un parcheggio condominiale in area verde, o
viceversa, basterà la maggioranza assembleare. Tra le novità
più interessanti contenute nella riforma del condominio
meritano particolare risalto le nuove regole relative alla
modificazione della destinazione d'uso delle parti
condominiali e quelle collegate per la protezione di
quest'ultima dalle attività dannose e/o pregiudizievoli.
In particolare il nuovo art. 1117-ter sembra ammettere la
possibilità che un bene/impianto comune possa essere
trasformato fino a consentirne un uso completamente estraneo
rispetto alla sua originaria destinazione oggettiva e
strutturale. Si tratta di situazioni nelle quali alcuni
condomini possono subire diminuzioni dei loro diritti: si
pensi al caso del condominio con accesso dal giardino che, a
seguito di delibera assembleare, venga trasformato in
piscina o campo da tennis. Quanto sopra trova conferma nella
nuova maggioranza richiesta per approvare detti interventi
(quattro quinti del valore dell'edificio, cioè 800
millesimi, oltre a un identico numero di partecipanti), così
elevata da apparire normalmente irraggiungibile (quanto meno
rispetto alle presenze solitamente ottenibili in assemblea).
La tutela contro attività contrarie alle destinazioni d'uso.
L'articolo 1117-quater detta poi una specifica procedura per
la tutela contro eventuali attività contrarie alle
destinazioni d'uso delle parti comuni da parte del singolo
condomino. La norma non chiarisce come debba intendersi
l'incidenza negativa di una diversa destinazione d'uso e ci
si potrebbe così spingere fino a considerare
pregiudizievole, per esempio, la destinazione di un
appartamento a discoteca, trattandosi di attività non solo
contraria alla tranquillità della collettività condominiale,
ma che comporta un uso particolarmente intenso delle parti
comuni (numero elevato di clienti, musica ad altro volume
ecc.).
Nella dizione di attività rientrano certamente quei
comportamenti dei singoli condomini che arrivano ad alterare
la destinazione d'uso di una parte comune. Così è pacifico
che se il singolo condomino apra un varco nel muro di cinta
dell'edificio, mettendo in comunicazione la corte esterna di
sua esclusiva proprietà con la strada pubblica, l'apertura
praticata alteri la destinazione d'uso del muro, incidendo
sulla sua funzione di recinzione e di protezione e annulla
il beneficio che gli altri condomini traggono dall'utilità
che il muro di cinta comune oggettivamente apporta alle loro
proprietà.
E ancora, per esempio, posto che i pianerottoli, quali
componenti essenziali delle scale comuni, hanno funzione di
destinazione al migliore godimento dell'immobile da parte di
tutti i condomini, non possono essere trasformati dal
proprietario dell'appartamento che su di essi si affacci
mediante l'incorporazione dei medesimi nel proprio
appartamento, in tal modo impedendo l'uso comune del bene.
Allo stesso modo la condotta del condomino che mantenga
ferma per lunghi periodi di tempo la sua autovettura nel
parcheggio comune manifesta l'intenzione di possedere il
bene in maniera esclusiva, trattandosi di un'occupazione
stabile di una porzione del posteggio comune. Di conseguenza
detta condotta costituisce una sorta di abuso, impedendo
agli altri condomini di partecipare all'utilizzo dell'area
comune.
In tali ipotesi di uso abnorme delle parti comuni è stata
quindi prevista dalla legge di riforma una nuova procedura
per reagire all'illegittimo comportamento del condominio. In
particolare è prevista non solo la diffida
dell'amministratore o del singolo condomino contro
l'esecutore (altro condominio, inquilino, comodatario ecc.),
ma anche la possibilità per l'amministratore o il condomino
di provocare la convocazione dell'assemblea per far cessare
la violazione, anche mediante azioni giudiziarie. In ogni
caso bisogna sottolineare che l'assemblea (oltre che
annualmente in via ordinaria per le deliberazioni indicate
dall'art. 1135 del codice) può essere convocata in via
straordinaria dall'amministratore quando questi lo ritenga
necessario o quando ne sia fatta richiesta da almeno due
condomini che rappresentino un sesto del valore
dell'edificio.
Decorsi inutilmente 10 giorni dalla richiesta, i detti
condomini possono provvedere direttamente alla convocazione.
Se poi l'amministratore non è stato nominato, l'assemblea
per far cessare la violazione può essere convocata a
iniziativa di ciascun condomino. In ogni caso l'assemblea
delibera in merito alla cessazione di tali attività lesive
della destinazione d'uso delle parti comuni con un numero di
voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e
almeno la metà del valore dell'edificio
(articolo ItaliaOggi Sette del
31.12.2012). |
CONDOMINIO: Pubblicate
in G.U. le nuove disposizioni sui condomini, in vigore anche
per quelli complessi. Una riforma senza esclusioni.
Disciplina estesa a villette a schiera o centri residenziali.
Disciplina condominiale ad ampio raggio. La legge di
riforma, la n. 220 dell'11/12/2012, pubblicata sulla
Gazzetta Ufficiale n. 293 del 17 dicembre scorso, ha infatti
definitivamente chiarito che la nuova disciplina si applica
anche ai condomini complessi, o supercondomini, ai c.d.
condomini orizzontali e anche nelle ipotesi di
multiproprietà.
In altri termini, la normativa dettata per i caseggiati
costituiti da un unico corpo si applica anche a quei
complessi edilizi sempre più articolati, distinti in diversi
corpi di fabbrica, dotati di autonomia strutturale, ma
caratterizzati dalla presenza di una serie di opere e
servizi comuni a tutto il complesso edilizio. Tale principio
riguarda il grande caseggiato composto da una pluralità di
corpi di fabbrica affiancati l'uno all'altro, con le scale,
gli ingressi e la copertura distinti, ma aventi in comune
determinate parti essenziali o utili, e il gruppo di
palazzine signorili o di palazzi con numerosi piani, i quali
in comune beneficiano di alcuni beni, impianti e servizi
necessari per l'esistenza o per l'uso, ovvero destinati
all'uso o al servizio comune.
Il nuovo art. 1117-bis del codice civile, introdotto dalla
legge di riforma, chiarisce quindi che la disciplina del
condominio si applica, in quanto compatibile, in tutti i
casi in cui più unità immobiliari o più edifici ovvero più
condomini di unità immobiliari o di edifici abbiano parti
comuni (per esempio, i muri maestri, i pilastri di ferro o
di cemento armato legati tra loro dalle travi, i lastrici
solari, il riscaldamento centrale, l'impianto per l'acqua
calda e per il condizionamento dell'aria, l'ingresso e le
strade di accesso ecc.).
La medesima disciplina si applica
anche alle villette o costruzioni plurifamiliari delle
località di villeggiatura: infatti, di condominio si può
parlare non solo negli edifici che si estendono in senso
verticale, ma anche in relazione a corpi di fabbrica
adiacenti orizzontalmente (come in particolare proprio le
villette c.d. a schiera), che possono ben essere dotati di
strutture portanti e di impianti essenziali comuni. Quindi
anche nel caso in cui le unità immobiliari esclusive non
siano disposte verticalmente (una sopra all'altra nello
stesso edificio) ma orizzontalmente, cioè una accanto
all'altra, sussiste un'ipotesi di condominio, da
qualificarsi come orizzontale qualora esista un patrimonio
comune a tali porzioni, cioè un complesso di beni e/o
impianti destinati strutturalmente e funzionalmente al
servizio o al godimento delle predette unità immobiliari
private.
Tutte queste situazioni sono oggi contemplate nella legge di
riforma del condominio. In particolare, seguendo la
definizione normativa, possono ipotizzarsi le seguenti
combinazioni: più unità immobiliari autonome, per esempio
villette o garage; più edifici condominiali; più gruppi di
unità immobiliari autonome aventi ciascuno un'organizzazione
condominiale, definiti condomini di unità immobiliari; più
gruppi di edifici condominiali, definiti condomini di
edifici. In tutte le quattro ipotesi considerate, la
caratteristica comune è rappresentata dall'esistenza di
parti che servono all'uso comune, quali aree, opere,
installazioni e manufatti di qualunque genere. Non si ha,
invece, condominio quando vi sono edifici totalmente
distinti e autonomi: infatti, le regole condominiali
riguardano essenzialmente gli immobili divisi in piani
orizzontali e trovano applicazione anche per quei fabbricati
che siano verticalmente divisi da una semplice paratia di
legno. Esse non riguardano invece l'edificio che sia diviso
in due parti da un muro interno verticale, dalle fondamenta
al tetto, in modo da formare due corpi di fabbrica distinti
e autonomi.
Allo stesso modo la nuova disciplina riguarda anche i
proprietari delle singole unità immobiliari dell'edificio,
anche se aventi diritto a godimento periodico, cioè i
proprietari di appartamenti in multiproprietà facenti parte
di un condominio: il multiproprietario è condomino diretto a
tutti gli effetti ed è titolare dei diritti e degli obblighi
che gli fanno capo, in quanto condomino. Del resto la
multiproprietà di singole unità immobiliari nell'ambito di
un complesso residenziale non importa alcuna deroga
all'applicazione della disciplina sul condominio negli
edifici per quanto riguarda le parti e ai servizi comuni di
utilità generale all'intero edificio.
Inoltre resta confermato che la sussistenza del condominio
non è influenzata dal numero dei titolari delle proprietà
esclusive, con la conseguenza che è sufficiente che vi siano
anche due soli partecipanti affinché lo stesso venga a
giuridica esistenza e si applichino le relative regole di
funzionamento e di gestione: si tratta del c.d. condominio
minimo
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.12.2012). |
CONDOMINIO: In
Gazzetta la legge 220/2012: cosa cambia per le comproprietà
dei fabbricati. Nuovo condominio da giugno.
Il 17/06/2013 la data fissata per l'avvio della riforma.
La riforma del condominio partirà il 17.06.2013. È
stata, infatti, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 293
del 17.12.2012 la legge n. 220 dell'11/12/2012 sulla
riforma della disciplina delle comproprietà dei fabbricati.
La legge prevede, infatti, una vacatio di sei mesi, che
serviranno a studiare le novità e a prepararsi alla
applicazione delle nuove disposizioni.
Le novità toccano il condominio a tutto campo: quorum delle
assemblee più snello per prendere le decisioni e evitare
ingessature, l'amministratore diventa manager e
professionista qualificato e trasparente, più libertà per i
singoli condomini (nel distacco dall'impianto riscaldamento,
per gli impianti radio-tv e pannelli solari.
Cambiano le modalità di convocazione dell'assemblea e i
quorum costitutivi e deliberativi, sia in prima sia n
seconda convocazione, con un limite alla raccolta di
deleghe: l'obiettivo è quello di rendere più snella la
gestione e più facili le scelte.
Cambia la disciplina dell'amministratore, che diventa un
ruolo professionale e richiede un titolo di studio almeno di
istruzione secondaria di secondo grado, ma soprattutto una
formazione specifica e un aggiornamento periodico.
Peraltro è prevista una deroga ai requisiti professionali
sia per gli amministratori che hanno svolto l'incarico per
un anno nell'ultimo triennio (soggetti all'aggiornamento
periodico) sia per il singolo condomino che svolge
l'attività (esonerato anche da obblighi di aggiornamento).
L'amministratore ha maggiori obblighi di trasparenza e deve
aprire un conto corrente bancario dedicato al singolo
condomino, mettendo a disposizione i movimenti bancari al
controllo dei partecipanti. Si codifica, poi, la regola già
prevista da alcune sentenze per cui la funzione
amministrativa può essere svolta da una società. Si svecchia
la disciplina consentendo il sito internet condominiale e,
come richiesto dal garante della privacy, si dettaglia la
maggioranza per l'installazione di telecamere per la
videosorveglianza condominiale.
Viene concesso più spazio al singolo condomino per
distaccarsi dall'impianto di riscaldamento centralizzato,
installare impianti di ricezione radiotelevisiva e pannelli
solari.
Certo se impianti radio-tv e pannelli solari incidono su
parti comuni il condominio potrà dare prescrizioni.
Quanto all'impianto di riscaldamento, il distacco non è
completamente libero, in quanto è concesso solo se non si
fruisce del calore per problemi tecnici prolungati per
un'intera stagione e comunque con obbligo di partecipare
alle spese di manutenzione straordinaria della centrale
termica.
Inoltre il regolamento non può vietare di tenere animali
domestici. Quanto alle spese condominiali, la riforma
sceglie il pugno duro contro i morosi, nei cui confronti
l'amministratore deve agire entro sei mesi. Inoltre i dati
personali dei morosi possono essere comunicati ai creditori
del condominio, tenuti ad agire contro gli inadempienti
prima di rivalersi sui partecipanti in regola
(articolo ItaliaOggi del 18.12.2012). |
CONDOMINIO: G.U.
17.12.2012 n. 293 "Modifiche alla disciplina del
condominio negli edifici" (Legge
11.12.2012 n. 220). |
CONDOMINIO:
Il sottotetto è condominiale. La struttura deve
poter essere usata come vano autonomo.
La riforma aggiorna l'elenco (non tassativo) delle
parti destinate a uso collettivo.
I sottotetti si presumono parte comune
dell'edificio condominiale se oggettivamente destinati
all'uso collettivo da parte dei condomini.
È uno degli effetti della riforma del condominio, che ha
introdotto novità in merito alle parti comuni del
caseggiato. Infatti, è stato aggiornato l'elenco dei beni
che, in base all'art. 1117 c.c., si presumono in
comproprietà di tutti i condomini, il quale tiene conto
anche dell'evoluzione tecnologica intervenuta dal 1942 a
oggi.
In primo luogo appare evidente la volontà del legislatore di
utilizzare un linguaggio più comprensibile: così viene
precisato che i beni elencati sono oggetto di proprietà
comune dei proprietari delle singole unità immobiliari
dell'edificio («anche se aventi diritto a godimento
periodico», con un implicito riferimento alle ipotesi
della c.d. multiproprietà immobiliare), espressione
certamente più semplice e attuale rispetto a quella
precedente («proprietari dei diversi piani o porzioni di
piani di un edificio»).
A conferma di ciò, la successiva precisazione secondo cui le
parti elencate sono condominiali «se non risulta il
contrario dal titolo», mentre la precedente (e ancora
attuale) versione dell'art. 1117 c.c. disponeva, con una
forma un po' più arcaica, «se il contrario non risulta dal
titolo» .
Rimane quindi confermato che per stabilire quali siano le
parti comuni dell'edificio condominiale bisogna in primo
luogo esaminare le clausole dei rogiti di acquisto (e,
successivamente, il regolamento, l'atto di successione
ereditaria, le vicende di fatto che abbiano portato a un
eventuale acquisto per usucapione, o la destinazione
oggettiva del bene). In ogni caso viene confermato che si
tratta comunque, è bene precisarlo subito, di un elenco dei
beni comuni non tassativo, ma esemplificativo, di parti che,
come detto, si presumono condominiali, con la conseguenza
che un bene o un impianto, pur non indicato nell'art. 1117
c.c., può, a determinate condizioni, essere ugualmente
qualificato come condominiale.
Ciò trova conferma nel fatto prima dell'elenco dei beni di
cui ai numeri 1, 2 e 3 della predetta disposizione del
codice civile, nella stessa norma viene anticipata
l'espressione «tutte le parti dell'edificio necessarie
all'uso comune» (mentre nell'originario testo dell'art. 1117
c.c. detta espressione era contenuta soltanto al termine
dell'elencazione dei beni comuni di cui al n. 1): la
modifica evidenziata tende dunque a evidenziare il carattere
esemplificativo e non esaustivo dell'elencazione in
questione. Del resto, di fronte alle molteplici varietà
delle ipotesi che possono presentarsi nella realtà
condominiale, non è certo possibile un elenco completo e
quindi anche la legge di riforma si limita soltanto a
fornire all'interprete una chiave per individuare quali
beni, in un caseggiato in condominio, debbano presumersi di
proprietà comune.
Nel passare all'elenco delle parti condominiali, la novità è
rappresentata dall'inclusione in esse dei pilastri, delle
travi portanti e delle facciate: tali indicazioni sono
indiscutibili, se si considera che i muri perimetrali
delimitano esternamente il caseggiato, mentre i pilastri e
le travi in conglomerato cementizio sono elementi
dell'intelaiatura portante dell'edificio condominiale.
Vengono ricompresi nell'elenco dei beni comuni anche le aree
destinate a parcheggio e i sottotetti destinati, per le
caratteristiche strutturali e funzionali, all'uso comune. Si
tratta quindi dei sottotetti che abbiano dimensioni e
caratteristiche strutturali tali da consentirne
l'utilizzazione come vano autonomo (mentre sono generalmente
di proprietà esclusiva quelli che costituiscono una camera
d'aria e hanno la mera funzione di isolare e proteggere
l'appartamento dell'ultimo piano dal caldo, dal freddo e
dall'umidità).
Per quanto riguarda le altre novità introdotte dalla riforma
della disciplina condominiale in tema di parti comuni,
merita di essere precisato che è stata modificata la
dicitura di alcuni beni comuni (gli impianti idrici e
fognari, i sistemi centralizzati di distribuzione e di
trasmissione per il gas, per l'energia elettrica, per il
riscaldamento (anziché gli acquedotti, le fognature, i
canali di scarico, gli impianti per l'acqua, per il gas, per
l'energia elettrica, per il riscaldamento e simili) e che
sono stati aggiunti altri impianti, ovvero quelli per il
condizionamento dell'aria, per la ricezione radiotelevisiva
e per l'accesso a qualunque altro genere di flusso
informativo anche da satellite o via cavo. Da notare che, in
caso di impianti unitari, si dovrà far rientrare l'impianto
tra le parti comuni fino al punto di utenza, salve le
normative di settore in materia di reti pubbliche, in grado,
queste ultime, di costituire unilateralmente vincoli
sull'edificio aventi effetti analoghi alle servitù
(articolo
ItaliaOggi Sette del 17.12.2012). |
CONDOMINIO: Case, inagibilità da
dimostrare.
Senza prove non c'è il diritto al risarcimento dei danni.
Una sentenza della Cassazione su un caso
di abbandono dell'abitazione per infiltrazioni.
Il proprietario che a causa di lavori condominiali non
eseguiti a regola d'arte lamenti infiltrazioni
nell'appartamento non può lasciare la propria abitazione e
chiedere il risarcimento del danno per mancato utilizzo
della casa se non prova rigorosamente che l'abbandono
dell'immobile è dipeso dalle oggettive malsane condizioni
che lo avevano reso di fatto inabitabile.
È il principio
affermato dalla Corte di Cassazione, Sez. III civile, nella
sentenza
13.12.2012 n. 22923.
I fatti. Questa la vicenda che ha portato alla decisione
della Cassazione: il pavimento dell'appartamento al piano
terra di un condominio veniva rimosso per consentire
riparazioni alle tubature dell'impianto di riscaldamento
condominiale. Le imprese incaricate però non avevano
eseguito a regola d'arte le opere di ripristino e, di
conseguenza, il condomino del piano terra aveva trovato
l'appartamento danneggiato da infiltrazioni provenienti
dalle reti fognarie condominiali e dai connessi fenomeni di
presenza di muffe organiche.
Secondo il danneggiato l'appartamento non poteva più essere
abitato e questa convinzione veniva confermata da un tecnico
a cui era stata richiesta una perizia sullo stato dei
luoghi. Successivamente il proprietario si rivolgeva al
tribunale per richiedere la condanna del condominio al
risarcimento di tutti i danni subiti (compresi quelli per
mancato utilizzo dell'immobile) a causa della cattiva
esecuzione dei lavori di ripristino del pavimento e delle
conseguenti infiltrazioni provenienti dall'impianto di
scarico condominiale e da umidità ascendente. Il condominio
convenuto contestava la domanda e, comunque, chiedeva e
otteneva di chiamare in garanzia le imprese esecutrici dei
lavori. Il tribunale dichiarava quindi la responsabilità del
condominio, che veniva condannato al risarcimento dei danni
per rifacimento di pavimentazione e battiscopa, per danni da
infiltrazioni, nonché per mancato uso dell'immobile,
abbandonato per oltre un anno fino all'ultimazione dei
lavori.
La Corte di appello, invece, occupandosi dell'impugnazione
della sentenza di primo grado presentata dal condominio,
respingeva la specifica domanda di risarcimento per il
mancato utilizzo dell'immobile. Ciò perché il danneggiato
aveva effettivamente lasciato la casa, ma non era stata
provata la necessità effettiva di abbandonare l'alloggio,
con la conseguenza che la condotta tenuta dal condomino del
piano terreno si doveva considerare come un volontario
abbandono dell'appartamento che, come tale, non era
risarcibile. Nel corso del giudizio di merito era stata
fatta anche una consulenza tecnica d'ufficio, che però si
era limitata a rilevare i segni dell'abbandono del bene e a
descrivere lo stato di fatto dei locali senza tuttavia
indicare in modo univoco l'intollerabilità o in ogni caso
l'idoneità a determinare l'inevitabile necessità di non
abitare l'appartamento.
La posizione della Cassazione. Le precedenti considerazioni
sono state pienamente condivise dalla Suprema corte, secondo
cui il singolo condomino il cui appartamento è stato reso
inabitabile da inesatta esecuzione di lavori condominiali
per avere diritto al risarcimento del danno da mancato
godimento dell'immobile deve provare di essere stato
costretto ad abbandonarlo perché divenuto insalubre e
radicalmente inabitabile a causa delle infiltrazioni
provenienti dalle reti fognarie condominiali e dei connessi
fenomeni di presenza di muffe. Tale prova però, come
chiariscono i giudici supremi, non può essere rappresentata
da argomentazioni e comunicazioni di dati fornite dal
tecnico di fiducia al quale il danneggiato si sia rivolto
per un parere sulle cause dei danni subiti prima del
procedimento in giudizio. In ogni caso una perizia avrebbe
solo il valore di indizio, il cui apprezzamento è affidato
alla valutazione discrezionale del giudice, ma della quale
quest'ultimo non è obbligato in nessun caso a tenere conto.
Secondo la Cassazione il tecnico di parte avrebbe solamente
potuto, se chiamato quale testimone, confermare lo stato dei
luoghi da lui personalmente percepito, ma appunto quale mera
situazione di fatto e con esclusione di qualunque
valutazione. Del resto non è possibile neppure provare le
necessità dell'abbandono utilizzando le parole del
consulente tecnico di ufficio incaricato dal giudice se
quest'ultimo si limita solamente a descrivere i segni
dell'abbandono e lo stato di fatto dei locali
dell'appartamento, ma senza indicarne le ragioni che hanno
costretto il condomino danneggiato a lasciare la sua casa
per trasferirsi altrove.
In tali casi quindi, per avere diritto al risarcimento del
danno da mancato godimento dell'immobile è necessaria una
valida prova che confermi la necessità dell'abbandono e, con
esso, sulle condizioni di inabitabilità del medesimo: in
caso contrario ne deriva la conclusione della volontarietà
della condotta del danneggiato, la quale non potrebbe quindi
mai costituire fondamento per un diritto al risarcimento del
danno a carico di altri, in virtù dei principi generali in
materia. Tuttavia le imprese esecutrici dei lavori
eventualmente chiamate in causa in garanzia, come nel caso
di specie, sono comunque tenute al risarcimento di tutti gli
altri danni conseguenti alle opere non eseguite a regola
d'arte a meno che il diritto di garanzia del condominio non
sia prescritto (articolo
ItaliaOggi Sette del 21.01.2013). |
CONDOMINIO:
Condomini, gestione in chiaro. L'amministratore
deve garantire trasparenza finanziaria.
Dalla tenuta dei registri al conto corrente: i nuovi
obblighi introdotti dalla riforma.
L'amministratore condominiale fa il
pieno di competenze. Sono, infatti, numerosi gli obblighi,
nuovi, rimodulati o semplicemente codificati, addossati a
questa figura dalla legge di riforma della disciplina
condominiale.
Eccoli in sintesi.
Obblighi di comunicazione ai condomini e di affissione delle
generalità in un luogo di pubblico accesso. In caso di
nomina e per ogni successivo mandato, c'è l'obbligo per
l'amministratore di comunicare ai condomini i propri dati
anagrafici e professionali, il proprio codice fiscale e,
qualora si tratti di società, la denominazione e la sede
legale della stessa, l'indirizzo dei locali in cui si
trovano i registri di cui ai numeri 6) e 7) dell'art. 1130
c.c. (registro dell'anagrafe condominiale, registro dei
verbali dell'assemblea, registro di nomina e revoca
dell'amministratore, registro di contabilità), nonché dei
giorni e delle ore nelle quali ciascun condomino interessato
può accedere a detti locali ed estrarre copia (firmata
dall'amministratore) dei predetti documenti (previa
richiesta a quest'ultimo e con rimborso della spesa). È poi
evidente come sia di pubblico interesse poter risalire con
immediatezza al nominativo e al recapito del soggetto
chiamato per legge a rappresentare il condominio nei
rapporti con i terzi. Ebbene, d'ora in avanti anche
l'amministratore avrà l'obbligo di esporre in uno spazio
accessibile ai terzi una targhetta con le proprie
generalità.
Obbligo di stipulare apposita polizza assicurativa per la
responsabilità professionale e di comunicarne gli estremi ai
condomini. L'amministratore, al momento dell'accettazione
della nomina, se previsto dall'assemblea, deve anche
presentare ai condomini una polizza individuale di
responsabilità civile per gli atti compiuti nell'esercizio
del mandato. L'amministratore è tenuto ad adeguare i
massimali della polizza se nel periodo del suo incarico
l'assemblea abbia deliberato lavori straordinari. Tale
adeguamento non deve essere però inferiore all'importo di
spesa deliberato e deve essere effettuato contestualmente
all'inizio dei lavori.
Obbligo di aprire un conto corrente condominiale e di far
transitare esclusivamente su quest'ultimo le entrate e le
uscite condominiali. Anche questa disposizione risponde a
un'esigenza di elementare trasparenza nell'amministrazione
delle somme di denaro di proprietà altrui. A detto conto
corrente, che potrà essere sia bancario sia postale, avranno
ovviamente diritto di accesso tutti i condomini. L'accesso
dovrà comunque essere intermediato dall'amministratore.
Obbligo di consegna della documentazione condominiale o di
singoli condomini alla cessazione dell'incarico. Viene
ulteriormente ribadito, anche in sede normativa, l'obbligo
dell'amministratore di passaggio delle consegne alla
cessazione dell'incarico. Detto obbligo potrà essere assolto
mediante consegna della documentazione condominiale o di
singoli condomini sia a questi ultimi sia al nuovo
amministratore designato dall'assemblea. Viene poi
ulteriormente specificato che l'amministratore dimissionario
resta comunque tenuto ad adottare eventuali interventi
urgenti nell'interesse delle parti comuni anche dopo la
cessazione dell'incarico, qualora non possa utilmente
attivarsi il nuovo amministratore (ad esempio, perché non
ancora nominato dall'assemblea), senza diritto a ulteriore
compenso.
Obbligo di riscuotere le somme dovute dai condomini. Viene
poi introdotto l'obbligo dell'amministratore di riscuotere
quanto dovuto dai condomini alle casse comuni entro il
termine di sei mesi dalla chiusura dell'esercizio contabile
nel quale è compreso il credito vantato. L'intervento
dell'assemblea, lungi dal costituire una condizione per il
recupero forzoso dei crediti condominiali, può invece
sollevare l'amministratore da detto obbligo normativo. Detto
obbligo va correlato a quanto specificamente previsto in
tema di morosità condominiale dall'art. 63 disp. att. c.c.
Obbligo di specificare l'ammontare del compenso al momento
della nomina. Per evitare possibili contenziosi in materia,
la legge di riforma ha previsto di obbligare
l'amministratore a dichiarare espressamente, a pena di
nullità della nomina stessa, l'ammontare del compenso
richiesto sia in occasione della prima nomina sia per i
successivi rinnovi del mandato biennale. Solitamente sarà la
deliberazione assembleare di nomina a specificare
l'ammontare del compenso richiesto dall'amministratore e
accettato dall'assemblea.
Obblighi contabili. L'art. 1130-bis c.c. prevede un
rendiconto condominiale annuale che dovrà predisposto
dall'amministratore e contenere una serie di specifiche voci
contabili indispensabili alla ricostruzione e al controllo
della gestione dell'amministratore da parte di ogni
condomino. In particolare, si prevedono come elementi
imprescindibili del rendiconto: il registro di contabilità,
il riepilogo finanziario e una relazione accompagnatoria,
esplicativa della gestione annuale, con l'indicazione anche
dei rapporti in corso e delle questioni pendenti (articolo
ItaliaOggi Sette del 10.12.2012). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Anche l'ascensore rientra tra gli impianti «liberi». Palazzo
Spada. Niente permesso di costruire né distanze legali.
Sulla natura giuridica degli ascensori, sulla possibilità di
considerarli nuova costruzione e sui titoli abilitativi
necessari si è espressa la quarta Sezione del Consiglio di
Stato, con la
sentenza 05.12.2012 n. 6253.
La vicenda concerne l'installazione di un ascensore
all'esterno di un immobile per agevolare l'accesso e la
mobilità di familiari disabili. In primo grado era stato
impugnato il diniego di permesso di costruire, opposto agli
interessati dal Comune, secondo cui l'intervento doveva
ritenersi precluso in forza delle previsioni dell'articolo
79, comma 2, del Dpr 380/2001. Tale norma, infatti, pur
consentendo opere per eliminare le barriere architettoniche
in deroga alle norme sulle distanze contenute nei
regolamenti edilizi, fa comunque «salvo l'obbligo di
rispetto delle distanze di cui agli articoli 873 e 907 del
codice civile nell'ipotesi in cui tra le opere da realizzare
e i fabbricati alieni non sia interposto alcuno spazio o
alcuna area di proprietà o di uso comune».
Il Tar aveva respinto il ricorso sulla base di tre
considerazioni. Innanzitutto che la tutela della salute e
della vita di relazione dei portatori di handicap non è
incondizionata, ma può subire limitazioni per la tutela di
valori di pari rilevanza, quale la proprietà privata; in
secondo luogo che l'articolo 79, pur considerando prevalenti
le ragioni del portatore di handicap su altri interessi
contrastanti dei soggetti residenti nel medesimo edificio,
non riconosce analoga prevalenza rispetto al diritto alla
salute tutelato attraverso l'articolo 873 del codice civile
la cui ratio è quella di evitare la creazione di
intercapedini dannose o pericolose. Infine, l'ascensore si
sarebbe trovato ad una distanza inferiore a quella minima di
tre metri rispetto al fabbricato confinante.
Il Consiglio di Stato ha però riformato la sentenza di primo
grado, facendo proprio lo specifico orientamento della
Cassazione (sezione II, n. 2566/2011), secondo cui
«l'impianto di ascensore...rientra fra i volumi tecnici o
impianti tecnologici strumentali alle esigenze
tecnico-funzionali dell'immobile». Ne consegue
«l'inapplicabilità all'ascensore delle disposizioni in tema
di distanze legali».
Inoltre, con riferimento al caso concreto, la sentenza
osserva come nell'applicare la deroga al rispetto delle
distanze, l'articolo 79 vada letto in correlazione alla
complessiva disciplina sull'eliminazione delle barriere
architettoniche per i soggetti portatori di handicap e in
particolare al Dm 236/1989. L'articolo 2 del decreto,
infatti, qualifica come spazio esterno «l'insieme degli
spazi aperti, anche se coperti, di pertinenza dell'edificio
o di più edifici» e come parti comuni dell'edificio «quelle
unità ambientali che servono o che connettono funzionalmente
più unità immobiliari». Da qui risulta chiaro come il
legislatore, nel far riferimento a spazi o aree «di
proprietà o di uso comune», abbia inteso richiamare non
solo l'esistenza di una comproprietà o di una servitù di uso
comune, ma anche l'esistenza di uno spazio comunque
denominato impiegato dai residenti di entrambi gli immobili
confinanti.
Nel caso in esame il cortile fra i due immobili nel quale
doveva insistere l'ascensore, pur non essendo in
comproprietà fra i due condomini, risultava utilizzato dai
residenti di entrambi gli immobili, dal che deriva
l'illegittimità dell'atto impugnato e l'erroneità della
decisione del Tar
(articolo Il Sole 24 Ore del
25.02.2013). |
novembre 2012 |
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CONDOMINIO - EDILIZIA
PRIVATA:
Barriere architettoniche.
Domanda
Sono amministratore di un condominio nel quale alcuni
condomini hanno richiesto di installare un ascensore, taluni
sono favorevoli e altri no. Dobbiamo discuterne in una
prossima assemblea e riterrei utile avere informazioni sullo
stato della giurisprudenza.
Risposta
La recente sentenza della Corte di cassazione n. 18334/2012
(alla cui lettura, con i richiami giurisprudenziali in essa
contenuti, facciamo rinvio) è molto interessante ai fini in
questione poiché approfondisce anche il senso del rapporto
tra l'art. 1120 c.c. e le norme contro le barriere
architettoniche, in primis artt. 2 e 3 della legge n. 13/1989.
La sentenza ribadisce che per l'applicabilità del 1° comma
dell'art. 2 della legge n. 13/1989 (con i suoi quorum ridotti)
è irrilevante la presenza o meno di invalidi nel condominio
in quanto la norma è volta a consentirne l'accesso, senza
difficoltà, in tutti gli edifici e non solo presso la loro
abitazione, mentre il 2° comma consente di provvedere
direttamente alle opere in caso di rifiuto del condominio.
La sentenza chiarisce poi (rispetto alle limitazioni
previste dall'art. 1120, 2° c., fatte salve dall'art. 2, 3°
comma della legge n. 13/1989) che il giudice (e prima ancora i
condomini), per valutare se le opere determinino un
pregiudizio al decoro architettonico, oltre ad accertare se
esso sia effettivamente leso, deve valutare anche se tale
lesione determini o meno un deprezzamento dell'intero
fabbricato (non solo di alcuni appartamenti, il che non
sarebbe ragione ostativa sufficiente a precludere
l'intervento), essendo invece lecito il mutamento estetico
che non cagioni un pregiudizio economicamente valutabile o
che, pur arrecandolo, si accompagni a un'utilità che
compensi l'alterazione architettonica che non sia di grave e
appariscente entità, ciò che succede ancor più se le opere
sono interne all'edificio.
La sentenza richiama anche l'applicabilità del principio di
solidarietà condominiale (sent. 12520/2010) che impone di
accertare se le norme in tema di vicinato siano compatibili
con la concreta struttura dell'edificio condominiale o non
siano invece irragionevoli, e quindi da disapplicare, nel
contemperamento di vari interessi, ancor più se in gioco vi
siano i diritti fondamentali dei disabili, tutelati sempre
di più dalla legislazione degli ultimi decenni.
Lo stesso dicasi per la valutazione dell'eventuale minore
servibilità delle parti comuni, che non può prevalere
qualora si traduca in un semplice maggior disagio, dovendosi
avere una reale inservibilità ai fini e per gli effetti
dell'art. 1120, 2° comma, cod. civ.
Infine, sul tema della sicurezza (nel caso esaminato dalla
sentenza si era eccepito che l'ascensore rendeva
difficoltoso il passaggio di soccorsi dalle scale) occorre
operare un confronto delle condizioni ante e post operam al
fine di accertare se le opere possano determinare o meno una
lesione di tale aspetto (articolo ItaliaOggi Sette del
26.11.2012). |
CONDOMINIO:
LA RIFORMA DEL CONDOMINIO/
La riforma del condominio piace. Piacerà un po'
meno ai morosi. ItaliaOggi Sette ha
raccolto le opinioni degli addetti ai lavori: Confedilizia,
Anaci e Sunia.
La stretta sui morosi convince gli addetti ai lavori. Sono
queste infatti le disposizioni che raccolgono i favori di
Confedilizia, Anaci e Sunia, in merito alla riforma del
condominio, diventata legge dopo l'approvazione definitiva
del ddl, martedì scorso, in commissione giustizia del
senato, che riscrive quasi del tutto gli articoli 1117 e
seguenti del codice civile e 61 e seguenti delle
disposizioni di attuazione.
Se, infatti, Confedilizia e il
Sunia (Sindacato nazionale unitario inquilini e assegnatari)
esprimono un parere sostanzialmente positivo, con qualche
riserva, più critica è la posizione dell'Anaci (Associazione
nazionale amministratori di condomini e immobili). «Il
nostro giudizio è nel complesso positivo anche se il
legislatore ha mancato di coraggio non attribuendo al
condominio la capacità giuridica come nella maggior parte
dei paesi europei», sottolinea Corrado Sforza Fogliani,
presidente di Confedilizia.
«Una norma mancata che poteva
servire a limitare la conflittualità tra i condomini
facilitandone i rapporti». Semaforo verde, invece, per le
novità in materia di requisiti che l'amministratore dovrà
possedere e che implicano l'obbligo di frequentare un corso
di formazione iniziale e il possesso del diploma di scuola
secondaria di secondo grado. A questo proposito, secondo
Sforza Fogliani, è positivo che «la nomina di un interno,
cioè di uno dei condomini dello stabile come amministratore,
non richieda a quest'ultimo il possesso di alcuna formazione
specifica. Un aspetto che va a salvaguardia di quegli
amministratori che scelgono di svolgere questo lavoro
gratuitamente».
A raccogliere i favori di Confedilizia sono
anche le nuove disposizioni in materia di condomini morosi,
in base alle quali l'amministratore potrà procedere con
l'ingiunzione (senza autorizzazione preventiva
dall'assemblea) e potrà fornire ai creditori i dati di chi
non è in regola con il pagamento delle rate. Inoltre, in
caso di mora che dura da più di sei mesi, dovrà sospendere
il debitore dalla fruizione dei servizi comuni. «Una novità
che permette di mettere tutti i condomini sullo stesso
piano». Poco utile, invece, viene considerata la possibilità
di creare un sito internet del condominio, da cui accedere
individualmente a tutti gli atti e i rendiconti mensili.
«Un'opportunità che a mio parere verrà utilizzata poco, da
un lato, per la sua dispendiosità e, dall'altro, perché
servirebbe per consultare una documentazione che può essere
visionata già presso l'amministratore con il valore aggiunto
di poter anche chiedere contestualmente delle
delucidazioni».
Più critica l'Anaci. «Qualcosa di buono in questa riforma
c'è, ma non abbiamo digerito che non sia stata prevista una
maggiore valorizzazione della figura professionale
dell'amministratore», sottolinea il presidente Pietro
Membri. Parere positivo, invece, sul tema dei requisiti
necessari che dovranno essere posseduti dall'amministratore,
sul sito internet condominiale e sulla stretta ai condomini
morosi. L'associazione considera, invece, una formalità il
tema della stipula da parte dell'amministratore di una
polizza a tutela dai rischi derivanti dalla professione
svolta (su richiesta dell'assemblea). «Per gli iscritti
alla nostra associazione, infatti, abbiamo già in automatico
una garanzia per gli errori per un milione di euro». Tra
i sindacati del settore, giudizi favorevoli arrivano dal
Sunia.
«Per noi è positivo il fatto che la riforma sia stata
fatta, abbiamo seguito il lavoro parlamentare con confronti
e audizioni, e per noi il testo presenta alcuni punti
innovativi, per esempio, riguardo alla diminuzione dei
quorum, cioè delle maggioranze richieste per le delibere
assembleari per una serie di interventi», spiega Aldo
Rossi, segretario nazionale responsabile ufficio legislativo
del Sunia. Anche se, a suo dire, si poteva fare di più sui
temi della personalità giuridica del condominio e della
partecipazione del conduttore alle assemblee per gli oneri a
suo carico. Positiva l'opinione sugli obblighi di formazione
per l'amministratore «perché ci devono essere garanzie di
professionalità» e sulla possibilità di creare un sito
internet «che potrebbe garantire maggior trasparenza ed
efficienza». Inoltre, conclude Rossi, «la possibilità di
rivalersi sui beni dei condomini morosi potrebbe portare a
una riduzione delle liti condominiali, che a oggi
rappresentano circa il 10% del contenzioso civile» (articolo ItaliaOggi Sette
del 26.11.2012). |
CONDOMINIO: LA RIFORMA DEL CONDOMINIO/ Sulle delibere regole più chiare.
Con la legge di riforma della disciplina del condominio
approvata martedì scorso dalla commissione giustizia del
senato è stato infatti integralmente riscritto l'art. 1137
c.c., disciplinando in maniera più chiara il procedimento
giudiziale di verifica della legittimità della volontà
assembleare, in gran parte confermando le conclusioni alle
quali era giunta la più recente giurisprudenza della
Cassazione a seguito di un incessante lavorio di
interpretazione durato quasi 70 anni.
Delibere nulle e annullabili.
Il legislatore ha riscritto l'art. 1137 c.c. eliminando alla
radice qualsiasi dubbio sull'applicabilità della procedura
di impugnazione ivi disciplinata anche ai casi di nullità
delle delibere condominiali.
Nella nuova disposizione si parla infatti espressamente di
annullamento delle deliberazioni contrarie alla legge o al
regolamento di condominio da promuovere dinanzi alla
competente autorità giudiziaria nel termine perentorio di 30
giorni. Mentre in precedenza si poteva equivocare se il
ricorso diretto a fare accertare in giudizio la contrarietà
delle deliberazioni assembleari alla legge o al regolamento
di condominio comprendesse o meno anche i casi di nullità
delle stesse, la nuova versione della predetta disposizione
chiarisce in modo inequivocabile che detta azione
giudiziale, con particolare riferimento al menzionato
termine di decadenza, è finalizzata esclusivamente
all'accertamento dell'annullabilità della volontà
assembleare (occorre peraltro osservare come la stessa
giurisprudenza di legittimità abbia ormai confinato i casi
di nullità a categorie del tutto marginali).
La legittimazione ad agire. La nuova disposizione specifica
altresì che la legittimazione attiva all'impugnazione delle
deliberazioni assembleari spetta tanto ai condomini presenti
in assemblea, che abbiano votato in senso contrario
all'approvazione della delibera, quanto a quelli assenti,
quanto, infine, a quelli che, pur avendo partecipato alla
riunione condominiale, sia siano astenuti dal voto. Il
termine di decadenza di 30 giorni per l'impugnazione della
delibera condominiale decorre dalla data dell'assemblea per
i dissenzienti e gli astenuti e dalla data di comunicazione
della deliberazione per gli assenti.
Le modalità di impugnazione delle deliberazioni. Con
l'eliminazione della parola «ricorso» dall'art. 1137 c.c. il
legislatore ha poi risolto una volta per tutte l'annosa
questione se il termine in questione debba essere inteso in
senso tecnico o atecnico e se, quindi, l'impugnazione delle
deliberazioni assembleari debba avvenire con ricorso o con
atto di citazione. La nuova disposizione si limita infatti a
dire che chi intende impugnare una deliberazione assembleare
che si assuma contrarie alla legge o regolamento di
condominio deve chiederne l'annullamento all'autorità
giudiziaria entro il termine di 30 giorni, rientrando dunque
detto procedimento tra quelli ordinari, normalmente
introdotti con atto di citazione.
La sospensione dell'efficacia della delibera impugnata. Con
gli ultimi due commi del novellato art. 1337 c.c. si è
quindi voluta ulteriormente chiarire la questione della
sospensione dell'efficacia della delibera condominiale
impugnata. Detta istanza, di natura cautelare, potrà quindi
essere proposta tanto in costanza di causa quanto
anteriormente alla stessa.
Limitatamente a quest'ultimo caso il legislatore ha però
inteso specificare che l'istanza di sospensione proposta
autonomamente e anteriormente all'avvio della causa di
merito non sospende il termine di decadenza di 30 giorni di
cui al medesimo art. 1337 c.c. ovvero, detto in altri
termini, non equivale all'atto di impugnazione della volontà
assembleare.
La mediazione c.d. obbligatoria delle controversie
condominiali. L'art. 5 del dlgs n. 28/2010, normativa quadro
in materia di mediazione, obbliga le parti a far precedere
l'eventuale azione giudiziaria in materia di condominio da
un tentativo di risoluzione bonaria della controversia
presso specifici organismi iscritti in un apposito registro
tenuto presso il ministero della giustizia.
Circa il significato del concetto di «controversia
condominiale» la legge di riforma ha opportunamente chiarito
che sono tali quelle derivanti dalla violazione o
dall'errata applicazione delle disposizioni dettate dal
codice civile e dalle relative disposizioni di attuazione in
materia condominiale.
In altri termini, rientrano nella c.d. mediazione
obbligatoria le liti tra condomini e tra questi ultimi e il
condominio, non anche quelle tra il condominio e soggetti
terzi (fornitori, ecc.).
Anche in ordine alla libertà dei litiganti di scegliere
l'organismo cui inviare l'istanza di mediazione la legge di
riforma ha inserito una disposizione del tutto peculiare per
il condominio, prevedendo che la stessa debba essere
presentata, a pena di inammissibilità, presso un organismo
di mediazione ubicato nella circoscrizione del tribunale
nella quale il condominio è situato. La nuova disposizione
normativa opportunamente chiarisce inoltre che al
procedimento di mediazione è legittimato a partecipare
l'amministratore, previa delibera assembleare da assumere
con la maggioranza di cui all'art. 1136, secondo comma, c.c.
È poi stato ulteriormente previsto che se i termini di
comparizione davanti al mediatore non consentono di assumere
la delibera di cui al terzo comma, il mediatore dispone, su
istanza del condominio, idonea proroga della prima
comparizione. La proposta di mediazione deve quindi essere
approvata dall'assemblea con la maggioranza di cui all'art.
1136, secondo comma, c.c. Se non si raggiunge la predetta
maggioranza, la proposta si deve intendere non accettata.
Si tratta di disposizioni chiare e opportune che consentono
di superare molti dei dubbi fino a oggi emersi in materia di
mediazione delle liti condominiali e che dovrebbero quindi
agevolare il compito degli amministratori condominiali,
garantendo maggiori possibilità di successo a questo
particolare strumento di risoluzione delle controversie.
Occorre però evidenziare come a oggi la mediazione in
materia condominiale non possa più ritenersi obbligatoria a
seguito dell'annuncio dato dalla Corte costituzionale lo
scorso 24.10.2012 circa la dichiarazione di
illegittimità, per eccesso di delega legislativa, del dlgs
n. 28/2010. In questi giorni si rincorrono però le voci su
possibili e immediate sanatorie per via legislativa, in
attesa del deposito delle motivazioni della predetta
sentenza (articolo ItaliaOggi Sette del
26.11.2012). |
CONDOMINIO: LA RIFORMA DEL CONDOMINIO/
Installazioni e modifiche veloci.
Novità in arrivo per gli impianti in ambito condominiale,
sia per quanto riguarda quelli «centralizzati», che possono
essere installati o modificati con delibere assembleari
approvate con quorum più bassi (e quindi più rapidamente),
sia per quanto riguarda quelli non centralizzati, che
possono essere installati nelle proprietà esclusive secondo
regole precise, mirate a evitare successive contestazioni da
parti degli altri condomini.
Quindi la prima importante novità introdotta dalla riforma
del condominio è la possibilità di deliberare
l'installazione di impianti comuni sulla base di un consenso
non necessariamente ampio da parte dei condomini.
Gli impianti satellitari e di produzione dell'energia
pulita. Per favorire lo sviluppo e la diffusione delle nuove
tecnologie di radiodiffusione da satellite, le opere di
installazione di nuovi impianti satellitari (i c.d.
padelloni) era prevista dalla legge una maggioranza ridotta
e cioè un numero di voti pari al terzo dei partecipanti al
condominio e almeno un terzo del valore dell'edificio.
A seguito della riforma del condominio, il cui obiettivo è
certamente quello di eliminare il più possibile il numero
esorbitante degli impianti singoli, è stata prevista la
possibilità di installare impianti centralizzati per la
ricezione radiotelevisiva e per l'accesso a qualunque altro
genere di flusso informativo (anche da satellite o via cavo)
e i relativi collegamenti fino alla diramazione per le
singole utenze con un delibera approvata con la maggioranza
degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio.
Lo stesso quorum ridotto poi vale anche per la realizzazione
delle opere e degli interventi diretti alla produzione di
energia mediante l'utilizzo di impianti «verdi» (fonti
eoliche, solari o comunque rinnovabili) da parte del
condominio.
Per detti impianti sparisce quindi la maggioranza dei
partecipanti al condominio (che viene sostituita dalla
maggioranza degli intervenuti all'assemblea) ed il valore
millesimale scende al 50%.
Si può perciò dire che per approvare questi impianti, che
rappresentano delle innovazioni, è richiesta la stessa
maggioranza prevista per le spese straordinarie sulle parti
comuni e, conseguentemente si ridurrà in modo notevole il
contenzioso tra condomini sulla natura dell'intervento
deliberato.
Ma le novità non finiscono qui.
Anche la richiesta di installazione di detti impianti
centralizzati da parte di un solo condomino deve essere
tenuta in considerazione dall'amministratore che deve
inserire la questione all'ordine del giorno ed è tenuto a
convocare l'assemblea entro 30 giorni dalla richiesta.
Del resto costituisce grave irregolarità il comportamento
dell'amministratore che ripetutamente rifiuti di convocare
l'assemblea nei casi previsti dalla legge.
Quindi l'amministratore deve convocare, sempreché la
richiesta sia chiara e dettagliata.
È vero infatti che il singolo condomino o il gruppo di
condomini che intendono proporre l'installazione dei detti
impianti sono tenuti a indicare (evidentemente per iscritto)
il contenuto specifico e le modalità di esecuzione degli
interventi proposti (ma non sembra debba essere necessario
un vero e proprio progetto).
In mancanza, l'amministratore deve invitare il condomino
proponente a fornire le necessarie informazioni mancanti.
Naturalmente tali impianti possono essere realizzati
sempreché non compromettano la sicurezza del fabbricato, non
alterino il decoro architettonico o rendano talune parti
comuni dell'edificio inservibili all'uso o al godimento
anche di un solo condomino.
Gli impianti non centralizzati. La riforma del condominio
introduce importanti novità anche su una questione
frequentemente oggetto di contenzioso tra i condomini e cioè
le installazioni di impianti autonomi nelle parti comuni per
la ricezione radiotelevisiva (ad esempio, parabole) e di
altri flussi informativi o per la produzione di energia da
fonti rinnovabili.
Così viene riconosciuto il diritto individuale del singolo
condomino alla ricezione radio-Tv con impianti individuali
satellitari o via cavo e ne viene confermata la libera
realizzazione, senza previo voto dell'assemblea, con
l'obbligo però di arrecare il minor pregiudizio possibile
alle parti comuni e agli immobili di proprietà di altri
condomini e prevedendo che, per la progettazione e
l'esecuzione dell'impianto, i condomini siano comunque
costretti a lasciare libero accesso alle loro proprietà
individuali.
In ogni caso deve essere rispettato il decoro architettonico
dell'edificio (ed è fatto salvo quanto previsto in materia
di reti pubbliche).
Ma è consentita anche l'installazione di impianti per la
produzione di energia da fonti rinnovabili destinati al
servizio di singole unità del condominio sul lastrico
solare, su ogni altra idonea superficie comune e sulle parti
di proprietà individuale dell'interessato.
Sarà l'assemblea, ai fini dell'installazione di detti
impianti, a provvedere, a richiesta degli interessati, a
ripartire l'uso del lastrico solare e delle altre superfici
comuni, salvaguardando le diverse forme di utilizzo previste
dal regolamento di condominio o comunque in atto.
Del resto, ciascun comproprietario potrebbe avere interesse
ad installare pannelli per produrre energia, ma potrebbe non
essere sufficiente per tutti la superficie a disposizione, o
sopportabile dalla struttura il peso di più impianti ecc.;
dette eventualità, fanno sì che la disponibilità
dell'installazione non sia affatto scontata, ma debba essere
valutata caso per caso, considerando la volontà e gli
interessi di tutti i condomini interessati.
Da tenere presente che se detti impianti comportano
necessariamente modifiche delle parti comuni, il condomino
interessato ne dà comunicazione all'amministratore indicando
il contenuto specifico e le modalità di esecuzione degli
interventi.
In tal caso l'assemblea può intervenire e imporre, con un
numero di voti che rappresenti la maggioranza degli
intervenuti ed almeno i due terzi del valore dell'edificio,
adeguate modalità alternative di esecuzione o imporre
cautele a salvaguardia della stabilità, della sicurezza o
del decoro architettonico del caseggiato, con possibilità di
subordinare l'esecuzione alla prestazione, da parte
dell'interessato, di idonea garanzia per i danni eventuali.
Tale disciplina coglie quindi in pieno l'esigenza di
tutelare la sicurezza e l'estetica del condominio (articolo ItaliaOggi Sette del
26.11.2012). |
CONDOMINIO:
LA RIFORMA DEL CONDOMINIO/
Dura la vita per chi non paga.
Acceleratore premuto contro i condomini morosi, che possono
essere attaccati sia dall'amministratore sia dai creditori
del condominio.
La legge di riforma del condominio si preoccupa di
ammodernare la gestione finanziaria della compagine dei
comproprietari, anche se non le ha riconosciuto lo status di
persona giuridica.
Lo svecchiamento dell'impianto normativo prelude in alcuni a
una gestione manageriale del condominio, tanto che la stessa
può essere affidata a società e può essere nominato un
organo di auditing interno (una commissione consultiva e di
controllo formata da condomini). Manageriale o meno (va
ricordato che la riforma ammette la possibilità di forme di
amministrazione in proprio con uno dei comproprietari che si
presta) la riforma dà un impulso alla gestione dei crediti
condominiali.
Vediamo come.
Innanzi tutto, salvo che sia stato espressamente dispensato
dall'assemblea, l'amministratore è tenuto ad agire per la
riscossione forzosa delle somme dovute dagli obbligati entro
sei mesi dalla chiusura dell'esercizio nel quale il credito
esigibile è compreso.
Il nuovo articolo 1129 del codice civile detta, dunque, i
tempi all'amministratore che non può rimanere inerte.
Il termine di sei mesi, entro i quali, necessariamente,
l'amministratore deve agire e chiedere un decreto ingiuntivo
contro il moroso, è a disposizione dell'assemblea, ma se la
stessa non ha disposto nulla di diverso, allora, è
automatico.
Se l'amministratore non rispetta il termine di sei mesi e
non si rivolge a un avvocato per avviare la pratica legale
potrà essere chiamato a risponderne di fronte all'assemblea;
così come è responsabile e può essere revocato, se, quando
sia stata promossa azione giudiziaria per la riscossione
delle somme dovute al condominio, abbia omesso di curare
diligentemente l'azione e la conseguente esecuzione
coattiva.
Una causa tipica di irregolarità nella gestione del credito
e che può dare adito alla revoca dell'amministratore è aver
acconsentito, per un credito insoddisfatto, alla
cancellazione delle formalità eseguite nei registri
immobiliari a tutela dei diritti del condominio: ogni
decisione da cui può derivare una minore garanzia deve
passare dall'assemblea.
Dal punto di vista del singolo condomino il periodo di mora
tollerato è un semestre, trascorso il quale bisogna
aspettarsi la notifica dell'atto giudiziario e in
particolare di un decreto ingiuntivo.
Per la riscossione dei contributi in base allo stato di
ripartizione approvato dall'assemblea, l'amministratore,
senza bisogno di autorizzazione di questa, può, infatti,
ottenere un decreto di ingiunzione immediatamente esecutivo.
Si tratta di una procedura veloce, mediante la quale il
creditore si rivolge direttamente al giudice cui porta le
prove scritte del proprio credito, per ottenere un decreto
con il quale si può passare subito alla fase del
pignoramento.
Secondo un orientamento della Cassazione, è possibile
chiedere l'emissione del decreto ingiuntivo anche solo sulla
base del bilancio preventivo regolarmente approvato
dall'assemblea.
L'esecutività non viene meno neanche nel caso in cui il
condomino moroso presenti opposizione al decreto ingiuntivo.
Terminato il semestre il condomino moroso potrà anche essere
sospeso dalla fruizione dei servizi comuni suscettibili di
godimento separato.
Tale sanzione, nella versione previgente del codice, si
applicava soltanto nel caso in cui vi fosse una espressa
previsione regolamentare condominiale che lo consentisse
espressamente, mentre con la nuova versione la sanzione è
prevista direttamente dalla norma e potrà risultare uno
strumento particolarmente persuasivo.
L'azione dei creditori del condominio. Il condomino moroso
non subisce solo attacchi interni, in quanto è esposto anche
all'azione dei creditori del condominio. In base
all'articolo 63 delle disposizioni di attuazione, infatti,
l'amministratore è tenuto a comunicare ai creditori non
ancora soddisfatti che lo interpellino i dati dei condomini
morosi. E contro di questi il creditore esterno dovrà
rivolgersi in prima battuta.
I creditori, infatti, non possono agire nei confronti degli
obbligati in regola con i pagamenti, se non dopo
l'escussione degli altri condomini (disposizione introdotta
dalla legge di riforma).
Si tratta di un beneficio di preventiva escussione a favore
dei comproprietari in regola, anche se non è chiaro se
l'obbligazione del condominio sia solidale o meno (con
obbligo in quest'ultimo caso del creditore di agire contro
ciascun condomino nei limiti della sua quota di millesimi).
La Cassazione si è schierata per quest'ultima tesi, anche se
i giudici di merito non seguono unanimemente la Suprema
corte.
Quanto ai soggetti tenuti al pagamento, la riforma ribadisce
che chi subentra nei diritti di un condomino è obbligato
solidalmente con questo al pagamento dei contributi relativi
all'anno in corso e a quello precedente.
Inoltre chi cede diritti su unità immobiliari resta
obbligato solidalmente con l'avente causa per i contributi
maturati fino al momento in cui è trasmessa
all'amministratore copia autentica del titolo che determina
il trasferimento del diritto. Quindi chi compra è
responsabile per debiti pregressi al suo acquisito e chi
vende rimane obbligato anche per debiti successivi alla
vendita, fino alla data in cui non ha consegnato l'atto
all'amministratore.
Chi vende rimane, dunque, ancora coinvolto delle vicende
condominiali successive al passaggio di proprietà, a meno
che non sia diligente nel far avere all'amministratore la
copia dell'atto di vendita. Se non lo fa, il vecchio
proprietario potrà ancora essere chiamato al pagamento degli
oneri condominiali successivi alla compravendita non versati
dall'acquirente.
Una volta riscossi (spontaneamente o coattivamente) i
contributi, questi devono essere accreditati su un conto
dedicato.
La riforma scrive, infatti, la regola per cui
l'amministratore è obbligato a far transitare le somme
ricevute a qualunque titolo dai condomini o da terzi, e
quelle a qualsiasi titolo erogate per conto del condominio,
su uno specifico conto corrente, postale o bancario,
intestato al condominio. Sul punto deve essere garantita la
massima trasparenza: ciascun condomino, per il tramite
dell'amministratore, può chiedere di prendere visione ed
estrarre copia del conto (articolo ItaliaOggi Sette del
26.11.2012). |
CONDOMINIO:
LA RIFORMA DEL CONDOMINIO/ Videosorvegliati, ok a maggioranza.
Via libera, ma a maggioranza, alla videosorveglianza
condominiale. E con alcune cautele indicate dal Garante
della privacy. La riforma del condominio, infatti, introduce
l'articolo 1122-ter del codice civile, che prevede la
facoltà dell'assemblea di decidere sull'installazione di
impianti di videosorveglianza sulle parti comuni, con la
maggioranza di cui al secondo comma dell'articolo 1136,
ossia deliberazioni approvate con un numero di voti che
rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la
metà del valore dell'edificio.
La norma arriva in un contesto, fino a oggi, di assenza di
una presa di posizione del legislatore. Tanto che con
provvedimento dell'08.04.2010 sulla videosorveglianza il
Garante aveva appurato una lacuna normativa. In quella sede
per i trattamenti effettuati dal condominio (anche per il
tramite della relativa amministrazione), il Garante aveva
evidenziato l'assenza di una puntuale disciplina che
permettesse di risolvere alcuni problemi applicativi
evidenziati nell'esperienza di questi ultimi anni. Infatti,
che non era chiaro se l'installazione di sistemi di
videosorveglianza potesse essere effettuata in base alla
sola volontà dei comproprietari, o se rilevasse anche la
qualità di conduttori; ancora non era chiaro quale fosse il
numero di voti necessario per la deliberazione condominiale
in materia (l'unanimità o una determinata maggioranza).
La legge di riforma del condominio affronta, invece,
direttamente la questione e stabilisce che le deliberazioni
concernenti l'installazione sulle parti comuni dell'edificio
di impianti volti a consentire la videosorveglianza su di
esse sono approvate dall'assemblea con la maggioranza di cui
al secondo comma dell'articolo 1136 del codice civile.
Vediamo dunque cosa prevede l'articolo 1136 del codice
civile, che è stato modificato. In prima convocazione per
l'approvazione di una delibera ci vuole il quorum di 2/3 del
valore e maggioranza per teste, e voto favorevole della
maggioranza degli intervenuti e almeno metà del valore
dell'edificio.
Poiché la norma fa riferimento esclusivamente al secondo
comma dell'articolo 1136, si deve ritenere che la
maggioranza debba sempre commutarsi secondo le soglie da
esso previste.
Una volta rispettate queste maggioranze si può passare a
installare le telecamere. Ma senza dimenticare che si devono
osservare le precauzioni previste dal citato provvedimento
generale del Garante della privacy del 2010.
Eccole, in dettaglio: le persone che transitano nelle aree
videosorvegliate del condominio devono essere informate con
cartelli della presenza delle telecamere, i cartelli devono
essere resi visibili anche quando il sistema di
videosorveglianza è attivo in orario notturno. Nel caso in
cui i sistemi di videosorveglianza installati siano
collegati alle forze di polizia è necessario apporre uno
specifico cartello che lo evidenzi.
Contro possibili aggressioni, furti, rapine, danneggiamenti,
atti di vandalismo, prevenzione incendi, sicurezza del
lavoro ecc. si possono installare telecamere senza il
consenso dei soggetti ripresi, ma sempre sulla base delle
prescrizioni indicate dal Garante.
Particolare attenzione deve essere posta quanto al termine
di conservazione delle immagini registrate.
Il provvedimento generale del Garante dell'08.04.2010
stabilisce che, nei casi in cui sia stato scelto un sistema
che preveda la conservazione delle immagini, in applicazione
del principio di proporzionalità, anche l'eventuale
conservazione temporanea dei dati deve essere commisurata al
tempo necessario e predeterminato a raggiungere la finalità
perseguita. Il provvedimento passa a indicazioni nel
dettaglio: la conservazione deve essere limitata a poche ore
o, al massimo, alle 24 ore successive alla rilevazione.
Inoltre non risulta che ricorrano circostanze tali da
consentire un allungamento del periodo di conservazione. Il
sistema impiegato deve essere programmato in modo da operare
al momento prefissato l'integrale cancellazione automatica
delle informazioni allo scadere del termine previsto da ogni
supporto, anche mediante sovra-registrazione, con modalità
tali da rendere non riutilizzabili i dati cancellati. In
presenza di impianti basati su tecnologia non digitale o
comunque non dotati di capacità di elaborazione tali da
consentire la realizzazione di meccanismi automatici di expiring dei dati registrati, la cancellazione delle
immagini dovrà comunque essere effettuata nel più breve
tempo possibile per l'esecuzione materiale delle operazioni
dalla fine del periodo di conservazione fissato dal
titolare. Il mancato rispetto dei tempi di conservazione
delle immagini raccolte e del correlato obbligo di
cancellazione di dette immagini oltre il termine previsto
comporta l'applicazione della sanzione amministrativa
stabilita dall'art. 162, comma 2-ter, del Codice della
privacy.
Altri adempimenti, previsti nel provvedimento generale del
Garante, sono la richiesta di verifica preliminare e la
nomina di responsabili e incaricati del trattamento. La
verifica preliminare è necessaria per i sistemi di raccolta
delle immagini associate a dati biometrici, per i sistemi di
videosorveglianza dotati di software che permetta il
riconoscimento della persona tramite collegamento o incrocio
o confronto delle immagini rilevate (ad esempio morfologia
del volto) con altri specifici dati personali e, infine, per
i sistemi cosiddetti intelligenti, che non si limitano a
riprendere e registrare le immagini, ma sono in grado di
rilevare automaticamente comportamenti o eventi anomali,
segnalarli, ed eventualmente registrarli. Devono essere
nominati incaricati del trattamento le persone, da mantenere
in numero ristretto, che hanno accesso alle immagini, anche
se si ritiene che per la maggioranza dei casi non sia
necessario la visione in tempo reale con un monitor. Non è
consentita alcuna forma di registrazione audio (articolo ItaliaOggi Sette
del 26.11.2012). |
CONDOMINIO: LA
RIFORMA DEL CONDOMINIO/ La distinzione tra decisioni
contrattuali e deliberative. Nuovi millesimi, serve unanimità.
La rettifica per errore può invece avvenire a maggioranza.
Per cambiare le tabelle millesimali condominiali non ci
vuole sempre l'unanimità; la rettifica per errore o
mutamento dello stato dell'immobile può avvenire a
maggioranza.
La riforma del condominio precisa quando la decisione sui
valori proporzionali delle singole unità immobiliari ha
natura contrattuale (e ci vuole l'accordo di tutti) e
quando, invece, ha natura deliberativa (e basta la
maggioranza). Vediamo, dunque, il nuovo articolo 69 delle
disposizioni per l'attuazione del codice civile, partendo
dalla situazione del codice civile previgente.
Nella normativa previgente, spiegano gli atti parlamentari,
secondo l'orientamento tradizionale, l'approvazione o la
revisione delle tabelle millesimali non poteva essere
deliberata a maggioranza dall'assemblea condominiale. Come
accade per il regolamento contrattuale, si riteneva invece
necessario il consenso di tutti i condomini; in assenza di
tale consenso unanime, alla formazione delle tabelle
provvedeva il giudice su istanza degli interessati, in
contraddittorio con tutti i condomini.
Tra gli argomenti a sostegno della tesi dell'unanimità, si
affermava che la materia non rientrava tra le competenze
della assemblea e che l'approvazione delle tabelle si
risolverebbe in un atto negoziale di accertamento, cioè una
manifestazione di volontà volta ad accertare il contenuto di
diritti reali spettanti a ciascun condomino.
Una sentenza della Corte di cassazione si è pronunciata, a
Sezioni Unite, in materia di approvazione e modifica delle
tabelle millesimali allegate al regolamento di condominio
rendendo più facile l'intervento dell'assemblea condominiale
(Cassazione civile, S.U., sentenza 09.08.2010, n. 18477).
Per la Cassazione, infatti, «le tabelle millesimali non
devono essere approvate con il consenso unanime dei
condomini, essendo sufficiente la maggioranza qualificata di
cui all'articolo 1136 codice civile, comma 2 (voto a
maggioranza degli intervenuti e che rappresenti almeno la
metà del valore dell'edificio)».
Il nuovo articolo 69 citato comincia con il disporre che i
valori proporzionali delle singole unità immobiliari
espressi nella tabella millesimale possono essere
rettificati o modificati all'unanimità.
L'assemblea totalitaria è sovrana e può decidere la misura
dei millesimi, anche eventualmente, se i condomini lo
vogliono, senza corrispondenza precisa con lo stato di
fatto. No si può escludere ì, infatti che i condomini
intendano modificare la portata dei loro rispettivi diritti
e obblighi di partecipazione alla vita del condominio. Ma
questa non è l'unica via per la modifica dei millesimi.
La norma prosegue prescrivendo che in alcuni casi i valori
possono essere rettificati o modificati anche nell'interesse
di un solo condomino, con la maggioranza prevista
dall'articolo 1136, secondo comma, del codice civile
(maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore
dell'edificio).
I casi di modifica a maggioranza sono: valori conseguenza di
un errore; alterazione per più di un quinto del valore
proporzionale dell'unità immobiliare anche di un solo
condomino, in conseguenza di mutate condizioni di una parte
dell'edificio, in conseguenza di sopraelevazione, di
incremento di superfici o di incremento o diminuzione delle
unità immobiliari.
In questo caso il costo è sostenuto da chi ha dato luogo
alla variazione.
A questo proposito va sottolineato che per errore si intende
la obiettiva divergenza tra il valore effettivo delle
singole unità immobiliari e il valore proporzionale ad esse
attribuito.
Inoltre, allo scopo di rivedere i valori proporzionali
espressi nella tabella millesimale allegata al regolamento
di condominio, può essere convenuto in giudizio unicamente
il condominio in persona dell'amministratore. Questi è
tenuto a darne senza indugio notizia all'assemblea dei
condomini. L'amministratore che non adempie a quest'obbligo
può essere revocato ed è tenuto al risarcimento degli
eventuali danni.
Le norme richiamate si applicano per la rettifica o la
revisione delle tabelle per la ripartizione delle spese
redatte in applicazione dei criteri legali o convenzionali.
Infine va ricordato che il Condominio può esperire l'azione
di indebito arricchimento per far valere le proprie ragioni
contro il singolo condomino che si è avvalso di un errore
nelle tabelle millesimali per non concorrere alle spese
(articolo ItaliaOggi del
24.11.2012). |
CONDOMINIO: LA
RIFORMA DEL CONDOMINIO/ Le deliberazioni impugnabili anche
dagli astenuti. Assemblee ad assetto variabile.
Maggioranza semplice per le modifiche di minore rilievo.
Maggioranze più snelle e deliberazioni impugnabili anche
dagli astenuti. Per cambiare la tabella millesimale ci vuole
l'unanimità, ma basta la maggioranza se la variazione
riguarda una rettifica per un solo condomino, anche a
seguito di sopraelevazione o aumento delle unità.
Queste le
novità della legge di riforma del condominio, che riscrive
l'articolo 1136 del codice civile, attesa alla pubblicazione
sulla Gazzetta Ufficiale.
Vediamo come.
L'assemblea in prima convocazione è regolarmente costituita
con l'intervento di tanti condomini che rappresentino i due
terzi del valore dell'intero edificio e la maggioranza dei
partecipanti al condominio.
Nella vecchia versione occorreva il medesimo quorum di
millesimi, ma un più alto quorum per teste: questo significa
che sarà più facile far svolgere l'assemblea in prima
convocazione.
Per l'approvazione delle deliberazioni occorre un numero di
voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e
almeno la metà del valore dell'edificio. Il computo della
maggioranza per l'assemblea in prima convocazione è rimasto
invariato (ma calcolato su un diverso quorum partecipativo).
Se l'assemblea in prima convocazione non può deliberare per
mancanza di numero legale, l'assemblea in seconda
convocazione delibera in un giorno successivo a quello della
prima e, in ogni caso, non oltre dieci giorni dalla
medesima.
Quindi non ci possono essere prima e seconda convocazione
nello stesso giorno. La riforma inserisce una soglia per
considerare regolarmente costituita l'assemblea in seconda
convocazione: occorre l'intervento di tanti condomini che
rappresentino almeno un terzo del valore dell'intero
edificio e un terzo dei partecipanti al condominio. Per
l'approvazione delle deliberazioni occorre la maggioranza
degli intervenuti con un numero di voti che rappresenti
almeno un terzo del valore dell'edificio.
Una maggioranza qualificata ci vuole per le deliberazioni
che concernono la nomina e la revoca dell'amministratore o
le liti attive e passive relative a materie che esorbitano
dalle attribuzioni dell'amministratore medesimo, quelle che
concernono la ricostruzione dell'edificio o riparazioni
straordinarie di notevole entità e le deliberazioni di cui
agli articoli 1117-ter (tutela delle destinazioni di uso),
1120, secondo comma (opere per sicurezza impianti,
eliminazione barriere architettoniche, contenimento consumo
energetico, realizzazione parcheggi, installazione pannelli
solari, impianti centralizzati di ricezione televisiva e
dati), 1122-ter (impianti di videosorveglianza) nonché 1135,
secondo comma (manutenzione straordinaria): devono essere
sempre approvate con la maggioranza stabilita dal secondo
comma, e cioè maggioranza degli intervenuti rappresentante
almeno la metà del valore dei millesimi.
Le deliberazioni di cui all'articolo 1120, primo comma
(innovazioni), e all'articolo 1122-bis, terzo comma
(prescrizioni e cautele per impianti individuali di
ricezione televisiva e di produzione di energia da fonti non
rinnovabili), devono essere approvate dall'assemblea con un
numero di voti che rappresenti la maggioranza degli
intervenuti e almeno i due terzi del valore dell'edificio.
L'articolo 1136 nuova versione conferma che l'assemblea non
può deliberare, se non consta che tutti gli aventi diritto
sono stati regolarmente convocati.
Infine, delle riunioni dell'assemblea si redige processo
verbale da trascrivere nel registro tenuto
dall'amministratore.
IMPUGNAZIONI
La regola della maggioranza impone che le deliberazioni
prese dall'assemblea sono obbligatorie per tutti i
condomini.
La riforma allarga la platea dei soggetti che possono
impugnare la deliberazione. Il codice civile, nella vecchia
versione, si riferiva ai condomini assenti e a quelli
dissenzienti. Si aggiunge ora la categoria degli astenuti.
Contro le deliberazioni contrarie alla legge o al
regolamento di condominio ogni condomino assente,
dissenziente o astenuto, dunque, può rivolgersi all'autorità
giudiziaria chiedendone l'annullamento.
Rimane il termine di decadenza di 30 giorni, trascorsi i
quali la deliberazione si consolida.
Il termine di 30 giorni decorre dalla data della
deliberazione per i dissenzienti o astenuti e dalla data di
comunicazione della deliberazione per gli assenti.
L'azione di annullamento non sospende l'esecuzione della
deliberazione, salvo che la sospensione sia ordinata
dall'autorità giudiziaria.
L'istanza per ottenere la sospensione proposta prima
dell'inizio della causa di merito non sospende né interrompe
il termine per la proposizione dell'impugnazione della
deliberazione.
MILLESIMI
Per la rettifica e modifica della tabelle dei millesimi
(valori proporzionali delle singole unità immobiliari) di
regola ci vuole l'unanimità.
Tuttavia in alcuni casi basta la maggioranza degli
intervenuti e la metà del valore dell'edificio: ciò vale per
rettificare o modificare i millesimi anche nell'interesse di
un solo condomino. Questo capita quando i valori sono
conseguenza di un errore e a seguito di sopraelevazione,
incremento di superfici o di incremento o diminuzione delle
unità immobiliari, con conseguente alterazione di più di un
quinto il valore proporzionale dell'unità immobiliare anche
di un solo condomino. In questa ipotesi il relativo costo è
sostenuto da chi ha dato luogo alla variazione
(articolo ItaliaOggi del
23.11.2012). |
CONDOMINIO: LA
RIFORMA DEL CONDOMINIO/ Condomini morosi, meno privacy.
L'amministratore può svelare il nome di chi non è in regola.
Cosa cambia nelle comunicazioni con
la legge approvata.
Il condomino moroso perde un po' della sua privacy.
L'amministratore, secondo la legge di riforma del
condominio, approvata definitivamente dalle camere martedì
scorso e ora in attesa della pubblicazione sulla Gazzetta
Ufficiale, è tenuto a comunicare i dati dei condomini morosi
ai creditori non ancora soddisfatti che lo interpellino.
Possono essere resi noti, dunque, i nominativi dei condomini
non in regola con il pagamento della somma dovuta e delle
rispettive quote millesimali.
Questa comunicazione è propedeutica a far sapere ai
creditori del condominio l'esatta identità dei condomini,
che non avendo pagato le rate condominiali, mettono in
difficoltà il condominio nel suo complesso. Senza il
versamento di tutti i partecipanti alla compagine
condominiale, sul conto del condominio non ci sono le somme
necessarie per pagare i fornitori del condominio.
Il problema di conoscere i dati dei singoli condomini è nato
a seguito della presa di posizione della Cassazione che ha
costretto i fornitori del condominio a intentare cause
contro i singoli condomini per recuperare quanto dovuto da
ognuno: la Cassazione ha escluso il vincolo di solidarietà
giuridica.
Sul punto era già intervenuto il garante della privacy, con
un'apertura alla possibilità di comunicazione dei dati dei
morosi. Ma vediamo di riepilogare la questione.
Con nota del 26.09.2008 il garante per la protezione
dei dati personali ha dato riscontro a un'associazione di
categoria in merito agli effetti della sentenza della
Cassazione, sezioni unite, n. 9148 del 2008, che ha ritenuto
legittimo, facendo propria la tesi minoritaria, il principio
della parziarietà, ossia della ripartizione tra i condomini
delle obbligazioni assunte nell'interesse del condominio in
proporzione alle rispettive quote. In particolare, la
Suprema corte ha sottolineato che l'obbligazione, ancorché
comune, è divisibile trattandosi di somma di denaro; la
solidarietà nel condominio, al contrario, non è contemplata
da nessuna disposizione di legge e l'articolo 1123 del
codice civile non distingue il profilo esterno da quello
interno; l'amministratore vincola i singoli nei limiti delle
sue attribuzioni e del mandato conferitogli in ragione delle
quote.
In sostanza, se una ditta esegue lavori per il condominio e
non riceve il pagamento, prima della sentenza del 2008
poteva fare causa al condominio e anche a uno solo dei
condomini chiedendo a uno tutto il debito. Si parlava,
infatti, di responsabilità solidale. Tutto è cambiato con la
sentenza citata. La Cassazione impone, nell'esempio, alla
ditta esecutrice dei lavori, di dividere il proprio credito
nei confronti di ciascuno dei condomini. E per recuperare il
credito si dovranno fare tante cause quanti sono i condomini
e quindi conoscere i nominativi dei condomini e sapere la
quota di debito loro attribuibile.
La sentenza della Cassazione è stata smentita da alcune
successive sentenze di merito, ma l'orientamento delle
sezioni unite non è stato successivamente ribaltato dalla
Suprema corte.
Si è posto dunque il problema di privacy dei singoli
condomini e cioè se può l'amministratore passare i dati dei
condomini alle ditte. Con la nota del 2008 il garante ha
risposto a una richiesta dall'Anaci, associazione degli
amministratori, e ha risolto in senso positivo il quesito.
L'Autorità garante ha innanzitutto richiamato l'attenzione
su quanto affermato in occasione del proprio provvedimento
generale del 18 maggio 2006, relativo al trattamento dei
dati personali connessi all'attività di gestione di
condomini: al punto 2.1 veniva precisato che le informazioni
trattate, per finalità di gestione e amministrazione del
condominio ai sensi dell'articolo 24, comma 1, lettere a),
b) o c), del codice privacy, possono essere riferite a
ciascun partecipante condominiale in quanto funzionali
all'amministrazione comune.
Pertanto, concludeva il garante, anche a seguito della
sentenza della Suprema corte, non sussiste alcun vincolo
nella normativa privacy alla comunicazione di detti dati.
Infatti, fermo restando che le informazioni oggetto del
trattamento devono essere pertinenti e non eccedenti, i dati
personali riferiti ai singoli condomini possono essere
trattati dai fornitori di beni e servizi condominiali in
assenza del consenso degli interessati per dare esecuzione
agli obblighi derivanti da un contratto stipulato dai
partecipanti alla compagine condominiale, ancorché di regola
tramite amministratore ed eventualmente ex articolo 24,
comma 1, lettera f), del codice privacy per far valere o
difendere un diritto in sede giudiziaria.
Questo significa che ricorre la causa di esonero dal
consenso derivante dalla necessità di eseguire contratti: il
rapporto contrattuale intrattenuto dal condominio si può
riferire, infatti, ai singoli condomini. E dove c'è
necessità di eseguire un rapporto contrattuale non ci sono
restrizioni poste dalla legge sulla privacy. In sede di
esemplificazione nella nota in questione il garante cita
come dati suscettibili di tale trattamento quelli che
consentono di identificare i condomini obbligati al
pagamento del corrispettivo per l'esecuzione dei contratti
di fornitura di beni e servizi, le rispettive quote
millesimali e, se del caso, le ulteriori informazioni
necessarie a determinare le somme individualmente dovute.
Stando alla legge di riforma del condominio, dalla facoltà
si è passati all'obbligo di comunicare le informazioni
necessarie ai creditori.
L'articolo 63 delle disposizioni per l'attuazione del codice
civile e disposizioni transitorie, riformulato dalla
novella, prevede infatti che l'amministratore è tenuto a
comunicare ai creditori non ancora soddisfatti i dati dei
condomini morosi. L'unica condizione è che i creditori lo
chiedano, non potendo l'amministratore fare comunicazioni
unilaterali di sua iniziativa.
Il condomino moroso non può invocare più la privacy e
l'amministratore, osservando la legge, non ha nulla da
temere quanto al rispetto della riservatezza.
Peraltro l'amministratore deve limitarsi a dare i dati dei
condomini morosi e non altro. Va aggiunto, però, che
l'articolo 63, nella nuova formulazione, prevede che
l'escussione dei condomini, quelli in regola con i
pagamenti, può avvenire solo dopo che i creditori abbiano
esperito le cause contro i morosi. A quel punto il creditore
ha l'esigenza di conoscere i dati dei condomini in regola,
ma la norma non lo contempla esplicitamente
(articolo ItaliaOggi del
22.11.2012). |
CONDOMINIO: LA
RIFORMA DEL CONDOMINIO/ La legge è stata approvata in via
definitiva dal senato. Nuove regole per la vita in comune.
Ingiunzione ai proprietari morosi senza l'ok dell'assemblea.
La riforma del condominio è legge. Il via libera definitivo
è arrivato ieri dalla commissione giustizia del senato che
ha approvato in sede deliberante e senza apportare modifiche
il testo varato il 27 settembre scorso dalla camera dei
deputati.
Per la prima volta, dal lontano 1942, cambiano le
regole del codice civile che disciplinano la convivenza in
condominio e che interessano circa 30 milioni di italiani.
Ma vediamo le principali novità a cominciare dalla figura
dell'amministratore che esce profondamente ridisegnata dalla
riforma.
Amministratore. Il provvedimento rende più snelle le
decisioni e valorizza la figura dell'amministratore che
resterà in carica due anni, dovrà avere requisiti di
formazione e onorabilità, non dovrà essere stato condannato
per delitti contro la pubblica amministrazione, dovrà avere
conseguito almeno il diploma di maturità, aver frequentato
un apposito corso e, ove ciò sia richiesto dall'assemblea,
aver stipulato una speciale polizza assicurativa a tutela
dai rischi derivanti dal proprio operato. L'amministratore
potrà essere licenziato prima della fine del mandato qualora
abbia commesso gravi irregolarità fiscali o non abbia aperto
o utilizzato il conto corrente condominiale.
Nei confronti dei condòmini morosi l'amministratore potrà
procedere con l'ingiunzione senza chiedere una preventiva
autorizzazione dell'assemblea e potrà comunicare ai
creditori i dati di chi non paga. Questi così potranno agire
in prima battuta sui «morosi». Se la mora dura più di sei
mesi, l'amministratore dovrà sospendere il condomino
debitore dalla fruizione dei servizi comuni qualificato.
Riscaldamento. Chi si vuole «staccare» dall'impianto
centralizzato può farlo senza dover attendere il benestare
dell'assemblea, ma a patto di non creare pregiudizi agli
altri e di continuare a pagare la manutenzione straordinaria
dell'impianto condominiale.
Nuovi quorum. Quorum più basso (dovrà essere pari alla
maggioranza degli intervenuti in assemblea, che
rappresentino almeno la metà dei millesimi) per deliberare,
ad esempio, l'installazione di impianti di videosorveglianza
sulle parti comuni dell'edificio. Uguale il quorum per
deliberare l'installazione di impianti per la produzione di
energia eolica, solare o comunque rinnovabile, anche da
parte di terzi che conseguano a titolo oneroso un diritto
reale o personale di godimento del lastrico solare o di
altra idonea superficie comune. Stessa maggioranza anche per
deliberare l'attivazione, a cura dell'amministratore e a
spese dei condomini, di un sito internet del condominio, ad
accesso individuale protetto da una password, per consultare
e stampare in formato digitale i rendiconti mensili e gli
altri documenti dell'assemblea.
Basteranno i 4/5 dei consensi, infine, per il cambio di
destinazione d'uso dei locali comuni. Potranno impugnare le
delibere assembleari, per annullarle, anche i condomini che
si sono astenuti. Mediazione obbligatoria in caso di
controversie.
Nessun divieto per gli animali. Il regolamento condominiale
non potrà più vietare di tenere animali in casa. Ma questi
dovranno essere «domestici».
Condòmini molesti. Maggior rigore contro chi arreca danni o
disturba. Per chi viola il regolamento condominiale la
sanzione è stata aggiornata: da 0,052 euro (pari a 100 lire)
a 200 euro. In caso di recidiva si arriva a 800 euro
(articolo ItaliaOggi del
21.11.2012). |
CONDOMINIO: LA
RIFORMA DEL CONDOMINIO/ La legge ridisegna i requisiti
morali e professionali. Bollino blu per l'amministratore.
Obbligatori diploma, formazione iniziale e aggiornamento.
Amministratore con il bollino blu. Dovrà essere diplomato e
deve avere seguito un corso di formazione; ma deve anche
possedere severi requisiti morali: non deve essere stato
condannato per delitti puniti con reclusione da due a cinque
anni.
La riforma del condominio ridisegna l'identikit
dell'amministratore, codificando che la carica può essere
svolta anche da una società e ridefinisce i compiti e i
poteri.
Requisiti. Per diventare amministratore di condominio
occorre godere dei diritti civili e non essere stati
condannati per
delitti contro la p.a., la giustizia, la fede
pubblica, il patrimonio e per ogni altro delitto non colposo
per il quale la legge commina la pena della reclusione non
inferiore, nel minimo, a due anni e, nel massimo, a cinque
anni.
È ostativa alla funzione l'avere subito una misura di
prevenzione (salvo riabilitazione) e non essere sottoposti a
tutela o curatela. La strada è bloccata anche per i
protestati. Passando ai requisiti professionali bisogna
avere un diploma di scuola superiore e avere frequentato un
corso di formazione iniziale e aggiornarsi periodicamente.
Ultimo requisito è la sottoscrizione di un'assicurazione per
responsabilità professionale.
La novella esclude i requisiti
professionali quando l'amministratore è un interno, nominato
tra i condomini dello stabile. Anche le società possono
svolgere l'incarico di amministratore di condominio: i
requisiti morali e professionali dovranno essere posseduti
dai soci illimitatamente responsabili, dagli amministratori
e dai dipendenti incaricati di svolgere le funzioni di
amministrazione. La perdita dei requisiti morali comporta la
cessazione dall'incarico. La norma stabilisce una
disposizione transitoria: chi ha svolto attività di
amministrazione di condominio per almeno un anno nell'arco
dei tre anni precedenti è consentito lo svolgimento
dell'attività di amministratore anche in assenza dei
requisiti di titolo di studio e di frequenza del corso di
formazione iniziale (ma rimane l'obbligo di formazione
periodica).
Obblighi. L'obbligo di nomina scatta quando i condomini sono
più di otto. L'amministratore deve essere rintracciabile dai
condomini e deve fornire orari nei quali è a disposizione,
anche per far visionare i documenti dell'amministrazione. Un
obbligo specifico concerne le somme versate dai condomini:
si deve aprire un apposito conto e i relativi estratti sono
a disposizione degli interessati. Altro obbligo di natura
gestionale è quello di agire per recuperare le rate non
pagate dai morosi: l'amministratore deve farlo entro sei
mesi chiusura dell'esercizio.
L'incarico di amministratore
ha durata di un anno e si intende rinnovato per uguale
durata. L'amministratore può essere licenziato
dall'assemblea in qualunque momento oppure dal giudice,
anche su richiesta di un solo condomino per gravi
irregolarità. La riforma codifica i casi di gravi
inadempienze: ad esempio mancata rendicontazione, mancata
esecuzione di provvedimenti giudiziari e amministrativi e di
deliberazioni dell'assemblea, mancata apertura e
utilizzazione del conto corrente dedicato al condominio.
Compiti. Tra i compiti dell'amministratore, introdotti dalla
novella, si segnalano la tenuta di alcuni registri, tra cui
il registro di anagrafe condominiale e il registro di
contabilità. Il registro dell'anagrafe contiene le
generalità dei condomini, i dati catastali di ciascuna unità
immobiliare, ogni dato relativo alle condizioni di
sicurezza.
Nel registro di contabilità sono annotati in ordine
cronologico, entro 30 giorni da quello dell'effettuazione, i
singoli movimenti in entrata e in uscita. Il registro può
tenersi anche con modalità informatizzate.
Altri registri
sono quello dei verbali delle assemblee e quello del
registro di nomina e revoca dell'amministratore. Nel
registro dei verbali delle assemblee sono annotate le
deliberazioni e le brevi dichiarazioni rese dai condomini
che ne hanno fatto richiesta. Nel registro di nomina e
revoca dell'amministratore sono annotate, in ordine
cronologico, le date della nomina e della revoca di ciascun
amministratore del condominio e gli estremi dei
provvedimenti giudiziari. Specifico obbligo
dell'amministratore è la redazione del rendiconto
condominiale annuale.
Il rendiconto.
A proposito del rendiconto, la riforma prevede per
l'assemblea condominiale di nominare un revisore che
verifichi la contabilità del condominio. Per ragioni di
auditing interno l'assemblea può anche nominare, oltre
all'amministratore, un consiglio di condominio composto da
almeno tre condomini negli edifici di almeno dodici unità
immobiliari. Il consiglio ha funzioni consultive e di
controllo
(articolo ItaliaOggi del
21.11.2012). |
CONDOMINIO: LA
RIFORMA DEL CONDOMINIO/ Le nuove regole puntano ad
assicurare stabilità finanziaria. Il rendiconto come un
bilancio.
Entrate e uscite da evidenziare col criterio della
competenza.
Il rendiconto condominiale dovrà somigliare sempre di più al
bilancio delle società ed evidenziare in maniera trasparente
le somme in entrata e quelle in uscita secondo il criterio
di competenza. Queste ultime dovranno necessariamente
transitare su un conto corrente intestato al condominio e
l'amministratore, che potrà essere anche una società, dovrà
curare i necessari adempimenti fiscali. Questi avrà a sua
disposizione nuovi ed efficaci strumenti per contrastare il
dilagante fenomeno della morosità condominiale e dovrà
attivarsi senza indugio per recuperare le somme non versate
nelle casse condominiali.
La maggiore stabilità finanziaria del condominio costituirà
quindi una garanzia in più per i fornitori esterni: in caso
di lavori di manutenzione straordinaria o di innovazioni
dovrà infatti obbligatoriamente essere costituito un fondo
speciale di ammontare pari a quello dell'appalto deliberato
dall'assemblea. I singoli condomini avranno a loro volta
qualche tutela in più nei confronti delle imprese che
vantino crediti nei confronti del condominio, in quanto le
stesse dovranno necessariamente provare a recuperare le
somme dovute dai comproprietari in mora nel versamento degli
oneri condominiali (previa obbligatoria indicazione della
loro identità da parte dell'amministratore) e solo in caso
di insuccesso potranno agire nei confronti dei condomini in
regola con i pagamenti.
Queste alcune delle novità introdotte dalla legge di riforma
della disciplina condominiale approvata ieri in via
definitiva dalla commissione giustizia del senato, che ha
riscritto in maniera quasi completa gli articoli 1117 e
seguenti del codice civile e 61 e seguenti delle relative
disposizioni di attuazione (si veda la tabella relativa alle
principali novità introdotte). Ma la nuova normativa
interviene in modo rilevante anche sui requisiti, i poteri e
i doveri dell'amministratore condominiale (la cui figura si
avvia a diventare sempre più professionale per allontanare
dal mercato operatori improvvisati), sulle modalità di
costituzione, partecipazione ed espressione della volontà
dell'assemblea condominiale (le maggioranze necessarie
all'adozione delle delibere vengono generalmente abbassate
per migliorare il relativo processo decisionale),
sull'utilizzo delle parti comuni (viene ammesso il distacco
dall'impianto comune di riscaldamento o condizionamento,
purché ciò non influisca negativamente sul suo
funzionamento), sulla disciplina di nuove fattispecie quali
il supercondominio e il cosiddetto condominio orizzontale
(articolo ItaliaOggi del
21.11.2012). |
ottobre 2012 |
|
CONDOMINIO: Immobili.
Difettosa realizzazione delle parti comuni.
Danni da infiltrazioni, risponde il condominio.
LA DECISIONE/
Si tratta di responsabilità del custode che deve eliminare
le caratteristiche lesive insite nella cosa propria.
Se i danni lamentati dal singolo condomino sui beni di
proprietà esclusiva derivano da difettosa realizzazione
delle parti comuni dell'edificio, nei confronti del
condomino è responsabile –in via autonoma in base
all'articolo 2051 del Codice civile– il condominio.
Quest'ultimo, infatti, come custode, deve eliminare le
caratteristiche lesive insite nella cosa propria.
Lo ha ribadito la II Sez. civile della Corte di Cassazione che, con la
sentenza
n. 17268/2012, ha affrontato il caso di due coniugi che, per le
infiltrazioni d'acqua nella loro cantina, avevano chiesto al
tribunale la condanna del condominio a eseguire le opere
necessarie per eliminare gli inconvenienti e a risarcire i
danni.
La domanda del condomino, respinta dal tribunale, è
stata invece accolta dalla Corte d'appello, che ha
condannato il condominio a eseguire le opere descritte nella
consulenza tecnica d'ufficio. La Corte ha infatti
evidenziato che, pur avendo la Ctu appurato che a generare
il danno erano stati i vizi di progettazione e di esecuzione
imputabili al costruttore, doveva comunque essere ravvisata
la responsabilità del condominio in base all'articolo 2051
del Codice civile: il danno era stato causato non da un
comportamento del custode, ma dalla cosa in custodia; e la
responsabilità era superabile solo dalla prova liberatoria
del superamento della presunzione di colpa o del caso
fortuito.
La Cassazione, a sua volta, nel respingere il ricorso del
condominio, ha precisato che se il fenomeno dannoso
lamentato dal singolo condomino sui beni di proprietà
esclusiva è originato da difettosa realizzazione delle parti
comuni dell'edificio (nella specie precaria situazione della
muratura perimetrale adiacente il giardino condominiale e
dei pozzetti), nei confronti di questi è responsabile, in
via autonoma, il condominio, che è tenuto, quale custode, a
eliminare le caratteristiche lesive insite nella cosa
propria.
Non si tratta di una responsabilità a titolo derivativo: il
condominio, pur successore a titolo particolare del
costruttore-venditore, non subentra nella sua personale
responsabilità, legata alla sua attività e fondata
sull'articolo 1669 del Codice civile. Ma si tratta di
autonoma fonte di responsabilità in base all'articolo 2051
del Codice civile, che non preclude, però, al condominio la
possibilità di agire nei confronti della società
costruttrice in base all'articolo 1669 del Codice civile se
sussistano i presupposti
(articolo Il Sole 24 Ore del
29.10.2012). |
CONDOMINIO: La
Cassazione ha ribadito il principio della solidarietà. Anche
a svantaggio del decoro. Ascensore, sì con quorum ridotto.
Basta la maggioranza semplice perché si superano le barriere.
Il necessario rispetto del principio di solidarietà
condominiale rende legittima la delibera di installazione di
un ascensore che tuteli l'esigenza di garantire un accesso
agli appartamenti ai condomini, o loro ospiti, con ridotta
capacità motoria, anche se la nuova opera comporti
un'accettabile riduzione del decoro architettonico o un
modesto restringimento degli spazi comuni.
In altre parole, i condomini devono sacrificarsi, in nome
dei diritti umani fondamentali, per consentire ai disabili,
o agli anziani con mobilità ridotta, di socializzare e di
muoversi senza incontrare ostacoli.
Queste le conclusioni
alle quali è pervenuta la II Sez. della Corte di
Cassazione con la recente
sentenza
25.10.2012 n. 18334.
Il caso di specie. La vicenda che ha portato alla decisione
in questione prendeva l'avvio quando un condomino impugnava
la delibera che aveva approvato l'installazione di un
ascensore, ritenuta illegittima non solo perché adottata con
maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge, ma
soprattutto perché la nuova opera aveva ristretto il
passaggio sulla prima rampa di scale, impedendo anche il
passaggio di eventuali mezzi di soccorso e compromesso il
decoro architettonico dell'edificio in stile liberty. Il
Tribunale, aderendo pienamente alla tesi del singolo
condomino, condannava il condominio a rimuovere l'impianto
di ascensore.
Secondo il condominio, però, che impugnava detta decisione
in appello, la delibera era pienamente legittima perché non
comportava alterazione del decoro architettonico
dell'immobile né alcun pregiudizio alle parti comuni e,
comunque, era stata adottata a tutela dei condomini anziani
e disabili e nel rispetto della normativa in materia di
barriere architettoniche. Queste considerazioni venivano
però respinte dalla Corte d'appello, secondo cui il decoro
architettonico del fabbricato risultava compromesso
dall'installazione dell'ascensore che, tra l'altro, non era
conforme alle disposizioni antincendio, aveva diminuito la
possibilità di utilizzo della rampa della scala e aveva
creato pregiudizio alla sicurezza del caseggiato e
all'incolumità degli abitanti, rendendo particolarmente
difficoltoso l'accesso di mezzi di soccorso.
Ma,
soprattutto, secondo i giudici di secondo grado, la delibera
non risultava aver avuto a oggetto alcuna opera attinente al
superamento delle barriere architettoniche, perché il
condominio non aveva fornito la prova che nello stabile
vivessero portatori di handicap: di conseguenza la delibera
non poteva essere adottata con la ridotta maggioranza
prevista dalla legislazione in tema di eliminazione delle
barriere architettoniche.
La decisione della Cassazione.
La Suprema corte, però, non condividendo le precedenti
osservazioni, ha confermato la piena legittimità della
scelta fatta dai condomini. Secondo i giudici supremi,
infatti, non ha alcuna rilevanza la circostanza che
l'assemblea non abbia avuto a oggetto una delibera attinente
all'eliminazione delle barriere architettoniche, in quanto
la delibera di installazione di un ascensore si muove
sostanzialmente in tale direzione. Inoltre, la normativa
speciale a favore dei portatori di handicap prevede un
abbassamento del quorum richiesto per l'innovazione,
indipendentemente dalla presenza di disabili: lo scopo
infatti è quello di consentire ai disabili, o agli anziani
con mobilità ridotta, di socializzare e di muoversi senza
incontrare ostacoli, anche se le persone interessate non
sono proprietari di appartamenti nel caseggiato o non
risiedono stabilmente nel palazzo.
In ogni caso i giudici supremi hanno ritenuto che, nel
rispetto del principio di solidarietà condominiale, la
delibera dell'assemblea con la quale viene decisa, a cura e
spese di alcuni dei condomini, l'installazione di un
ascensore nel vano scala condominiale è legittima anche se
comporta un'accettabile compromissione del decoro
architettonico (cioè un cambiamento estetico che non sia di
grave e appariscente entità) e/o un modesto restringimento
di spazi comuni (con semplice disagio subito rispetto alla
sua normale utilizzazione), in quanto le difficoltà delle
persone affette da invalidità devono ormai essere
considerate quali problemi non solo individuali, ma tali da
dover essere assunti dall'intera collettività (articolo
ItaliaOggi Sette del 19.11.2012). |
CONDOMINIO: In
condominio ci vuole «solidarietà». Per l'ascensore il voto
unanime non è necessario.
Non ci si può opporre all'installazione dell'ascensore,
anche quando questo configura un'innovazione e il voto in
assemblea non è stato unanime. Questo perché la legge 13/89
di sostegno alla disabilità prevede la maggioranza che
rappresenti almeno un terzo dei condomini e dei millesimi e
non ha rilevanza il fatto che l'eliminazione delle barriere
architettoniche non sia citata nella delibera, «posto che la
delibera di messa in opera di un'installazione si muove
sostanzialmente all'evidenza in tale direzione».
Lo ha affermato la Corte di Cassazione, Sez. II, con la
sentenza 25.10.2012 n. 18334.
Un condominio aveva votato a maggioranza (nel 1994!) la
messa in opera di un ascensore, la cui installazione avrebbe
però provocato il restringimento della luce del passaggio
sulla prima rampa e costituendo, in sostanza,
un'innovazione. Un condomino aveva impugnato la delibera per
nullità, ottenendo ragione dal Tribunale e dalla corte
d'Appello, sostenendo che la delibera non era stata fatta
esplicitamente per eliminare le barriere architettoniche e
che nel condominio non vi erano disabili.
Il Condominio aveva quindi presentato ricorso in Cassazione,
che però ha ribaltato il giudizio delle corti di merito,
affermando che:
- È irrilevante la circostanza che l'assemblea non avesse
avuto a oggetto una delibera attinente all'eliminazione
delle barriere architettoniche, dato che la decisione va di
fatto in quel senso;
- È irrilevante, ai fini dell'applicabilità della
maggioranza semplice prevista dalla legge 13/1989, la
presenza di disabili nel condominio, dato che la legge mira
a consentire a tutti i disabili di accedere negli edifici, e
non solo presso la propria abitazione e del resto il
riferimento alla presenza di disabili nella legge solo in
quanto consente ai disabili di installare servoscala o
strutture mobili a loro spese in caso di rifiuto da parte
del condominio;
- Anche il pregiudizio del decoro architettonico, invocato
dal resistente, va valutato nel senso di accertare se
determini o meno un effettivo deprezzamento dell'intero
fabbricato «essendo lecito il mutamento estetico che non
cagioni un pregiudizio economicamente valutabile o che, pur
arrecandolo, si accompagni a un'utilità la quale compensi
l'alterazione architettonica», cioè in sostanza
l'ascensore stesso.
La Cassazione, però conclude con l'affermazione di un
principio importante: quello della solidarietà condominiale.
Le norme di vicinato, per la Cassazione, vanno invocate in
quanto compatibili con la concreta struttura dell'edificio
e, nel caso del condominio, va valutato quando la loro
osservanza non sia «irragionevole» ai fini «dell'ordinato
svolgersi di quella convivenza che è propria dei rapporti
condominiali». A maggior ragione, sottolinea la Corte,
si sarebbe dovuto tener conto di questa considerazione in
presenza di una decisione che «coinvolgeva i diritti
fondamentali dei disabili», come la stessa legge 13/1989
suggerisce, imponendo la diversa prospettiva di considerare
i problemi della disabilità non solo individuali ma come
parte di un carico della collettività.
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Le indicazioni
01 | BARRIERE
È irrilevante il fatto che l'assemblea non abbia deliberato
esplicitamente sull'eliminazione delle barriere
architettoniche
02 | DISABILI
È irrilevante anche la presenza di disabili nel condominio,
ai fini dell'applicabilità della maggioranza di un terzo dei
condomini e dei millesimi prevista dalla legge 13/1989 al
posto dell'unanimità, in caso di installazione di ascensore
che costituisca un'innovazione
03 | IL DECORO
Il pregiudizio al decoro architettonico va valutato in
relazione al danno economico effettivo
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.10.2012). |
CONDOMINIO:
Se l’inquilino muore fulminato ne rispondono
proprietario e amministratore.
Il proprietario di casa e l’amministratore -anche
soltanto di fatto- rispondono penalmente della morte
dell’inquilino rimasto fulminato per l’assenza di “salvavita
“all’interno dell’abitazione.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con la
sentenza 10.10.2012 n. 40050, respingendo il
ricorso di un’anziana madre (proprietaria della casa), e del
di lei figlio (che “le dava una mano” nella
gestione), contro la sentenza della Corte di appello che li
aveva condannati entrambi per omicidio colposo.
La vicenda
L’incredibile quanto tragica storia è avvenuta a Catania. Lì
si trovava la casa dove lo sventurato inquilino fu raggiunto
mentre si faceva la doccia da una prima scarica elettrica. A
quel punto, per capire il motivo della dispersione, l’uomo
si recò sul terrazzo di copertura dell’abitazione e “senza
che avesse in alcun modo armeggiato con i fili elettrici”,
“venne attinto dalla mortale scarica”, soltanto “per
avere contemporaneamente toccato il tubo conduttore
dell’elettricità all’autoclave e l’inferriata a potenziale
elettrico zero”, dove venne trovato ancora aggrappato
dai soccorritori.
Impianto non a norma
Nulla ha potuto la testimonianza di un tecnico elettricista
secondo cui l’appartamento era dotato del dispositivo di
sicurezza. Per la Cassazione, infatti, se così fosse stato “il
tragico evento non si sarebbe dato”, perché “l’immediata
disattivazione elettrica avrebbe impedito la folgorazione”.
Mentre dagli accertamenti tecnici era risultato un impianto
“assemblato in modo rudimentale e al quanto
approssimativo”, tale da escludere, dunque, che la
protezione fosse assicurata.
No alla responsabilità dell’inquilino
Neppure si può rimproverare all’inquilino un comportamento
anomalo, secondo l’id quod plerumque accidit, per
aver tentato di capire l’origine della perdita, salendo su
una terrazza a cui gli era precluso l’ingresso ma che “evidentemente
era dotato di libero accesso”. Non può dunque addossarsi
al povero inquilino tutta la responsabilità anche se la
Cassazione ha confermato un suo concorso di colpa al 20%.
La responsabilità dell’amministratore
Infine, degno di nota è anche il riconoscimento della
responsabilità in capo al figlio, quale amministratore di
fatto, senza perciò che vi fosse stata alcuna “formalità
di sorta” nella preposizione ma soltanto sulla base del
fatto che egli aveva indicato l’abitazione come “casa mia”,
riscuoteva i canoni di locazione rilasciandone ricevuta e
dopo l’evento si occupò della messa a norma dell’impianto al
posto della madre ormai in età (tratto da e link a
www.diritto24.ilsole24ore.com). |
CONDOMINIO: Sentenza
della Cassazione. L'unico obbligo è riferire all'assemblea,
ma non serve l'autorizzazione. Amministratore sempre in
causa. Il condomino può citare in giudizio senza alcuna
limitazione.
L'amministratore di condominio può essere convenuto in
giudizio senza alcuna limitazione e senza bisogno
dell'autorizzazione dell'assemblea per qualunque azione
relativa alle parti comuni promosse contro il condominio da
terzi o anche dal singolo condomino: in tal caso
l'amministratore ha il solo obbligo di riferire
all'assemblea, con la conseguenza che la sua presenza in
giudizio esclude la necessità di citare in giudizio tutti i
condomini.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione nella recente
sentenza 04.10.2012 n. 16901.
La vicenda che ha portato a tale decisione prendeva l'avvio
allorché un condomino si rivolgeva al giudice di pace
richiedendo che fosse accertata la titolarità del vano
soffitta (che sosteneva di aver usucapito) e la quota di
millesimi di proprietà che era certo fosse inferiore
rispetto a quella utilizzata dall'amministratore per la
ripartizione delle spese. In ogni caso il condomino
pretendeva che il condominio fosse condannato alla
restituzione delle maggiori somme pagate a partire
dall'approvazione del regolamento condominiale e della
relativa tabella millesimale. Si costituiva in giudizio il
condominio che rilevava, tra l'altro, come l'amministratore
non potesse stare in giudizio per questo tipo di vertenza e
fosse necessario chiamare in causa tutti i condomini,
nessuno escluso. Il giudice di pace dava ragione al
condominio, ritenendo la domanda dell'attore come richiesta
di modificazione della tabella millesimale.
Successivamente il Tribunale confermava la sentenza di primo
grado cambiando, tuttavia, motivazione. Quest'ultimo,
infatti, aveva ritenuto che il condomino non avesse
domandato la modifica delle tabelle millesimali, ma avesse
solo denunciato l'errore in cui era incorso
l'amministratore, attribuendo al medesimo una quota di
millesimi di proprietà maggiore rispetto a quella che gli
sarebbe spettata in base alla tabella millesimale allegata
al regolamento. Ma, sempre secondo il tribunale, il
condomino aveva anche domandato un accertamento di proprietà
(del sottotetto) che non andava chiesto nei confronti del
condominio ma di tutti i condomini, e sotto questo profilo,
aveva dichiarato la mancata legittimazione passiva
dell'amministratore. In ogni caso, lo stesso tribunale aveva
aggiunto come il condominio, nel chiederne l'accertamento
della titolarità, non avesse allegato alcun titolo di
proprietà esclusiva sul vano soffitto indicato nell'atto di
citazione.
Queste considerazioni non sono state condivise dalla
Cassazione, perché il giudice di appello avrebbe dovuto
accertare, comunque, anche in via incidentale se il
condomino fosse proprietario del vano soffitta e, in
mancanza di altro titolo di acquisto, se lo stesso lo avesse
acquistato per usucapione. D'altra parte, secondo i giudici
supremi, il condomino non aveva richiesto il mero
accertamento dell'errore materiale delle tabelle, ma anche
l'accertamento del fatto che egli fosse titolare di una
quota (minore) di millesimi di proprietà relativi al
sottotetto, e dunque, un accertamento di proprietà. Tale
accertamento, come precisato dalla Cassazione, poteva
certamente essere richiesto citando il giudizio solo
l'amministratore del condominio che, senza limiti, può
resistere anche in ordine alle azioni di natura reale
relative alle parti comuni dell'edificio promosse contro il
condominio da terzi o anche dal singolo condomino. In tal
caso l'amministratore ha il solo obbligo di riferire
all'assemblea, con la conseguenza che la sua presenza in
causa esclude la necessità di chiamare in causa tutti i
condomini.
In ogni caso, merita di essere rilevato che, secondo
l'attuale orientamento dei giudici di legittimità, se anche
il condomino avesse richiesto la revisione delle tabelle per
errore (errata misurazione della superficie o della cubatura
di un'unità immobiliare, operazioni matematiche di calcolo
errate, confusione della stima di un'unità con quella di
un'altra ecc.), non sarebbe stato necessario chiamare in
giudizio tutti i condomini, in quanto tale richiesta può
essere rivolta al condominio in persona dell'amministratore.
La revisione (e l'approvazione) delle tabelle, infatti,
viene ritenuta come una semplice operazione tecnica e non
un'attività di natura contrattuale che richieda il consenso
di tutti i condomini
(articolo ItaliaOggi Sette del 05.11.2012). |
CONDOMINIO:
LA RIFORMA DEL CONDOMINIO/ La riforma approvata alla Camera.
Basta la maggioranza per sorvegliare le parti comuni. Video,
riscaldamento, animali. Nuove regole per il condominio.
Via libera a maggioranza alla videosorveglianza
condominiale. La ripresa di spazi e aree comuni raggiunge
così certezza normativa, all'interno di una grande
confusione giurisprudenziale.
È una delle novità introdotte dalla riforma del condominio
approvata alla camera venerdì scorso in seconda lettura e
ora al senato per l'ormai sicuro sì definitivo (si veda
ItaliaOggi del 28 settembre). Ma vediamo le principali
novità.
La videosorveglianza. L'installazione di sistemi di
videosorveglianza viene sovente effettuata da persone
fisiche per fini esclusivamente personali. In tali ipotesi
possono rientrare, a titolo esemplificativo, strumenti di
videosorveglianza idonei a identificare coloro che si
accingono a entrare in luoghi privati (videocitofoni ovvero
altre apparecchiature che rilevano immagini o suoni, anche
tramite registrazione), oltre a sistemi di ripresa
installati nei pressi di immobili privati e all'interno di
condomini e loro pertinenze (quali posti auto e box). In tal
caso la disciplina del Codice non trova applicazione qualora
i dati non siano comunicati sistematicamente a terzi ovvero
diffusi.
Si ricorda però che, seppure non trovi applicazione
la disciplina del Codice, al fine di evitare di incorrere
nel reato di interferenze illecite nella vita privata,
l'angolo visuale delle riprese deve essere comunque limitato
ai soli spazi di propria esclusiva pertinenza (ad esempio
antistanti l'accesso alla propria abitazione) escludendo
ogni forma di ripresa, anche senza registrazione di
immagini, relativa ad aree comuni (cortili, pianerottoli,
scale, garage comuni) ovvero ad ambiti antistanti
l'abitazione di altri condomini.
Per le aree condominiali, invece, nel provvedimento dell'8
aprile 2010 sulla videosorveglianza il garante ha appurato
una lacuna normativa. In quella sede per i trattamenti
effettuati dal condominio (anche per il tramite della
relativa amministrazione), il garante ha evidenziato
l'assenza di una puntuale disciplina che permettesse di
risolvere alcuni problemi applicativi evidenziati
nell'esperienza di questi ultimi anni. Il garante
evidenziava, infatti, che non era chiaro se l'installazione
di sistemi di videosorveglianza possa essere effettuata in
base alla sola volontà dei comproprietari, o se rilevi anche
la qualità di conduttori; ancora non era chiaro quale fosse
il numero di voti necessario per la deliberazione
condominiale in materia (se occorra cioè l'unanimità oppure
una determinata maggioranza).
La legge di riforma del condominio affronta direttamente la
questione e stabilisce che le deliberazioni concernenti
l'installazione sulle parti comuni dell'edificio di impianti
volti a consentire la videosorveglianza su di esse sono
approvate dall'assemblea con la maggioranza di cui al
secondo comma dell'articolo 1136 del codice civile.
Vediamo dunque cosa prevede l'articolo 1136 del codice
civile, che è stato modificato. In prima convocazione per
l'approvazione di una delibera ci vuole il quorum di 2/3 del
valore e maggioranza per teste, e voto favorevole della
maggioranza degli intervenuti e almeno metà del valore
dell'edificio. In seconda convocazione basta, invece, la
maggioranza degli intervenuti con un numero di voti che
rappresenti almeno un terzo del valore dell'edificio.
Una volta rispettate queste maggioranze si può passare a
installare le telecamere. Ma senza dimenticare che si devono
osservare le precauzioni previste dal provvedimento generale
del garante della privacy.
In particolare si devono osservare le seguenti cautele.
Informativa. Le persone che transitano nelle aree
sorvegliate devono essere informati con cartelli della
presenza delle telecamere, i cartelli devono essere resi
visibili anche quando il sistema di videosorveglianza è
attivo in orario notturno. Nel caso in cui i sistemi di
videosorveglianza installati siano collegati alle forze di
polizia è necessario apporre uno specifico cartello che lo
evidenzi.
Conservazione. Le immagini registrate possono essere
conservate per periodo limitato e fino ad un massimo di 24
ore, fatte salve speciali esigenze di ulteriore
conservazione in relazione a indagini.
Consenso. Contro possibili aggressioni, furti, rapine,
danneggiamenti, atti di vandalismo, prevenzione incendi,
sicurezza del lavoro ecc. si possono installare telecamere
senza il consenso dei soggetti ripresi, ma sempre sulla base
delle prescrizioni indicate dal Garante.
Addio riscaldamento centralizzato. La riforma modifica
l'articolo 1118 del codice civile per precisare che il
singolo condomino può distaccarsi dall'impianto
centralizzato di riscaldamento, ma solo in presenza di due
condizioni. La prima è che l'unità abitativa non gode della
normale erogazione di calore, per problemi tecnici
all'impianto condominiale, che non vengono risolti nel corso
di una intera stagione di riscaldamento. La seconda è che il
distacco non comporti squilibri tali da compromettere la
normale erogazione di calore agli altri condomini o aggravi
di spesa.
Più in dettaglio la norma prevede che il condomino, se viene
oggettivamente constatato che il proprio immobile non gode
della normale erogazione di calore, a causa di problemi
tecnici dell'impianto condominiale, e questi, nell'arco di
una intera stagione di riscaldamento, non sono risolti dal
condominio, può rinunciare all'utilizzo dell'impianto
centralizzato di riscaldamento o di condizionamento, a
condizione che dal suo distacco non derivino squilibri tali
da compromettere la normale erogazione di calore agli altri
condomini o aggravi di spesa.
Chi si è distaccato non rimane esente da spese: è sempre
tenuto a concorrere esclusivamente al pagamento delle spese
di manutenzione straordinaria dell'impianto e per la sua
conservazione e messa a norma.
Si tratta questa di una specificazione dell'articolo 1118
del codice civile, nella parte in cui prescrive che il
condomino non può, rinunziando al diritto sulle cose
anzidette, sottrarsi al contributo nelle spese per la loro
conservazione.
Inoltre il nuovo articolo 1122 del codice civile, in
generale, esclude che il condomino possa eseguire opere che
rechino danno alle parti comuni o pregiudizio alla
stabilità, alla sicurezza e al decoro architettonico
dell'edificio. L'amministratore deve in ogni caso essere
avvisato prima dell'avvio dei lavori ai fini della relativa
comunicazione in assemblea (articolo
ItaliaOggi Sette dell'01.10.2012). |
settembre 2012 |
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CONDOMINIO: Amministratori, revoca più facile.
Basta una sola firma. Arrivano il registro e l'assicurazione.
Ok della Camera al ddl, ora l'ultimo
sì del Senato. Animali in libertà.
L'amministratore del condominio dovrà avere una polizza di
responsabilità civile e basterà la firma anche di un solo
condomino per chiederne la revoca. L'amministratore dovrà
inoltre iscriversi al registro gestito dall'Agenzia del
territorio e seguire corsi di formazione. Nessun divieto a
chi vuole tenere cani o gatti. Possibilità per il condominio
di aprire un sito Internet dove scambiarsi rendiconti e
delibere, e per il condomino di distaccarsi dal
riscaldamento centralizzato, anche se dovrà continuare a
pagare le spese di manutenzione straordinaria dell'impianto.
Chi acquista è responsabile delle spese condominiali non
pagate alla data del subentro senza limiti.
Sono queste
alcune delle novità del
ddl
C-4041 di riforma del condominio,
approvato ieri dalla Camera in seconda lettura e che adesso
passa al Senato per il sì definitivo.
Riscaldamento. Riprendendo un orientamento della cassazione,
da un lato si consente al singolo condomino di staccarsi
dall'impianto di riscaldamento centralizzato: il presupposto
è che abbia riscontrato un malfunzionamento per un anno e
sempre che li disservizio sia da imputare all'impianto
condominiale; dall'altro lato il singolo condomino dovrà
continuare a partecipare alle spese straordinario
dell'impianto comune.
Animali da compagnia. Il regolamento condominiale non può
porre limiti alle destinazioni d'uso delle unità di
proprietà esclusiva e non può vietare di possedere o
detenere animali da compagnia.
Videosorveglianza. Il garante della privacy più volte ha
sollevato il problema della mancanza di una disposizione
specifica sulla maggioranza relativa all'installazione di
impianti di videosorveglianza sulle parti comuni. La riforma
specifica che basta la maggioranza (articolo 1136, secondo
comma, codice civile) e non ci vuole l'unanimità.
Maggioranze. Viene riscritto articolo 1136 del codice
civile. In prima convocazione per l'approvazione di una
delibera ci vuole il quorum di 2/3 del valore e maggioranza
per teste, e voto favorevole della maggioranza degli
intervenuti e almeno metà del valore dell'edificio. In
seconda convocazione basta, invece, la maggioranza degli
intervenuti con un numero di voti che rappresenti almeno un
terzo del valore dell'edificio.
Amministratore dimezzato. L'amministratore non potrà
accedere nei singoli alloggi per verificare se sono stati
fatti lavoro che mettono in pericolo la sicurezza degli
edifici. La prerogativa prevista nel testo originario è
stata annullata durante l'iter parlamentare.
Polizza dell'amministratore. L'amministratore deve prestare
una polizza di responsabilità civile; anche se il premio è
caricato sul bilancio condominiale.
Revoca dell'amministratore. Basta la firma di un solo
condomino per chiedere la convocazione dell'assemblea per
revocare l'amministratore infedele.
Subentro nell'alloggio. Chi acquista un alloggio diventa
responsabile di tutte le spese condominiali non pagate alla
data del subentro senza limiti di tempo. Occorre, quindi,
che la situazione venga messa in chiaro per evitare un
decreto ingiuntivo del condominio. Sempre in materia di
spese si segnala che il nudo proprietario e l'usufruttuario
diventano responsabili in solido per il pagamento dei
contributi dovuti all'amministrazione condominiali.
Assemblee. La riforma stabilisce il divieto di tenerle nei
giorni di feste religiose.
Millesimi. La possibilità di rettifica a maggioranza dei
millesimi sbagliati riguarda tutti i casi di errore e non
solo quello (unico originariamente previsto) di errore di
calcolo materiale.
Repertorio dei condomini. Viene istituito presso l'agenzia
del territorio il repertorio dei condomini. Saranno annotate
le deliberazioni delle assemblee, i bilanci, le modifiche di
destinazioni di uso, contratti, le ordinanze e sentenze
riguardanti il condominio.
Registro degli amministratori. Sempre presso l'Agenzia del
territorio (e non preso le camere di commercio) è istituito
il registro degli amministratori, in cui possono iscriversi
anche le società. Potranno iscriversi da subito coloro che
hanno un triennio di attività; poi è richiesta la frequenza
a un corso di formazione.
Sito web. Il condominio potrà aprirsi un sito internet on la
maggioranza dell'articolo 1136 codice civile: servirà a
scambiare rendiconti e delibere.
Conciliazione.
Per le mediazioni, precedenti una causa, si deve andare ad
un organismo di conciliazione nella circoscrizione del
tribunale in cui ha sede il condominio
(articolo ItaliaOggi del 28.09.2012). |
CONDOMINIO:
Canna fumaria, conta chi la usa.
Il bene può anche non essere di proprietà condominiale. Per
la Cassazione prevale la prova della destinazione sulla
presunzione di comunione.
La canna fumaria, anche se ricavata all'interno di un muro
comune, può anche non essere di proprietà condominiale,
laddove la presunzione di comunione del bene sia vinta in
concreto dalla prova della destinazione oggettiva del bene a
servire in modo esclusivo uno solo dei comproprietari.
Questo il principio stabilito dalla II Sez. civile
della Corte di Cassazione nella recente
sentenza
25.09.2012 n. 16306.
La presunzione di comunione dei beni. Il codice civile,
all'art. 1117, elenca una serie di beni che si presumono di
natura condominiale, ossia destinati all'utilizzo e al
godimento di tutti i comproprietari: il suolo su cui sorge
l'edificio, le fondazioni, i muri maestri, i tetti e i
lastrici solari, le scale, i portoni d'ingresso, i
vestiboli, gli anditi, i portici, i cortili, i locali per la
portineria e per l'alloggio del portiere, per la lavanderia,
per il riscaldamento centrale ecc..
Detti beni, come detto,
si presumono oggetto di proprietà comune dei proprietari dei
diversi piani o porzioni di piani di un edificio, a meno
che, per utilizzare il linguaggio codicistico, il contrario
non risulti dal titolo. Con quest'ultima espressione, come
chiarito anche dalla Suprema corte nella sentenza in
questione, si intende fare riferimento non solo ad atti
formali, come ad esempio il regolamento condominiale, ma
anche a circostanze di fatto, quali la destinazione
funzionale del bene.
Il caso concreto. Nella specie due condomini, proprietari di
un appartamento, avevano citato avanti alla pretura di Roma
i proprietari dell'appartamento soprastante. I primi, sul
presupposto che nell'incavo del muro maestro era stato
installato da tempo immemorabile un caminetto con relativa
canna fumaria che attraversava la parete condominiale del
sovrastante appartamento di proprietà dei convenuti,
lamentavano il fatto che questi ultimi avessero innestato a
loro volta nella predetta canna fumaria un'altra tubatura,
provocandone l'occlusione, per cui chiedevano al giudice di
accertare la loro proprietà esclusiva della canna fumaria in
questione, con condanna dei convenuti al ripristino dello
stato dei luoghi. Si erano però costituiti in giudizio i
convenuti, chiedendo il rigetto della domanda attrice,
sostenendo che la canna fumaria fosse invece di loro
proprietà esclusiva.
La decisione della Cassazione. I giudici di legittimità,
ritenendo che nel caso in questione fosse essenziale
stabilire alternativamente se la canna fumaria inserita
nell'edificio condominiale costituisse o meno opera
all'esclusivo servizio dell'unità immobiliare degli attori
originari, ovvero di quella dei convenuti originari o se,
infine, la stessa ricadesse nel novero delle cose comuni ai
sensi dell'art. 1117 c.c., hanno quindi concluso nel senso
che, sulla base delle risultanze processuali, il titolo
attributivo dell'esclusiva proprietà del bene agli attori
andava ricercato nella destinazione funzionale dell'opera
predetta all'esclusivo servizio del loro appartamento.
Nel
fare questo la Suprema corte si è richiamata a un precedente
di legittimità (sentenza n. 9231/1991) nel quale analogamente
era stato stabilito che una canna fumaria, anche se ricavata
nel vuoto di un muro comune, non è necessariamente di
proprietà comune, ben potendo appartenere a uno solo dei
condomini, ove sia destinata a servire esclusivamente
l'appartamento cui afferisce, costituendo detta destinazione
titolo contrario alla presunzione legale di comunione. Di
qui il rigetto del ricorso presentato dai condomini
convenuti in primo grado che, dopo aver presentato
inutilmente appello avverso la sentenza della pretura di
Roma, si sono visti condannare anche alle spese del giudizio
di legittimità.
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Non si può pregiudicare il decoro della facciata.
Le canne fumarie all'interno del condominio rappresentano da
sempre una delle principali cause di litigio tra condomini.
In assenza di titolo contrario (il regolamento di
condominio, un atto di acquisto delle singole unità, una
sentenza passata in giudicato che ne accerti l'usucapione),
la canna fumaria si presume comune.
Tuttavia non è necessariamente di proprietà comune, ben
potendo appartenere a un gruppo di condomini o a uno solo
dei comproprietari, ove sia destinata a servire
esclusivamente un determinato appartamento. In ogni caso non
si può escludere che il singolo condomino debba installare
una nuova canna fumaria nelle parti comuni. Tale ipotesi è
normalmente ammessa, purché si rispettino determinati
requisiti. Al contrario è da escludere che un singolo
condomino possa utilizzare la canna fumaria dell'impianto
centrale di riscaldamento anche se questo sia stato
disattivato dal condominio, perché si avrebbe una definitiva
sottrazione della canna fumaria alle possibilità di
godimento della restante parte dei condomini (in questo caso
è necessario il consenso di tutti gli altri condomini).
Installazione di canna fumaria in facciata. L'appoggio di
una canna fumaria al muro comune perimetrale di un edificio
condominiale comporta una modifica della cosa comune
conforme alla destinazione della stessa, che ciascun
condomino può apportare a sue cure e spese. Del resto si
deve considerare la normale possibilità del muro stesso di
contenere o reggere una o più canne fumarie, senza subire
alterazione apprezzabile della sua principale funzione e
senza compromettere l'uso da parte degli altri condomini.
Tali considerazioni valgono a maggiore ragione nel caso in
cui l'opera sia diretta a evitare la diffusione dei fumi di
cottura di un ristorante, che incidono in modo particolare
sulle condizioni di vita di tutti i condomini.
Certo tale appoggio non deve pregiudicare il decoro del
caseggiato, incidendo negativamente sull'insieme
dell'aspetto dello stabile (e ciò a prescindere dal
particolare pregio estetico dell'edificio). Così, ad
esempio, deve ritenersi illegittima l'installazione di una
canna fumaria che percorra tutta la facciata dell'edificio
condominiale, così da pregiudicare l'aspetto e l'armonia del
condominio.
Allo stesso modo la canna fumaria deve essere di dimensioni
tali da non ridurre considerevolmente la visuale da parte
degli altri condomini che usufruiscano di vedute dalla
facciata interessata.
Il discorso si collega alla compatibilità dell'installazione
di una canna fumaria rispetto delle distanze legali. A tale
proposito si deve precisare che le norme in materia sono
applicabili anche nei rapporti tra il condominio e il
singolo condomino nel caso in cui esse siano compatibili con
l'applicazione delle norme particolari relative all'uso
delle cose comuni, cioè nel caso in cui sia possibile una
applicazione complementare. Quindi, qualora vi sia
compatibilità tra le due discipline, la distanza legale per
la collocazione di una canna fumaria sul muro perimetrale
comune, a opera di uno dei condomini, non può essere
inferiore a 75 centimetri dai più vicini sporti dei balconi
di proprietà esclusiva degli altri comproprietari.
In ogni
caso una canna fumaria installata in un condominio ex novo e
senza alcuna previa autorizzazione condominiale va rimossa
qualora provochi immissioni che superino la normale soglia
di tollerabilità o, quanto meno, dovranno essere adottate le
misure tecniche idonee a limitare il disagio arrecato. Del
resto è possibile che il regolamento di condominio preveda
limiti più rigorosi nell'installazione di una nuova canna
fumaria da parte del singolo condominio.
Installazione di canna fumaria sul lastrico solare.
Qualora l'installazione della canna fumaria vada a
interessare una porzione di lastrico solare, occorrerà
verificare se tale installazione alteri o meno la funzione
di protezione e calpestio del lastrico stesso e se sottragga
il lastrico o parte di esso alla possibilità di utilizzo da
parte degli altri condomini. Occorrerà pertanto valutare
caso per caso se l'installazione sia legittima.
La giurisprudenza ha poi ritenuto che se il condomino
inserisce la propria canna fumaria nel lastrico solare
comune, incorporandone una porzione con opere murarie, al
servizio esclusivo del proprio appartamento, non ne
compromette la destinazione se occupa una zona periferica
del tutto trascurabile rispetto alla superficie complessiva
del lastrico, senza che possa, in concreto, escludersi la
funzione di calpestio del lastrico o le possibilità di uso
degli altri comproprietari.
Al contrario il condomino che, senza previa autorizzazione,
inserisca stabilmente e con opere murarie una canna fumaria
di dimensioni non limitate in corrispondenza dell'esiguo
cordolo perimetrale del lastrico solare destinato a
stenditoio, pone in essere un'occupazione stabile e
duratura, non consentita dalla legge, sottraendo la relativa
porzione di bene comune all'uso e al godimento degli altri
condomini (articolo ItaliaOggi Sette del
15.10.2012). |
CONDOMINIO:
Fotovoltaico, il condomino è
spa.
Con impianti oltre 20 kw o vendita scatta la società di
fatto. I chiarimenti delle Entrate a
un quesito del Gse. Nessuna rilevanza fiscale agli
incentivi.
Sconta l'Iva e la ritenuta alla fonte del 4% la cessione di
energia da fotovoltaico effettuata dai condomini a favore
del Gse (Gestore dei servizi energetici). Ciò perché, ove
vengano superati i limiti di potenza previsti per
l'autoconsumo, si è in presenza di una vera e propria
società di fatto tra i soggetti (condomini) che di comune
accordo intraprendono l'attività; resta invece del tutto
esclusa qualsiasi rilevanza per il condominio, inteso come
soggetto autonomo che non può mai esercitare attività
d'impresa.
È la soluzione che l'Agenzia delle entrate ha adottato, con
risoluzione 03.08.2012 n. 84/E, in merito a un
quesito avanzato dallo stesso Gse.
Il punto di partenza, condiviso, è che le somme percepite a
titolo di tariffa incentivante in relazione all'energia
prodotta con impianti di potenza fino a 20 kw asserviti al
condomino, non assumono rilevanza fiscale, al pari di quella
percepita dalle persone fisiche e dagli enti non commerciali
che gestiscono impianti fotovoltaici della stessa potenza
per soddisfare principalmente le esigenze domestiche.
Ma cosa succede quando il condominio utilizza un impianto,
di potenza superiore a 20 kw o in relazione al quale opti
per la cessione integrale o parziale alla rete dell'energia
prodotta?
Il problema attiene all'individuazione del soggetto che, in
sostanza, esercita l'attività imprenditoriale.
Il Gse, nella propria soluzione interpretativa aveva
individuato nel condominio il soggetto cui attribuire
l'attività e i relativi obblighi tributari.
Per l'Agenzia delle entrate, però, il condominio resta
estraneo, in ogni caso, all'attività di produzione di
energia, in quanto, gli effetti economici (percezione dei
proventi) e fiscali (tassazione dei proventi) conseguenti
allo svolgimento di questa attività, si producono
direttamente sui condòmini. Il condominio, infatti,
disciplinato dagli articoli 1117 e seguenti del codice
civile, rappresenta una particolare forma di comunione che
riguarda le parti comuni dell'edificio che necessita di
essere amministrata o dall'assemblea dei condòmini, che
decide in base al principio di prevalenza della maggioranza,
nel bene degli interessi comuni, oppure, per gli edifici
condominiali con più di quattro condòmini,
dall'amministratore, avente compiti di carattere
amministrativo, esecutivo e rappresentativo che permettono
al condominio di agire in modo unitario nei rapporti con i
terzi (fornitori, utenze, amministrazione finanziaria,
eccetera). In sostanza il condominio è un ente di gestione
che opera per conto dei condòmini limitatamente
all'amministrazione e al buon uso della cosa comune senza
interferire nei diritti autonomi di ciascun condòmino.
Nell'ipotesi in cui negli spazi condominiali venga
realizzato un impianto fotovoltaico che configura lo
svolgimento di un'attività commerciale abituale, il
condominio non può mai configurarsi come soggetto che svolge
l'attività di produzione e vendita dell'energia.
Ebbene, secondo l'Agenzia l'accordo tra i condomini per la
realizzazione dell'impianto individua una società di fatto
tra gli stessi. Più precisamente, poiché la realizzazione
dell'impianto fotovoltaico per fini commerciali rientra tra
le «Innovazioni» che i condomini possono disporre ai sensi
dell'art. 1120 del codice civile «(_) dirette al
miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento
delle cose comuni» sono considerati soci della società di
fatto i condòmini che hanno deliberato con la maggioranza
richiesta dall'art. 1136 del codice civile, la realizzazione
dell'investimento. Restano esclusi, dalla società di fatto i
condòmini che non hanno approvato la decisione e che non
intendono trarre vantaggio dall'investimento. In questo caso
gli stessi, sulla base di quanto disposto dall'art. 1121,
primo comma, ultima parte, del codice civile «sono esonerati
da qualsiasi contributo di spesa».
Cosicché da un lato la società di fatto tra condòmini che
gestisce un impianto fotovoltaico è commerciale e deve
emettere fattura nei confronti del Gse, in relazione
all'energia che immette in rete e dall'altro il Gse che
eroga la tariffa incentivante deve operare nei confronti
della società di fatto la ritenuta del 4% di cui all'art. 28
del dpr n. 600 del 1973 sulla tariffa relativa alla parte di
energia immessa in rete (articolo
ItaliaOggi Sette del 10.09.2012). |
CONDOMINIO: Convocazione annullabile.
Domanda
L'amministratore condominiale ha convocato l'assemblea
annuale, che si è tenuta e ha deliberato, tra l'altro,
l'esecuzione di alcuni lavori.
Per errore, però, non è stato inviato l'avviso di
convocazione a uno dei condomini. Quali sono le conseguenze?
L'assemblea è nulla o annullabile? I contratti firmati
restano validi?
Risposta
Fino alla sentenza n. 4806/2005 delle Sezioni unite della
Corte di cassazione e in mancanza di una norma che regolasse
tale problematica condominiale, la questione risultava
dubbia.
La citata sentenza ha però chiarito che nel caso specifico
si verte in una ipotesi di delibera annullabile (e non
nulla), suscettibile di impugnazione entro il ristretto
termine di trenta giorni dalla deliberazione (per i
condomini presenti e dissenzienti) o dalla sua comunicazione
(per gli assenti) di cui all'art. 1137, 3° comma, del codice
civile.
La Cassazione ha chiarito che sono nulle le delibere prive
degli elementi essenziali, con oggetto impossibile o
illecito (contrario all'ordine pubblico, alla morale o al
buon costume), con oggetto che non rientra nella competenza
dell'assemblea, che incidono sui diritti individuali sulle
cose o servizi comuni o sulla proprietà esclusiva dei
condomini e quelle comunque invalide in relazione
all'oggetto.
Invece, sono solo annullabili le delibere con vizi circa la
regolare costituzione dell'assemblea, quelle adottate con
maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge o dal
regolamento condominiale, quelle con vizi formali, in
violazione di prescrizioni legali, convenzionali,
regolamentari, attinenti al procedimento di convocazione o
di informazione dell'assemblea, quelle genericamente affette
da irregolarità nel procedimento di convocazione, quelle che
violano norme che richiedono qualificate maggioranze in
relazione all'oggetto.
Da quanto precisato consegue che in assenza di impugnazione
nel termine di 30 giorni la delibera non può più essere
contestata e restano validi i rapporti generati
conseguentemente (articolo ItaliaOggi
Sette del 10.09.2012). |
CONDOMINIO:
Ripartizione nulla.
Domanda
L'assemblea condominiale, su proposta e in accordo con
l'amministratore (lui stesso condomino), ha deliberato a
maggioranza di ripartire le spese di consolidamento e
ristrutturazione delle scale in base ai millesimi di
proprietà dei singoli condomini, anziché rispetto al
criterio legale di cui all'art. 1124 c.c, nella
considerazione che appare più equo nei riguardi di chi è
proprietario di appartamenti ai piani alti dato che comunque
le scale servono a tutti. Questo criterio ad alcuni
condomini sembra in contrasto con quanto previsto dalla
legge (il regolamento non dispone nulla).
Risposta
Secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione (cfr. p.es. la sent. n. 747/2009), si verte in ipotesi di nullità
solo nel caso l'assemblea consapevolmente modifichi i
criteri di ripartizione delle spese stabiliti dalla legge;
invece, le deliberazioni relative alla ripartizione delle
spese sono semplicemente annullabili nel caso in cui i
suddetti criteri siano violati o disattesi (in tal senso,
sent. n. 7708/2007 e n. 16793/2006).
Da quanto prospettato, nel caso specifico l'assemblea sembra
avere inteso modificare volutamente i criteri legali, non
ritenendoli equi o adeguati, senza raggiungere l'unanimità
dei consensi, cosicché sembra attanagliarsi al caso concreto
l'ipotesi più grave della nullità, anziché della semplice
annullabilità. Fermo restando che in presenza di dubbi, come
frequentemente accade nella materia in questione, il
criterio più cautelativo è quello di rivolgersi a un legale
specializzato con la massima tempestività e di cercare di
procedere comunque all'impugnazione nel più ristretto
termine di 30 giorni previsto per l'annullamento, il
ricorrere della causa di nullità fa invece venire meno
l'obbligo di rispettare il predetto termine (articolo
ItaliaOggi Sette del 10.09.2012). |
CONDOMINIO:
Ai pericoli pensa
l'amministratore.
Risponde per la mancata messa in sicurezza di aree comuni.
La Cassazione: non può addurre a sua
difesa di non aver avuto l'autorizzazione dall'assemblea.
È dovere dell'amministratore di condominio impegnarsi per
tutelare i diritti inerenti le parti comuni. Anche senza
autorizzazione diretta dei condomini. E quindi, risponde
penalmente l'amministratore che non si sia attivato per
eliminare una sconnessione presente sul marciapiede di
un'area condominiale che abbia poi causato la caduta di un
passante. È proprio in casi del genere che l'amministratore
non può difendersi eccependo di non essere stato autorizzato
dall'assemblea.
Lo ha chiarito la IV Sez. penale della Corte di
Cassazione nella sentenza 06.09.2012 n. 34147.
Il caso concreto. Un'anziana signora era caduta
rovinosamente a terra a causa dell'avvallamento venutosi a
creare tra il pavimento e il tombino per la raccolta delle
acque reflue condominiali posto sul marciapiede che dava
accesso all'edificio. La donna si era quindi procurata una
frattura giudicata guaribile in un tempo superiore ai 40
giorni.
Per l'accaduto era stato quindi avviato un
procedimento penale nei confronti dell'amministratore
condominiale, giudicato responsabile per non essersi
prontamente attivato per evitare il rischio di incidenti
dovuti all'avvallamento e lo stesso era stato condannato
alla pena della multa e al risarcimento dei danni sofferti
dall'anziana signora, costituitasi parte civile, liquidati
in 5.000,00 euro. L'amministratore aveva quindi impugnato la
sentenza direttamente in Cassazione, ritenendo di non avere
alcuna responsabilità nel caso in questione.
La decisione della Suprema corte. L'amministratore
condominiale sosteneva che nella specie la sua condotta non
fosse penalmente rilevante, difettando nell'ordinamento una
norma che lo obbligasse ad attivarsi in casi del genere. In
altre parole, l'amministratore contestava di non avere mai
avuto alcun incarico dall'assemblea di provvedere alla
sistemazione della predetta area né di aver mai ricevuto
alcuna segnalazione, da parte dei condomini o di terzi,
relativamente alla situazione di pericolo che si era venuta
a creare sul marciapiede in questione.
Quest'ultimo,
inoltre, lamentava il fatto che, secondo l'ordinamento
vigente, all'amministratore condominiale sia possibile porre
in essere lavori di manutenzione straordinaria soltanto ove
connotati dal requisito dell'assoluta urgenza, tanto più che
detto dislivello era del tutto visibile e, quindi, non
poteva essere qualificato come insidia o trabocchetto.
Di tutt'altro avviso si è mostrata però la quarta sezione
penale della Corte di cassazione, che ha integralmente
confermato la sentenza di condanna. I giudici di legittimità
hanno infatti configurato un'ipotesi di responsabilità
omissiva colposa in carico all'amministratore condominiale,
che riveste per legge una specifica posizione di garanzia
rispetto ai pregiudizi che possono derivare ai condomini e
ai terzi dalle parti comuni. Secondo la Suprema corte detto
obbligo di intervenire per evitare situazioni di pericolo
prescinde assolutamente da qualsiasi preventiva
autorizzazione da parte dell'assemblea condominiale, così
come da qualsiasi preliminare segnalazione proveniente dai
condomini, dalla pubblica amministrazione o dai terzi.
Inoltre, sempre secondo la Cassazione, dall'ultimo comma
dell'art. 1135 del codice civile si ricava la conclusione
che l'amministratore ha facoltà di provvedere alle opere di
manutenzione straordinaria che rivestano carattere urgente,
dovendo in seguito informarne l'assemblea. Per i giudici di
legittimità è indubitabile il fatto che l'eliminazione di
un'insidia o di un trabocchetto esistente su una parte
comune rientri nel novero degli interventi urgenti, con
conseguente sanzione dell'eventuale condotta omissiva
dell'amministratore.
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Tra obblighi e doveri, gli interventi di riparazione urgenti.
L'amministratore di condominio non solo ha il compito di
affrontare le spese attinenti alla manutenzione ordinaria e
alla conservazione delle parti e servizi comuni
dell'edificio, ma anche il potere-dovere di ordinare lavori
di manutenzione straordinaria che rivestano carattere
urgente, con l'obbligo di riferirne nella prima assemblea
dei condomini.
Quindi, nell'adempiere agli obblighi sanciti dalla legge in
materia di manutenzione straordinaria, l'amministratore non
deve attendere la deliberazione dell'assemblea, trattandosi
di atti urgenti e che lo espongono direttamente, e
personalmente, a responsabilità penale. In ogni caso non
rileva l'ignoranza dello stato di pericolo in cui si trova
il caseggiato, né una preventiva diffida, con specifica
previsione di un termine perentorio entro cui provvedere
alla manutenzione dell'immobile pericolante, da parte della
pubblica autorità: l'obbligo di mettere mano all'esecuzione
dei lavori necessari a rimuovere il pericolo per
l'incolumità dei condomini o dei terzi sorge infatti
indipendentemente da qualsiasi provvedimento della pubblica
amministrazione.
La responsabilità penale dell'amministratore: casi pratici.
Alla luce di quanto sopra si può affermare che, in linea
generale, ogni evento dannoso conseguente a un mancato
tempestivo intervento di riparazione è ascrivibile
all'amministratore, il quale può addirittura incorrere in
responsabilità penale. Nella predetta sentenza n. 34147
dello scorso 06.09.2012 della Suprema corte, come
detto, l'amministratore condominiale è stato ritenuto
responsabile per le gravi lesioni subite da un'anziana donna
che è inciampata rovinando a terra causata a causa di
avvallamenti e sconnessioni della pavimentazione in
prossimità di un tombino: è certo infatti che l'eliminazione
di un'insidia o trabocchetto derivante dal mancato
livellamento della pavimentazione rappresenti intervento di
ordine urgente a carico dell'amministratore.
In un altro
caso deciso dalla giurisprudenza un amministratore è stato
invece chiamato a rispondere penalmente per le lesioni
causate a un passante dalla caduta di una tegola da un tetto
in stato di cattiva manutenzione. Allo stesso modo
l'amministratore può essere ritenuto responsabile (per
violazione dell'obbligo giuridico di vigilanza) per le
conseguenze di un incendio riconducibile a un difetto di
installazione di una canna fumaria di proprietà di un terzo
estraneo al condominio che attraversi parti comuni
dell'edificio. Infine, è certamente responsabile se ignora
il contenuto di un'ordinanza del sindaco che gli imponga
l'esecuzione di urgenti riparazioni dell'immobile, stante il
pericolo di crollo di alcune parti comuni.
I limiti della responsabilità penale dell'amministratore. È
importante precisare che la responsabilità
dell'amministratore per omissione di lavori deve essere
accertata in concreto. Ad esempio qualora vi sia un mancato
stanziamento dei fondi necessari per porre rimedio al
degrado che dà luogo al pericolo, per parte della
giurisprudenza non potrebbe ipotizzarsi alcuna
responsabilità dell'amministratore per non avere attuato
interventi in quanto, in tale situazione, la responsabilità
è di ciascun singolo condomino. Quindi l'amministratore non
potrà considerarsi colpevole se, nonostante il costante
interessamento per la soluzione del problema verificatosi
nello stabile, ci sia una inerzia dell'organo assembleare
che non abbia dotato l'amministratore di fondi necessari per
la copertura finanziaria dei lavori urgenti utili alla
eliminazione del pericolo.
Del resto, poiché la responsabilità penale sorge allorché
dall'omissione dei lavori derivi un concreto pericolo per
l'incolumità delle persone, è sufficiente per
l'amministratore, al fine di andare esente da
responsabilità, intervenire sugli effetti anziché sulla
causa della rovina, ovverosia prevenire la specifica
situazione di pericolo interdicendo, ove ciò sia possibile,
l'accesso o il transito nelle zone pericolanti (ad esempio
facendo mettere una recinzione nella zona in cui si è
verificata la caduta di calcinacci).
In ogni caso il rifiuto dell'assemblea condominiale di
deliberare lavori urgenti, pur in presenza di un obbligo di
legge o di un provvedimento dell'autorità, legittima
l'amministratore, in forza dei poteri di legge, a denunciare
la decisione assembleare alternativamente alla pubblica
amministrazione o all'autorità giudiziaria che, con il loro
potere, possono porre in atto ogni rimedio affinché non vi
siano danni e la situazione non possa procurare ulteriori e
più gravi conseguenze.
Infine, merita di essere ricordato che la giurisprudenza ha
escluso la responsabilità dell'amministratore in relazione
all'inottemperanza a un provvedimento del sindaco che gli
imponga di effettuare lavori per l'eliminazione di
infiltrazioni di acqua nell'appartamento di un solo
condomino: tali provvedimenti infatti son invalidi, in
quanto relativi alla proprietà esclusiva (articolo
ItaliaOggi Sette del 24.09.2012). |
agosto 2012 |
|
CONDOMINIO: Resto
apostrofare condòmini con epiteti poco edificanti.
Apostrofare qualcuno con epiteti poco
edificanti durante una riunione condominiale può configurare
ipotesi di reato (nello specifico il delitto di cui all'art.
594 c.p.):
è quanto emerso nella
sentenza n. 33221/2012 della Corte di Cassazione.
La V Sez. penale ha, infatti, confermato il ragionamento
del giudice di merito, secondo il quale «l'espressione
“architetto del c_.” era stata pronunciata all'indirizzo
della persona offesa [_] in un atteggiamento gratuitamente
astioso e senza che vi fosse stato alcun previo tentativo di
relazionarsi con la controparte in modo da preservarne la
dignità».
È vero –afferma il collegio giudicante– che l'espressione
“che c_.” è entrata nell'uso comune e non ha rilevanza
penale «quando è proferita in posizione di parità rispetto
all'interlocutore»; ciò non toglie, però, che il linguaggio
ingiurioso con il quale l'imputato si era rivolto alla
persona offesa (etichettandolo, nell'ordine, “architetto del c_", “mafioso” ed “evasore fiscale”) veniva esternato
durante una seduta condominiale nella quale il malcapitato,
in rappresentanza del proprio genitore, aveva «soltanto»
insistito per effettuare dei lavori condominiali.
A nulla sono valse le deduzioni del difensore: nullità del
processo di primo grado e degli atti successivi, stante la
ripetuta assenza dell'imputato; vizio di motivazione sul
mancato proscioglimento, essendo state valutate come
elemento di prova di responsabilità anche le dichiarazioni
della persona offesa; mancata applicazione della causa di
non punibilità prevista ex art. 599 c.p..
Per i giudici di legittimità, in realtà, «la presenza di
una situazione patologica cronica legata all'età
dell'imputato [_] non costituisce legittima causa né della
sospensione del procedimento per incapacità dell'imputato,
né di rinvio del dibattimento per legittimo impedimento a
comparire di quest'ultimo». In merito, poi,
all'inidoneità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa
a «costituire prova di responsabilità», hanno
precisato che quest'ultima «anche costituita parte
civile, partecipa al processo, di regola, in qualità di
testimone e, in tale veste, è tenuta a prestare giuramento
sicché le sue dichiarazioni sono idonee ad essere valutate
come elemento di prova anche a prescindere dalla ricerca e
dalla sussistenza di elementi di prova». Con queste
motivazioni hanno, quindi, dichiarato inammissibile il
ricorso
(articolo ItaliaOggi del 31.08.2012). |
CONDOMINIO:
I condomini fotovoltaici? Come i
commercianti.
I condomini che realizzano negli spazi condominiali un
impianto fotovoltaico di potenza superiore a 20 kw o che
cedono, a fini commerciali, tutta l'energia prodotta con
impianti fino a 20 kw, si configurano dal punto di vista
fiscale come società di fatto e come tali realizzano un
reddito d'impresa.
Più precisamente, poiché la realizzazione dell'impianto
fotovoltaico per fini commerciali rientra tra le
«Innovazioni» che i condomini possono disporre ai sensi
dell'art. 1120 del codice civile «(_) dirette al
miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento
delle cose comuni» sono considerati soci della società di
fatto i condomini che hanno deliberato con la maggioranza
richiesta dall'art. 1136 del codice civile, la realizzazione
dell'investimento. Restano esclusi dalla società di fatto i
condomini che non hanno approvato la decisione e che non
intendono trarre vantaggio dall'investimento.
In questo caso gli stessi, sulla base di quanto disposto
dall'art. 1121, primo comma, ultima parte, del codice civile
«sono esonerati da qualsiasi contributo di spesa». La
società di fatto tra condomini che gestisce un impianto
fotovoltaico è commerciale e deve emettere fattura nei
confronti del Gse, in relazione all'energia che immette in
rete. Il Gse che eroga la tariffa incentivante deve operare
nei confronti della società di fatto la ritenuta del 4%
(art. 28 del dpr n. 600 del 1973) sulla tariffa relativa
alla parte di energia immessa in rete. Ai fini delle imposte
dirette e dell'Iva, la società di fatto tra condomini
diventa, dunque, soggetto d'imposta autonomo e quindi è
tenuto a redigere un'autonoma dichiarazione dei redditi e
un'autonoma dichiarazione Iva.
Sono questi i principali chiarimenti forniti dai tecnici
delle Entrate con la
risoluzione
10.08.2012 n. 84/E.
Si ha una società di fatto in presenza di una intesa verbale
oppure quando si ha un comportamento concludente idoneo a
dimostrare l'intento collettivo delle parti di stipulare un
accordo per l'esercizio di un'attività imprenditoriale. La
sussistenza di un elemento oggettivo, rappresentato dal
conferimento di beni o servizi finalizzato alla formazione
di un fondo comune, e di un elemento soggettivo, costituito
dalla comune intenzione dei contraenti di vincolarsi e di
collaborare allo scopo di conseguire risultati patrimoniali
comuni, identifica, infatti, un contratto sociale.
Pertanto, a prescindere dalla modalità con cui si perfeziona
il contratto sociale, che può anche risultare esclusivamente
da manifestazioni esteriori dell'attività di gruppo, la
presenza della contemporanea sussistenza dei suddetti
presupposti oggettivo e soggettivo presuppone l'esistenza di
una qualunque società.
Nella fattispecie in esame sottolineano i tecnici delle
Entrate, si è in presenza di un accordo che interviene tra i
condomini caratterizzato da un elemento oggettivo,
rappresentato dal conferimento di beni e servizi, vale a
dire dall'impianto fotovoltaico e dagli spazi comuni, e da
un elemento soggettivo, dato dalla comune intenzione di
voler conseguire dei proventi (articolo ItaliaOggi del
25.08.2012). |
CONDOMINIO:
Cassazione. Quando le auto rendono
difficoltoso il passaggio. Vietato il parcheggio nel viale
del condominio.
La sosta nella stradina condominiale è vietata: anche se lo
spazio la consentirebbe senza impedire il transito. Il
parcheggio da parte di alcuni abitanti del palazzo ha
l'effetto di rendere meno agevole la manovra per entrare e
uscire dalle autorimesse per i condomini più ligi che usano
la stradina solo per entrare o uscire dai box.
La Corte di cassazione, con la sentenza 14633, torna a
censurare le abitudini e le consuetudini che hanno come
effetto quello di limitare «il
pari diritto di godimento del bene comune da parte degli
altri condomini».
La Suprema corte si schiera dalla parte dei condomini più
disciplinati e respinge le proteste di quelli più
permissivi, secondo i quali «il vialetto veniva da anni
pacificamente utilizzato sia per la sosta che per il
transito delle vetture, in quanto la sua larghezza
consentiva entrambi gli usi». Per gli appartenenti alla
"fazione" della sosta libera non si trattava di
un'occupazione stabile degli spazi comuni ma solo di un uso
«eventuale e temporaneo».
Ma la Corte di cassazione dirime la lite di condominio in
punta di codice affermando che, in base all'articolo 1102
del codice civile, «il singolo condomino può servirsi
della cosa comune a patto che non ne alteri la destinazione
e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti
uso secondo il loro diritto».
Una limitazione che per la Suprema corte è provata sulla
base di un sopralluogo sul luogo del "crimine",
disposto dal Tribunale nel corso del primo grado di
giudizio. Con l'indagine in loco si era, infatti, appurato
che la manovra per entrare e uscire dal garage era meno
agevole, ed era inoltre indispensabile mettere le macchine "a
filo" per evitare i problemi che potevano sorgere in
caso di affiancamento di due vetture.
Per i giudici solo la restituzione del bene alla sua
destinazione naturale (il passaggio), consente il pari
godimento a tutti gli abitanti (articolo
Il Sole 24 Ore del 25.08.2012). |
CONDOMINIO:
Vietato il parcheggio nel
vialetto.
Ai condomini deve essere garantito un agevole accesso ai box.
Per la Cassazione è irrilevante che
il regolamento non contenga indicazioni in materia.
Vietato parcheggiare l'auto nel vialetto condominiale che
conduce ai box, se ciò rende più difficile agli altri
condomini raggiungere i posti auto destinati ai propri
veicoli. Ed è irrilevante, a questo proposito, che il
regolamento non contenga un tale divieto, poiché esso
discende direttamente dalla legge, essendo ogni condomino
obbligato a servirsi delle parti comuni in modo da non
intralciare eccessivamente il pari utilizzo da parte degli
altri comproprietari.
Lo ha chiarito la II Sez. civile della Corte di
Cassazione con la sentenza 24.08.2012 n. 14633.
Il caso concreto. Alcuni condomini residenti nella provincia
di Parma avevano citato i vicini davanti al giudice di pace
perché questi abitualmente utilizzavano lo stradello
condominiale che dava accesso ai garage anche per la sosta
delle auto, invece di limitarsi al solo transito, creando
intralcio a causa della conseguente restrizione degli spazi
di manovra per l'entrata e l'uscita dai box.
Con una prima
pronuncia del 2003 il giudice di pace aveva respinto il
ricorso in questione, accogliendo la tesi dei condomini
convenuti in giudizio, i quali sostenevano che ormai da anni
il vialetto in questione veniva utilizzato indifferentemente
sia per la sosta sia per il transito, essendo abbastanza
largo da consentire l'accesso ai garage anche in presenza di
auto in sosta.
La sentenza in questione era stata però
ribaltata in appello dal tribunale che, invece, nel 2006,
aveva stabilito che il viale condominiale non doveva essere
utilizzato né per il parcheggio né per la sosta delle
autovetture, ma soltanto per il transito, in modo da non
privare tutti i condomini della possibilità di utilizzare
pienamente lo spazio comune. La decisione di secondo grado
era stata quindi impugnata in Cassazione.
La decisione della Suprema corte. La sentenza resa dal
tribunale di Parma in sede di appello è stata quindi
confermata dalla seconda sezione civile della Cassazione,
con sentenza n. 14633 del 24 agosto scorso, la quale ha
ritenuto del tutto corretto il richiamo operato dai giudici
di merito all'art. 1102 del codice civile, il quale
disciplina l'utilizzo dei beni comuni in condominio,
stabilendo il principio per il quale tutti i comproprietari
possono servirsene liberamente, con il solo limite di
evitare comportamenti che ledano il pari diritto degli altri
condomini di farne uso.
Nella specie, infatti, l'esame
obiettivo del luogo aveva fatto emergere che la sosta delle
auto nel viale di accesso ai garage rendeva oggettivamente
meno agevole l'ingresso nelle singole proprietà esclusive,
essendo indispensabile posizionare le auto a filo per
evitare danni nell'affiancamento delle stesse.
Di conseguenza la condotta dei condomini che parcheggiavano
le proprie auto sui vialetto in questione, per quanto
astrattamente legittimo, di fatto rendeva più disagevole
agli altri comproprietari il pari utilizzo del medesimo bene
comune quale via di accesso ai box di proprietà esclusiva.
La Suprema corte ha anche avuto modo di chiarire che, in
casi del genere, la mancanza di un divieto espresso nel
regolamento condominiale non permette di per sé qualsiasi
utilizzo dei beni comuni, dovendosi sempre fare riferimento,
per la disciplina del caso concreto, al criterio legale di
cui al predetto art. 1102 c.c. (articolo
ItaliaOggi Sette del 03.09.2012). |
CONDOMINIO: Giardino,
area destinata a parcheggio.
«La delibera assembleare di destinazione
a parcheggio di un'area di giardino
condominiale, interessata solo in piccola
parte da alberi di alto fusto e di ridotta
estensione rispetto alla superficie
complessiva, non dà luogo a una innovazione
vietata dall'art. 1120 cod. civ., non
comportando tale destinazione alcun
apprezzabile deterioramento del decoro
architettonico, né alcuna significativa
menomazione del godimento e dell'uso del
bene comune, e anzi, da essa derivando una
valorizzazione economica di ciascuna unità
abitativa e una maggiore utilità per i
condòmini».
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione (sent. n.
15319/2011, inedita)
(articolo ItaliaOggi del 15.08.2012). |
CONDOMINIO: Approvazione
tabelle a maggioranza.
Domanda
L'approvazione delle tabelle millesimali in
una palazzina condominiale con quali criteri
deve essere fatta? Occorre l'unanimità
oppure, come sostiene l'amministratore, è
sufficiente la maggioranza assoluta
(maggioranza degli intervenuti che
rappresenti la metà almeno del valore
dell'edificio)?
Risposta
Ha ragione l'amministratore. La sentenza n.
18477/2010 delle Sezioni unite della Corte
di cassazione ha «validato» l'orientamento
(minoritario) più recente affermando il
principio che le tabelle millesimali non
devono essere approvate con il consenso
unanime dei condomini, essendo sufficiente
la maggioranza qualificata di cui all'art.
1138, 3° c., c.c.
La Cassazione ha negato che i millesimi
rappresentino l'espressione di una volontà
negoziale dei condomini volta ad accertare
il valore millesimale delle loro unità
immobiliari da cui sarebbe conseguita la
necessità dei consensi di tutti gli stessi
per la loro approvazione.
La Cassazione ha esaminato anche la funzione
delle tabelle millesimali, negando che la
presunta necessità dell'unanimità dei
consensi dipenderebbe dal fatto che la
deliberazione di approvazione delle tabelle
millesimali costituirebbe un negozio di
accertamento del diritto di proprietà sulle
singole unità immobiliari e sulle parti
comuni; piuttosto, la tabella millesimale
serve solo a esprimere in precisi termini
aritmetici un già preesistente rapporto di
valore tra i diritti dei vari condomini,
senza incidere in alcun modo sulla
consistenza dei diritti reali a ciascuno
spettanti.
Afferma la Cassazione nella
sentenza che la deliberazione che approva le
tabelle millesimali non si pone come fonte
diretta dell'obbligo contributivo del
condomino, che è nella legge prevista, ma
solo come parametro di quantificazione
dell'obbligo, determinato in base a una
valutazione tecnica; caratteristica propria
del negozio giuridico è la conformazione
della realtà oggettiva alla volontà delle
parti: l'atto di approvazione della tabella,
invece, fa capo a una documentazione
ricognitiva di tale realtà, donde il difetto
di note negoziali.
In sintesi, con la predetta sentenza le
Sezioni Unite hanno affermato che:
1) le
tabelle esprimono un rapporto di valore tra
unità immobiliari e parti comuni, che
preesiste alle tabelle stesse, ai soli fini
della ripartizione delle spese e del
corretto svolgimento dell'assemblea (art. 68 disp. att. c.c.); 2) le tabelle sono un
allegato del regolamento del condominio che,
se di origine «assembleare» (anziché
«contrattuale»), può essere approvato e
modificato a maggioranza;
3) in quanto
allegato al regolamento assembleare, esse
sono soggette alle norme che regolano tale
atto principale e, poiché per le tabelle
nulla è previsto mentre per il regolamento è
specificato il quorum necessario per la sua
approvazione (art. 1138, 3° c. e 1136, 2°
c.), anche per l'approvazione e la revisione
delle tabelle è sufficiente il voto
favorevole della maggioranza degli
interventi all'assemblea che rappresentino
almeno 500 millesimi
(articolo ItaliaOggi
Sette
del 06.08.2012). |
CONDOMINIO:
La Cassazione: modifica possibile pur trattandosi di uso più
intenso della cosa comune dai singoli. Sottotetto,
trasformazioni libere.
Irragionevole vietare la conversione in terrazze a uso
esclusivo.
Attici maggiormente appetibili. D'ora in poi, infatti, il
proprietario dell'ultimo piano sottostante il tetto comune
potrà trasformarne una parte in terrazza a uso esclusivo
anche senza il consenso degli altri condomini.
Con la
sentenza 03.08.2012 n. 14107 la Corte di Cassazione ha mutato il proprio orientamento
in materia di trasformazione del tetto condominiale in
terrazza privata, operazione fino a oggi considerata vietata
in condominio.
La seconda sezione civile della Suprema corte, con
un'innovativa lettura dei concetti di pari uso e di
destinazione del bene comune, sembra quindi avere aperto la
strada a un utilizzo più intenso delle proprietà esclusive
in ambito condominiale.
Il caso concreto. Nella specie l'impresa costruttrice di una
palazzina, che aveva venduto alcuni degli appartamenti a
terzi, aveva trasformato delle soffitte di sua proprietà in
mansarde abitabili con parziale abbattimento del tetto e
innalzamento della restante parte. I proprietari del piano
terra, riconosciuti in giudizio quali condomini, avevano
quindi citato l'impresa dinanzi al tribunale per sentire
dichiarare l'illegittimità delle opere in tal modo
realizzate e la riduzione in pristino del tetto
condominiale. In primo grado la domanda era stata rigettata
ma la Corte d'appello, ritenendo che la trasformazione del
tetto in tal modo realizzata dall'impresa comproprietaria ne
avesse alterato illegittimamente la destinazione e ledesse
il principio del pari utilizzo dei beni comuni, la aveva
invece accolta. Di qui il ricorso in Cassazione proposto
dall'impresa costruttrice.
La decisione della Suprema corte. Come si anticipava, i
giudici di legittimità, nel prendere atto dell'orientamento
costantemente seguito in materia di trasformazione del tetto
comune in terrazza a uso esclusivo, operazione ritenuta
sempre vietata in condominio perché utile a un solo
condomino con violazione del pari diritto degli altri
comproprietari (si veda altro articolo in pagina), hanno
però inteso motivatamente discostarsene, con l'obiettivo di
fornire una rilettura del principio del pari utilizzo dei
beni comuni di cui all'art. 1102 c.c che favorisca le
esigenze abitative dei singoli e limiti il potere di
preclusione dei singoli.
La Suprema corte, in estrema sintesi, è partita dal
considerare come l'orientamento in questione sia in
sostanziale contraddizione con quella giurisprudenza di
legittimità che ha ammesso l'apertura nel muro perimetrale
(e finanche nel tetto) di luci e vedute inerenti gli
appartamenti di proprietà esclusiva, consentendo quindi un
uso più intenso del bene comune da parte di uno o più
condomini, pur nell'ambito della sua destinazione
principale.
Alla luce di ciò, secondo la Cassazione, appare del tutto
irragionevole vietare sempre e comunque la trasformazione
del tetto in terrazza, laddove l'intervento sia minimo e,
soprattutto, vengano garantite le strutture sottostanti con
appropriati interventi tecnici, quali la coibentazione
termica, che suppliscano alla mancanza di copertura,
mantenendone la sua destinazione principale. Il diritto di
pari uso da parte degli altri condomini, secondo la Suprema
corte, deve quindi essere garantito con riferimento a
interessi concreti e non meramente astratti, mentre la
salvaguardia della destinazione del bene comune deve
avvenire in relazione alla funzione del medesimo, piuttosto
che alla sua consistenza materiale.
---------------
Inversione di rotta dei giudici supremi.
La recente sentenza della Corte di cassazione n. 14107/2012
si discosta notevolmente dalle precedenti decisione dei
giudici supremi che in passato, in diverse occasioni, hanno
sempre ritenuto illegittimo il comportamento del
proprietario dell'ultimo piano che avesse modificato il
tetto condominiale, trasformandolo in terrazza a livello per
il proprio uso esclusivo.
I casi precedenti e le giustificazioni dei condomini
dell'ultimo piano. Nei precedenti casi esaminati dalla
Cassazione i proprietari dell'ultimo piano del caseggiato
avevano generalmente modificato l'originaria copertura dello
stabile con un terrazzo accessibile soltanto da una nuova
scala posta all'interno dello stesso appartamento. Tali
opere, secondo le ragioni dei diretti interessati, sarebbero
rientrate nella facoltà di sopraelevazione spettante al
proprietario dell'ultimo piano, che comprenderebbe anche la
facoltà di sostituzione di un tetto con un lastrico solare o
con una terrazza. In ogni caso, sempre secondo i condomini
interessati, opere del genere non potrebbero essere ritenute
illegittime perché dopo la trasformazione sia il tetto sia
la terrazza assolvono comunque alla stessa funzione di
copertura e, quindi, non verrebbe meno il diritto degli
altri condomini si servirsi del nuovo manufatto come
copertura dell'edificio. Infine, in altri precedenti, non si
è mancato di giustificare dette opere con la necessità di
assicurare aria e luce a un locale soppalcato indispensabile
per l'abitabilità dello stesso.
Trasformazione del tetto e diritto di sopraelevazione. Le
decisioni della Suprema corte hanno sempre affermato che la
sostituzione, a opera del proprietario dell'ultimo piano di
un edificio condominiale, del tetto con una diversa
copertura (terrazza) che, pur non eliminando l'assolvimento
della funzione originariamente svolta dal tetto stesso,
costituisce alterazione della destinazione della cosa
comune, non può considerarsi compresa nel più ampio diritto
di sopraelevazione spettante al proprietario dell'ultimo
piano.
Infatti, si realizza una sopraelevazione di edificio
condominiale, soggetta al relativo regime legale, solo in
presenza di opere che comporti lo spostamento in alto della
copertura del fabbricato, mentre la stessa va esclusa nel
caso di lavori che, pur investendo la struttura e il modo di
essere di tale copertura, non incidano sulla posizione della
stessa. Quindi, secondo i supremi giudici, solo le
modificazioni del tetto di un fabbricato che comportino
aumento della superficie esterna del tetto medesimo e
aumento della volumetria dei vani sottostanti,
indipendentemente dalla loro utilizzabilità ai fini
abitativi, integrano una nuova costruzione.
Di conseguenza è
chiaro, per esempio, che non si può parlare semplicemente di
terrazza in sostituzione della preesistente copertura
condominiale quando alla fine dei lavori il tetto risulti
sopraelevato, con creazione di un piccolo sottotetto
praticabile e di un terrazzo. Una terrazza del genere, a
livello di locali costruiti in forza della facoltà di cui
all'art. 1127 c.c., serve sì da copertura parziale
dell'edificio, ma svolge anche l'altra e preminente funzione
di assicurare particolari utilità al proprietario esclusivo
dei contigui ambienti.
La violazione dei limiti di utilizzo dei beni comuni.
Secondo i giudici di legittimità il tetto, che ai sensi
dell'art. 11117 c.c. costituisce parte comune dell'edificio
condominiale, adempie all'unica funzione di copertura del
fabbricato nell'interesse di tutti i condomini.
La sua trasformazione, perciò, è indubbiamente ammessa, per
esempio attraverso la creazione di un lastrico solare in sua
sostituzione, sempre però che il nuovo manufatto mantenga
inalterata l'originaria funzione di copertura dell'edificio,
alla quale non può sovrapporsi una destinazione diversa.
Al contrario, come è stato costantemente ribadito dalla
giurisprudenza, la trasformazione del tetto a opera di un
condomino, nel senso di sostituire la copertura preesistente
con una diversa, oltre a non costituire una sopraelevazione,
determina il sorgere di un nuovo manufatto (la terrazza) che
per le sue concrete caratteristiche strutturali e per i suoi
annessi (scala di accesso interna all'appartamento) comporta
una destinazione a uso esclusivo dei condomini autori
dell'opera, causando un'alterazione della cosa comune, con
l'esclusione degli altri comproprietari di farne uguale uso.
In tale ipotesi, infatti, la trasformazione, non può essere
intesa come un'innovazione diretta al miglioramento o
all'uso più comodo o al maggior rendimento di un bene comune
a vantaggio di tutti i condomini, ma comporta invece la
violazione dei limiti previsti dalla legge, secondo i quali
non è consentito che si alteri la destinazione della cosa
comune e che si impedisca agli altri partecipanti di farne
ugualmente uso secondo il loro diritto.
Per quanto sopra è stata anche dichiarata nulla la delibera
dell'assemblea presa a maggioranza con cui un condomino era
stato autorizzato ad aprire un varco nel tetto,
trasformandolo in terrazza a livello per il proprio uso
esclusivo: infatti la funzione di copertura di un
caseggiato, che può essere assicurata sia dal tetto sia da
un lastrico solare, presuppone una scelta che non può essere
modificata se non con l'accordo di tutti i condomini (articolo ItaliaOggi Sette del
17.09.2012). |
CONDOMINIO:
L'ascensore e' indispensabile per la reale
abitabilità dell'appartamento.
La II Sez. civile della Corte di Cassazione, con
sentenza 03.08.2012 n. 14096,
ha evidenziato come l'installazione di un ascensore, al fine
dell’eliminazione delle barriere architettoniche, realizzata
da un condomino su parte di un cortile e di un muro comuni,
debba considerarsi indispensabile ai fini dell’accessibilità
dell’edificio e della reale abitabilità dell’appartamento, e
rientra, pertanto, nei poteri spettanti ai singoli condomini
ai sensi dell'art. 1102 c.c.
Ove siano, pertanto, rispettati i limiti di uso delle cose
comuni stabiliti da tale ultima norma, non rileva, allora,
la disciplina dettata dall'art. 907 c.c. sulla distanza
delle costruzioni dalle vedute, neppure per effetto del
richiamo a essa operato nell’art. 3, comma 2, legge
09.01.1989, n. 13, non trovando quest’ultima disposizione
applicazione in ambito condominiale.
DISTANZE E CONDOMINIO
Già più volte, in passato, la giurisprudenza aveva affermato
che le norme sulle distanze sono applicabili anche tra i
condomini di un edificio condominiale, purché siano però
compatibili con la disciplina particolare relativa alle cose
comuni, ovvero quando l'applicazione di quest'ultima non sia
in contrasto con le prime; nell'ipotesi di contrasto, la
prevalenza della norma speciale in materia di condominio
determina, allora, l'inapplicabilità della disciplina
generale sulle distanze che, nel condominio degli edifici e
nei rapporti tra singolo condomino e condominio, deve
ritenersi in rapporto di subordinazione rispetto alla prima.
Pertanto, ove il giudice constati il rispetto dei limiti di
cui all'art. 1102 c.c. (secondo cui ciascun partecipante
alla comunione può servirsi della cosa comune, sempre che
non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri
partecipanti di farne parimenti uso), deve ritenersi
legittima l'opera realizzata anche senza il rispetto delle
norme dettate per regolare i rapporti tra proprietà
contigue, sempre che venga rispettata la struttura
dell'edificio condominiale (Cass. 18.03.2010, n. 6546; Cass.
23.02. 2012, n. 2741).
Nella specie, si trattava di utilizzare un cortile per
realizzare un impianto di ascensore. È altrettanto noto, in
proposito, come i cortili comuni, assolvendo alla precipua
finalità di dare aria e luce agli immobili circostanti, sono
utilmente fruibili a tale scopo dai condomini stessi, cui
spetta la facoltà di farne uso ai fini di maggiore comodità,
amenità o accessibilità delle porzioni solitarie, senza
incontrare, quindi, le limitazioni prescritte, in materia di
luci e vedute, a tutela dei proprietari degli immobili di
proprietà esclusiva. In proposito, l'indagine del giudice
deve essere indirizzata a verificare esclusivamente se l'uso
del cortile comune sia avvenuto nel rispetto dei limiti
stabiliti dal citato art. 1102, e, quindi, se non ne sia
stata alterata la destinazione e sia stato consentito agli
altri condomini di farne parimenti uso secondo i loro
diritti: una volta accertato che l'uso del bene comune sia
risultato conforme a tali parametri dovrà, perciò, comunque
escludersi che si sia potuta configurare un'innovazione
vietata (Cass. 09.06.2010, n. 13874).
Di per sé, l'installazione dell'ascensore, rientrando fra le
opere dirette a eliminare le barriere architettoniche di cui
all'art. 27, comma 1, legge n. 118/1971 e all'art. 1, comma
1, D.P.R. n. 384/1978, costituisce innovazione che, ai sensi
dell'art. 2, legge n. 13/1989, è approvata dall'assemblea
con la maggioranza prescritta rispettivamente dall'art.
1136, comma 2 e 3 c.c., dovendo, però, essere rispettati (in
forza del comma 3 del citato art. 2) i limiti previsti dagli
artt. 1120 e 1121 c.c. Non può, quindi, essere consentita
quell'installazione che renda talune parti comuni
dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un
solo condomino (Cass. 27.12.2011, n. 28920; Cass.
25.06.1994, n. 6109).
Merito di Cass. n. 14096/2012, è, tuttavia, quella di aver
qualificato l’impianto di ascensore come indispensabile ai
fini di una reale abitabilità dell'appartamento, intesa
questa nel senso di una condizione abitativa che rispetti
l'evoluzione delle esigenze generali dei cittadini e lo
sviluppo delle moderne concezioni in tema di igiene, salvo
l'apprestamento di accorgimenti idonei ad evitare danni alle
unità immobiliari altrui: questa indispensabilità vale,
infatti, ad esonerare l’ascensore condominiale
dall'osservanza delle norme del codice civile in tema di
distanze (cfr. Cass. 15.07.1995, n. 7752) (tratto da
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com). |
CONDOMINIO - EDILIZIA
PRIVATA:
Ascensore a distanza
ravvicinata.
Sì all'impianto in deroga alla vicinanza minima
dall'immobile. La Cassazione:
l'opera abbatte le barriere architettoniche ed è funzionale
all'abitabilità.
L'installazione dell'ascensore in un edificio condominiale,
in quanto opera finalizzata all'abbattimento delle
cosiddette barriere architettoniche e necessaria per la
piena ed effettiva abitabilità di un appartamento, può
avvenire anche senza il rispetto delle distanze legali tra
immobili.
Lo ha stabilito la II Sez. civile della
Corte di Cassazione nella recente
sentenza
03.08.2012 n. 14096.
Il caso concreto. Nella specie l'assemblea di un condominio
aveva deliberato l'avvio di opere volte all'installazione di
un impianto di ascensore esterno all'edificio e che avrebbe
occupato una parte del cortile, venendo a trovarsi a
distanza inferiore ai tre metri previsti dalla legge (art.
907 c.c.) rispetto alle finestre di alcuni appartamenti.
Alcuni dei rispettivi proprietari avevano quindi impugnato
giudizialmente la delibera condominiale sia per la predetta
lesione del diritto di veduta sia per il pregiudizio che
tale opera avrebbe comportato per il decoro architettonico
dell'edificio.
Il tribunale, tuttavia, aveva respinto il
ricorso, qualificando l'ascensore quale impianto necessario
all'effettiva abitabilità di un immobile, al pari di quelli
di acqua, luce e gas, come tale non sottostante al regime
civilistico delle distanze legali. Di avviso contrario era
però stata la corte d'appello presso la quale i condomini
avevano deciso di impugnare la decisione di primo grado, che
aveva invece ritenuto pienamente applicabile nella specie il
disposto di cui all'art. 907 c.c.. Infatti, secondo il
giudice di secondo grado, poiché l'art. 2 della legge n.
13/1989 sull'abbattimento delle c.d. barriere architettoniche
impone in ogni caso il rispetto della destinazione delle
parti comuni (art. 1120, comma 2, c.c.), a maggior ragione
deve ritenersi che tale norma non consenta di recare
pregiudizio alle proprietà esclusive.
Inoltre, sempre
secondo la corte di merito, sarebbe stata la stessa legge or
ora richiamata, laddove all'art. 3 si deroga espressamente
al rispetto delle distanze previste dai regolamenti locali,
senza fare alcuna menzione delle distanze minime previste
dal codice civile, a rendere applicabili anche in materia
condominiale le disposizioni in materia di vedute.
La decisione della Suprema corte.
La decisione della corte di appello è quindi stata portata
all'esame della Cassazione dal condominio, che reclamava la
piena legittimità della deliberazione assembleare. E la
Suprema corte, a sua volta, ha completamente ribaltato le
argomentazioni giuridiche seguite dai giudici di merito,
annullando la sentenza impugnata e stabilendo una serie di
interessanti principi in materia di installazione degli
ascensori e abbattimento delle c.d. barriere
architettoniche.
In estrema sintesi, i giudici di legittimità hanno infatti
ritenuto che la normativa sulle distanze legali, per quanto
applicabile anche in ambito condominiale (seppure in via
subordinata alla disciplina delle cose comuni di cui
all'art. 1102 c.c.), non opera nei confronti di quegli
impianti, tra i quali è sicuramente compreso anche
l'ascensore, che siano necessari all'effettiva abitabilità
di un immobile.
Inoltre, sempre secondo la Cassazione, l'applicabilità della
normativa in materia di vedute anche in ambito condominiale
non può ritenersi implicitamente confermata dal predetto
art. 3 della legge n. 13/1989 che, contrariamente a quanto
ritenuto nella specie dai giudici di appello, riguarda
soltanto i rapporti tra immobili confinanti appartenenti a
diversi proprietari e non anche le ipotesi di condominio
degli edifici (articolo ItaliaOggi
Sette del 27.08.2012). |
luglio 2012 |
|
CONDOMINIO: Cassazione.
La «privatizzazione» è possibile.
Sottotetto comune solo se utilizzabile.
IL PRINCIPIO/ Quando il locale svolge
funzione di «camera d'aria» rispetto
all'appartamento sottostante va considerato
pertinenza di quest'ultimo.
La Corte di Cassazione, Sez. II civile, con
la
sentenza 23.07.2012
n. 12840 torna nel sottotetto, quello
spazio un tempo destinato a ospitare
ciarpame o semplicemente a restare vuoto per
evitare pericoli di crolli e incendi, e ora
potenziale e ambitissima mansarda. E torna
per confermare il suo orientamento: se può
servire all'uso comune è condominiale, se
serve solo come «camera d'aria» è pertinenza
del piano di sotto.
Le norme regionali hanno reso appetibile (e
agibile) migliaia di solai, magari con
piccole modifiche, dall'abbassamento
dell'altezza media di 2,7 metri alla
possibilità di alzare la falde del tetto. Ma
molti, in realtà, non erano ufficialmente
pertinenze di appartamenti bensì
semplicemente "camere d'aria" immaginate per
evitare un contatto diretto tra ultimo piano
e tetto, che avrebbe creato non pochi
problemi di caldo e freddo.
Ora, con le moderne tecniche di
coibentazione, questo non è più un problema.
Un problema è invece la proprietà di questi
beni, che valgono anche molto: sono del
condominio o dell'appartamento sottostante?
La polemica è andata avanti per decenni,
sinché l'orientamento della Cassazione si è
consolidato con un principio: non essendo il
sottotetto espressamente ricompreso nel
novero delle parti comuni individuate
dall'articolo 1117 del Codice civile,
l'appartenenza del sottotetto si determina
in base al titolo e, in mancanza, in base
alla funzione cui esso è destinato in
concreto. Quindi, se si tratta di vano
destinato esclusivamente a servire da
protezione dell'appartamento dell'ultimo
piano dal caldo, dal freddo e dall'umidità
tramite la creazione di una camera d'aria, è
pertinenza e proprietà esclusiva del
proprietario dell'ultimo piano; mentre è una
parte comune se è utilizzabile, anche solo
potenzialmente, per gli usi comuni, perché
in questo caso si può applicare la
presunzione di comunione prevista
dall'articolo 1117 del Codice civile, la
quale opera ogni volta che nel silenzio del
titolo il bene sia per le sue
caratteristiche suscettibile di
utilizzazione da parte di tutti i
proprietari. In concreto, quindi, nella
maggioranza dei casi il sottotetto è una
pertinenza dell'appartamento sottostante,
anche se naturalmente questo solleva le
proteste degli altri condomini che si
sentono defraudati se non di un'utilità
comune (di fatto il sottotetto serve solo
all'unità sottostante) quanto meno di un
valore immobiliare.
Ma anche l'ultima pronuncia della II sezione
civile della Cassazione, l'ordinanza 12840
(presidente Umberto Goldoni e relatore Aldo
Carrato), depositata ieri, ha confermato
l'orientamento.
Nel caso di specie, le Corti di merito
avevano già verificato proprio che il
sottotetto non era utilizzabile in alcun
modo a scopi comuni (e anzi era collegato
all'appartamento sottostante da una scala
interna e non era accessibile da altre
parti), e avevano già condannato il
condomino che aveva promosso l'azione a
2mila euro di spese di risarcimento danni
più tutte le spese giudiziarie e legali in
primo e secondo grado. La Cassazione ha
ritenuto il ricorso «manifestamente
infondato» con ordinanza e ha ulteriormente
condannato il ricorrente a pagare 1.700 euro
di spese di giudizio
(articolo Il Sole 24
Ore del 24.07.2012). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Grava sull’amministrazione
l’obbligo di verificare l'esistenza, in capo
al richiedente, di un idoneo titolo di
godimento sull'immobile oggetto
dell’intervento, ma non già di risolvere i
conflitti tra le parti private in ordine
all'assetto dominicale dell'area
interessata, non essendo la p.a. tenuta a
svolgere una preliminare indagine
istruttoria che si estenda fino alla ricerca
di eventuali elementi limitativi, preclusivi
o estintivi del titolo di disponibilità
allegato dal richiedente, essendo noto che
il rilascio del titolo edilizio “non
comporta limitazione dei diritti dei terzi”,
secondo il disposto dall’art. 11, comma 3,
del T.U. n. 380/2001.
Va, peraltro, aggiunto che l'art. 1102 c.c.
consente a ciascun partecipante di servirsi
della cosa comune, purché non ne alteri la
destinazione, cioè non incida sulla sostanza
e struttura del bene, e non impedisca agli
altri partecipanti di farne parimenti uso
secondo il loro diritto. Il partecipante
alla comunione, pertanto, può usare della
cosa comune per un suo fine particolare, con
la conseguente possibilità di ritrarre dal
bene una utilità specifica aggiuntiva
rispetto a quelle che vengono ricavate dagli
altri, con il limite di non alterare la
consistenza e la destinazione di esso o di
non impedire l'altrui pari uso.
Va, pertanto, ribadito che ai fini della
verifica della legittimazione soggettiva a
compiere un intervento edilizio, il
parametro valutativo va ricercato nella
disciplina pubblicistica che regola la
realizzazione di opere sul territorio, senza
che il dissenso di terzi possa incidere
sulla legittimità del provvedimento, che
viene adottato sulla base del titolo formale
di disponibilità del bene immobile
interessato e, in ogni caso, con salvezza
dei diritti dei terzi.
Si palesano fondate anche le doglianze
volte a contestare la sussistenza di una
valida ragione ostativa all’esecuzione dei
lavori progettati, risultando erronea la
circostanza posta a base dell’azione
amministrativa, secondo cui le opere
“incidono sulle parti comuni dell’edificio”.
Invero, come si è già anticipato, la d.i.a.
ha ad oggetto il manufatto di esclusiva
proprietà del ricorrente (prevedendo la
trasformazione di un vano finestra in porta)
e solo di riflesso può rilevare sull’uso del
cortile di proprietà comune (in relazione al
paventato attraversamento con l’autovettura,
poiché la modifica progettata rende il
deposito idoneo alla destinazione a garage),
sicché non può dubitarsi che il richiedente
fosse legittimato a proporre l’intervento,
ai sensi degli artt. 11 e 23 del d.P.R. n. 380
del 2001.
Sul punto va osservato che, secondo il
costante orientamento giurisprudenziale,
grava sull’amministrazione l’obbligo di
verificare l'esistenza, in capo al
richiedente, di un idoneo titolo di
godimento sull'immobile oggetto
dell’intervento, ma non già di risolvere i
conflitti tra le parti private in ordine
all'assetto dominicale dell'area
interessata, non essendo la p.a. tenuta a
svolgere una preliminare indagine
istruttoria che si estenda fino alla ricerca
di eventuali elementi limitativi, preclusivi
o estintivi del titolo di disponibilità
allegato dal richiedente, essendo noto che
il rilascio del titolo edilizio “non
comporta limitazione dei diritti dei terzi”,
secondo il disposto dall’art. 11, comma 3,
del T.U. n. 380/2001 (cfr. Consiglio Stato,
Sezione V, 04.02.2004, n. 368; Sezione VI,
10.2.2010, n.675; TAR Campania, Sezione II, 22.09.2006, n. 8243), TAR
Lombardia, Brescia, Sezione I, 28.05.2007,
n. 460).
Va, peraltro, aggiunto che l'art. 1102 c.c.
consente a ciascun partecipante di servirsi
della cosa comune, purché non ne alteri la
destinazione, cioè non incida sulla sostanza
e struttura del bene, e non impedisca agli
altri partecipanti di farne parimenti uso
secondo il loro diritto. Il partecipante
alla comunione, pertanto, può usare della
cosa comune per un suo fine particolare, con
la conseguente possibilità di ritrarre dal
bene una utilità specifica aggiuntiva
rispetto a quelle che vengono ricavate dagli
altri, con il limite di non alterare la
consistenza e la destinazione di esso o di
non impedire l'altrui pari uso (cfr.
Cassazione civile, Sezione II, 14.07.2011,
n. 15523; 09.02.2011, n. 3188).
Va, pertanto, ribadito che ai fini della
verifica della legittimazione soggettiva a
compiere un intervento edilizio, il
parametro valutativo va ricercato nella
disciplina pubblicistica che regola la
realizzazione di opere sul territorio, senza
che il dissenso di terzi possa incidere
sulla legittimità del provvedimento, che
viene adottato sulla base del titolo formale
di disponibilità del bene immobile
interessato e, in ogni caso, con salvezza
dei diritti dei terzi
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 04.07.2012 n. 3205 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
giugno 2012 |
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CONDOMINIO:
Quote modificate a maggioranza. Per
rivedere le tabelle millesimali non serve l'unanimità. La
Cassazione sulla ripartizione delle spese comuni conferma il
principio introdotto nel 2010.
Per la modifica delle tabelle
millesimali è sufficiente la maggioranza dei voti espressi
dai condomini in assemblea e non è quindi necessaria
l'unanimità.
Con la recente
ordinanza 27.06.2012 n. 10762 la VI
Sez. civile della Corte di Cassazione ha fatto applicazione
del nuovo principio di diritto pronunciato in materia dalle
sezioni unite con la storica sentenza n. 18477 del 2010.
Il caso concreto.
Nella specie alcuni condomini avevano impugnato la delibera
condominiale con la quale, in seconda convocazione, erano
stati approvati a maggioranza il rendiconto consuntivo e il
preventivo di spesa presentati dall'amministratore. Secondo
loro, infatti, il riparto delle spese era stato effettuato
sulla base di tabelle millesimali diverse da quelle allegate
al regolamento di condominio predisposto dall'originario
costruttore dell'edificio e depositato presso la
conservatoria immobiliare. Nella dichiarata contumacia del
condominio convenuto in giudizio il tribunale aveva però
dichiarato inammissibile l'impugnazione.
La sentenza di primo grado era quindi stata appellata e, in
questo caso, con la partecipazione al giudizio del
condominio, in totale riforma della sentenza impugnata, era
stata ritenuta l'ammissibilità dell'impugnazione della
delibera condominiale, che era stata dichiarata nulla dai
giudici di appello nella parte in cui erano stati approvati
il rendiconto consuntivo e il preventivo di spesa in
difformità dei millesimi indicati dalle tabelle allegate al
regolamento condominiale trascritto. Il condominio aveva
allora presentato ricorso in cassazione avverso la sentenza
della Corte d'appello.
La decisione della Suprema corte.
La Corte di appello aveva fondato la propria pronuncia sulla
circostanza della radicale nullità della deliberazione
assembleare, in quanto adottata soltanto a maggioranza dei
voti e non con l'unanimità dei consensi dei condomini. I
giudici di secondo grado avevano infatti ritenuto che,
essendo stata provata l'esistenza di tabelle millesimali
allegate al regolamento condominiale confezionato dal
costruttore originario dell'edificio e regolarmente
trascritto presso la conservatoria immobiliare, la
ripartizione delle spese comuni avrebbe dovuto essere
effettuata sulla base delle predette tabelle e che la loro
eventuale modifica non poteva avvenire con la semplice
maggioranza dei partecipanti all'assemblea.
La sesta sezione della Suprema corte, facendo al contrario
leva sulla sopravvenuta recente sentenza (n. 18477 del 2010)
con la quale le sezioni unite della medesima Cassazione
hanno escluso la necessità del consenso unanime dei
condomini per l'approvazione e la revisione delle tabelle
millesimali, ritenendo viceversa sufficiente la maggioranza
qualificata di cui all'articolo 1136, comma 2, del codice
civile, hanno quindi ritenuto di dover cassare la decisione
impugnata.
In effetti, essendo sopravvenuta, nelle more del ricorso in
cassazione, la predetta sentenza del 2010, era venuto meno
il supporto logico sul quale era stata basata la decisione
della Corte d'appello, considerando che nel caso di specie
la deliberazione assembleare di modifica delle tabelle
millesimali era stata appunto approvata con la maggioranza
prevista dall'articolo 1136, comma 2, del codice civile ...
(articolo
ItaliaOggi Sette del 20.08.2012). |
CONDOMINIO:
Condominio. Danni in sede civile. Se è
circoscritto lo schiamazzo non è un reato.
Urla per le scale, porte che sbattono,
sedie che volano: uno scenario ricorrente in molti condomini
.
Non sempre però questi rumori, espressione più delle volte
di maleducazione, che ledono il diritto alla tranquillità
sono tutelabili in sede penale.
Le immissioni rumorose trovano la loro tutela in sede civile
nell'articolo 844 del Codice civile, ma il comportamento di
chi commette immissioni rumorose può integrare la
fattispecie delittuosa di cui all'articolo 659 del Codice
penale («Disturbo delle occupazioni e del riposto delle
persone») solo in presenza di certe condizioni.
Per integrare questo reato non è necessaria la prova reale
del disturbo provocato, ma occorre la certezza che i rumori
siano obiettivamente idonei a creare il disturbo trattandosi
di reato di pericolo e, soprattutto, è necessario che il
fenomeno rumoroso sia idoneo a disturbare un numero
indeterminato di persone e non solo un numero limitato.
A questi principi di diritto si è appellata la Corte di
Cassazione, Sez. I penale,
sentenza
26.06.2012 n. 25225,
affrontando il caso di alcuni condomini che erano stati
condannati, dal tribunale, alla pena di giustizia (per il
reato di cui agli articoli 81, 110 e 659, Codice penale) per
avere, in concorso fra di loro, cagionato disturbo a cinque
condomini dello stabile sbattendo con violenza le porte
dell'appartamento e d'ingresso condominiale, urlando
immotivatamente sulle scale del condominio, nonché sbattendo
tavoli e sedie sul pavimento dell'appartamento da essi
occupato.
Il Tribunale ha fondato la penale responsabilità degli
imputati sulle deposizioni rese dalle parti offese e
dall'amministratore condominiale pro-tempore, oltre che
sulla denuncia-querela presentata da uno dei condomini.
Inoltrato il ricorso, i condannati eccepivano che non era
stato accertato che i rumori molesti provenissero dal loro
appartamento, né era stata accertata la natura di tali
rumori né che sussisteva, nella specie, il reato a essi
contestato in quanto il disturbo da essi arrecato era
rimasto circoscritto all'interno delle mura condominiali, sì
da non essere idoneo ad arrecare danno a una generalità
indistinta di persone, elemento che costituisce la ratio
dell'articolo 659, Codice penale, ovvero la tutela della
quiete pubblica, intesa come collettività indistinta.
La Corte, nell'accogliere il ricorso ha precisato che: «La
contravvenzione prevista dall'articolo 659, primo comma,
Codice penale ... persegue la finalità di preservare la
quiete e la tranquillità pubblica e i correlati diritti
delle persone all'occupazione e al riposo; e la
giurisprudenza di legittimità è orientata nel senso di
ritenere che elemento essenziale di detta contravvenzione
sia l'idoneità del fatto ad arrecare disturbo a un numero
indeterminato di persone» (Cassazione n. 25225 citato).
Nel caso in esame è emerso che gli unici soggetti
danneggiati dai rumori molesti erano i cinque condomini
occupanti la palazzina e che i rumori sono rimasti
circoscritti all'interno dello stabile.
I fatti denunciati, pertanto, sono stati definiti «privi
di rilevanza penale» e tali da poter trovare tutela solo
in sede civile, con conseguente annullamento, senza rinvio,
della sentenza impugnata (articolo
Il Sole 24 Ore del 20.08.2012). |
maggio 2012 |
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CONDOMINIO:
Sopraelevazione a prova di sisma.
Modifiche al tetto legittime se resistenti a
eventi tellurici. La Cassazione
sulle opere eseguite all'ultimo piano. Non
basta che l'edificio supporti il
peso.
La sopraelevazione, realizzata dal
proprietario dell'ultimo piano di un
condominio, è legittima non solo se
l'edificio è in grado di sopportare il peso
delle nuove strutture ma anche se sono state
rispettate tutte le speciali prescrizioni
antisismiche previste in relazione alle
caratteristiche del territorio, in modo che
il fabbricato sia idoneo a resistere alle
sollecitazioni di un eventuale evento
tellurico: in caso contrario la nuova
struttura deve essere demolita.
Lo ha chiarito la II Sez. civile
della Suprema corte di cassazione con la
recente
sentenza
30.05.2012 n. 8643.
La vicenda. Nel caso di specie il
proprietario di un appartamento, che
comprendeva i piani primo e terra del
fabbricato, citava in giudizio la
proprietaria dell'altra unità immobiliare,
posta su più piani (dal secondo al quarto),
accusandola di avere eliminato la scala
interna di collegamento tra il primo e il
secondo piano e, soprattutto, di avere
sopraelevato, per renderlo abitabile, il
preesistente sottotetto, eliminando parte
del preesistente tetto comune e realizzando
un terrazzo di uso esclusivo.
Secondo
l'attore le opere eseguite si dovevano
considerare illegittime e, quindi, si
richiedeva il ripristino della precedente
situazione o, in via subordinata, ove fosse
stata ritenuta legittima la sopraelevazione
eseguita, il pagamento dell'indennità di
sopraelevazione prevista dalla legge e, in
ogni caso, il risarcimento dei danni. Il
proprietario dell'appartamento ristrutturato
si difendeva rilevando che le opere
contestate erano state realizzate dai
precedenti proprietari, per cui chiedeva e
otteneva la loro chiamata in giudizio per
essere manlevato da ogni responsabilità.
Questi ultimi, ritenuti i reali esecutori
delle opere sopra dette, venivano condannati
a risarcire i danni, nonché al pagamento
dell'indennità prevista per la
sopraelevazione (ritenuta legittima) a
favore dell'attore.
La Corte di appello, invece, condannava al
pagamento dei danni e dell'indennità sopra
detta l'attuale proprietario dell'immobile,
ritenendo i precedenti proprietari, che
avevano alienato l'immobile nello stato di
fatto in cui si trovava al momento delle
compravendita, esenti da responsabilità. In
ogni caso la stessa Corte ribadiva come il
fabbricato fosse idoneo a fronteggiare il
rischio sismico, come risultava da due
relazioni tecniche secondo le quali nel caso
in esame non si configuravano ampliamenti e
sopraelevazioni tali da comportare
l'adeguamento sismico.
Il proprietario
dell'appartamento, comprensivo dei piani
primo e terra del condominio, si rivolgeva
però alla Cassazione perché considerava la
sopraelevazione non conforme alla normativa
antisismica. Del resto, quest'ultimo
sottolineava come la Corte d'appello avesse
fatto proprie le immotivate e contrastanti
conclusioni cui era giunto il consulente
tecnico incaricato, il quale, pur escludendo
alcun pregiudizio alla statica
dell'immobile, ammetteva che non era ancora
stato rilasciato il certificato di legge,
attestante la perfetta rispondenza
dell'opera eseguita alle norme antisismiche,
da ritenersi propedeutico al rilascio del
certificato di agibilità da parte del
comune.
La decisione. La Suprema corte, condividendo
le precedenti considerazioni, ha ritenuto
illegittima la sopraelevazione per mancanza
della prova (e del certificato richiesto
dalla legge) dell'esecuzione delle opere
necessarie per scongiurare il rischio
sismico.
In particolare i giudici supremi hanno
ricordato che il divieto di sopraelevazione,
per inidoneità delle condizioni statiche
dell'edificio, previsto dalla normativa
condominiale contenuta nel codice civile, va
interpretato non nel senso che la
sopraelevazione è vietata soltanto se le
strutture dell'edificio non consentono di
sopportarne il peso, ma nel senso che il
divieto sussiste anche nel caso in cui le
strutture siano tali che, una volta elevata
la nuova fabbrica, non consentano di
sopportare l'urto di forze in movimento,
quali le sollecitazioni di origine sismica.
In altre parole, il diritto del condomino di
sopraelevare sorge solo nel momento in cui
la stabilità strutturale dell'edificio in
condizioni di quiete lo consenta o, nelle
zone sottoposte a rischio sismico, solo nel
momento in cui la struttura del fabbricato
sia adeguata al grado di sismicità della
zona e, perciò, sia pronta a sopportare la
sopraelevazione.
Pertanto, qualora le leggi antisismiche, in
ragione delle particolari caratteristiche
del territorio, prescrivano cautele tecniche
da adottarsi nella sopraelevazione degli
edifici, esse sono da considerarsi
integrative del codice civile e la loro
inosservanza determina una presunzione di
pericolosità della sopraelevazione, che può
essere vinta esclusivamente mediante la
prova, il cui onere incombe sull'autore
della nuova fabbrica, che non solo la
sopraelevazione ma anche la struttura
sottostante sia idonea a fronteggiare il
rischio sismico. Se tale prova non viene
fornita, si presume l'instabilità della
costruzione realizzata e, quindi, una
situazione di pericolo permanente, da
rimuovere senza indugio.
---------------
Il proprietario deve corrispondere una
indennità ai condomini.
Il diritto di sopraelevazione, al di fuori
dei casi in cui sia escluso dal titolo o non
sia esercitabile per i limiti obiettivi
collegati alle esigenze di compatibilità
statica o architettonica, si traduce in una
facoltà strettamente collegata alla
proprietà dell'ultimo piano o a quella
esclusiva del lastrico solare. L'esercizio
di detta facoltà con la realizzazione della
sopraelevazione dà luogo all'aggiunta
all'edificio condominiale di un nuovo piano
o porzione di piano in proprietà
individuale, che viene a partecipare al
godimento delle parti comuni e genera,
altresì, l'obbligo del sopraelevante di
corrispondere agli altri condomini la c.d.
indennità di sopraelevazione.
Circa la nozione oggettiva di
sopraelevazione, la Corte di cassazione ha
avuto modo di chiarire che «non costituisce
esercizio del diritto di sopraelevazione la
sostituzione, a opera del proprietario
dell'ultimo piano di un edificio
condominiale, del tetto con una terrazza,
sulla considerazione che la diversa
copertura realizzata, pur non eliminando la
funzione originariamente svolta dal tetto,
vale ad imprimere allo stesso, una
destinazione ad uso esclusivo dell'autore
dell'opera, costituendo alterazione della
cosa comune che viene così sottratta al
godimento collettivo» (Cassazione, sez II,
28/01/2005, n. 1737).
In un caso analogo,
avente a oggetto la trasformazione di parte
del sottotetto in terrazza a livello in uso
esclusivo, la Suprema Corte, invocando
principi già espressi in materia di uso più
intenso delle parti comuni a opera di alcuni
condomini, ha escluso che un condomino possa
trasformare il tetto in terrazzo a uso
esclusivo, essendo in tal modo alterata
l'originaria destinazione della cosa comune
(Cass. civ., sez II, sentenza n. 5753/2007).
Le considerazioni svolte sinora valgono
anche nel caso in cui gli interventi
edificatori si traducano in opere di
recupero di sottotetti all'interno dei quali
siano ricavati uno o più appartamenti.
La titolarità del diritto di
sopraelevazione. Il diritto di
sopraelevazione è strettamente connesso alla
proprietà dell'immobile e il suo esercizio,
da parte del proprietario dell'ultimo piano,
non è soggetto al preventivo consenso
dell'assemblea. Dalla natura reale del
diritto suddetto discende, inoltre, la sua
imprescrittibilità. Dalla formulazione
dell'art. 1127 c.c. deve ritenersi che la
presenza di un proprietario esclusivo del
lastrico solare escluda automaticamente la
sussistenza del diritto di sopraelevazione
in capo al proprietario dell'ultimo piano.
Qualora, invece, il lastrico solare sia di
proprietà comune dei condomini, il diritto
di sopraelevazione spetta al proprietario
dell'ultimo piano che, a seguito della nuova
costruzione, dovrà ricostruire il lastrico
solare comune a un livello superiore.
Qualora l'ultimo piano dell'edificio sia
costituito da soffitte o da sottotetti, la
giurisprudenza ha ritenuto che
l'appartenenza di tali manufatti a soggetto
diverso dal proprietario dell'ultimo piano
faccia in modo che detti manufatti possano
essere considerati piani ai sensi e agli
effetti di cui all'art. 1127 c.c., con la
conseguenza che il diritto alla
sopraelevazione farà capo al proprietario di
tali soffitte o sottotetti. Per contro, la
proprietà comune di detti manufatti sposta
in favore del proprietario dell'ultimo piano
la facoltà di elevare nuovi piani o nuove
fabbriche, fermo restando l'obbligo di
ricostruire a un livello superiore i
manufatti preesistenti alla sopraelevazione
al fine di garantire l'uso comune degli
stessi.
La c.d. indennità di sopraelevazione.
L'indennità in questione è disciplinata dal
comma 4 dell'art. 1127 c.c. e consiste in
una misura compensativa riconosciuta agli
altri condomini, il cui ammontare è pari al
valore attuale dell'area da occuparsi con la
nuova costruzione, diviso per il numero dei
piani, ivi compreso quello da edificare, e
detratto l'importo della quota spettante al
sopraelevante. L'indennizzo non copre per
intero la diminuzione di valore che le unità
immobiliari in proprietà esclusiva subiscono
per effetto della sopraelevazione in
rapporto col valore dell'intero edificio e
ciò in virtù del fatto che, da un lato, non
si tratta di risarcimento da fatto illecito
e che, dall'altro, il diritto di
sopraelevare e, conseguentemente, di
provocare tale diminuzione, sorge
contemporaneamente al condominio e, quindi,
chi acquista una unità immobiliare al di
sotto dell'ultimo piano è a conoscenza del
fatto che il valore della stessa rispetto al
valore dell'intero edificio è suscettibile
di diminuzione (in tal senso Cassazione,
sez. II, n. 12880/2005).
L'obbligo di corresponsione dell'indennità
trova fondamento nella necessità di
compensare gli altri condomini della
riduzione del valore delle quote di loro
pertinenza sull'edificio condominiale,
giacché colui che realizza la
sopraelevazione va ad accrescere a scapito
degli altri condomini la propria quota di
partecipazione alla comunione.
D'altro canto il legislatore, nel
riconoscere il diritto di sopraelevare al
proprietario dell'ultimo piano o al
proprietario esclusivo del lastrico solare,
ha posto poi a carico di questi l'obbligo di
corrispondere un'indennità agli altri
condomini proprio con l'intento di
compensarli della diminuzione patrimoniale
delle loro quote per effetto della
sopraelevazione (articolo
ItaliaOggi Sette del 18.06.2012). |
CONDOMINIO:
Il
condominio (in persona del suo
amministratore, investito di apposita
delibera approvata con il quorum richiesto
dall'art. 1136 c.c.) possiede la
legittimazione e l'interesse ad agire per
l'impugnazione, per difformità dalle
prescrizioni urbanistico-edilizie, della
concessione assentita a terzi (tale
principio riguarda, normalmente, la
costruzione di stabili sul fondo confinante
e, quindi, vale a maggior ragione per
costruzioni interne allo stabile comune).
Ciò avviene sia perché sussiste in capo al
condominio uno stabile collegamento con la
zona (cd. vicinitas), e quindi, nel caso di
specie, con la sua stessa struttura, sia
(anche senza che venga lamentato un danno
specifico) in ragione del pregiudizio che è
insito nella violazione edilizia a danno di
tutti i membri della collettività e
consistente nel sacrificio derivante
dall'aggravio connesso alla presenza, nel
caso di concreto, di un ulteriore ottavo
piano.
La finalità di assicurare e garantire l'uso
e la conservazione delle cose comuni, ìnsita
nella creazione del condominio di un
edificio come centro di imputazione
d'interessi, giustifica la titolarità in
capo al medesimo dell'azione di annullamento
nei confronti dell'illegittima esplicazione
dello ius aedificandi anche se ad opera di
un condòmino, poiché le azioni promosse a
difesa dei diritti e degli interessi
legittimi dei condomini esplicano efficacia
sull'intero raggruppamento degli occupanti
dell'edificio e rappresentano una modalità
della realizzazione dell'interesse comune.
La
giurisprudenza amministrativa ha
costantemente sostenuto che il condominio
(in persona del suo amministratore,
investito di apposita delibera approvata con
il quorum richiesto dall'art. 1136 c.c.)
possiede la legittimazione e l'interesse ad
agire per l'impugnazione, per difformità
dalle prescrizioni urbanistico-edilizie,
della concessione assentita a terzi (tale
principio riguarda, normalmente, la
costruzione di stabili sul fondo confinante
e, quindi, vale a maggior ragione per
costruzioni interne allo stabile comune).
Ciò avviene sia perché sussiste in capo al
condominio uno stabile collegamento con la
zona (cd. vicinitas), e quindi, nel caso di
specie, con la sua stessa struttura, sia
(anche senza che venga lamentato un danno
specifico) in ragione del pregiudizio che è
insito nella violazione edilizia a danno di
tutti i membri della collettività e
consistente nel sacrificio derivante
dall'aggravio connesso alla presenza, nel
caso di concreto, di un ulteriore ottavo
piano (cfr. Cons. St., V, 15.02.2010
n. 809).
La finalità di assicurare e garantire l'uso
e la conservazione delle cose comuni, ìnsita
nella creazione del condominio di un
edificio come centro di imputazione
d'interessi, giustifica la titolarità in
capo al medesimo dell'azione di annullamento
nei confronti dell'illegittima esplicazione
dello ius aedificandi anche se ad opera di
un condòmino, poiché le azioni promosse a
difesa dei diritti e degli interessi
legittimi dei condomini esplicano efficacia
sull'intero raggruppamento degli occupanti
dell'edificio e rappresentano una modalità
della realizzazione dell'interesse comune
(arg. Tar Brescia, 06.05.2005, n. 410;
Cass. civ., III, 20.02.2009, n. 4245).
Il Condominio Alfa, pertanto, aveva dunque
una piena legittimazione ad adire questo
Tribunale (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 24.05.2012 n. 1057 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO:
Condominio, distacco dal riscaldamento
centralizzato: quali conseguenze?
La questione giuridica sottesa alla sentenza n. 7182/2012
della Cassazione civile è così riassumibile: il condòmino
che legittimamente opera il distacco dall’impianto
centralizzato di riscaldamento condominiale è tenuto a
pagare le spese straordinarie di manutenzione del medesimo
oppure no?
La risposta negativa fornita dalla Cassazione è strettamente
connessa alla fattispecie esaminata, ma sembra non risolvere
la questione in radice, perché fornisce un principio di
diritto applicabile non già a tutti i casi di c.d. “distacco
legittimo dell’impianto di riscaldamento afferente la
singola unità abitativa”, ma solo ai casi in cui la
situazione prodotta dal distacco sia irreversibile.
Vediamo nel dettaglio.
Il condomino ricorrente impugna in primo grado due delibere
assembleari che gli attribuivano una quota di partecipazione
sia alle spese d’esercizio inerenti l’uso del riscaldamento
sia alle spese di straordinaria manutenzione dell’impianto
centralizzato da cui si era legittimamente distaccato anni
prima (ricorda la Corte che la legittimità di detto distacco
deve essere valutata in ragione del mancato aggravio di
spese di riscaldamento in capo agli altri condomini e della
totale assenza di doglianze dei medesimi in ordine ad
eventuali squilibri termici e/o irregolarità del servizio).
Il Giudice di prime cure, attestata la legittimità del
distacco operato, annullava la sola delibera ponente a
carico del condomino la partecipazione alle spese ordinarie,
ma non l’altra.
Promossa impugnazione, la Corte d’appello ribaltava quanto
statuito in prime cure argomentando in ordine al fatto che
l’impianto centralizzato in questione, dopo il distacco
dell’appellante, era stato SOSTITUITO e RIDIMENSIONATO in
ragione delle effettive esigenze di riscaldamento dei
condomini rimanenti e che, pertanto, l’appellante non
avrebbe più potuto riattaccarsi: di qui che non vi fosse
ragione alcuna della sua partecipazione alle spese
straordinarie di manutenzione del nuovo impianto sul quale
perdeva ogni diritto di comproprietà.
Interessata della questione a seguito di impugnazione
promossa dal condominio, la Cassazione aderisce alla tesi
espressa in secondo grado che esclude la partecipazione del
condomino distaccato sia dalle spese ordinarie, sia da
quelle straordinarie “in quanto il ridimensionamento
della nuova caldaia per le sole esigenze dei rimanenti
condomini escludeva alcuna possibilità di fruizione di tale
impianto, con conseguente impossibilità di eventuali
riallacci”.
La posizione della Suprema Corte suscita grande interesse e
alcuni interrogativi:
• cosa accade nel caso in cui, a seguito del distacco di uno
dei condomini, l’impianto NON venga sostituito e
ridimensionato: in questo caso, cioè, il condomino
distaccato che potenzialmente potrebbe riallacciarsi, dovrà
pagare le spese straordinarie di manutenzione dell’impianto
oppure no?
• come si coniuga questa tesi interpretativa con l’art. 1118
comma 2 c.c. che sancisce l’obbligo di ciascun condominio di
partecipare alle spese di conservazione delle parti comuni
anche nel caso di rinuncia al diritto su detti beni?
Peraltro, ammettere che la delibera condominiale di
sostituzione e ridimensionamento dell’impianto centralizzato
determini l’estromissione del condomino distaccato dalla
comunione sul bene, significa ammettere che l’assemblea
condominiale ha potere di incidere sulla quota di proprietà
individuale afferente a ciascun condòmino.
Se l’obbligo di partecipazione alle spese di conservazione
della cosa comune è conseguenza diretta del diritto di
proprietà e non dell’uso effettivo o potenziale della cosa
medesima, e se la delibera assembleare non è prevista nel
nostro ordinamento quale atto idoneo costituire o estinguere
il diritto di proprietà, ebbene, se tutto questo è vero, la
tesi del Supremo Collegio oggetto della sentenza in commento
sembra, a sommesso avviso di chi scrive, stridere con i
principi tradizionali del diritto civile (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 10.05.2012 n. 7182 - link a www.altalex.com). |
aprile 2012 |
|
EDILIZIA PRIVATA: D.
Chinello,
Legittimazione edilizia dei singoli
condòmini per intervenire sulle parti comuni
e poteri comunali di verifica
(Urbanistica e appalti n. 4/2012). |
marzo 2012 |
|
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
A. Gallucci,
L’installazione di una canna fumaria in un condominio -
Di chi è la proprietà della canna fumaria? Nella sua
installazione devono essere rispettate le distanze? Che cosa
succede se le tubazioni alterano l’estetica dell’edificio?
Indicazioni pratiche valide per impianti termici o al
servizio di attività commerciali e artigianali (Quaderni
di Legislazione Tecnica n. 1/2012). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: L'intervento
di installazione di una caldaia sul muro
esterno deve essere qualificato come di
manutenzione straordinaria, in quanto
riconducibile alla tipologia di lavori di
cui all’art. 3, comma 1, lett. b, del d.p.r.
n. 380 del 2001 finalizzati a “realizzare ed
integrare i servizi igienico-sanitari e
tecnologici”.
Pertanto, in assenza di atto abilitativo a
monte, è illegittimo l'ordine comunale di
rimozione, cui consegue un regime
sanzionatorio differenziato rispetto alla
demolizione e remissione in pristino.
---------------
Ai sensi dell’art. 1102 c.c., ogni condomino
è legittimato a servirsi della cosa comune
ed apportarvi le necessarie modifiche per il
godimento migliore, a patto che la
destinazione non ne venga alterata e che non
si impedisca agli altri condomini di farne
pari uso.
Il parametro valutativo dell’attività
amministrativa, nella materia, va ricercato
nella disciplina pubblicistica che regola la
realizzazione delle opere edilizie nel
territorio, senza che il mancato
accertamento dell’assenso di terzi, o della
lesione intersoggettiva che l’attività
edificatoria potrebbe eventualmente
arrecare, possa incidere sulla legittimità
del provvedimento, che viene adottato sulla
base del titolo formale di disponibilità del
bene immobile direttamente inciso
dall’intervento e, in ogni caso, con
salvezza dei diritti dei terzi.
In altri termini, il mancato assenso del
Condominio cui la porzione immobiliare
inerisce (e l’eventuale, mancato rispetto
della disciplina condominale) è questione
che concerne le relazioni privatistiche, cui
resta estranea l’Amministrazione.
A diverse conclusioni deve pervenirsi con
riferimento alla intimata rimozione della
caldaia esterna installata dal ricorrente
per l’attivazione di un impianto di
riscaldamento nella sua abitazione. Detto
intervento, come correttamente indicato in
ricorso, deve essere qualificato come di
manutenzione straordinaria, in quanto
riconducibile alla tipologia di lavori di
cui all’art. 3, comma 1, lett. b, del d.p.r.
n. 380 del 2001 finalizzati a “realizzare
ed integrare i servizi igienico-sanitari e
tecnologici”.
Al riguardo il Comune ha quindi errato nel
non svolgere alcuna istruttoria circa la
qualificazione dell’intervento in oggetto
cui consegue un regime sanzionatorio
differenziato rispetto alla demolizione e
remissione in pristino.
Analogamente fondato si appalesa il ricorso
avverso il diniego di sanatoria per la
apposizione della caldaia murale in oggetto
motivato dal Comune sul presupposto della
necessità del previo assenso condominiale
poiché installata su area condominiale. Il
Comune ha omesso di considerare, come
peraltro ribadito dal giudice adito in sede
civile, che ai sensi dell’art. 1102 c.c.,
ogni condomino è legittimato a servirsi
della cosa comune ed apportarvi le
necessarie modifiche per il godimento
migliore, a patto che la destinazione non ne
venga alterata e che non si impedisca agli
altri condomini di farne pari uso (cfr.
Cass. civ. sez. II 05.12.1997 n. 12344; Tar
Catanzaro n. 930 del 27.06.2011).
Ha osservato al riguardo la giurisprudenza
amministrativa che: “il parametro
valutativo dell’attività amministrativa,
nella materia, va ricercato nella disciplina
pubblicistica che regola la realizzazione
delle opere edilizie nel territorio, senza
che il mancato accertamento dell’assenso di
terzi, o della lesione intersoggettiva che
l’attività edificatoria potrebbe
eventualmente arrecare, possa incidere sulla
legittimità del provvedimento, che viene
adottato sulla base del titolo formale di
disponibilità del bene immobile direttamente
inciso dall’intervento e, in ogni caso, con
salvezza dei diritti dei terzi. In altri
termini, il mancato assenso del Condominio
cui la porzione immobiliare inerisce (e
l’eventuale, mancato rispetto della
disciplina condominale) è questione che
concerne le relazioni privatistiche, cui
resta estranea l’Amministrazione.” (in
tal senso C.d.S. sez. V n. 6297 del
27.09.2004; Cons. Stato Sez. V, n. 905 del
19.02.2003)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 08.03.2012 n. 1192 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO:
Parcheggio a trasferimento
libero.
Box cedibile anche a prescindere dalla
vendita dell'immobile. Il dl semplificazioni
liberalizza la circolazione delle aree
adibite a posto auto pertinenziale.
Liberalizzazione ad ampio raggio anche per
la circolazione delle aree adibite a
parcheggio pertinenziale.
Il dl n. 5/2012
(decreto semplificazioni), modificando sul
punto la cosiddetta legge Tognoli, ha
infatti previsto che il proprietario di un
immobile dotato di parcheggio di pertinenza
realizzato nel sottosuolo o al piano terra
dell'edificio condominiale con le
maggioranze agevolate di cui alla predetta
legge del 1989, possa vendere quest'ultimo
anche a prescindere dal trasferimento della
proprietà dell'appartamento, purché il nuovo
acquirente abiti nel medesimo comune in cui
è ubicato l'immobile.
Nel tentativo di risolvere il problema dei
parcheggi degli autoveicoli che, da svariati
anni, soffocano i centri urbani e
gradualmente hanno cominciato a occupare
anche le zone semicentrali e periferiche, il
legislatore è intervenuto a più riprese con
svariate disposizioni inserite in numerosi
testi normativi emanati nell'arco degli
anni. In particolare, bisogna ricordare che
alla fine degli anni 80, per cercare di
porre rimedio alla situazione sopra
descritta, è stata introdotta una nuova
normativa (legge 24.03.1989 n. 122,
cosiddetta legge Tognoli) finalizzata
all'incentivazione della costruzione di
parcheggi nelle aree sottostanti o
pertinenziali agli edifici condominiali o
nel piano terra degli stessi.
Ebbene, il
recente decreto legge sulle semplificazioni
e lo sviluppo, nel tentativo di allentare i
rimanenti lacci e lacciuoli previsti dalla
legge in materia di compravendita delle aree
destinate a parcheggio degli autoveicoli, ha
innovato profondamente la peculiare
disciplina prevista dalla vecchia legge
Tognoli, che tanto aveva affaticato la
giurisprudenza e la dottrina.
Legge 122/1989 e condominio: le norme
fondamentali. La legge Tognoli ha previsto
che i condomini possano realizzare nel
sottosuolo o nei locali posti al piano
terreno del condominio, oppure nel
sottosuolo di aree pertinenziali esterne al
caseggiato, parcheggi da destinare a
pertinenza delle singole unità immobiliari
(cioè a uso esclusivo dei residenti), anche
in deroga agli strumenti urbanistici e ai
regolamenti edilizi vigenti.
È importante
sottolineare, però, che restano in ogni caso
fermi i vincoli previsti dalla legislazione
in materia paesaggistica e ambientale (e i
poteri attribuiti dalla medesima
legislazione alle regioni e ai ministeri
dell'ambiente e per i beni culturali).
Naturalmente, poi, la realizzazione di
questi spazi è subordinata alla richiesta
dei necessari permessi edilizi. In ogni caso
la realizzazione del parcheggio è possibile
solo con una deliberazione approvata
dall'assemblea condominiale, in prima o in
seconda convocazione, con il voto favorevole
della maggioranza degli intervenuti e almeno
la metà del valore dell'edificio.
Le condizioni per la realizzazione dei
parcheggi. La realizzazione del parcheggio
non può avvenire se è in contrasto con la
stabilità o il decoro del fabbricato o se
comporta la sottrazione di parti comuni
all'uso e al godimento di un solo condomino.
In secondo luogo, le opere in oggetto
costituiscono innovazioni gravose,
comportando oneri economici particolarmente
rilevanti: di conseguenza i dissenzienti,
così come prevede la legge, potranno essere
esonerati da qualsiasi contribuzione alle
spese ma potranno decidere in qualsiasi
momento di aderire al progetto di
parcheggio, pagando le spese di esecuzione e
manutenzione dell'opera. In altre parole è
possibile realizzare box sotterranei, previa
delibera condominiale, pur se in numero
inferiore a quello della totalità dei
condomini, non potendo i condomini
dissenzienti impedire tale realizzazione
voluta invece dalla maggioranza dei
partecipanti al condomini
Quindi è possibile che il numero delle
autorimesse sotterranee realizzate sia
inferiore al numero degli appartamenti.
Tuttavia la sottrazione di una parte del
bene comune è consentita solo se è
assicurata in futuro anche ai condomini
dissenzienti il pari uso del sottosuolo
avvalendosi della possibilità di realizzare
nell'area di detto bene comune rimasta
libera un parcheggio pertinenziale
dell'unità immobiliare di proprietà
esclusiva: tutti i condomini, nessuno
escluso, devono infatti avere la possibilità
di godimento del sottosuolo secondo la sua
destinazione (prevista normativamente) ad
alloggiare autorimesse. Solo se tale
possibilità è garantita la delibera adottata
a maggioranza può essere ritenuta valida, in
quanto non in contrasto con la legge.
Il vincolo a pertinenza degli appartamenti:
le novità del decreto legge 09.02.2012
n. 5. La legge Tognoli precisava che i
parcheggi con le caratteristiche di cui
sopra non potevano essere ceduti
separatamente dall'unità immobiliare alla
quale erano legati da vincolo pertinenziale
e che i relativi atti di cessione erano
nulli.
L'intento del legislatore era stato
evidentemente quello di evitare speculazioni
da parte di chi aveva usufruito di speciali
deroghe e agevolazioni per la realizzazione
degli spazi in oggetto, prevedendo
espressamente che i parcheggi in tal modo
realizzati fossero sottoposti sia a
circolazione che a utilizzazione vincolata.
In buona sostanza, unicamente per tali
spazi, era stato previsto un vincolo di
destinazione di ordine pubblicistico, cioè
il divieto di cessione del bene immobile
separatamente dall'appartamento del quale lo
stesso era da considerarsi pertinenziale.
Tuttavia il recente decreto legge cosiddetto
semplificazione e sviluppo (dl n. 5 del 09.02.2012) all'art. 10, modificando sul
punto la legge Tognoli, ha stabilito che la
proprietà dei parcheggi di pertinenza delle
abitazioni possa essere trasferita
separatamente dall'unità immobiliare di
riferimento, a condizione che ciò avvenga
solo con contestuale destinazione del
parcheggio trasferito a pertinenza di altra
unità immobiliare sita nello stesso comune.
Il nuovo testo normativo prevede però ancora
un'eccezione: esso stabilisce infatti che la
cessione dell'area adibita a ricovero delle
auto non possa avvenire, pena la nullità
dell'atto di trasferimento, ove abbia a
oggetto parcheggi realizzati su previsione
dei comuni nell'ambito del programma urbano
dei parcheggi da destinare a pertinenza di
immobili privati, insistenti su aree
comunali o nel sottosuolo delle medesime.
---------------
Tutti i condomini hanno diritto d'uso.
I parcheggi creati sulla base della
cosiddetta legge ponte, in quanto di
obbligatoria edificazione in quantità
proporzionale alla cubatura totale del
condominio, hanno un vincolo di carattere
pubblicistico, poiché tutti i condomini
godono di un diritto reale d'uso sui
predetti spazi, che non può essere frustrato
dalla volontà contraria del costruttore.
Questa la posizione espressa ormai da tempo
dalla Suprema corte in relazione ai
parcheggi edificati in base alla legge n.
765/1967 (che ha modificato l'art. 41-sexies
della legge urbanistica n. 1150/1942),
ribadita da ultimo nella recente sentenza n.
1214, depositata in cancelleria lo scorso 27.01.2012.
Si tratta di una tipologia di parcheggi che
l'elaborazione giurisprudenziale ha ritenuto
diversa da quella ricadente nella cosiddetta
legge Tognoli (e della quale si occupa il
recente intervento di liberalizzazione di
cui al dl n. 5/2012). Infatti, come chiarito
in maniera esemplare dalla stessa Cassazione
(sentenza n. 21003 dell'01.08.2008),
mentre per quelli che ricadono nella
disciplina di cui alla legge n. 122/1989 (e
ora liberalizzati a partire dal 10 febbraio
scorso) non era ammissibile una
commercializzazione disgiunta
dall'appartamento al quale gli stessi si
riferivano, per quelli previsti dalla
cosiddetta legge ponte la libera
circolazione era già prevista dalla legge,
fermo restando il diritto reale d'uso
dell'area in capo al proprietario
dell'appartamento.
Nel caso deciso dalla seconda sezione civile
della Suprema corte con la predetta sentenza
n. 1214/2012 gli acquirenti di un immobile
di nuova costruzione avevano citato in
giudizio l'impresa costruttrice che,
nell'edificare il palazzo, aveva trattenuto
per sé la proprietà delle aree a parcheggio
costruite, impedendo agli acquirenti di
farne uso. Questi ultimi avevano quindi al
tribunale di accertare il loro diritto di
proprietà in relazione alle predette aree o,
quantomeno, il loro diritto reale d'uso
sulle stesse.
In primo grado i giudici avevano quindi
convalidato il sequestro giudiziario
concesso in corso di causa, riconoscendo
agli acquirenti, previo pagamento del
prezzo, la proprietà di un posto auto
individuato grazie a una consulenza tecnica
d'ufficio (che aveva anche provveduto a
valutare il relativo valore di mercato).
Nel giudizio di appello, promosso
dall'impresa costruttrice, la Corte
territoriale aveva invece ritenuto che non
dovesse essere accolta la domanda degli
acquirenti volta al riconoscimento di un
proprio diritto di proprietà sugli spazi
adibiti a parcheggio, trattandosi in realtà
di un diritto reale d'uso (relativo comunque
alla stessa area ceduta in proprietà a
seguito della sentenza di primo grado).
La Suprema corte, nel confermare sul punto
la decisione di appello, ha ricordato i
numerosi precedenti di legittimità (da
ultimo la sentenza n. 730 del 16.01.2008)
che hanno chiarito come ai proprietari degli
appartamenti degli edifici condominiali nei
quali siano stati previste aree di
parcheggio spetti il diritto reale di uso
delle stesse, a prescindere dalla proprietà
di esse, che può anche rimanere in capo
all'impresa costruttrice (articolo ItaliaOggi Sette
del 05.03.2012). |
febbraio 2012 |
|
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Fabbricati
di nuova costruzione - Locale per stoccaggio
dei rifiuti nei condomini.
Per i fabbricati di nuova costruzione
l'applicazione delle nuove regole è comunque
necessaria; questi quindi, dovranno
tassativamente dotarsi, in applicazione
dell'art. 59 del regolamento edilizio, di un
locale per lo stoccaggio dei rifiuti. Per i
fabbricati vetusti invece l'applicazione
delle nuove regole (e quindi l'adeguamento
del fabbricato al regolamento edilizio
sopravvenuto), pur non essendo sempre
dovuta, può essere imposta dall'Autorità
amministrativa qualora ricorrano superiori
esigenze di interesse pubblico, con il
limite oggettivo degli interventi
tecnicamente realizzabili.
Tipico esempio di superiori ragioni di
interesse pubblico sono quelle connesse alle
esigenze di tutela della salute e
dell'igiene ed in particolare al corretto
svolgimento delle operazioni di raccolta e
stoccaggio dei rifiuti, prodotti dalle unità
abitative, all'interno di spazi ed aree
condominiali, in attesa del loro
conferimento al servizio pubblico di
raccolta.
E' invero intollerabile, per ovvie ragioni
di igiene e per inderogabili esigenze di
prevenzione della salute, che i rifiuti
vengano ammassati (pur se allocati in
appositi cassonetti) per stazionare, in
attesa del conferimento, in aree
condominiali non adatte allo scopo poste in
immediata vicinanza alle finestre delle
abitazioni. Necessario risulta l'adeguamento
dei fabbricati al vigente regolamento
edilizio, attraverso la realizzazione di un
apposito locale di raccolta.
In ogni caso si può considerare che per i
condomini realizzati prima dell'entrata in
vigore del nuovo regolamento edilizio, non
debbono trovare sempre applicazione le norme
in quest'ultimo contenute (in particolare,
come detto, quando vi siano oggettive
ragioni tecniche contrarie), qualora si
accerti l'assoluta impossibilità tecnica di
un integrale adeguamento delle strutture al
regolamento, potranno essere individuate
soluzioni intermedie che, pur non
strettamente aderenti al dettato
regolamentare, siano comunque idonee a
salvaguardare le imprescindibili esigenze di
tutela della salute e dell'igiene pubblica
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 27.02.2012 n.
627 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO:
La Cassazione su un manufatto che percorre
tutto il muro. Vale il principio sulla cosa comune. La canna fumaria è affare di tutti.
Per la legittimità dell'opera non conta il
diritto di veduta.
Per valutare se sia legittima la
realizzazione da parte di un condominio di
una canna fumaria che percorre tutto il muro
condominiale non bisogna considerare se il
nuovo manufatto impedisca o meno la veduta
del proprietario dell'attico ma individuare
se, con la realizzazione di essa, sia
impedito o meno agli altri comproprietari il
normale uso del detto muro perimetrale.
In altri termini, in casi del genere non
bisogna fare applicazione delle norme a
tutela del diritto di veduta del
proprietario dell'immobile, bensì del
principio generale desumibile dall'art. 1102
del codice civile, in base al quale ciascun
partecipante può servirsi della cosa comune
purché non ne alteri la destinazione e non
impedisca agli altri partecipanti di farne
parimenti uso.
Queste le interessanti
conclusioni alle quali è pervenuta la
II Sez. della Corte di Cassazione
con la recente
sentenza 23.02.2012 n. 2741.
La controversia tra condomini che ha portato
alla decisione in questione nasceva a
seguito della realizzazione da parte dei
proprietari di un locale condominiale
adibito a pizzeria di una nuova e più
efficiente canna fumaria che partiva dal
forno del locale (collocato a piano terra) e
si inerpicava lungo il muro condominiale,
sboccando a ridosso della terrazza
dell'attico. Il proprietario di quest'ultimo
si rivolgeva quindi al tribunale per
richiedere la rimozione della canna fumaria,
per la presunta violazione del suo diritto
di veduta e delle norme sulle distanze nelle
costruzioni. Il proprietario del locale
pizzeria e il conduttore si difendevano però
sottolineando il fatto di avere ottenuto una
specifica autorizzazione dell'assemblea
condominiale, nonché eccependo l'inesistenza
di un oggettivo pregiudizio a danno del
proprietario dell'ultimo piano.
Dette eccezioni venivano considerate valide
dal tribunale, che riteneva legittima la
nuova canna fumaria, ma tale decisione
veniva ribaltata dalla Corte di appello, che
ordinava la rimozione parziale del manufatto
in questione da tenere almeno a tre metri
sotto la soglia della terrazza annessa
all'attico. Nella sentenza di secondo grado
si precisava, infatti, che ogni condomino ha
diritto a esercitare una vista a piombo fino
alla base dell'edificio (oltre che quella
panoramica intorno al caseggiato), mentre la
possibilità di un altro condomino di
appoggiare la canna fumaria è ammessa solo
ove la stessa non leda il diritto di veduta
del vicino. Del resto, i giudici di secondo
grado avevano ricordato come, in riferimento
a un caso simile, i giudici supremi, in una
decisione risalente nel tempo, avessero già
precisato che qualora il proprietario di un
attico condominiale agisca per denunciare la
collocazione di un canna fumaria che arrechi
pregiudizio alla vista che si gode dal suo
appartamento, l'indagine sulla legittimità
del fatto denunciato va condotta con
riferimento alle norme sul diritto di
veduta, in quanto la domanda giudiziale è
rivolta a tutelare la veduta del singolo
appartamento e non certo il muro
condominiale.
La sentenza della Corte di appello veniva
però contestata dai proprietari della
pizzeria che, presentando ricorso per
cassazione, insistevano nell'affermare la
legittimità della collocazione della canna
fumaria, sottolineando come il manufatto
installato fosse stata indicata come la
soluzione migliore anche dal consulente
tecnico del giudice. La Suprema corte, però,
con la decisione indicata, ha dato ragione
ai proprietari della pizzeria, ricordando
che se le norme in materia condominiale
consentono al singolo condomino di servirsi
di un bene comune (compreso il muro
perimetrale del caseggiato), anche se
rispettando determinati limiti, a maggior
ragione deve essere consentito al condomino
di poter utilizzare liberamente un manufatto
di proprietà esclusiva.
In ogni caso i giudici supremi hanno
sottolineato come la distanza di tre metri
sia quella che deve essere rispettata tra le
costruzioni e, quindi, non poteva essere
applicata al caso esaminato.
Infatti, come sottolineato dalla Cassazione,
è difficile qualificare una canna fumaria
(cioè un tubo in metallo) come una
costruzione, trattandosi di manufatto che
costituisce un semplice accessorio di un
impianto (nella specie un forno), facente
parte di una unità immobiliare di proprietà
esclusiva, collocato non nel fondo adiacente
a quello del condomino che ne denuncia la
illegittimità, ma nello spazio non
condominiale.
In altre parole, nel caso di specie non
erano presenti le condizioni per applicare
le norme sulle distanze legali e, di
conseguenza, per valutare la legittimità o
meno dell'opera, non bisognava considerare
se la stessa avesse ridotto o escluso il
diritto di veduta del proprietario
dell'ultimo piano, ma se l'utilizzo del muro
condominiale fosse da considerare legittimo,
e cioè rispettoso di quella norma
fondamentale secondo cui ciascun
partecipante può servirsi della cosa comune
purché non ne alteri la destinazione e non
impedisca agli altri condomini di farne
ugualmente uso.
In mancanza di un'indagine per accertare se,
con la realizzazione della nuova canna
fumaria, fosse stato impedito il normale
godimento del muro perimetrale, la
Cassazione ha quindi accolto il ricorso del
proprietario della pizzeria, rimettendo la
stessa questione alla Corte di appello, che
dovrà nuovamente esaminare il caso secondo
le nuove indicazioni fornite dai giudici di
legittimità (articolo
ItaliaOggi Sette del 26.03.2012). |
CONDOMINIO:
Vizi dell'immobile, colpe a metà.
Se il difetto è evidente si presume la
tolleranza dell'inquilino. La Cassazione
sugli affitti: il proprietario è
responsabile quando l'anomalia è occulta.
Locazioni: per i vizi dell'immobile
responsabilità suddivisa tra proprietario e
inquilino. Il locatore è infatti tenuto a
garantire che l'immobile concesso in
locazione sia idoneo all'uso pattuito ma il
conduttore, di converso, deve prestare
attenzione alla presenza di vizi evidenti
che, se non immediatamente contestati, si
presumono accettati e tollerati da
quest'ultimo sulla base di una complessiva
valutazione di convenienza dell'affare.
Quanto sopra, tuttavia, non vale a sollevare
da responsabilità il proprietario nel caso
in questi cui abbia sottaciuto alla
controparte la presenza di vizi occulti o
non facilmente individuabili che rendano di
fatto l'immobile inservibile all'utilizzo
pattuito.
Lo ha chiarito la III Sez.
civile della Corte di Cassazione con la
sentenza 07.02.2012 n. 1694.
Nel caso concreto i titolari di una società
che aveva preso in locazione alcuni locali
da adibire a discoteca aveva portato in
giudizio il proprietario dei medesimi per
ottenere la risoluzione per inadempimento
del relativo contratto e il risarcimento dei
danni conseguenti, lamentando il mancato
allacciamento dei servizi igienici alla rete
fognaria condominiale servita da un
depuratore.
In primo grado il tribunale
aveva però respinto la domanda di parte
attrice, perché nel contratto di locazione
era stato espressamente previsto dalle parti
che la società conduttrice avrebbe
provveduto alla manutenzione, anche
straordinaria, dei locali, con totale
esonero da responsabilità del locatore. I
giudici di primo grado, quindi, avevano
implicitamente ritenuto che il mancato
allacciamento degli impianti di scarico alla
rete fognaria, vista anche la specifica pattuizione contenuta nel contratto di
locazione, non poteva essere ritenuto un
vizio occulto e non conoscibile con
l'ordinaria diligenza da parte del
conduttore.
Di diverso avviso, invece, si
erano mostrati i giudici di appello
successivamente aditi dalla società
conduttrice, i quali avevano proprio puntato
sulla non conoscenza e non conoscibilità del
vizio in questione, ribaltando sul punto la
decisione di primo grado. La Corte di
appello aveva quindi accolto la domanda di
risoluzione per inadempimento del contratto
di locazione impugnato, respingendo però
quella diretta a ottenere il risarcimento
dei danni, non essendo stato provato
alcunché in ordine al pregiudizio economico
lamentato dalla società conduttrice.
I giudici di legittimità, nel riesaminare in
punto di diritto la questione controversa,
con la sentenza n. 1694 dello scorso 07.02.2012 hanno quindi confermato la
sentenza della corte di appello in ordine
alla responsabilità del locatore per il
mancato allacciamento degli impianti
sanitari dei locali alla rete fognaria
condominiale. La terza sezione della
Cassazione ha infatti ritenuto corretto il
riferimento operato dalla società
conduttrice all'art. 1578 del codice civile,
che disciplina appunto le conseguenze dei
vizi dai quali risulti affetto il bene
concesso in locazione.
Secondo i supremi
giudici un vizio quale quello denunciato
dalla conduttrice deve ritenersi per sua
stessa natura occulto, in quanto, essendo
nozione di fatto di comune esperienza che i
collegamenti fognari sono sotterranei, non
si può certo rimproverare al conduttore la
mancata conoscenza di una circostanza del
genere.
---------------
La garanzia sulla manutenzione deve restare
invariata.
Il locatore-proprietario di un immobile
commerciale è tenuto non solo a consegnare
al conduttore un locale in buono stato di
manutenzione e a non occultare eventuali
vizi dell'immobile, ma anche a vigilare e
garantire che tale situazione rimanga
invariata nel tempo, trattandosi di un
obbligo strettamente connesso con quelli,
già a suo carico, di riparazione e
manutenzione dell'immobile locato. Vediamo
allora di considerare i principali diritti e
doveri del locatore e del conduttore in
relazione alle condizioni di fatto
dell'immobile concesso in locazione.
Obbligo di verifica e custodia anche delle
parti condominiali. Il proprietario non può
considerarsi dispensato dall'obbligo di
vigilanza e di custodia anche delle parti
comuni dell'edificio in cui si trova il
locale affittato.
Sussiste, dunque, la
responsabilità del locatore per i danni che
il conduttore subisce a causa di un bene
condominiale. Il locatore quindi è
responsabile per i danni che il conduttore
subisce a causa di danni al tetto, alla
facciata ecc.. Così, ad esempio, è
decisamente illecito il comportamento del
locatore che, proprietario dell'intero
stabile, si disinteressi di provvedere alla
manutenzione del tetto, sino al punto di
rendere inagibili i locali detenuti da un
conduttore a causa di rilevanti
infiltrazioni di acqua.
L'immobile concesso
in locazione deve pertanto restare sempre
perfettamente agibile, così da rendere
legittima la pretesa del locatore di
continuare a percepire regolarmente il
corrispettivo pattuito per la locazione. Va
peraltro precisato che al conduttore, nel
caso in cui si verifichi una riduzione o una
diminuzione nel godimento del bene
imputabile a negligenza del locatore, non è
consentito di sospendere il pagamento del
canone di locazione o di ridurlo
unilateralmente.
Denuncia dei vizi conoscibili. Il
proprietario deve consegnare un immobile in
buono stato, ma il conduttore, all'atto
della stipula del contratto, deve
controllare e denunciare i difetti
dell'immobile conosciuti o facilmente
riconoscibili (purché non occulti): in caso
contrario deve ritenersi che il medesimo
abbia implicitamente rinunciato a farli
valere, accettando la cosa nello stato in
cui risultava al momento della consegna, e
non potrà pertanto chiedere la risoluzione
del contratto o la riduzione del canone, né
il risarcimento del danno.
Quanto sopra vale
a maggior ragione se il conduttore, con
apposita clausola, da un lato riconosca il
locale commerciale idoneo all'uso pattuito,
dall'altro esoneri il locatore da ogni
eventuale inadempienza. In tal caso si deve
ritenere che il conduttore fosse consapevole
della necessità di interventi di
manutenzione, ma abbia valutato il canone
vantaggioso e per questo abbia concluso il
contratto.
Lavori per adeguare il locale a una
specifica attività commerciale. Spetta poi
al conduttore verificare che il locale abbia
quelle particolari caratteristiche
necessarie per svolgervi l'attività che si
ripromette di esercitarvi e per ottenere le
necessarie autorizzazioni amministrative.
Quindi è sempre quest'ultimo a doversi
preventivamente accertare che la sua
attività sia compatibile con la struttura e
con gli impianti dei locali visionati,
pretendendo eventualmente dal locatore
specifiche garanzie in proposito. In caso
contrario, il conduttore che accetta il
locale senza obiezioni si dovrà accollare
l'onere delle spese di adeguamento
dell'immobile locato.
Del resto, in via di
principio, non è onere del locatore ottenere
le necessarie autorizzazioni e, ove il
conduttore non riesca a ottenerle, non è
configurabile alcuna responsabilità per
inadempimento in capo al proprietario, e ciò
anche se la mancata concessione sia dipesa
da caratteristiche proprie dell'immobile.
Tuttavia, se il provvedimento amministrativo
necessario per la destinazione d'uso
convenuta sia stato definitivamente negato,
al conduttore è generalmente riconosciuta la
facoltà di chiedere la risoluzione del
contratto (salvo particolari accordi).
Si
deve inoltre sottolineare che le parti
possono far gravare sul locatore sia la
possibilità di apportare all'immobile
modificazioni necessarie per potervi
svolgere l'attività prevista (e così di
installarvi dispositivi necessari da un
punto di vista tecnico o giuridico) sia il
fatto che esso presenti o sia in condizione
di acquisire tutti i permessi richiesti
dalla legge. Quanto sopra è possibile solo
se nel contratto il proprietario si obblighi
espressamente ad apportare al locale le
modificazioni necessarie per potervi
svolgere l'attività prevista e ottenere con
certezza il rilascio delle autorizzazioni
amministrative.
Vizi e difetti di gravi nature nel corso
della locazione.
Durante la locazione nell'immobile possono
comparire vizi e difetti di grave natura,
tali da diminuire in modo apprezzabile o,
addirittura, far venire meno l'idoneità del
locale a servire all'uso pattuito. In tal
caso il conduttore non ha la possibilità di
richiedere l'intervento del locatore per le
necessarie riparazioni, né tanto meno può
provvedervi direttamente: questi può però
ottenere, a sua scelta, la risoluzione del
contratto o la riduzione del canone, oltre
al risarcimento del danno.
Infatti l'obbligo del locatore di effettuare
le riparazioni necessarie a mantenere
l'immobile in buono stato riguarda gli
inconvenienti eliminabili nell'ambito delle
opere di manutenzione, e, pertanto, non può
essere invocato per rimuovere guasti o
deterioramenti rilevanti (articolo ItaliaOggi
sette del 27.02.2012). |
gennaio 2012 |
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CONDOMINIO: È ammessa la tenda in terrazza.
Tutto ciò che è removibile non lede il
decoro architettonico. La Cassazione:
estetica compromessa solo per effetto di
modifiche strutturali visibili dall'esterno.
Non può essere ritenuto colpevole di lesione
del decoro architettonico del caseggiato il
condomino che abbia trasformato una soffitta
in un appartamento, ricorrendo solo a opere
interne e utilizzando tendaggi e altri
oggetti rimuovibili, in quanto in tal caso
non può dirsi compromessa l'estetica del
fabbricato, che si verifica solo per effetto
di modifiche sulla struttura dell'edificio
che siano visibili e apprezzabili
dall'esterno.
È quanto ha chiarito la
Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con
ordinanza 30.01.2012 n. 1326.
La vicenda. La questione ha inizio quando
una condomina trasforma una soffitta, posta
all'ultimo piano del caseggiato, in un
appartamento a uso residenziale, suscitando
la reazione di altri due condomini i quali,
nella convinzione che le opere di
trasformazione eseguite avessero alterato il
decoro dell'edificio, non solo impedivano
l'allaccio del locale agli impianti di luce
e gas ma, successivamente, si rivolgevano al
tribunale competente per richiedere la
rimozione dei manufatti illecitamente
costruiti.
Secondo gli attori, inoltre, il
decoro dell'edificio condominiale era stato
compromesso anche dall'abusivo deposito di
materiale sul terrazzo comune, nonché
dall'affissione di alcuni tendaggi. Le
circostanze in tal modo denunciate erano
però state considerate irrilevanti dal
tribunale interpellato, il quale aveva
ordinato l'allaccio delle utenze e
condannato gli attori al risarcimento dei
danni subiti dalla condòmina che non aveva
potuto affittare l'immobile privo delle
essenziali utenze.
Tale decisione era stata poi confermata
dalla Corte di appello. E alle stesse
conclusioni è pervenuta la Suprema corte,
nella citata ordinanza dello scorso mese di
gennaio. La sesta sezione della Corte di
cassazione ha infatti precisato come la
trasformazione della soffitta in locale
abitabile era stata effettuata solo mediante
opere interne, senza variazione né
ampliamento di volume dei locali originari
e, comunque, in modo tale da evitare che
fosse compromesso l'accesso al lastrico
solare di proprietà condominiale. Per quanto
sopra i giudici supremi hanno escluso la
lesione del decoro architettonico del
fabbricato, che è logicamente incompatibile
con l'insussistenza di modifiche esterne
dello stabile.
Il principio. L'alterazione del decoro del
fabbricato, per essere validamente
contestata, deve essere apprezzabile,
situazione che ricorre allorché le modifiche
siano visibili dall'esterno. In altre
parole, il condomino non può mai (senza
autorizzazione del condominio) modificare
solo quelle parti esterne, siano esse comuni
o di proprietà individuale, che incidano sul
decoro architettonico dell'intero corpo di
fabbrica o di parti significative di esso.
Del resto la Suprema corte ha precisato
anche come, ai fini del decoro
architettonico, non può essere rilevante
l'apposizione di tendaggi e stracci sul
terrazzo dell'edificio (che sono
rimovibili), in quanto tale comportamento
non è in grado di alterare, in modo visibile
e significativo, la particolare struttura e
la complessiva armonia che conferiscono al
fabbricato una propria specifica identità.
In altre parole, tali comportamenti non
meritano di essere considerati ai fini della
lesione del decoro architettonico, cioè
delle linee e delle strutture che connotano
lo stabile stesso e gli imprimono una
determinata, armonica fisionomia e una
specifica identità, perché non riguardano
opere edili incidenti sulla sagoma o la
facciata dell'edificio, bensì la posa di
oggetti rimovibili, che non possono quindi
pregiudicarne il decoro architettonico.
Allo stesso modo la Cassazione ha
sottolineato come dalla richiesta della
condòmina di poter allacciare il nuovo
appartamento alle utenze di luce e gas non
potesse derivare alcun danno agli altri
condomini, in quanto tale operazione non
comportava modifiche murarie strutturali o
alterazioni delle linee architettoniche
dell'edificio, ma adeguamenti e aggiunte
funzionali che, come tali, non rilevano
sulla estetica del fabbricato.
In ogni caso
la Suprema corte ha affrontato anche la
questione del risarcimento del danno
richiesto dalla condòmina per la
compromissione dell'usufruibilità della
soffitta trasformata in appartamento per la
mancata disponibilità degli allacciamenti
conseguente agli impedimenti
illegittimamente posti in essere dai propri
vicini. A questo proposito è stato ricordato
che in casi del genere il danno non può che
riferirsi esplicitamente e
inequivocabilmente alla mancata
utilizzazione locatizia del locale divenuto
abitabile
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La nozione. Il pregiudizio deve tradursi in
un'alterazione incisiva.
La nozione di decoro architettonico, come
meglio chiarita nel tempo dalle numerose
decisioni di merito e di legittimità che si
sono prodotte sul tema, viene in rilievo in
materia di innovazioni condominiali vietate
e denota una qualità positiva dell'edificio,
derivante dal complesso delle sue
caratteristiche costruttive principali e
secondarie, di modo che una modifica
strutturale di una parte del medesimo, anche
di modesta consistenza, pur non incidendo
sulle linee architettoniche preesistenti,
può essere idonea a far venir meno quelle
caratteristiche influenti sull'estetica del
fabbricato e, quindi, sullo stesso decoro
architettonico.
Quella del decoro architettonico è spesso
una strada obbligata per quei condomini che
vogliano comunque opporsi a innovazioni
decise dalla maggioranza assembleare perché,
ai sensi dell'art. 1120, secondo comma,
c.c., le stesse possono essere considerate
legittime soltanto ove non rechino
pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza
dell'edificio, non ne modifichino, appunto,
il decoro architettonico o non rendano
alcune parti comuni inservibili all'uso cui
sono destinate.
In questi casi, affinché l'opposizione dei
condomini sia legittima, il pregiudizio
all'aspetto architettonico deve tradursi in
un'alterazione di particolare incidenza
sullo stile architettonico dell'edificio e
sulle linee caratteristiche principali di
esso, idonea di per sé a diminuire il pregio
estetico del fabbricato e, quindi, il valore
economico dello stesso, riferito sia
all'unità complessiva sia alle singole unità
in proprietà esclusiva. La difformità deve
quindi essere immediatamente apprezzabile
ictu oculi da parte delle persone di media
preparazione culturale e tecnica che si
trovino a passare sulla strada, in quanto
tali condizioni sono quelle che ricorrono in
occasione dell'apprezzamento del pregio
estetico di un edificio, nonché in occasione
della valutazione economica dello stesso sia
in termini di insieme che di singole
porzioni.
Al fine di stabilire se le opere di modifica
del fabbricato abbiano pregiudicato il
decoro architettonico, come opportunamente
specificato dalla Suprema corte, devono
comunque essere tenute presenti le
condizioni in cui quest'ultimo si trovava
prima dell'esecuzione delle opere stesse,
con la conseguenza che una modifica non può
essere ritenuta pregiudizievole per il
decoro architettonico se apportata a un
edificio la cui estetica sia stata già
menomata a seguito di precedenti lavori
ovvero che sia di mediocre livello
architettonico (Cassazione civile, sezione
seconda, sentenza 29.07.1989, n. 3549).
Dal punto di vista economico, l'alterazione
del decoro architettonico dell'edificio in
condominio postula un mutamento estetico
implicante un pregiudizio economicamente
valutabile. Tuttavia, secondo la Cassazione,
quando la modifica non sia del tutto
trascurabile e non abbia arrecato anche un
vantaggio, deve sempre ritenersi insito nel
pregiudizio estetico quello economico, senza
necessità di un'espressa motivazione sotto
tale profilo tutte le volte in cui non sia
stato espressamente eccepito e provato che
la modifica ha anche arrecato un vantaggio
economicamente valutabile (Cassazione
civile, sezione seconda, sentenza 06.10.1997, n. 9717).
Il diritto di opposizione alle opere
eseguite con pregiudizio delle
caratteristiche architettoniche
dell'edificio spetta a tutti i condomini, i
quali possono chiedere la riduzione in
pristino del fabbricato e il risarcimento
dei danni. Anche all'amministratore è
riconosciuto il potere di agire in giudizio
per chiedere la demolizione delle modifiche
pregiudizievoli alla statica e all'estetica
dell'edificio.
Sul punto la giurisprudenza, annoverando
detta facoltà dell'amministratore tra gli
atti conservativi dei diritti inerenti alle
parti comuni, ha per esempio riconosciuto la
legittimazione attiva dell'amministratore ad
agire in giudizio senza l'autorizzazione
dell'assemblea per conseguire la demolizione
della soprelevazione realizzata in
violazione delle prescrizioni e delle
cautele fissate dalle norme speciali
antisismiche ovvero per conseguire la
rimozione delle modifiche dell'edificio che
importino l'alterazione dell'estetica
(Cassazione civile, sezione seconda,
sentenza 12.10.2000, n. 13611)
(articolo ItaliaOggi
Sette del 19.03.2012). |
CONDOMINIO:
Sentenza
della Cassazione sull'utilizzo degli spazi.
Vietato pregiudicarne la destinazione. Parti
comuni, di tutti e nessuno.
Ogni condomino deve poter godere dei beni in
condivisione.
Ciascun condomino può usare le parti comuni
dell'edificio nel modo che ritenga più
opportuno, ma a condizione che l'utilizzo
concreto delle stesse non ne pregiudichi la
naturale destinazione e consenta anche agli
altri comproprietari di godere del bene.
Lo
ha ribadito la II Sez. civile della
Corte di Cassazione con la
sentenza
23.01.2012 n. 869 nella quale gli ermellini
hanno ritenuto legittimo l'utilizzo di una
parte del cortile condominiale per
l'apposizione di tavoli e sedie da bar.
La decisione della Suprema corte. Nel caso
in questione la società proprietaria di
alcuni locali siti al piano terra di un
edificio condominiale e adibiti a bar
dall'azienda conduttrice aveva impugnato
dinanzi al giudice di pace la deliberazione
assembleare con cui il condominio, revocando
uno specifico permesso assentito in passato,
aveva vietato ai gestori dell'esercizio
commerciale di continuare a occupare il
cortile con tavoli e sedie destinati alla
clientela. Il giudice di pace aveva respinto
l'impugnazione, giudicandola infondata. Il
ricorso in appello aveva invece portato il
tribunale a capovolgere la situazione,
dichiarando l'illegittimità della delibera
condominiale. Di qui il ricorso in
Cassazione da parte del condominio, che
aveva nuovamente contestato l'utilizzo
improprio del cortile da parte dei gestori
del bar, giudicato tale da comportare
l'impossibilità per gli altri comproprietari
di farne parimenti uso, oltre a presentare
due ulteriori motivi di doglianza.
Con il primo motivo, infatti, il condominio
aveva nuovamente lamentato l'errata
presentazione del ricorso al giudice di pace
invece che al tribunale del luogo in cui era
situato l'immobile, evidenziando quindi un
problema di competenza. Invero, come già
stabilito dai giudici di merito e ribadito
dalla Suprema corte, nel caso di specie, pur
essendo stata impugnata una delibera
assembleare, l'oggetto del contendere era
rappresentato dalle modalità di utilizzo di
un bene comune, ovvero del cortile
condominiale. Si tratta di un tipo di
controversia che rientra pacificamente nella
previsione di cui all'art. 7, comma 3, n. 2,
del codice di procedura civile, che appunto
assegna alla competenza funzionale del
giudice di pace questo tipo di liti (come
confermato, in una fattispecie analoga,
dalla stessa Cassazione con sentenza n. 7295
del 28/06/1995).
Con il secondo motivo di ricorso, invece, il
condominio aveva riproposto un'eccezione di
carenza di legittimazione attiva in capo
alla società proprietaria dei locali
condominiali, sul presupposto che, essendo
gli stessi stati concessi in locazione a un
soggetto terzo, soltanto quest'ultimo
avrebbe potuto legittimamente impugnare la
deliberazione assembleare.
Anche in questo caso la Suprema corte ha
però avuto gioco facile nel ribadire che,
stante la previsione di cui all'art. 1337
c.c., in merito al potere di impugnativa
della volontà dell'assemblea, l'unico caso
nel quale è ammessa la legittimazione attiva
del conduttore è quello relativo al servizio
di riscaldamento condominiale (e, per
analogia, a quello per il condizionamento
dell'aria, se comune), come già chiarito dai
medesimi giudici di legittimità con una
precedente sentenza del 1993 (n. 8755 del 18
agosto).
Quindi, giungendo al terzo motivo di
ricorso, relativo all'utilizzo improprio del
cortile condominiale da parte dei conduttori
dei locali siti al piano terreno, la seconda
sezione civile della Cassazione, vista anche
la mancanza di specificità del motivo, così
come articolato dal condominio ricorrente,
si è limitata a ribadire il principio di
diritto tradizionale di cui all'art. 1102
c.c., norma dettata dal legislatore in
materia di comunione ma applicabile anche in
materia condominiale giusto lo specifico
rimando di cui all'art. 1139 c.c.
In particolare, i giudici di legittimità
hanno ritenuto che la collocazione di tavoli
e sedie per i clienti in una porzione
limitata del cortile condominiale
rappresenti un uso proprio del bene comune,
di per sé non tale da impedire il pari uso
del medesimo da parte degli altri
comproprietari, salve sempre le specificità
del singolo caso concreto.
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I limiti della legge e quelli del
regolamento interno.
L'uso delle parti comuni da parte di un
condomino può avvenire in modo particolare e
diverso da quello praticato dagli altri
condomini purché siano rispettati non solo i
limiti previsti dalla legge ma anche quelli
indicati nel regolamento di condominio,
documento che spesso è ignorato o poco
conosciuto dai comproprietari.
I limiti di legge. Il condomino per legge
non può utilizzare parti comuni in modo tale
da rendere impossibile o, comunque,
alterarne in modo apprezzabile la funzione
originaria. È chiaro, ad esempio, che è
ammissibile collocare nel pianerottolo uno
zerbino o una pianta ornamentale, mentre è
illecito occupare detto spazio con scarpiere
o oggetti ornamentali di dimensioni tali da
pregiudicare l'accesso al vano scale o
all'ascensore o costringere i vicini a
disagevoli movimenti in caso di trasloco.
Il
singolo condomino, non può pregiudicare né
la stabilità dell'edificio né il suo decoro
architettonico ma, entro questi rigorosi
limiti, può certamente modificare lievemente
i muri perimetrali. In ogni caso
l'alterazione della destinazione della cosa
comune può essere provocata non solo dal
mutamento della funzione, come nei casi
sopraddetti, ma anche dal suo
deterioramento.
I limiti del regolamento di condominio.
L'utilizzazione da parte del singolo
condomino delle cose comuni è legittima
purché non alteri la destinazione del bene e
non impedisca agli altri condomini di farne
un pari uso secondo il loro diritto: tale
regime legale delle cose comuni può essere
sottoposto a una diversa o più rigorosa
disciplina da parte del regolamento di
condominio.
Così, ad esempio, se il regolamento
proibisce il parcheggio nel cortile,
destinato a spazio giochi, non è possibile
nemmeno una breve sosta in detta area.
In ogni caso è possibile che una
disposizione del regolamento condominiale
vieti qualsiasi modifica delle cose comuni
nell'interesse del singolo condomino senza
la preventiva autorizzazione.
Tale norma, che prevede un limite all'uso
delle parti comuni più rigoroso rispetto
alla legge, ha carattere contrattuale e, se
predisposta dall'originario costruttore
dell'edificio, deve essere accettata dai
condomini nei rispettivi atti di acquisto
ovvero con atti separati; se invece è
deliberata dall'assemblea, la relativa
deliberazione deve essere approvata
all'unanimità, cioè da tutti i condomini,
nessuno escluso (articolo ItaliaOggi Sette del
20.02.2012). |
CONDOMINIO:
Infiltrazioni, tutti pagano i danni.
Il raccordo scarico-tubi è considerato
proprietà comune. La Cassazione
fa chiarezza sul riparto delle
responsabilità in caso di guasti alle
tubazioni.
La braga di raccordo tra l'impianto di
scarico condominiale e le tubazioni
derivanti dai singoli appartamenti deve
considerarsi di proprietà comune ove faccia
parte integrante, dal punto di vista
funzionale, dell'impianto stesso. Di
conseguenza i danni provenienti da eventuali
infiltrazioni derivanti dalla braga dovranno
essere risarciti al singolo proprietario
dalla collettività condominiale (che, a sua
volta, potrebbe essere manlevata dalla
compagnia con la quale sia stata stipulata
una copertura assicurativa del fabbricato).
Lo ha chiarito la II Sez. civile
della Corte di Cassazione nella recente ordinanza 19.01.2012 n. 778.
Il provvedimento
giudiziale in questione rappresenta dunque
un'opportunità per fare maggiore chiarezza
sul riparto delle responsabilità in caso di
guasti alle tubazioni in condominio.
Il caso concreto. Nel caso in questione il
proprietario di un appartamento che aveva
ricevuto infiltrazioni di acqua dallo
scarico aveva portato in giudizio il
condominio per sentirlo condannare al
risarcimento dei danni. La sentenza di primo
grado aveva dato ragione al condomino sulla
base dell'espletata consulenza tecnica
d'ufficio, la quale aveva accertato che le
lamentate infiltrazioni non derivavano da
condotte delle unità immobiliari bensì dalla
braga nella quale si innestavano detti
condotti per scaricare nell'impianto
condominiale.
Nella descrizione della
colonna condominiale, la perizia depositata
in giudizio aveva chiarito che la stessa non
era costituita da un'unica tubazione
continua, bensì da una serie di tratti di
tubo che, in corrispondenza dei vari piani,
risultavano tra loro collegati da un
particolare tipo di braga. Fallito anche
l'appello, il condominio, lamentando che il
giudice di primo grado avesse erroneamente
ritenuto condominiale una braga che non era
utilizzata dalla collettività (che era
invece servita dalla colonna di scarico
verticale), ma che serviva unicamente a
convogliare nell'impianto comune gli
scarichi di provenienza dei singoli
appartamenti, aveva quindi presentato
ricorso in Cassazione.
La decisione della Suprema corte. Anche la
Cassazione, tuttavia, con l'ordinanza in
questione, ha confermato la tesi del
proprietario, ritenendo il ricorso
infondato. I giudici di legittimità hanno,
infatti, evidenziato come il giudice di
appello avesse considerato condominiale la
braga in questione in relazione alla sua
funzione, ritenuta prevalente, di raccordo
tra le singole parti e la conduttura
verticale di scarico. Infatti, secondo la
Suprema corte, in assenza della braga, nel
caso di specie non vi sarebbe stato raccordo
tra le tubazioni di scarico verticale poste
in corrispondenza dei singoli piani
dell'edificio condominiale.
In sostanza è
stato quindi ritenuto corretto il
procedimento logico seguito nel giudizio di
secondo grado volto ad assegnare la
prevalenza alla specifica conformazione
della colonna verticale di scarico della
quale faceva parte la braga di collegamento
(e senza la quale il funzionamento della
colonna stessa sarebbe venuto meno) rispetto
alla funzione di collegamento con gli
scarichi delle singole unità immobiliari.
Nel caso in questione la seconda sezione
civile della Cassazione, pur riconoscendo la
validità dei precedenti giurisprudenziali di
legittimità citati dal condominio in merito
alla natura presuntivamente comune della
braga dell'impianto di scarico condominiale,
ha quindi ribadito che occorre comunque fare
riferimento, caso per caso, all'oggettiva
conformazione della colonna di scarico e
alla conseguente funzione prevalente svolta
dalla braga.
Nel caso di specie, a conferma
del collegamento sostanziale tra la braga e
l'impianto comune, è stato anche osservato
come le lamentate infiltrazioni di acqua si
verificassero indipendentemente dall'uso
degli scarichi dei singoli appartamenti,
rendendo quindi ancora più evidente il fatto
che la perdita fosse riferibile a un guasto
di tenuta dello scarico verticale nel suo
complesso considerato.
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I principi generali. Parti comuni, prevale il criterio dei millesimi.
Le fognature e i canali di scarico sono
oggetto di proprietà comune fino al punto di
diramazione degli impianti ai locali di
proprietà esclusiva dei singoli, cioè con
esclusione delle condutture che, diramandosi
dalle tubazioni condominiali, servono i
singoli appartamenti.
Comprendere se una parte della conduttura è
comune o di proprietà del singolo condominio
è fondamentale quando si verifica la rottura
di una tubazione (canale di scarico o tubo
di adduzione dell'acqua) e quindi si deve
individuare il soggetto responsabile dei
danni e obbligato quindi alla conseguente
riparazione.
Tubazioni e spese: in generale. Le tubazioni
verticali per lo smaltimento delle acque sia
chiare che scure rivestono il carattere di
beni comuni, in quanto raccogliendo le acque
provenienti dai singoli appartamenti
presentano l'attitudine all'uso e al
godimento collettivo
Di conseguenza sono a carico di tutti i
condomini, in proporzione della quota
millesimale di proprietà, le spese per le
riparazioni alle tubature comuni e per il
risarcimento dei danni subiti dal singolo
condomino, in quanto l'impianto di scarico
fornisce la medesima utilità a tutti i
condomini interessati.
Naturalmente tale principio opera anche in
relazione alle spese per la costruzione di
nuovi canali di scarico e di nuova
fognatura, necessari per sostituire il
preesistente sistema divenuto obsoleto o nel
caso in cui un condomino non utilizzi
l'impianto (perché collegato anche a un
scarico relativo a un altro edificio). In
quest'ultimo caso, se l'appartamento risulta
comunque regolarmente collegato all'impianto
condominiale e, quindi, quest'ultimo
potrebbe essere utilizzato dal condomino, lo
stesso non può dirsi esonerato dal
partecipare alle spese per guasti (e danni
conseguenti), obbligo che trova la sua fonte
nel diritto di comproprietà sulla conduttura
comune.
Sono invece a carico dei rispettivi
proprietari i contributi per le riparazioni
effettuate nelle parti in cui le tubazioni
si diramano verso i singoli appartamenti.
La braga. Nell'ambito delle tubazioni
private si devono fare rientrare anche le
braghe, cioè gli elementi di raccordo fra la
tubatura orizzontale di pertinenza del
singolo appartamento e la tubatura
verticale, di pertinenza condominiale, come,
per esempio, il tratto obliquo che convoglia
le acque del lavandino di proprietà
esclusiva alla colonna condominiale.
La braga, quindi, serve soltanto a
convogliare gli scarichi di pertinenza del
singolo appartamento, a differenza della
colonna verticale che, raccogliendo gli
scarichi di tutti gli appartamenti, serve
all'uso di tutti i condomini.
Tale principio non può valere se, come è
avvenuto nel caso esaminato dalla Corte di
cassazione nell'ordinanza n. 778/2012, il
guasto riguarda lo scarico verticale, nel
suo complesso considerato, che si innesta
nella braga: in tale ipotesi è evidente la
responsabilità del condominio.
Le tubazioni comuni solo ad alcuni
condomini. In relazione all'impianto
fognario, frequentemente si può verificare
un'ipotesi di c.d. condominio parziale,
allorquando alla tubazione di scarico siano
allacciati solo alcuni condomini.
È evidente allora che in base ai principi
generali le spese per tali tratti di
tubazione che servono solo un singolo
condomino o un gruppo di condomini saranno a
carico soltanto dei condomini utilizzatori
(e naturalmente il principio vale anche per
i danni a terzi).
E non è tenuto a sostenere le spese per
l'impianto fognario (e i danni conseguenti
alla rottura dei canali di scarico) quel
condomino (o quel gruppo di condomini) la
cui proprietà, pur inclusa nelle tabelle
millesimali, non utilizza la tubazione rotta
o non è collegata all'impianto in questione
(per esempio cantine, box ecc.).
Lo stesso principio vale ovviamente non solo
per gli impianti idraulici di scarico, ma
anche per quelli di adduzione dell'acqua,
così come di ogni altra utenza (energia
elettrica, gas, televisione, citofoni ecc.).
Risulta infine ininfluente che gli impianti
in oggetto siano stati un tempo di uso
collettivo dell'intero condominio e siano
stati solo in seguito utilizzati dal singolo
inquilino o da una parte soltanto degli
inquilini del condominio: ciò che conta è lo
stato dei luoghi al momento in cui si
verifica il danno.
Tubatura comune all'interno di una proprietà
esclusiva. È possibile che una tubatura
passi sotto il pavimento di un locale posto
al piano terra, cioè si trovi a passare in
una proprietà esclusiva (per esempio un
negozio, un magazzino, un'autorimessa ecc.)
ma in realtà sia contenuta nella base di
appoggio delle strutture dell'edificio
condominiale (fondamenta) e assolva la
funzione di drenaggio dell'acqua di
infiltrazione sotterranea: in tal caso le
spese per la sostituzione o manutenzione
della tubazione o per i danni conseguenti,
anche se a trarre immediato beneficio dalla
sostituzione/riparazione sia anzitutto il
locale del singolo condomino, gravano su
tutti i condomini.
In particolare, ogni spesa per tali
tubazioni orizzontali dell'impianto
fognario, in assenza di particolari clausole
del regolamento di condominio, deve
ripartirsi per millesimi e non per quote
uguali (articolo ItaliaOggi
Sette del 13.02.2012). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: L'Amministrazione
comunale non è tenuta, in caso di mancata
contestazione del condomino pretermesso, a
svolgere indagini particolari in presenza
della richiesta edificatoria prodotta da un
comproprietario; solo, quando uno o più
comproprietari si attivino per denunciare il
proprio dissenso, rispetto al rilascio del
titolo edificatorio, il Comune deve
verificare se sussiste la disponibilità del
bene oggetto dell'intervento edificatorio e
se, più in generale, la situazione di fatto
consente di supporre l'esistenza di un
tacito "pactum fiduciae" intercorrente tra i
comproprietari, il cui assenso può
manifestarsi non solo attraverso atti
formali che documentino un assenso del
condominio, ma anche “per facta concludentia”.
Con il
primo motivo di ricorso ci si duole che per
l’approvazione del progetto edilizio, per
l’edificazione tramite DIA e per il
successivo accertamento di conformità non
sia stato acquisito il consenso di tutti i
comproprietari; in particolare non sarebbe
stato acquisito il consenso del
comproprietario ....
Il motivo è infondato.
Il Collegio ritiene che l'Amministrazione
non sia tenuta, in caso di mancata
contestazione del condomino pretermesso, a
svolgere indagini particolari in presenza
della richiesta edificatoria prodotta da un
comproprietario; solo, quando uno o più
comproprietari si attivino per denunciare il
proprio dissenso, rispetto al rilascio del
titolo edificatorio, il Comune deve
verificare se sussiste la disponibilità del
bene oggetto dell'intervento edificatorio e
se, più in generale, la situazione di fatto
consente di supporre l'esistenza di un
tacito "pactum fiduciae" intercorrente tra i
comproprietari, il cui assenso può
manifestarsi non solo attraverso atti
formali che documentino un assenso del
condominio, ma anche “per facta concludentia”
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 12.01.2012 n. 49 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO:
Antenne tv, non serve
l'unanimità.
Per intervenire su un servizio comune basta
la maggioranza. La Cassazione: occorre
evitare la paralisi gestionale condominiale,
nei limiti dei diritti dei singoli.
Per rimuovere l'antenna centralizzata del
condominio basta la maggioranza assembleare.
La delibera che stabilisca lo smantellamento
dell'impianto non impedisce, infatti, il
godimento individuale di un bene comune, ma
dispone semplicemente di interrompere il
relativo servizio.
Lo ha chiarito la seconda
sezione civile della Corte di Cassazione,
Sez. II civile, con
la
sentenza 11.01.2012 n. 144.
I fatti di causa. Nel caso in questione un
condomino si era rivolto al giudice di pace
di Roma per ottenere la condanna del
condominio al ripristino di un'antenna
centralizzata, esistente fin dal 1970. Il
giudice di prime cure, con sentenza del
2002, non aveva accolto la domanda e questo
aveva spinto il proprietario a presentare
appello al tribunale capitolino.
Tuttavia
anche detto giudice, con sentenza del 2004,
aveva rigettato l'istanza, confermando la
decisione del giudice di pace. Il tribunale
aveva infatti ritenuto che l'assemblea
condominiale, nel deliberare negativamente
su un ordine del giorno relativo
all'installazione o all'eventuale
adeguamento dell'antenna centralizzata,
avesse agito conformemente all'esercizio dei
propri poteri, con una decisione che di
conseguenza risultava essere efficace e
vincolante nei confronti di tutti i
condomini. Il condomino in questione, non
soddisfatto dell'esito processuale, aveva
quindi deciso di giocare l'ultima carta,
depositando ricorso in Cassazione e
lamentando l'invalidità della delibera
impugnata per avere disposto a maggioranza
di un bene o servizio comune, laddove al
contrario sarebbe stata necessaria
l'unanimità dei consensi.
A tale riguardo il
condomino ricorrente aveva menzionato vari
precedenti della medesima Suprema corte, sia
in relazione all'affermazione che i diritti
di ciascun condomino sulle parti comuni non
possono essere lesi da delibere assembleari
(sentenza n. 5369/1997), sia in merito alla
nullità delle delibere concernenti
innovazioni lesive dei diritti di ciascun
condomino su cose o servizi comuni (sentenza
n. 2288/1980) e delle delibere che
stabiliscano a maggioranza di non eseguire i
lavori di manutenzione e di adattamento di
un impianto comune, posto che tale rifiuto
impedisce l'uso stesso dell'impianto e
conseguentemente menoma i diritti di tutti i
condomini (sentenza n. 1302/1998).
La decisione della Corte di cassazione.
Anche la Suprema Corte ha infine rigettato
la domanda del condomino che si riteneva
leso nei propri diritti dall'approvazione a
maggioranza di una delibera assembleare che
stabiliva lo smantellamento dell'antenna
centralizzata condominiale. La difesa del
proprietario aveva puntato tutto sul
carattere di bene comune dell'antenna c.d.
centralizzata e, quindi, sulla base della
normativa codicistica e della
giurisprudenza, si richiamava al principio
per cui un bene comune non può essere
sottratto alla propria destinazione se non
con il consenso di tutti i condomini.
Nella
sentenza in questione i giudici di
legittimità hanno infatti in primo luogo
voluto ricordare come in materia di
condominio siano da ritenersi comuni le
opere, le installazioni e i manufatti di
qualunque genere che servano all'uso e al
godimento di tutti i condomini. A
quest'ultima categoria, secondo la Suprema
corte, vanno ricondotte anche le antenne
c.d. centralizzate, cioè quegli impianti di
trasmissione destinati a servire tutte o,
almeno, più unità immobiliari di proprietà
esclusiva.
Tuttavia, secondo la Suprema corte, pur
trattandosi di beni comuni, bisogna
riconoscere che le attribuzioni
dell'assemblea di condominio riguardano
l'intera gestione di questi ultimi, che deve
necessariamente svolgersi in modo dinamico e
che non potrebbe quindi essere condizionata
dall'ipotetica volontà contraria anche di un
solo condomino. Si tratterebbe,
all'evidenza, di un'interpretazione tale
comportare la paralisi della gestione
condominiale. Nella sentenza in questione si
è dunque chiarito che rientra nei poteri
dell'assemblea quello di disciplinare beni e
servizi comuni, al fine della migliore e più
razionale utilizzazione degli stessi, anche
quando ciò comporti la dismissione o il
trasferimento a terzi dei beni comuni.
L'assemblea, secondo la Cassazione, ha
quindi il potere di modificare, sostituire
o, eventualmente, sopprimere un servizio
comune con deliberazione a maggioranza anche
laddove lo stesso sia stato istituito e
disciplinato dal regolamento condominiale,
purché si rimanga nei limiti della
disciplina delle modalità di svolgimento del
servizio e non si vada a incidere sulla
sfera dei diritti dei singoli condomini
(articolo ItaliaOggi
Sette del 30.01.2012). |
CONDOMINIO:
Le
regole per l'installazione e la dismissione
degli impianti. Veti limitati anche dal
condominio vicino.
Non è raro che all'interno del condominio
sorgano discussioni in merito alla
possibilità del singolo di installare
un'antenna e di eseguire tutte opere
conseguenti (passaggi di fili attraverso le
parti comuni, ancoraggio di sostegni ecc.)
quando esista già un antenna centralizzata
installata dal costruttore.
Vediamo quindi, anche sulla base di quanto
stabilito dalla Corte di Cassazione, Sez. II
civile, nella predetta
sentenza 11.01.2012 n. 144, quali
sono le regole comuni da seguire per
l'installazione e la dismissione di questo
genere di impianti.
Il diritto di antenna del singolo. Secondo
la normativa vigente il proprietario o il
condominio non può opporsi all'appoggio di
antenne, di sostegni, nonché al passaggio di
condutture, fili o qualsiasi altro impianto,
nell'immobile di proprietà occorrente per
soddisfare le richieste di utenza da parte
di colui che abita nello stabile. Tale
diritto ha contenuto personale e, quindi, il
titolare di esso può essere, oltre che il
condomino, anche il conduttore (non spetta a
chi non abita nell'edificio).
Quindi il
singolo condomino (o inquilino) per
collocare l'antenna può utilizzare spazi
condominiali, ma anche la proprietà del
condominio vicino, il quale non potrà
impedire ai tecnici installatori di passare
attraverso i suoi locali, né potrà chiedere
una somma a titolo indennizzo. Se si
rifiuta, è lecito chiedere un provvedimento
d'urgenza al giudice (in base al dlgs n.
259/2003).
Questo significa che la delibera
dell'assemblea condominiale che vieti a un
condomino l'installazione di un'antenna
autonoma, in mancanza di un pregiudizio
concreto all'uso del bene comune, ma per il
solo fatto della presenza di un'antenna
centralizzata, è giuridicamente nulla, con
la conseguenza che il condomino leso può
sempre fare accertare il proprio diritto
all'installazione.
I limiti all'installazione dell'antenna
singola. Il diritto di antenna spettante a
ogni singolo condomino a installare sulle
parti comuni dell'edificio condominiale
un'antenna per la ricezione dei programmi
radiotelevisivi non è illimitato. È vero
infatti che per legge le antenne, i relativi
sostegni, cavi e accessori non devono in
alcun modo impedire il libero uso dei beni
comuni o di quelli del vicino, secondo la
sua destinazione, né arrecare danno al
condominio o ai vicini o a terzi. Tale
diritto, inoltre, va coordinato con la
sussistenza di un'effettiva esigenza di
soddisfare le richieste di tutela degli
inquilini o dei condomini.
In altre parole il diritto di collocare
nell'altrui proprietà antenne televisive è
subordinato all'impossibilità per il
condomino di utilizzare spazi propri, poiché
il diritto all'installazione non comporta
anche quello di scegliere a piacimento il
luogo preferito per collocare l'antenna.
Così, per esempio, non è possibile far
passare i cavi nei locali o nel terrazzo del
vicino se esiste un'alternativa alla loro
collocazione, anche più costosa, nei propri
locali o in uno spazio condominiale che può
servire allo scopo. In ogni caso la
richiesta di far passare i cavi può
riguardare solo un condomino dell'edificio
ma non un soggetto estraneo al caseggiato,
cioè inquilino o condominio di altro
stabile, sia pure confinante. Inoltre si
deve ricordare che è lecita la delibera che
impone ai condomini dove montare l'antenna
onde evitare un uso distorto dei beni
comuni.
Una regolamentazione in sede condominiale
delle antenne va ritenuta ammissibile e
rientrante nei poteri della collettività
condominiale, posto che un libero potere dei
condomini, al riguardo, può generare
limitazioni indebite della cosa comune. Si
tratta, dunque, di reperire un punto di
bilanciamento degli interessi, nel senso che
il diritto del singolo condomino
all'installazione dell'antenna deve essere
consentito, ma con il limite che essa non
arrechi pregiudizio all'uso del bene da
parte degli altri condomini, né produca un
qualsiasi apprezzabile danno alle parti
comuni.
Infine bisogna ricordare che
ulteriori limiti per quanti abitano nei
centri storici possono derivare dalle
amministrazioni comunali che devono
regolamentare le installazioni nei centri
storici. In particolare, nei regolamenti
edilizi più recenti è previsto che le
antenne debbano essere centralizzate (tranne
il caso in cui sia dimostrabile tecnicamente
che un intervento di questo tipo non sia
possibile) e collocate sul tetto in modo da
ridurne l'impatto visivo (quindi nella parte
centrale o sulle falde secondarie opposte
alla pubblica via).
La partecipazione alle spese dell'antenna
comune. Bisogna chiarire che l'installazione
di un'antenna a uso esclusivo di un solo
condomino non lo esime dal partecipare alle
spese per la manutenzione dell'antenna
comune. Infatti, il condomino non può,
rinunziando al diritto di utilizzare
l'antenna centralizzata, sottrarsi al
contributo nelle spese per la sua
conservazione, nelle quali rientrano anche
quelle per l'aggiornamento tecnico (per
ragioni estetiche, di sicurezza, di maggior
rendimento ecc.) o le opere per assicurare
la statica delle antenne, fondamentale per
garantire la qualità della ricezione.
In
sostanza senza una delibera presa
all'unanimità, che stabilisca diversamente,
dovrà continuare a pagare per l'antenna
centrale dalla quale non trae alcuna utilità
(articolo ItaliaOggi
Sette del 30.01.2012). |
CONDOMINIO:
Condominio, rientra nei poteri
dell’assemblea la rimozione dell’antenna
centralizzata.
In materia condominiale
la ricezione del segnale radiotelevisivo è
argomento fonte di un cospicuo contenzioso.
Il diritto d’antenna, tra l'altro,
costituendo una specificazione del diritto
all’informazione, e pertanto coinvolgendo
valutazioni attinenti a situazioni
giuridiche protette dalla Costituzione
repubblicana, rappresenta, tra quelli dei
condomini, uno dei diritti che riceve
maggiore tutela.
Secondo quanto declinato dall’art. 1117, n.
3, del codice civile, in situazioni
condominiali, sono considerati comuni (fra
le altre cose) le opere, le installazioni e
i manufatti di qualunque genere che servono
all’uso e al godimento comune. In
quest’ultima categoria vanno ricomprese le
antenne centralizzate, quelle cioè destinate
a servire tutte o almeno più unità
immobiliari di proprietà esclusiva, le
quali, per loro stessa natura non sono
fruibili in maniera personale e diretta da
ciascun condomino, ma richiedono un’attività
d’impianto e di gestione comune che è
compito dell’assemblea deliberare istituendo
il relativo servizio.
Nella
sentenza 11.01.2012 n. 144 la
Corte di Cassazione, Sez. II civile, ha avuto modo di
ricordare che rientra nei poteri
dell’assemblea quello di disciplinare beni e
servizi comuni, al fine della relativa
migliore e più razionale utilizzazione,
anche quando la sistemazione più funzionale
del servizio comporta la dismissione o il
trasferimento dei beni comuni. Viene cioè
riconosciuto all’assemblea
il potere di modificare, sostituire od
eventualmente sopprimere un servizio anche
laddove esso sia istituito.
E’ stata ritenuta pertanto legittima la
delibera dell’assemblea condominiale che a
maggioranza abbia decretato la rimozione
dell’antenna centralizzata per la ricezione
dei canali televisivi. L’antenna, è stato
precisato, costituisce bene comune, solo se
effettivamente idonea a soddisfare
l’interesse dei condomini a fruire del
relativo servizio condominiale. Pertanto, la
volontà collettiva, regolarmente espressa in
assemblea, volta ad escludere siffatto uso,
non si pone come contraria al diritto dei
singoli condomini sul bene comune, perché
quest’ultimo è tale finché assolva la sua
funzione a beneficio di tutti i
partecipanti.
Non si tratta di impedire il godimento
individuale di un bene comune –chiariscono i
giudici- bensì di non dar luogo ad un
servizio la cui attivazione o prosecuzione
non può essere imposta dal singolo
partecipante per il solo fatto di essere
comproprietario delle cose che ne
costituiscono l’impianto materiale (commento
tratto da www.diritto.it). |
anno 2011 |
|
CONDOMINIO:
Condominio: grava
sull’amministratore l'onere di attivarsi per
comunicare il verbale dell’assemblea al
condomino assente.
Sull’amministratore di
condominio grava l’onere di comunicare al
condomino assente all’assemblea il verbale
della deliberazione adottata e ciò al fine
di far decorrere, in mancanza di una
conoscenza acquisita aliunde, il termine di
decadenza stabilito dall’art. 1137 c.c. per
la proposizione dell’eventuale ricorso in
opposizione.
È quanto sancito dalla Corte di Cassazione
nella sentenza 29.12.2011 n. 29386,
che esclude, invece, la configurabilità in
capo al condomino assente, ai fini del
decorso del termine per l’impugnativa, di un
dovere di attivarsi per conoscere le
decisioni assembleari adottate, quando
difetti la prova dell’avvenuto recapito,
all’indirizzo del destinatario, del verbale
che le contenga.
Si legge nel testo della sentenza che, a
soddisfare l’esigenza della comunicazione al
condomino assente della deliberazione
dell’assemblea condominiale, ai fini del
decorso del termine di impugnazione innanzi
all’Autorità giudiziaria, occorre che tale
comunicazione segua all’assemblea, in modo
tale che il destinatario, pur non avendo
preso parte alla deliberazione, possa
conoscerne e apprezzarne il contenuto in
maniera adeguata alla tutela delle sue
ragioni.
La presunzione iuris tantum di
conoscenza ex art. 1335 c.c., spiegano gli
ermellini, sorge dalla trasmissione del
verbale all’indirizzo del condomino
destinatario -che nella specie non risulta
provata- e non dal mancato esercizio da
parte di quest’ultimo della diligenza nel
seguire l’andamento della gestione comune e
nel documentarsi in proposito (tratto da
www.diritto.it). |
CONDOMINIO:
Condominio, la comunione è prevalente sulle
distanze.
Il condomino può installare tre pensiline su
un bene comune anche se non rispettano le
norme sui rapporti di vicinato. Le regole
sulle distanze legali, infatti, sono
applicabili anche nei rapporti tra i
condomini quando siano compatibili con
l'applicazione delle disposizioni
particolari relative alle cose comuni, ma in
caso di contrasto prevale, quale diritto
speciale, la disciplina della comunione.
L'importante, quindi, è che il condomino non
alteri la destinazione del bene e non ne
impedisca l'altrui pari uso.
Sono queste le rilevanti conclusioni
raggiunte dalla Corte di cassazione con la
sentenza n. 22092/2011 che ha respinto il
ricorso del proprietario di un appartamento
posto al primo piano di un condominio nei
confronti di quello dell'alloggio
sottostante.
Il ricorrente si è rivolto al tribunale
denunciando che il condomino del piano terra
aveva realizzato tre pensiline di materiale
plastico con intelaiatura in ferro ledendo
in tal modo l'estetica della facciata e
violando il diritto di veduta e le norme
sulle di distanze legali. Ha chiesto,
perciò, la rimozione delle opere eseguite
facendo presente che era a rischio anche la
sua sicurezza, dal momento che, attraverso
la pensilina, era possibile accedere
facilmente al suo appartamento.
I giudici hanno respinto la domanda sia in
primo che in secondo grado. In particolare
la Corte d'appello ha affermato che i
manufatti erano stati realizzati con
materiale elegante, trasparente e in armonia
con le caratteristiche strutturali e le
linee estetiche del fabbricato, svolgendo
una funzione di obiettiva utilità per il
condomino del piano terra. Inoltre il
pericolo per la sicurezza dell'appartamento
del primo piano era pressoché inesistente in
quanto la lastra in policarbonato che
avrebbe potuto fornire una base di appoggio
per salire era estremamente fragile e non
avrebbe retto il peso di una persona.
La vicenda è quindi approdata in Cassazione
dove il ricorrente ha sostenuto che i
giudici erano incorsi in un grave errore
perché avevano ritenuto che nell'ambito
condominiale le norme che regolano i
rapporti di vicinato trovano applicazione
solo in quanto compatibili con le norme
sulla comunione. In pratica, a suo dire, il
collegio avrebbe sacrificato il suo diritto
di sicurezza e di veduta per privilegiare
quello relativo alla protezione dagli agenti
atmosferici del condomino sottostante.
La Cassazione, nel respingere
definitivamente il ricorso, ha stabilito che
le norme sulle distanze legali sono
applicabili anche in ambito condominiale
purché non contrastino con le norme
particolari relative alle cose comuni,
perché in questo caso prevalgono queste
ultime. In considerazione della peculiarità
del condominio, ha spiegato la Cassazione,
la disciplina che regola il godimento dei
beni, degli impianti e dei sevizi comuni «ha
natura speciale rispetto alla normativa che,
nell'ambito dei rapporti di vicinato,
stabilisce le limitazioni legali tra
proprietà confinanti».
In definitiva, il diritto del singolo
condomino sulle cose comuni trova solo il
limite di «non sacrificare ma di
consentire il potenziale pari uso della cosa
da parte degli altri partecipanti» (articolo Il Sole 24 Ore del 28.11.2011). |
CONDOMINIO:
È contro la privacy esporre i
dati in bacheca. L'esposizione di alcuni
dati in bacheca può essere contraria al
diritto di privacy.
Secondo la recente sentenza n. 186/2011 della
Corte di Cassazione, infatti, gli spazi
condominiali aperti all'accesso a terzi
estranei al condominio non possono essere
utilizzati per la comunicazione dei dati
personali riferibili al singolo condomino.
Uno dei problemi principali degli
amministratori è in effetti di tutelare la
riservatezza dei singoli condomini e, nel
contempo, il diritto del condominio nel suo
insieme di essere a conoscenza di fatti
riguardanti il bene comune. Un esempio è
quello del condomino moroso sulle spese. I
giudici della Suprema corte hanno però
specificato che anche i dati dei condomini
raccolti per la gestione della cosa comune,
compresi gli eventuali debiti di ciascuno
nei confronti del condominio, rientrano
nell'ambito dei dati personali.
L'amministratore, pertanto, è autorizzato a
raccogliere, registrare, conservare, esibire
le informazioni necessarie per la gestione e
l'amministrazione della cosa comune e a
comunicarle anche a tutti gli altri
partecipanti, ma, allo stesso tempo, deve
adottare le opportune cautele per evitare
l'accesso a quei dati da parte di persone
estranee al condominio. Un diritto alla
riservatezza che deve, quindi, sempre
prevalere sulle esigenze di efficienza (articolo
ItaliaOggi Sette del 28.11.2011). |
CONDOMINIO:
Il fotovoltaico conviene a casa.
Il Quarto conto energia premia gli impianti
di piccola taglia. Guida all'installazione
dei pannelli nel proprio condominio. Serve
la delibera assembleare.
Il Quarto conto energia ha
ridotto gli incentivi per la produzione di
energia elettrica dal fotovoltaico,
premiando comunque (con una limatura dei
bonus meno pesante) gli impianti integrati e
di piccola taglia. Installare, quindi, i
pannelli fotovoltaici in condominio può
continuare a essere un'opzione interessante,
a patto di fare attenzione a tempistiche e
costi.
Vediamo come muoversi e cosa sapere se si
decide di realizzare l'impianto.
Cosa sapere se si sceglie di
installare i pannelli nel proprio
condominio.
I condomini che scelgono di installare un
impianto fotovoltaico sul proprio edificio
devono produrre una delibera assembleare,
corredata anche da un progetto tecnico e da
un'analisi di fattibilità da parte del
fornitore. La maggioranza richiesta è quella
semplice delle quote millesimali
rappresentate dagli intervenuti in
assemblea. L'impianto, quindi, può essere
usato per soddisfare il bisogno di energia
delle parti comuni, abbattendo i costi per
l'utilizzo dell'ascensore o per
l'illuminazione di scale e giardini.
Un risultato ottenibile grazie al regime di
«scambio sul posto», il più indicato
se l'impianto è dimensionato su tali consumi
annui o sottodimensionato rispetto a essi.
Da ricordare, però, che l'impianto
condominiale non può essere usato per
rifornire di energia i singoli appartamenti.
Se il condomino intende procedere in questo
senso deve farsi carico della realizzazione
dell'impianto personale e ottenere il
consenso dall'assemblea condominiale.
In caso di surplus di energia, quindi se
l'impianto risulta sovradimensionato
rispetto ai consumi annui, inoltre, il
condominio può decidere di vendere l'energia
in eccesso al Gse (Gestore dei servizi
energetici), con il servizio di «ritiro
dedicato». In entrambi i casi, al
guadagno derivante dell'autoconsumo o dalla
vendita dell'energia si aggiungono anche gli
incentivi previsti dal Quarto conto energia,
che in sostanza permettono di ripagarsi
l'impianto.
Quali autorizzazioni sono
necessarie.
Per poter portare avanti l'operazione sono
poi necessari anche dei permessi ad hoc, in
base soprattutto ai requisiti dell'impianto
da installare. Possono infatti esserci due
casi. Nel primo, gli impianti fotovoltaici
integrati nei tetti degli edifici con la
stessa inclinazione e lo stesso orientamento
della falda, la cui superficie non sia
superiore a quella del tetto stesso e i cui
componenti non modifichino la sagoma della
costruzione, sono considerati interventi di
manutenzione ordinaria e quindi non
richiedono la Denuncia di inizio attività
(Dia).
In questo caso, è, quindi, sufficiente una
comunicazione preventiva al comune. Se,
invece, la costruzione dell'impianto non
rientra in questi parametri è soggetta alla
Dia, a condizione che la superficie
complessiva dei moduli fotovoltaici
dell'impianto non sia superiore a quella del
tetto dell'edificio sul quale i moduli sono
collocati.
L'iter da seguire.
Ci sono poi dei passaggi a carico
dell'amministratore di condominio che devono
essere effettuati per portare a termine
l'operazione. In primo luogo,
l'amministratore deve richiedere uno studio
di fattibilità gratuito ad almeno tre
installatori locali; convocare l'assemblea
condominiale e, infine, dare inizio
all'esecuzione dei lavori, con l'allaccio in
rete e la richiesta degli incentivi al
Gestore dei servizi energetici. Una volta
ottenuto il finanziamento, i lavori si
aprono in 30 giorni e si concludono nel giro
di un paio di settimane.
Gli incentivi.
Per quanto riguarda gli incentivi, il Quarto
conto energia (decreto interministeriale del
5 maggio 2011) prevede che, per le
installazioni realizzate entro il 2012, le
tariffe incentivanti vanno dai 32 centesimi
di euro a Kw di novembre 2011 ai 25
centesimi del secondo semestre 2012;
inoltre, è possibile rivendere al Gse
l'energia prodotta e non autoconsumata, che
ai prezzi correnti di mercato vale circa 10
centesimi a Kw.
Fatti i dovuti calcoli si può azzerare la
bolletta elettrica e si possono conseguire
discreti guadagni, nell'arco di 20 anni di
durata dell'incentivo. E visto che gli
incentivi diminuiscono con il passare del
tempo, prima si allaccia l'impianto e più
conveniente è la tariffa. Dal 2013, infatti,
sarà onnicomprensiva e inclusiva anche del
valore dell'energia ma la quota incentivante
dovrebbe ridursi di circa 20 centesimi.
Le possibilità di finanziamento.
Calcolando che i costi di installazione
dell'impianto si aggirano in genere intorno
ai 15-20 mila euro, può essere utile
valutare la strada dei finanziamenti
bancari. Per procedere, l'amministratore
deve ottenere una delega dall'assemblea
condominiale e presentare un business plan.
La valutazione di quanto può essere
finanziato viene elaborata dalla banca
interpellata sulla base del valore catastale
dell'intero immobile. Il finanziamento viene
di solito erogato per una durata di 15-18
anni, mentre il Quarto conto energia
incentiva per 20 anni. In genere sono gli
ultimi anni ad essere fonte di forte utile
netto, mentre quelli precedenti solitamente
permettono un pareggio, oltre che
l'abbattimento della bolletta elettrica
condominiale di circa l'80%.
La banca richiede, infine, la stipula di
un'assicurazione all risks, che copre per
pochi euro a Kw da furti, atti di
vandalismo, danneggiamento da eventi
atmosferici e da mancata produzione per
qualsiasi motivo (articolo
ItaliaOggi Sette del 28.11.2011). |
CONDOMINIO:
Per qualificare un lastrico
solare come parte comune, ai sensi dell'art.
1117 n. 1, c.c., è necessaria la sussistenza
di connotati strutturali e funzionali
comportanti la materiale destinazione del
bene al servizio e godimento di più unità
immobiliari appartenenti in proprietà
esclusiva a diversi proprietari.
Deve pertanto escludersi la presunzione di
comunione di un lastrico solare che, nel
contesto di un edificio costituito da più
unità immobiliari autonome, disposte a
schiera, assolva unicamente alla funzione di
copertura di una sola delle stesse e non sia
caratterizzato da unitarietà, strutturale o
da altri connotati costruttivi e funzionali,
tali da denotare la destinazione complessiva
delle aree sovrastanti i vari immobili
costituenti nel loro insieme un unicum a
servizio e godimento comune ed indistinto
degli stessi.
La
giurisprudenza ha affermato (cfr. Cassazione
civ., Sez. II, 04.11.2010 n. 22466) che “per
qualificare un lastrico solare come parte
comune, ai sensi dell'art. 1117 n. 1, c.c.,
è necessaria la sussistenza di connotati
strutturali e funzionali comportanti la
materiale destinazione del bene al servizio
e godimento di più unità immobiliari
appartenenti in proprietà esclusiva a
diversi proprietari.
Deve pertanto escludersi la presunzione di
comunione di un lastrico solare che, nel
contesto di un edificio costituito da più
unità immobiliari autonome, disposte a
schiera, assolva unicamente alla funzione di
copertura di una sola delle stesse e non sia
caratterizzato da unitarietà, strutturale o
da altri connotati costruttivi e funzionali,
tali da denotare la destinazione complessiva
delle aree sovrastanti i vari immobili
costituenti nel loro insieme un unicum a
servizio e godimento comune ed indistinto
degli stessi"
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 25.11.2011 n. 1629 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO: Parti comuni - Area
dell'appartamento a piano terra - Non è
parte comune - Area di sedime sottostante
l'edificio condominiale - E' parte comune.
In materia di condominio e parti comuni,
la parte comune del condominio non è l'area
dell'appartamento del piano terra, bensì
l'area di terreno sita in profondità su cui
posano le fondamenta dell'immobile, cioè
l'area di sedime sottostante l'edificio
condominiale (cfr. Corte d'Appello, Roma,
sent. n. 3354/2008; Cass. Civ., sent. n.
6921/2001)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
22.11.2011 n.
2811 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO: I
chiarimenti della Cassazione. Proprietari
obbligati a pagare.
Il saldo degli oneri di gestione prescinde
dal titolo d'acquisto. L'amministratore può
rivolgersi anche a uno solo dei condebitori.
I comproprietari di un appartamento
condominiale sono obbligati in solido nei
confronti del condominio per il pagamento
degli oneri di gestione, a prescindere dal
titolo di acquisto della proprietà. Di
conseguenza l'amministratore può chiedere
anche a uno solo dei proprietari il
pagamento integrale del debito riferibile a
una data unità immobiliare, fermo restando
il diritto del condomino solvente di
ripetere le rispettive quote dagli altri
comproprietari.
Lo ha chiarito di recente la
Cassazione con la sentenza 21.10.2011 n.
21907.
La pertinenza all'unità immobiliare dei
debiti condominiali. Le spese di gestione
del condominio, come rendicontate
dall'amministratore e approvate a consuntivo
dall'assemblea, sono di pertinenza di ogni
singola unità immobiliare di cui si compone
il condominio e competono, in base al
periodo temporale di maturazione delle
singole voci di spesa, al soggetto o ai
soggetti che ne risultino proprietari (con
l'eccezione di cui all'art. 63, comma 2,
delle disposizioni di attuazione del codice
civile, nel quale si dispone che chi
subentra nei diritti di un condomino è
tenuto in solido con quest'ultimo al
pagamento degli oneri condominiali anche
dell'annualità precedente, oltre a quelli
dell'anno in corso).
La comproprietà dell'unità immobiliare
condominiale. Il problema si complica
quando, come nel caso affrontato dalla
Suprema corte, i proprietari della medesima
unità immobiliare siano più di uno, magari
con quote di comproprietà diversa e con
titoli di acquisto differenti. In questi
casi, viene da chiedersi, i diversi
comproprietari sono uguali di fronte
all'amministratore condominiale?
Nella citata sentenza dello scorso mese di
ottobre la Cassazione ha in primo luogo
evidenziato come nell'ipotesi di comunione
inquadrata in un condominio l'iniziale
situazione di scomposizione pro quota dei
singoli diritti di proprietà passi in
secondo piano rispetto all'esigenza di
valorizzare l'aspetto unitario della (com)proprietà
condominiale per esigenze di certezza del
diritto. I riferimenti normativi, sotto
questo aspetto, sono molteplici. Si pensi,
per esempio, all'art. 67 delle disposizioni
di attuazione del codice civile, il quale
dispone che in caso di comproprietà di
un'unità immobiliare condominiale i
comproprietari possano votare in assemblea
solo per il tramite di un unico
rappresentante.
Di conseguenza, secondo la Suprema corte,
dal punto di vista degli oneri condominiali,
poiché il contributo grava sul titolare del
piano o della porzione di piano inteso come
bene unico, anche la posizione dei
comproprietari dell'unità immobiliare non
può che risultare unitaria, con la
conseguenza che l'amministratore può
richiedere il pagamento integrale delle
spese anche a uno solo dei soggetti in
comunione.
Il carattere solidale dell'obbligazione
condominiale. Sulla base delle precedenti
osservazioni i giudici di legittimità hanno
quindi ritenuto che, dal punto di vista
della disciplina delle obbligazioni, in
ipotesi del genere debba applicarsi la
regola della presunzione della solidarietà
di cui all'art. 1294 c.c., secondo cui i
condebitori sono tenuti in solido al
pagamento del dovuto.
La norma in questione,
tuttavia, fa espressamente salvi in casi nei
quali la legge o il titolo dispongano
diversamente in merito al rapporto
obbligatorio intercorrente tra i condebitori
e il creditore. Occorre allora chiedersi se,
per esempio, come nel caso deciso nella
predetta sentenza n. 21907/2011, la
presunzione di cui all'art. 1294 c.c. non
debba applicarsi allorché i comproprietari
siano tali in base a titoli di acquisto
diversi.
La Cassazione ha risolto positivamente anche
detta questione, evidenziando come la
diversità dei titoli di provenienza concerna
soltanto il modo di acquisto del bene in
comunione
(articolo ItaliaOggi
Sette del 12.12.2011). |
CONDOMINIO: IMMOBILI
& CONDOMINIO/ I requisiti dell'avviso di
convocazione. Non indicare il luogo può
costare la nullità.
L'avviso di convocazione deve essere
predisposto dall'amministratore e inviato, a
pena di nullità, a tutti i condomini presso
la propria residenza o il proprio domicilio.
La legge non prevede forme specifiche per
l'avviso di convocazione, né particolari
modalità di notifica dello stesso.
L'avviso non ha un contenuto predeterminato
dalla legge, fermo restando il limite del
raggiungimento dello scopo cui l'atto è
destinato (ovvero la partecipazione del
condomino alla riunione assembleare). Di qui
la necessità di indicare, quantomeno, il
luogo, la data e l'ora fissati per
l'incontro.
La giurisprudenza ritiene che la
mancata indicazione del luogo possa
comportare l'impugnabilità della
deliberazione assembleare, ove il condomino
per tale motivo non abbia avuto la
possibilità di parteciparvi. Nel caso in cui
il regolamento di condominio stabilisca a
priori la sede deputata allo svolgimento
delle assemblee, l'eventuale mancanza di
tale indicazione nell'avviso di convocazione
potrà essere sanata dal richiamo ivi
contenuto al regolamento medesimo.
Per
quanto riguarda la data è prassi ampiamente
diffusa quella di indicare nell'avviso due
date diverse e successive (purché contenute
entro il periodo di 10 giorni una dall'altra
e, comunque, in giorni diversi), facenti
riferimento rispettivamente alla prima e
alla seconda convocazione (c.d. doppia
convocazione), in modo da evitare un
raddoppio delle formalità e delle spese
necessarie allo svolgimento della riunione
condominiale.
L'avviso di convocazione, come ricordato dal
Tribunale di Roma nella
sentenza
03.11.2011 n. 21319, deve poi evidenziare in modo
opportuno gli argomenti che saranno trattati
nella riunione assembleare, in modo da
consentire ai condomini di prepararsi
adeguatamente alla discussione. È l'art.
1105, comma 3, c.c., applicabile anche in
tema di condominio, in forza del rinvio di
cui all'art. 1139 c.c., a richiedere che per
la validità delle deliberazioni assembleari
«tutti i partecipanti siano stati
preventivamente informati dell'oggetto della
deliberazione». L'elencazione
dell'ordine del giorno deve essere specifica
e puntuale, ma non è necessario che sia così
analitica da mettere in evidenza eventuali
argomenti di carattere preliminare
ricompresi nei punti principali oggetto di
discussione.
Una voce che per prassi compare sempre alla
fine dell'ordine del giorno è poi quella
«varie ed eventuali», nella quale sono
ricompresi quei possibili argomenti di
discussione che non sempre è facile
prevedere in anticipo e che, solitamente,
comprendono comunicazioni a titolo
informativo da parte dell'amministratore o
dei condomini, richieste di chiarimento,
istanze volte all'inserimento di un
determinato argomento all'ordine del giorno
della prossima assemblea, ovvero questioni
di minore importanza che non si è ritenuto
necessario specificare.
Quest'ultimo chiarimento, secondo la
giurisprudenza, rende più che evidente come
la voce «varie ed eventuali» non possa
essere utilizzata dall'amministratore per
inserire a sorpresa nella discussione
argomenti di una certa rilevanza per la
gestione del condominio, in violazione
dell'obbligo di informare i condomini sui
temi che verranno trattati nella riunione
assembleare, svuotando per altro di
significato lo stesso avviso di
convocazione. Sul punto si può riportare
quanto osservato dalla seconda sezione della
Suprema Corte nella sentenza n. 4316 del 28.06.1986 in una fattispecie relativa
all'esecuzione di lavori di rifacimento
della facciata dell'edificio condominiale,
che i giudici hanno escluso potersi fare
rientrare nella voce «varie ed eventuali»,
in quanto attività riguardante
l'amministrazione straordinaria del bene
comune.
L'incompletezza dell'ordine del giorno
costituisce semplice causa di annullabilità
della deliberazione assunta dall'assemblea,
da impugnarsi entro il termine di decadenza
di 30 giorni di cui al terzo comma dell'art.
1137 c.c. Tuttavia il condomino che abbia
partecipato all'assemblea e non abbia
sollevato il problema dell'irregolarità
dell'ordine del giorno al momento della
votazione non potrà poi impugnare la
relativa deliberazione, in quanto il proprio
comportamento varrà come acquiescenza.
Ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 66 disp.
att. c.c. «l'avviso di convocazione deve
essere comunicato ai condomini almeno cinque
giorni prima della data fissata per
l'adunanza». Si tratta di una
disposizione introdotta dal legislatore per
meglio tutelare la posizione dei condomini,
in modo da dare agli stessi la possibilità
di organizzare i propri impegni in modo da
poter presenziare alla riunione e prepararsi
in modo adeguato alla discussione dei
singoli argomenti posti all'ordine del
giorno.
Il computo del termine in questione,
secondo quanto disposto dalla norma appena
citata, si effettua a partire dalla data
fissata per l'assemblea (che non deve essere
conteggiata) e procedendo a ritroso nel
tempo. Se, tanto per fare un esempio,
l'assemblea è stata convocata per il 27
marzo, la comunicazione ai condomini dovrà
essere effettuata entro e non oltre il 22
marzo.
In caso di avviso che contenga la
data sia della prima che della seconda
convocazione, il termine in questione,
ovviamente, dovrà essere calcolato sulla
prima, anche se sia già certo che la stessa
andrà deserta
(articolo ItaliaOggi
Sette del 02.01.2011). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
CONDOMINIO: IMMOBILI
& CONDOMINIO/ Assemblea, l'odg è vincolante.
Annullabile la delibera su materie non
all'ordine del giorno. Il tribunale di Roma:
i condomini vanno informati delle questioni
su cui sono chiamati a decidere.
Non è valida la delibera
assembleare relativa ad argomenti non
indicati all'ordine del giorno, perché così
facendo non si consente ai singoli condomini
di valutare se partecipare o meno alla
riunione e, in caso di scelta positiva,
stabilire per tempo se proporre obiezioni o
suggerimenti a quanto riportato
dall'amministratore.
È questo il principio affermato dal
Tribunale di Roma nella
sentenza
03.11.2011 n. 21319.
La vicenda.
Due condomini decidevano di
impugnare la delibera dell'assemblea che, in
riferimento al punto dell'ordine del giorno
dedicato alle «varie ed eventuali»
(riservato in genere a comunicazioni da
parte dell'amministratore o dei condomini a
puro titolo informativo, oppure a
suggerimenti e raccomandazioni
all'amministratore), aveva dato incarico a
un professionista di redigere un capitolato
per esecuzioni di lavori già deliberati in
precedenti sedute.
Secondo i condomini tale
decisione si doveva considerare invalida per
la mancata indicazione nell'ordine del
giorno dell'oggetto della decisione
adottata, tenendo anche conto del fatto che
l'incarico riguardava delibere precedenti
per opere di manutenzione oggetto di
impugnativa da parte di altri condomini. Il
condominio si difendeva sostenendo che la
richiesta degli attori era generica,
inammissibile perché proposta con ricorso e
non con atto di citazione, nonché infondata,
in quanto l'impugnata decisione di
affidamento dell'incarico al professionista
era necessaria per dare esecuzione agli
interventi già decisi dall'assemblea.
Il tribunale di Roma, però, ritenendo
infondate le obiezioni del condominio, ha
dato ragione ai due condomini. I giudici
hanno infatti sottolineato come, secondo la
legge, tutti i partecipanti al condominio
debbano essere preventivamente informati
delle questioni e delle materie sulle quali
sono chiamati a deliberare. Del resto, per
legge, tutti i condomini devono essere
invitati alla riunione assembleare, invito
che presuppone che gli stessi debbano essere
previamente messi al corrente dei temi
oggetto della delibera assembleare in modo
da consentire una partecipazione effettiva e
concreta.
In altre parole deve essere
consentito a ciascun condomino di
comprendere esattamente il tenore e
l'importanza dell'ordine del giorno e di
poter valutare l'atteggiamento da tenere, in
relazione sia all'opportunità o meno di
partecipare, sia alle eventuali obiezioni o
suggerimenti da sottoporre alla discussione.
Di conseguenza l'eventuale delibera su
questioni che non siano state inserite
all'ordine del giorno e di cui i condomini
non siano stati precedentemente informati,
proprio perché pregiudica il diritto alla
partecipazione effettiva e consapevole
previsto dalla legge, è annullabile, con la
conseguenza che la stessa dovrà essere
impugnata nel termine di 30 giorni.
Come ha precisato il tribunale, però, tale
situazione ricorre quando la delibera sia
stata presa su un tema radicalmente estraneo
all'ordine del giorno o non direttamente e
logicamente riconducibile a esso.
L'indicazione specifica di un argomento non
è infatti necessaria allorché questo possa
ritenersi contenuto in altro a esso
strettamente collegato. Ne consegue che non
può esservi contestazione da parte dei
condomini se quanto deliberato e quanto in
precedenza indicato nell'ordine del giorno
sia, in buona sostanza, coincidente perché
il dovere informativo si deve ritenere
rispettato.
Alla luce delle precedenti considerazioni il
tribunale ha sottolineate che la decisione
di affidare a un tecnico la stesura del
capitolato degli interventi relativi al
caseggiato che erano già stati oggetto di
precedenti delibere dava ulteriore concreto
impulso e prosecuzione all'attività
manutentiva, ma, poiché era stata assunta
sotto la voce «varie ed eventuali», era da
considerarsi invalida: tale formula,
infatti, a causa della sua genericità non è
idonea a conseguire l'obiettivo della
preventiva informazione dei condomini
convocati all'assemblea.
Del resto, posto
che i lavori di ristrutturazione vanno a
incidere sulle finanze dei condomini,
sarebbe stata necessaria una conoscenza di
quanto si andava a deliberare al fine di
poter permettere, a ciascun condominio, un
valido intervento partecipativo in merito
all'incarico che si stava decidendo (per
esempio consentendo di indicare altro
professionista rispetto a quello proposto in
sede assembleare).
In ogni caso, il tribunale ha sottolineato
che non era stato neppure messo a
disposizione della collettività condominiale
il preventivo di spesa che, al contrario, in
base alla delibera impugnata, sarebbe stato
richiesto sola una volta decisa la sua
esecuzione
(articolo ItaliaOggi
Sette del 02.01.2011). |
ATTI AMMINISTRATIVI - CONDOMINIO:
E' illegittima la deliberazione
su questioni che non siano state inserite
all'ordine del giorno e che non siano state
oggetto di pregressa informativa ai
condomini partecipanti.
Laddove l'art. 1136 c.c., al comma VI,
prescrive che i partecipanti al condominio
edilizio debbano essere invitati alla
riunione assembleare, esso richiede, nel
contempo, che gli stessi debbano essere
previamente messi al corrente dei temi
oggetto della delibazione collegiale sì da
consentire una partecipazione effettiva e
concreta e permettere, nel contempo, di
poter operare le personali valutazioni in
merito anche all'opportunità o alla
necessità, in ragione del personale
interesse, a intervenire alla stessa; ne
consegue che l'eventuale deliberazione su
questioni che non siano state inserite
all'ordine del giorno e che non siano state
oggetto di pregressa informativa ai
condomini partecipanti, proprio perché
pregiudicante detto diritto alla
partecipazione effettiva e consapevole
normativamente sancito dagli artt. 1105 e
1136 c.c., è illegittima e, pertanto,
possibile oggetto di giudiziale gravame ai
sensi dell'art. 1137 c.c. (TRIBUNALE di
Roma, Sez. V,
sentenza 03.11.2011 n. 21319 -
link a www.neldiritto.it). |
CONDOMINIO:
Distanze legali, prevalgono le
norme sulle cose comuni. È lecito installare
tre pensiline su un bene comune anche se non
rispettano le norme sui rapporti di
vicinato.
È la conclusione cui è giunta la Corte di
Cassazione, Sez. II civile, con la
sentenza 25.10.2011 n.
22092 con cui è stato respinto il
ricorso del proprietario di un appartamento
situato al primo piano di un condominio nei
confronti di quello dell'alloggio
sottostante.
La Suprema corte ha, infatti, stabilito che
le norme sulle distanze legali, rivolte
fondamentalmente a regolare rapporti fra
proprietà contigue e separate, sono
applicabili anche in ambito condominiale
quando siano compatibili con l'applicazione
delle disposizioni particolari relative alle
cose comuni, ma in caso di contrasto
prevale, quale diritto speciale, la
disciplina della comunione. L'aspetto
fondamentale è quindi che il condomino non
alteri la destinazione del bene e non ne
impedisca l'altrui pari uso.
In particolare, la sentenza ha riguardato il
caso di un ricorrente che si è rivolto al
tribunale denunciando che il condomino del
piano terra aveva realizzato tre pensiline
di materiale plastico con intelaiatura in
ferro, chiedendone la rimozione. Secondo il
condomino, infatti, le opere eseguite
risultavano lesive dell'estetica della
facciata, violando inoltre il diritto di
veduta e le norme sulle distanze legali. I
giudici però hanno respinto la domanda sia
in primo che in secondo grado.
Secondo la Corte d'appello, infatti, i
manufatti erano stati realizzati con
materiale elegante, trasparente e in armonia
con le caratteristiche strutturali e
l'estetica del fabbricato.
La vicenda è quindi approdata in Cassazione
dove è stato stabilito che le norme sulle
distanze legali sono applicabili anche in
ambito condominiale purché non siano in
contrasto con le norme particolari relative
alle cose comuni, perché in questo caso
prevalgono queste ultime. Di conseguenza, il
diritto del singolo condomino va incontro a
un solo limite, cioè di consentire il
potenziale pari uso della cosa anche da
parte degli altri (articolo
ItaliaOggi Sette del 16.01.2012).
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1. Le norme sulle distanze legali,
rivolte fondamentalmente a regolare rapporti
fra proprietà contigue e separate, sono
applicabili anche nei rapporti tra i
condomini di un edificio condominiale quando
siano compatibili con l'applicazione delle
norme particolari relative alle cose comuni
(art. 1102 c.c.), cioè quando l'applicazione
di queste ultime non sia in contrasto con le
prime; nell'ipotesi di contrasto prevalgono
le norme sulle cose comuni con la
conseguente inapplicabilità di quelle
relative alle distanze legali che nel
condominio degli edifici e nei rapporti fra
singolo condomino e condominio sono in
rapporto di subordinazione rispetto alle
prime.
2. In considerazione della peculiarità del
condominio degli edifici, caratterizzato
dalla coesistenza di una comunione forzosa e
di proprietà esclusive, il godimento dei
beni, degli impianti e dei servizi comuni è
in funzione del diritto individuale sui
singoli piani in cui è diviso il fabbricato:
dovendo i rapporti fra condomini ispirarsi a
ragioni di solidarietà si richiede un
costante equilibrio tra le esigenze e gli
interessi di tutti i partecipanti alla
comunione, dovendo verificarsi
necessariamente alla stregua delle norme che
disciplinano la comunione - che l'uso del
bene comune da parte di ciascuno sia
compatibile con i diritti degli altri
(massima tratta da www.neldiritto.it). |
CONDOMINIO:
Riscaldamento, distacco a
ostacoli.
Nuovi limiti introdotti dalle norme sul
risparmio energetico. Si complica il
passaggio dal sistema centralizzato a quello
autonomo nei condomini.
Abitazioni troppo calde o troppo fredde: non
si riesce mai a trovare la via di mezzo. E
proprio con l'avvicinarsi della stagione
invernale si fanno più urgenti le
problematiche legate al riscaldamento. In
molti sono invogliati (anche a causa dei
costi dei carburanti) a valutare la
possibilità di staccarsi dal riscaldamento
centralizzato.
Una strada però in salita. Se, infatti, le
sentenze della Cassazione, anche recenti,
sono favorevoli a questo tipo di scelta, il
quadro è stato complicato dalle nuove norme
in materia di risparmio energetico che
sembrano ostacolare la decisione. Intanto,
sempre in materia di riscaldamento della
casa, è in arrivo per i condomini l'obbligo
di installazione delle valvole termostatiche
sui termosifoni per il controllo della
temperatura ambientale.
Le sentenze della Cassazione. La Cassazione
si è più volte dichiarata favorevole alla
scelta del distacco, anche nelle sentenze
più recenti. Come in quella n. 11857 del 27
maggio scorso, in cui la Suprema corte ha
ribadito che il distacco è legittimo anche
senza l'autorizzazione dell'assemblea.
Unica
condizione da rispettare è che non si creino
squilibri termici nell'edificio in grado di
pregiudicare l'erogazione del servizio e
comportare spese aggiuntive per gli altri
condomini. La Corte ha anche precisato che
per squilibrio termico non si può
considerare solo la differente temperatura
che può venirsi a creare nell'appartamento
distaccato rispetto agli altri.
È necessaria
in ogni caso la certificazione della
condizione termica del nuovo impianto.
Inoltre, la relazione del termotecnico può
attestare che, per compensare gli effetti
creati dal distacco, il condomino che non
utilizza più il centralizzato è tenuto a
pagare comunque una quota fissa di consumi.
In aggiunta, in base al secondo comma
dell'articolo 1118 del codice civile, chi
rinuncia al diritto sulle cose comuni, deve
comunque contribuire alle spese per la loro
conservazione, ossia in questo caso alle
spese di manutenzione ordinaria e
straordinaria dell'impianto centralizzato,
inclusa la sua sostituzione.
Le nuove norme in materia di risparmio
energetico. Le sentenze della Corte
riguardano però casi antecedenti le nuove
norme in materia di risparmio energetico.
Come, per esempio, il dpr 59/2009, che vieta
la trasformazione di impianti centralizzati
in impianti autonomi negli immobili con più
di quattro unità abitative o con potenza
superiore a 100 kW.
La giurisprudenza,
quindi, finora è stata favorevole a chi
decide per il distacco ma, in futuro,
l'orientamento potrebbe cambiare alla luce
di queste novità normative, portando ad
accogliere, per esempio, il ricorso di un
condominio che potrebbe lamentare
l'impossibilità di raggiungere un buon
livello di efficienza e risparmio
energetico.
Occhio alla canna fumaria. Se si opta per la
scelta di distaccarsi dal centralizzato,
occorre però sapere che per poter procedere
all'installazione della caldaia autonoma è
necessario uno sbocco per la canna fumaria.
Una realizzazione che può essere costosa, ma
che non richiede il lasciapassare da parte
dell'assemblea condominiale. Infatti, l'uso
delle parti comuni per il passaggio della
canna è lecito se non impedisce il loro
utilizzo agli altri condomini e se non
danneggia il decoro dell'edificio.
Le valvole termostatiche
diventano obbligatorie.
Un aiuto al controllo della temperatura
all'interno degli appartamenti viene anche
dalle valvole termostatiche, ossia dei
dispositivi che, installati sui termosifoni,
permettono di regolare il flusso di acqua
calda, contabilizzando i consumi. Un sistema
che consente di evitare gli sprechi,
stabilizzando la temperatura nei diversi
locali a seconda delle necessità.
Nel caso di edifici con impianto di
riscaldamento centralizzato, è necessario
che il condominio realizzi
contemporaneamente un sistema di
contabilizzazione individuale del calore
(ogni condomino paga quello che consuma come
con un impianto autonomo, al netto dei costi
dei servizi comuni) per far sì che i
risparmi ottenuti siano riconosciuti e
attribuiti ai singoli.
In Lombardia è stato recentemente istituito
un decreto-legge regionale (n. 3 del
21.02.2011) che estende l'obbligo dei
sistemi per la termoregolazione degli
ambienti e la contabilizzazione autonoma del
calore a tutti gli impianti di riscaldamento
al servizio di più unità immobiliari, anche
se già esistenti, a partire dal primo agosto
2012 e per i tre anni successivi a seconda
dell'età della caldaia.
Tutti i condomini e tutti gli appartamenti
dovranno quindi dotarsi di sistemi per la
contabilizzazione del calore e la
regolazione della temperatura. La normativa
è al momento in vigore in Lombardia e in
Piemonte, ma nei prossimi mesi sarà estesa
anche alle altre regioni (articolo ItaliaOggi Sette
del 10.10.2011). |
CONDOMINIO:
Bilancio ok solo se è trasparente.
La documentazione deve essere a disposizione
dei condomini. La Cassazione punisce il
comportamento negligente
dell'amministratore. Delibera annullabile.
Il comportamento negligente
dell'amministratore che non consenta ai
condomini di visionare la documentazione
contabile può essere causa di annullamento
della delibera assembleare.
Lo ha chiarito
la Corte di Cassazione con la recente sentenza 21.09.2011 n. 19210.
Nel
caso posto al vaglio della Suprema corte, il
tribunale aveva rigettato l'impugnazione
della delibera condominiale di approvazione
del bilancio consuntivo di lavori effettuati
nelle parti comuni e del relativo piano di
riparto proposta da un condomino che aveva
lamentato di non avere avuto la possibilità
di visionare la relativa documentazione
poiché l'amministratore non aveva
acconsentito a mostrargliela nonostante
esplicita richiesta prima dell'assemblea.
Il tribunale aveva infatti rilevato che la
mancata esibizione dei documenti di spesa
non poteva comunque inficiare la validità
della delibera assembleare di approvazione
del bilancio consuntivo, venendo in
questione solo una presunta inadempienza
dell'amministratore e non potendosi invece
configurare una radicale impossibilità di
accedere alle pezze giustificative della
deliberazione.
La Corte d'appello, investita del riesame
della questione dal condomino, dopo aver
richiamato il principio affermato dalla
Cassazione con la sentenza n. 8460 del 1998,
secondo cui ogni proprietario ha facoltà di
ottenere dall'amministratore del condominio
l'esibizione dei documenti contabili in
qualsiasi tempo e senza l'onere di
specificare le ragioni della richiesta
finalizzata a prendere visione o a estrarre
copia dei documenti, aveva ritenuto che tale
facoltà non sia fine a se stessa, bensì
finalizzata a rendere possibile un controllo
non solo formale sull'attività
dell'amministratore e che quindi il suo
impedimento, finendo per paralizzare detta
possibilità di controllo, influisca
negativamente sulla legittimità della
deliberazione assembleare.
Circa l'eccezione
del condominio, che aveva fatto rilevare
come nella specie fosse comunque intervenuta
l'approvazione del consuntivo da parte
dell'assemblea, la Corte d'appello aveva
rilevato come non era possibile sapere in
che modo la medesima assemblea si sarebbe
orientata se il condomino che ne aveva fatto
richiesta avesse potuto accedere alla
documentazione richiesta e che, proprio per
non avere avuto detta possibilità, si era
determinato a non partecipare alla riunione
nella quale la delibera impugnata era stata
adottata.
Anche la Suprema corte, nel ricordare il
predetto principio di legittimità e nel
condividerne l'applicazione operata dalla
Corte d'appello, ha evidenziato come il
condomino ha diritto di accedere alla
documentazione contabile in vista della
consapevole partecipazione all'assemblea
condominiale e che a tale diritto
corrisponde l'onere dell'amministratore di
predisporre un'organizzazione, sia pur
minima, che consenta di venire incontro in
maniera efficace alle richieste dei
proprietari. In caso contrario, secondo i
giudici di legittimità, la delibera
assembleare può essere annullata ove
tempestivamente impugnata.
---------------
Le richieste non devono
ostacolare l'attività.
Le attribuzioni dell'amministratore
consistono sostanzialmente nel dare
esecuzione alle delibere assembleari e nel
fare rispettare il regolamento di
condominio, comminando ammonizioni o
sanzioni e, se necessario, promuovendo, nei
confronti dei singoli condomini, azioni
giudiziarie: per queste attività
l'amministratore, essendo un puro esecutore,
non ha facoltà discrezionali bensì precisi
doveri. Quest'ultimo dispone invece di
maggior autonomia nel disciplinare l'uso
delle cose comuni e la prestazione dei
servizi nell'interesse comune, in modo che
ne sia assicurato il migliore godimento a
tutti i condomini. L'amministratore deve
inoltre riscuotere i contributi sulla base
del preventivo e dello stato di ripartizione
approvati dall'assemblea.
Una volta in possesso dei fondi, deve
provvedere alla manutenzione ordinaria delle
parti condominiali e all'efficienza dei
servizi comuni: per le spese che eccedono
l'ordinaria amministrazione è necessaria,
invece, una delibera assembleare che le
autorizzi. Tuttavia può, di sua iniziativa,
ordinare opere di manutenzione straordinaria
che abbiano carattere d'urgenza, fermo
restando l'obbligo di riferirne alla prima
assemblea. L'amministratore del condominio
ha, tra gli altri, anche il compito di porre
in essere gli atti conservativi, tra i quali
rientrano anche le azioni possessorie, dei
diritti inerenti alle parti comuni
dell'edificio.
Nell'ambito di tale attribuzione ha la
rappresentanza dei partecipanti al
condominio e può agire in giudizio,
richiedendo le necessarie misure cautelari e
il risarcimento dei danni conseguenti, sia
contro i condomini sia contro i terzi. Fra
le incombenze dell'amministratore vi è,
infine, quella di rendere, alla fine di
ciascun anno, conto della propria gestione,
fornendo tutte le cifre e la documentazione
relativa e consentendo i controlli che, per
diritto, spettano ai condomini.
Si noti che i condomini possono visionare i
documenti senza la necessità di specificare
la ragione per cui vogliono prendere visione
o estrarre copia degli stessi: spetta semmai
all'amministratore dedurre e dimostrare
l'insussistenza di qualsivoglia interesse
effettivo in capo ai condomini, perché i
documenti personalmente non li riguardano,
ovvero l'esistenza di motivi futili o
inconsistenti e comunque contrari alla
correttezza.
Tuttavia il condomino che vuole visionare e
fotocopiare i documenti contabili deve
rispettare alcune regole. In particolare la
vigilanza e il controllo non devono
intralciare l'attività dell'amministratore
e, quindi, è necessario concordare con lo
stesso il giorno e l'ora per la visione dei
documenti (articolo ItaliaOggi Sette
del 24.10.2011). |
CONDOMINIO:
Documenti condominiali, visura sì
ma con ordine.
La Suprema Corte ha ribadito ancora una
volta il principio per cui
ciascun comproprietario ha la facoltà di
richiedere e ottenere dall'amministratore
del condominio l'esibizione dei documenti
contabili in qualsiasi tempo, senza l'onere
di specificare le ragioni della richiesta,
purché l'esercizio di tale facoltà non
risulti di ostacolo all'attività di
amministrazione, non sia contraria ai
principi di correttezza e non si risolva in
un onere economico per il condominio.
Affinché tale diritto sia esercitabile ed
effettivo incombe sull'amministratore
l'onere di predisporre un'organizzazione
minima e di rendere informati tutti i
condomini di tale organizzazione.
L’orientamento della giurisprudenza, ormai
abbastanza risalente nel tempo, secondo il
quale la documentazione condominiale doveva
essere posta a disposizione dei condomini
dall’amministratore soltanto in sede di
assemblea per l’approvazione del rendiconto
e, comunque, tale omissione poteva rilevare
soltanto come inadempimento
dell’amministratore medesimo senza influire
in alcun modo sulla validità della delibera
condominiale di approvazione è radicalmente
mutato a partire dalla sentenza della
Cassazione n. 8460/1998, cui si sono
succedute numerose pronunce, sia di
legittimità che di merito, fino alla
recentissima sentenza 21.09.2011 n. 19210
della Corte di Cassazione, Sez. civile.
Il revirement della giurisprudenza
degli ermellini è stato determinato da
un’attenta riflessione sul rapporto tra
amministratore e assemblea e
dall’applicazione a esso delle norme sul
mandato.
Il rapporto tra l'amministratore e i
condomini, infatti, è sussumibile nello
schema del mandato con rappresentanza, anche
se si connota per alcuni aspetti peculiari
determinati normativamente quali
l'obbligatorietà della nomina, il contenuto
e gli effetti, tanto che si parla di mandato
ex lege.
Dalla disciplina predisposta dal legislatore
per amministrare le cose comuni si desume il
rapporto particolare intercorrente tra
l'amministratore (mandatario) e i singoli
condomini (mandanti), così che potranno
applicarsi a esso soltanto le norme sul
mandato compatibili.
Alla luce di tanto si deve valutare se il
potere dei condomini di vigilare e di
controllare in ogni tempo la gestione
dell'amministratore, potere che spetta al
mandante nei confronti del mandatario ex
art. 1713 c.c., è conciliabile con il
rapporto di amministrazione delineato dalla
legge.
La risposta è sicuramente positiva
soprattutto avuto riguardo alla circostanza
che l'amministratore, per ragioni del suo
ufficio, detiene i registri e i documenti
contabili afferenti alla gestione e
riguardanti gli stessi condomini e,
pertanto, non vi è alcuna ragione
giustificatrice alla limitazione di tali
poteri, sempre che la vigilanza ed il
controllo non si risolvano in un intralcio
all'amministrazione, non siano contrari al
principio della correttezza, che deve stare
alla base dei rapporti interpersonali (art.
1175 cod. civ.), e non creino aggravi di
costi del condominio. Non è neppure
necessario che i condomini specifichino la
ragione per cui vogliono prendere visione o
estrarre copia dei documenti, rimanendo
onere dell’amministratore dimostrare la
contrarietà alla correttezza o l’intralcio
alla gestione condominiale di tali
richieste.
Le motivazioni alla base del rifiuto
dell’amministratore devono essere analizzate
con particolare rigore in quanto il diniego
di visionare tali documenti non si concreta
in un semplice inadempimento
dell’amministratore ma può avere effettive
conseguenze sulle decisioni assembleari:
infatti non avendo il condomino una
conoscenza completa dei documenti, non potrà
esprimere a pieno il suo parere e non potrà
influenzare l’orientamento degli altri
condomini. Pertanto, la violazione di tale
diritto determina l’annullabilità della
delibera approvata, in quanto risulta
viziato il procedimento di formazione della
volontà assembleare (Cass. 15159/2001, Cass.
13350/2003, Cass. 1544/2004, Cass.
12650/2008).
Spetterà, quindi, all’amministratore
rifiutare soltanto quelle richieste che
palesemente e ictu oculi contrastano
con la corretta e funzionale gestione
condominiale o con il principio di
correttezza, gravando su di lui –e quindi
sul condominio– la prova di siffatti
caratteri della richiesta e non essendo
all’uopo sufficienti meri e/o generici
richiami all’intralcio all’attività di
amministrazione, soprattutto quando la
richiesta è finalizzata all’esame di
documenti inerenti agli argomenti inseriti
nell’ordine del giorno dell’adunanza e,
pertanto, è rivolta ad assicurare una
partecipazione consapevole all’assemblea.
Né legittima il rifiuto dell’amministratore
il mero riferimento a orari e modalità
contrari ai principi di correttezza e buona
fede: è compito dell’amministratore,
infatti, predisporre un’organizzazione che
permetta di conciliare la propria attività,
soprattutto nel caso in cui gestisca un
numero elevato di condòmini, con il rispetto
dei diritti dei singoli condomini, nonché di
portare a conoscenza di tutti tale suo
modello organizzativo: rimanendo, comunque,
a suo carico l’onere di dimostrare
l’impossibilità di dar seguito alla
richiesta a causa della non compatibilità di
essa con le modalità già previamente
indicate e comunicate (commento tratto da
www.ipsoa.it). |
CONDOMINIO:
L'amministratore non può rifiutarsi di
consegnare i conti.
Se il condomino chiede all'amministratore di
visionare o estrarre copia dei documenti
contabili, non è tenuto a specificare le sue
ragioni.
La richiesta, infatti, secondo la sentenza
21.09.2011 n. 19210 della Corte di Cassazione, può essere avanzata sempre e
non soltanto in sede di rendiconto annuale e
di approvazione del bilancio da parte
dell'assemblea.
L'unico punto di attenzione è che
l'esercizio di tale facoltà non ostacoli
l'attività di amministrazione e non si
presenti come contraria ai principi di
correttezza risolvendosi in un peso
economico per il condominio (in tal caso i
costi dell'operazione gravano solo su chi ha
fatto la richiesta).
La Corte ha peraltro chiarito che il rifiuto
di estrarre copia dei documenti contabili,
laddove non sia dimostrata l'impossibilità
di esaudire la richiesta perché pervenuta a
poche ore dall'inizio della seduta, dà luogo
all'annullamento della delibera
eventualmente presa dall'assemblea (articolo ItaliaOggi Sette
del 10.10.2011). |
CONDOMINIO: La
delibera assembleare va sempre rispettata.
La delibera assembleare va rispettata anche
se illegittima e i condomini che intendono
far valere le loro ragioni devono impugnarla
nei modi e nei termini di legge. Ma fino
alla sua eventuale dichiarazione
d'invalidità, salvo ottenimento d'un
provvedimento di sospensione, tutti gli
interessati devono comunque rispettarla.
È
quanto affermato dalla Corte di cassazione
con la sentenza 06.10.2011 n. 20492.
La Suprema corte ha anche specificato che la
citazione deve essere notificata
all'amministratore del condominio in quanto
legale rappresentante dei comproprietari in
relazione alla gestione e conservazione
delle parti comuni dell'edificio. Una
specifica che non vale soltanto per il
giudizio di primo grado ma anche per i
successivi procedimenti d'appello e di
legittimità.
In sostanza, il condomino, che nel caso di
giudizio incentrato sull'impugnazione di una
deliberazione assembleare intende proporre
appello contro la sentenza di primo grado o
ricorso per cassazione contro quella
d'appello, deve sempre far notificare l'atto
introduttivo del giudizio all'amministratore
del condominio
(articolo ItaliaOggi
Sette del 07.11.2011). |
CONDOMINIO:
Sopraelevazione, solo il
regolamento pattizio (e provato) può
fermarla.
La Corte di Cassazione
ha ribadito il principio in virtù del quale
il diritto di sopraelevare nuovi piani o
nuove fabbriche riconosciuto al proprietario
dell'ultimo piano dell'edificio in
condominio o del lastrico solare può essere
limitato soltanto da un regolamento
condominiale di natura contrattuale. Per cui
assume fondamentale importanza la
dimostrazione, in corso di giudizio, di tale
natura che non può essere desunta soltanto
dal fatto che il regolamento sia richiamato
e accettato o allegato all'atto di
compravendita.
La vicenda all’attenzione della Corte di
Cassazione con la pronuncia in esame trae
origine dall’azione giudiziaria intrapresa
da parte di un condominio per l’abbattimento
un manufatto costruito ad opera di un
condomino sul lastrico solare di sua
proprietà pur in presenza di un regolamento
condominiale che vietava espressamente ogni
tipo di sopraelevazione sulla copertura del
fabbricato.
Sia la Corte territoriale che i Giudici di
appello avevano accolto l’istanza del
condominio di ripristino dello status quo
ante sul presupposto dell’accettazione di
tale regolamento da parte del condomino in
virtù del richiamo contenuto nell’atto di
acquisto dell’appartamento.
Contro la statuizione di secondo grado, il
condomino proponeva ricorso in cassazione
assumendo che soltanto un regolamento
contrattuale avrebbe potuto limitare il
diritto di sopraelevare riconosciuto dalla
legge e, nel caso in concreto, non era stata
fornita la prova della sua natura negoziale.
Orbene, l’art. 1127 c.c. riconosce il
diritto di costruire nuovi piani o nuove
fabbriche al proprietario dell'ultimo piano
dell'edificio e al proprietario esclusivo
del lastrico solare, salvo che ciò comporti
compromissioni delle condizioni statiche o
dell’aspetto architettonico dell’edificio o
limiti notevolmente l’aria e la luce ai
piani sottostanti e salvo che risulti
altrimenti da un titolo e cioè da un negozio
giuridico pattizio.
E’ questa l’unica deroga normativa, accanto
alle due pattizie costituite dal diritto di
superficie e dalla proprietà superficiaria,
al principio dell'automatico acquisto della
proprietà della costruzione e di tutto ciò
che venga comunque stabilmente unito al
suolo da parte del proprietario di questi:
tale eccezione trova la sua giustificazione
nel c.d. “regime dualistico”
caratterizzante gli edifici in condominio e
consistente nella contemporanea presenza di
unità immobiliari di proprietà esclusiva e
di cose, impianti e servizi di proprietà di
tutti i partecipanti.
In esso, infatti, sul suolo, che è di
proprietà comune e pro indiviso tra tutti i
condomini ai sensi dell’art. 1117 c.c.,
salvo che risulti diversamente dai titoli di
proprietà, vengono realizzate le porzioni
immobiliari di proprietà esclusiva, una
sopra l’altra, e, quindi, la costituzione di
una proprietà superficiaria in favore del
proprietario di quella realizzata al di
sopra delle preesistenti.
Ciò comporta che il diritto di superficie
viene necessariamente a spostarsi verso
l'alto, fino all’ultimo piano o al lastrico
solare, con la conseguente accessione
all’ultimo piano o al lastrico solare di
quanto realizzato al di sopra.
Pertanto soltanto il proprietario
dell'ultimo piano -e non anche il
proprietario di uno dei piani sottostanti- è
proprietario anche delle costruzioni
realizzate sopra l'ultimo piano.
Di conseguenza nel caso in cui l'ultimo
piano sia composto da più unità immobiliari
appartenenti a soggetti diversi, ciascuno di
questi ha facoltà di sopraelevare
relativamente alla proiezione verticale
della sola porzione che gli appartiene;
viceversa nel caso in cui la proprietà
dell'ultimo piano appartenga in comune
pro-indiviso a più soggetti, è necessario il
consenso unanime di tutti i comproprietari
all’edificazione (Cass. S.U. 30.07.2007 n.
16794).
A fronte di tale diritto, però, l'art. 1127
cod. civ. pone a carico del condomino che
realizza la sopraelevazione l'obbligo di
corrispondere agli altri condomini una
indennità, la cui misura è stabilita nel
quarto comma del medesimo articolo, per
compensare la riduzione del valore delle
quote di pertinenza degli altri condomini
sulla comproprietà del suolo comune
conseguente alla sopraelevazione realizzata
da uno di essi e dall'acquisto, da parte di
quest'ultimo, della relativa proprietà.
In giurisprudenza si era creata una
difformità sul concetto di “nuovo piano o
nuova fabbrica”, ormai superata con
l’intervento delle Sezioni Unite della
Suprema Corte che ha ribadito il concetto
che “qualsiasi costruzione oltre l'ultimo
piano dell'edificio realizza, in ogni caso,
un nuovo piano od una nuova fabbrica
indipendentemente dal rapporto con la
precedente altezza dell'edificio stesso”.
Questo diritto riconosciuto dalla legge non
può essere limitato o escluso da un
regolamento di condominio adottato
dall’assemblea: infatti, in applicazione dei
principi generali del diritto, l’art. 1138
c.c., quarto comma, statuisce che le norme
del regolamento non possono in alcun modo
menomare i diritti di ciascun condomino.
Questi possono essere limitati o finanche
esclusi soltanto da un titolo, intendendosi
per tale l’insieme di tutti gli atti di
acquisto di ogni singola unità immobiliare
da cui risulti una tale clausola o un
contratto, stipulato anche successivamente,
fra tutti i condomini o, infine, un
regolamento condominiale di natura
contrattuale e cioè un regolamento approvato
e sottoscritto da tutti i condomini: ciò
avviene sia quando esso è stato predisposto
dall’unico originario proprietario e
allegato e accettato da ogni acquirente
delle singole unità immobiliari o cui vi
hanno aderito, anche fuori dalla sede
assembleare, tutti i singoli condomini.
Tali regolamenti, da considerarsi veri e
propri contratti, possono essere trascritti
presso l’Agenzia del Territorio e, in tal
modo, diventano opponibili nei confronti di
tutti e anche dei successivi acquirenti
degli immobili pur in assenza di un richiamo
espresso nei rogiti notarili.
Ma, quand’anche non trascritti nei pubblici
registri immobiliari, essi sono opponibili
nei confronti dei successivi acquirenti se
richiamati nei singoli atti d’acquisto della
proprietà.
Ed è questo il thema decidendum della
sentenza in esame: accertare se la clausola
limitativa del diritto di sopraelevare
contenuta nel regolamento di condominio
richiamato e accettato, genericamente,
nell’atto di acquisto dell’unità immobiliare
è contenuta in un regolamento di condominio
di natura assembleare o contrattuale.
Per quanto sopra detto, soltanto nel secondo
caso è idonea a escludere il diritto di cui
all’art. 1127 c.c..
Ebbene la Corte d’appello nella sentenza
impugnata, pur in assenza della prova della
natura del regolamento richiamato nell’atto
di compravendita, ha fondato la propria
decisione sull’apodittica affermazione della
sua natura contrattuale, presumibilmente
confondendo il concetto della conclusione
del contratto con quello della sua
opponibilità. In realtà il contratto
plurilaterale si forma solo con l'incontro
delle volontà di tutte e ciascuna delle
parti interessate che, riguardando diritti
reali immobiliari, devono necessariamente
assumere la forma scritta e non può
desumersi dal solo fatto che esso sia
allegato ad un singolo atto di acquisto
(Corte di Cassazione civile, sentenza
21.09.2011 n. 19209 - tratto da
www.ipsoa.it). |
CONDOMINIO:
Il condominio ha nuove regole.
Dall'uso delle parti comuni ai giardini
privati, si cambia. Una guida per conoscere
limiti e opportunità della vita
condominiale, alla luce degli ultimi
interventi.
Gli ultimi mesi sono stati caratterizzati da
una serie di interventi giurisprudenziali in
materia di parti comuni. Proviamo a vedere
quali sono le principali problematiche sul
tema e come vengono risolte.
Cambiare la destinazione d'uso delle parti
comuni.
Tra le ultime novità in materia di
condominio quella relativa alla possibilità
di trasformare le parti comuni all'interno
di un edificio.
Come, ad esempio, destinare una parte del
giardino condominiale in un parco giochi per
bambini o in un parcheggio. Oppure
trasformare l'ex portineria in un asilo
nido, in una lavanderia o in un deposito per
biciclette. Per poter procedere, però, in
questi casi occorre tener conto di limiti e
regole ben precisi. Infatti, le decisioni
dell'assemblea devono rispettare il decoro
architettonico, il regolamento condominiale
e il diritto di tutti i proprietari a non
essere danneggiati nella possibilità di
utilizzare gli spazi comuni.
La sentenza
12.07.2011 n. 15319 della Cassazione si occupa proprio di uno di questi
casi e stabilisce che è legittima la
trasformazione di una parte del giardino
condominiale in parcheggio purché decisa
dall'assemblea con una delibera adottata a
maggioranza. In generale, quindi, le
delibere sulla destinazione d'uso delle
parti comuni se intendono apportare una
miglioria nel loro utilizzo, possono essere
prese dalla maggioranza semplice, cioè degli
intervenuti all'assemblea che devono
rappresentare almeno 500 millesimi di
proprietà.
Ad alcune condizioni, però. La
prima che non si alteri il decoro
dell'edificio. In secondo luogo, non va
impedito l'uso della parte comune anche a un
solo condomino. Infine, la modifica non deve
essere esplicitamente vietata dal
regolamento condominiale dotato di natura
contrattuale.
Sulle parti comuni il
plafond è limitato.
Un altro aspetto importante è quello messo
in luce dall'Agenzia delle entrate,
direzione Veneto, nel corso del convegno
Anaci svoltosi a Padova il 04.07.2011,
secondo cui se un condomino possiede più
immobili all'interno dello stesso stabile,
il limite massimo di spesa di 48 mila euro
per gli interventi sulle parti comuni non va
moltiplicato per il numero degli
appartamenti. L'amministrazione finanziaria
ha anche ribadito che l'importo massimo
della spesa detraibile non va riferito solo
all'abitazione, ma anche alle sue pertinenze
unitariamente considerate.
Si tratta però di
un principio che causa una disparità di
trattamento tra la ristrutturazione delle
pertinenze di abitazioni e gli interventi
sulle parti comuni condominiali, considerati
come un'agevolazione indipendente dai lavori
di rinnovo della casa. In questo caso vi è
un autonomo limite di spesa di 48 mila euro
e questo beneficio fiscale si aggiunge a
quello spettante per il singolo
appartamento. Nel convegno è stata
confermata questa impostazione.
In una fase
successiva, però, i funzionari dell'Agenzia
hanno sostenuto che, prendendo ad esempio un
unico proprietario di un palazzo di quattro
appartamenti, quest'ultimo può detrarre 48
mila euro per ogni appartamento accatastato
più 48 mila euro per la manutenzione
ordinaria delle parti comuni.
Una risposta
che contrasta con la posizione ufficiale
dell'Agenzia espressa nella risoluzione 25.01.2008, n. 19/E, secondo cui per i
lavori sulle parti comuni dell'edificio è
possibile usufruire di un tetto massimo di
spesa di 48 mila euro, su cui calcolare la
detrazione del 36%, per ogni singola
abitazione.
Rumore nel condominio, non
esiste un criterio predeterminato.
Un'altra principale fonte di discussione tra
i condomini è rappresentata dai rumori
prodotti dai vicini o dai loro animali o da
impianti comuni. In questi casi, però, gli
elementi relativi alle immissioni acustiche
devono essere valutati in modo oggettivo e
caso per caso. Infatti, anche se un
condomino è particolarmente sensibile ai
rumori, non può per questo automaticamente
pretendere che nel proprio palazzo regni un
silenzio assoluto.
Analogo discorso se,
lavorando di notte e dormendo di giorno,
viene disturbato dai rumori causati dalle
faccende domestiche. I riferimenti in questo
caso sono l'articolo 844 del Codice civile
(Immissioni intollerabili) e gli eventuali
regolamenti contrattuali. Infatti è compito
di chi lamenta la violazione di queste norme
provare la scorrettezza della condotta
altrui. Recentemente la Cassazione, con la
sentenza 11.02.2011 n. 3440, ha
specificato infatti che il limite di
tollerabilità non è assoluto, ma dipende
dalla situazione ambientale e dalle
caratteristiche della zona.
Di conseguenza
tale limite è più basso nelle zone dove sono
presenti degli insediamenti abitativi, ma è
anche vero che la normale tollerabilità non
può essere intesa come assenza assoluta di
rumore. Quindi il fatto che un rumore venga
percepito non significa anche che sia
intollerabile.
Gatti liberi di girare,
anche nel condominio.
Un'altra notizia recente in materia viene
dal tribunale di Milano dove il giudice
civile ha riconosciuto ai gatti senza
padrone la possibilità di aggirarsi e
nutrirsi nelle aree urbane, anche
all'interno dei palazzi di proprietà. Un
diritto stabilito dalla legge 281 del 1991,
mai applicata prima. L'episodio che ha
condotto alla storica sentenza riguarda una
coppia di inquilini della periferia milanese
che ha denunciato una vicina chiedendo
esplicitamente la rimozione dal palazzo
delle ciotole con cui abitualmente nutriva i
gatti, l'allontanamento dei felini
dall'abitazione e un risarcimento per danni
morali a tutti i condomini.
Il giudice però ha deciso di legittimare
l'esistenza di colonie feline, in base alla
convinzione che i gatti sono animali
socializzanti e che non possono essere
definiti randagi, come invece accade per i
cani. Un precedente importante, quindi, per
tutti coloro che pensavano di essere
legittimati a cacciare questi animali da
condomini e giardini (articolo ItaliaOggi Sette del 29.08.2011). |
CONDOMINIO:
Lastrico solare, quando è parte comune.
In tema di condominio, per qualificare un
lastrico solare come parte comune, ai sensi
dell'art. 1117, n. 1, cod. civ., è
necessaria la sussistenza di connotati
strutturali e funzionali comportanti la
materiale destinazione del bene al servizio
o al godimento di più unità immobiliari
appartenenti in proprietà esclusiva a
diversi proprietari.
Deve pertanto escludersi la presunzione di
comunione di un lastrico solare che, nel
contesto di un edificio costituito da più
unità immobiliari autonome, disposte a
schiera, assolva unicamente alla funzione di
copertura di una sola delle stesse e non
anche di altri elementi, eventualmente
comuni, presenti nel c.d. “condominio
orizzontale”.
Lo ha stabilito la Cassazione (sentenza
n. 22466/2010, inedita) (articolo ItaliaOggi del 24.08.2011).
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Nelle villette a schiera
la copertura è privata.
Nel condominio «orizzontale», come le
villette a schiera, il lastrico solare non
sempre è parte comune.
Lo spiega la Cassazione (sentenza n.
22466/2010) partendo dalla nozione di
condominio in senso proprio, che è
configurabile non solo nell'ipotesi di
fabbricati che si estendono in senso
verticale, ma anche nel caso di costruzioni
adiacenti orizzontalmente.
Esempio tipico sono le villette a schiera,
in quanto dotate di manufatti portanti e
impianti essenziali comuni. Anche
nell'ambito di tali complessi condominiali
vi sono dei beni o degli spazi che, per le
loro caratteristiche strutturali e
funzionali, devono necessariamente
considerarsi di proprietà di tutti i
condomini. Queste entità trovano
un'elencazione abbastanza esaustiva
nell'articolo 1117 del codice civile, dal
cui testo se ne possono desumere in modo
chiaro tanto la tipologia quanto la
funzionalità. Tale norma non prevede però
una presunzione legale di comunione delle
cose in essa elencate, ma dispone
l'esclusione dal novero dei beni comuni di
quelli che, per caratteristiche proprie,
servono soltanto all'uso e al godimento di
una parte dell'immobile.
L'aspetto strutturale e il ruolo funzionale
del bene sono quindi prioritari rispetto
all'accertamento del suo effettivo status
giuridico, nel senso che il bene, in
mancanza di diverso titolo, deve ritenersi
comune quando, ancorché suscettibile di
utilizzazione autonoma e nel l'esclusivo
interesse di un singolo o di un ristretto
gruppo di privati, serva, per le sue
specifiche caratteristiche, al godimento di
tutte le singole parti dell'edificio e dei
condomini che in esse abitano (così
Cassazione, sentenza 6981/2008). Soltanto a
tali condizioni può ritenersi sussistere il
carattere di condominialità, superabile con
una diversa previsione contenuta nel
regolamento contrattuale o in un singolo
atto di acquisito titolo oppure derivante
anche dall'usucapione.
Sulla base di tale principio la Suprema
corte, con la sentenza n. 22466/2010,
riferendosi a un complesso condominiale
costituito da più unità immobiliari autonome
disposte a schiera, ha stabilito che «il
lastrico solare che assolve alla funzione di
copertura di una sola delle stesse, e non
anche di altri elementi eventualmente comuni
presenti del cosiddetto orizzontale, né sia
caratterizzato da unitarietà strutturale, né
da altri connotati costruttivi e funzionali
tali da denotare la destinazione complessiva
delle aree sovrastanti, i vari immobili
costituenti nel loro insieme un unicum a
servizio e godimento comune» non rientra
tra i beni di cui all'articolo 1117, n. 1,
del codice civile, non potendo qualificarsi
come comune a tutti i partecipanti al
condominio.
La sentenza ha posto così fine a un lungo
contenzioso che era sorto in ordine alle
sopraelevazioni successivamente eseguite dal
costruttore dell'intero complesso
immobiliare su tutti i lastrici solari che,
seppure con struttura indipendente, andavano
a coprire i sottostanti autonomi corpi di
fabbrica posizionati a schiera: il tutto in
forza della proprietà che egli,
nell'alienare le singole costruzioni, si era
riservato sui lastrici stessi, unitamente al
relativo diritto di sopralzo. Tale diritto,
soggetto a trascrizione ex articolo 2645 del
codice civile, non risultava essere però
opponibile a uno degli acquirenti in quanto
non menzionato nell'atto traslativo posto in
essere in suo favore.
Esclusa la configurabilità di bene comune
dei lastrici in questione in quanto
destinati a copertura dei soli singoli
fabbricati, la Cassazione ha accolto il
ricorso proposto da costui, dichiarandolo
proprietario esclusivo del lastrico solare
sovrastante la sua unità immobiliare,
rinviando al giudice di secondo grado per le
decisioni inerenti anche la totale rimozione
della sopraelevazione nel contempo eseguita.
* * *
La lista.
Rientrano in comunione: suolo su cui sorge
l'edificio, fondazioni, muri maestri, tetti
e lastrici solari, scale, portoni
d'ingresso, vestiboli, anditi, portici,
cortili e in genere tutte le parti
dell'edificio necessarie all'uso comune.
Secondo il codice civile sono oggetto di
proprietà comune anche i locali per la
portineria e per l'alloggio del portiere,
per la lavanderia, per il riscaldamento
centrale, per gli stenditoi e per altri
simili servizi in comune.
Opere, installazioni, manufatti che servono
all'uso e al godimento comune (ascensori,
pozzi, cisterne, acquedotti, fognature,
canali di scarico, impianti per l'acqua, il
gas, l'energia elettrica, il riscaldamento e
simili) (commento tratto da
www.ilsole24ore.com). |
CONDOMINIO: Stop ai
danni immaginari.
Lavori in casa, la tranquillità non è un
diritto. La Cassazione dichiara non
meritevoli di risarcimento disagi, fastidi e ansie.
La tranquillità in casa è «sacrosanta». Ma
secondo la Cassazione è un diritto
«immaginario», perciò non risarcibile. In
particolare se nel condomino si
intraprendono lavori lunghi e fastidiosi,
disturbando con immissioni sonore continue
le altre famiglie, non si è tenuti a
risarcire loro il danno non patrimoniale.
Lo ha stabilito la Corte di cassazione che,
con la
sentenza
19.08.2011 n. 17427,
ha accolto il ricorso di una coppia di
Milano che ha impiegato molti mesi per
ristrutturare il suo appartamento,
provocando così fastidiose immissioni sonore
e di polveri. Per questo motivo i
dirimpettai hanno citato in causa la coppia
chiedendo, oltre ai danni patrimoniali,
anche quelli morali, biologici ed
esistenziali. I lavori inoltre hanno causato
anche gravi danni al piano di calpestio
dell'intero locale prospiciente il cortile
del fabbricato.
Il Tribunale meneghino ha accolto l'istanza
sia sul fronte del danno morale sia sul
fronte di quello patrimoniale, liquidando 35
mila euro. La Corte d'appello ha confermato
il verdetto, riducendo tuttavia la misura
del risarcimento a 23 mila euro, fra danni
morali, alla serenità familiare e biologici.
Ma il verdetto è stato ribaltato dalla terza
sezione civile della Cassazione. La Suprema
corte infatti, seguendo quel filone
giurisprudenziale che ha cancellato il danno
esistenziale come figura autonoma, ha
bocciato i cosiddetti danni «immaginari»,
come quello alla serenità familiare.
Il danno non patrimoniale, motivano i
Consiglieri, anche quando sia determinato
dalla lesione di diritti inviolabili della
persona, costituisce danno conseguenza, che
deve essere allegato e provato. In tal caso
non si può parlare di danno evento nel senso
che il pregiudizio non si verifica per il
solo fatto che i lavori siano stati
fastidiosi ma vanno accertate le effettive
sofferenze patite dagli altri condomini.
Insomma, spiega la Corte, «il danno
biologico ha portata tendenzialmente
onnicomprensiva, in quanto il cosiddetto
danno alla vita di relazione ed i pregiudizi
di tipo esistenziale concernenti aspetti
relazionali della vita, conseguenti a
lesioni dell'integrità psicofisica, possono
costituire solo voci del danno biologico,
mentre sono da ritenersi non meritevoli
dalla tutela risarcitoria, quei pregiudizi
che consistono in disagi, fastidi,
disappunti, ansie e in ogni altro tipo di
insoddisfazione concernente gli aspetti più
disparati della vita quotidiana né possono
qualificarsi come diritti risarcibili
diritti del tutto immaginari, come il
diritto alla qualità della vita, allo stato
di benessere, alla serenità. Al di fuori dei
casi determinati dalla legge ordinaria, solo
la lesione di un diritto inviolabile della
persona concretamente individuato è fonte di
responsabilità risarcitoria non
patrimoniale».
Nell'udienza, tenutasi lo scorso 12 maggio,
la Procura generale aveva sollecitato una
soluzione opposta e cioè la conferma del
risarcimento di tutti i danni
(articolo ItaliaOggi
dell'08.09.2011). |
CONDOMINIO: Il
danno al decoro deve tenere il passo coi
tempi.
Ciò che è stato considerato lesivo ieri del
decoro architettonico dell'edificio può non
esserlo oggi, visto che nel tempo cambiano i
gusti e, con essi, il senso estetico comune.
A stabilirlo è la sentenza 19.08.2011 n. 1038 da parte del giudice di pace di
Grosseto.
Nello specifico, in riferimento al
caso di affissione di un condizionatore
sulla facciata di un condominio, il
magistrato toscano ha affermato che «le
nuove invenzioni, quali la televisione e il
telefono, ormai di uso comune, hanno
modificato il comune senso dell'estetica e
del decoro: le antenne televisive installate
sui tetti, le parabole satellitari,
sporgenti dai muri, gli stessi impianti di
climatizzazione, sempre più numerosi, non
vengono più percepiti come causa di
deturpazione dell'estetica delle abitazioni
e, più in generale, dell'ambiente».
Per
questo, nel caso preso in esame non
sussiste, quindi, un danno al decoro
dell'immobile condominiale, non più di
quanto possa arrecare fastidio la vista di
panni stesi alle finestre delle singole
abitazioni o ai muri condominiali
(articolo ItaliaOggi
Sette del 07.11.2011). |
CONDOMINIO: Difesa
degli spazi comuni, ampi poteri per
l'amministratore.
L'amministratore del condominio non ha
bisogno dell'investitura dell'assemblea per
convenire in giudizio il costruttore che ha
occupato abusivamente una porzione di bene
comune e il successivo acquirente del
manufatto edificato che «usurpa» l'area
condominiale.
Lo ha sancito la Corte di
Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza
25.07.2011 n. 16230.
Il caso. La vicenda riguarda un costruttore
che aveva ricavato da un seminterrato un
ampio magazzino, il cui tetto invadeva il
giardino condominiale sottraendo spazio
all'area di proprietà comune.
L'amministratore, senza essere formalmente
investito dall'assemblea del potere di agire
in giudizio, aveva fatto causa all'impresa
edile.
Il tribunale e la Corte d'appello
avevano respinto l'istanza sostenendo che
l'uomo non possedeva la legitimatio ad
causam. Contro questa decisione lui ha
presentato ricorso in Cassazione. La seconda
sezione civile lo ha accolto.
Le motivazioni. Gli Ermellini hanno bocciato
la sentenza di merito secondo la quale
l'amministratore non avrebbe avuto la
legittimazione necessaria a proporre
l'azione per la riduzione in pristino dei
luoghi e il risarcimento dei danni a carico
del costruttore e dell'avente causa di
quest'ultimo.
Insomma: l'amministratore
risulta pienamente legittimato ad agire in
giudizio sulla base del combinato disposto
delle norme di cui agli articoli 1130 e
1131, che gli conferiscono la facoltà di
agire a tutela delle parti comuni. E infatti
l'amministratore si rivolge al giudice per
ristabilire l'integrità del giardino,
stravolta dal manufatto realizzato dal
costruttore. Né all'acquirente del cespite
giova eccepire che ignorava la natura
abusiva della costruzione: può soltanto
dolersi dell'evizione nei confronti del suo
dante causa. Sarà allora il giudice del
rinvio a fare definitivamente chiarezza.
L'amministratore può scrivere all'avvocato
per far rimuovere opere non autorizzate. Si
incardina perfettamente nella giurisprudenza
che ha esteso i poteri degli amministratori
di condominio la sentenza 10347 depositata
dalla Corte di cassazione a maggio di
quest'anno e secondo cui è legittima la
lettere scritta a un legale dal vertice del
condominio, anche dalle tinte colorite, per
far rimuovere un'opera non autorizzata.
In
particolare in quell'occasione l'uomo aveva
chiesto che fosse rimossa una targa di un
avvocato perché deturpava l'estetica dello
stabile. Secondo gli Ermellini si è trattato
di un'attività legittima. Ciò perché, si
legge in sentenza, «qualora l'amministratore
di condominio si rivolga a uno dei condomini
sollecitandogli il rispetto delle leggi o
del regolamento vigenti, non è configurabile
atto di turbativa del diritto qualora egli
abbia agito, secondo ragionevole
interpretazione, nell'ambito dei
poteri-doveri di cui agli artt. 1130 e 1133
c.c.».
I vecchi crediti del condominio possono
essere richiesti dal nuovo amministratore
solo con l'autorizzazione dell'assemblea.
Con la sentenza 279 depositata dalla
Cassazione alla fine di gennaio è stato
affermato un interessante principio che,
questa volta, limita i poteri
dell'amministratore. In particolare secondo
Piazza Cavour, «deve essere dichiarata
l'inammissibilità del ricorso per cassazione
proposto dall'amministratore del condominio,
senza la preventiva autorizzazione
assembleare, eventualmente richiesta anche
in via di ratifica del suo operato, in
ordine a una controversia riguardante i
crediti contestati dal precedente
amministratore revocato, in quanto non
rientrante tra quelle per le quali l'organo
amministrativo è autonomamente legittimato
ad agire ai sensi dell'art. 1130 e 1131,
primo comma cod. civ.
Né può essere concesso il termine per la
regolarizzazione ai sensi dell'art. 182 cod.
proc. civ., ove, come nella specie,
l'udienza di discussione, in precedenza
fissata, sia stata differita proprio sul
rilievo della pendenza della questione dei
poteri dell'amministratore all'esame delle
sezioni unite della Corte di cassazione e la
decisione di quest'ultima sia intervenuta
ben prima della nuova udienza»
(articolo ItaliaOggi del 22.08.2011). |
CONDOMINIO: Condominio,
stop all'abuso.
L'amministratore può intimare la fine delle
violazioni al regolamento - IL CASO - Un
avvocato era stato sollecitato
dall'amministratore a togliere dall'androne
la targa dello studio.
L'emissione dei provvedimenti da parte
dell'amministratore di condominio,
soprattutto se finalizzati a far cessare le
trasgressioni al regolamento, non richiede
una delibera ad hoc. L'amministratore, anche
quando vi siano incertezze o dubbi
interpretativi, può adottare provvedimenti
obbligatori per il condominio (articolo 1133
del Codice civile) contro i quali il
condomino può ricorrere all'assemblea o
proporre direttamente impugnativa ex
articolo 1137. Inoltre, questi provvedimenti
sono atti autoritativi, contenenti
manifestazione di volontà e per essere tali,
devono avere portata precettiva, il che
richiede anche la fissazione di un termine
per adempiere, restando altrimenti meri
pareri e non esercizio di poteri
legittimamente attribuiti
all'amministratore.
L'obbligatorietà non significa però
esecutività, dal momento che contro tali
provvedimenti è ammesso il ricorso
all'assemblea senza pregiudizio del ricorso
all'autorità giudiziaria.
Nella sentenza n. 13689/2011 la Cassazione ha
affrontato il caso di un amministratore che,
con apposita lettera (sollecitata dai
condomini), aveva chiesto a un
condomino-avvocato di rimuovere una targa
professionale apposta, in violazione del
regolamento, nel vano antistante il portone,
e a sostituire la lastra di marmo così
danneggiata.
La targa veniva asportata da ignoti, contro
i quali l'avvocato sporgeva denuncia per
furto e veniva riposizionata; lo stesso
agiva in giudizio contro il condominio e
contro l'amministratore in proprio,
chiedendo, tra l'altro, la nullità del
provvedimento perché adottato in eccesso di
potere e la condanna dei convenuti al
risarcimento dei danni.
Il tribunale rigettava le domande mentre
l'appello degli attori veniva accolto dalla
corte secondo la quale «l'amministratore
avrebbe potuto dar seguito alla
sollecitazione raccolta nel verbale di
assemblea solo prudentemente» e con una
lettera contenente una «mera segnalazione
del problema costituito dalla collocazione
della targa in luogo ritenuto non
consentito».
Una lettera di «chiaro contenuto
precettivo», trasmessa in forma di
raccomandata e con determinazione di un
tempo (dieci giorni) per l'adempimento,
costituirebbe atto illecito con conseguente
responsabilità dell'amministratore (sia
perché l'emissione non era stata autorizzata
dall'assemblea sia perché, anche qualora
l'autorizzazione vi fosse stata,
l'amministratore avrebbe dovuto comunque
prudentemente valutare l'illiceità delle
iniziative affidategli dall'assemblea,
rifiutandosi, se del caso, di darvi
seguito).
Tale prospettazione non è stata condivisa
dalla Cassazione che ha precisato che la
corte di merito aveva sostanzialmente
vanificato il potere dell'amministratore,
per la cui esplicazione non è necessaria una
preventiva delibera assembleare; aveva
trascurato di considerare che, comunque,
l'iniziativa era legittimata dal dovere di
curare l'osservanza del regolamento e che,
al fine di attivarsi per far cessare gli
abusi del condomino, l'amministratore
condominiale non necessita di alcuna previa
delibera condominiale, posto che egli è
tenuto ex lege a curare l'osservanza del
regolamento di condominio al fine di
tutelare l'interesse generale al decoro,
alla tranquillità e all'abitabilità
dell'edificio (Cassazione, sentenza
14735/2006).
Va quindi escluso che l'iniziativa
dell'amministratore costituisse iniziativa
negligente, estranea alla funzione ricoperta
e al rapporto organico con il condominio, al
quale restava imputabile l'atto di difesa
del regolamento.
---------------
Così il Codice civile.
Articolo 1133
I provvedimenti presi dall'amministratore
sono obbligatori per i condomini. Contro
tali provvedimenti è ammesso ricorso
all'assemblea, senza pregiudizio del ricorso
all'autorità giudiziaria nei casi e nel
termine previsti dall'articolo 1137.
Articolo 1137
Contro le deliberazioni contrarie alla legge
o al regolamento di condominio ogni
condomino dissenziente può fare ricorso
all'autorità giudiziaria, ma il ricorso non
sospende l'esecuzione del provvedimento,
salvo che la sospensione sia ordinata
dall'autorità stessa.
Il ricorso deve essere proposto entro 30
giorni, che decorrono dalla data della
deliberazione per i dissenzienti e dalla
data di comunicazione per gli assenti
(articolo Il Sole 24
Ore del 25.07.2011). |
CONDOMINIO: Infiltrazioni?
Paghi metà danno. Spese da dividere quando
il solaio dei box è via d'accesso. Una
sentenza della Cassazione ridisegna la
ripartizione dei lavori di ripristino tra
condomini.
Per le infiltrazioni
d'acqua nel box il proprietario del cortile
sovrastante paga la metà delle spese. Non un
terzo come avviene in caso di lastrico
tradizionale.
È il nuovo principio affermato dalla Corte
di Cassazione con la
sentenza 19.07.2011 n. 15841, che
accoglie il ricorso della proprietaria di un
box auto interessato da infiltrazioni
d'acqua provenienti dal terrazzo-cortile
sovrastante.
Il caso.
A patire le conseguenze dannose dell'umidità
è uno dei box sottostanti al cortile di
proprietà esclusiva di una società. Non si
tratta, tuttavia, di un lastrico
tradizionale. Oltre a svolgere la funzione
di copertura delle autorimesse, l'area è
utilizzata anche come via d'accesso
all'edificio condominiale e vi passano le
auto per fare manovra. Ed è chiaro che
l'usura della pavimentazione è dovuta
all'insieme delle attività, motivo per cui
sarebbe illogico accollare ai proprietari
dei box sottostanti solo un terzo delle
spese necessarie alla riparazione.
Scatta così l'interpretazione analogica
dell'articolo 1125 cc, che divide gli
esborsi a metà fra proprietario del piano
superiore e quello del piano inferiore. Al
primo le riparazioni del pavimento, al
secondo l'intonaco. L'applicazione del
principio di diritto, spiegano i giudici,
non è ostacolata dalla circostanza che il
cortile, seppure di uso comune, sia di
proprietà singolare. Sarà il giudice del
rinvio a mettere la parola «fine»
all'intricata vicenda
(articolo ItaliaOggi
Sette del 05.09.2011). |
CONDOMINIO: Meglio non scivolare sulle scale.
Il condominio non risarcisce chi si
infortuna sulla rampa. Lo ha stabilito la
Corte di cassazione. Bisogna provare il
nesso fra incidente e sporcizia.
Non ha diritto al risarcimento del danno da
parte del condominio chi cade e si infortuna
sulle scale condominiali anche se sporche di
residui di cibo.
Insomma, ha affermato la
Corte di Cassazione con la sentenza
13.07.2011 n.
15390, il condominio si
salva in corner quando, pur essendo la scala
unta e scivolosa, l'infortunato non riesce a
provare il nesso causale fra i residui
alimentari e l'incidente.
Il caso. È successo in uno stabile a Roma.
Un'inquilina era caduta sulle scale sporche
di residui di cibo, unte, aveva sostenuto.
Insomma quel piano non era stato pulito.
Nell'incidente la signora aveva riportato
delle ferite e quindi dei danni. Per questo
si era rivolta al tribunale della Capitale
che, però, le aveva negato il risarcimento.
Contro questa decisione la donna ha proposto
appello.
I giudici territoriali hanno
respinto l'istanza confermando integralmente
il verdetto di primo grado. Ora la
Cassazione, alla quale la donna si è rivolta
insistendo sulle pessime condizioni della
scala, ha reso definitiva la decisione presa
con una doppia conferma dai magistrati
romani. Senza la prova del nesso causale, ha
sancito Piazza Cavour, niente risarcimento.
Le motivazioni. Nell'ambito della
responsabilità ex articolo 2051 del codice
civile è il danneggiato a essere onerato
della prova del nesso di causalità fra la
cosa in custodia e l'evento pregiudizievole.
Secondo l'infortunata la caduta sarebbe
avvenuta solo perché le scale risultavano
sdrucciolevoli a causa degli scarti
alimentari abbandonati sui gradini, ma manca
la dimostrazione certa che la caduta sia
effettivamente riconducibile alla sporcizia
delle scale. Inutile discutere oltre, dicono
gli Ermellini, nonostante la procura
generale della Suprema corte abbia concluso
per l'accoglimento del ricorso della donna.
Che, oltre il danno la beffa, paga anche le
spese processuali.
Muore per una caduta sulle scale di un
negozio: niente risarcimento ai familiari.
Una posizione dello stesso segno è stata
assunta dalla Corte di cassazione (sentenza
8005 del 2010) anche nel caso di morte
dell'infortunato. In particolare l'uomo era
scivolato sulle scale di un negozio di
elettrodomestici, secondo la difesa
sdrucciolevoli. In seguito all'incidente
aveva riportato delle lesioni gravissime e
poi era deceduto. I parenti avevano fatto
causa al proprietario dell'attività per
ottenere il risarcimento del danno. Il
tribunale e la Corte d'appello avevano
respinto l'istanza.
La decisione è stata
confermata dalla Cassazione che, valutati
esaurientemente tutti gli elementi del caso
concreto, ha ritenuto insussistente la
responsabilità ex art. 2051 cod. civ. del
titolare dell'esercizio commerciale, per non
aver gli attori provato che la morte del
proprio congiunto era stata conseguenza
normale della particolare anzidetta
condizione del locale ove era accaduto il
sinistro.
In sostanza secondo gli Ermellini
«la responsabilità prevista dall'art. 2051
cod. civ. per i danni cagionati da cose in
custodia presuppone la sussistenza di un
rapporto di custodia della cosa e una
relazione di fatto tra un soggetto e la cosa
stessa, tale da consentire il potere di
controllarla, di eliminare le situazioni di
pericolo che siano insorte e di escludere i
terzi dal contatto con la cosa; detta norma
non dispensa il danneggiato dall'onere di
provare il nesso causale tra cosa in
custodia e danno, ossia di dimostrare che
l'evento si è prodotto come conseguenza
normale della particolare condizione,
potenzialmente lesiva, posseduta dalla cosa,
mentre resta a carico del custode offrire la
prova contraria alla presunzione “iuris
tantum” della sua responsabilità, mediante
la dimostrazione positiva del caso fortuito,
cioè del fatto estraneo alla sua sfera di
custodia, avente impulso causale autonomo e
carattere di imprevedibilità e di assoluta
eccezionalità».
No al risarcimento all'inquilino derubato se
i ladri entrano dai ponteggi del vicino.
L'esame delle interpretazioni date
all'articolo 2051 (responsabilità delle cose
in custodia) dai giudici di merito e di
legittimità mette in luce una certa
difficoltà nell'ottenere il risarcimento del
danno da parte del proprietario del bene.
La
sentenza n. 7722 depositata dalla Cassazione
ad aprile di quest'anno testimonia ancora
una volta come, soprattutto in ambito
condominiale, sia complicato ottenere il
ristoro per il danno subito in seguito alla
pessima manutenzione del bene del vicino. In
particolare in questo caso la terza sezione
civile ha respinto la richiesta di
risarcimento avanzata dal proprietario di un
appartamento che era stato derubato
facilmente perché i ladri erano entrati
dalle impalcature montate dal vicino per
ristrutturare la casa.
Secondo il Collegio
di legittimità, «nel caso di furto in
appartamento che il derubato assume essere
stato facilitato dalla mancata rimozione dei
ponteggi per lavori edili da parte del suo
vicino deve essere esclusa la presunzione di
responsabilità che graverebbe sul custode:
il criterio di imputazione di cui
all'articolo 2051 c.c. comporta sì la
responsabilità del custode per i danni
cagionati dalla cosa (salvo che si provi il
fortuito) ma non comporta affatto la
presunzione di nesso causale fra la cosa e
il danno, nesso che deve comunque essere
provato dal danneggiato; ciò è certamente
possibile tramite un procedimento di
inferenza induttiva (presunzione), che
risulta tuttavia inevitabilmente correlato
all'apprezzamento delle circostanze
concrete; valutazione che compete al giudice
del merito e risulta infondatamente
censurata sotto il profilo del vizio della
motivazione laddove esclude il nesso causale
fra le impalcature e il furto in relazione
alla possibilità di tre diverse modalità di
accesso alla casa svaligiata dai ladri»
(articolo ItaliaOggi del 22.08.2011). |
CONDOMINIO:
COMUNIONE E CONDOMINIO -
CONDOMINIO - INNOVAZIONI E MODIFICHE - Parti
comuni - Assemblea - Delibera - Maggioranza
- Legittimità - Condizioni.
La delibera assembleare di destinazione di
aree condominiali scoperte in parte a
parcheggio autovetture dei singoli condomini
ed in parte a parco giochi ha ad oggetto
un'innovazione diretta al miglioramento o
all'uso più comodo o al maggior rendimento
della cosa comune.
La deliberazione di destinazione a
parcheggio di un cortile è diretta a
disciplinare le modalità d'uso del detto
bene comune, stabilendo, in entrambi i casi,
la legittimità delle delibere adottate anche
soltanto a maggioranza (Corte di Cassazione,
Sez. VI, ordinanza 12.07.2011 n. 15319
- commento tratto da
www.diritto24.ilsole24ore.com). |
CONDOMINIO:
Telecamere in un condominio?
Dipende da dove puntano.
Il singolo condomino non può autonomamente
installare un impianto di videosorveglianza
che riprenda parti comuni dell'edificio,
neppure a scopo di tutela della sua
sicurezza, messa in pericolo da atti
vandalici e/o tentativi di effrazione.
Così ha deciso il TRIBUNALE di Varese con l'ordinanza
16.06.2011 n. 1273, ritenendo
che perché possa installarsi legittimamente
detto impianto è necessario il consenso
espresso di tutti i condòmini.
A seguito di alcuni tentativi di effrazione
e di atti vandalici subiti, un condomino, di
propria iniziativa, aveva fatto installare
un impianto di videosorveglianza con tre
telecamere: la prima montata sul
pianerottolo del primo piano che inquadrava
parzialmente la porta di ingresso di altri
condòmini, la seconda che puntava sul
portone di accesso al fabbricato e sul
garage e l’ultima che riprendeva una vecchia
serra. A tale iniziativa reagivano gli altri
condòmini, sottoponendo al Tribunale di
Varese la descritta situazione e chiedendo
di dichiararne l’illegittimità con
conseguente rimozione dell’impianto stesso,
in via cautelare, sul presupposto che il
sistema era destinato a riprendere immagini
degli spazi comuni con conseguente
violazione della privacy e della
riservatezza dei condomini.
La questione giuridica affrontata concerne,
in sostanza, la liceità del comportamento di
un singolo condomino che, senza previa
delibera assembleare, installi, al fine di
tutelare la propria personale sicurezza, un
impianto di videosorveglianza che riprenda
anche aree condominiali comuni, con
conseguente sacrificio del diritto alla
riservatezza degli altri condomini e di
terzi tutelato direttamente dall’art. 2 Cost..
E’ ormai orientamento consolidato che il
siffatto comportamento, anche se assunto
contro la volontà degli altri
comproprietari, non integra il reato di
interferenze illecite nella vita privata di
cui all’art. 615-bis c.p. in quanto la
tutela penale del domicilio è limitata a ciò
che avviene in luoghi di provata dimora, non
visibili ad estranei.
Ciò soprattutto se gli altri condomini siano
a conoscenza dell'esistenza delle telecamere
e possano visionarne in ogni momento le
riprese: “l’esposizione alla vista di
terzi di un'area che costituisce pertinenza
domiciliare e che non è destinata a
manifestazioni di vita privata esclusive è
incompatibile con una tutela penale della
riservatezza, anche ove risultasse che
manifestazioni di vita privata in quell'area
siano state in concreto, inaspettatamente,
realizzate” (Cass. pen.
21.10–26.11.2008, n. 44156, Cass. pen.
30.10.2008, n. 40577, Cass. SS. UU. pen.
28.03.2006 n. 26795, Corte costituzionale n.
149/2008).
Non così pacifica è, invece, la valutazione
della liceità del descritto comportamento
dal punto di vista civile.
La materia sottoposta al vaglio del
Tribunale si presenta alquanto spinosa e
controversa. Di certo vi è che, nonostante i
solleciti provenienti da più parti, manca
una disciplina normativa che attui la
riserva di legge prevista dall’art. 14 Cost..
In attesa che venga colmata questa lacuna,
il Garante per la Privacy è intervenuto più
volte per stabilire alcuni punti fermi.
In primo luogo vi è da precisare che
l'installazione di tali impianti, se
effettuata nei pressi di immobili privati e
all'interno di condomìni e loro pertinenze,
non è soggetta al Codice in materia di dati
personali (D.Lgs. 196/2003) quando i dati
non sono comunicati sistematicamente o
diffusi. Nonostante ciò, richiede comunque
l'adozione di cautele a tutela dei terzi
(art. 5, comma 3, del Codice).
In particolare le riprese devono essere
limitate esclusivamente agli spazi di
propria esclusiva pertinenza (ad esempio
quelli antistanti l'accesso alla propria
abitazione) escludendo ogni forma di
ripresa, anche senza registrazione di
immagini, relative ad aree comuni (cortili,
pianerottoli, scale, garage comuni) o
antistanti l'abitazione di altri condomini.
Quando invece la ripresa delle aree
condominiali è effettuata da più condomini o
dal condominio trova applicazione il citato
Codice.
L'installazione di questi impianti è
ammissibile esclusivamente per assicurare la
sicurezza di persone e la tutela di beni da
concrete situazioni di pericolo, di regola
costituite da illeciti già verificatisi,
oppure nel caso di attività che comportano,
ad esempio, la custodia di denaro, valori o
altri beni (recupero crediti, commercio di
preziosi o di monete aventi valore
numismatico).
Poiché, ad ogni modo, comporta
l'introduzione di una limitazione e comunque
di un condizionamento per i cittadini, deve
essere rifiutato ogni uso superfluo nonché
ogni utilizzazione eccessiva rispetto allo
scopo da raggiungere. Scopo che deve essere
determinato, esplicito e legittimo e,
soprattutto, di pertinenza del titolare
dell’impianto.
Per questo motivo possono essere attivati
soltanto quando altre misure (ad esempio:
controlli da parte di addetti, sistemi di
allarme, misure di protezione degli
ingressi, abilitazioni agli ingressi) siano
insufficienti o inattuabili e, per questo
motivo, anche l'installazione meramente
dimostrativa o artefatta di telecamere non
funzionanti o per finzione, anche se non
comporta trattamento di dati personali, può
essere legittimamente oggetto di
contestazione.
Sulla scorta di tale quadro si è formata una
giurisprudenza di merito, non essendovi
ancora sul punto pronunce della Suprema
Corte, compattamente orientata nel senso che
non esiste un potere spettante a ciascun
condomino di installare impianti di
videosorveglianza, soprattutto se orientati
su parti condominiali, in quanto ciò
comporta una evidente compressione e lesione
del diritto all’altrui riservatezza, non
giustificata da un interesse altrettanto
forte e ampio, considerando che l’esigenza
di tutela possa far capo ad uno solo dei
condòmini, mentre il diritto alla
riservatezza riguarda tutti gli altri (in
tal senso Trib. Nola, sez. II civ., ord.
03.02.2009, Trib. Milano, 06.04.1992).
Condividendo tali assunti, la sentenza in
esame, tenuto conto che, nel caso concreto,
le telecamere erano state “puntate” non
soltanto sulla proprietà esclusiva del
condomino installatore ma anche su aree
comuni e ritenendo che “il condomino non
abbia alcun potere di installare, per sua
sola decisione, delle telecamere in ambito
condominiale idonee a riprendere spazi
comuni o addirittura spazi esclusivi degli
altri condomini”, ha qualificato
illecito tale comportamento con il
conseguente ordine di eliminare le
telecamere posizionate.
Ma il Tribunale di Varese si spinge oltre
statuendo che neppure l’assemblea
condominiale può deliberare l’installazione
dell’impianto di videosorveglianza, in
quanto lo scopo della tutela dell'incolumità
delle persone e delle cose dei condòmini,
non essendo finalizzata a servire i beni
comuni e concretandosi in una lesione di un
diritto fondamentale della persona tutelato
direttamente dall’art. 2 Cost., esula dalle
attribuzioni dell'assemblea stessa (conforme
Tribunale di Salerno ordinanza del
14.12.2010).
Ed infatti “i singoli condòmini non
possono giammai sopportare, senza il loro
consenso, una ingerenza nella loro
riservatezza seppur per il fine di sicurezza
di chi video-riprende. Né l’assemblea può
sottoporre un condomino ad una rinuncia a
spazi di riservatezza solo perché abitante
del comune immobile, non avendo il
condominio alcuna potestà limitativa dei
diritti inviolabili della persona.
Peraltro, nell’ottica del cd. balancing
costituzionale, la videoripresa di
sorveglianza può ben essere sostituita da
altri sistemi di protezione e tutela che non
compromettono i diritti degli altri
condomini, offrendo quindi un baricentro in
cui i contrapposti interessi possono
convivere”.
Pertanto, il sistema di videosorveglianza
può essere installato soltanto nel caso in
cui la decisione sia deliberata
all’unanimità dai condomini, perfezionandosi
in questo caso un comune consenso idoneo a
fondare effetti tipici di un negozio
dispositivo dei diritti coinvolti e, quindi,
con il consenso espresso, libero e
documentabile per iscritto come prescritto
dall’art. 23 del Codice in materia di
protezione dei dati personali (23.09.2011
- tratto da www.ipsoa.it). |
CONDOMINIO:
No alle telecamere installate dal
condomino per la sua sicurezza.
Il condomino non può installare delle telecamere di
controllo riprendendo gli ambienti condominiali comuni.
Anche se l’installazione è a tutela della propria sicurezza
ed è stata fatta a seguito di diversi furti ed effrazioni.
L’impianto va dunque rimosso immediatamente a spese del
condomino che lo ha installato e sotto la sua
responsabilità.
Lo ha stabilito Tribunale di Varese, Sez. I civile, con l'ordinanza
16.06.2011 n. 1273.
Secondo il giudice, infatti, “nel silenzio della Legge”,
il condomino non ha “alcun potere di installare, per sua
sola decisione, delle telecamere in ambito condominiale,
idonee a riprendere spazi comuni o addirittura spazi
esclusivi degli altri condomini”. Non solo ma secondo il
tribunale “nemmeno il Condominio ha la potestà normativa
per farlo, eccezion fatta per il caso in cui la decisione
sia deliberata all’unanimità dai condomini, perfezionandosi
in questo caso un comune consenso idoneo a fondare effetti
tipici di un negozio dispositivo dei diritti coinvolti”.
Ci troviamo di fronte ad “un vero e proprio vacuum legis
in questa materia, al cospetto di diritti fondamentali
presidiati dalla Costituzione, come quello alla riservatezza
e alla vita privata (difeso dalla Convenzione Europea dei
diritti dell’Uomo all’art. 8)”. Infatti, “il
condominio è un luogo di incontri e di vite in cui i singoli
condomini non possono giammai sopportare, senza il loro
consenso, una ingerenza nella loro riservatezza seppur per
il fine di sicurezza di chi video-riprende. Né l’assemblea
può sottoporre un condomino ad una rinuncia a spazi di
riservatezza solo perché abitante del comune immobile, non
avendo il condominio alcuna potestà limitativa dei diritti
inviolabili della persona”.
In assenza di una norma specifica, sono troppi e rilevanti i
problemi posti dalle videoriprese (motivo per cui il Garante
sollecitava l’intervento del Legislatore): “1) che
utilizzo può essere fatto delle videoriprese che vengono
acquisite dal singolo proprietario? 2) che garanzie spettano
a chi viene ripreso anche occasionalmente dalle telecamere?
3) che limiti incontra la videoripresa rispetto ai soggetti
più vulnerabili come minori e incapaci?”
Per tutte queste ragioni, secondo il tribunale, “Il
periculum in mora […] è in re ipsa, trattandosi di diritti
fondamentali e della personalità che ad ogni lesione si
consumano senza possibilità di ripristino dello status quo
ante”. “Peraltro, nel caso di specie, -conclude il giudice-
l’utilizzo delle telecamere ha causato un impoverimento
delle attività quotidiane della parte ricorrente e anche
stati soggettivi che militano verso la patologia. Una
situazione che richiede urgente e immediata tutela”
(commento tratto da e link a
www.diritto24.ilsole24ore.com). |
CONDOMINIO: Sulla
questione della necessità o meno di acquisire l’assenso del
Condominio, nel caso in cui un condòmino chieda un titolo
edilizio per realizzare opere sulle parti comuni di un
edificio, sono state espresse in giurisprudenza opinioni
diverse.
Sulla questione della necessità
o meno di acquisire l’assenso del Condominio, nel caso in
cui un condomino chieda un titolo edilizio per realizzare
opere sulle parti comuni di un edificio, sono state espresse
in giurisprudenza opinioni diverse.
In generale si è infatti sostenuto che nessun assenso deve
essere richiesto dal Comune, posto che il condomino possiede
una propria legittimazione a richiedere il titolo, e che lo
stesso viene, in ogni caso, rilasciato “con salvezza dei
diritti dei terzi”. Si è altresì affermato che i
problemi dell’uso delle parti comuni di un edificio
costituiscono questione squisitamente civilistica, di cui il
Comune non ha ragione di interessarsi.
Tale (peraltro, in linea general, condivisibile)
giurisprudenza ha comunque evidenziato che la regola soffre
talora di eccezioni, dovute alle peculiarità con cui le
singole fattispecie si presentano.
In particolare, C.S. n. 437/2009 ha stabilito che, quando un
condomino abbia realizzato (come nel presente caso) un abuso
su aree comuni “l’Amministrazione debba chiedere
all’istante, in applicazione delle norme generali in tema di
rilascio della concessione edilizia, di provare di avere la
disponibilità piena dell’area interessata all’abuso e,
quindi, di provare, quanto meno per fatti concludenti ma
comunque in modo positivo, l’assenso degli altri
comproprietari”.
Allo stesso modo, Tar Liguria n. 192/2010 (che richiama
anche C.S. n. 1654/2007) ha ritenuto che “ciò che rileva
è che i lavori edilizi de quibus debbono eseguirsi (anche)
su parti comuni del fabbricato e non riguardino opere
connesse all’uso normale della cosa comune”; in tal
caso, l’Amministrazione comunale è tenuta, “ai fini del
rilascio della relativa concessione, a richiedere il
consenso di tutti i proprietari”.
In fattispecie molto simile si è espresso anche TAR
Calabria-Reggio, con la recente decisione n. 343/2011,
aderendo all’orientamento interpretativo secondo cui nel
procedimento di rilascio dei titoli edilizi, “l’Amministrazione
ha il potere ed il dovere di verificare l’esistenza, in capo
al richiedente, di un idoneo titolo di godimento
sull’immobile interessato dal progetto … per cui, in caso di
opere che vadano ad incidere sul diritto di altri
comproprietari (quali le opere edilizie interessanti
porzioni condominiali comuni), è legittimo esigere il
consenso degli stessi o pretendere la produzione della
dichiarazione di assenso dell’amministrazione condominiale
anche nelle ipotesi di autorizzazioni in sanatoria, in
quanto il contitolare del bene può essere estraneo all’abuso
ed avere un interesse contrario alla sanatoria di opere che
potrebbero risolversi in danno del medesimo”.
Le suesposte argomentazioni, che il Collegio condivide,
hanno ancora maggior rilievo nel caso di specie, considerato
che alcuni condomini dapprima e, in seguito, il Condominio
stesso si sono inseriti nel procedimento di rilascio
dell’autorizzazione a sanatoria di cui trattasi,
manifestando il proprio dissenso alle opere che, secondo la
loro prospettazione, incidevano negativamente sul diritto di
uso delle parti comuni che spetta a ciascun condomino,
ponendo in luce in particolare come -segnatamente le canne
fumarie- inducessero limiti all’uso individuale. Secondo TAR
Campania-Napoli n. 26817/2010, sussiste un vero e proprio
obbligo per l’Amministrazione di verificare “la
legittimazione ad effettuare l'intervento, soprattutto
quando vi sia stata in sede procedimentale un’espressa
opposizione da parte di terzi condomini”.
Nello stesso senso è anche C.S. n. 1537/2010, che
esplicitamente dichiara che, in caso contrario, “l'Amministrazione
finirebbe per legittimare una sostanziale appropriazione di
spazi condominiali da parte del singolo condomino, in
presenza di una possibile volontà contraria degli altri, i
quali potrebbero essere, al contrario, interessati
all’eliminazione dell’abuso”.
La posizione contraria manifestata dal Condominio risulta
inoltre ulteriormente rafforzata dalla decisione del
Tribunale di Trieste del 24.09.2008, che ha rigettato la
domanda presentata dei ricorrenti avverso la delibera
dell’assemblea condominiale che negava l’assenso ai lavori,
avendo ritenuto che tale deliberazione “non abbia inciso
su diritti della proprietà privata essendo l’uso particolare
e più intenso del bene comune da parte del condomino (e la
relativa indagine in merito all’eventuale compressione
quantitativa o qualitativa del pari utilizzo, attuale o
potenziale, di tutti i comproprietari) questione di ordine
condominiale, disciplinata proprio dalle norme che regolano
i rapporti tra proprietà individuali e beni condominiali”.
Né rileva, ai nostri fini, il richiamo alla decisione n.
11/2006 del Consiglio di Stato, che ha bensì ammesso la
possibilità del singolo condomino di installare una canna
fumaria (come nel presente caso, al servizio di un
ristorante) lungo un muro condominiale, anche senza
l’assenso del Condominio, “purchè non impedisca agli
altri condomini l’uso del muro comune e non ne alteri la
normale destinazione”, che è invece proprio quanto è
avvenuto nel nostro caso.
In queste condizioni -presenza di esplicito e motivato
dissenso del Condominio, unito alla decisione del Giudice
Ordinario che ha ravvisato la correttezza della delibera
assembleare che negava l’assenso ai lavori- legittimamente,
ad avviso del Collegio, il Comune ha negato la richiesta
sanatoria delle opere abusivamente realizzate
(TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 26.05.2011 n. 258 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO:
Quando un condòmino ha realizzato un abuso su aree comuni
“l’Amministrazione comunale deve chiedere all’istante, in
applicazione delle norme generali in tema di rilascio della
concessione edilizia, di provare di avere la disponibilità
piena dell’area interessata all’abuso e, quindi, di provare,
quanto meno per fatti concludenti ma comunque in modo
positivo, l’assenso degli altri comproprietari”.
L’Amministrazione ha il potere ed il dovere di verificare
l’esistenza, in capo al richiedente, di un idoneo titolo di
godimento sull’immobile interessato dal progetto … per cui,
in caso di opere che vadano ad incidere sul diritto di altri
comproprietari (quali le opere edilizie interessanti
porzioni condominiali comuni), è legittimo esigere il
consenso degli stessi o pretendere la produzione della
dichiarazione di assenso dell’amministrazione condominiale
anche nelle ipotesi di autorizzazioni in sanatoria, in
quanto il contitolare del bene può essere estraneo all’abuso
ed avere un interesse contrario alla sanatoria di opere che
potrebbero risolversi in danno del medesimo”.
Sulla questione della necessità
o meno di acquisire l’assenso del Condominio, nel caso in
cui un condòmino chieda un titolo edilizio per realizzare
opere sulle parti comuni di un edificio, sono state espresse
in giurisprudenza opinioni diverse.
In generale si è infatti sostenuto che nessun assenso deve
essere richiesto dal Comune, posto che il condomino possiede
una propria legittimazione a richiedere il titolo, e che lo
stesso viene, in ogni caso, rilasciato “con salvezza dei
diritti dei terzi”. Si è altresì affermato che i
problemi dell’uso delle parti comuni di un edificio
costituiscono questione squisitamente civilistica, di cui il
Comune non ha ragione di interessarsi.
Tale (peraltro, in linea general, condivisibile)
giurisprudenza ha comunque evidenziato che la regola soffre
talora di eccezioni, dovute alle peculiarità con cui le
singole fattispecie si presentano.
In particolare, C.S. n. 437/2009 ha stabilito che, quando un
condòmino abbia realizzato (come nel presente caso) un abuso
su aree comuni “l’Amministrazione debba chiedere
all’istante, in applicazione delle norme generali in tema di
rilascio della concessione edilizia, di provare di avere la
disponibilità piena dell’area interessata all’abuso e,
quindi, di provare, quanto meno per fatti concludenti ma
comunque in modo positivo, l’assenso degli altri
comproprietari”.
Allo stesso modo, Tar Liguria n. 192/2010 (che richiama
anche C.S. n. 1654/2007) ha ritenuto che “ciò che rileva
è che i lavori edilizi de quibus debbono eseguirsi (anche)
su parti comuni del fabbricato e non riguardino opere
connesse all’uso normale della cosa comune”; in tal
caso, l’Amministrazione comunale è tenuta, “ai fini del
rilascio della relativa concessione, a richiedere il
consenso di tutti i proprietari”.
In fattispecie molto simile si è espresso anche TAR
Calabria-Reggio, con la recente decisione n. 343/2011,
aderendo all’orientamento interpretativo secondo cui nel
procedimento di rilascio dei titoli edilizi, “l’Amministrazione
ha il potere ed il dovere di verificare l’esistenza, in capo
al richiedente, di un idoneo titolo di godimento
sull’immobile interessato dal progetto … per cui, in caso di
opere che vadano ad incidere sul diritto di altri
comproprietari (quali le opere edilizie interessanti
porzioni condominiali comuni), è legittimo esigere il
consenso degli stessi o pretendere la produzione della
dichiarazione di assenso dell’amministrazione condominiale
anche nelle ipotesi di autorizzazioni in sanatoria, in
quanto il contitolare del bene può essere estraneo all’abuso
ed avere un interesse contrario alla sanatoria di opere che
potrebbero risolversi in danno del medesimo”.
Le suesposte argomentazioni, che il Collegio condivide,
hanno ancora maggior rilievo nel caso di specie, considerato
che alcuni condòmini dapprima e, in seguito, il Condominio
stesso si sono inseriti nel procedimento di rilascio
dell’autorizzazione a sanatoria di cui trattasi,
manifestando il proprio dissenso alle opere che, secondo la
loro prospettazione, incidevano negativamente sul diritto di
uso delle parti comuni che spetta a ciascun condomino,
ponendo in luce in particolare come -segnatamente le canne
fumarie- inducessero limiti all’uso individuale.
Secondo TAR Campania-Napoli n. 26817/2010, sussiste un vero
e proprio obbligo per l’Amministrazione di verificare “la
legittimazione ad effettuare l'intervento, soprattutto
quando vi sia stata in sede procedimentale un’espressa
opposizione da parte di terzi condomini”. Nello stesso
senso è anche C.S. n. 1537/2010, che esplicitamente dichiara
che, in caso contrario, “l'Amministrazione finirebbe per
legittimare una sostanziale appropriazione di spazi
condominiali da parte del singolo condomino, in presenza di
una possibile volontà contraria degli altri, i quali
potrebbero essere, al contrario, interessati
all’eliminazione dell’abuso”
(TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 26.05.2011 n. 258 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO: 1.
Cortile - Uso - Mancanza di previsioni
regolamentari o assembleari - Applicabilità
dell'art. 1102 cod. civ. - Sussiste.
2.
Cortile - Uso - Parcheggio temporaneo o
periodico di autovetture - Compatibilità con
l'art. 1102 cod. civ. - Sussiste -
Realizzazione permanente di posti auto -
Compatibilità con l'art. 1102 cod. civ. -
Non sussiste.
1. Sull'uso del cortile condominiale, in
mancanza di previsioni specifiche del
regolamento condominiale o di deliberazioni
assembleari sul punto, non può che
applicarsi la generale previsione dell'art.
1102 cod. civ., per la quale ogni
partecipante alla comunione può servirsi
della cosa comune "purché non ne alteri la
destinazione e non impedisca agli altri
partecipanti di farne parimenti uso", tenuto
conto che lo stesso partecipante "non può
estendere il suo diritto sulla cosa comune
in danno degli altri partecipanti".
2. È compatibile con la previsione dell'art.
1102 cod. civ. il solo parcheggio temporaneo
o periodico di autovetture nel cortile
comune, ma non la realizzazione permanente
di posti auto nel medesimo, visto che il
rispetto del rapporto di cui all'art. 41-sexies,
L. n. 1150/1942 implica necessariamente il
reperimento di spazi e l'occupazione in via
esclusiva e permanente del cortile comune
con le autovetture
(tratto da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 18.05.2011 n.
1279 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Lavori edilizi interessanti parti comuni
di un fabbricato - Assenso dei comproprietari - Art. 11, c.
1, d.P.R. n. 380/2001 - Verifica dell’esistenza in capo al
richiedente di un titolo attributivo dello ius aedificandi.
Ove i lavori edilizi interessino anche parti comuni del
fabbricato e si tratti di opere non connesse all’uso normale
della cosa comune, essi abbisognano del previo assenso dei
comproprietari anche in relazione agli aspetti pubblicistici
dell’attività edificatoria, con particolare riguardo alle
norme (art. 4 della legge n. 10 del 1977 e art. 11, comma 1,
del d.P.R. n. 380 del 2001), che prevedono la verifica
dell'esistenza, in capo al richiedente, di titolo un
attributivo dello ius aedificandi sull'immobile
oggetto di trasformazione edilizia (fattispecie: locale
tecnico addossato al muro comune) (cfr. Cons. Stato, Sez. IV
11.04.2007 n. 1654) (TAR LOMBARDIA-Brescia, Sez. I,
sentenza 05.05.2011 n. 662 - link a
www.ambientediritto.it). |
CONDOMINIO: Addio
al risarcimento per l'acqua in cantina se
l'impresa chiude. Il Tribunale di Piacenza:
per i coniugi oltre 4 mila euro di spese
giudiziarie.
Infiltrazioni d'acqua in
cantina, se il costruttore-venditore chiude
niente ristoro ai proprietari. Non ha
infatti diritto al risarcimento per le
infiltrazioni d'acqua il proprietario della
cantina se il venditore-costruttore ha
chiuso i battenti.
Lo ha sancito il TRIBUNALE di Piacenza (sentenza
14.04.2011 n. 313) che ha negato il
ristoro ai proprietari di un locale cantina
danneggiato dalle infiltrazioni d'acqua.
In particolare una coppia di coniugi,
proprietaria di una cantina infiltrata
dall'acqua per via delle grondaie e delle
fogne, fa causa alla società
costruttrice-venditrice, ai soci e al
condominio. Ma non viene risarcita e anzi
paga anche le spese di giudizio. L'azienda
immobiliare risulta infatti essere stata
sciolta prima della riforma ex articolo dlgs
6/2003, che, modificando l'articolo 2495,
comma 2, sancisce l'estinzione della società
al momento dell'iscrizione della
cancellazione nel registro delle imprese. E
ciò, diversamente che in passato,
indipendentemente dall'esaurimento o meno
del procedimento di liquidazione e dal
persistere o meno di debiti o crediti
sociali. Risultato: l'impresa
costruttrice-venditrice non può essere
citata in giudizio.
Per le cancellazioni effettuate in epoca
precedente all'01.01.2004, è da quest'ultima
data che deve comunque ritenersi avvenuta
l'estinzione della società. Inutile poi
pretendere dai soci della compagine
disciolta l'eliminazione dei vizi della
cantina laddove la domanda proposta ex
articolo 1669 cc legittima i proprietari
dell'immobile a chiedere il risarcimento del
danno e non la riduzione in pristino:
l'azione di esatto adempimento è collegata a
un rapporto contrattuale e non può essere
espressione della responsabilità
extracontrattuale.
Idem per il condominio, chiamato in causa ex
articolo 2051 cc: anche la responsabilità da
custodia ha natura contrattuale. Per
ottenere una pronuncia giudiziale che
imponesse l'esecuzione dei lavori la coppia
di coniugi avrebbe dovuto adire l'autorità
giudiziaria ex articolo 1105 ultimo comma
cc. Alla fine non solo la cantina è rimasta
così com'era. Ma i coniugi proprietari
devono pagare anche oltre 4 mila euro di
spese di giudizio
(articolo ItaliaOggi
Sette del 05.09.2011). |
CONDOMINIO:
Riforma del condominio approvata dal Senato.
Via libera del Senato al disegno di legge di riforma della
disciplina sul condominio. Nella seduta antimeridiana del
26.01.2011, infatti, l'Assemblea di Palazzo Madama ha
approvato in prima lettura, con il nuovo titolo "Modifiche
alla disciplina del condominio negli edifici", il testo
unificato dei disegni di legge nn. 71, 355, 399, 119 e 1283,
recante "Modifiche al codice civile in materia di
disciplina del condominio negli edifici". ... (link a
www.acca.it). |
CONDOMINIO:
La pubblicazione di Confedilizia “La disciplina giuridica
del condominio con gli adempimenti degli amministratori di
condominio”.
L’Ufficio legale della Confedilizia (associazione dei
proprietari di immobili) ha curato la redazione della
pubblicazione “La disciplina giuridica del condominio con
gli adempimenti degli amministratori di condominio”.
La pubblicazione analizza le disposizioni vigenti in materia
di condominio (contenute nel codice civile, nelle
disposizioni attuative e nel codice di procedura civile) e
la normative riguardante:
- Antenne e radiotelecomunicazioni;
- Ascensore;
- Barriere architettoniche;
- Fisco;
- Inquinamento acustico;
- Locazioni;
- Prvenzione incendi;
- Privacy;
- Riscaldamento e risparmio energetico;
- Sicurezza impianti.
In allegato la pubblicazione riporta inoltre le tabelle:
- delle maggioranze assembleari;
- sulla partecipazione alle spese condominiali dei condomini
proprietari di posti auto siti in autorimesse;
- degli oneri accessori concordata tra confedilizia e sunia.
Confedilizia precisa che la pubblicazione non riporta la
normativa riguardante le agevolazioni fiscali sulle
ristrutturazioni edilizie e sul risparmio energetico dato il
loro carattere temporaneo (13.01.2011 - link a www.acca.it). |
CONDOMINIO: Reflue
in casa, niente bonus a chi non ne prende
possesso.
Niente agevolazioni fiscali per chi non
prende possesso della casa per via delle
infiltrazioni. Il contribuente che non va ad
abitare nell'immobile acquistato entro i 18
mesi successivi al rogito, motivando la
mancata presa di possesso dell'abitazione
con delle infiltrazione d'acqua provenienti
dal piano superiore, non avrà diritto alle
agevolazioni «prima casa».
Lo ha sancito la Corte di Cassazione che,
con la sentenza 26.01.2010 n. 1392,
ha respinto il ricorso dell'acquirente di un
immobile che non aveva preso la residenza
nella nuova abitazione a causa delle
infiltrazioni d'acqua provenienti dal piano
superiore.
La sezione tributaria ha completamente
capovolto il verdetto di merito che, sia in
primo sia in secondo grado, era stato
favorevole ai contribuenti. I giudici di
legittimità hanno così motivato la sentenza:
«A prescindere da ogni altra
considerazione una infiltrazione di acque
reflue in un appartamento non rappresenta in
sé un impedimento avente le caratteristiche
della forza maggiore se non in caso di prova
del momento della sua insorgenza, del suo
protrarsi, ovvero di eventuali complicanze
idonee a rendere particolarmente lunga e
difficile la riparazione e a impedire in
modo assoluto e per tutto il tempo a
disposizione non solo la presenza
nell'immobile ma, in ogni caso,
l'ottenimento del trasferimento della
residenza anagrafica» (articolo
ItaliaOggi Sette del 05.09.2011). |
CONDOMINIO: Sì al diritto di critica verso
l'amministratore.
Definire pubblicamente latitante e
incompetente l'amministratore di condominio
non è un reato ma un semplice diritto di
critica.
A stabilirlo è la Corte di Cassazione, Sez.
V penale con la
sentenza
31.01.2011 n. 3372, in riferimento al caso
di una condòmina che ha affisso nell'atrio
dello stabile un volantino in cui si
alludeva alla presunta latitanza
dell'amministratore di condominio,
accusandolo di incassare il denaro senza
però provvedere alla manutenzione
dell'immobile.
Nel volantino si chiedeva, inoltre, la
sostituzione dell'amministratore. Che ha
risposto denunciando la donna per
diffamazione e ingiuria. Il Gup ha disposto
il non luogo a procedere nei confronti della
condòmina e contro tale decisione
l'amministratore è ricorso per Cassazione.
La Suprema corte ha però bocciato il ricorso
poiché, nel caso in esame, sussiste la
discriminante del diritto di critica, che, a
differenza del diritto di cronaca, si
caratterizza proprio per l'espressione di un
giudizio o di un'opinione, che in quanto
tale, non può considerarsi rigorosamente
obiettivo, posto che la critica, per sua
natura, si fonda su un'interpretazione,
necessariamente soggettiva, di fatti e
comportamenti.
Quindi, secondo la
Cassazione, l'imputata, rivolgendo delle
critiche all'operato dell'amministratore per
le gravi carenze di manutenzione del palazzo
e invitando gli altri condomini ad
attivarsi, ha esercitato non solo il diritto
di libera manifestazione del proprio
pensiero, ma anche quello più specifico,
come condomino dello stabile, di controllare
l'operato dell'amministratore e di
denunciare le eventuali irregolarità
riscontrate.
Pertanto, le espressioni usate dalla donna
non costituiscono un'aggressione gratuita
alla sfera morale dell'amministratore, ma
solo una censura delle attività non svolte.
In questo senso, secondo la Suprema corte,
la parola latitante è stata usata nel senso
corrente di qualcuno che evita di farsi
vedere per non rispettare i suoi doveri, per
i quali è pagato
(articolo ItaliaOggi
Sette del 09.01.2012). |
CONDOMINIO: Riparazione
dei balconi aggettanti e frontalini: oneri
di ripartizione.
In tema di parti comuni e relativo obbligo
di manutenzione vige una disciplina
differente per i balconi cosiddetti
“aggettanti” e per gli elementi decorativi
presenti sugli stessi.
I balconi aggettanti, i
quali sporgono dalla facciata dell'edificio,
costituiscono solo un prolungamento
dell'appartamento dal quale protendono e
rientrano nella proprietà esclusiva dei
titolari degli appartamenti cui accedono.
Non fungono da copertura del piano inferiore
in quanto essi, dal punto di vista
strutturale sono del tutto autonomi rispetto
agli altri piani, poiché possono sussistere
indipendentemente dall'esistenza di altri
balconi nel piano sottostante o sovrastante
e non avendo, quindi, funzione di copertura
del piano sottostante, il balcone aggettante
non soddisfa una utilità comune ai due piani
e non svolge neppure una funzione a
vantaggio di un condomino diverso dal
proprietario del piano.
Detti balconi e le relative solette non
svolgendo alcuna funzione di sostegno, né di
necessaria copertura dell'edificio, non
possono considerarsi a servizio dei piani
sovrapposti e, quindi, di proprietà comune
dei proprietari di tali piani e ad essi non
può applicarsi il disposto dell'articolo
1125 c.c. secondo cui le spese per la
ricostruzione e manutenzione dei soffitti,
delle volte e dei solai sono sostenute in
parti uguali dai proprietari dei due piani
l’uno all’altro sovrastanti, restando a
carico del proprietario del piano superiore
la copertura del pavimento e a carico del
piano inferiore l’intonaco, la tinta e la
decorazione del soffitto.
E’ quanto ha ribadito sostanzialmente la
Corte di cassazione, Sez. II civile, con la
sentenza 12.01.2011 n. 587 e con la
sentenza 05.01.2011 n. 218,
confermando in tal modo un orientamento
ormai consolidato e superando
definitivamente la posizione secondo cui,
invece, la soletta è soggetta al regime di
comunione tra proprietario che usa il
balcone e proprietario dell’unità
immobiliare sottostante, con applicabilità
dell’articolo 1125 del codice civile quale
criterio di ripartizione delle spese (Cass.
n. 4821/1983; n. 283/1987).
La Corte di Cassazione ha puntualizzato che
seppure volesse riconoscersi alla soletta
del balcone una funzione di copertura
rispetto al balcone sottostante, tuttavia,
trattandosi di copertura disgiunta dalla
funzione di sostegno e, quindi, non
indispensabile per l'esistenza stessa dei
piani sovrapposti, non può parlarsi di
elemento a servizio di entrambi gli immobili
posti su piani sovrastanti, né, quindi, di
presunzione di proprietà comune del balcone
aggettante riferita ai proprietari dei
singoli piani (Corte di Cassazione, Sez. II
civile,
sentenza 30.07.2004 n. 14576).
I balconi aggettanti e le relative solette
rientrano nella proprietà esclusiva dei
titolari degli appartamenti cui accedono,
conseguentemente le spese di riparazione
gravano solo sugli stessi. Soggetti a un
regime diverso, invece, sono tutti gli
elementi decorativi del balcone.
Ed invero i cementi decorativi dei frontali
e dei parapetti, nonché le viti di ottone e
i piombi ai pilastri della balaustra, le
aggiunte sovrapposte con malta cementizia
dei balconi, in virtù della funzione di tipo
estetico che essi svolgono rispetto
all’intero edificio, del quale accrescono il
pregio architettonico, sono considerati
parti comuni ai sensi dell’art. 1117 del
cod. civ.
La spesa per la loro riparazione o
ricostruzione ricade su tutti i condomini,
proporzionalmente al valore della proprietà
di ciascuno.
I frontalini dei balconi e la parte
inferiore degli stessi, anche per il solo
fatto di essere costruiti con
caratteristiche uniformi, hanno una funzione
ben precisa nell'estetica e nel decoro
architettonico di un edificio, che può
essere esclusa solo in presenza di una
precisa prova contraria, da cui risulti che
trattasi di un fabbricato privo di qualsiasi
uniformità architettonica, o che trovasi in
uno stato di scadimento estetico tale da
rendere irrilevante l'arbitrarietà
costruttiva o di manutenzione dei singoli
particolari
(commento tratto da e link a
www.diritto24.ilsole24ore.com).
---------------
Per ulteriori
approfondimenti si legga:
-
la voce "balconi". |
anno 2010 |
|
EDILIZIA
PRIVATA: Legittimamente
il dirigente comunale non ha rilasciato il richiesto
permesso di costruire, attesa la mancanza del titolo a
disporre in via esclusiva del suolo interessato dai lavori,
per la natura condominiale di parte del lastrico solare ed
in mancanza di delibera assembleare.
Ai sensi dell’art. 1117 c.c.,
il lastrico solare è oggetto di proprietà comune “se il
contrario non risulta dal titolo”. Come chiarito dalla
costante giurisprudenza (cfr., per tutte, Cassazione civile,
Sezione II, 16.07.2004 n.13279; 16.02.2005 n. 3102;
29.03.2007 n. 7709), per titolo devono intendersi non
soltanto gli atti di acquisto delle varie unità immobiliari
incluse nel fabbricato ma anche il regolamento di condominio
accettato dai singoli condomini.
E’ altrettanto pacifico in giurisprudenza che il regolamento
di condominio, di cui all’art. 1138 c.c., predisposto
dall’originario unico proprietario dell’intero edificio ed
accettato dagli iniziali acquirenti o assegnatari dei
singoli appartamenti, se trascritto nei registri immobiliari
o oggetto di esplicito richiamo nei singoli atti di
acquisto, vincola tutti i successivi acquirenti per le
clausole che disciplinano l’uso o il godimento dei servizi o
delle parti comuni.
In conclusione, alla luce delle disposizioni normative sopra
evocate e della documentazione versata in atti, il Collegio
ritiene che legittimamente il dirigente comunale non ha
rilasciato il richiesto permesso di costruire, atteso che la
mancanza del titolo a disporre in via esclusiva del suolo
interessato dai lavori, per la natura condominiale di parte
del lastrico solare ed in mancanza di delibera assembleare
(cfr. Cassazione civile, Sezione II, 29.08.1992, n. 6529),
costituisce ragione da sola preclusiva alla realizzazione
dell’intervento
(TAR Campania-Napoli, Sez.
II,
sentenza 06.12.2010 n. 26817 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO:
Gas con Iva al 10% in condomìni: il beneficio non va
duplicato. In caso di utenza individuale già "agevolata",
l'unità immobiliare non partecipa al plafond collettivo.
L'Agenzia delle Entrate, con la
risoluzione 22.10.2010 n. 112/E, torna sulla
disposizione contenuta nel numero 127-bis della tabella A,
parte III, allegata al Dpr 633/1972, che, recependo una
direttiva comunitaria, prevede dal 2008 l'applicazione
dell'aliquota Iva del 10% alla somministrazione di gas
metano per combustione per usi civili (produzione di acqua
calda, cottura di cibi, riscaldamento), nel limite annuo di
480 metri cubi. In pratica, la norma dispone la tassazione
al 10% per i primi 480 metri cubi annui destinati ad usi
civili, mentre i consumi eccedenti devono essere tassati con
l'aliquota ordinaria del 20 per cento.
Con la
risoluzione 15.10.2010 n. 108/E è stato
specificato che, relativamente alla somministrazione di gas
metano per usi civili nei confronti di condomìni e
cooperative di abitanti di edifici abitativi che utilizzano
impianti di tipo centralizzato e collettivo, il limite di
480 metri cubi all'anno per fruire dell'aliquota Iva
agevolata al 10% si riferisce alle singole utenze di ogni
unità abitativa. Di conseguenza, la soglia quantitativa di
480 metri cubi va moltiplicata per il numero delle unità
immobiliari il cui impianto di riscaldamento è allacciato a
quello centralizzato.
Tale criterio -puntualizza ora la risoluzione 112/2010- non
si applica se sono presenti utenze individuali che già
fruiscono della tassazione agevolata. Pertanto, nel numero
delle unità immobiliari allacciate all'impianto
centralizzato, da moltiplicare per il limite di 480 mc., non
rientrano quelle dotate anche di impianto autonomo, per il
quale è già applicabile l'aliquota agevolata (link a
www.nuovofiscooggi.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
1. Opere abusive - Permesso di costruire
in sanatoria - Condominio - Preavviso di diniego in mancanza
di richiesta o assenso di tutti i condomini - Carattere
direttamente lesivo - Sussiste - Impugnabilità immediata -
Sussiste.
2. Opere abusive - Permesso di costruire in sanatoria -
Istruttoria - Obbligo della P.A. di effettuare valutazioni
complesse di carattere civilistico - Non sussiste.
1.
Il provvedimento di preavviso di diniego del permesso di
costruire in sanatoria in mancanza di richiesta o assenso di
tutti i condomini, imponendo l'assenso di tutti i condomini
quale condizione per evitare il rigetto dell'istanza, si
atteggia non tanto come preavviso di rigetto in senso
tecnico (volto ad acquisire, in contraddittorio con gli
interessati, elementi di giudizio ai fini della definizione
dell'istanza), ma come atto già dotato di effetti lesivi, il
che lo rende suscettibile di impugnazione immediata.
2.
Nella verifica dell'idoneità del titolo l'Amministrazione
non è tenuta, in sede di istruttoria di una domanda di
permesso edilizio, ad effettuare valutazioni complesse di
carattere civilistico, che spettano al giudice ordinario
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 15.09.2010 n. 5986 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO:
Sottotetto - È parte comune solo se
destinato ad un uso comune - Carattere pertinenziale
dell'unità immobiliare sottostante - Sussiste se ha funzione
esclusiva di isolamento e protezione dell'appartamento
sottostante.
A differenza
del tetto (oggetto di proprietà comune salvo che non risulti
diversamente dal titolo: art. 1117 cod. civ.), il
sottotetto, in assenza di indicazioni risultanti dal titolo,
costituisce parte comune solo se destinato ad un uso comune,
mentre deve ritenersi di proprietà esclusiva dell'unità
immobiliare sottostante, quale pertinenza della stessa, se
si tratta di vano destinato ad assolvere alla funzione
esclusiva di isolare e proteggere, come una camera d'aria,
l'appartamento sottostante (massima tratta da www.solom.it
- TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 15.09.2010 n. 5986 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO-
EDILIZIA PRIVATA:
In mancanza di un preventivo assenso dei
comproprietari dell'immobile, il comune può legittimamente
negare il rilascio di un permesso di costruire per
realizzare lavori riguardanti la facciata dell'edificio, che
"costituisce una parte comune oggetto di compossesso
proindiviso".
L’intervento edilizio incide sulla facciata dell’edificio la
quale costituisce una parte comune oggetto di compossesso
proindiviso.
Le opere oggetto del permesso di costruire danno luogo ad
una innovazione vietata ai sensi dell’art. 1120, c. 2, c.c.,
comportando una alterazione del decoro architettonico del
fabbricato -inteso quale “estetica data dall'insieme
delle linee e delle strutture ornamentali che costituiscono
la nota dominante dell'edificio imprimendo allo stesso una
sua armoniosa fisionomia” (v. Cassazione civile, sez. II,
25.01.2010, n. 1286; sentt. 8731/1998; 16098/2003)- in
quanto vanno a modificare l’architettura generale e
l’aspetto estetico dell’edificio.
Legittimamente, pertanto, l'amministrazione ha subordinato
il rilascio del titolo abilitativo all’assenso dei
comproprietari (cfr. Cons. Stato, sez. V, 21.10.2003, n.
6529; TAR Trentino Alto Adige-Bolzano, 27.02.2006, n. 81;
TAR Campania-Napoli, sez. II, 27.05.2005, n. 7295),
adottando un provvedimento adeguatamente motivato e
supportato da coerenti risultanze istruttorie, con
conseguente infondatezza delle censure proposte (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 27.08.2010 n. 4414 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO:
Condominio: per modificare le tabelle
millesimali basta la maggioranza.
Fino ad ora modificare le tabelle millesimali era
un'operazione impossibile poiché, per una consolidata
prassi, tale operazione richiedeva l'unanimità
dell'assemblea condominiale.
È facile comprendere che la più banale delle modifiche alle
tabelle millesimali finisce comunque per "penalizzare"
almeno un condomino che, quindi, ha tutto l'interesse a
votare contro.
Una sentenza della Cassazione a sezioni unite sconfessa
questa tesi rivoluzionando l'orientamento precedente della
stessa corte.
Con la sentenza 18477 del 09.08.2010 la Corte ha chiarito
che per modificare le tabelle millesimali è sufficiente la
maggioranza qualificata definita al comma 2 dell'art. 1136
del Codice Civile.
In altre parole, per modificare le tabelle millesimali è
sufficiente una delibera assembleare approvata dalla
maggioranza degli intervenuti in assemblea, che
rappresentino almeno la metà del valore dell'edificio (500
millesimi) (Corte di Cassazione, Sezz. unite civili,
sentenza 09.08.2010 n. 18477 - link a
www.acca.it). |
CONDOMINIO: Immissioni
moleste, il locatore risponde solo per alcune delle attività
del conduttore.
La vicenda che ha portato alla decisione in commento
iniziava dalle lamentele di un condomino per le
intollerabili immissioni di odori provenienti dal ristorante
gestito dal conduttore di altro condomino. Tali immissioni
erano ascrivibili al comportamento del
conduttore-ristoratore e, in particolare, alla mancata
attivazione dell'impianto di aerazione (risultato
perfettamente funzionante) e alla mancata chiusura delle
finestre del locale cucina.
Tuttavia, il condomino danneggiato citava avanti il Trib. di
Roma il proprietario del locale locato affinché fosse
accertata l'illiceità delle immissioni moleste e
conseguentemente condannato il convenuto alla loro
eliminazione (oltre al risarcimento dei danni subiti).
Il Tribunale adito condannava il convenuto al risarcimento
dei danni nonché al pagamento delle spese di lite e tale
decisione, veniva confermata dalla Corte d'appello di Roma
(che, però, riduceva l'ammontare dei danni) sulla
considerazione che il convenuto, oltre ad avere l'obbligo di
ispezionare l'azienda per assicurarsi che fosse gestita
regolarmente, avrebbe dovuto controllare se e quando i
conduttori aprissero le finestre della cucina per far
arieggiare i locali, invece di mettere in funzione
l'impianto di aerazione risultato perfettamente funzionante.
Secondo la Cassazione, invece, il proprietario del locale
non era responsabile delle immissioni moleste atteso che la
disponibilità sia dell'impianto di aerazione sia delle
finestre del locale cucina, trattandosi di accessori e di
parti del bene locato strettamente connessi alla gestione
del ristorante, erano oggetto di diretto ed effettivo potere
da parte del conduttore.
Custodia e locazione.
Con la decisione in rassegna la Corte di Cassazione ha
affrontato il tema della responsabilità ex art. 2051 c.c.
nell'ambito del rapporto di locazione.
A tale proposito occorre ricordare che la responsabilità per
i danni cagionati da cose in custodia prevista dall'art.
2051 c.c. prescinde dall'accertamento del carattere colposo
dell'attività o del comportamento del custode e ha natura
oggettiva, necessitando, per la sua configurabilità, del
mero rapporto eziologico tra cosa ed evento: funzione della
norma è, infatti, quella di imputare la responsabilità a chi
si trovi nella condizione di controllare i rischi inerenti
alla cosa, dovendo pertanto considerarsi custode colui che
ne controlla le modalità d'uso e di conservazione (Cass. n.
8229/2010, Giust. civ. Mass. 2010, 4).
Il requisito del potere-dovere di intervento, quindi, qui
non opera come fondamento di una presunzione di colpa, che
non è nella struttura della norma, ma come uno degli
elementi per individuare la figura del custode.
In particolare, custode è chi abbia l'effettivo potere sulla
cosa, e può, perciò, essere non solo il proprietario, ma
anche il semplice possessore o anche il detentore della
cosa.
Ne consegue che detta custodia può far capo a più soggetti a
pari titolo, o a titoli diversi, che importino tutti
l'attuale coesistenza di poteri di gestione e di ingerenza .
Tale situazione si verifica nell'ipotesi di locazione di un
immobile.
Al riguardo, è pacifico che la locazione determina, in linea
di principio, il trasferimento al conduttore della
disponibilità della res locata e delle sue
pertinenze, con il conseguente obbligo di custodia, dal
quale discende, altresì, quello di impedire che la cosa
locata stessa arrechi danni a terzi. Tuttavia, può essere
qualificato "custode " della cosa, per i fini di cui
all'art. 2051 c.c., colui che ha la disponibilità di fatto
di una cosa, non disgiunta, però, dalla disponibilità
giuridica di essa. E' da considerarsi, perciò, "custode",
ai sensi della norma indicata, sia il proprietario che il
conduttore del bene, in quanto detentore qualificato (Cass.
n. 24530/2009, Guida al diritto, 2010, 1, 4).
In particolare, secondo un principio consolidato, mentre il
proprietario dell'immobile locato, conservando la
disponibilità giuridica, e, quindi, la custodia, delle
strutture murarie e degli impianti in esse conglobati, è
responsabile in via esclusiva ai sensi degli artt. 2051 c.c.
e 2053 c.c. dei danni arrecati a terzi da dette strutture e
impianti (salvo eventuale rivalsa, nel rapporto interno,
contro il conduttore che abbia omesso di avvertire della
situazione di pericolo); con riguardo, invece, alle altre
parti e accessori del bene locato, rispetto alle quali il
conduttore acquista detta disponibilità con facoltà e
obbligo di intervenire onde evitare pregiudizio ad altri, la
responsabilità verso questi ultimi, secondo le previsioni
dell'art. 2051c.c., grava soltanto sul conduttore medesimo .
Per entrambi i soggetti, tale tipo di responsabilità è
esclusa solo dal caso fortuito, fattore che attiene non già
a un comportamento del responsabile, bensì al profilo
causale dell'evento, riconducibile non alla cosa (che ne è
fonte immediata), ma a un elemento esterno, recante i
caratteri dell'oggettiva imprevedibilità e inevitabilità e
che può essere costituito anche dal fatto del terzo o dello
stesso danneggiante .
In ogni caso sia l'accertamento in ordine alla sussistenza
della responsabilità oggettiva sia quello in ordine
all'intervento del caso fortuito che lo esclude involgono
valutazioni (quali il dispiegarsi dei vari fattori causali,
la ricerca dell'effettivo antecedente dell'evento dannoso,
l'indagine sulla condotta del danneggiante e del
danneggiato, le modalità di causazione del danno ecc.) che,
come tali, sono riservate al giudice del merito, il cui
apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità se
sorretto da motivazione congrua e immune da vizi logici e
giuridici (Cass. n. 472/2003 cit.).
Danni da impianti e strutture murarie.
Il proprietario-locatore resta custode di tutte quelle cose
che non passano nella disponibilità del conduttore, vale a
dire le strutture murarie e gli impianti, in esse
conglobati, sui quali il conduttore ha la possibilità di
intervenire per prevenire o riparare un danno.
In particolare, nell'espressione "strutture murarie e
impianti in esse conglobati" rientrano soltanto i
cornicioni, i tetti, le tubature idriche, gli impianti
idrici e sanitari e quanto possa essere raggiunto con
interventi sulle opere murarie.
Di conseguenza, una volta escluse la condizione di custodia
relativamente alle parti dell'immobile sopra detti e,
perciò, la presunzione iuris tantum di responsabilità
ex art. 2051 c.c., qualora vi siano danni a terzi
determinati dalle stesse strutture e impianti, il conduttore
non deve certo vincere la suddetta presunzione; mentre è del
tutto irrilevante accertare quale sia stata la causa
effettiva del danno.
Così è evidente la responsabilità del proprietario per le
infiltrazioni verificatesi nell'appartamento sottostante,
causate da copiose perdite delle tubazioni interne alle
pareti collegate ai servizi igienici dell'appartamento
locato: infatti, nel caso di impianti idrici o sanitari siti
all'interno delle strutture murarie, sulle quali il
conduttore non ha alcun potere d'intervento, non potendo
manometterle per eseguire le riparazioni, il proprietario-
locatore conserva la disponibilità giuridica e, quindi, la
custodia sia dei primi che delle seconde, con la conseguenza
che, col solo limite del caso fortuito, risponde del danno
cagionato al terzo dalla rottura di un qualsiasi manufatto
incorporato nelle fabbriche.
Allo stesso modo, è responsabile il locatore per il danno
conseguente allo scoppio di un tubo idrico di piombo poco
prima dell'innesto del rubinetto d'uscita e, quindi,
derivante da un elemento strutturale dell'edificio, su cui
il conduttore non ha il potere-dovere di intervenire ex art.
1575 n. 2 e 1576, comma 1 cod. civ.
Al contrario, la Cassazione ha ritenuto che dei danni
provocati dalla rottura del tubo flessibile del bidet debba
rispondere l'inquilino, atteso che la serpentina è un tubo
pieghevole non inglobato nell'impianto interno idrico, per
la cui sostituzione non occorre intervenire nelle opere
murarie e, di conseguenza, è sotto la vigilanza del
conduttore-inquilino che è responsabile dei relativi danni.
Del pari è responsabile il conduttore per infiltrazioni
d'acqua che hanno danneggiato un immobile confinante,
provocate da un guasto alla lavatrice (Cass. n. 2422/2004
cit.), dai canali di scolo intasati dalle foglie cadute
dagli alberi di alto fusto, che il conduttore non ha
provveduto a eliminare.
Custodia e incendio.
La responsabilità per i danni provocati a terzi
dall'incendio sviluppatosi in un appartamento condotto in
locazione grava sul locatario e non sul proprietario, a meno
che i danni lamentati derivino dalla violazione degli
obblighi di custodia e di controllo su di lui gravanti
perché relativi a cose (strutture murarie e impianti in esse
conglobati) che non passano nella disponibilità del
locatario.
In caso di danni derivati dall'incendio sviluppatosi in un
immobile condotto in locazione, quindi, il conduttore
risponde quale custode ex art. 2051 c.c. e si libera da tale
responsabilità dando la prova del fortuito, che può anche
consistere nella dimostrazione che il fattore determinante
l'insorgere dell'incendio ha avuto origine in parti,
strutture o apparati dell'immobile non rientranti nella sua
disponibilità ed estranei, quindi, alla sfera dei suoi
poteri e doveri di vigilanza; mentre il locatore, per i
danni da incendio dell'immobile di sua proprietà, si sottrae
alla responsabilità presunta, stabilita dalla citata norma,
quando prova che l'incendio ha avuto origine in parti
dell'immobile delle quali il conduttore ha la custodia in
virtù del suo diritto di utilizzare il bene concessogli in
godimento.
Alla luce di quanto sopra, si è ritenuto responsabile il
conduttore per danni conseguenti a un incendio provocato da
un corto circuito verificatosi in corrispondenza
dell'interruttore unipolare situato in prossimità
dell'accesso o della piattina di collegamento alla linea
dell'impianto di illuminazione, cioè da elementi
dell'impianto in questione che non potevano considerarsi
"conglobati" nelle strutture murarie del bene locato, bensì
accessori dello stesso .
Allo stesso modo, si è esclusa la responsabilità del
proprietario-locatore per i danni prodotti a terzi da un
incendio causato da materiali altamente infiammabili
depositati dall'inquilino nei locali locati senza idonee
precauzioni .
Tuttavia, nell'ipotesi di danni cagionati dall'incendio
sviluppatosi in un immobile condotto in locazione, qualora
non sia possibile determinare se l'incendio sia sorto in
strutture murarie o impianti nella custodia del proprietario
ovvero in parti o accessori nella disponibilità del
conduttore, la responsabilità di cui all'art. 2051 c.c., si
configura a carico sia del proprietario che del conduttore,
poiché nessuno dei due è stato in grado di dimostrare che la
causa autonoma del danno è da ravvisare nella violazione da
parte dell'altro dello specifico dovere di vigilanza
(fattispecie relativa ai danni cagionati da un incendio
sviluppatosi al piano terra di una palazzina ed estesosi al
piano superiore).
Danni da macchinari del conduttore.
Per quanto riguarda il problema dei macchinari del
conduttore è stato affermato che il proprietario di un
immobile concesso in locazione non può essere chiamato a
rispondere, ex art. 2051 c.c., dei danni a terzi causati da
macchinari utilizzati dal conduttore, quando non abbia avuto
alcuna possibilità concreta di controllo sull'uso di essi,
non potendo detta responsabilità sorgere per il solo fatto
che il proprietario medesimo ometta di rivolgere al
conduttore formale diffida ad adottare gli interventi del
caso al fine di impedire il verificarsi di danni a terzi,
giacché essi costituirebbero atti inidonei a incidere sul
funzionamento della cosa dannosa (Cass. n. 8006/2010, Giust.
civ. Mass. 2010, 4).
Così si è esclusa la responsabilità del proprietario di un
immobile adibito a ristorante, gestito dal conduttore
dell'immobile stesso, per i danni causati all'appartamento
sottostante, di proprietà di un terzo, dalle infiltrazioni
d'acqua provocate dall'impianto di condensa dei frigoriferi
e dall'idrante per la pulizia dei pavimenti in uso al
gestore del ristorante medesimo) (Cass. n. 8006/2010 cit.).
Alle stesse conclusioni si è pervenuti nei confronti del
proprietario di un'officina per i danni che sono stati
causati a terzi dall'impianto di espulsione dei gas
utilizzato dal conduttore nonché gestore dell'officina
stessa (Cass. n. 18188/ 2009, Giust. civ. 2010, 5, 1155).
A ciò si aggiunga che si è esclusa la responsabilità del
proprietario per le immissioni sonore provocate dai
macchinari del conduttore che arbitrariamente aveva mutato
l'uso della res locata (commento tratto da
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - Corte di
Cassazione, sentenza 09.06.2010 n. 13881 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO:
Sicurezza in condominio: dal Ministero del Lavoro tutti i
chiarimenti.
Il Ministero del Lavoro,
nell'apposita sezione (FAQ) del sito, ha pubblicato le
risposte ai quesiti sull’applicazione del Testo Unico della
Sicurezza (D.Lgs. 81/2008) nell’ambito del condominio.
Di seguito i quesiti che hanno avuto risposta dal Ministero:
• Chi è tenuto ad adempiere agli obblighi di sicurezza
che gravano sul condominio?
• Per il condominio la redazione del Documento di
Valutazione dei Rischi (DVR) è prevista esclusivamente in
presenza di lavoratori dipendenti che non rientrano nel
campo del contratto collettivo dei proprietari dei
fabbricati? (Risposta a quesito del 19.04.2010)
• Per l’adempimento dell’obbligo di informazione
(articolo 36 del D.Lgs. n. 81/2008) nei confronti dei
soggetti di cui all’articolo 3, comma 9, è corretta
l’effettuazione di una comunicazione scritta al lavoratore
che contenga i requisiti previsti dall’articolo 36 ma non
quelli previsti per il DVR negli artt. 28 e 29? (Risposta a
quesito del 19.04.2010)
• Nel caso in cui il condominio sia datore di lavoro (per
la presenza di dipendenti ai quali si applichi il contratto
collettivo dei proprietari di fabbricati o altra tipologia
di lavoratore) e di contemporaneo “affidamento di lavori,
servizi e forniture all’impresa appaltatrice o a lavoratori
autonomi” (di cui all’articolo 26) il condominio medesimo
deve intendersi “datore di lavoro” anche nei confronti di
tali imprese o lavoratori autonomi con applicazione dei
conseguenti obblighi?
• Ove il condominio, che sia “datore di lavoro” nei
confronti di lavoratori ai quali si applichi il contratto
collettivo dei proprietari di fabbricati o altra tipologia
di lavoratore, affidi “lavori, servizi o forniture” a
impresa appaltatrice o a lavoratori autonomi, ex articolo 26
del “Testo unico” di salute e sicurezza sul lavoro, potrà
indifferentemente ottemperare all’obbligo di fornire
“informazioni dettagliate” (art. 26, comma 1, lett. b), e a
quello di “informarsi reciprocamente” (art. 26, comma 2,
lett. b), con una comunicazione (nel caso di non sussistenza
di rischi da interferenze) oppure con la predisposizione del
Documento Unico di Valutazione dei Rischi da Interferenza
(in caso contrario)?
(link a www.acca.it). |
CONDOMINIO:
Gli ascensori saltano la revisione. Il
Tar del Lazio ha accolto il ricorso di Confedilizia
annullando gli effetti del dm 23/07/2009. Stop alla verifica
straordinaria: sarebbe costata 6 mld.
Stop alla revisione straordinaria degli ascensori. Il TAR
Lazio-Roma, Sez. III-ter, accogliendo un ricorso della
Confedilizia, ha annullato con
sentenza 01.04.2010 n. 5413 il decreto del
ministero dello sviluppo economico del 23 luglio dello
scorso anno che imponeva una verifica straordinaria degli
impianti installati e messi in esercizio prima del 1999,
dichiarando il provvedimento «illegittimo sotto tutti i
profili». Un'operazione che secondo la Confederazione
italiana della proprietà edilizia sarebbe costata qualcosa
come 6 miliardi di euro.
La sentenza, spiega Confedilizia in una nota, sottolinea che
il decreto «impone ai privati proprietari pesanti
prestazioni personali e patrimoniali al di fuori di
qualsiasi prescrizione legislativa e soprattutto lascia
ampio spazio nella loro individuazione a una associazione
privata (l'Uni), alle cui libere determinazioni, assunte nel
tempo e finalizzate a un continuo adeguamento delle tecniche
di valutazione dei rischi degli impianti, da essa imposte,
dipende la loro progressiva quantificazione e i vantaggi
economici che l'associazione ne ricava».
La riprova dell'«anomala e ingiustificata posizione di
vantaggio che a essa si è ritenuto di assicurare, in danno
dei proprietari», sottolinea anche la sentenza, «è
già nell'obbligo fatto ai privati proprietari di acquisire,
a un prezzo esoso, limitatamente a una sola copia del
cartaceo recante il testo delle norme tecniche da osservare
e “ad esclusivo uso del cliente”, la licenza da parte
dell'Uni a utilizzare la normativa tecnica da essa
predisposta, di cui è ritenuta proprietaria e che per questa
ragione non è pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, come
sarebbe doveroso per ogni normativa che alla collettività si
impone di applicare».
La sentenza evidenzia, ancora, che «l'ordinamento vigente
già impone ai proprietari di immobili dotati di ascensori
due verifiche annuali e una straordinaria a opera di tecnici
specializzati e autorizzati, con i relativi costi di non
limitato livello».
Per effetto del decreto impugnato, «a detto sistema,
niente affatto abrogato ma tuttora vigente e cogente»,
sottolinea la sentenza, «ora se ne sovrappone un altro
motivato con riferimento alla migliore qualità che
garantirebbero le tecniche Uni, come se la loro applicazione
non potesse essere imposta ai tecnici che effettuano i primi
controlli».
In sostanza, evidenzia la sentenza, «si mantiene in piedi
un sistema, della cui efficacia si dubita, ma che obbliga i
suoi operatori a segnalare immediatamente eventuali difetti
dell'ascensore ai relativi proprietari perché provvedano a
eliminarli, e a esso se ne sovrappone un altro, che
introduce un'ulteriore verifica. Il primo controllore è
controllato dal secondo, senza che sia neppure stabilito, in
caso di esiti diversi, a quale dei due i privati proprietari
devono conformarsi».
La sentenza è stata emessa in un procedimento nel quale la
Confedilizia è stata difesa da Vittorio Angiolini, docente
all'Università di Milano, e nel quale è intervenuta a
sostegno del ricorso l'associazione consumatori Assoutenti.
Il presidente della Confedilizia, Corrado Sforza Fogliani,
ha dichiarato: «A pochi giorni dall'accoglimento del
nostro ricorso contro l'attribuzione ai Comuni della
possibilità di determinare la base imponibile delle imposte
anche comunali come l'Ici, il Tar del Lazio ha accolto un
altro nostro ricorso, annullando un provvedimento che
avrebbe causato forti spese a condomini e proprietari di
casa, calcolate da una società del settore ascensori in sei
miliardi di euro. La Confedilizia si conferma come un
preciso punto di riferimento per la difesa delle ragioni
proprietarie» (articolo ItaliaOggi del 02.04.2010, pag.
24). |
CONDOMINIO:
Amministratori di condominio: redazione del DVR e del DUVRI.
La Direzione Prevenzione della Regione Veneto, in risposta
ad alcuni quesiti, fornisce chiarimenti in merito:
1. alla necessità o meno da parte dell'amministratore di
condominio di procedere alla valutazione dei rischi
all'interno dei condomini (con e senza dipendenti);
2. all'esistenza dell’obbligo di redigere il DUVRI nei
condomini (con e senza dipendenti).
Secondo la regione gli amministratori di condomini che non
sono datori di lavoro nei termini del D.Lgs. 09.04.2008, n.
81 non sono tenuti ad elaborare né il DVR né il DUVRI ...
(link a www.acca.it). |
CONDOMINIO: E'
lecita l'apposizione di insegne nei muri perimetrali di
edifici in condominio, anche nelle parti del muro che non
corrispondono alle proprietà esclusive dei singoli
condomini.
In assenza di specifiche previsioni contenute nei
regolamenti comunali, di cui non è stata puntualmente
allegata l’esistenza da ambo le parti, occorre richiamare
l’ormai consolidato orientamento della giurisdizione civile
secondo cui è lecita l'apposizione di insegne nei muri
perimetrali di edifici in condominio, anche nelle parti del
muro che non corrispondono alle proprietà esclusive dei
singoli condomini (tra le tante, Cass. Civile, Sez. II,
03.02.1998, n. 1046; Cass. 24.10.1986 n. 6229; Cass.
17.04.1981 n. 2331; Cass. 13.07.1973 n. 202) (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 25.03.2010 n. 341 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Bonus
ristrutturazioni edilizie, il condominio è a tutto campo.
La detrazione del 36% spetta per i lavori eseguiti su tutte
le parti comuni indicate dal codice civile.
Sì alla detrazione Irpef del 36% per i lavori condominiali
realizzati su tutte le parti comuni degli edifici
residenziali elencate dai nn. 1, 2, 3, dell'articolo 1117
del codice civile.
Con la
risoluzione 12.02.2010 n. 7/E, l'Agenzia delle
Entrate risponde all'istanza presentata da un'associazione,
che chiede un chiarimento sulla possibilità di "sfruttare"
il bonus del 36% per i lavori eseguiti solo sulle parti
condominali citate dal n. 1 dell'articolo 1117 del codice
civile (il suolo su cui sorge l'edificio, le fondazioni,
i muri maestri, i tetti e i lastrici solari, le scale, i
portoni d'ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici, i
cortili e in genere tutte le parti dell'edificio necessarie
all'uso comune) o anche per quelle elencate nei
successivi numeri 2 (i locali per la portineria e per
l'alloggio del portiere, per la lavanderia, per il
riscaldamento centrale, per gli stenditoi o per altri simili
servizi in comune) e 3 dello stesso articolo (le
opere, le installazioni, i manufatti di qualunque genere che
servono all'uso e al godimento comune, come gli ascensori, i
pozzi, le cisterne, gli acquedotti e, inoltre, le fognature
e i canali di scarico, gli impianti per l'acqua, per il gas,
per l'energia elettrica, per il riscaldamento e simili fino
al punto di diramazione degli impianti ai locali di
proprietà esclusiva dei singoli condomini) (link a
www.nuovofiscooggi.it). |
CONDOMINIO:
COMUNIONE E CONDOMINIO -
CONDOMINIO - INNOVAZIONI E MODIFICHE -
VIOLAZIONE DEL DECORO ARCHITETTONICO -
VALUTAZIONE IN RELAZIONE ALL'IMPATTO CON
L'AMBIENTE - ESCLUSIONE.
Spetta al giudice di merito accertare in
concreto se una data innovazione costituisce
o meno alterazione del decoro
architettonico, per cui la sentenza che
affermi o meno l'esistenza di detta
alterazione è censurabile in sede di
legittimità solo per vizio di motivazione
sul punto.
Il decoro architettonico, quale estetica
data dall'insieme delle linee e delle
strutture ornamentali che costituiscono la
nota dominante dell'edificio imprimendo allo
stesso una sua armoniosa fisionomia, deve
essere valutato, ai sensi dell'articolo
1120, comma 2, del codice civile con
riferimento al fabbricato condominiale nella
sua totalità (potendo anche interessare
singoli punti del fabbricato purché l'immutazione
di essi sia suscettibile di riflettersi
sull'intero stabile) e non rispetto
all'impatto con l'ambiente circostante
(Corte di Cassazione, Sez. II, civile,
sentenza 25.01.2010 n. 1286 - commento
tratto da www.diritto24.ilsole24ore.com). |
anno 2009 |
|
EDILIZIA
PRIVATA:
Realizzazione di un abuso sopra porzione
di edificio regolare - Confini del diritto di acquisizione
del Comune in caso di inottemperanza all'ordine di
demolizione.
Qualora l'opera abusiva consista in un piano (o in una
porzione di piano) situato in un edificio composto anche da
abitazioni regolari il Comune acquisisce non un diritto di
superficie ma la proprietà esclusiva degli appartamenti
abusivi e la comproprietà delle parti comuni dell'intero
edificio (come definite dall'art. 1117 c.c.). Se l'edificio
era in origine di un solo proprietario, con il provvedimento
di acquisizione si forma un condominio.
Tra le parti comuni rientra anche il sedime dell'edificio,
che quindi viene acquisito pro quota, in proporzione ai
millesimi dei piani oggetto del provvedimento di
acquisizione.
Per quanto riguarda l'area pertinenziale vale lo stesso
principio dell'acquisto pro quota (massima tratta da
www.solom.it - TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 14.12.2009 n. 2565 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
realizzazione di un ascensore interno non necessita di alcun
preliminare titolo abilitativo.
La realizzazione dell’ascensore interno soddisfa
imprescindibili esigenze abitative di coloro che, versando
in condizioni fisiche di minore abilità, devono poter
raggiungere le unità immobiliari collocate agli ultimi
piani.
È sintomatica la situazione soggettiva dei parenti prossimi
del condomino ricorrente che, proprio in considerazione
della carenza di ascensore, lamenta che l’anziana madre non
è in grado di accedere all’abitazione sita all’ultimo piano
del condominio.
Né va passato sotto silenzio che la realizzazione
dell’ascensore è ascrivibile al genus degli
interventi preordinati a rimuovere le barriere
architettoniche: l’art. 6, comma 2, lett. b), D.P.R. n.
380/2001 esonera dalla richiesta del titolo abilitativo gli
interventi volti all’eliminazione delle barriere
architettoniche che non comportino la realizzazione di rampe
o di ascensori esterni, ovvero di manufatti che alterino la
sagoma dell’edificio.
La littera legis è univoca nell’escludere gli
ascensori interni dal previo ottenimento del titolo
abilitativo.
Eventuali disposizioni contenute negli strumenti urbanistici
o nel regolamento edilizio devono essere scrutinate alla
luce della richiamata disposizione che, in ragione della
collocazione sistematica della fonte dalla quale promana, è
norma di principio come tale vincolante sia il legislatore
regionale che quello locale (TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 20.10.2009 n. 2792 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO:
La sicurezza sul lavoro e il Condominio
secondo il Ministero del Lavoro.
Il Ministero del Lavoro, in linea con le disposizioni del
decreto legislativo 09.04.2008, n. 81, intende promuovere la
diffusione della cultura della sicurezza e della
prevenzione.
In tale ottica il sito del Ministero ha attivato una sezione
apposita "Sicurezza sul Lavoro" curata da personale
competente che contiene documenti e informazioni per la
sicurezza sul lavoro.
Segnaliamo in particolare i pareri in relazione agli
adempimenti per la sicurezza che deve porre in essere il
Condominio (link a www.acca.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
1. Sindaco - Ordinanze contingibili e
urgenti - Presupposti per l'emanazione - Sanità e igiene.
2. Sindaco - Ordinanze contingibili e urgenti - Cessazione
di emissioni di fumo - Motivazione - Carente - Ipotesi.
3. Giudizio amministrativo - Procedura - Controinteressato -
Impugnazione di atto sollecitato dall'amministratore del
condominio.
1.
I presupposti necessari per l'emanazione di provvedimenti
contingibili ed urgenti sono, da un lato, l'impossibilità di
differire l'intervento ad altro momento in relazione alla
ragionevole previsione di danno incombente (da cui il
carattere dell'urgenza), dall'altro, l'inattuabilità degli
ordinari mezzi offerti dalla normativa (da cui la
contingibilità). Con specifico riferimento alla sanità ed
igiene, l'esercizio, da parte del Sindaco, del potere di
emanare ordinanze contingibili ed urgenti in dette materie è
condizionato all'esistenza di seguenti presupposti:
necessità di intervenire in determinare materie, quali la
sanità e l'igiene; attualità od imminenza di un fatto
eccezionale, quale causa da rimuovere con urgenza;
preventivo accertamento, da parte degli organi competenti,
della situazione di pericolo e di danno; mancanza di
strumenti alternativi previsti dall'ordinamento, visto il
carattere extra ordinem del potere sindacale (1).
------------
(1) TAR Campania Napoli, sez. V, 14-10-2005 n. 16477.
2.
E' carente di motivazione un'ordinanza contingibile ed
urgente, con la quale si ordina la cessazione con effetto
immediato di emissioni di fumo provenienti da una canna
fumaria, che, sebbene sul piano del requisito dell'urgenza,
soddisfi il presupposto dell'espletamento di apposito
accertamento tecnico da parte degli organi competenti, sul
piano della contingibilità, non si soffermi sulla
dimostrazione dell'impossibilità, per il Comune, di
utilizzare strumenti alternativi a quello attivato, avente
carattere eccezionale ed extra ordinem. La questione,
che non pare superabile con il ricorso all'art. 21-octies co.
2, L. n. 241/1990, non è meramente formale, in quanto, il
ricorso allo strumento extra ordinem consente alla p.A. di
evitare in modo legittimo la comunicazione di avvio del
procedimento ex art. 7, L. n. 241/1990 (2).
-----------
(2) TAR Campania Napoli, sez. V, 14-10-2005 n. 16477;
Cons. Stato, sez. V, 13-08-2007 n. 4448.
3.
Il fatto che l'autore dell'esposto che ha dato luogo ad
un'ordinanza contingibile ed urgente fosse l'amministratore
di un condominio non vale certo a fare di quest'ultimo il
controinteressato, né il destinatario della notificazione
del gravame, attesi i confini della legittimazione
processuale passiva dell'amministratore del condominio
fissati dall'art. 1131, Cod. Civ., (che riguarda le sole
parti materiali destinate all'uso comune dei condomini,
anche se ubicate all'esterno dello stabile condominiale)
(3). Per tale condominio, quindi, la qualifica di
controinteressato spetterebbe, in linea di principio, ai
proprietari ed ai residenti nello stabile (4) (TAR Toscana,
Sez. II,
sentenza 18.06.2009 n. 1070 - link a
http://mondolegale.it).
--------------
(3) Cass. Civ., sez. II, 19-01-1985 n. 145.
(4) Cons. Stato, sez. V, 11-04-1991 n. 542. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
M. A. Mazzola, “Rumore sì, rumore no”.
La
sentenza 11.06.2009 n. 2295 del Tribunale di
Genova, Sez. III civile, lascia perplessi perché si discosta
dall’unanime orientamento giurisprudenziale di considerare
intollerabile il rumore, non applicando il noto criterio
dell’incremento di 3 decibel, sostituito nella specie dal
criterio di accettabilità prescritto dal legislatore con
fonte regolamentare (si rinvia per un maggiore
approfondimento a Mazzola M.A., Immissioni e risarcimento
del danno, Utet, 2009).
Le perplessità non riguardano soltanto la via intrapresa
quanto le fragili motivazioni che la sostengono, di natura
tecnica.
Probabilmente la scelta di seguire tale via è stata
fortemente condizionata dalla recente scelta del legislatore
di intervenire in materia di immissioni intollerabili da
rumore con l’art. 6-ter della legge 27.02.2009, n. 13 (G.U.
28.02.2009 n. 49) - Conversione in legge, con modificazioni,
del decreto-legge 30.12.2008, n. 208 (pubblicato nella
Gazzetta Ufficiale -serie generale- n. 304 del 31.12.2008),
recante misure straordinarie in materia di risorse idriche e
di protezione dell'ambiente, ed entrata in vigore
l'01.03.2009, che ha appunto convertito con modificazioni il
decreto-legge 30.12.2008, n. 208, inerente misure
straordinarie in materia di risorse idriche e di protezione
dell'ambiente.
In particolare la norma ha statuito che “1.
Nell'accertare la normale tollerabilità delle immissioni e
delle emissioni acustiche, ai sensi dell'articolo 844 del
codice civile, sono fatte salve in ogni caso le disposizioni
di legge e di regolamento vigenti che disciplinano
specifiche sorgenti e la priorità di un determinato uso.”
(Art. 6-ter, Normale tollerabilità delle immissioni
acustiche).
E’ evidente come tale norma non abbia effetto retroattivo e
difatti il giudice ligure non la cita, perlomeno
esplicitamente. La fa però sua nell’impianto motivazionale e
la scelta di attribuire carattere di tollerabilità (salvo
alcune immissioni, la cui intollerabilità risulta infine
sufficiente per giustificare un riparto delle spese più
gravose per il condominio) alle immissioni di rumore
prodotte dalla caldaia condominiale nel loro complesso, o
comunque nella parte dominante di esse, induce l’organo
giudicante pure a valutare con maggiore senso critico la
prova dei danni non patrimoniali. Danni che difatti non
riconosce, unitamente a quelli patrimoniali, sempre negati.
Invero, le motivazioni in ordine alla valutazione dei danni
appare comunque in parte condivisibile (danni alla salute, e
danni patrimoniali) ed in parte sostenibile (i restanti
danni non patrimoniali) (link a www.greenlex.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Condominio - Opere strettamente
pertinenziali all’unità immobiliare del singolo condomino -
Concessione edilizia - Consenso degli altri partecipanti
alla comunione - Necessità - esclusione.
Il singolo condomino, in virtù del combinato disposto degli
artt. 1102 c.c. (facoltà del comunista di servirsi delle
cose comuni), 1105 c.c. (concorso di tutti i condomini alla
cosa comune) e 1122 c.c. (divieto al condomino di realizzare
opere che danneggino le cose comuni), può ottenere a proprio
nome la concessione edilizia per un'opera da realizzare
sulle parti comuni di un edificio senza chiedere il consenso
degli altri condomini, sempre che le opere siano
strettamente pertinenziali all'unità immobiliare.
Pertanto in tali casi il condòmino può apportare al muro
perimetrale, senza bisogno del consenso degli altri
partecipanti alla comunione, tutte le modificazioni che
consentano di trarre dal bene comune una particolare utilità
aggiuntiva rispetto a quella goduta dagli altri condòmini,
ivi compreso l’inserimento nel muro di elementi ad esso
estranei e posti al servizio esclusivo della sua porzione,
purché non impedisca agli altri condòmini l’uso del muro
comune e non ne àlteri la normale destinazione con
interventi di eccessiva vastità (TAR Abruzzo-L’Aquila, Sez.
I,
sentenza 24.03.2009 n. 221 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Opere su parti comuni di edificio.
Non è
necessario richiedere il previo assenso del condominio
interessato ovvero degli altri condomini, in caso di
realizzazione di un'opera da parte di un singolo sulle parti
comuni di un edificio se l’opera medesima sia strettamente
pertinenziale alla sua unità immobiliare (TAR Abruzzo-L'Aquila,
Sez. I,
sentenza 24.03.2009 n. 221 - link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Furti
in casa agevolati dai ponteggi: responsabili il condominio e
l'imprenditore.
Nell’ipotesi di furto subito
dal condomino per la presenza di ponteggi posti a ridosso
dell’edificio che, in assenza di opportune precauzioni,
hanno agevolato la produzione dell’evento dannoso, sussiste
la responsabilità concorrente del condominio e
dell’appaltatore
(Corte di Cassazione, Sez. III civile,
sentenza 17.03.2009 n. 6435 - link a
www.altalex.com). |
EDILIZIA
PRIVATA: L'esecuzioni
di lavori su parti condominiali presuppone la preliminare
acquisizione agli atti del Comune -e conseguente
valutazione- del parere dell'assemblea condominiale.
Trattandosi di intervento che,
come si è avuto modo di verificare coinvolge in maniera
diretta e rilevante anche parti comuni, occorreva acquisire
e valutare l’assenso condominiale (TAR Toscana, sez. II,
30.07.1990, n. 381, TAR Liguria n. 800/2007, 916/2005 e
284/2006).
In particolare, è già stato evidenziato che il generale
necessario assenso debba essere valutato alla luce della
situazione dei luoghi e delle ragioni espresse dal
condominio (cfr. TAR Liguria 24.01.2002 n. 63), ed è tale
valutazione ad essere del tutto carente nella specie
(TAR Liguria, Sez. II,
sentenza 09.01.2009 n. 43 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2008 |
|
CONDOMINIO: G.
Cascella,
Diritto di non utilizzare le parti comuni in condominio: il
riscaldamento centralizzato (link
a www.filodiritto.com). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
legittimazione a chiedere la concessione edilizia spetta
solo a chi abbia, in virtù di un diritto reale o di una
obbligazione, la facoltà di eseguire il progetto assentito.
Ai sensi dell’art. 4, comma 1,
L. 28.01.1977 n. 10, la legittimazione a chiedere la
concessione edilizia spetta solo a chi abbia, in virtù di un
diritto reale o di una obbligazione, la facoltà di eseguire
il progetto assentito.
Tale legittimazione compete anche al singolo condòmino
riguardo ad un’opera da realizzare sulle parti comuni di un
edificio, ma solo ove tale opera sia strettamente
pertinenziale alla sua unità immobiliare, in virtù del
combinato disposto degli artt. 1102 (facoltà del comunista
di servirsi delle cose comuni), 1105 (concorso di tutti i
condomini alla cosa comune) e 1122 (divieto al condominio di
realizzare opere che danneggino le cose comuni) (Consiglio
di Stato, sez. V, 23.06.1997, n. 699)
(TAR Campania-Napoli, Sez.
IV,
sentenza 03.09.2008 n. 10036 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO: Anche
l’amministratore di un condominio, se e quando munito di
specifici poteri a lui conferiti dai singoli condomini, può
richiedere il rilascio di una concessione edilizia in quanto
la legge non esclude che i soggetti titolati possano
avvalersi di altri soggetti, regolarmente incaricati secondo
le regole generali per esercitare il loro diritto.
Con
riferimento alla legittimazione ad agire dell’amministratore
del condominio, questo Tribunale ha già avuto modo di
chiarire che “anche l’amministratore di un condominio, se
e quando munito di specifici poteri a lui conferiti dai
singoli condomini, possa richiedere il rilascio di una
concessione edilizia in quanto la legge non esclude che i
soggetti titolati possano avvalersi di altri soggetti,
regolarmente incaricati secondo le regole generali per
esercitare il loro diritto. Ciò può facilmente verificarsi
nell’ipotesi di lavori di ristrutturazione di uno stabile
condominiale per i quali è richiesta la concessione edilizia
o nel caso di demolizione e successiva ricostruzione di un
edificio condominiale” (cfr. TAR Campania Napoli, sez.
II, n. 435/1996) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 03.09.2008 n. 10036 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI: Sconto
del 36% soltanto a chi usa il montascale per andare in
garage - L’agevolazione fiscale per la realizzazione di
opere che favoriscono la mobilità di soggetti con difficoltà
motorie spetta a chi sostiene la spesa e utilizza il
manufatto.
Il soggetto che ha installato in un condominio, per suo
esclusivo utilizzo, un montascale che gli faciliti l’accesso
al piano garage, non deve dividere con gli altri condomini
la detrazione fiscale del 36%, fino a una spesa massima di
48mila euro, prevista dall’articolo 1 della legge 449/1997.
Il beneficio, dunque, anche se l’intervento è avvenuto sulle
parti comuni di un edificio residenziale, non va calcolato
in base alla quota millesimale (risoluzione
01.08.2008 n. 336/E - link a www.fiscooggi.it). |
CONDOMINIO: Sulla
differenza tra balcone "incassato" e balcone "aggettante".
Secondo il più recente
indirizzo giurisprudenziale, occorre distinguere se i
balconi siano “incassati”, in tutto o in parte, nel
corpo dell’edificio (assolvendo, quindi, una funzione sia di
copertura, sia di sostegno), ovvero “aggettanti” (in
cui può riconoscersi alla soletta del balcone funzione di
copertura rispetto al balcone sottostante, disgiunta, però,
dalla funzione di sostegno e, quindi, non indispensabile per
l’esistenza stessa dei piani sovrapposti).
Con riferimento ai balconi “incassati” nel corpo
dell’edificio, la giurisprudenza ritiene operante una
presunzione di comunione, mentre con riferimento ai balconi
“aggettanti”, la giurisprudenza afferma che, “…costituendo
un ‘prolungamento’ della corrispondente unità immobiliare,
appartengono in via esclusiva al proprietario di
questa…Pertanto, nelle ipotesi di strutture completamente
aggettanti –in cui può riconoscersi alla soletta del balcone
funzione di copertura rispetto al balcone sottostante e,
trattandosi di sostegno non indispensabile per l’esistenza
dei piani sovrastanti– non può parlarsi di elemento a
servizio di entrambi gli immobili posti su piani
sovrastanti, né, quindi, di presunzione di proprietà comune
del balcone aggettante riferita ai proprietari dei singoli
piani” (cfr. Cass. Civ., Sez. II, 30.07.2004, n. 14576;
nello stesso senso anche Cass. Civ., Sez. II, 30.07.2004, n.
14590)
(T.R.G.A. Trentino Alto
Adige-Bolzano,
sentenza 27.03.2008 n. 101 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI: Vivere
in condominio - Guida informativa per chi acquista un
immobile. |
CONDOMINIO:
"Guida al condominio" dell'Agenzia delle Entrate.
Che cos'è un condominio, come deve essere gestito, quali
sono gli adempimenti fiscali e come ottenere le agevolazioni
fiscali per risparmio energetico e ristrutturazioni
edilizie?
A queste e ad altre simili domande risponde la "Guida al
condominio" realizzata dall'Agenzia delle Entrate nel mese
di dicembre 2007, disponibile anche in versione on-line. In
particolare, la guida contiene utili indicazioni sui
principali adempimenti fiscali a carico del condominio e
dell'amministratore: effettuazione delle ritenute sui
compensi erogati, assolvimento dei relativi obblighi
dichiarativi e comunicazione di alcuni dati relativi ai
condomini amministrati.
Un apposito capitolo illustra le agevolazioni d'imposta, in
caso di interventi di ristrutturazione edilizia o di
riqualificazione energetica sulle parti comuni degli edifici
condominiali. Alcune parti sono inoltre centrate sugli
obblighi da adempiere ai fini dell'Ici e delle imposte sui
redditi relativamente agli immobili di proprietà comune. La
Guida offre anche una sintetica esposizione dei principali
aspetti giuridici del condominio, nonché della figura
dell'amministratore e degli adempimenti fiscali per avviare
tale attività). |
anno 2007 |
|
CONDOMINIO: Quando
aprire un varco nel muro condominiale integra un abuso del
diritto.
L’apertura di un varco
nel muro condominale da parte di uno dei condomini al fine
di consentire l’accesso ad un immobile estraneo al
condominio integra la violazione dell’art. 1102 del c.c.,
dettato per la comunione ed applicabile anche al condomino.
A norma di esso ciascuno dei partecipanti alla comunione può
fare uso della cosa comune, senza tuttavia alterarne la
destinazione ed impedirne il godimento agli altri
partecipanti. Inoltre, può apportare modifiche alla cosa
comune, purché necessarie a garantirne il miglio godimento.
Il muro condominiale, per effetto dell’apertura del varco,
subisce un mutamento della destinazione di uso, in quanto
trattandosi di muro perimetrale viene distolto dalla sua
naturale funzione di recinzione del condominio per asservire
a passaggio in favore di un immobile estraneo al condomino.
Pertanto, deve ritenersi vietato al singolo condomino
operare simili modifiche senza avere acquisito
preventivamente il consenso degli altri condomini.
In definitiva, il condomino che, senza il preventivo
consenso degli altri condomini, apre un varco sul muro
condominiale al solo fine di agevolare l’accesso ad un
immobile di sua proprietà compie un abuso del diritto.
L’abuso non sussiste invece nel caso diverso in cui il varco
è aperto al fine di accedere ad un immobile facente parte
del complesso condominiale, atteso che in questo caso si
tratta di agevolare l’uso ed il godimento della cosa comune
da parte di tutti i condomini.
Nello stesso senso è la giurisprudenza dominante che in più
occasioni è pervenuta alla conclusione dell’illegittimità,
ai sensi del citato art. 1102 c.c. di simili opere eseguite
sul muro perimetrale condominiale tutte le volte in cui il
suolo o il fabbricato cui sia dato accesso costituisca
un’unità immobiliare estranea al condominio, ancorché
appartenente ad uno dei condomini (Cass. 9036/2006,
360/2005, 2773/1992, 5780/1988)
(Corte di
Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 19.12.2007 n. 26796
- link a www.altalex.com). |
CONDOMINIO: Decoro
architettonico condominiale va tutelato in base a
circostanze concrete.
La tutela del decoro architettonico degli edifici
condominiali, anche di quelli privi di particolari pregi
artistici, è stata apprestata dal legislatore, all’art. 1120
II co. c.c., non in astratto, bensì in considerazione della
concorrenza di due distinte circostanze concrete:
un’alterazione delle linee e delle strutture fondamentali
dell’edificio, od anche di sue singole parti o di suoi
singoli elementi dotati di sostanziale autonomia, ed una
consequenziale diminuzione del valore dell’intero edificio
e, quindi, anche di ciascuna delle unità immobiliari che lo
compongono, di qui la legittimazione attiva non solo del
condominio ma anche del singolo condomino (Corte di
Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 17.10.2007 n. 21835 - link a
www.altalex.com). |
EDILIZIA
PRIVATA: Vano
condominiale ad uso centrale termica richiede autorizzazione
gratuita.
In primo luogo va
rilevato che il condominio procedente aveva presentato
richiesta di accertamento di conformità per gli interventi
eseguiti, ai sensi dell’art. 13 della legge n. 47 del 1985 e
quindi, in base ad un consolidato principio
giurisprudenziale, l’Amministrazione non poteva adottare
provvedimenti sanzionatori prima di essersi pronunciata su
detta richiesta.
Il provvedimento impugnato ha ad oggetto un intervento di
modesta entità relativo alla copertura della centrale
termica, costituente, dunque, chiaramente volume tecnico e
pertinenza della costruzione, per il rapporto di durevole
subordinazione con la res principale.
Va ricordato, come evidenziato dalla parte istante, che le
pertinenze e gli altri tipi di interventi edilizi indicati
dall'art. 7 del decreto-legge n. 9 del 1982 sono
assoggettati ad autorizzazione gratuita e non a concessione
edilizia. In particolare, il secondo comma del medesimo art.
7 del decreto-legge n. 9 del 1982 precisa ed estende
l'ambito degli interventi soggetti ad autorizzazione,
comprendendo tra essi anche "le opere costituenti
pertinenze od impianti tecnologici al servizio di edifici
già esistenti" (lettera a)
(TAR Lazio,
Sez. II-bis,
sentenza 26.06.2007 n. 5779
- link a www.altalex.com). |
anno 2006 |
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EDILIZIA
PRIVATA:
Sul recupero dei sottotetti
condominiali.
In caso di intervento edilizio
afferente un sottotetto (condominiale) da ritenersi non di
pertinenza esclusiva dell'appartamento dei richiedenti,
siccome insistente contemporaneamente su tre diverse
porzioni materiali del fabbricato, occorre, infatti, il
previo consenso di tutti i condomini; è al riguardo
irrilevante la circostanza che l'intervento inerisca
unicamente la parte di sottotetto sovrastante l'unità
immobiliare degli istanti, posto che dette opere
influirebbero comunque sulla destinazione del sottotetto
all'uso comune.
Il sottotetto di un edificio in condominio può considerarsi
pertinenza esclusiva dell'appartamento sito all'ultimo piano
solo quando assolva la esclusiva funzione di isolare e
proteggere l'unità stessa dal caldo, dal freddo e
dall'umidità, crei una sorta di camera d'aria, non anche
quando abbia dimensioni e carattere strutturali tali da
consentirne l'utilizzazione come vano autonomo, nel quale
deve presumersi di proprietà condominiale laddove risulti in
concreto seppur in via solo potenziale, oggettivamente
destinato all'uso comune (Consiglio Stato, sez. V,
09.10.2003, n. 6049)
(TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 17.01.2006 n. 72 -
link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2004 |
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CONDOMINIO:
COMUNIONE DEI DIRITTI REALI -
CONDOMINIO NEGLI EDIFICI - PARTI COMUNI
DELL'EDIFICIO - CORTILI, CHIOSTRINE,
FINESTRE - Aree condominiali scoperte -
Destinazione in parte a parcheggio delle
vetture dei condomini ed in parte a parco
giochi - Delibera assembleare - Approvazione
- All'unanimità - Necessità - Esclusione - A
maggioranza - Legittimità.
La delibera assembleare di destinazione di
aree condominiali scoperte in parte a
parcheggio autovetture dei singoli condomini
e in parte a parco giochi va approvata a
maggioranza qualificata dei condomini ex
art. 1136 quinto comma, cod. civ.) -con la
quale possono essere disposte tutte le
innovazioni dirette al miglioramento o
all'uso più comodo o al maggior rendimento
delle cose comuni (art. 1120 primo comma,
cod. civ.)- non essendo all'uopo necessaria
l'unanimità dei consensi degli aventi
diritto al voto (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 29.12.2004 n. 24146
- commento tratto da
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CONDOMINIO:
COMUNIONE DEI DIRITTI REALI -
CONDOMINIO NEGLI EDIFICI - PARTI COMUNI
DELL'EDIFICIO - CORTILI, CHIOSTRINE,
FINESTRE - Cortile - Destinazione a
parcheggio di autoveicoli - Delibera
assembleare - Approvazione a maggioranza -
Validità - Fondamento.
In tema di condominio, la delibera
assembleare di destinazione del cortile a
parcheggio di autovetture -in quanto
disciplina le modalità di uso e di godimento
del bene comune- è validamente approvata con
la maggioranza prevista dal quinto comma
dell'art. 1138 cod.civ., non essendo
richiesta l'unanimità dei consensi (Corte di
Cassazione, Sez. II, civile, sentenza
08.11.2004 n. 21287 - commento tratto da
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