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48-DEFINIZIONI INTERVENTI EDILIZI
49-DIA e SCIA
50-DIAP
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55-DISTANZA dalle PARETI FINESTRATE
56-DURC
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58-EDIFICIO UNIFAMILIARE
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62-INCARICHI PROFESSIONALI E PROGETTUALI
63-INCENTIVO PROGETTAZIONE (ora INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE)
64-INDUSTRIA INSALUBRE
65-L.R. 12/2005
66-L.R. 23/1997
67-L.R. 31/2014
68-LEGGE CASA LOMBARDIA
69-LICENZA EDILIZIA (necessità)
70-LOTTO EDIFICABILE - ASSERVIMENTO AREA - CESSIONE CUBATURA
71-LOTTO INTERCLUSO
72-MAPPE e/o SCHEDE CATASTALI (valore probatorio o meno)
73-MOBBING
74-MURO DI CINTA/RECINZIONE, DI CONTENIMENTO/SOSTEGNO, ECC.
75-OPERE PRECARIE
76-PARERE DI REGOLARITA' TECNICA, CONTABILE E DI LEGITTIMITA'
77-PATRIMONIO
78-PERGOLATO e/o GAZEBO e/o BERCEAU e/o DEHORS e/o POMPEIANA e/o PERGOTENDA e/o TETTOIA
79-PERMESSO DI COSTRUIRE (annullamento e/o impugnazione)
80-PERMESSO DI COSTRUIRE (decadenza)
81-PERMESSO DI COSTRUIRE (deroga)
82-PERMESSO DI COSTRUIRE (legittimazione richiesta titolo)
83-PERMESSO DI COSTRUIRE (parere commissione edilizia)
84-PERMESSO DI COSTRUIRE (prescrizioni)
85-PERMESSO DI COSTRUIRE (proroga)
86-PERMESSO DI COSTRUIRE (verifica in istruttoria dei limiti privatistici al rilascio)
87
-
PERMESSO DI COSTRUIRE (volturazione)
88-
PERTINENZE EDILIZIE ED URBANISTICHE
89-PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI
90-PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI (aree a standard)
91-PIF (Piano Indirizzo Forestale)
92-PISCINE
93-PUBBLICO IMPIEGO
94-PUBBLICO IMPIEGO (quota annuale iscrizione ordine professionale)
95-RIFIUTI E BONIFICHE
96-
RINNOVO/PROROGA CONTRATTI
97-RUDERI
98-
RUMORE
99-SAGOMA EDIFICIO
100-SANATORIA GIURISPRUDENZIALE E NON (abusi edilizi)
101-SCOMPUTO OO.UU.
102-SEGRETARI COMUNALI
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105-SICUREZZA SUL LAVORO
106
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SILOS
107-SINDACATI & ARAN
108-SOPPALCO
109-SOTTOTETTI
110-SUAP
111-SUE
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114-TENDE DA SOLE
115-TINTEGGIATURA FACCIATE ESTERNE
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119-VINCOLO IDROGEOLOGICO
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dossier DISTANZA DAI CORSI D'ACQUA - DEMANIO MARITTIMO/LACUALE

per approfondimenti vedi anche:

Regione Lombardia: Polizia idraulica
* * *
R.D. 25.07.1904 n. 523 (Testo unico sulle opere idrauliche)
* * *
 
L.R. 15.03.2016 n. 4 (Revisione della normativa regionale in materia di difesa del suolo, di prevenzione e mitigazione del rischio idrogeologico e di gestione dei corsi d'acqua)

anno 2022

EDILIZIA PRIVATAE' legittimo il diniego di rilascio di concessione edilizia in sanatoria relativamente ad un fabbricato realizzato all'interno della c.d. fascia di servitù idraulica, atteso che il divieto di costruzione ad una certa distanza dagli argini dei corsi d'acqua demaniali, imposto dall'art. 96, lett. f), R.D. n. 523/1904, ha carattere assoluto ed inderogabile.
Pertanto, nell'ipotesi di costruzione abusiva realizzata in contrasto con tale divieto trova applicazione l'art. 33 L. n. 47/1985 sul condono edilizio, il quale contempla i vincoli di inedificabilità, includendo in tale ambito i casi in cui le norme vietino in modo assoluto di edificare in determinate aree.

---------------

8. Con la censura sub. 5, il ricorrente contesta la circostanza valorizzata dall’amministrazione ai fini del diniego che parte dell’immobile ricade in zona d’impluvio; rappresenta, inoltre, che la destinazione urbanistica della zona (D1) consente il mantenimento dei manufatti o addirittura il loro ampliamento. Ancora, lamenta che il vincolo di inedificabilità sarebbe stato imposto dopo la realizzazione delle opere in questione, sicché esse appaiono suscettibili di sanatoria (artt. 32 e 33 Legge n. 47/1985).
L’Amministrazione eccepisce che l’art. 53 delle N.T.A. definisce “zone di impluvio” quelle zone che nella relazione geologica sono classificate “a rischio geologico” ed inedificabili, della larghezza di m. 10,00 dall’argine del corso d’acqua, sottoposto al vincolo di inedificabilità assoluta ai sensi dell’art. 96, lett. f), del T.U. 25.07.1904 n. 523, fascia entro la quale ricadono parte degli immobili oggetto di sanatoria.
Pertanto, sebbene le opere in esame ricadano all’interno della zona D1, sarebbe comunque dovuta l’osservanza della distanza dagli argini imposta dalla normativa statale sopra citata.
8.1. Ai fini del rigetto della censura si fa rinvio a Cons. Giust. Amm. Sicilia, 01/04/2019, n. 303 secondo cui: “E' legittimo il diniego di rilascio di concessione edilizia in sanatoria relativamente ad un fabbricato realizzato all'interno della c.d. fascia di servitù idraulica, atteso che il divieto di costruzione ad una certa distanza dagli argini dei corsi d'acqua demaniali, imposto dall'art. 96, lett. f), R.D. n. 523/1904, ha carattere assoluto ed inderogabile; pertanto, nell'ipotesi di costruzione abusiva realizzata in contrasto con tale divieto trova applicazione l'art. 33 L. n. 47/1985 sul condono edilizio, il quale contempla i vincoli di inedificabilità, includendo in tale ambito i casi in cui le norme vietino in modo assoluto di edificare in determinate aree
(TAR Sicilia-Catania, Sez. IV, sentenza 22.06.2022 n. 1654 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza ha precisato che:
   - deve riconoscersi la giurisdizione del Tribunale superiore non solo quando l'atto impugnato promani da organi amministrativi istituzionalmente preposti alla cura del settore delle acque pubbliche, ma anche quando l'atto, ancorché proveniente da organi diversi, finisca con l'incidere immediatamente -e non soltanto in via occasionale- sull'uso delle medesime acque pubbliche, se ed in quanto interferisca con i provvedimenti relativi a tale uso (ad esempio, autorizzando, impedendo o modificando i lavori relativi o determinando i modi di acquisto dei beni necessari all'esercizio ed alla realizzazione delle opere stesse) o sulla stessa struttura o consistenza dei beni demaniali;
   - risulta necessario, per fondare la specializzata giurisdizione delle acque, che i provvedimenti impugnati, per effetto della loro incidenza sulla realizzazione, sospensione od eliminazione di un'opera idraulica riguardante un'acqua pubblica, concorrano, in concreto, a disciplinare direttamente le modalità di utilizzazione di quell'acqua o l'assetto e la struttura dei beni del demanio idrico, non essendo sufficiente che sui relativi regimi quelli incidano solo in via indiretta, riflessa, mediata od occasionale;
   - nell'ambito della giurisdizione specializzata vanno, dunque, ricompresi anche i ricorsi avverso i provvedimenti che, pur costituendo esercizio di un potere non strettamente attinente alla materia delle acque ed inerendo ad interessi più generali e diversi ed eventualmente connessi rispetto agli interessi specifici relativi alla demanialità delle acque o ai rapporti concessori di beni del demanio idrico, riguardino comunque l'utilizzazione di detto demanio, così incidendo in maniera diretta ed immediata sull'uso delle acque, interferendo con provvedimenti riguardanti tale uso, nonché autorizzando, impedendo o modificando i lavori relativi;
   - ad analoga conclusione, nel senso della giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche in unico grado di legittimità, occorre giungere quanto ai provvedimenti riguardanti gli ambiti territoriali ottimali, benché solo quando da essi discendano ricadute sull'organizzazione e sulla conduzione del sistema idrico integrato (che, mirando a garantire la gestione di tale servizio in termini di efficienza, efficacia ed economicità, abbiano incidenza diretta sul regime delle acque pubbliche e del loro utilizzo);
   - la giurisdizione del giudice specializzato è riconosciuta anche in caso di divieti di edificazione, quando siano informati alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, o di assicurare il libero deflusso delle acque che scorrono nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici;
   - al contrario, deve riconoscersi la giurisdizione del giudice amministrativo in caso di impugnativa di atti solo in via strumentale inseriti in procedimenti finalizzati ad incidere sul regime delle acque pubbliche e pertanto in grado di influirvi solo occasionalmente, in cui rileva esclusivamente l'interesse al rispetto delle norme di legge nelle procedure amministrative funzionali all'affidamento di concessioni o appalti di opere relative a tali acque; oppure in caso di prevalenza in concreto, nel provvedimento impugnato, della tutela di interessi pubblicistici diversi rispetto a quelli coinvolti dal regime delle acque pubbliche.

---------------
Non c’è argomento più tipico della cognizione di legittimità del TSAP, fin dall’entrata in vigore dell’art. 96 del RD 523/1904, di quello del divieto di costruzioni di qualunque natura a meno di mt 10 dal piede dell’argine, anzi è tal questione fu ed è tuttora l’ubi consistam della giurisdizione del TSAP sul demanio idrico, ai sensi dell’art. 143, I co., lett. a), del RD 1775/1933.
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10.8 I motivi di impugnazione, per ragioni di connessione, possono essere esaminati congiuntamente.
In subiecta materia deve richiamarsi quanto statuito dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 2710 del 2020, in cui, nel ripercorrere la giurisprudenza di legittimità formatasi sul riparto tra la giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche (come delimitata dal R.D. 11.12.1933, n. 1775, art. 143), la giurisdizione del Tribunale regionale delle acque (costituente organo in primo grado specializzato della giurisdizione ordinaria, cui l'art. 140 del medesimo R.D., attribuisce, tra l'altro, le controversie in cui si discuta, in via diretta, di diritti correlati alle derivazioni e utilizzazioni di acque pubbliche) e la giurisdizione amministrativa (del complesso TAR-Consiglio di Stato, comprensiva di tutte le controversie, concernenti atti solo strumentalmente inseriti in procedimenti finalizzati ad incidere sul regime delle acque pubbliche, in cui rileva esclusivamente l'interesse al rispetto delle norme di legge nelle procedure amministrative volte all'affidamento di concessioni o di appalti di opere relative a tali acque), è stato precisato che:
   - deve riconoscersi la giurisdizione del Tribunale superiore non solo quando l'atto impugnato promani da organi amministrativi istituzionalmente preposti alla cura del settore delle acque pubbliche, ma anche quando l'atto, ancorché proveniente da organi diversi, finisca con l'incidere immediatamente -e non soltanto in via occasionale- sull'uso delle medesime acque pubbliche, se ed in quanto interferisca con i provvedimenti relativi a tale uso (ad esempio, autorizzando, impedendo o modificando i lavori relativi o determinando i modi di acquisto dei beni necessari all'esercizio ed alla realizzazione delle opere stesse) o sulla stessa struttura o consistenza dei beni demaniali;
   - risulta necessario, per fondare la specializzata giurisdizione delle acque, che i provvedimenti impugnati, per effetto della loro incidenza sulla realizzazione, sospensione od eliminazione di un'opera idraulica riguardante un'acqua pubblica, concorrano, in concreto, a disciplinare direttamente le modalità di utilizzazione di quell'acqua o l'assetto e la struttura dei beni del demanio idrico, non essendo sufficiente che sui relativi regimi quelli incidano solo in via indiretta, riflessa, mediata od occasionale;
   - nell'ambito della giurisdizione specializzata vanno, dunque, ricompresi anche i ricorsi avverso i provvedimenti che, pur costituendo esercizio di un potere non strettamente attinente alla materia delle acque ed inerendo ad interessi più generali e diversi ed eventualmente connessi rispetto agli interessi specifici relativi alla demanialità delle acque o ai rapporti concessori di beni del demanio idrico, riguardino comunque l'utilizzazione di detto demanio, così incidendo in maniera diretta ed immediata sull'uso delle acque, interferendo con provvedimenti riguardanti tale uso, nonché autorizzando, impedendo o modificando i lavori relativi;
   - ad analoga conclusione, nel senso della giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche in unico grado di legittimità, occorre giungere quanto ai provvedimenti riguardanti gli ambiti territoriali ottimali, benché solo quando da essi discendano ricadute sull'organizzazione e sulla conduzione del sistema idrico integrato (che, mirando a garantire la gestione di tale servizio in termini di efficienza, efficacia ed economicità, abbiano incidenza diretta sul regime delle acque pubbliche e del loro utilizzo);
   - la giurisdizione del giudice specializzato è riconosciuta anche in caso di divieti di edificazione, quando siano informati alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, o di assicurare il libero deflusso delle acque che scorrono nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici;
   - al contrario, deve riconoscersi la giurisdizione del giudice amministrativo in caso di impugnativa di atti solo in via strumentale inseriti in procedimenti finalizzati ad incidere sul regime delle acque pubbliche e pertanto in grado di influirvi solo occasionalmente, in cui rileva esclusivamente l'interesse al rispetto delle norme di legge nelle procedure amministrative funzionali all'affidamento di concessioni o appalti di opere relative a tali acque; oppure in caso di prevalenza in concreto, nel provvedimento impugnato, della tutela di interessi pubblicistici diversi rispetto a quelli coinvolti dal regime delle acque pubbliche.
Alla stregua di tali coordinate ermeneutiche, deve confermarsi la sentenza gravata anche nella parte in cui il Tar ha declinato la propria giurisdizione in relazione ai motivi di impugnazione (svolti in via principale e incidentale) riferiti a manufatti compresi nella fascia di rispetto di dieci metri dal piede dell’argine di cui all’art. 96, lett. f), R.D. n. 523/1904, ai sensi del quale “Sono lavori ed atti vietati in modo assoluto sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e difese i seguenti […]le piantagioni di alberi e siepi, le fabbriche, gli scavi e lo smovimento del terreno a distanza dal piede degli argini e loro accessori come sopra, minore di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località, ed in mancanza di tali discipline, a distanza minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento del terreno e di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi”.
Si fa, infatti, questione di divieto di edificazione, informato alla ragione pubblicistica di assicurare il libero deflusso delle acque che scorrono nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici, la cui violazione influisce in via diretta ed immediata sul regime delle acque pubbliche.
Trattasi di indirizzo già accolto da questo Consiglio, secondo cui “non c’è argomento più tipico della cognizione di legittimità del TSAP, fin dall’entrata in vigore dell’art. 96 del RD 523/1904, di quello del divieto di costruzioni di qualunque natura a meno di mt 10 dal piede dell’argine, anzi è tal questione fu ed è tuttora l’ubi consistam della giurisdizione del TSAP sul demanio idrico, ai sensi dell’art. 143, I co., lett. a), del RD 1775/1933 (cfr. così TSAP, n. 35/2021)” (Consiglio di Stato, sez. VI, 22.03.2021, n. 2424).
Per l’effetto, i motivi di appello incidentale devono essere disattesi.
Le doglianze articolate in prime cure, rispetto alle quali è stata declinata la giurisdizione amministrativa, riguardano determinazioni comunali che, sebbene promananti da un organo amministrativo diverso da quelli istituzionalmente preposti alla cura del settore delle acque pubbliche e ancorché deputate alla tutela di interessi più generali (paesaggistico, urbanistico ed edilizio) e diversi rispetto a quelli attinente alla materia delle acque, finiscono comunque con l'incidere immediatamente -e non soltanto in via occasionale- sull'uso delle acque pubbliche, escludendo la sanatoria e disponendo la rimozione di manufatti che, in quanto realizzati nella fascia di rispetto prevista dall’art. 96, lett. f), R.D. n. 523/1904, risultano pregiudizievoli per il libero deflusso e la possibilità di sfruttamento delle acque pubbliche (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 20.10.2020, n. 6359).
In definitiva, deve escludersi la giurisdizione amministrativa sui motivi di doglianza articolati in primo grado, in via principale e in via incidentale, riguardanti opere (nn. 3-4-5-6-7-8-9-11-12-13) realizzate entro la fascia di rispetto prevista dall’art. 96, lett. f), R.D. n. 523/1904: sebbene argomentati sulla base della violazione delle disposizioni di tutela urbanistica, edilizia o paesaggistica, tali motivi di impugnazione investono determinazioni amministrative che immediatamente -e non soltanto in via occasionale- incidono sull'uso delle acque pubbliche, con conseguente loro attrazione alla giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche ai sensi dell’art. 143 R.D. 11/12/1933, n. 1775
 (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 21.04.2022 n. 3026 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAVa accolta l’eccezione di difetto di giurisdizione del G.A. nella presente controversia trattandosi di controversia la cui cognizione spetta, ai sensi dell’art. 143 del RD n. 1775/1933, comma 1, lett. a) e b), al Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, essendo impugnati provvedimenti delle amministrazioni in materia di acque pubbliche e che comunque, ai sensi dell’art. 2 del R.D. n. 523/1904, incidono direttamente sul regime delle acque pubbliche.
Come rilevato dalla giurisprudenza, tale giurisdizione va infatti estesa anche ai provvedimenti che, pur se promananti da autorità diverse da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, siano caratterizzati dall'incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche e concorrano, in concreto, a disciplinare la realizzazione, la localizzazione, la gestione e l'esercizio delle opere idrauliche, ivi compresi pure i provvedimenti espropriativi o di occupazione d'urgenza delle aree occorrenti per la realizzazione dell'opera idraulica, oltre agli atti comunque influenti sulla sua localizzazione sul suo spostamento.
In particolare, l'art. 133, comma 1, lett. f, CPA (D.Lgs. n. 104/2010), in materia urbanistica e di uso del territorio (che include la materia espropriativa), ha fatto salva la giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche.
Infatti, ai sensi dell’art. 1 della legge n. 36/1994 -successivamente trasfuso nell’art. 144, comma 1, del D.Lgs. n. 152/2006- tutte le acque superficiali e sotterranee devono considerarsi pubbliche in quanto appartenenti al Demanio dello Stato, ivi comprese quindi quelle che costituiscono oggetto dei provvedimenti impugnati nella presente controversia.
In particolare, i provvedimenti impugnati nella presente controversia incidono direttamente sul regime delle acque pubbliche, nel senso che concorrano, in concreto, a disciplinare la gestione e l'esercizio delle opere idrauliche o a determinare i modi di acquisto dei beni necessari all'esercizio e alla realizzazione delle opere stesse od a stabilire o modificarne la localizzazione o a influire nella loro realizzazione sicché certamente sussiste, nella presente controversia, la giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche ai sensi del R.D. n. 1775/1933, art. 143, lett. a).
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Ritenuto dunque, in via preliminare,
   - che vada accolta l’eccezione di difetto di giurisdizione del Giudice Amministrativo nella presente controversia, dedotta dalle amministrazioni costituite in giudizio, trattandosi di controversia la cui cognizione spetta, ai sensi dell’art. 143 del RD n. 1775/1933, comma 1, lettere a) e b), al Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, essendo impugnati provvedimenti delle amministrazioni in materia di acque pubbliche e che comunque, ai sensi dell’art. 2 del Regio Decreto n. 523/1904, incidono direttamente sul regime delle acque pubbliche;
   - che, come rilevato dalla giurisprudenza, tale giurisdizione va infatti estesa anche ai provvedimenti che, pur se promananti da autorità diverse da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, siano caratterizzati dall'incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche e concorrano, in concreto, a disciplinare la realizzazione, la localizzazione, la gestione e l'esercizio delle opere idrauliche, ivi compresi pure i provvedimenti espropriativi o di occupazione d'urgenza delle aree occorrenti per la realizzazione dell'opera idraulica, oltre agli atti comunque influenti sulla sua localizzazione sul suo spostamento (TAR Lombardia-Milano Sez. III, 23/07/2020, n. 1430; TAR Puglia-Bari Sez. III, 06/06/2020, n. 819; Cons. Stato Sez. V, 07/07/2014, n. 3436; Cons. Stato Sez. IV, 19/03/2015, n. 1508).
   - che, in particolare, l'art. 133, comma 1, lett. f, CPA (D.Lgs. n. 104/2010), in materia urbanistica e di uso del territorio (che include la materia espropriativa), ha fatto salva la giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche;
   - che, infatti, ai sensi dell’art. 1 della legge n. 36/1994 -successivamente trasfuso nell’art. 144, comma 1, del D.Lgs. n. 152/2006- tutte le acque superficiali e sotterranee devono considerarsi pubbliche in quanto appartenenti al Demanio dello Stato, ivi comprese quindi quelle che costituiscono oggetto dei provvedimenti impugnati nella presente controversia;
   - che, in particolare, i provvedimenti impugnati nella presente controversia incidono direttamente sul regime delle acque pubbliche, nel senso che concorrano, in concreto, a disciplinare la gestione e l'esercizio delle opere idrauliche o a determinare i modi di acquisto dei beni necessari all'esercizio e alla realizzazione delle opere stesse od a stabilire o modificarne la localizzazione o a influire nella loro realizzazione sicché certamente sussiste, nella presente controversia, la giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche ai sensi del R.D. n. 1775/1933, art. 143, lett. a);
   - in conclusione, va dichiarato il difetto di giurisdizione del Giudice Amministrativo nella presente controversia, fatti salvi gli effetti della domanda ai sensi dell’art. 11 c.p.a. (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 06.04.2022 n. 324 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl divieto di costruzione di opere lungo gli argini dei corsi d’acqua, di cui all’art. 96, lett. f), del R.D. n. 523 del 1904 è diretto ad assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque nei fiumi, canali e scolatoi pubblici.
L’ambito del divieto è esteso a qualunque manufatto o volume collocato a meno di dieci metri dalla sponda del fiume, per cui nessuna opera realizzata in violazione di tali norme può essere sanata.
L’art. 96, lett. f), inoltre, ha carattere sussidiario, essendo destinato a prevalere solo in assenza di una specifica normativa locale, che può essere contenuta anche nello strumento urbanistico. Essa, tuttavia, per derogare alla norma statale, dev’essere espressamente destinata alla regolamentazione delle distanze dagli argini, esplicitando le condizioni locali e le esigenze di tutela delle acque e degli argini che giustifichino la determinazione di una distanza maggiore o minore di quella indicata dalla norma statale.
Il divieto trova estensione anche in tema di condono edilizio: l’art. 33 della legge n. 47/1985 e l’art. 32 del decreto-legge n. 269/2003 ricomprendono, infatti, nei vincoli di inedificabilità, tutti i casi in cui le norme vietino in modo assoluto di edificare in determinate aree.
L’art. 133, comma 1, lett. a), del R.D. n. 368/1904, invece, nel consentire lavori ad una distanza variabile dagli argini, si riferisce esclusivamente alle opere di bonifica ed alle loro pertinenze.
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Premesso che la questione centrale del gravame concerne la tutela delle aree appartenenti al demanio idrico a salvaguardia della pubblica e privata incolumità, deve osservarsi come, secondo giurisprudenza costante, nell’ambito della previsione normativa di cui all’art. 143, lett. a) e b), del R.D. n. 1175/1933, l’impugnazione di atti di diniego di rilascio di titoli edilizi in sanatoria motivati dalla ragione di assicurare la possibilità di sfruttamento, delle acque demaniali, o di assicurare il libero deflusso delle acque che scorrono nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici appartiene alla giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche.

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Il ricorso è manifestamente inammissibile e può essere deciso in forma semplificata.
Ed invero, secondo consolidata giurisprudenza, il divieto di costruzione di opere lungo gli argini dei corsi d’acqua, di cui all’art. 96, lett. f), del R.D. n. 523 del 1904 è diretto ad assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque nei fiumi, canali e scolatoi pubblici (cfr. Cass. civ., Sez. un., 30.07.2009, n. 17784; Cons. Stato, Sez. IV, 26.03.2009, n. 1814 e 22.06.2011, n. 3781; TSAP 24.06.2010, n. 104).
L’ambito del divieto è esteso a qualunque manufatto o volume collocato a meno di dieci metri dalla sponda del fiume, per cui nessuna opera realizzata in violazione di tali norme può essere sanata.
L’art. 96, lett. f), inoltre, ha carattere sussidiario, essendo destinato a prevalere solo in assenza di una specifica normativa locale, che può essere contenuta anche nello strumento urbanistico. Essa, tuttavia, per derogare alla norma statale, dev’essere espressamente destinata alla regolamentazione delle distanze dagli argini, esplicitando le condizioni locali e le esigenze di tutela delle acque e degli argini che giustifichino la determinazione di una distanza maggiore o minore di quella indicata dalla norma statale (cfr. Cass. civ., Sez. un., n. 19813/2008; TSAP n. 124/2015).
Il divieto trova estensione anche in tema di condono edilizio: l’art. 33 della legge n. 47/1985 e l’art. 32 del decreto-legge n. 269/2003 ricomprendono, infatti, nei vincoli di inedificabilità, tutti i casi in cui le norme vietino in modo assoluto di edificare in determinate aree (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 26.03.2009, n. 1814; 23.07.2009, n. 4663; 12.02.2010, n. 772; 22.06.2011, n. 3781; TSAP 15.03.2011, n. 35).
L’art. 133, comma 1, lett. a), del R.D. n. 368/1904, invece, nel consentire lavori ad una distanza variabile dagli argini, si riferisce esclusivamente alle opere di bonifica ed alle loro pertinenze.
Premesso, dunque, che la questione centrale del gravame concerne la tutela delle aree appartenenti al demanio idrico a salvaguardia della pubblica e privata incolumità, deve osservarsi come, secondo giurisprudenza costante, nell’ambito della previsione normativa di cui all’art. 143, lett. a) e b), del R.D. n. 1175/1933, l’impugnazione di atti di diniego di rilascio di titoli edilizi in sanatoria motivati dalla ragione di assicurare la possibilità di sfruttamento, delle acque demaniali, o di assicurare il libero deflusso delle acque che scorrono nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici appartiene alla giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche (Cass. civ., Sez. un. 03.04.2019, n. 9279; TAR Campania, Salerno, Sez. I, 21.01.2022, n. 188) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 16.03.2022 n. 748 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2021

EDILIZIA PRIVATASecondo consolidato orientamento giurisprudenziale sussiste la giurisdizione del Tribunale superiore per le acque pubbliche a conoscere della legittimità dei provvedimenti che incidono in maniera diretta ed immediata sul regime delle acque; l’incidenza diretta e immediata è riconosciuta ad ogni provvedimento che, per essere attinente alla realizzazione, sospensione o eliminazione di un’opera idraulica riguardante un’acqua pubblica, concorre, in concreto, a disciplinare le modalità di utilizzazione di quell'acqua.
Inoltre, la devoluzione della cognizione al Tribunale superiore delle acque pubbliche postula che la controversia implichi la soluzione di questioni di carattere tecnico concernenti il regime delle acque e le opere idrauliche e acquedottistiche. Ed invero, la creazione di un giudice speciale delle acque pubbliche risale al decreto luogotenenziale 20.11.1916, n. 1664 che, accanto alla prima disciplina sostanziale organica delle acque pubbliche, stabiliva la creazione di un tribunale competente a decidere le controversie in materia, introducendo un’eccezione all’ordinario regime di riparto fondato sulla situazione giuridica soggettiva.
La sua istituzione rispondeva all’esigenza, in una materia considerata ad elevato grado di complessità tecnica, di assicurare un giudice che, grazie alla presenza nel proprio collegio di ingegneri idraulici e funzionari esperti in acque pubbliche e opere idrauliche, fosse in grado di assicurare una giustizia adeguata; esso godeva originariamente (prima dell’istituzione dei Tribunali regionali delle acque pubbliche) di una competenza estesa sia ai diritti soggettivi che agli interessi legittimi, proprio perché la rilevanza del profilo tecnico delle controversie era stata ritenuta prevalente rispetto ad ogni altro profilo, compreso il principio dell’unità della giurisdizione.
La presenza di tecnici esperti della materia nella composizione di ogni collegio giudicante giustifica la devoluzione al Tribunale superiore delle acque pubbliche delle sole controversie che, concernendo la realizzazione e la gestione delle opere idrauliche ed avendo, per tale ragione, un’incidenza immediata e diretta sul regime delle acque pubbliche, implicano per loro natura la soluzione di questioni tecniche di carattere idraulico e acquedottistico, mentre restano estranee alla cognitio del detto Tribunale le controversie che involgono censure di carattere prettamente giuridico la cui soluzione non richiede competenze di carattere tecnico specialistico.
Ed ancora, come evidenziato, ove l’ordinanza di demolizione impugnata non mostri alcun profilo di incidenza, nemmeno potenziale, con il regime della acque di per sé considerato, in quanto la sua motivazione si è limitata a rilevare il mancato rispetto della c.d. fascia idrica, nell’esercizio della funzione di vigilanza edilizia (quindi, né il potere esercitato, né la funzione in concreto perseguita erano attinenti, nemmeno indirettamente, alla materia delle acque pubbliche), la giurisdizione sulla controversia è del giudice amministrativo.
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e argomentazioni della parte ricorrente in punto di formazione del silenzio-assenso sono infondate posto che, in disparte ogni altra considerazione, il silenzio-assenso opera solo con riferimento ad opere oggettivamente sanabili.
E comunque, il Giudice d'appello ha ritenuto che la formazione del silenzio-assenso sulla domanda di sanatoria degli abusi edilizi richiede (anche) che siano stati integralmente assolti dall'interessato gli oneri di documentazione relativi al tempo di ultimazione dei lavori, all'ubicazione, alla consistenza delle opere e ad ogni altro elemento rilevante affinché possano essere utilmente esercitati i poteri di verifica dell'Amministrazione comunale.
L’avversata ordinanza richiama espressamente la nota dell’Area Tecnica del Comune nella quale si evidenzia -quanto all’istanza di sanatoria- che le opere ricadono all’interno della fascia di inedificabilità compresa nei mt. 10 dagli argini del torrente ai sensi del R.D. n. 523/1904.
Detta circostanza è espressamente richiamata nell’ordinanza avversata quale ragione ostativa al diniego del rilascio della concessione in sanatoria (con particolare riguardo alla fascia di rispetto del torrente -OMISSIS-).
Orbene, in base a consolidato orientamento giurisprudenziale il c.d. vincolo fluviale ha carattere assoluto ed inderogabile; in presenza di norme che vietino in modo assoluto di edificare in determinate aree è legittimo il diniego di rilascio di concessione edilizia in sanatoria.
Ed invero, il divieto di costruzione di opere sugli argini dei corsi d’acqua, previsto dalla lett. f) dell’art. 96 del Regio decreto 25.07.1904, n. 523, è informato alla ragione pubblicistica di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici e ha carattere legale e inderogabile, con la conseguenza che le opere costruite in violazione di tale divieto non sono suscettibili di sanatoriA..

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a giurisprudenza ha chiarito che è ben vero che la lett. f) dell’art. 96 del Regio decreto 25.07.1904, n. 523 commisura il divieto alla distanza “stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località” e in mancanza di queste lo stabilisce alla distanza “minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento del terreno e di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi”.
Sennonché alla luce del generale divieto di costruzione di opere in prossimità degli argini dei corsi d’acqua, il rinvio alla normativa locale assume carattere eccezionale. Tale normativa, per prevalere sulla norma generale, deve avere carattere specifico, ossia compendiarsi in una normativa espressamente dedicata alla regolamentazione della tutela delle acque e alla distanza dagli argini delle costruzioni, che tenga esplicitamente conto della regola generale espressa dalla normativa statale e delle peculiari condizioni delle acque e degli argini che la norma locale prende in considerazione al fine di stabilirvi l'eventuale deroga.
Nulla vieta che la norma locale sia espressa anche mediante l'utilizzo di uno strumento urbanistico, come può essere il piano regolatore generale, ma occorre che tale strumento contenga una norma esplicitamente dedicata alla regolamentazione delle distanze delle costruzioni dagli argini anche in eventuale deroga alla disposizione della lett. f) dell’art. 96 del Regio decreto 25.07.1904, n. 523, in relazione alla specifica condizione locale delle acque di cui trattasi. In mancanza di una difforme disciplina sul punto specifico nel P.R.G., deve ritenersi non sussistere una normativa locale derogatoria di quella generale, alla quale dunque occorre fare riferimento.

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L’affermazione secondo la quale nella fascia dei 10 metri dall’argine non vi è costruito un capannone, bensì collocata una attrezzatura a servizio dell’esistente attività (c.d. carroponte) è inconferente posto che l’obiettivo perseguito dai divieti di edificazione stabiliti dal citato art. 96 del Regio decreto 25.07.1904, n. 523, in materia di distanze delle costruzioni dagli argini, può essere messo a rischio anche da strutture temporanee, amovibili, di dimensioni modeste e prive di rilevanza urbanistica.
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1. Va preliminarmente esaminata l’eccezione di difetto di giurisdizione frapposta dal Comune resistente secondo il quale il ricorso introduttivo del giudizio attiene all’impugnazione del provvedimento repressivo (ordine di demolizione) emesso in relazione alla violazione del divieto di costruzione di opere nell’alveo del torrente, di cui all’art. 93 R.D. n. 523/1904, ovvero a distanza inferiore a dieci metri dall’argine del torrente, previsto dall’art. 96 del medesimo R.D. 523/1904 (disposizioni espressamente richiamate nella presupposta ordinanza del Genio Civile e nell’ordinanza di demolizione del Comune di Falcone ex adverso impugnata).
Per il Comune resistente, i provvedimenti assunti dall’Autorità comunale in forza di queste norme (benché emanati da un’Autorità diversa da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque), incidono direttamente sul regolare regime delle acque pubbliche e sul libero scorrimento di fiumi torrenti e corsi d’acqua e, pertanto, ricadono nella giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche (all’uopo la parte resistente ha richiamato alcuni precedenti giurisprudenziali).
Ne discende –secondo il Comune di Falcone- che, essendo l’ordinanza comunale di demolizione n. -OMISSIS- adottata in ragione della violazione edilizia attinente alla costruzione nell’alveo ed in spregio della fascia di rispetto del torrente, il Tribunale adito difetta di giurisdizione in quanto il ricorso avrebbe dovuto essere proposto innanzi al Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche.
1.1. L’eccezione è infondata.
L’art. 143 del R.D. 11.12.1933, n. 1775 (recante Testo unico delle disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici) stabilisce che “Appartengono alla cognizione diretta del Tribunale superiore delle acque pubbliche:
   a) i ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere e per violazione di legge avverso i provvedimenti definitivi presi dall'amministrazione in materia di acque pubbliche;
   b) i ricorsi, anche per il merito, contro i provvedimenti definitivi dell'autorità amministrativa adottata ai sensi degli artt. 217 e 221 della presente legge; nonché contro i provvedimenti definitivi adottati dall'autorità amministrativa in materia di regime delle acque pubbliche ai sensi dell'art. 2 del testo unico delle leggi sulle opere idrauliche approvato con R.D. 25.07.1904, n. 523 , modificato con l'art. 22 della L. 13.07.1911, n. 774, del R.D. 19.11.1921, n. 1688, e degli artt. 378 e 379 della L. 20.03.1865, n. 2248, all. F;
   c) i ricorsi la cui cognizione è attribuita al Tribunale superiore delle acque dalla presente legge e dagli artt. 23, 24, 26 e 28 del testo unico delle leggi sulla pesca, approvato con R.D. 08.10.1931, n. 1604
” (la Corte costituzionale, con sentenza 31.01.1991, n. 42, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle lett. a) e b) limitatamente alle parole <<definitivi>>).
Orbene, secondo consolidato orientamento giurisprudenziale sussiste la giurisdizione del Tribunale superiore per le acque pubbliche a conoscere della legittimità dei provvedimenti che incidono in maniera diretta ed immediata sul regime delle acque; l’incidenza diretta e immediata è riconosciuta ad ogni provvedimento che, per essere attinente alla realizzazione, sospensione o eliminazione di un’opera idraulica riguardante un’acqua pubblica, concorre, in concreto, a disciplinare le modalità di utilizzazione di quell'acqua (cfr. Cons. Stato, sez. I, 18.03.2019, n. 852 ed ivi precedenti giurisprudenziali).
Inoltre, la devoluzione della cognizione al Tribunale superiore delle acque pubbliche postula che la controversia implichi la soluzione di questioni di carattere tecnico concernenti il regime delle acque e le opere idrauliche e acquedottistiche. Ed invero, la creazione di un giudice speciale delle acque pubbliche risale al decreto luogotenenziale 20.11.1916, n. 1664 che, accanto alla prima disciplina sostanziale organica delle acque pubbliche, stabiliva la creazione di un tribunale competente a decidere le controversie in materia, introducendo un’eccezione all’ordinario regime di riparto fondato sulla situazione giuridica soggettiva.
La sua istituzione rispondeva all’esigenza, in una materia considerata ad elevato grado di complessità tecnica, di assicurare un giudice che, grazie alla presenza nel proprio collegio di ingegneri idraulici e funzionari esperti in acque pubbliche e opere idrauliche, fosse in grado di assicurare una giustizia adeguata; esso godeva originariamente (prima dell’istituzione dei Tribunali regionali delle acque pubbliche) di una competenza estesa sia ai diritti soggettivi che agli interessi legittimi, proprio perché la rilevanza del profilo tecnico delle controversie era stata ritenuta prevalente rispetto ad ogni altro profilo, compreso il principio dell’unità della giurisdizione.
La presenza di tecnici esperti della materia nella composizione di ogni collegio giudicante giustifica la devoluzione al Tribunale superiore delle acque pubbliche delle sole controversie che, concernendo la realizzazione e la gestione delle opere idrauliche ed avendo, per tale ragione, un’incidenza immediata e diretta sul regime delle acque pubbliche, implicano per loro natura la soluzione di questioni tecniche di carattere idraulico e acquedottistico, mentre restano estranee alla cognitio del detto Tribunale le controversie che involgono censure di carattere prettamente giuridico la cui soluzione non richiede competenze di carattere tecnico specialistico (arg. ex TAR Lombardia, Milano, sez. I, 28.11.2019, n. 2535).
Ed ancora, come evidenziato, ove l’ordinanza di demolizione impugnata non mostri alcun profilo di incidenza, nemmeno potenziale, con il regime della acque di per sé considerato, in quanto la sua motivazione si è limitata a rilevare il mancato rispetto della c.d. fascia idrica, nell’esercizio della funzione di vigilanza edilizia (quindi, né il potere esercitato, né la funzione in concreto perseguita erano attinenti, nemmeno indirettamente, alla materia delle acque pubbliche), la giurisdizione sulla controversia è del giudice amministrativo (cfr. TAR Piemonte, sez. II, 16.01.2015, n. 83).
In conclusione, posto che la controversia in esame non ha ad oggetto opere idrauliche né richiede competenze di carattere tecnico specialistico e che, in definitiva, il provvedimento avversato non ha incidenza immediata e diretta sul regime delle acque pubbliche, l’eccezione in esame si rivela infondata.
Fermo quanto sopra, si può prescindere -per ragioni di economia processuale- dalle ulteriori eccezioni frapposte dal Comune resistente in ordine al ricorso introduttivo del giudizio, attesa l’infondatezza delle censure articolate.
2. Con il primo motivo di ricorso introduttivo del giudizio l’esponente ha dedotto i vizi di Violazione di legge. Travisamento dei fatti. Insufficienza della motivazione.
Secondo il ricorrente, l’avversata ordinanza del responsabile area tecnica del Comune resistente n. -OMISSIS-, nella parte in cui nega la concessione edilizia in sanatoria per le opere di cui alla domanda n. -OMISSIS- e tutti gli altri provvedimenti impugnati sono illegittimi in quanto:
   - il suddetto fabbricato per attività artigianale, avente la superficie di mq. 301,54 e la volumetria di mc 1898,57 individuato in catasto al -OMISSIS- e la ulteriore opera realizzata in tale particella -OMISSIS-, formanti oggetto della suddetta domanda di sanatoria edilizia prot. n. -OMISSIS- non ricadono assolutamente su terreno demaniale (dato che la suddetta particella -OMISSIS- è di esclusiva proprietà del ricorrente) e non ricadono altresì assolutamente nella fascia di metri 10 dal piede dell'argine del torrente -OMISSIS- (o torrente -OMISSIS-) e relativamente ad essi non doveva essere né richiesto né rilasciato il parere della Sovrintendenza ai Beni Culturali ed Ambientali di Messina ai sensi dell'art. 23 della Legge Reg. Sic. n. 37/1985, essendo stati realizzati entro l'01.10.1983 (come risulta dalla dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà del -OMISSIS- allegata alla suddetta domanda di sanatoria edilizia) e quindi anteriormente alla legge 08.08.1985 n. 431 (il cui art. 1 stabilisce per la prima volta che sono sottoposti a vincolo paesaggistico ai sensi della Legge 29.06.1939 n. 1497 "i fiumi, i torrenti ed i corsi d'acqua iscritti negli elenchi di cui al testo unico delle disposizioni di legge sulle acque ed impianti elettrici approvato con R.D. 11.12.1933 n. 775 e le relative sponde o piede degli argini per una fascia di 150 metri ciascuna");
   - anche le opere ricadenti nella particella -OMISSIS-, formanti oggetto della suddetta domanda di sanatoria edilizia prot. n. -OMISSIS- non ricadono assolutamente su terreno demaniale (dato che la suddetta particella -OMISSIS- è di esclusiva proprietà del ricorrente) e non ricadono altresì nella fascia di metri 10 dal piede dell'argine del torrente -OMISSIS- (o torrente -OMISSIS-) e relativamente ad esse non doveva essere né richiesto né rilasciato il parere della Sovrintendenza ai Beni Culturali ed Ambientali di Messina ai sensi dell'art. 23 della Legge Reg. Sic. n. 37/1985, essendo state realizzate entro l’01.10.1983 (come risulta dalla dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà del -OMISSIS- allegata alla suddetta domanda di sanatoria edilizia) e quindi anteriormente alla predetta Legge n. 431/1985;
   - il dirigente dell'ufficio tecnico del Comune di Falcone (lo stesso che ha adottato la suddetta ordinanza n. -OMISSIS- impugnata con il presente ricorso) con provvedimento del -OMISSIS- ("visto il progetto di sanatoria edilizia presentato ai sensi della Legge n. 47/1985 e successiva Legge Reg. Sic. n. 37/1985 in data -OMISSIS-; ritenuto di accogliere l'istanza") attestava che il ricorrente aveva presentato richiesta di sanatoria edilizia ai sensi della Legge n. 47/1985 prot. -OMISSIS- in corso di definizione e rilasciava "nulla-osta ai vincoli ostativi ai sensi dell'art. 23 della Legge Reg. Sic. n. 37/1985 poiché l'area su cui insiste la struttura ha destinazione urbanistica di zona D3 cioè insediamenti produttivi esistenti";
   - la stessa Sovrintendenza ai Beni Culturali ed Ambientali di Messina con nota prot. n. -OMISSIS- rappresentava che "le opere de quo sono state realizzate antecedentemente all'entrata in vigore della Legge 08.08.1985 n. 431 e che pertanto non ricorre la propria competenza ai sensi dell’art. 23 della Legge Reg. Sic. n. 3711985";
   - pertanto, avendo il ricorrente provveduto al pagamento di tutte le somme dovute relativamente alla suddetta domanda di sanatoria edilizia, avendo altresì esibito al Comune di Falcone in data -OMISSIS- la prova dell'avvenuta presentazione all'ufficio tecnico erariale della documentazione necessaria ai fini dell'accatastamento ed essendo decorso il termine perentorio di 24 mesi sia dalla presentazione della suddetta domanda di sanatoria edilizia (13.03.1986) sia dal -OMISSIS- (data di esibizione al Comune di Falcone della prova dell'avvenuta presentazione all’ufficio tecnico erariale della documentazione necessaria ai fini dell'accatastamento), la suddetta domanda di sanatoria edilizia prot. n. -OMISSIS- si doveva intendere accolta ai sensi dell'art. 26 quart'ultimo comma della Legge Reg. Sic. n. 37/1985 sia relativamente al suddetto fabbricato per attività artigianale, avente la superficie di mq. 301,54 e la volumetria di mc 1898,57 individuato in catasto al foglio 2 particella n. 694, e alla ulteriore opera realizzata in tale particella n. -OMISSIS- sia relativamente alle suddette opere ricadenti nella particella -OMISSIS- e conseguentemente il Comune di Falcone non aveva più il potere di pronunciarsi sulla predetta domanda di sanatoria edilizia relativamente a tali opere per le quali si era già formato il silenzio-assenso;
   - nella eventualità in cui non si fosse formato il silenzio-assenso relativamente alle opere sopraindicate, comunque il predetto diniego di sanatoria edilizia è illegittimo in quanto le stesse, alla luce di tutto quanto sopra esposto, sono certamente sanabili, essendo state realizzate su terreno di proprietà del ricorrente, non ricadendo assolutamente nella fascia di metri 10 dal piede dell'argine del torrente -OMISSIS- (o torrente -OMISSIS-) ed essendo state realizzate prima dell'entrata in vigore della Legge n. 431/1985;
   - i terreni che nella suddetta ordinanza n. -OMISSIS- sono considerati "demanio fluviale" sono anch'essi di proprietà del ricorrente dato che: il Prefetto della Provincia di Messina con decreto del -OMISSIS- autorizzava il ricorrente ad occupare in via temporanea e d'urgenza un terreno avente una superficie di mq 1600 di proprietà dei sigg. -OMISSIS-; in data -OMISSIS- giudiziario del Tribunale di Patti redigeva verbale di immissione in possesso di tale terreno in favore del ricorrente che era pertanto immesso nel possesso di tale terreno; da tale verbale di immissione in possesso risulta che in tale circostanza si è proceduto alla misurazione di tale terreno e alla separazione di tale terreno di mq 1600, confinante al lato est con il torrente -OMISSIS- (o torrente -OMISSIS-), e che tale superficie di mq 1600 è stata delimitata lungo il confine dal restante terreno -OMISSIS- con picchetti in ferro infissi in una base di cemento, mentre i restanti confini erano già delimitati da una chiusura in traverse tipo ferrovia e filo di ferro e rete metallica per il lato sud-est; il Prefetto della Provincia di Messina con il decreto del -OMISSIS- ha pronunciato l'espropriazione ed autorizzato l'occupazione permanente e definitiva, a favore dello stabilimento per la lavorazione dei marmi del ricorrente, del suddetto terreno di mq 1600 sito nel territorio del Comune di Falcone della suddetta ditta -OMISSIS-; quindi il terreno confinante con il torrente -OMISSIS- (o torrente -OMISSIS-) è quello consegnato al ricorrente con il suddetto verbale di immissione in possesso del -OMISSIS-;
   - tuttavia il ricorrente, pur essendo certo che il suddetto terreno confinante con il torrente -OMISSIS- (o torrente -OMISSIS-) è di sua proprietà, ma essendo sorte contestazioni da parte delle Autorità competenti circa la proprietà di tale terreno confinante con il torrente -OMISSIS- (o torrente -OMISSIS-) ed avendo interesse ed urgenza alla definizione della suddetta istanza di sanatoria edilizia prot. n. -OMISSIS-, presentata all'Intendenza di Finanza di Messina, richiedeva la disponibilità, la sdemanializzazione e l'acquisto di tale terreno presuntivamente demaniale, avente una superficie di mq 326, confinante con il torrente sopraindicato;
   - il direttore della filiale Sicilia dell'agenzia del demanio con nota prot. n. -OMISSIS- invitava il ricorrente all’acquisto, ai sensi del comma V dell'art. 5-bis della Legge 11.08.2003 n. 12, del suddetto terreno confinante con il torrente -OMISSIS- (o torrente -OMISSIS-) presuntivamente demaniale e a presentare domanda di acquisto, completa di documentazione e di ricevuta di avvenuto versamento del prezzo di cessione, entro 90 giorni dal ricevimento di tale nota;
   - il ricorrente con nota del -OMISSIS- all'Agenzia del demanio-filiale di Sicilia-servizi al territorio e beni demaniali di Catania, trasmetteva la predetta domanda di acquisto e tutta la documentazione richiesta per l'acquisto del predetto terreno con la predetta nota prot. n. -OMISSIS- del direttore della filiale Sicilia dell'Agenzia del demanio e conseguentemente chiedeva al Comune di Falcone con numerose note (nota del 29.07.2010 pervenuta al Comune di Falcone in data -OMISSIS-) che gli fosse concessa, relativamente alle opere realizzate sulle aree ritenute demaniali dalle competenti autorità, una ulteriore proroga per la consegna di tutti i documenti richiesti per la definizione della suddetta domanda di sanatoria edilizia relativamente a tali opere considerato che la ulteriore documentazione richiesta dal Comune di Falcone per la definizione della suddetta domanda di sanatoria edilizia relativamente a tali opere è strettamente collegata all'esito del suddetto procedimento di individuazione e di conseguente acquisto del predetto terreno presuntivamente demaniale e che quindi sussisteva una impossibilità oggettiva a produrre, prima del perfezionamento formale di tale procedimento di acquisto del predetto terreno presuntivamente demaniale, la predetta ulteriore documentazione richiesta dal Comune di Falcone per la definizione della suddetta domanda di sanatoria edilizia relativamente a tali opere;
   - il Comune di Falcone non ha richiamato nella suddetta ordinanza n. -OMISSIS- le suddette note del ricorrente (-OMISSIS-) e quindi non ha esaminato le suddette argomentazioni fattuali e giuridiche poste a fondamento della richiamata richiesta di proroga del termine per la produzione della suddetta documentazione integrativa e dirette a provare l'impossibilità oggettiva per il ricorrente a produrre tale documentazione integrativa prima della definizione del suddetto procedimento di individuazione e di acquisto del predetto terreno presuntivamente demaniale e conseguentemente non ha indicato le ragioni per le quali ha implicitamente rigettato tale richiesta di proroga e le suddette argomentazioni fattuali e giuridiche esposte dal ricorrente in tali note;
   - non si poteva procedere in ogni caso al diniego della concessione o autorizzazione edilizia in sanatoria per la mancata produzione di tutta la documentazione precedentemente richiesta con la suddetta nota prot. n. -OMISSIS- e cioè per la mancata produzione di una documentazione di gran lunga maggiore e diversa da quella prevista dall'art. 35 della Legge n. 47/1985, così come sostituito dall'art. 26 della Legge Reg. Sic. n. 37/1985, dato che, ai sensi dell'art. 2, comma 37, lett. d), della Legge 23.12.1996 n. 662, il Comune può dichiarare l’improcedibilità della domanda di sanatoria edilizia e può disporre il conseguente diniego della concessione o autorizzazione edilizia in sanatoria soltanto per mancanza della documentazione prevista dall'art. 35 della Legge n. 47/1985, così come sostituito dall'art. 26 della Legge Reg. Sic. n. 37/1985, e non per la mancata produzione di tutta una documentazione di gran lunga maggiore e diversa da quella prevista dall'art. 35 della Legge n. 47/1985, così come sostituito dall'art. 26 della Legge Reg. Sic. n. 37/1985.
2.1. Il motivo è infondato.
2.1.1. Il Collegio rileva, in via preliminare, che le argomentazioni della parte ricorrente in punto di formazione del silenzio-assenso sono infondate posto che, in disparte ogni altra considerazione, il silenzio-assenso opera solo con riferimento ad opere oggettivamente sanabili (cfr. TAR Sicilia, Catania, sez. I, 29.06.2004, n. 1750), ciò che deve escludersi (quantomeno parzialmente) nel caso in esame per le ragioni che si diranno infra.
E comunque, il Giudice d'appello ha ritenuto che la formazione del silenzio-assenso sulla domanda di sanatoria degli abusi edilizi richiede (anche) che siano stati integralmente assolti dall'interessato gli oneri di documentazione relativi al tempo di ultimazione dei lavori, all'ubicazione, alla consistenza delle opere e ad ogni altro elemento rilevante affinché possano essere utilmente esercitati i poteri di verifica dell'Amministrazione comunale (cfr. Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., sez. giur., 31.07.2020, n. 694; Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., sez. riun., 02.10.2013, n. 1292; Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., sez. giur., 28.04.2011, n. 320), mentre dalla nota prot. n. -OMISSIS- del Comune resistente risulta la carenza della documentazione in questione.
2.1.2. L’avversata ordinanza n. -OMISSIS- richiama espressamente la nota prot. n. -OMISSIS- dell’Area Tecnica del Comune di Falcone nella quale si evidenzia -quanto all’istanza di sanatoria prot. n. -OMISSIS-- che le opere ricadono all’interno della fascia di inedificabilità compresa nei mt. 10 dagli argini del torrente ai sensi del R.D. n. 523/1904.
Detta circostanza è espressamente richiamata nell’ordinanza avversata quale ragione ostativa al diniego del rilascio della concessione in sanatoria (con particolare riguardo alla fascia di rispetto del torrente -OMISSIS-).
Orbene, in base a consolidato orientamento giurisprudenziale il c.d. vincolo fluviale ha carattere assoluto ed inderogabile; in presenza di norme che vietino in modo assoluto di edificare in determinate aree è legittimo il diniego di rilascio di concessione edilizia in sanatoria.
Ed invero, il divieto di costruzione di opere sugli argini dei corsi d’acqua, previsto dalla lett. f) dell’art. 96 del Regio decreto 25.07.1904, n. 523, è informato alla ragione pubblicistica di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici e ha carattere legale e inderogabile, con la conseguenza che le opere costruite in violazione di tale divieto non sono suscettibili di sanatoria (arg. ex Cons. Stato, sez. VI, 05.08.2019, n. 5537).
Ciò premesso, la parte ricorrente ha escluso che le opere in questione ricadano nella fascia di metri 10 dal piede dell’argine del Torrente -OMISSIS- o torrente -OMISSIS- (cfr. in particolare, pagg. 9 e 10 dell’atto introduttivo del giudizio).
La parte ricorrente ha quindi depositato in giudizio in data 28.02.2020 una relazione di consulenza tecnica di parte nella quale (per quanto di interesse: cfr. in particolare pagg. 3 e ss.) si evidenzia che (in sintesi):
   - nell’ordinanza n. -OMISSIS- molto genericamente e senza citare nessuna norma di riferimento, si dichiara che l’opera ricade nella fascia di rispetto del Torrente -OMISSIS- zona nella fascia di mt. 10,00 dall’argine;
   - l’art. 96, lett. f), del Regio decreto 25.07.1904, n. 523, ha carattere sussidiario, essendo destinato a prevalere solo in assenza di una specifica normativa locale;
   - l’area di proprietà del ricorrente, e quindi fino al confine con il muro d’argine della -OMISSIS- -OMISSIS-, come denominata nelle cartografie I.G.M., risulta perimetrata urbanisticamente in base al piano di fabbricazione cui al D.A. n. 4 del 27.03.1980, strumento urbanistico vigente fino al 2007 (anno di approvazione del P.R.G.), quale zona “D” (industriale artigianale), senza individuare cartograficamente alcuna fascia di rispetto dei 10,00. E’ norma che nelle tavole grafiche, degli strumenti urbanistici, relative alla zonizzazione del territorio comunale si indichi anche tutte le fasce di rispetto dagli argini dalle strade, dalla ferrovia, dal cimitero, dalle faglie ecc.; ne deriva che il Comune di Falcone, con il piano di fabbricazione del 1980 ha voluto esercitare la possibilità di derogare le distanze dagli argini dettate dalla norma nazionale;
   - con la nota datata -OMISSIS-, l’ufficio tecnico ha rilasciato nulla osta ai vincoli ostativi ai sensi dell’art. 23 LR 37/1985;
   - la norma nazionale, salvo se diversamente espresso negli strumenti urbanistici comunali, impone la presenza della fascia di rispetto dagli argini, quale l’obiettivo di salvaguardare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali ed il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici: dalla consultazione delle carte a corredo del piano stralcio di bacino per l’assetto Idrogeologico (P.A.I.) redatto dalla Regione Siciliana, si evince che l’area di proprietà del ricorrente ed oggetto dell’ordinanza n. -OMISSIS-, non rientra tra quelle indicate con vincoli, geomorfologici (dissesti, frane ecc.) e idrogeologici (esondazioni ecc.);
   - nella fascia dei 10,00 metri dall’argine della saia non vi è costruito un capannone, bensì collocata una attrezzatura a servizio dell’esistente attività (carroponte), destinata al sollevamento ed allo spostamento di materiali per movimenti ristretti e confinati, con relativa copertura leggera e amovibile a protezione delle parti meccaniche ed elettriche.
I detti rilievi sono tutti inidonei a supportare la domanda caducatoria avanzata dal ricorrente al fine di conseguire l’agognato esito demolitorio; ed invero:
   - nell’avversata ordinanza n. 29 del 2001 si richiama espressamente (pag. 2) il R.D. n. 523/1904;
   - la giurisprudenza ha chiarito che è ben vero che la lett. f) dell’art. 96 del Regio decreto 25.07.1904, n. 523 commisura il divieto alla distanza “stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località” e in mancanza di queste lo stabilisce alla distanza “minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento del terreno e di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi”; sennonché alla luce del generale divieto di costruzione di opere in prossimità degli argini dei corsi d’acqua, il rinvio alla normativa locale assume carattere eccezionale. Tale normativa, per prevalere sulla norma generale, deve avere carattere specifico, ossia compendiarsi in una normativa espressamente dedicata alla regolamentazione della tutela delle acque e alla distanza dagli argini delle costruzioni, che tenga esplicitamente conto della regola generale espressa dalla normativa statale e delle peculiari condizioni delle acque e degli argini che la norma locale prende in considerazione al fine di stabilirvi l'eventuale deroga. Nulla vieta che la norma locale sia espressa anche mediante l'utilizzo di uno strumento urbanistico, come può essere il piano regolatore generale, ma occorre che tale strumento contenga una norma esplicitamente dedicata alla regolamentazione delle distanze delle costruzioni dagli argini anche in eventuale deroga alla disposizione della lett. f) dell’art. 96 del Regio decreto 25.07.1904, n. 523, in relazione alla specifica condizione locale delle acque di cui trattasi. In mancanza di una difforme disciplina sul punto specifico nel P.R.G., deve ritenersi non sussistere una normativa locale derogatoria di quella generale, alla quale dunque occorre fare riferimento (cfr. cit. Cons. Stato, sez. VI, 05.08.2019, n. 5537).
Nel caso in esame, pertanto, in difetto di previsione urbanistica ovvero di normazione locale -di carattere specifico ed espresso- concernente l’ampiezza del vincolo in questione, la detta ampiezza ricade nella previsione generale dei 10 metri, contenuta nella fonte normativa più volte citata;
   - la nota datata -OMISSIS- dell’ufficio tecnico del Comune resistente rilascia nulla osta ai vincoli ostativi ai sensi dell’art. 23 L.R. n. 37/1985 ma con specifico riferimento al fatto che “l’area su cui insiste la struttura ha destinazione urbanistica di zona “D3”, cioè insediamenti produttivi esistenti”, non evocando, dunque, la diversa questione del c.d. vincolo fluviale;
   - infine, l’affermazione secondo la quale nella fascia dei 10 metri dall’argine non vi è costruito un capannone, bensì collocata una attrezzatura a servizio dell’esistente attività (c.d. carroponte) è inconferente posto che l’obiettivo perseguito dai divieti di edificazione stabiliti dal citato art. 96 del Regio decreto 25.07.1904, n. 523, in materia di distanze delle costruzioni dagli argini, può essere messo a rischio anche da strutture temporanee, amovibili, di dimensioni modeste e prive di rilevanza urbanistica (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 28.03.2019, n. 2053)
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 16.02.2021 n. 521 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’obiettivo perseguito dai divieti di edificazione stabiliti dall'art. 96 del Regio decreto 25.07.1904, n. 523, in materia di distanze delle costruzioni dagli argini, può essere messo a rischio anche da strutture temporanee, amovibili, di dimensioni modeste e prive di rilevanza urbanistica.
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   - in tema di abusi edilizi, il provvedimento con cui è ingiunta la demolizione, anche se emesso a notevole distanza di tempo, non richiede una motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata che impongono la rimozione dell'abuso;
   - l’omessa o imprecisa indicazione di un’area che verrà acquisita di diritto al patrimonio pubblico non costituisce motivo di illegittimità dell’ordinanza di demolizione.
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Inoltre va ribadito che l’obiettivo perseguito dai divieti di edificazione stabiliti dal citato art. 96 del Regio decreto 25.07.1904, n. 523, in materia di distanze delle costruzioni dagli argini, può essere messo a rischio anche da strutture temporanee, amovibili, di dimensioni modeste e prive di rilevanza urbanistica (cfr. cit. Cons. Stato, sez. IV, 28.03.2019, n. 2053);
   - in tema di abusi edilizi, il provvedimento con cui è ingiunta la demolizione, anche se emesso a notevole distanza di tempo, non richiede una motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata che impongono la rimozione dell'abuso (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, sez. VI, 26.10.2020, n. 6498);
   - l’omessa o imprecisa indicazione di un’area che verrà acquisita di diritto al patrimonio pubblico non costituisce motivo di illegittimità dell’ordinanza di demolizione (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 24.06.2020, n. 4058)
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 16.02.2021 n. 521 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2020

EDILIZIA PRIVATAIl collegio non ignora la portata espansiva che la giurisprudenza ha progressivamente riconosciuto all’art. 143, co. 1, R.D. n. 1775/1933, nel senso di ascrivere alla giurisdizione del T.S.A.P. tutti i provvedimenti amministrativi caratterizzati dall’incidenza sulla realizzazione, sospensione o eliminazione di un’opera idraulica riguardante un’acqua pubblica, ovvero aventi comunque riguardo all’utilizzazione del demanio idrico, ancorché promananti da autorità diverse da quelle istituzionalmente preposte alla tutela delle acque.
Per questa via, è stata attribuita al Tribunale Superiore delle Acque, ad esempio, l’impugnativa di provvedimenti di diniego di condono edilizio adottati per la salvaguardia del vincolo di inedificabilità gravante sulle fasce di rispetto degli argini dei corsi d’acqua demaniali, come pure, per una casistica che presenta apparenti punti di contatto con la controversia qui in esame, l’impugnativa di atti di assenso alla realizzazione di opere di attraversamento di corsi d’acqua, o, all’opposto, dell’ingiunzione a demolire attraversamenti fluviali realizzati senza titolo.
Ciò non toglie che il limite della giurisdizione del T.S.A.P. sia pur sempre rappresentato dall’incidenza dei provvedimenti impugnati sull’utilizzo delle acque pubbliche, che deve essere immediata e diretta, tale cioè da interferire con quell’utilizzo.
In coerenza con tale impostazione, ricorre la giurisdizione del giudice amministrativo in caso di impugnativa di atti che solo occasionalmente e comunque in modo indiretto influiscono sul regime delle acque pubbliche, essendo adottati in funzione della salvaguardia di beni-interessi pubblici del tutto diversi e autonomi.
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2.1. In via pregiudiziale, occorre dare conto dell’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dalla difesa del Comune di Orbetello, secondo la quale la controversia esulerebbe dalla giurisdizione del giudice amministrativo per l’attinenza del provvedimento impugnato all’uso di acque pubbliche (il canale di Ansedonia), con conseguente riserva di cognizione in favore del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche.
L’eccezione è infondata.
Il collegio non ignora la portata espansiva che la giurisprudenza, anche di questo TAR, ha progressivamente riconosciuto all’art. 143, co. 1, R.D. n. 1775/1933, nel senso di ascrivere alla giurisdizione del T.S.A.P. tutti i provvedimenti amministrativi caratterizzati dall’incidenza sulla realizzazione, sospensione o eliminazione di un’opera idraulica riguardante un’acqua pubblica, ovvero aventi comunque riguardo all’utilizzazione del demanio idrico, ancorché promananti da autorità diverse da quelle istituzionalmente preposte alla tutela delle acque.
Per questa via, è stata attribuita al Tribunale Superiore delle Acque, ad esempio, l’impugnativa di provvedimenti di diniego di condono edilizio adottati per la salvaguardia del vincolo di inedificabilità gravante sulle fasce di rispetto degli argini dei corsi d’acqua demaniali (per tutte, Cass. civ., SS.UU., 12.05.2009, n. 10845; TAR Toscana, sez. III, 26.06.2019, n. 965; id., 26.09.2014, n. 1497), come pure, per una casistica che presenta apparenti punti di contatto con la controversia qui in esame, l’impugnativa di atti di assenso alla realizzazione di opere di attraversamento di corsi d’acqua (cfr. Cass., SS.UU., Cassazione civile sez. un., 08.04.2009, n. 8509), o, all’opposto, dell’ingiunzione a demolire attraversamenti fluviali realizzati senza titolo (cfr. TAR Toscana, sez. III, 27.02.2018, n. 321).
Ciò non toglie che il limite della giurisdizione del T.S.A.P. sia pur sempre rappresentato dall’incidenza dei provvedimenti impugnati sull’utilizzo delle acque pubbliche, che deve essere immediata e diretta, tale cioè da interferire con quell’utilizzo. In coerenza con tale impostazione, ricorre la giurisdizione del giudice amministrativo in caso di impugnativa di atti che solo occasionalmente e comunque in modo indiretto influiscono sul regime delle acque pubbliche, essendo adottati in funzione della salvaguardia di beni-interessi pubblici del tutto diversi e autonomi (da ultimo, cfr. Cass., SS.UU., 05.02.2020, n. 2710).
Nella specie, lo si è visto, l’impugnato diniego di permesso di costruire, oltre a provenire dall’ente istituzionalmente preposto alle funzioni amministrative in materia di governo del territorio, è motivato con esclusivo riguardo a profili di natura urbanistico-edilizia e paesaggistico-ambientale, mentre non vengono in considerazione aspetti relativi alla assentibilità del ponticello in quanto opera idraulica.
Tali aspetti, del resto, risultano essere stati vagliati anteriormente all’avvio del procedimento per il rilascio del permesso di costruire e il loro esame è compendiato nell’autorizzazione idraulica rilasciata dalla Provincia di Grosseto con provvedimento del 31.05.2013, ai sensi degli artt. 93, 97 e 98 R.D. n. 523/1904, di talché il presente contenzioso non involge neppure di riflesso tematiche il cui contenuto tecnico possa giustificare la devoluzione al giudice specializzato (e in ciò risiede l’elemento differenziale rispetto alla casistica solo apparentemente analoga che si è ricordata in precedenza) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 26.05.2020 n. 631 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Interventi edilizi realizzati in prossimità di corsi d’acqua – Costruzioni o recinzioni, fisse o amovibili – Fascia di rispetto dall’argine – Controversie – Giurisdizione del TSAP.
Secondo consolidati principi giurisprudenziali, le controversie sugli atti amministrativi in materia di acque pubbliche, ancorché non promananti da pubbliche amministrazioni istituzionalmente preposte alla cura degli interessi in materia, idonei ad incidere in maniera non occasionale, ma immediata e diretta, sul regime delle acque pubbliche e del relativo demanio, spettano alla giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche, ai sensi dell'art. 143, comma 1, lett. a), del r.d. n. 1775 del 1933, mentre sono devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie concernenti atti solo strumentalmente inseriti in procedimenti finalizzati ad incidere sul regime di sfruttamento dell'acqua pubblica e del demanio idrico e adottati in preminente considerazione di interessi ambientali, urbanistici o di gestione del territorio.
In particolare, la prevalente giurisprudenza afferma che le controversie relative a provvedimenti amministrativi concernenti interventi edilizi realizzati in prossimità di corsi d’acqua di natura pubblica e nella fascia di rispetto dell’argine rientrano nella giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, venendo in considerazione situazioni incidenti in maniera diretta e immediata sulla regolamentazione delle acque pubbliche, con conseguente diretta incidenza del provvedimento amministrativo sul regime delle stesse, la cui tutela ha carattere inderogabile in quanto informata alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali e il libero deflusso delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici.
Questo stesso Tribunale ha avuto modo di affermare che “Laddove venga rilevata la mancata osservanza, in caso di costruzioni o, come nella specie, di recinzioni, fisse o amovibili, delle distanze prescritte rispetto al canale o all'argine di un torrente o fiume, si prospetta una situazione incidente in maniera diretta e immediata sulla regolamentazione delle acque pubbliche, con conseguente diretta incidenza del provvedimento de quo sul regolare regime delle stesse, il che implica la giurisdizione del T.S.A.P., atteso il carattere inderogabile della tutela all'uopo apprestata dall'ordinamento”.

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L’eccezione di difetto di giurisdizione formulata dall’amministrazione comunale è fondata e assorbente.
1. Con il provvedimento impugnato, l’amministrazione comunale ha negato la sanatoria del muro di recinzione realizzato nel 1982 dall’originaria proprietaria del terreno perché insistente all’interno della fascia di rispetto idraulica, soggetta a vincolo di inedificabilità assoluta, di cui all’art. 96, lett. f), del R.D. n. 523/1904, posta a tutela del Torrente Re, corso idrico principale identificato nell’Allegato A della d.g.r. n. IX/4287 del 25.10.2012, e già presente nell’Elenco delle Acque Pubbliche.
In particolare, l’art. 96, lett. f), del R.D. n. 523/1904 dispone che “Sono lavori ed atti vietati in modo assoluto sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e difese i seguenti: (…) f) le piantagioni di alberi e siepi, le fabbriche, gli scavi e lo smovimento del terreno a distanza dal piede degli argini e loro accessori come sopra, minore di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località, ed in mancanza di tali discipline, a distanza minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento del terreno e di metri dieci per le fabbriche e gli scavi”.
3. Ciò posto, va osservato che, secondo consolidati principi giurisprudenziali, le controversie sugli atti amministrativi in materia di acque pubbliche, ancorché non promananti da pubbliche amministrazioni istituzionalmente preposte alla cura degli interessi in materia, idonei ad incidere in maniera non occasionale, ma immediata e diretta, sul regime delle acque pubbliche e del relativo demanio, spettano alla giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche, ai sensi dell'art. 143, comma 1, lett. a), del r.d. n. 1775 del 1933, mentre sono devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie concernenti atti solo strumentalmente inseriti in procedimenti finalizzati ad incidere sul regime di sfruttamento dell'acqua pubblica e del demanio idrico e adottati in preminente considerazione di interessi ambientali, urbanistici o di gestione del territorio (Cassazione civile, sez. un., 05/02/2020, n. 2710).
3.1. In particolare, la prevalente giurisprudenza afferma che le controversie relative a provvedimenti amministrativi concernenti interventi edilizi realizzati in prossimità di corsi d’acqua di natura pubblica e nella fascia di rispetto dell’argine rientrano nella giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, venendo in considerazione situazioni incidenti in maniera diretta e immediata sulla regolamentazione delle acque pubbliche, con conseguente diretta incidenza del provvedimento amministrativo sul regime delle stesse, la cui tutela ha carattere inderogabile in quanto informata alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali e il libero deflusso delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici.
Questo stesso Tribunale ha avuto modo di affermare, in relazione a fattispecie analoga a quella qui in esame, che “Laddove venga rilevata la mancata osservanza, in caso di costruzioni o, come nella specie, di recinzioni, fisse o amovibili, delle distanze prescritte rispetto al canale o all'argine di un torrente o fiume, si prospetta una situazione incidente in maniera diretta e immediata sulla regolamentazione delle acque pubbliche, con conseguente diretta incidenza del provvedimento de quo sul regolare regime delle stesse, il che implica la giurisdizione del T.S.A.P., atteso il carattere inderogabile della tutela all'uopo apprestata dall'ordinamento” (TAR Brescia, sez. II, 18/12/2017, n. 1460).
3.2. In senso analogo, sempre su fattispecie relative ad opere edilizie realizzate all’interno della fascia di rispetto idraulica: cfr. TAR Lazio-Roma sez. III, 10/06/2019, n. 7558; TAR Bologna, sez. I, 27/12/2011, n. 855; TAR Trento, sez. I, 21/07/2016, n. 306; TAR Catania, sez. III, 18/01/2016, n. 121; TAR Firenze, sez. III, 26/09/2014, n. 1497; TAR Torino, sez. I, 05/04/2013, n. 427; Consiglio di Stato, sez. V, 24/09/2010, n. 7102; Tribunale superiore delle acque pubbliche 10/06/2003, n. 87; Tribunale superiore delle acque pubbliche 15/10/1999, n. 121.
3.3. Nel caso di specie, si ricade appieno nell’ambito di applicazione dei principi sopra citati, dal momento che la controversia ha ad oggetto l’impugnazione del provvedimento comunale con cui è stata negata la sanatoria edilizia di una recinzione in cemento armato realizzata in violazione della fascia di rispetto idraulico di cui all’art. 96, lett. f), del R.D. 523/1904, con conseguente incidenza immediata e diretta del manufatto edilizio sul normale deflusso del corso d’acqua e, quindi, sul regime delle acque pubbliche; incidenza attestata dal verbale di sopralluogo del 01.07.2013, dove si afferma che il muro di recinzione “si fonda direttamente nell’alveo attivo, ove abbiamo lo scorrimento delle acque durante gli eventi meteorici”; tale muro “ha modificato radicalmente la morfologia dei luoghi e alterato il regime idraulico del corso d’acqua, (…) riducendo la sezione idraulica utile”.
A tale verbale hanno fatto seguito i pareri della Regione Lombardia del 19.09.2013 e del 10.12.2013, contrari alla sanabilità del manufatto, ai quali si è infine uniformato il provvedimento comunale conclusivo di diniego del condono edilizio.
3.4. In coerenza con l’attribuzione della cognizione del giudizio al giudice specializzato va ulteriormente osservato che la risoluzione della presente controversia, nella misura in cui presuppone l’accertamento dell’effettiva esistenza del Torrente Re –affermata dalle amministrazioni resistenti sulla scorta degli accertamenti eseguiti, ma negata dalla parte ricorrente sulla scorta di perizia di parte- implica l’approfondimento e la risoluzione di problematiche di carattere non solo giuridico, ma involventi aspetti prettamente tecnici, rispetto ai quali la devoluzione della controversia alla cognizione del Tribunale Superiore delle acque pubbliche appare confacente alla ratio istitutiva di tale giudice, nella composizione del quale confluiscono competenze e professionalità non solo giuridiche ma anche tecniche, che la legge ha considerato necessarie per risolvere i problemi di elevata complessità tecnica posti dalla gestione delle acque pubbliche.
4. Alla stregua di tali considerazioni, impregiudicata ogni valutazione di merito di esclusiva competenza del giudice ad quem, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, dovendosi affermare la giurisdizione del Tribunale Superiore delle acque pubbliche, dinanzi al quale il giudizio potrà essere riproposto nei termini di legge (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 06.05.2020 n. 337 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer giurisprudenza costante la giurisdizione del TSAP sussiste “ogniqualvolta l’atto impugnato, ancorché proveniente da organi dell’Amministrazione non preposti agli interessi del settore delle acque pubbliche, abbia tuttavia una immediata incidenza sull’uso di queste ultime, interferendo così con le funzioni amministrative relative a tale uso”.
In tale ottica, la giurisprudenza amministrativa ha parimenti affermato la sussistenza della giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche in relazione ad ordinanze contingibili e d’urgenza emanate dal Sindaco ai sensi dell’art. 54, del T.U.E.L., in caso di incidenza del provvedimento su regine delle acque pubbliche.
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Nel caso di specie, il fosso -ancorché di natura privatistica- conferisce le proprie acque, appena due chilometri dall’ubicazione della proprietà della ricorrente, nel corso d’acqua pubblico denominato torrente Genna, indicato dall’Autorità di Bacino del fiume Tevere come una delle “situazioni di rischio idraulico della Regione”.
Appare quindi evidente come l’ordinanza impugnata, nel disporre la riapertura del tratto intubato all’altezza dell’accesso all’area di proprietà della ricorrente, va a modificare, maggiorandola, la portata del corso d’acqua, incidendo in maniera diretta e immediata sul regime delle acque pubbliche ove il fosso in questione riversa le proprie e dei cui effetti non può che occuparsi il Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche quale “speciale organo giurisdizionale preposto, nella particolare composizione richiesta, alla soluzione dei problemi posti dalla gestione delle acque pubbliche”.
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6. L’eccezione è fondata e va accolta.
7. Premette al riguardo il Collegio, che per giurisprudenza costante la giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche sussiste “ogniqualvolta l’atto impugnato, ancorché proveniente da organi dell’Amministrazione non preposti agli interessi del settore delle acque pubbliche, abbia tuttavia una immediata incidenza sull’uso di queste ultime, interferendo così con le funzioni amministrative relative a tale uso” (cfr., Cass. SS.UU., 17.04.2019, n. 9149).
8. In tale ottica, la giurisprudenza amministrativa ha parimenti affermato la sussistenza della giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche in relazione ad ordinanze contingibili e d’urgenza emanate dal Sindaco ai sensi dell’art. 54, del T.U.E.L., in caso di incidenza del provvedimento su regine delle acque pubbliche (cfr., ex multis, Cons. St., sez. V, 11.07.2016, n. 3055).
9. Dallo studio geologico versato in atti risulta che il fosso in questione, ancorché di natura privatistica, conferisce le proprie acque, appena due chilometri dall’ubicazione della proprietà della ricorrente, nel corso d’acqua pubblico denominato torrente Genna, indicato dall’Autorità di Bacino del fiume Tevere come una delle “situazioni di rischio idraulico della Regione”.
10. Appare quindi evidente come l’ordinanza impugnata, nel disporre la riapertura del tratto intubato all’altezza dell’accesso all’area di proprietà della ricorrente, va a modificare, maggiorandola, la portata del corso d’acqua, incidendo in maniera diretta e immediata sul regime delle acque pubbliche ove il fosso in questione riversa le proprie e dei cui effetti non può che occuparsi il Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche quale “speciale organo giurisdizionale preposto, nella particolare composizione richiesta, alla soluzione dei problemi posti dalla gestione delle acque pubbliche” (Cass. SS.UU. 19.04.2013, n. 95343).
11. In conclusione ricorso va dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione, sussistendo, per quanto esposto, la giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, innanzi al quale il processo può essere riassunto entro il termine perentorio di tre mesi previsto dall’art. 11 del codice del processo amministrativo, con salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda già presentata (TAR Umbria, sentenza 09.03.2020 n. 148 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAQuando la natura del corso d’acqua rileva solo strumentalmente, non avendo gli atti impugnati, diretti a perseguire altri fini, immediata incidenza sul regime delle acque pubbliche, non vi è ragione per adire le competenze specifiche del Tribunale superiore delle acque pubbliche.
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Nel regime anteriore a quello introdotto alla l. 05.01.1994, n. 37, art. 4 (che, nel sostituire il testo dell'art. 947 c.c., ha espressamente escluso, per il futuro, tale eventualità), la sdemanializzazione tacita dei beni del demanio idrico non può desumersi dalla sola circostanza che un bene non sia più adibito anche da lungo tempo ad uso pubblico, ma è ravvisabile solo in presenza di atti e fatti che evidenzino in maniera inequivocabile la volontà della P.A. di sottrarre il bene medesimo a detta destinazione e di rinunciare definitivamente al suo ripristino, non potendo desumersi una volontà di rinunzia univoca e concludente da una situazione negativa di mera inerzia o tolleranza.
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L’art. 826 Cod. civ. stabilisce al terzo comma che “Fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato o, rispettivamente, delle province e dei comuni, secondo la loro appartenenza, gli edifici destinati a sede di uffici pubblici, con i loro arredi, e gli altri beni destinati a un pubblico servizio”.
Tenuto conto di tale ultima locuzione, consolidata giurisprudenza afferma che l’inclusione di un bene nel patrimonio indisponibile comunale richiede la sussistenza di due requisiti congiunti: la manifestazione di volontà dell’ente titolare del diritto reale pubblico, desumibile da un espresso atto amministrativo da cui risulti la specifica volontà dell’ente di destinare quel determinato bene a un pubblico servizio; l’effettiva e attuale destinazione del bene a pubblico servizio.
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1. In via preliminare, va dichiarata l’inammissibilità dell’eccezione di carenza di giurisdizione del giudice amministrativo a favore del giudice ordinario o del Tribunale delle acque pubbliche, spiegata dal resistente Comune di Ospitaletto a mezzo di memorie difensive.
L’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo a conoscere della controversia è, infatti, inammissibile, laddove formulata, come nel caso di specie, solo in note defensionali e non con tempestiva proposizione di specifico motivo di appello incidentale contro la sentenza di primo grado, in conformità all’art. 9 Cod. proc. amm., per il quale il difetto di giurisdizione nei giudizi di impugnazione è rilevato se dedotto con specifico motivo avverso il capo della pronunzia impugnata che in modo implicito o esplicito ha statuito sulla giurisdizione (ex multis, Cons. Stato, V, 11.03.2019, n. 1612; 17.09.2018, n. 5439; III, 04.08.2015, n. 3842).
Nel caso in esame, ricorre la seconda delle predette ipotesi, avendo la sentenza appellata espressamente statuito sulla giurisdizione del giudice amministrativo, respingendo l’eccezione di difetto di giurisdizione di questo a favore del giudice ordinario, spiegata nel giudizio di primo grado dallo stesso Comune di Ospitaletto.
Ne deriva l’impossibilità, in seno al presente giudizio, in carenza di proposizione sul punto di un rituale motivo di appello, di contestare la potestas iudicandi; né osta all’applicazione della regola codicistica, come ritiene il Comune, il fatto che l’eccezione sia stata arricchita in appello mediante l’ulteriore indicazione di altro giudice asseritamente competente (Tribunale superiore delle acque pubbliche): la contestazione infatti è pur sempre rivolta a sovvertire il capo di sentenza relativo alla giurisdizione amministrativa ritenuta dal primo giudice, che, in difetto di proposizione di uno specifico motivo di appello, è passata in giudicato.
Vale comunque rilevare che gli atti di autotutela possessoria per cui è causa, come meglio in fatto, sono diretti non a ripristinare la funzione del canale irriguo da tempo in disuso e allo stato ricoperto, bensì a recuperare la relativa area di sedime per la costruzione di un’opera pubblica.
Si rende pertanto applicabile il principio ripetuto in giurisprudenza secondo cui quando la natura del corso d’acqua rileva solo strumentalmente, non avendo gli atti impugnati, diretti a perseguire altri fini, immediata incidenza sul regime delle acque pubbliche, non vi è ragione per adire le competenze specifiche del Tribunale superiore delle acque pubbliche (Cass. Sez. un., 27.04.2005, n. 896; 27.10.2006, n. 23070; 17.04.2009, n. 9149; 19.04.2013, n. 9534; 21.03.2017, n. 7154; Cons. Stato, IV, 30.06.2017, n. 3230; V, 11.07.2016, n. 3055).
1.1. Sempre in via preliminare, deve rilevarsi l’inammissibilità delle difese comunali anche laddove sostengono che gli atti gravati, diversamente da quanto ritenuto dal primo giudice, non costituirebbero espressione dell’autotutela possessoria di cui all’art. 823, secondo comma del Codice civile, trattandosi di meri inviti al rilascio, non integranti neanche una vera e propria attività provvedimentale: anche tale questione non può essere rimessa in discussione nel presente giudizio, avendo formato oggetto di una espressa qualificazione da parte della sentenza appellata, che è sul punto rimasta inoppugnata.
2. Passando al merito dell’appello, si osserva che il primo giudice ha richiamato il pacifico orientamento giurisprudenziale che afferma che la tutela amministrativa accordata ai beni demaniali dall’art. 823, secondo comma Cod. civ. sia estendibile anche ai beni del patrimonio indisponibile. In applicazione del predetto principio, ha ritenuto la legittimità degli atti di autotutela possessoria adottati dal Comune di Ospitaletto, rilevando la loro afferenza a un’area appartenente al demanio idrico o comunque al patrimonio indisponibile comunale.
Ciò posto, ferma la correttezza del predetto principio generale, tali conclusioni non possono qui trovare conferma.
3. Va innanzitutto escluso, in uno al quarto motivo di appello, che l’area possa ritenersi attualmente ricompresa nel patrimonio idrico comunale per la presenza al suo interno di un canale irriguo da tempo in disuso e ormai ricoperto.
Restano pertanto assorbite le ulteriori difese sul punto svolte dagli appellati, che hanno eccepito per un verso la violazione del divieto di integrazione postuma della motivazione dell’atto amministrativo, facendo rilevare che la natura demaniale idrica del bene è stata invocata dal Comune, che nel secondo atto gravato aveva affermato che la striscia di terreno in parola apparteneva al patrimonio indisponibile dell’Ente, solo in corso di causa, per altro verso che lo stesso Comune non ha assolto l’onere su di esso incombente di dimostrare in giudizio che il bene abbia effettivamente natura pubblica.
3.1. Il primo giudice, per affermare che l’area in parola fa parte del demanio idrico, si è fondato sul fatto storico della presenza di un canale irriguo risultante dalle cartografie catastali. Di contro, ha reputato irrilevante sia che esso non emergesse dalla mappatura del reticolo idrico minore del 2003, recepita nel piano regolatore generale comunale, perché avente mero valore dichiarativo, sia che la funzione irrigua fosse oramai da tempo completamente esaurita a causa dell’intensa attività edificatoria realizzata nell’intera zona.
Ha poi escluso la sdemanializzazione tacita del bene idrico, osservando che la modifica definitiva dei luoghi, nella parte più vicina al canale irriguo in parola, è avvenuta solo nel 2005, con la copertura del canale realizzata in occasione della presentazione di una dichiarazione di inizio attività per la costruzione di un edificio residenziale e l’ampliamento di un fabbricato preesistente, ovvero quando era già vigente il relativo divieto, introdotto dall’art. 4 della l. 37/1994.
Tale ultima ricostruzione, in particolare, non convince, dovendosi rilevare, di contro, in accoglimento delle censure svolte dagli interessati con la prima parte del quarto motivo di appello, la sdemanializzazione tacita del bene in epoca anteriore al 1994.
3.2. Sul tema, la giurisprudenza ha affermato il principio per cui “nel regime anteriore a quello introdotto alla l. 05.01.1994, n. 37, art. 4 (che, nel sostituire il testo dell'art. 947 c.c., ha espressamente escluso, per il futuro, tale eventualità), la sdemanializzazione tacita dei beni del demanio idrico non può desumersi dalla sola circostanza che un bene non sia più adibito anche da lungo tempo ad uso pubblico, ma è ravvisabile solo in presenza di atti e fatti che evidenzino in maniera inequivocabile la volontà della P.A. di sottrarre il bene medesimo a detta destinazione e di rinunciare definitivamente al suo ripristino, non potendo desumersi una volontà di rinunzia univoca e concludente da una situazione negativa di mera inerzia o tolleranza” (Cass., Sez. un. n. 12062 del 2014; 03.03.2016, n. 4189).
Nel caso di specie si ravvisano le predette condizioni positive.
In particolare, la circostanza che il canale irriguo non sia da lungo tempo più adibito all’uso pubblico è elemento incontestatamente emergente dal fascicolo di causa, così come è incontestato che il ripristino della funzione irrigua non è il presupposto dei provvedimenti gravati: l’Amministrazione procedente ha infatti espressamente ricollegato l’ordine di sgombero di cui trattasi alla realizzazione di un’opera pubblica del tutto svincolata da tale funzione.
Tanto chiarito, emerge che l’Amministrazione comunale non è estranea alla sottrazione del bene alla funzione idrica a suo tempo avvenuta, ma ne è anzi il principale attore, avendone determinato l’avvio a partire dall’atto di acquisto del mappale 133, avvenuto nel 1973 allo scopo di costruire la palestra contestualmente edificata. Tale costruzione ha infatti determinato, come emerge dalla perizia depositata in primo grado dagli appellanti, l’edificazione del canale nel tratto interessato dall’opera pubblica, avvenuta negli anni '70-'80, e la costruzione di un muro all’interno della proprietà comunale a opera della stessa Amministrazione, che ha isolato dalla stessa la striscia di terreno poi inglobata nel giardino degli appellanti.
Non si tratta, pertanto, di una mera tolleranza o inerzia, bensì di una condotta positiva, che non può non essere interpretata come riconoscimento della irrilevanza della funzione irrigua del canale presente in tale terreno, che, del resto, è rilevabile anche alla luce della successiva urbanizzazione della zona, che la stessa perizia, precisato non trattarsi di un canale di scolo delle acque, descrive nei seguenti termini: “L’ex canale in passato possedeva funzione di canale irriguo per i terreni posti a sud del canale stesso, ma tale funzione è venuta meno nel momento in cui sono cominciate le edificazioni sia a sud che a nord dello stesso, dagli atti esaminati risulta che sul mappale 133 la palestra è stata realizzata già negli anni 70, mentre a sud per quanto riguarda il mappale dei ricorrenti il primo stabile, posto più a sud, è stato edificato nel 1985, mentre ad est il parco è stato realizzato nella seconda metà degli anni 90 ed il polo scolastico è stato realizzato nel 2003”.
Nel descritto contesto, non è dato comprendere da quali elementi il primo giudice tragga la conclusione che “è verosimile che fino a quel momento [ovvero sino al momento della ulteriore copertura del canale realizzata nel 2005] l’utilità del canale irriguo non fosse ancora venuta meno, o non completamente”, e che “è verosimile, e perfettamente ragionevole, che il muro servisse a proteggere i frequentatori della palestra dalla presenza del fosso, senza interferire con la funzione irrigua rispetto ai terreni collocati a una quota inferiore verso sud…”: si tratta, infatti, di asserzioni dichiaratamente ipotetiche, che non trovano vieppiù alcun riscontro oggettivo nel fascicolo di causa, mentre non vi è dubbio che il Comune era nella condizioni di poter dimostrare in giudizio in vario modo, laddove effettivamente sussistente, l’utilità residua del canale irriguo nel periodo intercorrente tra il 1973 e il 2005, ciò che, invece, non ha fatto.
Inoltre, la persuasività delle predette affermazioni del primo giudice è ulteriormente sconfessata dalla stessa sentenza appellata, laddove riferisce, contraddittoriamente, che “era evidente già all’epoca della costruzione della palestra comunale, negli anni ’70, che la presenza del canale irriguo era destinata a recedere rispetto alle prospettive di urbanizzazione dell’intera zona … ”, soprattutto considerando che tale urbanizzazione, sempre per quanto attiene alla ulteriore copertura del canale del 2005, risulta realizzata mediante DIA, che è strumento che, pur non implicando necessariamente una espressa autorizzazione comunale, non esclude il potere di controllo amministrativo sull’edificazione privata, che, tra l’altro, avendo a oggetto, in tesi, la copertura di un canale irriguo ancora in funzione, non poteva certo passare inosservata.
Ne deriva che non può dirsi che l’immutazione definitiva dello stato del canale sia avvenuta nel 2005 a opera esclusiva della DIA menzionata dal primo giudice, in quanto essa non ha costituito altro che l’inevitabile conseguenza di un processo originatosi ben in precedenza, per effetto delle scelte via via compiute dall’Amministrazione comunale a partire dalla realizzazione della palestra negli anni ‘70, che ha comportato la sottrazione, senza prospettiva di ritorno, del bene idrico alla sua destinazione.
Sulla base di tali evidenze, non può condividersi neanche l’irrilevanza che il primo giudice ha conferito alla mancata mappatura del canale irriguo nel reticolo minore idrico del 2003, recepito dal vigente PRG del Comune di Ospitaletto: la valenza meramente dichiarativa di tale cartografia non può infatti trasformare in prova l’assenza di qualsiasi elemento attestante l’uso pubblico del bene nel periodo intercorrente tra l’emanazione della legge del 1994 e la DIA del 2005.
4. Va altresì esclusa l’appartenenza dell’area in parola al patrimonio comunale indisponibile, come affermato sia dal giudice di prime cure che dal Comune di Ospitaletti nel secondo provvedimento oggetto di impugnativa
Il primo giudice ha sul punto considerato che l’Ente ha acquistato il mappale in cui è ricompresa l’area per cui è causa nel 1973 al fine di realizzare la palestra comunale, nonché, comunque, l’intendimento del Comune di includere la stessa area (già erroneamente ritenuta soggetta al regime del demanio idrico) nel proprio patrimonio indisponibile, per effetto del suo previsto asservimento a due beni di tale patrimonio (plesso scolastico e palestra comunale).
Tali elementi non sono però sufficienti.
4.1. L’art. 826 Cod. civ. stabilisce al terzo comma che “Fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato o, rispettivamente, delle province e dei comuni, secondo la loro appartenenza, gli edifici destinati a sede di uffici pubblici, con i loro arredi, e gli altri beni destinati a un pubblico servizio”.
Tenuto conto di tale ultima locuzione, consolidata giurisprudenza afferma che l’inclusione di un bene nel patrimonio indisponibile comunale richiede la sussistenza di due requisiti congiunti: la manifestazione di volontà dell’ente titolare del diritto reale pubblico, desumibile da un espresso atto amministrativo da cui risulti la specifica volontà dell’ente di destinare quel determinato bene a un pubblico servizio; l’effettiva e attuale destinazione del bene a pubblico servizio (tra tante, Cons. Stato, VI, 29.08.2019, n. 5934; IV, 30.01.2019, n. 513; Cass. Civ., Sez. un., 25.03.2016, n. 6019; 28.06.2006, n. 14685; II, 16.12.2009, n. 26402; 09.09.1997, n. 8743).
Il secondo requisito nel caso di specie è del tutto insussistente.
Come sopra già rilevato, nel corso degli anni ’70 il Comune, successivamente al suo acquisto, ha realizzato sul mappale n. 133, nel cui ambito insiste la striscia di terreno ora rivendicata dal Comune, la palestra comunale, e ha contestualmente delimitato l’area a ciò destinata mediante l’edificazione di un muro in cemento armato, escludendo tale striscia.
La predetta porzione di area non è dunque asservita alla palestra, ed è, allo stato, inglobata nel giardino di proprietà degli appellanti, che, per l’effetto, l’hanno da tempo adibita a un uso privato, che è rimasto incontestato sino all’adozione degli atti di cui si discute.
Nel descritto contesto, il Comune non può utilmente invocare ai fini per cui è causa la destinazione prevista nell’atto di acquisto, che non è sufficiente ad assoggettare il bene al regime del patrimonio indisponibile (Cons. Stato, 06.12.2007, n. 6259; Cass. Civ., Sez. un., 28.06.2006, n. 14865), ove la relativa destinazione non divenga poi effettiva.
E’, pertanto, fondata la censura di cui pure al quarto motivo di appello, con cui gli interessati sostengono l’erroneità della conclusione del primo giudice che annovera la porzione di area in parola tra i beni comunali indisponibili, perché fondata su una destinazione al pubblico servizio “pro futuro”, laddove la giurisprudenza sottolinea la necessità della sua concreta ed attuale esistenza, con conseguente fondatezza anche del quinto motivo, con cui gli interessati deducono l’insussistenza dei presupposti per il ricorso allo strumento dell’autotutela possessoria, da cui sono esclusi, come rilevato anche dal primo giudice, i beni del patrimonio disponibile (Cass. Civ., Sez. un., 03.12.2010, n. 24563) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.02.2020 n. 1123 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATALa disamina del motivo impone di delineare la ratio e l’ambito di applicazione della previsione di cui all’articolo 96 del R.D. n. 523 del 1904 che reca l’elenco dei “lavori ed atti vietati in modo assoluto sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e difese”.
In particolare, la previsione di cui alla lett. f) del comma 1 vieta “le piantagioni di alberi e siepi, le fabbriche, gli scavi e lo smovimento del terreno a distanza dal piede degli argini e loro accessori come sopra, minore di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località, ed in mancanza di tali discipline, a distanza minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento del terreno e di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi”.
Tale disposizione opera anche in relazione alle acque lacuali. Lo afferma il Consiglio di Stato osservando come il divieto di edificazione in esame abbia carattere assoluto e riguardi, in genere, le acque pubbliche.
La regola sub observatione non si limita, quindi, ai soli corsi d’acqua come dimostra l’alinea dell’articolo che, nel fare riferimento alle acque pubbliche in genere, non pone alcuna restrizione del genere diversamente da quanto invece dispone la disposizione di cui all’articolo 98, comma 1, lett. d), circoscritta alle nuove “costruzioni nell'alveo dei fiumi, torrenti, rivi, scolatoi pubblici o canali demaniali”. Né una diversa conclusione può affermarsi in ragione della mancata espressa menzione dei laghi da parte delle previsioni contenute nell’articolo 96 e la sola menzione degli stessi nel successivo articolo 97.
Invero, la disposizione di cui all’articolo 97, comma 1, lett. n), reca “una previsione particolare riferita al regime delle spiagge dei laghi e nulla dice circa la disciplina delle sponde, per la quale dunque non può non valere la norma generale dell’art. 96”.
Del resto, “se la finalità delle disposizioni in oggetto è quella di consentire il libero deflusso delle acque, è evidente che la medesima esigenza si pone con riguardo alle acque dei laghi, anch’esse soggette a innalzamenti di livello”.
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La giurisprudenza amministrativa chiarisce come la locuzione “fabbrica” [ex art. 96, comma 1, lett. f) del R.D. n. 523/1904]
debba riferirsi “ai manufatti edilizi, a prescindere dal loro utilizzo, dovendosi individuare la ratio legis nella volontà della norma di esaurire, unitamente all'utilizzo della locuzione “scavi”, tutte le possibili modificazioni frutto dell'opera di trasformazione edilizia, essendo prevista una diversa distanza solo per le piantagioni”.
Del resto, nella lingua italiana, il termine “fabbrica” designa un “edificio, di qualsiasi genere, in corso di costruzione, o anche già finito, se si consideri in rapporto alla sua costruzione” (cfr., Vocabolario della lingua italiana Treccani, vol. II, 1987, foglio 367). Il vocabolo utilizzato dal legislatore è, quindi, volto a ricomprendere ogni tipologia di edificio senza operare distinzioni che, del resto, depriverebbero la ratio stessa del divieto.
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L’Amministrazione comunale ritiene che l’intervento sia abilitato dalla già indicata previsione di cui all’art. 97, comma 1, lett. n), che consente, “con speciale permesso”, l’istallazione di opere stabili sulle spiagge dei laghi.
Prescindendo dalle questioni inerenti il concreto svolgimento del procedimento disegnato dal legislatore per tale ipotesi, si nota come la disposizione non possa trovare applicazione.
Infatti, la regula iuris in esame concerne la realizzazione di opere sulla spiaggia e non riguarda, invece, interventi che interessano la sponda del lago. Circostanza del tutto pacifica tra le parti e, comunque, emergente con chiarezza dalla documentazione versata in atti. L’intervento in esame non consiste, infatti, nella mera installazione di un’opera sulla spiaggia ma è collocato proprio sulla sponda del lago.
Risulta, quindi, condivisibile quanto affermato dalla difesa dei ricorrenti che osservano di non contestare “che, in via generale ed astratta, sia possibile realizzare manufatti sulle spiagge dei laghi, bensì rilevano che i manufatti in questione debbano rispettare le distanze di legge dalle sponde (cosa che, nella fattispecie, non avviene)”.
Del resto, come evidenziato già in precedenza, la disposizione di cui all’art. 97, comma 1, lett. n), reca “una previsione particolare riferita al regime delle spiagge dei laghi e nulla dice circa la disciplina delle sponde, per la quale dunque non può non valere la norma generale dell’art. 96".
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Non assumono rilievo, inoltre, le previsioni di cui all’art. 12 della L.r. n. 6 del 2012 (evocata dal Comune) che testualmente prevedono:
“1. Al fine di valorizzare il demanio lacuale, fluviale e dei navigli e tutte le vie d’acqua, in coerenza con gli altri strumenti della programmazione regionale, la Giunta regionale, acquisito il parere dell’ente preposto alla gestione del demanio, approva il programma degli interventi predisposto dalla competente direzione generale.
1-bis. Il programma degli interventi regionali sul demanio delle acque interne individua le azioni di ammodernamento, completamento, manutenzione e realizzazione delle opere riguardanti le vie navigabili e i porti della navigazione interna. 2. Il programma di cui al comma 1 individua i criteri di valutazione e di realizzazione degli interventi”.
Risulta evidente dalla lettura delle disposizioni riportate come queste non riconoscano “espressamente che si possono realizzare opere come quella in esame”, come ritenuto dall’Amministrazione comunale.
Invero, la previsione si limita ad abilitare la Regione ad elaborare un programma di intervento ma non contiene regole di carattere sostanziale sulle tipologie di intervento ammesse che continuano ad essere, comunque, regolate, ex aliis, dalla disposizione di cui all’art. 96 del R.D. n. 523/1904.
Una previsione che, come ricordato dalla costante giurisprudenza, pone un divieto di carattere “legale, assoluto e inderogabile”, e “diretto al fine di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici”.
Si tratta, quindi, di una regola tesa “a garantire le normali operazioni di ripulitura/manutenzione e a impedire le esondazioni delle acque” ed a “scongiurare l’occupazione edificatoria degli spazi prossimi al reticolo idrico, sia a tutela del regolare scorrimento delle acque, sia in funzione preventiva rispetto ai rischi per le persone e le cose che potrebbero derivare da esondazioni".
In ragione delle rationes a fondamento del divieto e della natura degli interessi tutelati si ritiene, quindi, che lo stesso “operi con un effetto conformativo particolarmente ampio, determinando l'inedificabilità assoluta della fascia di rispetto”.
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23.1. I ricorrenti deducono, in sostanza, la violazione della previsione di cui all’art. 96 del R.D. n. 523/1904 nonché l’illogicità della scelta di collocare un parcheggio sulle sponde del lago in quanto contraria a ragioni ambientali e paesaggistiche, idrogeologiche e, in ultimo, alla salvaguardia dell’incolumità pubblica. Si tratti di motivi che possono esaminarsi congiuntamente in quanto connessi.
23.2. La disamina del motivo impone di delineare la ratio e l’ambito di applicazione della previsione di cui all’art. 96 del R.D. n. 523 del 1904 che reca l’elenco dei “lavori ed atti vietati in modo assoluto sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e difese”.
In particolare, la previsione di cui alla lett. f) del comma 1 vieta “le piantagioni di alberi e siepi, le fabbriche, gli scavi e lo smovimento del terreno a distanza dal piede degli argini e loro accessori come sopra, minore di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località, ed in mancanza di tali discipline, a distanza minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento del terreno e di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi”.
23.3. Tale disposizione opera anche in relazione alle acque lacuali. Lo afferma il Consiglio di Stato osservando come il divieto di edificazione in esame abbia carattere assoluto e riguardi, in genere, le acque pubbliche.
La regola sub observatione non si limita, quindi, ai soli corsi d’acqua come dimostra l’alinea dell’articolo che, nel fare riferimento alle acque pubbliche in genere, non pone alcuna restrizione del genere diversamente da quanto invece dispone la disposizione di cui all’articolo 98, comma 1, lett. d), circoscritta alle nuove “costruzioni nell'alveo dei fiumi, torrenti, rivi, scolatoi pubblici o canali demaniali”. Né una diversa conclusione può affermarsi in ragione della mancata espressa menzione dei laghi da parte delle previsioni contenute nell’articolo 96 e la sola menzione degli stessi nel successivo articolo 97.
Invero, la disposizione di cui all’articolo 97, comma 1, lett. n), reca “una previsione particolare riferita al regime delle spiagge dei laghi e nulla dice circa la disciplina delle sponde, per la quale dunque non può non valere la norma generale dell’art. 96” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 05.11.2012, n. 5620).
Del resto, “se la finalità delle disposizioni in oggetto è quella di consentire il libero deflusso delle acque, è evidente che la medesima esigenza si pone con riguardo alle acque dei laghi, anch’esse soggette a innalzamenti di livello” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 05.11.2012, n. 5620).
23.4. Le precisazioni effettuate dal Consiglio di Stato consentono di superare i rilievi comunali secondo cui la disposizione non dovrebbe trovare applicazione al caso di specie.
Assodato che la regola vale anche in relazione alle acque lacuali, deve verificarsi se la stessa operi o, al contrario, prevalga la disposizione di cui all’art. 97, comma 1, lett. n), secondo cui “sono opere ed atti che non si possono eseguire se non con speciale permesso del prefetto e sotto l'osservanza delle condizioni dal medesimo imposte” “l'occupazione delle spiagge dei laghi con opere stabili, gli scavamenti lungh'esse che possano promuovere il deperimento o recar pregiudizio alle vie alzaie ove esistono, e finalmente la estrazione di ciottoli, ghiaie o sabbie, fatta eccezione, quanto a detta estrazione, per quelle località ove per consuetudine invalsa suolsi praticare senza speciale autorizzazione”.
23.5. In particolare, secondo l’Amministrazione comunale l’intervento in questione consiste in un’opera pubblica che, come tale, non è assimilabile ad una “fabbrica”.
Invero, la giurisprudenza amministrativa chiarisce come la locuzione “fabbrica” debba riferirsi “ai manufatti edilizi, a prescindere dal loro utilizzo, dovendosi individuare la ratio legis nella volontà della norma di esaurire, unitamente all'utilizzo della locuzione “scavi”, tutte le possibili modificazioni frutto dell'opera di trasformazione edilizia, essendo prevista una diversa distanza solo per le piantagioni” (TAR per l’Emilia Romagna – sede di Parma, 21.07.2016, n. 241; TAR per la Campania – sede di Napoli, Sez. II, 06.06.2017, n. 1021).
Del resto, nella lingua italiana, il termine “fabbrica” designa un “edificio, di qualsiasi genere, in corso di costruzione, o anche già finito, se si consideri in rapporto alla sua costruzione” (cfr., Vocabolario della lingua italiana Treccani, vol. II, 1987, foglio 367). Il vocabolo utilizzato dal legislatore è, quindi, volto a ricomprendere ogni tipologia di edificio senza operare distinzioni che, del resto, depriverebbero la ratio stessa del divieto.
23.6. L’Amministrazione comunale ritiene, inoltre, che l’intervento sia abilitato dalla già indicata previsione di cui all’art. 97, comma 1, lett. n), che consente, “con speciale permesso”, l’istallazione di opere stabili sulle spiagge dei laghi. Prescindendo dalle questioni inerenti il concreto svolgimento del procedimento disegnato dal legislatore per tale ipotesi, si nota come la disposizione non possa trovare applicazione.
Infatti, la regula iuris in esame concerne la realizzazione di opere sulla spiaggia e non riguarda, invece, interventi che interessano la sponda del lago. Circostanza del tutto pacifica tra le parti e, comunque, emergente con chiarezza dalla documentazione versata in atti. L’intervento in esame non consiste, infatti, nella mera installazione di un’opera sulla spiaggia ma è collocato proprio sulla sponda del lago.
Risulta, quindi, condivisibile quanto affermato dalla difesa dei ricorrenti che osservano di non contestare “che, in via generale ed astratta, sia possibile realizzare manufatti sulle spiagge dei laghi, bensì rilevano che i manufatti in questione debbano rispettare le distanze di legge dalle sponde (cosa che, nella fattispecie, non avviene)”.
Del resto, come evidenziato già in precedenza, la disposizione di cui all’art. 97, comma 1, lett. n), reca “una previsione particolare riferita al regime delle spiagge dei laghi e nulla dice circa la disciplina delle sponde, per la quale dunque non può non valere la norma generale dell’art. 96” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 05.11.2012, n. 5620).
23.7. Non assumono, inoltre, rilievo le previsioni di cui all’art. 12 della L.r. n. 6 del 2012 (evocata dal Comune) che testualmente prevedono: “1. Al fine di valorizzare il demanio lacuale, fluviale e dei navigli e tutte le vie d’acqua, in coerenza con gli altri strumenti della programmazione regionale, la Giunta regionale, acquisito il parere dell’ente preposto alla gestione del demanio, approva il programma degli interventi predisposto dalla competente direzione generale. 1-bis. Il programma degli interventi regionali sul demanio delle acque interne individua le azioni di ammodernamento, completamento, manutenzione e realizzazione delle opere riguardanti le vie navigabili e i porti della navigazione interna. 2. Il programma di cui al comma 1 individua i criteri di valutazione e di realizzazione degli interventi”.
Risulta evidente dalla lettura delle disposizioni riportate come queste non riconoscano “espressamente che si possono realizzare opere come quella in esame”, come ritenuto dall’Amministrazione comunale (foglio 22 della memoria conclusionale).
Invero, la previsione si limita ad abilitare la Regione ad elaborare un programma di intervento ma non contiene regole di carattere sostanziale sulle tipologie di intervento ammesse che continuano ad essere, comunque, regolate, ex aliis, dalla disposizione di cui all’art. 96 del R.D. n. 523/1904.
Una previsione che, come ricordato dalla costante giurisprudenza, pone un divieto di carattere “legale, assoluto e inderogabile”, e “diretto al fine di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici (cfr. Cassazione civile, sez. un., 30.07.2009, n. 17784, […]” (TAR per la Lombardia – sede di Brescia, Sez. I, 29.11.2018, n. 1141).
Si tratta, quindi, di una regola tesa “a garantire le normali operazioni di ripulitura/manutenzione e a impedire le esondazioni delle acque” ed a “scongiurare l’occupazione edificatoria degli spazi prossimi al reticolo idrico, sia a tutela del regolare scorrimento delle acque, sia in funzione preventiva rispetto ai rischi per le persone e le cose che potrebbero derivare da esondazioni” (TAR per la Lombardia – sede di Brescia, Sez. I, 29.11.2018, n. 1141).
In ragione delle rationes a fondamento del divieto e della natura degli interessi tutelati si ritiene, quindi, che lo stesso “operi con un effetto conformativo particolarmente ampio, determinando l'inedificabilità assoluta della fascia di rispetto” (cfr., TAR per la Toscana, Sez. III, 08.03.2012 n. 439) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 07.01.2020 n. 37 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

anno 2019

EDILIZIA PRIVATALa copertura del corso d’acqua non ne determina la eliminazione e, pertanto, non vengono meno, per tale circostanza, le ragioni di tutela che presiedono al vincolo di inedificabilità assoluto operante nella fascia di rispetto di legge.
E’ stato, invero affermato che i vincoli previsti dal R.D. n. 523 del 1904 sussistono anche per i corsi d’acqua tombinati, atteso che, a parte il caso che possano o meno essere riportati in qualsiasi momento allo stato precedente, anche per tali corsi d’acqua occorre consentire uno spazio di manovra, nel caso di necessarie attività di manutenzione e ripulitura delle condutture.

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Il divieto recato dall’art. 96, lett. f), del R.D. n. 523/1904 concerne, per quanto in questa sede interessa, “fabbriche” e “
scavi”.
Trattasi, in relazione alle opere vietate, di definizione ampia e, come tale, onnicomprensiva di ogni forma di edificazione che venga ad occupare la fascia di rispetto, la quale, in relazione al carattere assoluto del divieto, normativamente previsto, deve rimanere libera.
In particolare, la formula ampia utilizzata dal legislatore consente di ricomprendervi qualsiasi manufatto che, per le sue caratteristiche, sia idoneo a compromettere il libero deflusso delle acque o l’espletamento dei necessari lavori di manutenzione.
Invero, come sopra già esposto, la fascia di rispetto non è finalizzata esclusivamente a garantire la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche il libero deflusso delle acque e ad assicurare le normali operazioni di pulitura e manutenzione.
Orbene, la realizzazione di un muro di recinzione in blocchetti di cemento sormontato da inferriata costituisce certamente opera rientrante nel concetto di “fabbrica”, attesa la sua consistenza, il carattere stabile e duraturo e, dunque, in relazione alla sua vicinanza al torrente (sia pur tombinato), la sua idoneità ad impedire un adeguato spazio di manovra per le operazioni di pulitura e manutenzione.
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Osserva, di poi, la Sezione, in disparte a quanto sopra rilevato, che in ogni caso la sopravvenuta circostanza della copertura del torrente e dell’incanalamento delle relative acque non appare, allo stato degli atti, elemento dirimente per ritenere che l’ordine di demolizione non dovesse essere emesso, per essere i manufatti non violativi della normativa in materia di distanze.
Deve, in proposito, in primo luogo essere evidenziato che la copertura del corso d’acqua non ne determina la eliminazione e, pertanto, non vengono meno, per tale circostanza, le ragioni di tutela che presiedono al vincolo di inedificabilità assoluto operante nella fascia di rispetto di legge.
E’ stato, invero affermato (cfr. Trib. sup. acque, 18.02.2014, n. 44) che i vincoli previsti dal R.D. n. 523 del 1904 sussistono anche per i corsi d’acqua tombinati, atteso che, a parte il caso che possano o meno essere riportati in qualsiasi momento allo stato precedente, anche per tali corsi d’acqua occorre consentire uno spazio di manovra, nel caso di necessarie attività di manutenzione e ripulitura delle condutture.
La relazione tecnica, datata 05.07.1997, prodotta in primo grado dalla ricorrente non adduce elementi per ritenere che, a seguito della tombinatura, la fascia di rispetto risulti rispettata.
In essa si legge: “…La strada interpoderale, i cui lavori di sistemazione sono stati curati dall’amministrazione Comunale di Forlì del Sannio, si sviluppa con pendenza da nord a sud lungo il lato est del lotto di proprietà della signora Gi.: nella tratta di strada adiacente al terreno in narrativa sono stati realizzati, durante l’esecuzione dei lavori di sistemazione della strada, due tombini e sempre nel corso dei citati lavori il fosso Mandrella nel tratto confinante con la proprietà Giovino è stato coperto canalizzando le acque in un tubolare che collega i due tombini descritti in precedenza. In conclusione….si evince che il fosso Mandrella nel tratto a confine con la proprietà della signora Gi.An.Ma.…. non esiste più in superficie e la sua consistenza nel tratto adiacente la recinzione della proprietà in narrativa è stata annullata dai lavori di sistemazione della strada interpoderale ivi ubicata…”.
Orbene, dalla lettura della prefata relazione si evince unicamente l’avvenuta copertura del corso d’acqua, le cui acque sono state canalizzate in un tubolare.
Il corso d’acqua continua ad esistere e, pertanto, continua ad operare la fascia di rispetto di cui al richiamato articolo 96 del T.U.
La citata relazione, poi, non dà assolutamente conto di eventuali spostamenti del corso d’acqua e del suo alveo originario, a seguito dei lavori di sistemazione, sì da poter ritenere che la fascia di rispetto risulti per tal modo, sia pure in via successiva, rispettata dalle opere realizzate dalla signora Gi..
Né può assumersi che, essendo venuto meno l’originario argine per effetto dei lavori di incanalamento, venga a mancare il punto di riferimento dal quale è stata rilevata l’originaria irregolare distanza.
Vi è, infatti, che non essendovi agli atti prova di un avvenuto spostamento del corso d’acqua originario per effetto dei lavori di tombinatura, deve ritenersi che il margine esterno del corso d’acqua, quale originariamente rilevato, continui a sussistere, in tal modo costituendo elemento fondante dell’avvenuta violazione della distanza legale.
Sulla base delle considerazioni tutte sopra svolte, deve, pertanto, ritenersi l’infondatezza del motivo di appello e la legittimità del provvedimento demolitorio impugnato.
Tanto, peraltro, non esclude che, in sede di esecuzione dell’ingiunzione di demolizione, possa essere nuovamente verificato il rispetto della distanza legale in relazione ad un eventuale spostamento del corso d’acqua (non emerso nella presente sede giurisdizionale) verificatosi a seguito dei lavori di sistemazione stradale e di tombinatura.
Con il secondo motivo di appello viene lamentata violazione e falsa applicazione dell’art. 96, lett. f), del R.D. n. 523 del 25.07.1904.
Parte appellante deduce l’erroneità della gravata sentenza per non avere colto il fine precipuo della norma, che non è quello di impedire tout court la realizzazione di qualsiasi opera nella fascia di rispetto fluviale, ma unicamente di impedire quelle opere che ostacolino il libero deflusso delle acque.
Rileva, pertanto, che la realizzazione di un muro in blocchetti di cemento e di un cancello, aventi funzione di mera recinzione, non rientrano nell’ambito delle opere vietate dal richiamato articolo 96 e non possono costituire ostacolo al libero deflusso delle acque.
Il motivo di appello non è meritevole di accoglimento.
Osserva il Collegio che il divieto recato dall’art. 96, lett. f), del R.D. n. 523/1904 concerne, per quanto in questa sede interessa, “fabbriche” e “
scavi”.
Trattasi, in relazione alle opere vietate, di definizione ampia e, come tale, onnicomprensiva di ogni forma di edificazione che venga ad occupare la fascia di rispetto, la quale, in relazione al carattere assoluto del divieto, normativamente previsto, deve rimanere libera.
In particolare, la formula ampia utilizzata dal legislatore consente di ricomprendervi qualsiasi manufatto che, per le sue caratteristiche, sia idoneo a compromettere il libero deflusso delle acque o l’espletamento dei necessari lavori di manutenzione.
Invero, come sopra già esposto, la fascia di rispetto non è finalizzata esclusivamente a garantire la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche il libero deflusso delle acque e ad assicurare le normali operazioni di pulitura e manutenzione.
Orbene, la realizzazione di un muro di recinzione in blocchetti di cemento sormontato da inferriata (quale evincibile dalla documentazione fotografica versata in atti) costituisce certamente opera rientrante nel concetto di “fabbrica”, attesa la sua consistenza, il carattere stabile e duraturo e, dunque, in relazione alla sua vicinanza al torrente Mandrelle (sia pur tombinato), la sua idoneità ad impedire un adeguato spazio di manovra per le operazioni di pulitura e manutenzione.
Il mezzo di gravame è, dunque, infondato (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 11.11.2019 n. 7695 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATARisulta dirimente, ai fini della infondatezza della censura sollevata, il riferimento alla natura assoluta del divieto di costruzione previsto dall’articolo 96, lettera f), del R.D. n. 523 del 1904.
La norma così dispone: “Sono lavori ed atti vietati in modo assoluto sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e difese i seguenti:…f) le piantagioni di alberi e siepi, le fabbriche, gli scavi e lo smovimento del terreno a distanza dal piede degli argini e loro accessori come sopra, minore di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località, ed in mancanza di tali discipline, a distanza minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento di terreno e di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi”.
Dunque, in mancanza di diverse prescrizioni da parte dei regolamenti locali, vi è divieto di realizzare fabbriche e scavi a distanza inferiore di dieci metri dal piede degli argini, espressamente sancendo la norma che tale divieto ha carattere “assoluto”.
Pertanto, una deroga a tale limite normativo è consentita solo da differenti prescrizioni dei regolamenti locali, non potendo la stessa essere rimessa alla determinazione individuale dell’autorità amministrativa.
Orbene, la giurisprudenza costantemente ritiene che il divieto di costruzione di opere dagli argini dei corsi d’acqua, previsto dall’articolo 96, lett. f), del T.U. 25.07.1904, n. 523, ha carattere legale, assoluto ed inderogabile.
Si afferma, in proposito, che tale vincolo di inedificabilità è diretto al fine di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche il libero deflusso delle stesse, garantendo le operazioni di ripulitura e manutenzione ed impedendo le esondazioni delle acque.
Dunque, la ratio della disposizione va individuata nella finalità di scongiurare l’occupazione edificatoria degli spazi prossimi al reticolo idrico, sia a tutela del regolare scorrimento delle acque, sia in funzione preventiva rispetto ai rischi per le persone e per le cose che potrebbero derivare da esondazioni.
Ciò posto, dal carattere assoluto del richiamato vincolo di inedificabilità discende la natura vincolata (in termini repressivi) dell’azione amministrativa conseguente all’accertamento della violazione della distanza legale.
A tanto consegue che una eventuale mancata repressione di altra opera realizzata a distanza inferiore ovvero, a maggior ragione, l’avvenuta autorizzazione della stessa pur in mancanza della distanza di 10 metri prevista dalla norma, dando luogo a condotte contra legem, costituiscono elementi che non possono in alcun modo fondare l’illegittimità di una sanzione demolitoria irrogata in presenza di violazione della distanza legale.
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La sopravvenuta circostanza della copertura del torrente e dell’incanalamento delle relative acque non appare elemento dirimente per ritenere che l’ordine di demolizione non possa essere emesso, per essere i manufatti non violativi della normativa in materia di distanze.
Deve, in proposito, in primo luogo essere evidenziato che la copertura del corso d’acqua non ne determina la eliminazione e, pertanto, non vengono meno, per tale circostanza, le ragioni di tutela che presiedono al vincolo di inedificabilità assoluto operante nella fascia di rispetto di legge.
E’ stato, invero, affermato che i vincoli previsti dal R.D. n. 523 del 1904 sussistono anche per i corsi d’acqua tombinati, atteso che, a parte il caso che possano o meno essere riportati in qualsiasi momento allo stato precedente, anche per tali corsi d’acqua occorre consentire uno spazio di manovra, nel caso di necessarie attività di manutenzione e ripulitura delle condutture.

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I
l divieto recato dall’articolo 96, lettera f), del R.D. n. 523/1904 concerne, per quanto in questa sede interessa, “fabbriche” e “scavi”.
Trattasi, in relazione alle opere vietate, di definizione ampia e, come tale, onnicomprensiva di ogni forma di edificazione che venga ad occupare la fascia di rispetto, la quale, in relazione al carattere assoluto del divieto, normativamente previsto, deve rimanere libera.
In particolare, la formula ampia utilizzata dal legislatore consente di ricomprendervi qualsiasi manufatto che, per le sue caratteristiche, sia idoneo a compromettere il libero deflusso delle acque o l’espletamento dei necessari lavori di manutenzione.
Invero, la fascia di rispetto non è finalizzata esclusivamente a garantire la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche il libero deflusso delle acque e ad assicurare le normali operazioni di pulitura e manutenzione.
Orbene, la realizzazione di un muro di recinzione in blocchetti di cemento sormontato da inferriata costituisce certamente opera rientrante nel concetto di “fabbrica”, attesa la sua consistenza, il carattere stabile e duraturo e, dunque, in relazione alla sua vicinanza al torrente (sia pur tombinato), la sua idoneità ad impedire un adeguato spazio di manovra per le operazioni di pulitura e manutenzione.

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Viene, invero, lamentata l’intima contraddizione del comportamento della Regione, la quale, da una parte ha ingiunto la demolizione delle opere realizzate dal privato a distanza inferiore a 10 metri, mentre dall’altra ha consentito la completa sistemazione dell’area da parte del Comune attraverso la canalizzazione del ruscello tramite tubi in cemento armato, la sistemazione della strada interpoderale (sita al lato opposto del ruscello rispetto alla proprietà Gi.) e la realizzazione sulla stessa di opere di messa in sicurezza quali guard rail.
La doglianza non è meritevole di favorevole considerazione, non risultando assolutamente comparabili le situazioni messe a raffronto dall’appellante per dedurre la contraddittorietà e l’illogicità dell’azione amministrativa.
Invero, a differenza dei manufatti realizzati dalla signora Gi., gli interventi eseguiti dal Comune ed autorizzati dalla Regione risultano essere opere pubbliche e di interesse pubblico, delle quali è stata previamente verificata, da parte dell’autorità competente, la compatibilità con le esigenze di tutela della risorsa idrica.
Va, inoltre, considerato che la strada era preesistente e, dunque, per quanto emerge dalle stesse affermazioni dell’appellante, si è trattato di sistemazione di un’opera che già insisteva al margine del torrente Mandrelle.
In disparte a quanto sopra rilevato, risulta, poi, dirimente, ai fini della infondatezza della censura sollevata, il riferimento alla natura assoluta del divieto di costruzione previsto dall’articolo 96, lettera f), del R.D. n. 523 del 1904.
La norma così dispone: “Sono lavori ed atti vietati in modo assoluto sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e difese i seguenti:…f) le piantagioni di alberi e siepi, le fabbriche, gli scavi e lo smovimento del terreno a distanza dal piede degli argini e loro accessori come sopra, minore di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località, ed in mancanza di tali discipline, a distanza minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento di terreno e di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi”.
Dunque, in mancanza di diverse prescrizioni da parte dei regolamenti locali, vi è divieto di realizzare fabbriche e scavi a distanza inferiore di dieci metri dal piede degli argini, espressamente sancendo la norma che tale divieto ha carattere “assoluto”.
Pertanto, una deroga a tale limite normativo è consentita solo da differenti prescrizioni dei regolamenti locali, non potendo la stessa essere rimessa alla determinazione individuale dell’autorità amministrativa.
Orbene, la giurisprudenza (cfr., ex multis, Cons. Stato, IV, 22.06.2011 n. 3781; Trib. sup. acque, 24.06.2010, n. 104) costantemente ritiene che il divieto di costruzione di opere dagli argini dei corsi d’acqua, previsto dall’articolo 96, lett. f), del T.U. 25.07.1904, n. 523, ha carattere legale, assoluto ed inderogabile.
Si afferma, in proposito, che tale vincolo di inedificabilità è diretto al fine di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche il libero deflusso delle stesse, garantendo le operazioni di ripulitura e manutenzione ed impedendo le esondazioni delle acque.
Dunque, la ratio della disposizione va individuata nella finalità di scongiurare l’occupazione edificatoria degli spazi prossimi al reticolo idrico, sia a tutela del regolare scorrimento delle acque, sia in funzione preventiva rispetto ai rischi per le persone e per le cose che potrebbero derivare da esondazioni.
Ciò posto, osserva il Collegio che dal carattere assoluto del richiamato vincolo di inedificabilità discende la natura vincolata (in termini repressivi) dell’azione amministrativa conseguente all’accertamento della violazione della distanza legale.
A tanto consegue che una eventuale mancata repressione di altra opera realizzata a distanza inferiore ovvero, a maggior ragione, l’avvenuta autorizzazione della stessa pur in mancanza della distanza di 10 metri prevista dalla norma, dando luogo a condotte contra legem, costituiscono elementi che non possono in alcun modo fondare l’illegittimità di una sanzione demolitoria irrogata in presenza di violazione della distanza legale.
Per le ragioni sopra esposte, dunque, non è configurabile il lamentato vizio di contraddittorietà dell’azione amministrativa.
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Osserva, di poi, la Sezione, in disparte a quanto sopra rilevato, che in ogni caso la sopravvenuta circostanza della copertura del torrente e dell’incanalamento delle relative acque non appare, allo stato degli atti, elemento dirimente per ritenere che l’ordine di demolizione non dovesse essere emesso, per essere i manufatti non violativi della normativa in materia di distanze.
Deve, in proposito, in primo luogo essere evidenziato che la copertura del corso d’acqua non ne determina la eliminazione e, pertanto, non vengono meno, per tale circostanza, le ragioni di tutela che presiedono al vincolo di inedificabilità assoluto operante nella fascia di rispetto di legge.
E’ stato, invero affermato (cfr. Trib. sup. acque, 18.02.2014, n. 44) che i vincoli previsti dal R.D. n. 523 del 1904 sussistono anche per i corsi d’acqua tombinati, atteso che, a parte il caso che possano o meno essere riportati in qualsiasi momento allo stato precedente, anche per tali corsi d’acqua occorre consentire uno spazio di manovra, nel caso di necessarie attività di manutenzione e ripulitura delle condutture.
...
Osserva il Collegio che il divieto recato dall’articolo 96, lettera f), del R.D. n. 523/1904 concerne, per quanto in questa sede interessa, “fabbriche” e “scavi”.
Trattasi, in relazione alle opere vietate, di definizione ampia e, come tale, onnicomprensiva di ogni forma di edificazione che venga ad occupare la fascia di rispetto, la quale, in relazione al carattere assoluto del divieto, normativamente previsto, deve rimanere libera.
In particolare, la formula ampia utilizzata dal legislatore consente di ricomprendervi qualsiasi manufatto che, per le sue caratteristiche, sia idoneo a compromettere il libero deflusso delle acque o l’espletamento dei necessari lavori di manutenzione.
Invero, come sopra già esposto, la fascia di rispetto non è finalizzata esclusivamente a garantire la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche il libero deflusso delle acque e ad assicurare le normali operazioni di pulitura e manutenzione.
Orbene, la realizzazione di un muro di recinzione in blocchetti di cemento sormontato da inferriata (quale evincibile dalla documentazione fotografica versata in atti) costituisce certamente opera rientrante nel concetto di “fabbrica”, attesa la sua consistenza, il carattere stabile e duraturo e, dunque, in relazione alla sua vicinanza al torrente Mandrelle (sia pur tombinato), la sua idoneità ad impedire un adeguato spazio di manovra per le operazioni di pulitura e manutenzione
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 11.11.2019 n. 7695 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAppartiene alla giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche (TSAP), prevista dall'art. 143, R.D. 1775/1933, la controversia relativa a provvedimenti assunti in tema di concessione edilizia sotto qualunque profilo, laddove si contesti la violazione della fascia di rispetto di dieci metri dal piede dell'argine, ai sensi dell'art. 96, lett. f), R.D. 523/1904.
Detto provvedimento, infatti, ancorché emanato da un'autorità diversa da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, incide direttamente sul regolare regime delle acque pubbliche, la cui tutela ha carattere inderogabile in quanto informata alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali e il libero deflusso delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici.
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Il ricorso è inammissibile per difetto di giurisdizione.
Esiste un costante orientamento dei TAR circa il difetto di giurisdizione in controversie come quella in esame.
In più occasioni è stato affermato che appartiene alla giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche, prevista dall'art. 143, R.D. 1775/1933, la controversia relativa a provvedimenti assunti in tema di concessione edilizia sotto qualunque profilo, laddove si contesti la violazione della fascia di rispetto di dieci metri dal piede dell'argine, ai sensi dell'art. 96, lett. f), R.D. 523/1904; detto provvedimento, infatti, ancorché emanato da un'autorità diversa da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, incide direttamente sul regolare regime delle acque pubbliche, la cui tutela ha carattere inderogabile in quanto informata alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali e il libero deflusso delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 26.06.2019 n. 965 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Recinzione in prossimità dell’argine di un fiume.
In considerazione di quello che è l’interesse pubblico perseguito dal RD 368/1904, deve ritenersi che la norma si applichi a tutti i manufatti in grado di interferire con la pulizia delle sponde, l’uso degli argini e il normale alveo del corso d’acqua.
Ne consegue che manufatto costituito da un basamento in cemento armato sormontato da una rete metallica va qualificato una “fabbrica” assoggettata alle prescrizioni dell’articolo 133 R.D. n. 368/1904 che indica gli atti o fatti vietati in modo assoluto rispetto ai “corsi d'acqua, strade, argini ed altre opere d'una bonificazione” (fattispecie relativa a una recinzione che sorge a 1,20 m. dalla mezzeria di un canale)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 14.05.2019 n. 1074 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
7.1. Il ricorso è infondato: il che consente di prescindere, per ragioni di economia processuale, dalla disamina delle eccezioni preliminari sollevate sia dalla difesa del Comune, che da quella del Consorzio (cfr., TAR Lazio–Roma, Sez. III, sentenza n. 9086/2016).
7.2. Il ragionamento deve necessariamente muovere dal dato normativo.
Ebbene, il R.D. n. 368/1904 (recante il “Regolamento sulle bonificazioni delle paludi e dei terreni paludosi”) all’articolo 133 disciplina le fasce di inedificabilità assoluta rispetto a «corsi d’acqua, strade, argini ed altre opere d’una bonificazione». In particolare, per quanto qui di interesse, la testé richiamata disposizione regolamentare vieta in una fascia compresa tra i 4 e i 10 m. dal corso d’acqua la realizzazione di “fabbriche” o “fabbricati”.
Ed, infatti, la deliberazione consortile n. 125 del 31.05.2007, in esecuzione della suvvista disposizione, esercitando la discrezionalità riconosciutagli all’interno dell’intervallo predeterminato dalla norma, ha fissato in 6 m. la fascia di rispetto per i canali derivatori.
7.3.1. Sennonché, è irrilevante che la recinzione di cui si discute sia stata realizzata prima della su ricordata deliberazione consortile, posto che non è in contestazione che essa sorge a 1,20 m. dalla mezzeria del canale, quindi comunque entro la minor fascia di 4 m. fissata dal R.D. n. 168/1904, ovverosia in area comunque assoggettata a vincolo di inedificabilità.
Questo significa che in nessun caso la recinzione avrebbe potuto essere collocata in quel punto.
E significa, altresì, che, giusta quanto dispone l’articolo 33, primo comma, lettera a), L. n. 47/1985, espressamente richiamato dall’articolo 32, comma 27, D.L. n. 269/2003 (convertito in L. n. 326/2003), il manufatto in alcun modo non è sanabile.
7.3.2. Né può sostenersi che la recinzione non costituisca una “fabbrica” e, dunque, non sia assoggettata alle prescrizioni dell’articolo 133 R.D. n. 368/1904.
Come condivisibilmente osservato dalla difesa del Consorzio, in considerazione di quello che è l’interesse pubblico perseguito, deve ritenersi che la norma si applichi a tutti i manufatti in grado di interferire con la pulizia delle sponde, l’uso degli argini e il normale alveo del corso d’acqua. E, nel caso di specie, il manufatto è costituito da un basamento in cemento armato sormontato da una rete metallica: il che ne fa sicuramente una “fabbrica” ai fini sopra visti.
7.3.3. Nemmeno può opporsi –così come tenta di fare la difesa di parte ricorrente- che la recinzione di cui si discute è allineata alla recinzione di altre proprietà che costeggiano il canale e che recentemente anche il Comune ha realizzato dall’altra parte del canale una palizzata a protezione della pista ciclabile.
Infatti, anche ammettendo che le allegazioni siano confermate, non costituisce certo causa di illegittimità l’essersi l’Autorità procedente allontanata da una prassi illegittima (cfr., TAR Emilia Romagna–Parma, sentenza n. 242/2016). La violazione di una norma di legge non repressa non legittima affatto la reiterazione della violazione medesima (cfr., TAR Toscana, Sez. III, sentenza n. 507/2015).
7.4. In questo quadro, il ritiro in autotutela di un provvedimento (i.e. il permesso di costruire in sanatoria) che ab origine non avrebbe potuto essere rilasciato si configura come atto vincolato (cfr., C.d.S., Sez. IV, sentenza n. 2799/2018), come tale non necessitante di una motivazione ulteriore rispetto ai presupposti che legittima l’esercizio di un potere nella sostanza repressivo (cfr., C.d.S., Sez. IV, sentenza n. 3659/2018).
7.5. Infine, il richiamo operato dalla revoca in autotutela del permesso di costruire in sanatoria alle sanzioni previste dall’articolo 26 del Regolamento consortile è privo di valenza provvedimentale, costituendo un semplice avviso rispetto a provvedimenti che saranno adottati in un secondo momento e a poteri ancora da esercitare.
8.1. In conclusione, il ricorso è infondato e per questo viene respinto.

anno 2018

EDILIZIA PRIVATA: Il vincolo disposto dal citato art. 96, lett. f), del R.D. 25.07.1904 n. 523 implica l'inedificabilità assoluta delle aree poste a distanza minore di metri 10 dal piede degli argini.
La giurisprudenza, al riguardo, ha chiarito che:
   - “comporta vincolo inderogabile di inedificabilità ex art. 33, 1. 28.02.1985 n. 47, tale da precludere il rilascio di concessione in sanatoria, l'art. 96, lett. f), t.u. 25.07.1904 n. 523, secondo cui sono lavori ed atti vietati in modo assoluto sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e difese i seguenti: ... f) ... le fabbriche ... a distanza dal piede degli argini e loro accessori minore di ( ... ) metri dieci”;
   - “a nulla rilevano le intenzioni manifestate o meno dalla parte interessata quanto alla possibile demolizione di un manufatto abusivo adiacente ad un torrente, dovendosi unicamente avere riguardo all'esistenza di un vincolo di inedificabilità assoluta entro i dieci metri dalla sponda del corso d'acqua pubblica, con il conseguente obbligo per l'ente vigilante d'imporne la demolizione indipendentemente dal consenso o dissenso del soggetto interessato, ai sensi dell'art. 33, legge n. 47 del 1985, poiché in nessun modo l'abuso edilizio realizzato in violazione di una norma inderogabile potrebbe essere sanato considerandolo come un'opera a difesa della sponda, trattandosi di un volume edilizio costruito per tutt'altro scopo”.
   - il vincolo in questione è efficace e cogente sia nel caso in cui il corso d'acqua sia stato coperto da una strada pubblica (Tribunale superiore delle acque pubbliche, n. 30/1990) sia nel caso in cui l'acqua demaniale non sia suscettibile di utilizzazione a fini pubblici o collettivi.
L'art. 93 del RD n. 523/1904, inoltre, stabilisce che “formano parte degli alvei i rami o canali, o diversivi dei fiumi, torrenti, rivi e scolatoi pubblici, ancorché in alcuni tempi dell'anno rimangono asciutti”.
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2.5. Sotto altro profilo, il vincolo di inedificabilità entro la fascia di rispetto di dieci metri dal corso d'acqua, diversamente da quanto dedotto dai ricorrenti, non è stato apposto in epoca successiva alla data di realizzazione del manufatto, trattandosi di limite inderogabile imposto ex lege dall'art. 96, lett. f), del Regio Decreto 25.07.1904 n. 523, entrato in vigore in epoca molto precedente alla realizzazione dell'opera.
In particolare, il vincolo disposto dal citato art. 96, lett. f), del Regio Decreto 25.07.1904 n. 523 implica l'inedificabilità assoluta delle aree poste a distanza minore di metri 10 dal piede degli argini.
La giurisprudenza, al riguardo, ha chiarito che:
   - “comporta vincolo inderogabile di inedificabilità ex art. 33, l. 28.02.1985 n. 47, tale da precludere il rilascio di concessione in sanatoria, l'art. 96, lett. f), t.u. 25.07.1904 n. 523, secondo cui sono lavori ed atti vietati in modo assoluto sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e difese i seguenti: ... f) ... le fabbriche ... a distanza dal piede degli argini e loro accessori minore di ( ... ) metri dieci” (TAR Veneto, Sez. II, n. 2795/2003);
   - “a nulla rilevano le intenzioni manifestate o meno dalla parte interessata quanto alla possibile demolizione di un manufatto abusivo adiacente ad un torrente, dovendosi unicamente avere riguardo all'esistenza di un vincolo di inedificabilità assoluta entro i dieci metri dalla sponda del corso d'acqua pubblica, con il conseguente obbligo per l'ente vigilante d'imporne la demolizione indipendentemente dal consenso o dissenso del soggetto interessato, ai sensi dell'art. 33, legge n. 47 del 1985, poiché in nessun modo l'abuso edilizio realizzato in violazione di una norma inderogabile potrebbe essere sanato considerandolo come un'opera a difesa della sponda, trattandosi di un volume edilizio costruito per tutt'altro scopo” (Tribunale superiore delle acque pubbliche, n. 91/2003; v., in senso conforme, anche TAR Toscana, Sezione III, n. 277/2003 e Tribunale superiore delle acque pubbliche, n. 31/1999).
   - il vincolo in questione è efficace e cogente sia nel caso in cui il corso d'acqua sia stato coperto da una strada pubblica (Tribunale superiore delle acque pubbliche, n. 30/1990) sia nel caso in cui l'acqua demaniale non sia suscettibile di utilizzazione a fini pubblici o collettivi (TAR Toscana, n. 81/1981).
L'art. 93 del Regio Decreto n. 523/1904, inoltre, stabilisce che “formano parte degli alvei i rami o canali, o diversivi dei fiumi, torrenti, rivi e scolatoi pubblici, ancorché in alcuni tempi dell'anno rimangono asciutti”.
Vanno respinti, pertanto, i primi quattro motivi di ricorso (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 17.05.2018 n. 1288 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il divieto di costruzione di opere dagli argini dei corsi d'acqua, previsto dall'art. 96, lett. f), t.u. 25.07.1904 n. 523, ha carattere legale, assoluto e inderogabile, ed è diretto al fine di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali e il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici.
La deroga di cui alla lett. f) del citato art. 96, per cui la distanza minima si applica in mancanza di “discipline vigenti nelle diverse località” ha carattere eccezionale e, per prevalere sulla norma generale, essere specificamente diretta a tutelare il deflusso delle acque e la distanza dagli argini delle costruzioni, in ossequio altresì alla normativa statale di tutela del vincolo idrogeologico e delle peculiari condizioni delle acque e degli argini che la norma locale prende in considerazione al fine di stabilirvi l'eventuale deroga.
Sicché va condiviso quanto statuito dai giudici di prime cure laddove precisano che “solo se lo scopo dell'attività costruttiva lungo il corso d'acqua è quello specifico di salvaguardarne il regime idraulico la disciplina locale assume valenza derogatoria della norma statale, in quanto meglio ne attua l'interesse pubblico perseguito. In caso contrario, qualora la norma locale si proponesse finalità diverse, quali sono ad es. quelle meramente urbanistiche, essa non derogherebbe alla citata disciplina statale che -in quanto informata a tutelare il buon regime delle acque pubbliche nonché a prevenire i danni che possono derivare da una disordinata attività costruttiva e manutentiva lungo i corsi d'acqua- impone divieti da qualificarsi come tassativi”.
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Nessuna opera realizzata in violazione della norma può essere sanata ed è legittimo il diniego di rilascio di concessione edilizia in sanatoria relativamente a fabbricati realizzati all'interno della c.d. fascia di servitù idraulica integrante ex se, ai sensi dell’art. 33 l. 28.02.1985 n. 47, un vincolo d’inedificabilità.
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1. È appellata la sentenza del TAR LOMBARDIA - SEZ. STACCATA DI BRESCIA, SEZIONE II n. 1231/2011, con la quale ha respinto i ricorsi riuniti rispettivamente proposti da S.r.l. O.S.C. impianti avverso il parere sfavorevole, sotto il profilo idraulico, pronunciato il 25.07.1996 dal Genio civile, relativo alla realizzazione, in assenza di concessione edilizia, di due depositi nonché il diniego di concessione edilizia in sanatoria, opposto dal Sindaco di Cellatica il 10.10.1996, con richiamo al parere negativo 25.07.1996 del Genio Civile e la conseguente ordinanza di demolizione n. 21, emessa in pari data.
2. Nei motivi d’appello, la società ha dedotto gli errori di giudizio in cui sarebbero incorsi i giudici di prime cure per aver omesso di scrutinare l’assenza nel parere sfavorevole di alcuna concreta valutazione sulla compatibilità dei manufatti che non impediscono od ostacolano il libero deflusso delle acque del torrente Mandolossa.
Pretermettendo di considerare, lamenta ancora al società, la deroga contenuta nell’art. 96, lett. f), R.D. 523/1904.
3. Si è costituta in giudizio la regione Lombardia.
4. Alla pubblica udienza del 21.11.2017 la causa, su richiesta delle parti, è stata trattenuta in decisione.
5. L’appello è infondato.
6. Il divieto di costruzione di opere dagli argini dei corsi d'acqua, previsto dall'art. 96, lett. f), t.u. 25.07.1904 n. 523, ha carattere legale, assoluto e inderogabile, ed è diretto al fine di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali e il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici.
6.1 La deroga di cui alla lett. f) del citato art. 96, per cui la distanza minima si applica in mancanza di “discipline vigenti nelle diverse località” ha carattere eccezionale e, per prevalere sulla norma generale, essere specificamente diretta a tutelare il deflusso delle acque e la distanza dagli argini delle costruzioni, in ossequio altresì alla normativa statale di tutela del vincolo idrogeologico e delle peculiari condizioni delle acque e degli argini che la norma locale prende in considerazione al fine di stabilirvi l'eventuale deroga.
Sicché va condiviso quanto statuito dai giudici di prime cure laddove precisano che “solo se lo scopo dell'attività costruttiva lungo il corso d'acqua è quello specifico di salvaguardarne il regime idraulico la disciplina locale assume valenza derogatoria della norma statale, in quanto meglio ne attua l'interesse pubblico perseguito. In caso contrario, qualora la norma locale si proponesse finalità diverse, quali sono ad es. quelle meramente urbanistiche, essa non derogherebbe alla citata disciplina statale che -in quanto informata a tutelare il buon regime delle acque pubbliche nonché a prevenire i danni che possono derivare da una disordinata attività costruttiva e manutentiva lungo i corsi d'acqua- impone divieti da qualificarsi come tassativi”.
6.2 Nel caso in esame è assente la specifica disciplina di natura idraulica.
6.3 A corollario, nessuna opera realizzata in violazione della norma può essere sanata ed è legittimo il diniego di rilascio di concessione edilizia in sanatoria relativamente a fabbricati realizzati all'interno della c.d. fascia di servitù idraulica integrante ex se, ai sensi dell’art. 33 l. 28.02.1985 n. 47, un vincolo d’inedificabilità.
6.4 Il diniego di sanatoria opposto dal Sindaco di Cellatica è atto: la legittimità del parere del Genio civile, preclude in radice la sanabilità delle opere.
6.5 L’ordinanza di demolizione, a sua volta, scaturisce, ex artt. 31 e 33 d.P.R. n. 380/2001, in presa diretta dall’abusività delle opere non suscettibili di sanatoria.
6.6 Conclusivamente l’appello deve essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.01.2018 n. 102 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2017

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell’art. 143 del R.D. n. 1775/1933, appartengono alla cognizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche i ricorsi avverso i provvedimenti presi dall’amministrazione in materia di acque pubbliche.
Sicché, laddove venga rilevata la mancata osservanza, in caso di costruzioni o, come nella specie, di recinzioni, fisse o amovibili, delle distanze prescritte rispetto al canale o all’argine di un torrente o fiume, si prospetta una situazione incidente in maniera diretta e immediata sulla regolamentazione delle acque pubbliche, con conseguente diretta incidenza del provvedimento de quo sul regolare regime delle stesse, il che implica la giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche, atteso il carattere inderogabile della tutela all’uopo apprestata dall’ordinamento.
Tale conclusione resta valida anche se il canale cui fa riferimento l’impugnato diniego, non risulta iscritto nell’elenco delle acque pubbliche. Infatti l’art. 1, comma 1, della legge n. 36/1994 (vigente al momento dell’adozione dell’atto impugnato), secondo cui tutte le acque superficiali e sotterranee sono pubbliche e rappresentano una risorsa utilizzata in base a criteri di solidarietà, sposta la pubblicità delle acque sul regime di utilizzo piuttosto che sul regime di proprietà, restando fermo il requisito della concreta utilizzabilità per uso di pubblico interesse.
Pertanto, anche a prescindere dall’iscrizione nell’elenco delle acque pubbliche, la controversia non rientra nell’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo.
A tale riguardo, va invero, ribadito il principio affermato in giurisprudenza e condiviso dalla Sezione, secondo cui appartiene alla giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche, prevista dall'art. 143 del r.d. 11.12.1933, n. 1775, la controversia relativa ai provvedimenti assunti dall'autorità comunale in ragione dell'edificazione di opere in violazione della fascia di rispetto di dieci metri dal piede dell'argine, ai sensi dell'art. 96, lett. f), del r.d. 25.07.1904, n. 523; detto provvedimento, infatti, ancorché emanato da un'autorità diversa da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, incide direttamente sul regolare regime delle acque pubbliche, la cui tutela ha carattere inderogabile in quanto informata alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali e il libero deflusso delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici.

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Oggetto del ricorso in esame è il provvedimento con il quale l’amministrazione comunale di Nembro è intervenuta a sanzionare, mediante l’ordine di rimozione, una serie di opere consistenti nella realizzazione di recinzioni collocate lungo il tratto della valletta demaniale denominata Rio Lujo.
Dette opere risultano essere state realizzate in difformità rispetto a quanto prescritto dal Genio Civile di Bergamo in occasione del rilascio dell’autorizzazione, parzialmente in sanatoria, per quanto riguarda le recinzioni correnti lungo il corso della valletta in corrispondenza con i mappali di proprietà dei ricorrenti, non rispettando le distanze imposte dalla circolare adottata dal Servizio del Genio Civile in applicazione del disposto di cui all’art. 96 del R.D. 523/1904, insistendo su tale tratto della valletta così da costituire un pericolo per il normale deflusso delle acque, oltre a intercludere e occupare aree demaniali.
L’ordine di rimozione impartito dal Comune con i provvedimenti impugnati è conseguenza della espressa segnalazione effettuata dal Servizio di Vigilanza della Comunità Montana Valle Seriana che aveva rilevato la presenza di recinzioni ostruenti la valletta, nonché della comunicazione effettuata il 17.08.2000 dalla Direzione Generale del Genio Civile di Bergamo.
Ciò premesso, occorre considerare che, ai sensi dell’art. 143 del R.D. n. 1775/1933, appartengono alla cognizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche i ricorsi avverso i provvedimenti presi dall’amministrazione in materia di acque pubbliche.
Orbene, laddove venga rilevata la mancata osservanza, in caso di costruzioni o, come nella specie, di recinzioni, fisse o amovibili, delle distanze prescritte rispetto al canale o all’argine di un torrente o fiume, si prospetta una situazione incidente in maniera diretta e immediata sulla regolamentazione delle acque pubbliche, con conseguente diretta incidenza del provvedimento de quo sul regolare regime delle stesse, il che implica la giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche, atteso il carattere inderogabile della tutela all’uopo apprestata dall’ordinamento (Cass., S.U., 12/05/2009, n. 10845; TAR Toscana, III, 06/04/2010, n. 938; TAR Campania, Napoli, VIII, 07/12/2009, n. 8602).
Tale conclusione resta valida anche se il canale cui fa riferimento l’impugnato diniego, non risulta iscritto nell’elenco delle acque pubbliche. Infatti l’art. 1, comma 1, della legge n. 36/1994 (vigente al momento dell’adozione dell’atto impugnato), secondo cui tutte le acque superficiali e sotterranee sono pubbliche e rappresentano una risorsa utilizzata in base a criteri di solidarietà, sposta la pubblicità delle acque sul regime di utilizzo piuttosto che sul regime di proprietà, restando fermo il requisito della concreta utilizzabilità per uso di pubblico interesse (Cass., I, 11/01/2001, n.315; Corte Costituzionale, 19/07/1996, n. 259).
Pertanto, anche a prescindere dall’iscrizione nell’elenco delle acque pubbliche, la controversia non rientra nell’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo.
A tale riguardo, va invero, ribadito il principio affermato in giurisprudenza e condiviso dalla Sezione (cfr. Tar Piemonte, I, n. 427/2013), secondo cui appartiene alla giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche, prevista dall'art. 143 del r.d. 11.12.1933, n. 1775, la controversia relativa ai provvedimenti assunti dall'autorità comunale in ragione dell'edificazione di opere in violazione della fascia di rispetto di dieci metri dal piede dell'argine, ai sensi dell'art. 96, lett. f), del r.d. 25.07.1904, n. 523; detto provvedimento, infatti, ancorché emanato da un'autorità diversa da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, incide direttamente sul regolare regime delle acque pubbliche, la cui tutela ha carattere inderogabile in quanto informata alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali e il libero deflusso delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici (Cass. civ. Sez. Unite, 12.05.2009 n. 10845; Cons. Giustizia Amministrativa Sicilia 26.05.2010, n. 740; Cons. Stato, sez. IV, 22.06.2011, n. 3781; TAR Lazio Roma, sez. II-quater 24.04.2012, n. 3740).
Risultando indubbio il contenuto del provvedimento censurato, che non contesta alcun abuso di natura edilizia, ma rileva la difformità di quanto realizzato rispetto all’autorizzazione idraulica, il mancato rispetto delle distanze ed è stato determinato proprio da una segnalazione dell’Ufficio del Genio Civile che aveva rilevato la presenza di opere suscettibili di creare impedimenti al deflusso della acque lungo la valletta, alla stregua di tali principi il ricorso in esame, va dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, dovendo affermarsi la competenza del Tribunale superiore delle acque pubbliche, dinanzi al quale il processo potrà essere riassunto nei termini di rito (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 18.12.2017 n. 1461 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo il consolidato orientamento giurisdizionale, già fatto proprio in precedenza anche da questo Tribunale, appartiene alla giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque pubbliche, nell’ambito della previsione normativa di cui all'art. 143 r.d. 11.12.1933, n. 1775, la controversia riferita “al diniego di rilascio di concessione in sanatoria, opposto dall'autorità comunale in ragione dell'edificazione dell'immobile da condonare in violazione della fascia di rispetto di dieci metri dal piede dell'argine, ai sensi dell'art. 96, lett. f), del r.d. 25.07.1904, n. 523; detto provvedimento, infatti, ancorché emanato da un'autorità diversa da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, incide direttamente sul regolare regime delle acque pubbliche, la cui tutela ha carattere inderogabile in quanto informata alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali e il libero deflusso delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici”.
Il tenore dell’art. 143 del r.d. 11.12.1933 n. 1775 è peraltro nel senso di non escludere che la giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque pubbliche possa essere estesa anche ai provvedimenti demolitori, suscettibili di incidere anch’essi su manufatti situati in prossimità dei corsi d'acqua di natura pubblica e realizzati nella fascia di rispetto dell'argine e, ciò, come peraltro confermato da precedenti arresti giurisprudenziali.
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Il Collegio deve preliminarmente esaminare l’eccezione di difetto di giurisdizione, stante la preminenza dell’accertamento della potestas decidendi rispetto alla decisione di merito e con preminenza anche rispetto alle altre eccezioni avanzate in giudizio.
L’eccezione di difetto di giurisdizione è fondata.
Secondo il consolidato orientamento giurisdizionale, già fatto proprio in precedenza anche da questo Tribunale, appartiene alla giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque pubbliche, nell’ambito della previsione normativa di cui all'art. 143 r.d. 11.12.1933, n. 1775, la controversia riferita “al diniego di rilascio di concessione in sanatoria, opposto dall'autorità comunale in ragione dell'edificazione dell'immobile da condonare in violazione della fascia di rispetto di dieci metri dal piede dell'argine, ai sensi dell'art. 96, lett. f), del r.d. 25.07.1904, n. 523; detto provvedimento, infatti, ancorché emanato da un'autorità diversa da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, incide direttamente sul regolare regime delle acque pubbliche, la cui tutela ha carattere inderogabile in quanto informata alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali e il libero deflusso delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici (TAR Firenze, sez. III, 20/12/2016 n. 1824; idem, 26/09/2014, n. 1497; Cass. civ., SS.UU., 12.05.2009)”.
Il tenore dell’art. 143 del r.d. 11.12.1933 n. 1775 è peraltro nel senso di non escludere che la giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque pubbliche possa essere estesa anche ai provvedimenti demolitori, suscettibili di incidere anch’essi su manufatti situati in prossimità dei corsi d'acqua di natura pubblica e realizzati nella fascia di rispetto dell'argine e, ciò, come peraltro confermato da precedenti arresti giurisprudenziali (TAR Emilia Romagna-Bologna Sez. I, 16/07/2012, n. 495; TAR Piemonte Sez. I, 19/10/2000, n. 1024 e Cass. civ., SS.UU. Ord., 14/06/2006, n. 13692.
Il ricorso deve quindi essere dichiarato inammissibile, per difetto di giurisdizione, con compensazione delle spese di giudizio (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 11.12.2017 n. 1529 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La questione in esame rientra nella giurisdizione del Tribunale Superiore delle acque pubbliche ove si consideri che è stato impugnato per vizi tipici di legittimità un provvedimento adottato dall’amministrazione a tutela delle acque pubbliche, ed in particolare al fine di garantire l’intangibilità della fascia di rispetto del fiume normativamente individuata (cfr. art. 143, lett. a).
Ed infatti, qualora il provvedimento dell’amministrazione sia motivato, come nel caso di specie, in base alla dislocazione dell’immobile oggetto di sanatoria in corrispondenza dell’argine di un corso d’acqua pubblico, rileva una situazione incidente in maniera diretta e immediata sulla regolamentazione delle acque pubbliche, con conseguente diretta interferenza sul regolare regime delle stesse, il che implica la giurisdizione del Tribunale Superiore delle acque pubbliche, atteso il carattere inderogabile della tutela all’uopo apprestata dall’ordinamento.
La giurisdizione del menzionato Tribunale superiore, sancita da tale norma, ha per oggetto, difatti, i ricorsi -quale, appunto, quello in epigrafe- avverso i provvedimenti amministrativi che, pur se promananti da autorità diverse da quelle preposte al settore, come nella specie, sono caratterizzati dall'incidenza immediata e diretta sulla materia delle acque pubbliche interferendo con corsi d’acqua pubblici, come nella specie.
Ed invero, più in generale, secondo la giurisprudenza della Cassazione e del Consiglio di Stato: “L’art. 143 del r.d. 11.12.1933, n. 1775, in tema di giurisdizione del TSAP, si attaglia a tutti i provvedimenti amministrativi che, pur costituendo esercizio di un potere non prettamente attinente alla materia, riguardino comunque l’utilizzazione del demanio idrico, incidendo in maniera diretta ed immediata sul regime delle acque pubbliche, restando escluse solo le controversie in cui tale incidenza si manifesti in via del tutto marginale o riflessa”.
La giurisprudenza amministrativa, dal canto suo, ritiene sussistente la giurisdizione amministrativa solo per le controversie che incidono via “indiretta” e “mediata” sul regime delle acque pubbliche.
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2. Va dichiarata l’inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione in presenza di controversia devoluta, ai sensi dell’art. 143 del R.D. n. 1775/1933, alla cognizione del Tribunale Superiore delle acque pubbliche.
Nel caso in esame si controverte in ordine alla legittimità del provvedimento prot. n. 36723 del 07.07.2016 con cui il Comune di Montesilvano ha respinto l’istanza inoltrata dalla ricorrente per la demolizione e ricostruzione di un fabbricato commerciale situato in via Maresca n. 33 recependo il parere negativo vincolante del Genio Civile adottato con atto prot. 113362/RA del 28.04.2015 con la seguente motivazione: “l’area adiacente al fabbricato da ristrutturare, indicata sia in pianta che nel prospetto su via Maresca con la dicitura “terrapieno”, nella realtà dei fatti, è un argine del Fiume Saline. Il fabbricato oggetto di intervento interessa detto argine destro del corso d’acqua citato. Lo stesso fabbricato ricade all’interno della perimetrazione del psda”.
Per quanto rileva in questa sede, il r.d. n. 1775 del 1933, recante Testo unico delle disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici, nel delineare all’art. 140 la competenza giurisdizionale del Tribunale delle Acque Pubbliche, stabilisce altresì all’art. 143 che: “Appartengono alla cognizione diretta del Tribunale Superiore delle acque pubbliche:
   a) i ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere e per violazione di legge avverso i provvedimenti presi dall'amministrazione in materia di acque pubbliche;
   b) i ricorsi, anche per il merito, contro i provvedimenti dell'autorità amministrativa adottati ai sensi degli artt. 217 e 221 della presente legge; e contro i provvedimenti adottati dall'autorità amministrativa in materia di regime delle acque pubbliche ai sensi dell'art. 2 del testo unico delle leggi sulle opere idrauliche approvato con R.D. 25.07.1904, n. 523, modificato con l'art. 22 della L. 13.07.1911, n. 774, del R.D. 19.11.1921, n. 1688, e degli artt. 378 e 379 della L. 20.03.1865, n. 2248, all. F;
   c) i ricorsi la cui cognizione è attribuita al Tribunale superiore delle acque dalla presente legge e dagli artt. 23, 24, 26 e 28 del testo unico delle leggi sulla pesca, approvato con R.D. 08.10.1931, n. 1604 .(…)
”.
Inoltre l’art. 217 del T.U. 1775/1933 stabilisce che le opere alle sponde dei pubblici corsi di acqua che possono alterare o modificare le condizioni delle derivazioni o della restituzione delle acque derivate non si possono eseguire senza speciale autorizzazione del competente ufficio del Genio civile e sotto l'osservanza delle condizioni dal medesimo imposte.
Tanto premesso in diritto, si può affermare che la questione in esame rientri nella giurisdizione del Tribunale Superiore delle acque pubbliche ove si consideri che è stato impugnato per vizi tipici di legittimità un provvedimento adottato dall’amministrazione a tutela delle acque pubbliche, ed in particolare al fine di garantire l’intangibilità della fascia di rispetto del fiume normativamente individuata (cfr. art. 143, lett. a).
Ed infatti, qualora il provvedimento dell’amministrazione sia motivato, come nel caso di specie, in base alla dislocazione dell’immobile oggetto di sanatoria in corrispondenza dell’argine di un corso d’acqua pubblico, rileva una situazione incidente in maniera diretta e immediata sulla regolamentazione delle acque pubbliche, con conseguente diretta interferenza sul regolare regime delle stesse, il che implica la giurisdizione del Tribunale Superiore delle acque pubbliche, atteso il carattere inderogabile della tutela all’uopo apprestata dall’ordinamento.
La giurisdizione del menzionato Tribunale superiore, sancita da tale norma, ha per oggetto, difatti, i ricorsi -quale, appunto, quello in epigrafe- avverso i provvedimenti amministrativi che, pur se promananti da autorità diverse da quelle preposte al settore, come nella specie, sono caratterizzati dall'incidenza immediata e diretta sulla materia delle acque pubbliche interferendo con corsi d’acqua pubblici, come nella specie.
Ed invero, più in generale, secondo la giurisprudenza della Cassazione e del Consiglio di Stato: “L’art. 143 del r.d. 11.12.1933, n. 1775, in tema di giurisdizione del TSAP, si attaglia a tutti i provvedimenti amministrativi che, pur costituendo esercizio di un potere non prettamente attinente alla materia, riguardino comunque l’utilizzazione del demanio idrico, incidendo in maniera diretta ed immediata sul regime delle acque pubbliche, restando escluse solo le controversie in cui tale incidenza si manifesti in via del tutto marginale o riflessa”; la giurisprudenza amministrativa, dal canto suo, ritiene sussistente la giurisdizione amministrativa solo per le controversie che incidono via “indiretta” e “mediata” sul regime delle acque pubbliche (cfr., Cass., S.S.U.U., 18.12.1998, n. 12076; 15.07.1999, n. 403; 27.04.2005, n. 8696; 27.10.2006, n. 23070; 24.04.2007, n. 9844; 17.04.2009, n. 9149; 12.05.2009, n. 10845; Cons. Stato, sez. VI, 17.12.2003, n. 8246; sez. V, 14.05.2004, n. 3139; sez. IV, 14.04.2006, n. 2123; sez. VI, 15.06.2006, n. 3533; 12.10.2006, n. 6070; sez. IV, 12.05.2008, n. 2192; sez. V, 12.06.2009, n. 3678; Trib. sup. acque, 18.03.2003, n. 32; 21.07.2004, n. 87; 06.10.2004, n. 100; 03.05.2005, n. 63; 06.10.2008, n. 159; 13.03.2009, n. 39; 13.07.2007, n. 123; Tar Veneto Venezia sez. II 26.01.2015, n. 63; 09.10.2014, n. 1289 e 09.07.2014, n. 993; Tar Toscana, sez. III, 27.03.2013, n. 510; Tar Campania, Napoli, sez. VIII, 07.12.2009, n. 8602; Tar Lazio, Roma, sez. III, 22.07.2004, n. 7232; Tar Lombardia, Milano, sez. II, 12.05.2005, n. 94; sez. IV, 29.10.2007, n. 6189; Tar Brescia, sez. I, 28.05.2007, n. 462; Milano).
E’ evidente che, nel caso trattato, l’amministrazione resistente abbia inteso adottare un provvedimento direttamente funzionale alla tutela del corso d’acqua pubblico, sotto lo specifico aspetto della garanzia riservata a quel settore di territorio protetto costituito dall’argine di un corso d’acqua pubblico. Né rilevano le censure sul punto mosse dalla ricorrente tenuto conto che, anche in caso di contestazione, l’art. 2 del R.D. 523/1904 attribuisce all’amministrazione il potere di statuire e provvedere “sulle opere di qualunque natura, (…), che possono aver relazione col buon regime delle acque pubbliche”.
Va quindi declinata la giurisdizione del Tar adito fermo restando che, ai sensi dell’art. 11, co. 1 e 2, del c.p.a., restano salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda qui proposta se il processo sarà riassunto dinnanzi al giudice munito di giurisdizione entro il termine di tre mesi dal passaggio in giudicato della presente decisione (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 23.10.2017 n. 290 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il Tribunale Superiore delle acque, oltre a costituire giudice di secondo grado rispetto alle sentenze emesse dai Tribunali regionali delle acque, è investito, com’è noto, di una giurisdizione di unico grado per i ricorsi con cui si deduce la illegittimità di tutti gli atti amministrativi concernenti la utilizzazione delle acque; trattasi, di una competenza generale di legittimità (art. 143 lett. a) r.d. 11.12.1933, n. 1775), simmetrica a quella del Consiglio di Stato, in cui rientrano i ricorsi contro i provvedimenti lesivi di interessi legittimi che incidano sul regime delle acque pubbliche o che abbiano a riferimento ad un’opera necessaria per l’utilizzazione delle acque.
Sono riservati alla cognizione del Tribunale Superiore, peraltro, non già tutti i provvedimenti che abbiano un qualche remoto collegamento con l’acqua pubblica, ma solo quelli per i quali l’acqua pubblica costituisca l’oggetto diretto ed immediato; onde non rientrano in tale giurisdizione i ricorsi contro gli atti di aggiudicazione di appalti di lavori di opere idrauliche, ovvero i provvedimenti di determinazione delle tariffe per la cessione delle acque.
Sussiste, pertanto, la giurisdizione di legittimità del Tribunale superiore delle acque pubbliche, a norma dell’articolo 143, comma 1, lett. a), r.d. n. 1775/1933, oltre che con riguardo alle questioni investenti gli interessi pubblici connessi al regime delle acque strettamente inteso (demanialità delle acque, contenuto o limiti di una concessione di utenza, nonché questioni di carattere eminentemente tecnico relative alla distribuzione ed all’uso delle acque pubbliche ed ai diritti di derivazione o utilizzazione dell’utenza nei confronti della PA), ogni volta che siano impugnati provvedimenti amministrativi caratterizzati da incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche, nel senso che concorrano in concreto a disciplinare la gestione, l’esercizio delle opere idrauliche, i rapporti con i concessionari, oppure a determinare i modi di acquisto dei beni necessari all’esercizio e alla realizzazione delle opere stesse, o a stabilire o modificare la localizzazione di esse o ad influire sulla loro realizzazione mediante sospensione o revoca dei relativi provvedimenti.
Anche la giurisprudenza amministrativa ha affermato la sussistenza della giurisdizione di legittimità del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche sui ricorsi avverso i provvedimenti in materia di acque pubbliche, allorquando i provvedimenti impugnati incidono direttamente ed immediatamente sulla materia delle acque, concorrendo in concreto a disciplinare la gestione, l’esercizio delle opere idrauliche, i rapporti con i concessionari ovvero a determinare i modi di acquisto dei beni necessari all’esercizio e/o alla realizzazione delle opere stesse o a stabilirne e/o a modificare la localizzazione di esse o influire sulla loro realizzazione mediante sospensione o revoca dei relativi provvedimento.
Tale giurisdizione va estesa anche ai provvedimenti che, pur se promananti da autorità diverse da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, siano caratterizzati dall'incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche e concorrano, in concreto, a disciplinare la realizzazione, la localizzazione, la gestione e l'esercizio delle opere idrauliche, ivi compresi pure i provvedimenti espropriativi o di occupazione d'urgenza delle aree occorrenti per la realizzazione dell'opera idraulica, oltre agli atti comunque influenti sulla sua localizzazione sul suo spostamento.
Tale principio rileva indipendentemente dalla ragione che abbia determinato l'adozione di detti provvedimenti, quindi anche se non connessi al regime delle acque e quindi anche se resi necessari dalla tutela dell'ambiente o di un bene artistico o da valutazioni tecniche in funzione della salvaguardia dell'incolumità pubblica o ancora da mere ragioni di opportunità amministrativa.
Non rientrano, per contro, in tale speciale competenza giurisdizionale, le controversie che hanno per oggetto atti solo strumentalmente inseriti in procedimenti finalizzati ad incidere sul regime delle acque.
Pertanto può affermarsi che, mentre esulano dalla giurisdizione del Tribunale delle Acque (e rientrano in quella del giudice amministrativo) i provvedimenti incidenti sulla materia e sul regime delle acque pubbliche in via meramente strumentale ed indiretta, vi rientrino i provvedimenti di approvazione del progetto definitivo per la realizzazione di una centrale idroelettrica, previa V.I.A., gli atti concernenti la costituzione di una servitù coattiva, mediante procedura espropriativa, per il passaggio della condotta necessaria per la realizzazione dell'opera, nonché il relativo permesso di costruzione, atti tutti incidenti in maniera diretta ed immediata sul regime delle acque pubbliche.
In particolare è stata ritenuta la sussistenza della giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche in caso di impugnativa di provvedimenti influenti sulla localizzazione dell'opera idraulica o sul suo spostamento, nonché sulla definizione delle sue caratteristiche e sulla sua realizzazione, nonché sui provvedimenti di occupazione ed espropriazione di opere necessarie per realizzare la condotta idraulica relativa alla costruzione di una centrale idroelettrica contestata dal titolare del fondo ove era previsto il transito interrato di una nuova condotta di adduzione finalizzata alla canalizzazione delle acque per il successivo sfruttamento idroelettrico.
Sussiste pertanto la giurisdizione di legittimità di detto Tribunale, a norma dell'art. 143, comma 1, lett. a), r.d. n. 1775/1933, oltre che con riguardo alle questioni investenti gli interessi pubblici connessi al regime delle acque strettamente inteso (demanialità delle acque, contenuto o limiti di una concessione di utenza, nonché questioni di carattere eminentemente tecnico relative alla distribuzione ed all'uso delle acque pubbliche ed ai diritti di derivazione o utilizzazione dell'utenza nei confronti della P.A.), ogni volta che siano impugnati provvedimenti amministrativi caratterizzati da incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche, nel senso che concorrano in concreto a disciplinare la gestione, l'esercizio delle opere idrauliche, i rapporti con i concessionari, oppure a determinare i modi di acquisto dei beni necessari all'esercizio e alla realizzazione delle opere stesse, o a stabilire o modificare la localizzazione di esse o ad influire sulla loro realizzazione mediante sospensione o revoca dei relativi provvedimenti.
Anche la giurisprudenza amministrativa ha affermato la sussistenza della giurisdizione di legittimità del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche sui ricorsi avverso i provvedimenti in materia di acque pubbliche, "allorquando i provvedimenti impugnati incidono direttamente ed immediatamente sulla materia delle acque, concorrendo in concreto a disciplinare la gestione, l'esercizio delle opere idrauliche, i rapporti con i concessionari ovvero a determinare i modi di acquisto dei beni necessari all'esercizio e/o alla realizzazione delle opere stesse o a stabilirne e/o a modificare la localizzazione di esse o influire sulla loro realizzazione mediante sospensione o revoca dei relativi provvedimento. Non rientrano, per contro, in tale speciale competenza giurisdizionale le controversie che hanno per oggetto atti solo strumentalmente inseriti in procedimenti finalizzati ad incidere sul regime delle acque".

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E' legittimo il diniego di sanatoria per un fabbricato realizzato all'interno della c.d. fascia di servitù idraulica, atteso che il divieto di costruzione ad una certa distanza dagli argini dei corsi d'acqua demaniali, imposto dall'art. 96, lett. f), r.d. 25.07.1904 n. 523, ha carattere assoluto ed inderogabile.
Pertanto, nell'ipotesi di costruzione abusiva realizzata in contrasto con tale divieto trova applicazione l'art. 33 l. n. 47/1985 sul condono edilizio, il quale contempla i vincoli di inedificabilità, includendo in tale ambito i casi in cui le norme vietino in modo assoluto di edificare in determinate aree.
Il divieto di costruzione di opere sugli argini dei corsi d'acqua, previsto dalla lettera f) del predetto art. 96, è informato alla ragione pubblicistica di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici e ha carattere legale e inderogabile: ne segue che le opere costruite in violazione di tale divieto ricadono nella previsione dell'art. 33 l. n. 47/1985 e non sono pertanto suscettibili di sanatoria.
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Va preliminarmente affrontata la questione inerente alla giurisdizione, sollevata dall’Ufficio legislativo e legale, che sostiene che la controversia in esame rientri nella giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, per cui il ricorso in esame sarebbe inammissibile.
Ritengono queste Sezioni Riunite che tale questione non sia fondata.
Il Tribunale Superiore delle acque, oltre a costituire giudice di secondo grado rispetto alle sentenze emesse dai Tribunali regionali delle acque, è investito, com’è noto, di una giurisdizione di unico grado per i ricorsi con cui si deduce la illegittimità di tutti gli atti amministrativi concernenti la utilizzazione delle acque; trattasi, di una competenza generale di legittimità (art. 143 lett. a) r.d. 11.12.1933, n. 1775), simmetrica a quella del Consiglio di Stato, in cui rientrano i ricorsi contro i provvedimenti lesivi di interessi legittimi che incidano sul regime delle acque pubbliche o che abbiano a riferimento ad un’opera necessaria per l’utilizzazione delle acque.
Sono riservati alla cognizione del Tribunale Superiore, peraltro, non già tutti i provvedimenti che abbiano un qualche remoto collegamento con l’acqua pubblica, ma solo quelli per i quali l’acqua pubblica costituisca l’oggetto diretto ed immediato; onde non rientrano in tale giurisdizione i ricorsi contro gli atti di aggiudicazione di appalti di lavori di opere idrauliche (Cass. civ., 17.03.1989, n. 1358), ovvero i provvedimenti di determinazione delle tariffe per la cessione delle acque (C.G.A., sez. giur., 25.10.1988, n. 166).
Sussiste, pertanto, la giurisdizione di legittimità del Tribunale superiore delle acque pubbliche, a norma dell’articolo 143, comma 1, lett. a), r.d. n. 1775/1933, oltre che con riguardo alle questioni investenti gli interessi pubblici connessi al regime delle acque strettamente inteso (demanialità delle acque, contenuto o limiti di una concessione di utenza, nonché questioni di carattere eminentemente tecnico relative alla distribuzione ed all’uso delle acque pubbliche ed ai diritti di derivazione o utilizzazione dell’utenza nei confronti della PA), ogni volta che siano impugnati provvedimenti amministrativi caratterizzati da incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche, nel senso che concorrano in concreto a disciplinare la gestione, l’esercizio delle opere idrauliche, i rapporti con i concessionari, oppure a determinare i modi di acquisto dei beni necessari all’esercizio e alla realizzazione delle opere stesse, o a stabilire o modificare la localizzazione di esse o ad influire sulla loro realizzazione mediante sospensione o revoca dei relativi provvedimenti.
Anche la giurisprudenza amministrativa ha affermato la sussistenza della giurisdizione di legittimità del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche sui ricorsi avverso i provvedimenti in materia di acque pubbliche, allorquando i provvedimenti impugnati incidono direttamente ed immediatamente sulla materia delle acque, concorrendo in concreto a disciplinare la gestione, l’esercizio delle opere idrauliche, i rapporti con i concessionari ovvero a determinare i modi di acquisto dei beni necessari all’esercizio e/o alla realizzazione delle opere stesse o a stabilirne e/o a modificare la localizzazione di esse o influire sulla loro realizzazione mediante sospensione o revoca dei relativi provvedimento.
Tale giurisdizione va estesa anche ai provvedimenti che, pur se promananti da autorità diverse da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, siano caratterizzati dall'incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche e concorrano, in concreto, a disciplinare la realizzazione, la localizzazione, la gestione e l'esercizio delle opere idrauliche (Cass., sez. un., 08.04.2009, n. 8509), ivi compresi pure i provvedimenti espropriativi o di occupazione d'urgenza delle aree occorrenti per la realizzazione dell'opera idraulica, oltre agli atti comunque influenti sulla sua localizzazione sul suo spostamento.
Tale principio rileva indipendentemente dalla ragione che abbia determinato l'adozione di detti provvedimenti, quindi anche se non connessi al regime delle acque e quindi anche se resi necessari dalla tutela dell'ambiente o di un bene artistico o da valutazioni tecniche in funzione della salvaguardia dell'incolumità pubblica o ancora da mere ragioni di opportunità amministrativa (Cass., sez. un., 12.05.2009 n. 10846; Id., 07.11.1997 n. 10934; Id., 27.04.2005 n. 8686; Id., 26.07.2002 n. 11099).
Non rientrano, per contro, in tale speciale competenza giurisdizionale, le controversie che hanno per oggetto atti solo strumentalmente inseriti in procedimenti finalizzati ad incidere sul regime delle acque (Cons. St., sez. V, 07.07.2014, n. 3436).
Pertanto può affermarsi che, mentre esulano dalla giurisdizione del Tribunale delle Acque (e rientrano in quella del giudice amministrativo) i provvedimenti incidenti sulla materia e sul regime delle acque pubbliche in via meramente strumentale ed indiretta, vi rientrino i provvedimenti di approvazione del progetto definitivo per la realizzazione di una centrale idroelettrica, previa V.I.A., gli atti concernenti la costituzione di una servitù coattiva, mediante procedura espropriativa, per il passaggio della condotta necessaria per la realizzazione dell'opera, nonché il relativo permesso di costruzione, atti tutti incidenti in maniera diretta ed immediata sul regime delle acque pubbliche.
In particolare è stata ritenuta la sussistenza della giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche in caso di impugnativa di provvedimenti influenti sulla localizzazione dell'opera idraulica o sul suo spostamento, nonché sulla definizione delle sue caratteristiche e sulla sua realizzazione, nonché sui provvedimenti di occupazione ed espropriazione di opere necessarie per realizzare la condotta idraulica relativa alla costruzione di una centrale idroelettrica contestata dal titolare del fondo ove era previsto il transito interrato di una nuova condotta di adduzione finalizzata alla canalizzazione delle acque per il successivo sfruttamento idroelettrico (Cass., sez. un., 12.05.2009, n. 10846).
Sussiste pertanto la giurisdizione di legittimità di detto Tribunale, a norma dell'art. 143, comma 1, lett. a), r.d. n. 1775/1933, oltre che con riguardo alle questioni investenti gli interessi pubblici connessi al regime delle acque strettamente inteso (demanialità delle acque, contenuto o limiti di una concessione di utenza, nonché questioni di carattere eminentemente tecnico relative alla distribuzione ed all'uso delle acque pubbliche ed ai diritti di derivazione o utilizzazione dell'utenza nei confronti della P.A.), ogni volta che siano impugnati provvedimenti amministrativi caratterizzati da incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche, nel senso che concorrano in concreto a disciplinare la gestione, l'esercizio delle opere idrauliche, i rapporti con i concessionari, oppure a determinare i modi di acquisto dei beni necessari all'esercizio e alla realizzazione delle opere stesse, o a stabilire o modificare la localizzazione di esse o ad influire sulla loro realizzazione mediante sospensione o revoca dei relativi provvedimenti (Cass., sez. un., 19.04.2013, n. 9534, 20.06.2012, n. 10148, 13.05.2008, n. 11848 e 21.06.2005, n. 13293).
Anche la giurisprudenza amministrativa ha affermato la sussistenza della giurisdizione di legittimità del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche sui ricorsi avverso i provvedimenti in materia di acque pubbliche, "allorquando i provvedimenti impugnati incidono direttamente ed immediatamente sulla materia delle acque, concorrendo in concreto a disciplinare la gestione, l'esercizio delle opere idrauliche, i rapporti con i concessionari ovvero a determinare i modi di acquisto dei beni necessari all'esercizio e/o alla realizzazione delle opere stesse o a stabilirne e/o a modificare la localizzazione di esse o influire sulla loro realizzazione mediante sospensione o revoca dei relativi provvedimento. Non rientrano, per contro, in tale speciale competenza giurisdizionale le controversie che hanno per oggetto atti solo strumentalmente inseriti in procedimenti finalizzati ad incidere sul regime delle acque" (Cons. St., sez. V, 01.10.2010, n. 7276; nello stesso senso: sez. IV, 06.07.2009, n. 4306; sez. V, 07.05.2008, n. 2091; sez. V, 18.09.2006, n. 5442).
Nel caso di specie, trattasi di provvedimenti di diniego di sanatoria e di ordine di demolizione che hanno ad oggetto non già opere idrauliche, ma bensì opere di ristrutturazione di un fabbricato, costruite in difformità dal titolo edilizio e, pertanto, la giurisdizione appartiene al giudice amministrativo.
La costruzione abusiva, poi, secondo quanto affermato dal Comune, è stata realizzata a ridosso dell’argine del torrente ed in area di in edificabilità ex art. 41-bis delle NTA.
Ora, ai sensi dell’art. 32, c. 27, del d.l. n. 269/2003, conv. in l. n. 326/2003 “Fermo restando quanto previsto dagli articoli 32 e 33 della legge 28.02.1985, n. 47, le opere abusive non sono comunque suscettibili di sanatoria, qualora: … d) siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela di interessi idrogeologici e delle falde acquifere …”.
A tale riguardo deve ritenersi legittimo il diniego di sanatoria per un fabbricato realizzato, come nella specie, all'interno della c.d. fascia di servitù idraulica, atteso che il divieto di costruzione ad una certa distanza dagli argini dei corsi d'acqua demaniali, imposto dall'art. 96, lett. f), r.d. 25.07.1904 n. 523, ha carattere assoluto ed inderogabile; pertanto, nell'ipotesi di costruzione abusiva realizzata in contrasto con tale divieto trova applicazione l'art. 33 l. n. 47/1985 sul condono edilizio, il quale contempla i vincoli di inedificabilità, includendo in tale ambito i casi in cui le norme vietino in modo assoluto di edificare in determinate aree.
Il divieto di costruzione di opere sugli argini dei corsi d'acqua, previsto dalla lettera f) del predetto art. 96, è informato alla ragione pubblicistica di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici e ha carattere legale e inderogabile: ne segue che le opere costruite in violazione di tale divieto ricadono nella previsione dell'art. 33 l. n. 47/1985 e non sono pertanto suscettibili di sanatoria (Cons. St., sez. V, 23.06.2014, n. 3147) (CGARS, parere 05.07.2017 n. 641 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANon sussiste giurisdizione del Tribunale delle acque pubbliche, inteso quale organo specializzato della giurisdizione ordinaria, nel caso di ricorrente che vanta una posizione di interesse legittimo teso a contestare l’esercizio del potere pubblicistico di repressione dell’attività edilizia svolta in prossimità, o in maniera potenzialmente pregiudizievole, rispetto alle acque pubbliche; mentre sussiste la giurisdizione del Tribunale Superiore delle acque pubbliche nel caso di impugnazione per vizi tipici di legittimità del provvedimento adottato dall’amministrazione a tutela delle acque pubbliche, ed in particolare al fine di garantire l’intangibilità della fascia di rispetto del fiume normativamente individuata.
La giurisdizione di legittimità in unico grado, attribuita al Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche dall’art. 143, comma 1, lett. a), r.d. n. 1775 del 1933, con riferimento ai ricorsi per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge avverso i provvedimenti definitivi presi dall’amministrazione in materia di acque pubbliche, sussiste solo quando sia impugnato uno di questi provvedimenti amministrativi e allorché gli stessi siano caratterizzati da incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche, nel senso che concorrano in concreto a disciplinare la gestione, l’esercizio delle opere idrauliche, i rapporti con i concessionari, oppure a determinare i modi di acquisto dei beni necessari all’esercizio e alla realizzazione delle opere stesse, o a stabilire o modificare la localizzazione di esse o a influire sulla loro realizzazione mediante sospensione o revoca dei relativi provvedimenti; mentre restano fuori da tale competenza giurisdizionale tutte le controversie che abbiano a oggetto atti solo strumentalmente inseriti in procedimenti finalizzati a incidere sul regime delle acque pubbliche e che solo in via di riflesso, o indirettamente, abbiano una siffatta incidenza (nel caso esaminato, avente ad aggetto l’impugnativa di una diniego di permesso di costruire motivato in base all’insistenza del progetto nella fascia di rispetto di un corso d’acqua, è stata ritenuta sussistente la giurisdizione del giudice amministrativo).

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Il divieto di costruzione di opere sugli argini dei corsi d’acqua, previsto dall’art. 96, lett. f), r.d. 25.07.1904 n. 523, risponde all’esigenza di natura pubblicistica di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici e ha carattere legale e inderogabile, con la conseguenza che le opere costruite in violazione di tale divieto ricadono nella previsione dell’art. 33, l. 08.02.1985 n. 47 e non sono, pertanto, suscettibili di sanatoria.
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Ritiene il Tribunale che sia il presupposto del discorso a non convincere, vale a dire l’asserita assimilazione delle opere a demolirsi a smovimenti di terreno, anziché a opere di fabbrica (per le quali vige l’assai più restrittivo limite di dieci metri di distanza dal piede dell’argine).
Dette opere, in particolare, sono rappresentate testualmente da “pavimentazione in conglomerato cementizio”; “recinzione con muretto in conglomerato cementizio e sovrastante ringhiera in ferro”, “tre pilastrini in mattoncini antichizzati, ingresso carrabile e pedonale”, “posa in opera di cancello carrabile e pedonale”: si tratta quindi di opere che, ictu oculi, appartengono alla nozione di “opere di fabbrica”, e ciò tanto più, se si tiene presente che per la giurisprudenza: “Il divieto di eseguire le tipologie di lavori di cui all’art. 96, lett. f), del R.D. n. 523 del 1904, «a distanza dal piede degli argini e loro accessori», vale inderogabilmente, a prescindere dalla disciplina vigente nelle diverse località, dovendosi interpretare la locuzione «fabbriche», nel testo richiamato, come riferita ai manufatti edilizi, a prescindere dal loro utilizzo, dovendosi individuare la ratio legis nella volontà della norma di esaurire, unitamente all’utilizzo della locuzione « scavi », tutte le possibili modificazioni frutto dell’opera di trasformazione edilizia, essendo prevista una diversa distanza solo per le piantagioni”.
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In tema di distanze delle costruzioni dagli argini dei corsi d’acqua (laddove è stato ulteriormente statuito che: “Il divieto di costruzione di opere ad una certa distanza dagli argini dei corsi d’acqua di cui all’art. 96, lett. f), t.u. 25.07.1904 n. 523, risponde all’evidente finalità di interrompere la pericolosa tendenza a occupare gli spazi prossimi al reticolo idrico, tanto a tutela del regolare scorrimento delle acque, quanto in funzione preventiva rispetto ai rischi, per persone e cose, che potrebbero derivare dalle esondazioni. La natura degli interessi pubblici ivi tutelati comporta, pertanto, che il vincolo operi con un effetto conformativo particolarmente ampio determinando l’inedificabilità assoluta della fascia di rispetto”), è chiaro come nessun rilievo possa assumere la dedotta violazione dell’art. 7 della l. 241/1990, trattandosi, a dispetto di quanto asserito in ricorso, di un provvedimento dalla natura rigidamente vincolata, proprio per le ragioni dianzi espresse, onde un eventuale apporto partecipativo del ricorrente, in nulla avrebbe potuto mutare la determinazione amministrativa censurata.
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L’inderogabilità delle prescrizioni legislative in tema di distanze delle opere edilizie dal piede dell’argine, ex art. 96, lett. f), R.D. 523/1904, tale da comportare l’inedificabilità assoluta e l’impossibilità di sanatoria delle medesime, rende recessive le esigenze di sicurezza delle persone e di tutela della propria proprietà, pure segnalate come pressanti dal ricorrente, posto che l’interesse pubblico all’eliminazione delle suddette opere deve considerarsi in re ipsa, giusta quanto sopra osservato, fermo restando tuttavia l’obbligo, per le autorità preposte (e anzitutto per il resistente Comune, proprio in virtù del su richiamato principio di sussidiarietà), d’evitare rischi per la privata incolumità, segnalati come gravi, in ragione della vicinanza del corso d’acqua all’abitazione del ricorrente medesimo (anche provvedendo, se del caso, all’auspicata –sempre da parte ricorrente– recinzione dei “confini del muro spondale”).
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Oggetto del presente giudizio è l’impugnativa dell’ordinanza di demolizione del Comune di Monteforte Irpino, relativo alle opere indicate in epigrafe, realizzate dal ricorrente –come si ricava dal testo della medesima ordinanza– “nella fascia di rispetto del torrente Iemale”.
La prima questione da affrontare consiste, pertanto, nell’eccepito –dalla difesa dell’ente– difetto di giurisdizione di questo TAR, in favore del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, poiché si tratterebbe di materia afferente al governo delle acque pubbliche.
L’eccezione, peraltro, non può essere accolta, conformemente all’indirizzo della giurisprudenza, espresso in massime, come le seguenti: “Non sussiste giurisdizione del Tribunale delle acque pubbliche, inteso quale organo specializzato della giurisdizione ordinaria, nel caso di ricorrente che vanta una posizione di interesse legittimo teso a contestare l’esercizio del potere pubblicistico di repressione dell’attività edilizia svolta in prossimità, o in maniera potenzialmente pregiudizievole, rispetto alle acque pubbliche; mentre sussiste la giurisdizione del Tribunale Superiore delle acque pubbliche nel caso di impugnazione per vizi tipici di legittimità del provvedimento adottato dall’amministrazione a tutela delle acque pubbliche, ed in particolare al fine di garantire l’intangibilità della fascia di rispetto del fiume normativamente individuata” (TAR Sicilia–Catania, 30/12/2011, n. 3232); “La giurisdizione di legittimità in unico grado, attribuita al Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche dall’art. 143, comma 1, lett. a), r.d. n. 1775 del 1933, con riferimento ai ricorsi per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge avverso i provvedimenti definitivi presi dall’amministrazione in materia di acque pubbliche, sussiste solo quando sia impugnato uno di questi provvedimenti amministrativi e allorché gli stessi siano caratterizzati da incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche, nel senso che concorrano in concreto a disciplinare la gestione, l’esercizio delle opere idrauliche, i rapporti con i concessionari, oppure a determinare i modi di acquisto dei beni necessari all’esercizio e alla realizzazione delle opere stesse, o a stabilire o modificare la localizzazione di esse o a influire sulla loro realizzazione mediante sospensione o revoca dei relativi provvedimenti; mentre restano fuori da tale competenza giurisdizionale tutte le controversie che abbiano a oggetto atti solo strumentalmente inseriti in procedimenti finalizzati a incidere sul regime delle acque pubbliche e che solo in via di riflesso, o indirettamente, abbiano una siffatta incidenza (nel caso esaminato, avente ad aggetto l’impugnativa di una diniego di permesso di costruire motivato in base all’insistenza del progetto nella fascia di rispetto di un corso d’acqua, è stata ritenuta sussistente la giurisdizione del giudice amministrativo)” (TAR Abruzzo–Pescara, 07/01/2008, n. 4).
Ciò posto, rileva il Collegio che il ricorso non può trovare accoglimento.
Occorre, tuttavia, una premessa: poiché, nella specie, si discorre dell’attività di costruzione di fabbriche, in violazione della fascia di rispetto del torrente Iemale, la giurisprudenza ha evidenziato quanto segue: “Il divieto di costruzione di opere sugli argini dei corsi d’acqua, previsto dall’art. 96, lett. f), r.d. 25.07.1904 n. 523, risponde all’esigenza di natura pubblicistica di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici e ha carattere legale e inderogabile, con la conseguenza che le opere costruite in violazione di tale divieto ricadono nella previsione dell’art. 33, l. 08.02.1985 n. 47 e non sono pertanto suscettibili di sanatoria” (TAR Liguria, Sez. I, 21/11/2014, n. 1721; conforme a Consiglio di Stato, Sez. V, 23/06/2014, n. 3147).
Nella specie, cioè, per quanto effettivamente manchi, nel testo dell’ordinanza gravata, un esplicito riferimento a tale disciplina, viene in rilievo la violazione, da parte del ricorrente, dell’art. 96, lett. f), del R.D. 523 del 1904, secondo cui: “Sono lavori ed atti vietati in modo assoluto sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e difese i seguenti: (…) f) le piantagioni di alberi e siepi, le fabbriche, gli scavi e lo smovimento del terreno a distanza dal piede degli argini e loro accessori come sopra, minore di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località, ed in mancanza di tali discipline, a distanza minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento del terreno e di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi (…)”.
Da tale constatazione discendono due conseguenze:
   a) pertinente si presenta il richiamo, da parte della difesa dell’Amministrazione Comunale, al diniego di sanatoria delle opere de quibus, espresso in data 29.05.2006 dal responsabile del procedimento presso il S.U.E. di tale ente, perché “le opere oggetto di richiesta di sanatoria ricadono nella fascia di rispetto del vallone Iemale”;
   b) va, anzitutto, verificato che le stesse opere effettivamente ricadano in detta fascia di rispetto, come sopra individuata, posto che il ricorrente –mediante l’ausilio di c.t. di parte– ha contestato tale fondamentale presupposto del provvedimento impugnato.
Quanto a detto secondo e dirimente aspetto, rileva il Collegio come l’ing. Pa., nell’elaborato peritale, da ultimo depositato in data 22.03.2017, abbia affermato che i manufatti realizzati non sarebbero “opere di fabbrica o scavi”, bensì “smovimenti di terreno”, onde la distanza da rispettare sarebbe di quattro metri dal piede dell’argine; e ha sostenuto che “la quasi totalità delle opere edificate risultano ricadere all’esterno di tale area; vi rientra solo in piccola misura, la parte terminale del muretto alla sinistra del cancello (…)”.
Orbene, in disparte quanto da ultimo riferito, circa una piccola porzione di muretto, in violazione (anche) della distanza di quattro metri dal piede dell’argine, ritiene il Tribunale che sia il presupposto del discorso a non convincere, vale a dire l’asserita assimilazione delle opere a demolirsi a smovimenti di terreno, anziché a opere di fabbrica (per le quali vige l’assai più restrittivo limite di dieci metri di distanza dal piede dell’argine).
Dette opere, in particolare, sono rappresentate testualmente da “pavimentazione in conglomerato cementizio”; “recinzione con muretto in conglomerato cementizio e sovrastante ringhiera in ferro”, “tre pilastrini in mattoncini antichizzati, ingresso carrabile e pedonale”, “posa in opera di cancello carrabile e pedonale”: si tratta quindi di opere che, ictu oculi, appartengono alla nozione di “opere di fabbrica”, e ciò tanto più, se si tiene presente che per la giurisprudenza: “Il divieto di eseguire le tipologie di lavori di cui all’art. 96, lett. f), del R.D. n. 523 del 1904, «a distanza dal piede degli argini e loro accessori», vale inderogabilmente, a prescindere dalla disciplina vigente nelle diverse località, dovendosi interpretare la locuzione «fabbriche», nel testo richiamato, come riferita ai manufatti edilizi, a prescindere dal loro utilizzo, dovendosi individuare la ratio legis nella volontà della norma di esaurire, unitamente all’utilizzo della locuzione « scavi », tutte le possibili modificazioni frutto dell’opera di trasformazione edilizia, essendo prevista una diversa distanza solo per le piantagioni” (TAR Emilia–Romagna, Parma, 21/07/2016, n. 241).
Sicché ne risulta confermato il presupposto di fondo dell’ordinanza gravata, costituito dalla violazione della distanza legale di dieci metri dal piede dell’argine del vallone Iemale, e quindi, come sinteticamente ma correttamente denunzia l’ordinanza impugnata, dall’edificazione delle suddette opere “nella fascia di rispetto” di tale corso d’acqua.
Ciò posto, possono analizzarsi le censure di parte ricorrente: iniziando dalla prima, e tenuto presente l’evidenziato carattere inderogabile delle prescrizioni legislative, in tema di distanze delle costruzioni dagli argini dei corsi d’acqua (per la quale cfr. anche TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, 02/10/2013, n. 814: “Il divieto di costruzione di opere ad una certa distanza dagli argini dei corsi d’acqua di cui all’art. 96, lett. f), t.u. 25.07.1904 n. 523, risponde all’evidente finalità di interrompere la pericolosa tendenza a occupare gli spazi prossimi al reticolo idrico, tanto a tutela del regolare scorrimento delle acque, quanto in funzione preventiva rispetto ai rischi, per persone e cose, che potrebbero derivare dalle esondazioni. La natura degli interessi pubblici ivi tutelati comporta, pertanto, che il vincolo operi con un effetto conformativo particolarmente ampio determinando l’inedificabilità assoluta della fascia di rispetto”), è chiaro come nessun rilievo possa assumere la dedotta violazione dell’art. 7 della l. 241/1990, trattandosi, a dispetto di quanto asserito in ricorso, di un provvedimento dalla natura rigidamente vincolata, proprio per le ragioni dianzi espresse, onde un eventuale apporto partecipativo del ricorrente, in nulla avrebbe potuto mutare la determinazione amministrativa censurata (per un’applicazione, in tema di rimozione di manufatti (impianti pubblicitari), collocati nella fascia di rispetto autostradale, cfr. TAR Abruzzo–Pescara, 08/07/2015, n. 288).
Del tutto ultronea, quindi, la dedotta riconducibilità, secondo il R.E. vigente, delle opere edilizie di cui sopra al regime autorizzatorio anziché a quello concessorio, onde supportare l’affermata necessità dell’assolvimento, da parte del Comune, dell’onere comunicativo in oggetto.
La seconda doglianza pone una questione d’incompetenza del dirigente comunale ad emanare l’ordinanza gravata, poiché il relativo potere spetterebbe –trattandosi di “polizia idrica”– alla Regione, ex art. 90 cpv. lett. e), del d.P.R. 616/1977 (secondo cui: “1. Tutte le funzioni relative alla tutela, disciplina e utilizzazione delle risorse idriche, con esclusione delle funzioni riservate allo Stato dal successivo articolo, sono delegate alle regioni che le eserciteranno nell’ambito della programmazione nazionale della destinazione delle risorse idriche e in conformità delle direttive statali sia generali sia di settore per la disciplina dell’economia idrica. 2. In particolare sono delegate le funzioni concernenti: (…) e) la polizia delle acque”).
La tesi, fondata su una risalente, oltre che non particolarmente perspicua, decisione del TAR Calabria–Catanzaro, Sez. II, 22.05.2001, n. 829 (secondo cui la “violazione della zona di rispetto” non integrerebbe “occupazione”, la quale presupporrebbe “la realizzazione di attività permanentemente modificative a stretto ridosso del bene tutelato”, attività, invece, presenti nel caso di specie), in ogni caso –e in disparte la mancata evocazione in giudizio della Regione Campania– pare priva di pregio, alla luce del fondamentale principio costituzionale della sussidiarietà, non comprendendosi affatto per quale ragione l’ente comunale dovrebbe astenersi dalla vigilanza urbanistico–edilizia sul proprio territorio, sol perché venga in rilievo, in concreto, un problema di distanza di manufatti edilizi da un corso d’acqua, apparendo del resto evidente come sia arduo far rientrare il caso in esame nella materia “tutela, disciplina e utilizzazione delle risorse idriche”, sia pur sotto il peculiare angolo prospettico della “polizia delle acque”.
La terza censura, imperniata sulla riconduzione delle opere edilizie in oggetto a “interventi di restauro e risanamento conservativo”, come tali subordinati a semplice denunzia d’inizio attività, e, pertanto, sulla dedotta facoltatività dell’ordine di ripristino dello stato dei luoghi, ex art. 37 cpv. T.U. 380/2001 (“Quando le opere realizzate in assenza (oggi) di segnalazione certificata di inizio attività consistono in interventi di restauro e di risanamento conservativo, di cui alla lettera c) dell’articolo 3, eseguiti su immobili comunque vincolati in base a leggi statali e regionali, nonché dalle altre norme urbanistiche vigenti, l’autorità competente a vigilare sull’osservanza del vincolo, salva l’applicazione di altre misure e sanzioni previste da norme vigenti, può ordinare la restituzione in pristino a cura e spese del responsabile ed irroga una sanzione pecuniaria da 516 a 10329 euro”), non centra il fulcro del giudizio, come sopra individuato, vale a dire l’ormai accertata violazione del regime delle distanze legali dal piede dell’argine del vallone Iemale, con la conseguente inderogabilità dell’ordine di demolizione delle opere, poste all’interno di tale fascia di rispetto; onde nessun rilievo, a tale proposito, può assumere la riconduzione delle stesse all’uno o all’altro dei regimi abilitativi, in materia edilizia, previsti dal d.P.R. 380/2001.
Lo stesso dicasi, quanto alla quarta doglianza e all’ivi asserita erroneità della sanzione demolitoria, da riservare agli abusi realizzati in assenza di p.d.c., laddove nella specie, si sarebbe dovuta applicare esclusivamente la sanzione pecuniaria, prevista per le opere difformi dalla d.i.a. (oggi s.c.i.a.).
A fortiori le osservazioni precedenti valgono a destituire di fondamento il quinto ed ultimo motivo di ricorso, tendente a patrocinare una –oltretutto, ad avviso del Collegio, alquanto discutibile– impossibilità di procedere al ripristino dei luoghi, senza arrecare pregiudizio alle restanti parti dell’immobile.
L’inderogabilità delle prescrizioni legislative in tema di distanze delle opere edilizie dal piede dell’argine del vallone Iemale, ex art. 96, lett. f), R.D. 523/1904, tale da comportare l’inedificabilità assoluta e l’impossibilità di sanatoria delle medesime, infine, rende recessive le esigenze di sicurezza delle persone e di tutela della propria proprietà, pure segnalate come pressanti dal ricorrente, posto che l’interesse pubblico all’eliminazione delle suddette opere deve considerarsi in re ipsa, giusta quanto sopra osservato, fermo restando tuttavia l’obbligo, per le autorità preposte (e anzitutto per il resistente Comune di Monteforte Irpino, proprio in virtù del su richiamato principio di sussidiarietà), d’evitare rischi per la privata incolumità, segnalati come gravi, in ragione della vicinanza del corso d’acqua Iemale all’abitazione del ricorrente medesimo (anche provvedendo, se del caso, all’auspicata –sempre da parte ricorrente– recinzione dei “confini del muro spondale”) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 06.06.2017 n. 1021 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 133, c. 1, lett. b) ed f), c.p.a. ha espressamente salvaguardato la giurisdizione del T.s.a.p., regolata dalla previgente normativa, di cui al R.D. n. 1775/1933, estesa anche ai provvedimenti che, pur se promananti da autorità diverse da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, siano caratterizzati dall'incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche, concorrendo, in concreto, a disciplinare la realizzazione, la localizzazione, la gestione, e l'esercizio delle opere idrauliche.
In particolare, la cognizione del T.S.A.P. si estende anche ai casi in cui il provvedimento amministrativo, pur incidendo su interessi più generali e diversi rispetto a quelli specifici relativi alla demanialità delle acque, ed ai rapporti dei concessionari dei beni del demanio idrico, attiene comunque all'utilizzazione degli stessi, interferendo, immediatamente e direttamente, su opere destinate a tale utilizzazione, comprendendo quindi i ricorsi proposti avverso i provvedimenti che, come quello per cui è causa, hanno un'incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche, e che concorrono, in concreto, a disciplinare la realizzazione, la localizzazione, la gestione e l'esercizio delle opere idrauliche, restando invece escluse da tale giurisdizione solo le controversie in cui tale incidenza si manifesta in via del tutto marginale o riflessa.

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In via preliminare, il Collegio deve scrutinare l’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, in favore di quella del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, sollevata dalla difesa regionale, e su cui la ricorrente non ha replicato alcunché, che risulta fondata.
L'art. 133, c. 1, lett. b) ed f), c.p.a. ha infatti espressamente salvaguardato la giurisdizione del T.s.a.p., regolata dalla previgente normativa, di cui al R.D. n. 1775/1933, estesa anche ai provvedimenti che, pur se promananti da autorità diverse da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, come nella fattispecie per cui è causa, siano caratterizzati dall'incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche, concorrendo, in concreto, a disciplinare la realizzazione, la localizzazione, la gestione, e l'esercizio delle opere idrauliche (TAR Emilia Romagna, Bologna, Sez. I, 27.12.2011, n. 854).
In particolare, la cognizione del T.S.A.P. si estende anche ai casi in cui il provvedimento amministrativo, pur incidendo su interessi più generali e diversi rispetto a quelli specifici relativi alla demanialità delle acque, ed ai rapporti dei concessionari dei beni del demanio idrico, attiene comunque all'utilizzazione degli stessi, interferendo, immediatamente e direttamente, su opere destinate a tale utilizzazione, comprendendo quindi i ricorsi proposti avverso i provvedimenti che, come quello per cui è causa, hanno un'incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche, e che concorrono, in concreto, a disciplinare la realizzazione, la localizzazione, la gestione e l'esercizio delle opere idrauliche, restando invece escluse da tale giurisdizione solo le controversie in cui tale incidenza si manifesta in via del tutto marginale o riflessa (TAR Abruzzo, Pescara, Sez. I, 09.06.2015, n. 235, Cass. Civ., Sez. Un., 25.10.2013, n. 24154).
In conclusione, il presente ricorso va dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, in favore del Tribunale Superiore delle Acque, presso il quale il presente giudizio potrà essere riproposto, entro il termine di cui all’art. 11, c. 2, c.p.a. (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 01.06.2017 n. 1232 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Consolidato orientamento giurisdizionale ha sancito che appartiene alla giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque pubbliche, prevista dall'art. 143 r.d. 11.12.1933, n. 1775, la controversia riferita “al diniego di rilascio di concessione in sanatoria, opposto dall'autorità comunale in ragione dell'edificazione dell'immobile da condonare in violazione della fascia di rispetto di dieci metri dal piede dell'argine, ai sensi dell'art. 96, lett. f), del r.d. 25.07.1904, n. 523; detto provvedimento, infatti, ancorché emanato da un'autorità diversa da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, incide direttamente sul regolare regime delle acque pubbliche, la cui tutela ha carattere inderogabile in quanto informata alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali e il libero deflusso delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici”.
Invero, il tenore dell’art. 143 del r.d. 11.12.1933 n. 1775 è nel senso di non escludere che la giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque pubbliche possa essere estesa anche ai provvedimenti demolitori, suscettibili di incidere anch’essi su manufatti situati in prossimità dei corsi d'acqua di natura pubblica e realizzati nella fascia di rispetto dell'argine e, ciò, come peraltro confermato da precedenti arresti giurisprudenziali.
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Con il presente ricorso i Sig.ri Ci. hanno impugnato l’ordinanza n. 184/2016 del 28.11.201, unitamente alla comunicazione di avvio del procedimento e al verbale di sopralluogo effettuato in data 02.11.2015, provvedimenti questi ultimi riferiti ad un’autocarrozzeria situata sul confine con la sponda destra del torrente Ciuffenna.
Detti provvedimenti hanno a oggetto la contestazione dell’asserita abusività delle seguenti opere:
   a) la realizzazione, in “ambito di tutela idraulica” di una tettoia realizzata con struttura in metallo e copertura in pannelli sandwich avente dimensioni in pianta pari a 10,90 x 7,00 m e altezza max pari a 4,65 mt.;
   b) il posizionamento, all'interno della sopramenzionata tettoia, di un forno di verniciatura e relativo gruppo motore, rispettivamente delle dimensioni in pianta pari a 4,50 x 7,50 e 1,70 x 4,10 mt.;
   c) la parte della tettoia dove risulta collocato il forno è stata tamponata, fino ad una certa altezza, con pannelli sandwich.
Avverso i sopracitati provvedimenti i Sig.ri Ci. hanno proposto varie censure riferite alla violazione del nulla osta rilasciato ai fini idraulici dalla Provincia di Arezzo e dell’art. 96, lett. f), del R.D. 523/1904 sostenendo, nel contempo, la compatibilità dell’attuale collocazione del forno e della tettoia rispetto alle previsioni del vigente Regolamento Urbanistico del Comune di Terranuova Bracciolini.
Nella camera di consiglio del 28.03.2017 questo Tribunale ha eccepito, ai sensi dell’art. 73 comma 3, l’esistenza di elementi idonei a ritenere insussistente la giurisdizione amministrativa.
Nella stessa camera di consiglio, uditi i procuratori delle parti costituite anche ai sensi e per gli effetti dell’art. 60 cpa, il ricorso è stato trattenuto per la decisione.
Il ricorso è inammissibile, risultando fondata l’eccezione di difetto di giurisdizione.
L’ordinanza di ingiunzione n. 184/2016 del 28.11.2016 è motivata in considerazione della violazione di quanto previsto dall'art. 96, comma 1, lett. f), del R.D. 523/1904 nella parte in cui vieta ad una distanza minore di dieci metri dal piede degli argini "le fabbriche e gli scavi".
Costituisce, infatti, circostanza incontestata che il forno di cui si controverte è collocato sulla fascia di rispetto dell’argine del torrente Ciuffenna.
L’incidenza delle opere nella fascia di rispetto, e la possibilità di queste ultime di interferire con gli argini del torrente, è confermata dal contenuto del nulla osta idraulico rilasciato dalla Provincia di Arezzo (Determinazione Dirigenziale n. 386/DS del 16/07/2009), nella parte in cui la stessa Amministrazione ha rilevato come l’argine dello stesso torrente abbia subito nel corso del tempo una progressiva riduzione, tale da rendere indispensabile la realizzazione di opere di consolidamento.
Ciò premesso è possibile aderire al consolidato orientamento giurisdizionale, già fatto proprio in precedenza anche da questo Tribunale, nella parte in cui ha sancito che appartiene alla giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque pubbliche, prevista dall'art. 143 r.d. 11.12.1933, n. 1775, la controversia riferita “al diniego di rilascio di concessione in sanatoria, opposto dall'autorità comunale in ragione dell'edificazione dell'immobile da condonare in violazione della fascia di rispetto di dieci metri dal piede dell'argine, ai sensi dell'art. 96, lett. f), del r.d. 25.07.1904, n. 523; detto provvedimento, infatti, ancorché emanato da un'autorità diversa da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, incide direttamente sul regolare regime delle acque pubbliche, la cui tutela ha carattere inderogabile in quanto informata alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali e il libero deflusso delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici (TAR Firenze, sez. III, 20/12/2016 n. 1824; idem, 26/09/2014, n. 1497; Cass. civ., SS.UU., 12.05.2009)”.
Invero, il tenore dell’art. 143 del r.d. 11.12.1933 n. 1775 è nel senso di non escludere che la giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque pubbliche possa essere estesa anche ai provvedimenti demolitori, suscettibili di incidere anch’essi su manufatti situati in prossimità dei corsi d'acqua di natura pubblica e realizzati nella fascia di rispetto dell'argine e, ciò, come peraltro confermato da precedenti arresti giurisprudenziali (TAR Emilia Romagna-Bologna Sez. I, 16/07/2012, n. 495; TAR Piemonte Sez. I, 19/10/2000, n. 1024 e Cass. civ., SS.UU. Ord., 14/06/2006, n. 13692.
In considerazione di quanto sopra evidenziato va, pertanto, dichiarato il difetto di giurisdizione del Giudice Amministrativo in luogo del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche.
Restano salvi gli effetti processuali e sostanziali delle domanda, se il processo è riproposto innanzi al sopra citato Tribunale entro il termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della presente sentenza, ex art. 11 c.p.a. (traslatio iudicii) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 12.04.2017 n. 561 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla base di un orientamento consolidato, la giurisdizione riservata al Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche dall'art. 143 R.D. n. 1775 del 1933 si estende anche ai provvedimenti amministrativi che, se pure emanati da autorità diverse da quelle istituzionalmente preposte alla tutela delle acque, siano comunque caratterizzati dall'incidenza sulla materia delle acque pubbliche.
Rientrano, pertanto, nella giurisdizione di detto Tribunale i provvedimenti di diniego di condono edilizio adottati avuto riguardo all'ubicazione degli immobili oggetto di sanatoria in prossimità degli argini dei corsi d'acqua demaniali.
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La giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche deve essere confermata anche per quanto concerne il presente ricorso, laddove i ricorrenti hanno impugnato il successivo provvedimento di demolizione, fondato anch’esso sull’accertata violazione dell’art. 96 sopra citato e diretta conseguenza dei provvedimenti di diniego sopra citati.
Come si è già avuto modo di precisare non ha rilievo il preteso frazionamento dell'immobile in distinte porzioni e, ciò, sia considerando il fatto che non è stata dimostrata l'autonomia delle singole parti sia, soprattutto, in ragione del fatto che, ad un eventuale frazionamento, sarebbe di ostacolo il principio dell’inammissibilità della duplicità di azioni giudiziarie in relazione ad una stessa fattispecie, sussistendo il pericolo di contraddittorietà tra diversi giudicati.
Si consideri, peraltro, che il tenore dell’art. 143 del r.d. 11.12.1933 n. 1775 è nel senso di non escludere che la giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque pubbliche possa essere estesa anche ai provvedimenti demolitori, suscettibili di incidere su manufatti situati in prossimità dei corsi d'acqua di natura pubblica e realizzati nella fascia di rispetto dell'argine e, ciò, come peraltro confermato da precedenti arresti giurisprudenziali.
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1. Il ricorso è inammissibile, risultando fondata l’eccezione di difetto di giurisdizione.
1.1 Con le sentenze n. 1497/2016 e n. 769/2016 questo Tribunale ha avuto modo di chiarire che, sulla base di un orientamento consolidato, la giurisdizione riservata al Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche dall'art. 143 R.D. n. 1775 del 1933 si estende anche ai provvedimenti amministrativi che, se pure emanati da autorità diverse da quelle istituzionalmente preposte alla tutela delle acque, siano comunque caratterizzati dall'incidenza sulla materia delle acque pubbliche.
Rientrano, pertanto, nella giurisdizione di detto Tribunale i provvedimenti di diniego di condono edilizio adottati avuto riguardo all'ubicazione degli immobili oggetto di sanatoria in prossimità degli argini dei corsi d'acqua demaniali (per tutte, cfr. Cass. civ., SS.UU., 12.05.2009, n. 10845; TAR Toscana, sez. III, 27.03.2013, n. 496).
1.2 Risulta, altresì, accertato che le ragioni che hanno determinato il rigetto dei precedenti dinieghi di condono afferiscono proprio alla circostanza che i manufatti ricadono nella fascia di rispetto dei quattro metri dal limite della sponda destra del Rio Bonazzera II, in violazione del divieto stabilito dall' art. 96, lett. f), R.D. n. 523 del 1904.
1.3 In particolare, con riferimento al diniego di condono del 04.07.1998, si è già avuto modo di evidenziare che la controversia presenta profili di immediata incidenza sul regolare regime delle acque pubbliche, come peraltro chiaramente emerge dal parere del Genio Civile, secondo cui la presenza delle opere abusive non consentirebbe eventuali ampliamenti del corso d'acqua.
1.4. Si consideri, da ultimo che dette pronunce, divenute peraltro definitive a seguito del decorrere dei termini per il passaggio in giudicato, hanno già respinto le argomentazioni dei ricorrenti laddove sostenevano che il divieto di cui all’art. 96 non fosse suscettibile di riguardare una parte dei manufatti, in quanto posizionata al di fuori dei quattro metri di cui alla fascia di rispetto.
1.5 Nella sentenza n. 1497/2016, inoltre, si è chiarito che appartiene alla giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque la questione inerente la pretesa ammissibilità di una sanatoria parziale, relativa cioè alle porzioni di fabbricati che non ricadrebbero nella fascia di rispetto del fossato demaniale e, ciò, in virtù del consolidato principio secondo cui l'opera edilizia abusiva va identificata, ai fini della concessione in sanatoria, con riferimento all'unitarietà dell'edificio realizzato.
2. Ciò premesso la giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche deve essere confermata anche per quanto concerne il presente ricorso, laddove i ricorrenti hanno impugnato il successivo provvedimento di demolizione, fondato anch’esso sull’accertata violazione dell’art. 96 sopra citato e diretta conseguenza dei provvedimenti di diniego sopra citati.
Come si è già avuto modo di precisare non ha rilievo il preteso frazionamento dell'immobile in distinte porzioni e, ciò, sia considerando il fatto che non è stata dimostrata l'autonomia delle singole parti sia, soprattutto, in ragione del fatto che, ad un eventuale frazionamento, sarebbe di ostacolo il principio dell’inammissibilità della duplicità di azioni giudiziarie in relazione ad una stessa fattispecie, sussistendo il pericolo di contraddittorietà tra diversi giudicati.
Si consideri, peraltro, che il tenore dell’art. 143 del r.d. 11.12.1933 n. 1775 è nel senso di non escludere che la giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque pubbliche possa essere estesa anche ai provvedimenti demolitori, suscettibili di incidere su manufatti situati in prossimità dei corsi d'acqua di natura pubblica e realizzati nella fascia di rispetto dell'argine e, ciò, come peraltro confermato da precedenti arresti giurisprudenziali (TAR Emilia Romagna-Bologna Sez. I, 16.07.2012, n. 495 e TAR Piemonte Sez. I, 19.10.2000, n. 1024 e Cass. civ. Sez. Unite Ord., 14.06.2006, n. 13692 (rv. 589543).
3. In definitiva, risultando fondata l’eccezione sopra citata, va dichiarato il difetto di giurisdizione di questo Tribunale in luogo del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche.
Restano salvi gli effetti processuali e sostanziali delle domanda, se il processo è riproposto innanzi al sopra citato Tribunale nel termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della presente sentenza, ex art. 11 c.p.a. (traslatio iudicii) (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 28.03.2017 n. 476 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2016

EDILIZIA PRIVATAA norma dell'art. 133, lett. a), del RD n. 268 del 1904 (inserito nei Capo I "Disposizioni per la conservazione delle opere di bonificamento e loro pertinenze"), "Sono lavori, atti o fatti vietati in modo assoluto rispetto ai sopraindicati corsi d'acqua, strade, argini ed altre opere d'una bonificazione: a) le piantagioni di alberi e siepi, le fabbriche, e lo smovimento del terreno dal piede interno ed esterno degli argini e loro accessori o dal ciglio delle sponde dei canali non muniti di argini o dalle scarpate delle strade, a distanza minore di metri 2 pelle piantagioni, di metri i a 2 per le siepi e smovimento del terreno, e di metri 4 a 10 per i fabbricati, secondo l'importanza del corso d'acqua".
A norma dell'art. 96, lett. f), del RD n. 523 del 1904, "Sono lavori ed atti vietati in modo assoluto sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e difese ... le piantagioni di alberi e siepi, le fabbriche, gli scavi e lo smovimento del terreno a distanza dal piede degli argini e loro accessori come sopra, minore di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località, ed in mancanza di tali discipline, a distanza minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento del terreno e di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi".
Dalle menzionate disposizioni scaturiscono due diversi regimi:
il primo, concerne le opere di bonifica e le loro pertinenze e prevede, secondo la loro importanza, una distanza minima per i fabbricati che può essere fissata da 4 a 10 metri;
il secondo concerne, invece, tutte le altre acque pubbliche, le loro sponde, alvei e difese e fissa la distanza minima di 10 metri per le fabbriche.
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Svolgimento del processo
L'associazione denominata Comitato contro gli abusi edilizi ed ambientali e per la tutela dell'ambiente nonché quella denominata Legambiente Onlus hanno chiesto al TSAP l'annullamento della deliberazione del consiglio comunale di Grumolo delle Abbadesse con la quale è stata approvata (ai sensi dell'art. 50, comma 4, LR Veneto n. 61 del 1985) la variante al PRG consistente nella modifica dell'art. 40 delle norme tecniche di attuazione (zone di tutela e fasce di rispetto) con riduzione da 10 a 5 metri delle distanze delle costruzioni dai corsi d'acqua pubblici.
Hanno lamentato: la violazione dell'art. 96, lett. f), RD n. 254/1904, a norma del quale le nuove costruzioni devono rispettare una distanza di almeno 10 metri dalle sponde o dai piedi degli argini dei corsi d'acqua pubblici; la violazione dell'art. 50, comma 4, lett. d), della LR Veneto n. 61 del 1985, in relazione all'art. 42 della stessa legge; l'eccesso di potere per contraddittorietà con precedente manifestazione di volontà; l'eccesso di potere per inosservanza della circolare regionale Veneto n. 6 del 1998; l'eccesso di potere per travisamento. In estrema sintesi, le associazioni ricorrenti hanno sostenuto che il limite di rispetto di mt. 10 dagli argini fluviali può essere superato solo sulla scorta di ponderata valutazione di interventi per la miglior tutela idrica.
Il ricorso è stato respinto dal TSAP nella considerazione che il suddetto limite è vincolante non per la generalità dei corpi idrici nel territorio comunale, bensì solo per quelli non inerenti al sistema di bonifica; per i corpi idrici sottoposti alle specifiche competenze di gestione del Consorzio di Bonifica il limite di mt. 10 è, dunque, superabile.
Propongono ricorso per cessazione le suddette associazioni attraverso quattro motivi. Rispondono con controricorso il Comune di Grumolo delle Abbadesse e la Regione Veneto. Il ricorrente ha depositato memoria per l'udienza.
Motivi della decisione
Il primo motivo (violazione art. 96, lett. f), RD n. 523/1904 in combinato disposto con la legge n. 36/1994 e l'art. 144 DLGS n. 152/2006) sostiene che non potrebbe più ritenersi attuale la distinzione tra due regimi vincolistici autonomi, ossia da un lato la generalità delle opere idrauliche (art. 96 cit.) e dall'altro la speciale disciplina dei corsi d'acqua funzionali alla bonifica ed al miglioramento fondiario.
Infatti, con l'avvento della legge n. 36/1994, poi trasfusa nel Codice dell'Ambiente (DLGS cit.), sarebbe stata generalizzata la genetica inerenza pubblicistica della totalità dei corpi idrici, superando del tutto sia il previgente regime di catalogazione, sia l'attrazione delle acque di bonifica ad un regime d'impronta tendenzialmente privatistica, come quello consortile. Sicché, l'originaria demanialità dell'indistinto "bene-acqua" e delle sue pertinenze renderebbe inevitabilmente recessiva la specialità disciplinare delle rete idriche minori, ossia i canali di bonifica.
In conclusione, sarebbe applicabile e cogente la sola regola di polizia idraulica di maggior tutela di cui all'art. 96, lett. f), RD n. 523/1904.
Il motivo è infondato.
A norma dell'art. 133, lett. a), del RD n. 268 del 1904 (inserito nei Capo I "Disposizioni per la conservazione delle opere di bonificamento e loro pertinenze"), "Sono lavori, atti o fatti vietati in modo assoluto rispetto ai sopraindicati corsi d'acqua, strade, argini ed altre opere d'una bonificazione: a) le piantagioni di alberi e siepi, le fabbriche, e lo smovimento del terreno dal piede interno ed esterno degli argini e loro accessori o dal ciglio delle sponde dei canali non muniti di argini o dalle scarpate delle strade, a distanza minore di metri 2 pelle piantagioni, di metri i a 2 per le siepi e smovimento del terreno, e di metri 4 a 10 per i fabbricati, secondo l'importanza del corso d'acqua".
A norma dell'art. 96, lett. f), del RD n. 523 del 1904, "Sono lavori ed atti vietati in modo assoluto sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e difese ... le piantagioni di alberi e siepi, le fabbriche, gli scavi e lo smovimento del terreno a distanza dal piede degli argini e loro accessori come sopra, minore di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località, ed in mancanza di tali discipline, a distanza minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento del terreno e di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi".
Dalle menzionate disposizioni scaturiscono due diversi regimi: il primo, concerne le opere di bonifica e le loro pertinenze e prevede, secondo la loro importanza, una distanza minima per i fabbricati che può essere fissata da 4 a 10 metri; il secondo concerne, invece, tutte le altre acque pubbliche, le loro sponde, alvei e difese e fissa la distanza minima di 10 metri per le fabbriche.
Ora, che i due summenzionati regimi siano tuttora in vigore è questione indiscussa nella giurisprudenza e nell'applicazione amministrativa. Né l'avvento della disposizione dell'art. 144 del DLGS n. 152 del 2006 ("Tutte le acque superficiali e sotterranee, ancorché non estratte dal sottosuolo, appartengono al demanio dello Stato") consente di ritenerli implicitamente abrogati, posto che l'oggetto e le esigenze posti a fondamento di ciascuno continuano a giustificarne il vigore. Sicché, legittimamente il Comune ha trasposto nella propria normativa urbanistica i diversi regimi per ciascuno dei diversi corsi d'acqua (Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, sentenza 01.07.2016 n. 13532).

EDILIZIA PRIVATA: ARGINI FLUVIALI.
Distanze dei fabbricati dagli argini fluviali, diversi regimi per opere di bonifica e altre acque pubbliche ex R.D. n. 523/1904, vigenza, trasposizione nella normativa urbanistica comunale, legittimità
Art. 144, D.Lgs. n. 152/2006; artt. 133, lett. a) e 96, lett. f), R.D. n. 523/1904
In tema di distanze dei fabbricati dagli argini fluviali, restano vigenti, pur in seguito all’entrata in vigore del c.d. codice dell’ambiente (art. 144, D.Lgs. n. 152/2006), gli artt. 133, lett. a) e 96, lett. f), R.D. n. 523/1904, i quali fissano, in tema di opere di bonifica, una distanza minima tra 4 a 10 metri e, con riferimento a tutte le altre acque pubbliche, la distanza minima di 10 metri.
Pertanto, legittimamente un’amministrazione comunale può trasporre nella propria normativa urbanistica i diversi regimi per ciascuno dei diversi corsi d’acqua.
Con la pronuncia in commento la Cassazione, a sezioni Unite, si è occupata della tematica dei regimi di distanze dei fabbricati dagli argini fluviali per ragioni di tutela idrica, con particolare riferimento, in tema di opere di bonifica e acque pubbliche, alle regole applicabili in seguito all’entrata in vigore del c.d. codice dell’ambiente.
Nel caso in esame, due Associazioni per la tutela ambientale chiedevano al Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche l’annullamento della deliberazione di un consiglio comunale con la quale era stata approvata una variante al piano regolatore generale, con riduzione da 10 a 5 metri delle distanze delle costruzioni dai corsi d’acqua pubblici.
Il Tribunale adito, però, respingeva il ricorso con cui si sosteneva che il limite di rispetto di mt. 10 dagli argini fluviali poteva essere superato solo sulla scorta di ponderata valutazione di interventi per la miglior tutela idrica. Il TSAP, in particolare, osservava che il suddetto limite è vincolante non per la generalità dei corpi idrici nel territorio comunale, bensì solo per quelli non inerenti al sistema di bonifica; per i corpi idrici sottoposti alle specifiche competenze di gestione del Consorzio di Bonifica il limite di mt. 10 è, dunque, superabile.
La questione giungeva così in Cassazione la quale, ricorda innanzitutto la normativa applicabile al caso di specie:
   • R.D. n. 268/1904, art. 133, lett. a): che, in tema di opere di bonifica e loro pertinenze, prevede, secondo la loro importanza, una distanza minima per i fabbricati che può essere fissata da 4 a 10 metri;
   • R.D. n. 523/1904, art. 96, lett. f): che, con riferimento a tutte le altre acque pubbliche, le loro sponde, alvei e difese, fissa la distanza minima di 10 metri per le fabbriche.
Sussistono, quindi, due diversi regimi, i quali, illustra la Cassazione, sono tuttora in vigenti. In particolare:
   • l’oggetto e le esigenze posti a fondamento di detti regimi continuano a giustificarne il vigore, anche in seguito all’entrata in vigore del c.d. codice dell’ambiente;
   • l’avvento della disposizione del D.Lgs. n. 152/2006, art. 144, secondo cui “tutte le acque superficiali e sotterranee, ancorché non estratte dal sottosuolo, appartengono al demanio dello Stato”, non consente di ritener detti regimi implicitamente abrogati.
Da tali considerazioni consegue dunque che legittimamente l’amministrazione comunale può trasporre nella propria normativa urbanistica i diversi regimi per ciascuno dei diversi corsi d’acqua (Corte di Cassazione, SS.UU. civili, sentenza 01.07.2016 n. 13532 - tratto da Ambiente & sviluppo n. 11/2016).

EDILIZIA PRIVATA: La norma di cui all'artt. 96, sub f), del R.D. 25.07.1904 n. 523 recita "Sono lavori ed atti vietati in modo assoluto sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e difese i seguenti...le piantagioni di alberi e di siepi, le fabbriche, gli scavi e lo smovimento del terreno a distanza del piede degli argini e loro accessori come sopra, minore di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località, ed in mancanza di tali discipline a distanza minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento del terreno e di metri dieci per le fabbriche e gli scavi".
Il reato ha natura di pericolo sicché, per la sussistenza della fattispecie contravvenzionale, non occorre l'ulteriore verifica che l'azione illecita abbia recato nocumento all'alveo del corso d'acqua o alle sue sponde.

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1. Per illustrare la sua censura, il ricorrente muove dal presupposto del reato contestato, relativo allo spostamento dell'area di sedime del manufatto. Secondo l'imputato, non rientrerebbe nel divieto posto dall'art. 96, comma 1, lett. f), RD n. 523/1904 il comportamento consistente nell'allontanamento di un manufatto dall'argine, quando realizzato nel limite dei 10 metri.
Infatti, la diversa interpretazione sarebbe contraria alla lettera della norma ed all'interesse pubblico ed, in ogni caso, contrasterebbe con lo spirito dell'art. 1 della Legge Regionale Toscana n. 21/2012, che consente gli interventi volti a garantire la fruibilità pubblica all'interno delle fasce di larghezza di dieci metri dal piede dell'argine, ove non compromettano l'efficacia e l'efficienza dell'opera idraulica e non alterino il buon regime delle acque.
Aggiunge il Severi che la norma a lui contestata, se ponesse un divieto assoluto, dovrebbe sempre prescindere dalla preventiva valutazione delle amministrazioni competenti, sicché gli stessi giudici di merito avrebbero in qualche modo ammesso che la fattispecie non potesse essere riferita al divieto di cui all'art. 96 citato. Ciò anche perché lo spostamento dell'area di sedime non sarebbe elemento sufficiente a qualificare l'intervento come nuova costruzione.
2. Il motivo è infondato, ma il reato si è medio tempore prescritto.
La norma di cui all'artt. 96, sub f), del R.D. 25.07.1904 n. 523 recita "Sono lavori ed atti vietati in modo assoluto sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e difese i seguenti...le piantagioni di alberi e di siepi, le fabbriche, gli scavi e lo smovimento del terreno a distanza del piede degli argini e loro accessori come sopra, minore di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località, ed in mancanza di tali discipline a distanza minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento del terreno e di metri dieci per le fabbriche e gli scavi".
Il reato ha natura di pericolo sicché, per la sussistenza della fattispecie contravvenzionale, non occorre l'ulteriore verifica che l'azione illecita abbia recato nocumento all'alveo del corso d'acqua o alle sue sponde
[Sez. 3, Sentenza n. 36502 del 21/09/2006 Ud. (dep. 03/11/2006) Rv. 235531].
Nella specie, come ammette lo stesso ricorrente, l'originario manufatto è stato demolito e successivamente ricostruito in luogo fisicamente diverso, ancorché adiacente. Si tratta dunque naturalisticamente di una nuova costruzione, come tale rientrante nella nozione astratta di "costruzione di fabbriche" prevista dal reato contestato. La violazione è assoluta -dunque non condizionata alla preventiva valutazione dell'autorità amministrativa- sicché in tal senso va emendata la motivazione del giudice d'appello.
Tuttavia, tale non corretto riferimento non inficia la ratio decidendi della Corte d'Appello, laddove puntualizza chiaramente che la violazione in parola rileva essenzialmente sul piano penale (ed a prescindere da quello edilizio), giacché la norma incriminatrice, a tutela delle acque pubbliche e pertanto dell'interesse collettivo, impone limiti e regole molto più cogenti di quelle dettate a presidio delle norme urbanistiche, per ciò solo insuscettibili di deroghe (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.01.2016 n. 4376 - data udienza).

anno 2014

EDILIZIA PRIVATA: Sulla giurisdizione del T.S.A.P. per le controversie sul diniego di sanatoria per il mancato rispetto delle distanze dall’argine del fiume.
Il torrente che il Comune ha ritenuto ostativo alla regolarizzazione dell’opera abusiva è un corso d’acqua pubblico, come tale rientrante nell’ambito di applicazione del R.D. n. 1775/1933 e del R.D. n. 523/1904.
Ai sensi dell’art. 143 del R.D. n. 1775/1933, appartengono alla cognizione del Tribunale Superiore delle acque pubbliche i ricorsi avverso i provvedimenti presi dall’amministrazione in materia di acque pubbliche.
Orbene, qualora il provvedimento dell’Ente sia motivato, come nel caso di specie, in base alla dislocazione dell’immobile oggetto di sanatoria a distanza inferiore da quella minima dall’argine o dalla sponda di un fiume, rileva una situazione incidente in maniere diretta e immediata sulla regolamentazione delle acque pubbliche, con conseguente diretta interferenza sul regolare regime delle stesse, il che implica la giurisdizione del Tribunale Superiore delle acque pubbliche, atteso il carattere inderogabile della tutela all’uopo apprestata dall’ordinamento.
Alla giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque appartiene altresì la questione dell’ammissibilità del condono delle porzioni immobiliari che non ricadrebbero nella fascia di rispetto del fiume, in quanto l’opera edilizia abusiva deve essere identificata, ai fini della concessione edilizia in sanatoria, con riferimento all’unitarietà dell’edificio realizzato.
... per l'annullamento:
- del provvedimento di diniego di concessione in sanatoria (negazione n° 20/S/724) emesso dal Sindaco del Comune di Pietrasanta in data 08/09/1998 notificato il 18/09/1998, con il quale il Sindaco stesso ha negato la concessione in sanatoria richiesta con domanda presentata dal ricorrente in data 01/03/1995 (domanda n. 1111);
- dell'ordinanza n. 147/99 del 29/03/1999 notificata al ricorrente in data 06/04/1999, con la quale il Dirigente dell'Ufficio Assetto del Territorio del Comune di Pietrasanta ha ingiunto al ricorrente la demolizione, nel termine di gg. 90 dalla notifica dell'ordinanza stessa, delle opere eseguite su terreno sito in Pietrasanta, località Casone, rappresentato catastalmente nel foglio di mappa 48 dal mappale 144.
...
Il Collegio preliminarmente rileva che l’Amministrazione resistente ha eccepito il difetto di giurisdizione.
L’eccezione è fondata.
Il torrente che il Comune ha ritenuto ostativo alla regolarizzazione dell’opera abusiva è un corso d’acqua pubblico, come tale rientrante nell’ambito di applicazione del R.D. n. 1775/1933 e del R.D. n. 523/1904.
Ciò precisato, occorre considerare che, ai sensi dell’art. 143 del R.D. n. 1775/1933, appartengono alla cognizione del Tribunale Superiore delle acque pubbliche i ricorsi avverso i provvedimenti presi dall’amministrazione in materia di acque pubbliche.
Orbene, qualora il provvedimento dell’Ente sia motivato, come nel caso di specie, in base alla dislocazione dell’immobile oggetto di sanatoria a distanza inferiore da quella minima dall’argine o dalla sponda di un fiume, rileva una situazione incidente in maniere diretta e immediata sulla regolamentazione delle acque pubbliche, con conseguente diretta interferenza sul regolare regime delle stesse, il che implica la giurisdizione del Tribunale Superiore delle acque pubbliche, atteso il carattere inderogabile della tutela all’uopo apprestata dall’ordinamento (Cass., S.U., 12/05/2009, n. 10845; TAR Toscana, III, 06/04/2010, n. 938; idem, 27.03.2013, n. 510; idem, 27.03.2013, n. 496; TAR Campania, Napoli, VIII, 07/12/2009, n. 8602).
Alla giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque appartiene altresì la questione dell’ammissibilità del condono delle porzioni immobiliari che non ricadrebbero nella fascia di rispetto del fiume, in quanto l’opera edilizia abusiva deve essere identificata, ai fini della concessione edilizia in sanatoria, con riferimento all’unitarietà dell’edificio realizzato (TAR Toscana, III, 26.09.2014, n. 1497).
Pertanto, la controversia in esame non appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo, cosicché il ricorrente potrà assumere il giudizio davanti al giudice competente, nel termine e con le modalità indicate dall'art. 11 del d.lgs. n. 104/2010
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 02.12.2014 n. 1977 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Fascia di servitù idraulica: dieci metri (96, lett. f, RD n. 523/1904) o la diversa misura fissata dal regolamento - Valore di vincolo assoluto di inedificabilità - Va applicato anche rispetto ad un corso d’acqua che, nello specifico sito, sia stato coperto o protetto da un consistente argine.
Il Comune, di fronte alla domanda di sanatoria, di un box costruito in prossimità di un corso d’acqua pubblica, in violazione del divieto di cui alla lett. f) dell’art. 96 RD n. 523/1904 o di quello diverso fissato dal regolamento, “non poteva che negare il titolo abilitativo edilizio in sanatoria.
L’art. 96 cit. non fa alcuna distinzione tra argini naturali ed artificiali, sicché è del tutto irrilevante che, nel tratto in questione, il torrente Lura sia stato delimitato da un muro di contenimento.
 Ugualmente non può assumere rilevanza il fatto che il torrente Lura, in quel tratto, è completamente coperto. La norma di cui all’art. 96 cit. vale, infatti, anche per i corsi d’acqua tombinati.
Tale conclusione, pacifica in giurisprudenza, trova giustificazione nella finalità del divieto di edificazione posto dal citato art. 96, che non è solo quella di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali ed il loro libero deflusso, ma anche quella di consentire uno spazio di manovra nel caso di … manutenzione delle condutture …”
(T.S.A.P., sentenza 29.11.2014 n. 246).

AMBIENTE-ECOLOGIA - PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 45 dell'08.11.2014, "Riordino dei reticoli idrici di Regione Lombardia e revisione dei canoni di polizia idraulica" (deliberazione G.R. 31.10.2014 n. 2591).

EDILIZIA PRIVATA: Distanza dal mare per costruzioni.
Domanda
La battigia del mare e la distanza delle costruzioni da essa come devono essere definite e interpretate?
Risposta
Ai fini del calcolo della distanza dal mare per l'inedificabilità nell'ambito dei centocinquanta metri, un elemento che bisogna prendere in considerazione è la battigia del mare.
Normalmente per battigia del mare si intende quella zona delle coste sabbiose e limose che viene periodicamente sommersa e scoperta dalle onde con mare calmo.
Tale definizione, però, non tiene conto del fatto che, per lo più, nel nostro Paese, si è in presenza di coste rocciose. Pertanto, è bene ritenere che per battigia del mare si debba intendere il punto in cui avviene il contatto tra il mare e la terraferma. In tal modo si viene ad avere un criterio di valutazione conforme per tutto il territorio nazionale. Ora, al fine di determinare la distanza della costruzione dalla battigia del mare, alla luce di costante giurisprudenza del giudice amministrativo, è bene effettuare il calcolo non con riferimento allo sviluppo scosceso dell'abitazione al mare, bensì prendendo in esame la linea orizzontale tra i punti più vicini del manufatto e della costa, nel punto di intersezione con la linea verticale proiettata dalla battigia al mare.
Diversamente, se si misurasse la distanza seguendo l'andamento scosceso del terreno si avrebbe che i litorali bassi e sabbiosi, spesso caratterizzati da una certa uniformità di paesaggio, sarebbero tutelati da un divieto assoluto di edificare a distanze inferiore a centocinquanta metri, mentre per il litorali frastagliati e discontinui, generalmente più interessanti sotto il profilo naturalistico e paesaggistico, il divieto non varrebbe per quelle costruzioni che si porrebbero a una distanza solo formalmente superiore a quella minima di legge, in ragione del dislivello o della particolare conformazione del pendio, pur essendo obiettivamente in linea d'aria a una distanza dalla battigia del mare inferiore a quella prescritta.
Al riguardo, interessante è la sentenza n. 998 del 29.10.2009 del Consiglio di giustizia amministrativa della Regione Sicilia (articolo ItaliaOggi Sette del 13.10.2014).

EDILIZIA PRIVATA(a) i divieti di edificazione e movimento terra previsti dall’art. 96, comma 1-f, del RD 523/1904 a tutela del vincolo idraulico (integrati a livello locale dalla disciplina regionale di cui alla DGR n. 7/7868 del 25.01.2002, e successive modifiche, sulla polizia idraulica di competenza comunale) devono essere intesi non tanto come strumenti di protezione dello stato attuale dei luoghi, ma come misure dirette a impedire l’alterazione del regolare deflusso delle acque;
(b) per alcuni interventi edilizi le due situazioni tendono a coincidere (ad esempio, una nuova costruzione altera lo stato dei luoghi e pone con la sua sola presenza un ostacolo al regolare deflusso delle acque, talvolta un ostacolo attuale, talvolta un ostacolo connesso al verificarsi di particolari eventi meteorologici). Per altre opere è invece più agevole tenere distinto l’aspetto della modifica dello stato dei luoghi da quello del regolare deflusso delle acque;
(c) la necessità di questa distinzione si manifesta specificamente nei movimenti terra finalizzati a riparare o modificare le infrastrutture presenti. La sistemazione o l’ampliamento di una strada possono in effetti comportare la modifica dell’alveo di un torrente, ma questo non significa che tali interventi siano automaticamente in contrasto con il vincolo idraulico. In realtà, il compito dei comuni nell’esercizio delle funzioni di polizia idraulica è proprio quello di individuare le condizioni tecniche idonee a garantire il potenziamento delle infrastrutture e allo stesso tempo il mantenimento (e se possibile il miglioramento) del regolare deflusso delle acque;

... per l'annullamento dell’ordinanza del dirigente del Servizio Tecnico n. 1 del 04.01.2007, con la quale è stato annullato il permesso di costruire rilasciato il 06.05.2005 ed è stata ingiunta la demolizione di alcune opere abusive realizzate nei pressi di via Odas;
...
Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le seguenti considerazioni:
(a) i divieti di edificazione e movimento terra previsti dall’art. 96, comma 1-f, del RD 523/1904 a tutela del vincolo idraulico (integrati a livello locale dalla disciplina regionale di cui alla DGR n. 7/7868 del 25.01.2002, e successive modifiche, sulla polizia idraulica di competenza comunale) devono essere intesi non tanto come strumenti di protezione dello stato attuale dei luoghi, ma come misure dirette a impedire l’alterazione del regolare deflusso delle acque;
(b) per alcuni interventi edilizi le due situazioni tendono a coincidere (ad esempio, una nuova costruzione altera lo stato dei luoghi e pone con la sua sola presenza un ostacolo al regolare deflusso delle acque, talvolta un ostacolo attuale, talvolta un ostacolo connesso al verificarsi di particolari eventi meteorologici). Per altre opere è invece più agevole tenere distinto l’aspetto della modifica dello stato dei luoghi da quello del regolare deflusso delle acque;
(c) la necessità di questa distinzione si manifesta specificamente nei movimenti terra finalizzati a riparare o modificare le infrastrutture presenti. La sistemazione o l’ampliamento di una strada possono in effetti comportare la modifica dell’alveo di un torrente, ma questo non significa che tali interventi siano automaticamente in contrasto con il vincolo idraulico. In realtà, il compito dei comuni nell’esercizio delle funzioni di polizia idraulica è proprio quello di individuare le condizioni tecniche idonee a garantire il potenziamento delle infrastrutture e allo stesso tempo il mantenimento (e se possibile il miglioramento) del regolare deflusso delle acque;
(d) nello specifico, la circostanza che l’amministrazione abbia rilasciato l’originario permesso di costruire in data 06.05.2005 dimostra l’esistenza di un interesse pubblico alla sistemazione dell’alveo del torrente e alla messa in sicurezza della strada demaniale, che risulta esposta alle esondazioni. Questo interesse è compatibile con quello dei privati a migliorare il transito sulla medesima strada, ampliandone il sedime e prolungandone il tracciato verso le loro proprietà. Al vantaggio per la sicurezza della viabilità si aggiunge l’assenza di oneri per l’amministrazione;
(e) naturalmente, non devono essere causati danni alla proprietà di terzi, né la stessa deve essere invasa senza uno specifico atto di assenso, ma su questo punto i ricorrenti avevano già provveduto a formulare alcune correzioni con la richiesta di variante. Una volta ricevuta l’istanza, era compito degli uffici comunali verificare l’adeguatezza del nuovo progetto e imporre eventuali modifiche tramite prescrizioni tecniche. Un’eventuale ordinanza di demolizione avrebbe potuto riguardare solo i lavori già eseguiti non approvati in sede di variante;
(f) in definitiva, la presenza del vincolo idraulico non impedisce la realizzazione di un intervento come quello proposto dai ricorrenti, a condizione che il Comune (anche avvalendosi delle competenti strutture tecniche regionali e provinciali) stabilisca esattamente le prescrizioni tecniche in grado di preservare, e possibilmente migliorare, il regolare deflusso delle acque;
(g) non sussiste alcun impedimento neppure sotto il profilo urbanistico, in quanto la classificazione della strada in zona agricola non determina l’immodificabilità della stessa. In realtà, il divieto di interventi edilizi desumibile dagli art. 43 e 46 delle NTA deve essere riferito alle nuove opere, ossia agli interventi che alterano per la prima volta lo stato dei luoghi. Gli interventi di sistemazione e ampliamento di infrastrutture esistenti, anche se non espressamente menzionati nella disciplina urbanistica, sono invece da considerare pienamente ammissibili quando siano collegati a un preciso interesse pubblico, che nel caso in esame è ravvisabile nella messa in sicurezza della viabilità comunale.
10. Il ricorso deve quindi essere accolto, con il conseguente annullamento degli atti impugnati. L’effetto conformativo derivante dalla presente pronuncia comporta l’obbligo per il Comune di esaminare la richiesta di variante al permesso di costruire originario, fermo restando il potere di imporre modifiche al progetto per salvaguardare e migliorare il regolare deflusso delle acque, e comunque per minimizzare l’impatto ambientale dell’intervento (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 29.09.2014 n. 998 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa controversia avente ad oggetto la titolarità di un terreno che, pacificamente, faceva un tempo parte dell’alveo del fiume, ma che risulta abbandonato dalle acque da molti anni, non ponendo alcuna questione, ai fini del decidere, in ordine alla determinazione dei limiti dell’alveo e delle sponde, ovvero alla qualificazione dello stesso come alveo, sia con riferimento al passato che al presente, appartiene alla competenza per materia del tribunale ordinario e non a quella del tribunale regionale delle acque pubbliche.
CONSIDERATO IN DIRITTO
- che il Collegio ritiene il ricorso fondato;
- che va fatta applicazione del principio secondo cui la controversia avente ad oggetto la titolarità di un terreno che, pacificamente, faceva un tempo parte dell’alveo del fiume, ma che risulta abbandonato dalle acque da molti anni, non ponendo alcuna questione, ai fini del decidere, in ordine alla determinazione dei limiti dell’alveo e delle sponde, ovvero alla qualificazione dello stesso come alveo, sia con riferimento al passato che al presente, appartiene alla competenza per materia del tribunale ordinario e non a quella del tribunale regionale delle acque pubbliche (Cass. n. 18333 del 2006; Cass. n. 1916 del 2011);
- che tale è la situazione di specie, giacché non è in discussione che l’area rivendicata dal privato, appartenente all’ex alveo del torrente (OMISSIS), oramai da lunghissimo tempo non è più soggetta allo scorrimento delle acque ed è delimitata dall’alveo attuale da un argine naturale ricoperto da folta vegetazione di pini ad alto fusto;
- che è esatto il rilievo del pubblico ministero secondo cui il Comune e le Amministrazioni dello Stato, nel costituirsi in giudizio, hanno eccepito la demanialità di tale area;
- che, tuttavia, la detta eccezione è stata sollevata, non per dedurre l’appartenenza della zona di terreno in questione al demanio idrico (il che avrebbe imposto la competenza del tribunale regionale delle acque pubbliche, giacché la competenza del giudice specializzato scatta quando la controversia involge questioni sulla demanialità delle acque pubbliche o incide comunque, direttamente o indirettamente, sugli interessi pubblici connessi al regime delle acque: Cass. n. 14906 del 2000 e Cass. n. 2656 del 2012), ma per sostenere che l’area ha natura demaniale essendo stata utilizzata “per il soddisfacimento di molteplici esigenze di carattere collettivo/generale”, ossia per esercitazioni delle Forze armate e per la realizzazione di un elettrodotto, di un collettore fognario e di un tracciato per il transito ciclo-pedonale;
- che, pertanto, va dichiarata la competenza del Tribunale ordinario di Brescia, giacché, pur affermandosi che il terreno conteso costituiva un tempo l’alveo di un corso d’acqua, risulta pacifico che esso abbia definitivamente cessato di farne parte, disputandosi esclusivamente circa l’appartenenza, al privato ovvero al Comune o all’Agenzia del demanio, delle porzioni abbandonate, per cause naturali, del corso acqua, senza che venga in rilievo una attuale demanialità idrica, ma una proprietà pubblica di diversa natura (Corte di Cassazione, Sez. VI civile, sentenza 24.07.2014 n. 16807 - link a http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche.
L'art. 133, c. 1, lett. b) ed f), del c.p.a., in tema di rapporti di concessione di beni pubblici ed in materia urbanistico-edilizia e di uso del territorio (incluso il fenomeno espropriativo), ha salvaguardato la giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, regolata dalla previgente normativa, di cui all'art. 143, c. 1, lett. a), del r.d. n. 1775/1933.
Tale giurisdizione va estesa anche ai provvedimenti che, pur se promananti da autorità diverse da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, siano caratterizzati dall'incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche e concorrano, in concreto, a disciplinare la realizzazione, la localizzazione, la gestione e l'esercizio delle opere idrauliche, ivi compresi pure i provvedimenti espropriativi o di occupazione d'urgenza delle aree occorrenti per la realizzazione dell'opera idraulica, oltre agli atti comunque influenti sulla sua localizzazione sul suo spostamento.
Tale principio rileva indipendentemente dalla ragione che abbia determinato l'adozione di detti provvedimenti, quindi anche se non connessi al regime delle acque e quindi anche se resi necessari dalla tutela dell'ambiente o di un bene artistico o da valutazioni tecniche in funzione della salvaguardia dell'incolumità pubblica o ancora da mere ragioni di opportunità amministrativa.
Pertanto può affermarsi che, mentre esulano dalla giurisdizione del Tribunale delle Acque delle Acque Pubbliche (e rientrano in quella del g.a.) i provvedimenti incidenti sulla materia e sul regime delle acque pubbliche in via meramente strumentale ed indiretta, vi rientrino i provvedimenti di approvazione del progetto definitivo per la realizzazione di una centrale idroelettrica, previa V.I.A., gli atti concernenti la costituzione di una servitù coattiva, mediante procedura espropriativa, per il passaggio della condotta necessaria per la realizzazione dell'opera, nonché il relativo permesso di costruzione, atti tutti incidenti in maniera diretta ed immediata sul regime delle acque pubbliche.
In particolare è stata ritenuta la sussistenza della giurisdizione del Tribunale Superiore in caso di impugnativa di provvedimenti influenti sulla localizzazione dell'opera idraulica o sul suo spostamento, nonché sulla definizione delle sue caratteristiche e sulla sua realizzazione, nonché sui provvedimenti di occupazione ed espropriazione di opere necessarie per realizzare la condotta idraulica relativa alla costruzione di una centrale idroelettrica contestata dal titolare del fondo ove era previsto il transito interrato di una nuova condotta di adduzione finalizzata alla canalizzazione delle acque per il successivo sfruttamento idroelettrico.
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Sussiste la giurisdizione di legittimità del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, a norma dell'art. 143, c. 1, lett. a), del r.d. n. 1775 del 1933, oltre che con riguardo alle questioni investenti gli interessi pubblici connessi al regime delle acque strettamente inteso (demanialità delle acque, contenuto o limiti di una concessione di utenza, nonché questioni di carattere eminentemente tecnico relative alla distribuzione ed all'uso delle acque pubbliche ed ai diritti di derivazione o utilizzazione dell'utenza nei confronti della P.A.), ogni volta che siano impugnati provvedimenti amministrativi caratterizzati da incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche, nel senso che concorrano in concreto a disciplinare la gestione, l'esercizio delle opere idrauliche, i rapporti con i concessionari, oppure a determinare i modi di acquisto dei beni necessari all'esercizio e alla realizzazione delle opere stesse, o a stabilire o modificare la localizzazione di esse o ad influire sulla loro realizzazione mediante sospensione o revoca dei relativi provvedimenti.
Anche la giurisprudenza amministrativa ha affermato la sussistenza della giurisdizione di legittimità del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche sui ricorsi avverso i provvedimenti in materia di acque pubbliche, "allorquando i provvedimenti impugnati incidono direttamente ed immediatamente sulla materia delle acque, concorrendo in concreto a disciplinare la gestione, l'esercizio delle opere idrauliche, i rapporti con i concessionari ovvero a determinare i modi di acquisto dei beni necessari all'esercizio e/o alla realizzazione delle opere stesse o a stabilirne e/o a modificare la localizzazione di esse o influire sulla loro realizzazione mediante sospensione o revoca dei relativi provvedimento...Non rientrano, per contro, in tale speciale competenza giurisdizionale le controversie che hanno per oggetto atti solo strumentalmente inseriti in procedimenti finalizzati ad incidere sul regime delle acque" (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 07.07.2014 n. 3436 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: Circa il rispetto della fascia di mt. 10 dall'alveo dei corsi d'acqua, non rileva il rilievo circa la necessità di riferire la locuzione “discipline vigenti nelle diverse località” ad una ambito necessariamente infraregionale.
Infatti, all’epoca dell’entrata in vigore dell'art. 96, lett. F), del R.D. 25.07.1904, n. 523, le Regioni non erano state ancora né previste, né istituite, sicché non può farsi il paragone lessicale con altre disposizioni emanate in un tempo successivo all’istituzione delle Regioni.
Il riferimento in questione deve pertanto intendersi, comunque, come un rinvio mobile ad una disciplina non applicabile sull’intero territorio nazionale e che tenga conto delle specificità locali. Tale carattere è riferibile anche alla disciplina regionale, in costanza della quale perde rilievo la ipotizzata natura suppletiva della norma, poiché la fattispecie risulta disciplinata dalla nota della Regione Lombardia dell’08.09.1988.
Va richiamata al riguardo Cass., Sez. Unite, 18.07.2008, n. 19813, secondo la quale: “L'art. 96, lett. f), del r.d. 25.07.1904, n. 523, in materia di distanze delle costruzioni dagli argini, ha carattere sussidiario, essendo destinato a prevalere solo in assenza di una specifica normativa locale. Tuttavia, quest'ultima, che può anche essere contenuta nello strumento urbanistico, per derogare alla norma statale, deve essere espressamente destinata alla regolamentazione delle distanze dagli argini, esplicitando le condizioni locali e le esigenze di tutela delle acque e degli argini che giustifichino la determinazione di una distanza maggiore o minore di quella indicata dalla norma statale”.
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I divieti di edificazione sanciti dall'art. 96, lett. F), del RD 25.07.1904, n. 523 (t.u. delle leggi sulle opere idrauliche), sono precipuamente informati alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali per i diversi usi disciplinati dalla speciale legislazione sulle acque, o, comunque, di assicurare, ai fini di pubblico interesse, il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, rivi, canali e scolatoi pubblici: ne consegue che, qualora risulti oggettivamente non sussistente una massa d'acqua pubblica suscettibile di essere utilizzata ai suesposti fini pubblicistici, deve escludersi la operatività, ad ogni effetto, dei divieti predetti.

1. Con ricorso n. 389 del 1989, proposto al TAR Lombardia, sez. staccata di Brescia, l’odierno appellante chiedeva l’annullamento del provvedimento dell’Assessore delegato del Comune di Sarezzo dell’08.02.1989 avente ad oggetto il diniego con cui è stata respinta l’istanza di condono edilizio relativa all’ampliamento dell’opificio nella parte localizzata all’interno della fascia di mt. 10 di rispetto del torrente Gombiera, nonché del parere negativo dell’ufficio del Genio civile di Brescia
2. Il primo Giudice respingeva il ricorso, rilevando che l’art. 33 della L. n. 47 del 1985 contenente l’elencazione delle opere non suscettibili di sanatoria, al comma 1, lett. c), include le opere in contrasto con i “vincoli imposti da norme statali e regionali a difesa delle coste marine, lacuali e fluviali”.
Dal canto suo, l’art. 96, lett. F), del R.D. 25.07.1904, n. 523, vieta in modo assoluto le costruzioni ad una distanza inferiore di mt. 10 dall’alveo dei corsi d’acqua.
Né vale obbiettare che, da un lato, si sarebbe instaurata di fatto una prassi locale sfociata nella consuetudine di cui è parola nell’art. 96 citato, laddove fa riferimento alla “disciplina locale”, perché quest’ultima locuzione deve intendersi riferita alla disciplina regionale: la Regione Lombardia con nota dell’08.09.1988 ha espressamente affermato la non conformità dell’opera, invitando il Comune resistente a emettere ordinanza di demolizione, con ripristino dello stato dei luoghi; dall’altro, il diniego, che prescinde dalla situazione di fatto, non può dirsi che non sarebbe congruamente motivato, atteso che l’opera viola un vincolo assoluto, senza che pertanto residui in sede di esame della domanda di condono alcun margine di apprezzamento discrezionale.
...
5. L’appello è infondato e non può essere accolto.
5.1. In ordine alla prima doglianza, non rileva il rilievo circa la necessità di riferire la locuzione “discipline vigenti nelle diverse località” ad una ambito necessariamente infraregionale.
Infatti, all’epoca dell’entrata in vigore del citato art. 96, le Regioni non erano state ancora, né previste, né istituite, sicché non può farsi il paragone lessicale con altre disposizioni emanate in un tempo successivo all’istituzione delle Regioni.
Il riferimento in questione deve pertanto intendersi, comunque, come un rinvio mobile ad una disciplina non applicabile sull’intero territorio nazionale e che tenga conto delle specificità locali. Tale carattere è riferibile anche alla disciplina regionale, in costanza della quale perde rilievo la ipotizzata natura suppletiva della norma, poiché la fattispecie risulta disciplinata dalla nota della Regione Lombardia dell’08.09.1988.
Va richiamata al riguardo Cass., Sez. Unite, 18.07.2008, n. 19813, secondo la quale: “L'art. 96, lett. f), del r.d. 25.07.1904, n. 523, in materia di distanze delle costruzioni dagli argini, ha carattere sussidiario, essendo destinato a prevalere solo in assenza di una specifica normativa locale. Tuttavia, quest'ultima, che può anche essere contenuta nello strumento urbanistico, per derogare alla norma statale, deve essere espressamente destinata alla regolamentazione delle distanze dagli argini, esplicitando le condizioni locali e le esigenze di tutela delle acque e degli argini che giustifichino la determinazione di una distanza maggiore o minore di quella indicata dalla norma statale”.
5.2. Destituita di fondamento risulta anche la seconda censura.
Come ha chiarito Cass. n. 5644 del 1979, “I divieti di edificazione sanciti dall'art. 96, lett. F), del RD 25.07.1904, n. 523 (t.u. delle leggi sulle opere idrauliche), sono precipuamente informati alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali per i diversi usi disciplinati dalla speciale legislazione sulle acque, o, comunque, di assicurare, ai fini di pubblico interesse, il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, rivi, canali e scolatoi pubblici: ne consegue che, qualora risulti oggettivamente non sussistente una massa d'acqua pubblica suscettibile di essere utilizzata ai suesposti fini pubblicistici, deve escludersi la operatività, ad ogni effetto, dei divieti predetti”.
Nella fattispecie, però, non risulta contestata la presenza di una massa d’acqua, ossia il torrente Gombiera, e che la stessa sia utilizzata da molte imprese (cfr. appello pag. 2), sicché risulta evidente la necessità di assicurarne il libero decorso.
Pertanto, l’esercizio del potere risultava in concreto vincolato, sicché l’atto per come formulato non si espone alla censura di difetto di motivazione reiterata in seconde cure (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 30.06.2014 n. 3283 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Quanto al vincolo fluviale, esso ha indubbiamente carattere assoluto ed inderogabile; tale vincolo non opera esclusivamente nel caso in cui risulti obbiettivamente e prima facie che non sussista una massa di acqua pubblica suscettibile di essere utilizzata ai fini pubblicistici.
Peraltro, questa Sezione ha già affermato, con forza e del tutto condivisibilmente, che è legittimo il diniego di rilascio di concessione edilizia in sanatoria relativamente ad un fabbricato realizzato all'interno della c.d. fascia di servitù idraulica, atteso che il divieto di costruzione ad una certa distanza dagli argini dei corsi d'acqua demaniali, imposto dall'art. 96, lett. f), r.d. 25.07.1904 n. 523, ha carattere assoluto ed inderogabile; pertanto, nell'ipotesi di costruzione abusiva realizzata in contrasto con tale divieto trova applicazione l'art. 33 l. 28.02.1985, n. 47 sul condono edilizio, il quale contempla i vincoli di inedificabilità, includendo in tale ambito i casi in cui le norme vietino in modo assoluto di edificare in determinate aree.
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Come afferma costantemente la giurisprudenza, il divieto di costruzione di opere sugli argini dei corsi d'acqua, previsto dalla lettera f) del predetto art. 96, è informato alla ragione pubblicistica di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici e ha carattere legale e inderogabile: ne segue che le opere costruite in violazione di tale divieto ricadono nella previsione dell'art. 33 della legge n. 47 del 1985 e non sono pertanto suscettibili di sanatoria.
E ben vero che la lettera f) dell'art. 96, che qui viene in questione, commisura il divieto alla distanza "stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località" e in mancanza di queste lo stabilisce alla distanza "minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento del terreno e di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi".
Sennonché -come è stato più volte affermato in giurisprudenza- alla luce del generale divieto di costruzione di opere in prossimità degli argini dei corsi d'acqua, il rinvio alla normativa locale assume carattere eccezionale. Tale normativa, per prevalere sulla norma generale, deve avere carattere specifico, ossia essere una normativa espressamente dedicata alla regolamentazione della tutela delle acque e alla distanza dagli argini delle costruzioni, che tenga esplicitamente conto della regola generale espressa dalla normativa statale e delle peculiari condizioni delle acque e degli argini che la norma locale prende in considerazione al fine di stabilirvi l'eventuale deroga. Nulla vieta che la norma locale sia espressa anche mediante l'utilizzo di uno strumento urbanistico, come può essere il piano regolatore generale, ma occorre che tale strumento contenga una norma esplicitamente dedicata alla regolamentazione delle distanze delle costruzioni dagli argini anche in eventuale deroga alla disposizione della lettera f) dell'art. 96, in relazione alla specifica condizione locale delle acque di cui trattasi.

Quanto al primo motivo d’appello, questo Collegio deve rilevare che l’impugnata ordinanza n. 235 del 31.08.2000, con la quale il Dirigente del Settore Assetto del Territorio del Comune di Bagno a Ripoli negava il rilascio della concessione in sanatoria e, come diretta conseguenza del diniego, applicava la sanzione di cui all’art. 7 della Legge n. 47/1985, ha trovato fondamento nel rilievo che le opere realizzate dai ricorrenti in primo grado insistono su un’area nella quale è vietata l’edificazione perché ricompresa nella fascia di m. 10 a partire dal ciglio di sponda del torrente Rimaggio, sottoposta al vincolo di cui al R.D. 25.07.1904, n. 523 ed in parte nella fascia di rispetto stradale di cui al D.M. 01.04.1968, n. 1404.
I vincoli fluviali e stradale sono sicuramente riconducibili alla disciplina di cui all’art. 33 della legge n. 47/1985, e quindi il caso di specie rientra nelle ipotesi in essa indicata.
Quanto al vincolo fluviale, esso ha indubbiamente carattere assoluto ed inderogabile; tale vincolo non opera esclusivamente nel caso in cui risulti obbiettivamente e prima facie che non sussista una massa di acqua pubblica suscettibile di essere utilizzata ai fini pubblicistici; ma tale evenienza non riguarda il torrente Rimaggio in prossimità del quale è stata realizzato l’edificio di cui trattasi.
Peraltro, questa Sezione ha già affermato, con forza e del tutto condivisibilmente, che è legittimo il diniego di rilascio di concessione edilizia in sanatoria relativamente ad un fabbricato realizzato all'interno della c.d. fascia di servitù idraulica, atteso che il divieto di costruzione ad una certa distanza dagli argini dei corsi d'acqua demaniali, imposto dall'art. 96, lett. f), r.d. 25.07.1904 n. 523, ha carattere assoluto ed inderogabile; pertanto, nell'ipotesi di costruzione abusiva realizzata in contrasto con tale divieto trova applicazione l'art. 33 l. 28.02.1985, n. 47 sul condono edilizio, il quale contempla i vincoli di inedificabilità, includendo in tale ambito i casi in cui le norme vietino in modo assoluto di edificare in determinate aree (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 26.03.2009, n. 1814).
Come afferma costantemente la giurisprudenza, il divieto di costruzione di opere sugli argini dei corsi d'acqua, previsto dalla lettera f) del predetto art. 96, è informato alla ragione pubblicistica di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici (cfr. Cass. civ., SS.UU., 30.07.2009, n. 17784) e ha carattere legale e inderogabile: ne segue che le opere costruite in violazione di tale divieto ricadono nella previsione dell'art. 33 della legge n. 47 del 1985 e non sono pertanto suscettibili di sanatoria (cfr. per tutte Cons. Stato, Sez. V, 26.03.2009, n. 1814; Id., Sez. IV, 12.02.2010, n. 772; Id., Sez. IV, 22.06.2011, n. 3781; Trib. Sup. acque pubbl., 15.03.2011, n. 35; ivi riferimenti ulteriori).
E ben vero che la lettera f) dell'art. 96, che qui viene in questione, commisura il divieto alla distanza "stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località" e in mancanza di queste lo stabilisce alla distanza "minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento del terreno e di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi".
Sennonché -come è stato più volte affermato in giurisprudenza- alla luce del generale divieto di costruzione di opere in prossimità degli argini dei corsi d'acqua, il rinvio alla normativa locale assume carattere eccezionale. Tale normativa, per prevalere sulla norma generale, deve avere carattere specifico, ossia essere una normativa espressamente dedicata alla regolamentazione della tutela delle acque e alla distanza dagli argini delle costruzioni, che tenga esplicitamente conto della regola generale espressa dalla normativa statale e delle peculiari condizioni delle acque e degli argini che la norma locale prende in considerazione al fine di stabilirvi l'eventuale deroga. Nulla vieta che la norma locale sia espressa anche mediante l'utilizzo di uno strumento urbanistico, come può essere il piano regolatore generale, ma occorre che tale strumento contenga una norma esplicitamente dedicata alla regolamentazione delle distanze delle costruzioni dagli argini anche in eventuale deroga alla disposizione della lettera f) dell'art. 96, in relazione alla specifica condizione locale delle acque di cui trattasi (cfr. Cass. civ., SS. UU., 18.07.2008, n. 19813; Cons. Stato, Sez. IV, 29.04.2011, n. 2544).
In mancanza di una difforme disciplina sul punto specifico nel P.R.G., deve ritenersi non sussistere una normativa locale derogatoria di quella generale, alla quale dunque occorre fare riferimento (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.06.2014 n. 3147 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAGli atti concernenti il diniego e l’assentimento ad altri di concessioni demaniali relative al demanio idrico, aventi in particolare ad oggetto pontili e specchi d’acqua ubicati sulla sponda sinistra del fiume, incidono sul regime delle acque pubbliche, nel senso che concorrono a disciplinare le modalità di utilizzazione di una porzione del fiume e della relativa sponda e che sono, quindi, attratti alla giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche, ai sensi dell’art. 143, comma 1, lett. a), del r.d. n. 1775 del 1933, che appunto rimette a tale giudice “i ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere e per violazione di legge avverso i provvedimenti definitivi presi dall’amministrazione in materia di acque pubbliche”.
L’eccezione è fondata.
Gli atti impugnati concernono il diniego e l’assentimento ad altri di concessioni demaniali relative al demanio idrico, aventi in particolare ad oggetto pontili e specchi d’acqua ubicati sulla sponda sinistra del fiume Arno.
Si tratta quindi di provvedimenti che incidono sul regime delle acque pubbliche, nel senso che concorrono a disciplinare le modalità di utilizzazione di una porzione del fiume Arno e della relativa sponda (in termini TAR Toscana, sez. 3^, sentenza n. 662 del 2010) e che sono quindi attratti alla giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche, ai sensi dell’art. 143, comma 1, lett. a), del r.d. n. 1775 del 1933, che appunto rimette a tale giudice “i ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere e per violazione di legge avverso i provvedimenti definitivi presi dall’amministrazione in materia di acque pubbliche” (Cass., SU, 21/06/2005, n. 13293; idem 12/05/2009, n. 10845) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 11.02.2014 n. 287 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Proprietà privata e demanio marittimo.
L’art. 55 cod. nav. prevede un vincolo alla proprietà privata, richiedendo per le opere realizzate «entro una zona di trenta metri dal demanio marittimo o dal ciglio dei terreni elevati sul mare» l’autorizzazione del capo del compartimento.
Ciò, in quanto la facoltà del proprietario di realizzare una nuova opera in quella fascia non può liberamente esplicarsi, ma è subordinata alla valutazione della compatibilità dell’opera medesima con la tutela del demanio marittimo e con la sua utilizzazione secondo la prescritta autorizzazione, è sanzionata penalmente dall’art. 1161 cod. nav., perché rientra nella mancata osservanza dei «vincoli cui è assoggettata la proprietà privata»
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.01.2014 n. 3901 - tratto da www.lexambiente.it).

anno 2013

EDILIZIA PRIVATA: La misura del vincolo idraulico varia a seconda che il corso d’acqua sia disciplinato dal r.d. n. 523/1904 oppure dalle disposizione sulle bonifiche di cui al r.d. n. 368/1904.
La disciplina delle fasce di rispetto delle costruzioni dai corsi d'acqua trova la sua fonte normativa nell'art. 133, lett. a), r.d. n. 368/1904 e nell'art. 96, lett. f), r.d. n. 523/1904.
Il r.d. n. 368/1904 si applica ai corsi d’acqua/canali facenti parte del sistema di bonifica, mentre il r.d. n. 523/1904 di applica i restanti corsi d’acqua.
Per i corsi d’acqua pertinenti alla bonificazione, l’art. 133, lett. a), r.d. n. 368/1904 prevede una distanza minima da 4 a 10 metri, secondo l’importanza del corso d’acqua.
Per i restanti corsi d’acqua l’art. 96, lett. f), r.d. 523/1904 prevede la distanza minima di dieci metri.

Scrive il T.S.A.P.: “La disciplina delle fasce di rispetto delle costruzioni dai corsi d'acqua trova la sua fonte normativa nell'art. 133, lett. a), r.d. n. 368/1904 e nell'art. 96, lett. f), r.d. n. 523/1904.
Il r.d. n. 368/1904 si applica ai corsi d’acqua/canali facenti parte del sistema di bonifica, mentre il r.d. n. 523/1904 di applica i restanti corsi d’acqua.
Per i corsi d’acqua pertinenti alla bonificazione, l’art. 133, lett. a), r.d. n. 368/1904 prevede una distanza minima da 4 a 10 metri, secondo l’importanza del corso d’acqua.
Per i restanti corsi d’acqua l’art. 96, lett. f), r.d. 523/1904 prevede la distanza minima di dieci metri
“.
Nel caso del Comune contemplato nella sentenza solo un fiume rientra nel campo di applicazione del r.d. 523 del 1904, mentre tutti gli altri corsi d’acqua sono pertinenti alle bonifiche.
Nel caso specifico, il Comune aveva modificato le n.t.a. del P.R.G. e il Tribunale ha ritenuto le modifiche apportate conformi alla normativa statale di riferimento sopra citata (TSAP, sentenza 05.12.2013 n. 202 - tratto da e link a http://venetoius.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sono devoluti alla giurisdizione in unico grado del Tribunale superiore delle acque pubbliche, ai sensi del R.D. 11.12.1933, n. 1775, art. 143, comma 1, lett. a), i ricorsi avverso provvedimenti amministrativi che, sebbene non costituiscano esercizio di un potere propriamente attinente alla materia delle acque pubbliche, pure riguardino l'utilizzazione del demanio idrico, incidendo in maniera diretta e immediata sul regime delle acque.
L'art. 143 del T.U. sulle acque ha inteso definire l'ambito della giurisdizione del giudice specializzato, circoscrivendola ai provvedimenti dell'amministrazione caratterizzati da incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche, nel senso che concorrano in concreto a disciplinare la gestione, l'esercizio delle opere idrauliche, i rapporti con i concessionari, oppure a determinare i modi di acquisto dei beni necessari all'esercizio e alla realizzazione delle opere stesse; o a stabilire o modificare la localizzazione di esse, o ad influire nella loro realizzazione mediante sospensione o revoca dei relativi provvedimenti.
La giurisdizione del TSAP è contrapposta, per un verso, a quella del Tribunale Regionale delle Acque che è organo (in primo grado) della giurisdizione ordinaria, cui il precedente art. 140, lett. c) attribuisce le controversie in cui si discuta in via diretta di diritti correlati alle derivazioni e utilizzazioni di acque pubbliche (a cominciare da quelli di utilizzazione di acque pubbliche, collegati alla gestione di opere idrauliche, nonché i criteri di ripartizione degli oneri economici) e, per altro verso, alla giurisdizione del complesso TAR-Consiglio di Stato ricorrente per tutte le controversie che abbiano ad oggetto atti soltanto strumentalmente inseriti in procedimenti finalizzati ad incidere sul regime delle acque pubbliche, quali esemplificativamente quelli compresi nei procedimenti ad evidenza pubblica volti alla concessione in appalto di opere relative alle acque pubbliche.

La giurisprudenza consolidata della Corte di Cassazione ha precisato che sono devoluti alla giurisdizione in unico grado del Tribunale superiore delle acque pubbliche, ai sensi del R.D. 11.12.1933, n. 1775, art. 143, comma 1, lett. a), i ricorsi avverso provvedimenti amministrativi che, sebbene non costituiscano esercizio di un potere propriamente attinente alla materia delle acque pubbliche, pure riguardino l'utilizzazione del demanio idrico, incidendo in maniera diretta e immediata sul regime delle acque (cfr., Cassazione civile sez. un., 19.04.2013, n. 9534).
L'art. 143 del T.U. sulle acque ha inteso definire l'ambito della giurisdizione del giudice specializzato, circoscrivendola ai provvedimenti dell'amministrazione caratterizzati da incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche, nel senso che concorrano in concreto a disciplinare la gestione, l'esercizio delle opere idrauliche, i rapporti con i concessionari, oppure a determinare i modi di acquisto dei beni necessari all'esercizio e alla realizzazione delle opere stesse; o a stabilire o modificare la localizzazione di esse, o ad influire nella loro realizzazione mediante sospensione o revoca dei relativi provvedimenti (cfr., Cass., sez. un., 337/2003).
La giurisdizione del TSAP è contrapposta, per un verso, a quella del Tribunale Regionale delle Acque che è organo (in primo grado) della giurisdizione ordinaria, cui il precedente art. 140, lett. c) attribuisce le controversie in cui si discuta in via diretta di diritti correlati alle derivazioni e utilizzazioni di acque pubbliche (a cominciare da quelli di utilizzazione di acque pubbliche, collegati alla gestione di opere idrauliche, nonché i criteri di ripartizione degli oneri economici) e, per altro verso, alla giurisdizione del complesso TAR-Consiglio di Stato ricorrente per tutte le controversie che abbiano ad oggetto atti soltanto strumentalmente inseriti in procedimenti finalizzati ad incidere sul regime delle acque pubbliche, quali esemplificativamente quelli compresi nei procedimenti ad evidenza pubblica volti alla concessione in appalto di opere relative alle acque pubbliche (Cass. sez. un. 14195/2005; 337/2003; 9424/1987), alle relative aggiudicazioni (Cass. 10826/1993).
La Corte di Cassazione ha poi ribadito che, in tema di diritti esclusivi di pesca, la giurisdizione riservata al tribunale superiore delle acque pubbliche dall'art. 143 r.d. n. 1175 del 1933, è limitata in base al collegamento a fattispecie tipiche qualificate dal contenuto e dalla forma dei provvedimenti impugnati, dalla procedura richiesta per la loro emanazione e dalla autorità pubblica da cui promanano, ossia alla cognizione dei ricorsi proposti contro provvedimenti di revoca o di decadenza dei diritti su acque del demanio marittimo, fluviale, lagunare e, in genere, su ogni acqua pubblica, adottati dai ministeri competenti (cfr., Cassazione civile sez. un., 05.10.2004, n. 19857) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 31.10.2013 n. 2418 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn linea generale il divieto di costruzione di opere dagli argini dei corsi d'acqua, previsto dall'art. 96, lett. f), t.u. 25.07.1904 n. 523, ha carattere legale, assoluto e inderogabile, ed è diretto al fine di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici; cioè, esso è teso a garantire le normali operazioni di ripulitura/manutenzione e a impedire le esondazioni delle acque.
La norma suddetta risponde all’evidente finalità di interrompere la pericolosa tendenza a occupare gli spazi prossimi al reticolo idrico, sia a tutela del regolare scorrimento delle acque sia in funzione preventiva rispetto ai rischi per le persone e le cose che potrebbero derivare dalle esondazioni. La natura degli interessi pubblici tutelati comporta, pertanto, che il vincolo operi con un effetto conformativo particolarmente ampio determinando l'inedificabilità assoluta della fascia di rispetto.
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E' legittimo il diniego di rilascio di concessione edilizia in sanatoria relativamente ad un fabbricato realizzato all'interno della c.d. fascia di servitù idraulica, atteso che, nell'ipotesi di costruzione abusiva realizzata in contrasto con tale divieto, trova applicazione l'art. 33 l. 28.02.1985 n. 47 sul condono edilizio, il quale contempla i vincoli di inedificabilità, includendo in tale ambito i casi in cui le norme vietino in modo assoluto di edificare in determinate aree.

E’ decisivo a questo punto l’elemento ostativo ulteriore rimarcato nel provvedimento impugnato, ossia la mancata osservanza della distanza minima dal Fiume Oglio stabilita dall’art. 96 del R.D. 523/1904 per ragioni di sicurezza idraulica. Sul punto non sono condivisibili i rilievi di parte ricorrente sulle circostanze che il manufatto non impedisce il corretto deflusso delle acque né le opere di manutenzione, e che in oltre 50 anni non si sono mai verificati pericoli.
Come osservato da questa Sezione nella sentenza 01/08/2011 n. 1231, l’indirizzo assolutamente costante della giurisprudenza civile e amministrativa si attesta sul canone per il quale <<in linea generale il divieto di costruzione di opere dagli argini dei corsi d'acqua, previsto dall'art. 96, lett. f), t.u. 25.07.1904 n. 523, ha carattere legale, assoluto e inderogabile, ed è diretto al fine di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici (cfr. Cassazione civile, sez. un., 30.07.2009, n. 17784, citata dalla Regione nella propria memoria conclusiva); cioè, esso è teso a garantire le normali operazioni di ripulitura/manutenzione e a impedire le esondazioni delle acque>>.
La norma suddetta risponde all’evidente finalità di interrompere la pericolosa tendenza a occupare gli spazi prossimi al reticolo idrico, sia a tutela del regolare scorrimento delle acque sia in funzione preventiva rispetto ai rischi per le persone e le cose che potrebbero derivare dalle esondazioni. La natura degli interessi pubblici tutelati comporta, pertanto, che il vincolo operi con un effetto conformativo particolarmente ampio determinando l'inedificabilità assoluta della fascia di rispetto (TAR Toscana, sez. III – 08/03/2012 n. 439).
In assenza di elementi a suffragio dell’applicazione della deroga contenuta nella lett. F del citato art. 96, ne consegue tra l’altro che nessuna opera realizzata in violazione della norma de qua può essere sanata e altresì –come affermato nella già citata sentenza di questo TAR n. 1231/2011- “che è legittimo il diniego di rilascio di concessione edilizia in sanatoria relativamente ad un fabbricato realizzato all'interno della c.d. fascia di servitù idraulica, atteso che, nell'ipotesi di costruzione abusiva realizzata in contrasto con tale divieto, trova applicazione l'art. 33 l. 28.02.1985 n. 47 sul condono edilizio, il quale contempla i vincoli di inedificabilità, includendo in tale ambito i casi in cui le norme vietino in modo assoluto di edificare in determinate aree (da ultimo: TAR Roma-Latina, Sez. I, sentenza 15.12.2010 n. 1981)”.
L’accertata operatività del vincolo di inedificabilità assoluta, nel caso di specie, è idonea di per sé a sorreggere il provvedimento impugnato, e determina, pertanto, l’infondatezza del ricorso, senza necessità di approfondire l’ulteriore profilo –invocato dall’interveniente e non menzionato nell’atto impugnato– afferente alla sussistenza del concorrente vincolo paesaggistico
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 02.10.2013 n. 814 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 143, primo comma, lett. a), del r.d. n. 1775/1933 ha attribuito alla cognizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche i ricorsi avverso i provvedimenti definitivi della P.A. in materia di acque pubbliche e cioè, secondo la giurisprudenza, tutti i ricorsi contro i provvedimenti caratterizzati dall’incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche, ancorché adottati da autorità diverse da quelle preposte specificamente alla tutela delle acque.
Ai fini del riparto di giurisdizione, perciò, il discrimine è dato dall’incidenza diretta o meno del provvedimento amministrativo sul governo delle acque pubbliche: criterio, questo dell’incidenza diretta, su cui concordano la Corte regolatrice e la giurisprudenza amministrativa.

Ed invero, l’art. 143, primo comma, lett. a), del r.d. n. 1775/1933 ha attribuito alla cognizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche i ricorsi avverso i provvedimenti definitivi della P.A. in materia di acque pubbliche e cioè, secondo la giurisprudenza (cfr., da ultimo, TAR Lazio, Roma, Sez. I, 14.05.2012, n. 4314), tutti i ricorsi contro i provvedimenti caratterizzati dall’incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche, ancorché adottati da autorità diverse da quelle preposte specificamente alla tutela delle acque.
Ai fini del riparto di giurisdizione, perciò, il discrimine è dato dall’incidenza diretta o meno del provvedimento amministrativo sul governo delle acque pubbliche: criterio, questo dell’incidenza diretta, su cui concordano la Corte regolatrice (Cass. civ., Sez. Un., 09.11.2011, n. 23300) e la giurisprudenza amministrativa (cfr. C.d.S., Sez. V, 02.08.2011, n. 4557; id., 25.05.2010, n. 3325; id., Sez. VI, 31.05.2012, n. 3279), anche di questa Sezione (TAR Lazio, Latina, Sez. I, 27 maggio 2011, n. 441).
Nel caso di specie, tuttavia, deve senz’altro escludersi un’incidenza diretta delle deliberazioni impugnate (aventi ad oggetto il regime tariffario del S.I.I.) sul regime delle acque pubbliche, potendosi ravvisare, al più, un’incidenza indiretta, che, però, non è idonea a radicare la cognizione della controversia in capo al T.S.A.P.: la giurisprudenza ha, infatti, chiarito che restano al di fuori della giurisdizione del T.S.A.P. ex art. 143, primo comma, lett. a), cit., le controversie aventi ad oggetto atti solo strumentalmente inseriti in procedimenti volti ad incidere sul regime delle acque pubbliche, ovvero provvedimenti aventi un’incidenza indiretta su detto regime (C.d.S., Sez. V, n. 4557/2011, cit.; id., n. 3325/2010, cit.), le quali, conseguentemente, rimangono assoggettate alla giurisdizione del G.A. (v., pure, TAR Lazio, Latina, Sez. I, 25.07.2012, n. 600) (TAR Lazio-Latina, sentenza 29.07.2013 n. 676 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAppartiene alla giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, prevista dall'art. 143 R.D. 11.12.1933 n. 1775, la controversia relativa al diniego di rilascio di concessione in sanatoria, opposto dall'autorità comunale in ragione dell'edificazione dell'immobile da condonare in violazione della fascia di rispetto di dieci metri dal piede dell'argine, ai sensi dell'art. 96, cit.; detto provvedimento, infatti, ancorché emanato da un'autorità diversa da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, incide direttamente sul regolare regime delle stesse, la cui tutela ha carattere inderogabile, in quanto informata alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ed il libero deflusso delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici.
Altresì, qualora sia impugnato un provvedimento incentrato sul contrasto delle opere di cui viene ordinata la demolizione, tra l’altro, con il precitato art. 96, incidendosi immediatamente sulla materia delle acque pubbliche e sulla relativa tutela, occorre attribuire la controversia alla giurisdizione del tribunale Superiore delle Acque pubbliche.

Osserva il Collegio che il diniego impugnato si fonda unicamente sulla violazione del citato art. 96 R.D. n. 523/1904, e precisamente su quanto disposto dalla lettera f) di tale articolo, che prescrive il rispetto di una distanza minima tra il “piede degli argini” del corso d’acqua, e le opere menzionate nello stesso.
Per Cass. Civ. Sez. Un. 12.5.2009 n. 10845 appartiene alla giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, prevista dall'art. 143 R.D. 11.12.1933 n. 1775, la controversia relativa al diniego di rilascio di concessione in sanatoria, opposto dall'autorità comunale in ragione dell'edificazione dell'immobile da condonare in violazione della fascia di rispetto di dieci metri dal piede dell'argine, ai sensi dell'art. 96, cit.; detto provvedimento, infatti, ancorché emanato da un'autorità diversa da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, incide direttamente sul regolare regime delle stesse, la cui tutela ha carattere inderogabile, in quanto informata alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ed il libero deflusso delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici.
Analogamente, per la giurisprudenza amministrativa, qualora sia impugnato un provvedimento incentrato sul contrasto delle opere di cui viene ordinata la demolizione, tra l’altro, con il precitato art. 96, incidendosi immediatamente sulla materia delle acque pubbliche e sulla relativa tutela, occorre attribuire la controversia alla giurisdizione del tribunale Superiore delle Acque pubbliche (TAR Toscana, Sez. III, 11.11.2011 n. 1676).
Il ricorrente, onde paralizzare la vista eccezione, invoca C.S. Sez. V 21.02.2012 n. 928, la quale tuttavia si è pronunciata su una fattispecie diversa da quella per cui è causa, dichiarando la giurisdizione del g.a. a fronte di un diniego regionale su una domanda di concessione di una derivazione da un fiume per uso idroelettrico.
Parimenti, anche le ulteriori citazioni giurisprudenziali invocate dal ricorrente non sono decisive ai fini del rigetto della vista eccezione, essendo risalenti e superate da parte degli stessi organi giurisdizionali, come nel caso di Cass. Sez. Unite 10.12.1993 n. 12167, sopravanzata da altra giurisprudenza, ben più recente.
Il Collegio osserva che la valutazione circa la compatibilità dei manufatti (tettoia e box) con il vincolo idraulico implica necessariamente un accertamento tecnico dello stato dei luoghi ed una approfondita verifica dell'incidenza dell'opera abusiva sui vincoli di rispetto della risorsa esistenti.
Tale accertamento e tale verifica per evidenti ragioni di riparto della giurisdizione in materia, devono essere comunque rimessi al vaglio della specifica competenza giurisdizionale del Tribunale superiore delle acque pubbliche, ai sensi del combinato disposto degli artt. 143, primo comma lett. a) e 197 del R.D. n. 1775 dell'11.12.1933.
Deve pertanto dichiararsi il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, con conseguente onere del ricorrente di riproporlo innanzi al T.S.A.P., nei termini e per gli effetti di cui all’art. 11, comma 2, c.p.a. (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 16.07.2013 n. 1871 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le argomentazioni incentrate sulla modesta portata d’acqua del Fosso (tale, secondo la tesi appellatoria, da escluderne oggettivamente la natura di “acqua pubblica”) vanno decisamente disattese essendo a ciò sufficiente far richiamo alla pacifica giurisprudenza in materia che ritiene ininfluente detto elemento “quantitativo” di natura oggettiva (“in rapporto anche al più ampio concetto di acqua pubblica introdotto dalla L. n. 36 del 1994, sussiste la giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche, ove si tratti di corso d'acqua che, pur raccogliendo acque di origine pluviale, non possa considerarsi mera fognatura né raccolta di acque meteoriche non convogliate o non identificabili come corpo idrico”).
Tuttavia è doveroso farsi carico anche della persistente obiezione, articolata nel mezzo di gravame, secondo la quale sarebbe errato affermare che il detto Fosso, pur costituendo diramazione del Canale Palocco, sarebbe vincolato: ciò in quanto soltanto il secondo sarebbe iscritto nell’elenco dei canali sottoposti a vincolo ex RD n. 1775/1993.
L’unico elemento a suffragio di tale tesi riposa in una interpretazione deduttiva secondo cui, posto che il corso del Canale Palocco assumeva tre denominazioni, sebbene il vincolo fosse stato imposto sull’intero Canale(tale circostanza non è contestata) esso non poteva essere esteso -in assenza di specifica apposizione sul Fosso allacciante Palocco– a quest’ultimo.
La detta tesi appare apodittica e priva di spessore probatorio, anche allorché si spinge a negare che il Fosso allacciante Palocco costituisca diramazione del Canale Palocco in quanto è quest’ultimo che origina dal primo.
Di certo v’è che il Canale Palocco è stato sempre unitariamente considerato, ed è il tratto di maggiore importanza: che poi i singoli corsi d’acqua assumano, diverse denominazioni non può rilevare in punto di sussistenza del vincolo stesso: peraltro il PTP ha sottoposto a vincolo il Canale Palocco con tutte le sue diramazioni (termine atecnico per individuare un corso d’acqua che comunque si mantiene “unico” e che, quindi, non esclude ma semmai ricomprende il punto di origine dello stesso) di guisa che la censura appare priva di spessore.
Peraltro neppure appare chiaro il motivo per cui soltanto tale parte del corso del Canale avrebbe dovuto essere sottratta al vincolo imposto sull’intero corso d’acqua.
Assume natura troncante, poi, ai fini della reiezione della censura la circostanza –già espressa dal primo giudice- secondo la quale nella deliberazione della G.R. del Lazio del 22/02/2002 n. 211, contenente la “Ricognizione e graficizzazione, ai sensi dell’art. 22, comma 1, lett. b), della L.R. 24/1998 del vincolo paesistico delle fasce di protezione dei corsi d’acqua pubblica di cui all’art. 146, comma 1, lett. c), del D.Lgs. 490/1999 e art. 7, commi 1 e 2, della L.R. 24/1998”, il Canale Palocco era ricompreso nell’elenco delle acque pubbliche (pag. 242 del Supplemento ordinario n. 1 al Bollettino Ufficiale n. 18 in data 29/06/2002) e, soprattutto, era individuato nelle cartografie con un unico codice che copre l’intero tracciato dal canale comprensivo anche della parte in contestazione.
La unicità del codice utilizzato per descrivere l’intero corso d’acqua, e la circostanza che tale cartografia faccia riferimento anche al Fosso allacciante Palocco esclude la fondatezza della censura; la circostanza rappresentata nella perizia giurata datata 20.12.2012 depositata nell’ambito dell’appello n. 5896/2009, limitandosi a ribadire che nell’area insistono numerose costruzioni a distanza di meno di 50 metri dal Fosso e che la predetta area nella planimetria allegata al PTPR non è tratteggiata obliquamente non apporta elementi decisivi a smentire il vincolo insistente sul Fosso medesimo (qual parte del Canale Palocco).
Come segnalato infine dalla difesa dell’appellata amministrazione comunale nella propria memoria, le argomentazioni incentrate sulla modesta portata d’acqua del Fosso (tale, secondo la tesi appellatoria, da escluderne oggettivamente la natura di “acqua pubblica”) vanno decisamente disattese essendo a ciò sufficiente far richiamo alla pacifica giurisprudenza in materia che ritiene ininfluente detto elemento “quantitativo” di natura oggettiva (“in rapporto anche al più ampio concetto di acqua pubblica introdotto dalla L. n. 36 del 1994, sussiste la giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche, ove si tratti di corso d'acqua che, pur raccogliendo acque di origine pluviale, non possa considerarsi mera fognatura né raccolta di acque meteoriche non convogliate o non identificabili come corpo idrico” -Trib. Sup. Acque, 02-07-2003, n. 97).
In carenza di alcun provvedimento specifico ed espresso di esclusione del vincolo, poi, non possono trovare ingresso le obiezioni (in relazione al disposto di cui all’art. 7 comma 7 della legge regionale del Lazio n. 24/1998) fondate sulla asserita urbanizzazione dell’area che peraltro risulta classificata quale zona agricola l’esclusione dal vincolo riguarda le sole zone urbane perimetrate –e quindi non certamente quella in questione, classificata come zona agricola– mentre le asserzioni relative a supposte concessioni in sanatoria in passato rilasciate sull’area per costruzioni realizzate in spregio della fascia di rispetto nulla provano, non potendo neppure la riscontrata sussistenza di un provvedimento illegittimo eventualmente in passato emesso costituire il presupposto per la reiterazione dell’errore ma, semmai, occasione per la eventuale revoca proprio di quelli illegittimamente rilasciati (si veda sul punto la consolidata produzione giurisprudenziale in punto di assenza del vizio di disparità di trattamento quanto al diniego di condono sebbene in presenza di concessioni in sanatoria in passato illegittimamente rilasciate nella stessa area ove insisteva l’immobile oggetto di diniego)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 25.06.2013 n. 3458 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Acque pubbliche: la presunzione di demanialità si estende all'intero corso.
Con sentenza 08.04.2013 n. 57, il Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche ha definitivamente ribadito, confermando la decisione n. 1390/2010 del Tribunale delle Acque Pubbliche presso la Corte d’Appello di Milano, che
la mera attitudine di un valletto a ricevere, anche in misura significativa, acque pubbliche ne determina ex lege la demanialità per l'intero suo corso.
Nella fattispecie, i ricorrenti -invocando la riforma della sentenza di primo grado- avevano chiesto che venisse accertata l'assenza di demanialità di un tratto di un valletto, non inserito nell'elenco delle acque pubbliche, senza tuttavia provare la destinazione dello stesso a mero convogliamento delle acque nelle fognature.
E' la mera attitudine del corso d'acqua ad usi di pubblico generale interesse (art. 1 R.D. n. 1755/1933) -intesa come l'"idoneità alla soddisfazione di un interesse pubblico, come la salvaguardia del territorio e dell'ambiente, ovvero riconducibile ad attività ed opera dell'uomo, quali la produzione, l'irrigazione, l'energia, la bonifica, la pesca, desumibile dalla portata delle acque, dall'ampiezza del bacino imbrifero o del sistema idrografico al quale appartengono"-, a determinarne ex lege la demanialità.
Circostanze acclarate nella fattispecie, in ragione dell'ampiezza del bacino e delle opere realizzate a monte del tratto in contestazione, ed irrilevante la mancata inclusione negli elenchi pubblici ex R.D. 523/1904.
Né, d'altra parte, sottolinea il TSAP, si potrebbe giungere alla paradossale conclusione di ritenere sottratto al regime di demanialità esclusivamente un tratto del valletto, dovendosi considerare lo stesso "nella sua interezza" (17.05.2013 - tratto da e link a http://studiospallino.blogspot.it).

EDILIZIA PRIVATALo scopo precipuo della fascia di rispetto di dieci metri, prevista dal RD 523/1904, è quello di assicurare il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, rivi, canali e scolatoi; in altri termini deve essere garantito, attraverso la fascia suindicata, il regolare deflusso idraulico.
Ai fini della soluzione del problema, ritiene il Collegio di dovere prendere le mosse dalla “ratio” dell’art. 96 citato, per verificarne la corretta applicazione nel caso di specie, alla luce dell’accurata analisi tecnica svolta dal CTU.
Lo scopo precipuo della fascia di rispetto di dieci metri, prevista dalla norma 523/1904, è quello di assicurare il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, rivi, canali e scolatoi; in altri termini deve essere garantito, attraverso la fascia suindicata, il regolare deflusso idraulico (cfr., fra le tante, TAR Toscana, sez. III, 26.04.2012, n. 842).
Ciò premesso, risulta -senza smentita alcuna- dalla relazione del CTU (cfr. soprattutto il punto 6 della relazione stessa) che:
- il corso d’acqua di cui è causa –vale a dire il torrente Ripiantino– scorre in una stretta gola, collocata al fondo di una scarpata avente un forte dislivello (circa 9 metri), rispetto all’edificio del sig. Rambelli;
- la sponda del torrente è rocciosa e quindi di sicura stabilità, almeno per quanto concerne la misurazione metrica;
- a monte della proprietà del sig. Rambelli, il torrente è intubato (scorre cioè al coperto in un tubo artificiale), per cui l’eventuale portata di piena non è dissimile a quella che appare in condizioni ordinarie.
La misurazione della “distanza” di cui all’art. 96 citato, effettuata con il sistema tridimensionale, non porta certo a risultati in contrasto con la finalità già ricordata dell’art. 96, in quanto le particolari caratteristiche della zona ove insiste l’abitazione del sig. Rambelli escludono, in base alla relazione del CTU, pericoli o ostacoli del regolare deflusso delle acque.
L’interpretazione dell’art. 96, propugnata dal Comune di Saltrio nella presente fattispecie, risulta quindi erronea, dovendosi preferire il calcolo della distanza minima di legge attraverso un sistema tridimensionale, che consente di affermare il rispetto della distanza stessa da parte della costruzione del sig. Rambelli.
La soluzione interpretativa accolta dallo scrivente Tribunale garantisce da una parte il pieno rispetto dell’art. 96, in conformità alla finalità della norma e dall’altra salvaguarda anche l’interesse del privato, nel complessivo rispetto del principio di proporzionalità dell’azione amministrativa, di diretta derivazione comunitaria, da osservarsi soprattutto nel caso di specie, in cui la Pubblica Amministrazione si è avvalsa del proprio potere di autotutela (sul necessario rapporto fra principio comunitario di proporzionalità ed autotutela amministrativa, si veda TAR Toscana, sez. II, 08.01.2010, n. 8).
Il provvedimento impugnato si fonda quindi su un erroneo presupposto di fatto, vale a dire la violazione –in realtà insussistente– dell’art. 96 citato per effetto del rilascio del permesso di costruire n. 10/2008.
L’Amministrazione di Saltrio è quindi incorsa in un eccesso di potere per travisamento dei presupposti di fatto e difetto di istruttoria, oltre che nella violazione dell’art. 96 sopra menzionato, dal che consegue l’accoglimento del motivo di ricorso indicato con il numero I^ (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.03.2013 n. 781 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Sanatoria - Attraversamento a guado del Fiume Orta in loc. Piano D'Oda (Regione Abruzzo, nota 25.03.2013 n. 1653 prot.).
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In merito alle problematiche sollevate da codesta Amministrazione con la nota in epigrafe emarginata e per quanto di competenza della scrivente Struttura occorre richiamare, in via preliminare, alcuni principi di carattere generale avente rilevanza dirimente ai fini che qui interessano.
Come è noto, secondo l'art. 822 C.C. i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia fanno parte del demanio idrico-fluviale. Da considerarsi demaniale è altresì il terreno interessato dallo scorrimento delle acque pubbliche, posto che, in questo caso, la demanialità discende dalla "funzione" che il terreno assume a supporto e contenimento del fiume medesimo, funzione che automaticamente viene meno in conseguenza di fenomeni naturali quali i fenomeni "di piena" e "di magra" che non abbiano carattere transitorio, ma che siano in grado di determinare in modo irreversibile la cessazione di quella funzione (ciò si verifica, ad esempio, nel caso di ritiro delle acque da (...continua).

anno 2012

EDILIZIA PRIVATAIl divieto di edificazione ex art. 96 r.d. 523/1904 ha carattere assoluto e riguarda in genere le acque pubbliche, comprese anche quelle dei laghi.
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E’ irrilevante la circostanza che solo il successivo art. 97 menzioni espressamente i laghi. La disposizione della lettera n), alla quale ci si richiama, reca infatti una previsione particolare riferita al regime delle spiagge dei laghi e nulla dice circa la disciplina delle sponde, per la quale dunque non può non valere la norma generale dell’art. 96.
Il rilievo secondo cui l’inciso della lettera f) dell’art. 96 “dal piede degli argini e loro accessori come sopra” richiamerebbe “i fiumi, torrenti e canali navigabili” previsti dalla lettera e) che precede è del pari fallace, apparendo invece chiaro che esso, rispetto agli argini, si riferisce alle loro “banche o sottobanche”.
Che questa sia la corretta interpretazione delle norme lo dimostra poi una considerazione ulteriore di carattere generale. Se la finalità delle disposizioni in oggetto è quella di consentire il libero deflusso delle acque, è evidente che la medesima esigenza si pone con riguardo alle acque dei laghi, anch’esse soggette a innalzamenti di livello.

Il divieto di edificazione in oggetto ha carattere assoluto e riguarda in genere le acque pubbliche; tale è senz’altro il lago di Garda, sul quale l’albergo è costruito.
Nessuno dei rilievi opposti per affermare l’inapplicabilità del divieto alle sponde dei laghi resiste alla critica. Ciò si deve dire, in particolare, per gli argomenti che gli appellanti vorrebbero trarre dall’analisi delle norme contenute nel regio decreto citato.
Osservano gli appellanti che dal complesso delle disposizioni recate dall’art. 96 emergerebbe l’intento del legislatore dell’epoca di limitare la disciplina ai soli corsi d’acqua. Questa sembra piuttosto una petizione di principio, per di più in contrasto con l’alinea dell’articolo, che, nel fare riferimento alle acque pubbliche in genere, non pone alcuna restrizione del genere diversamente da quanto invece dispone l’art. 98, la lettera d) del quale testualmente è circoscritta a “le nuove costruzioni nell'alveo dei fiumi, torrenti, rivi, scolatoi pubblici o canali demaniali”.
E’ poi irrilevante la circostanza che solo il successivo art. 97 menzioni espressamente i laghi. La disposizione della lettera n), alla quale ci si richiama, reca infatti una previsione particolare riferita al regime delle spiagge dei laghi e nulla dice circa la disciplina delle sponde, per la quale dunque non può non valere la norma generale dell’art. 96.
Il rilievo secondo cui l’inciso della lettera f) dell’art. 96 “dal piede degli argini e loro accessori come sopra” richiamerebbe “i fiumi, torrenti e canali navigabili” previsti dalla lettera e) che precede è del pari fallace, apparendo invece chiaro che esso, rispetto agli argini, si riferisce alle loro “banche o sottobanche”.
Che questa sia la corretta interpretazione delle norme lo dimostra poi una considerazione ulteriore di carattere generale. Se la finalità delle disposizioni in oggetto è quella di consentire il libero deflusso delle acque, è evidente che la medesima esigenza si pone con riguardo alle acque dei laghi, anch’esse soggette a innalzamenti di livello. Mentre infine non può rilevare che la violazione della regola sulla distanza non riguarderebbe il piano terra, ma un piano superiore, perché, così argomentando, si vuole introdurre una deroga, che la legge non conosce, al divieto di edificare, assoluto e inderogabile.
A una diversa conclusione, infine, non è possibile giungere prendendo in considerazione l’esistenza di altri manufatti a ridosso della riva del lago di Garda. Si tratta di circostanza che, genericamente affermata più che effettivamente dimostrata, andrebbe comunque esaminata con riguardo ai singoli casi concreti. Dato il divieto di edificabilità, peraltro, l’esistenza di eventuali abusi edilizi non potrebbe di per sé legittimare la pretesa a identico trattamento (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 14.04.2010, n. 2105; Id., Sez. IV, 24.02.2011, n. 1235).
L’accertata violazione della norma sulla distanza della costruzione dalle acque pubbliche è di per sé ragione sufficiente per giudicare illegittimo il permesso di costruire rilasciato dal Comune di Malcesine (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.11.2012 n. 5620 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl divieto di costruzione di opere sugli argini dei corsi d’acqua, previsto dalla lettera f) dell’art. 96  R.D. 523/1904, è informato alla ragione pubblicistica di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici e ha carattere legale e inderogabile: ne segue che le opere costruite in violazione di tale divieto ricadono nella previsione dell’art. 33 della legge n. 47 del 1985 e non sono pertanto suscettibili di sanatoria.
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Alla luce del generale divieto di costruzione di opere in prossimità degli argini dei corsi d’acqua, il rinvio alla normativa locale assume carattere eccezionale. Tale normativa, per prevalere sulla norma generale, deve avere carattere specifico, ossia essere una normativa espressamente dedicata alla regolamentazione della tutela delle acque e alla distanza dagli argini delle costruzioni, che tenga esplicitamente conto della regola generale espressa dalla normativa statale e delle peculiari condizioni delle acque e degli argini che la norma locale prende in considerazione al fine di stabilirvi l'eventuale deroga.
Nulla vieta che la norma locale sia espressa anche mediante l'utilizzo di uno strumento urbanistico, come può essere il piano regolatore generale, ma occorre che tale strumento contenga una norma esplicitamente dedicata alla regolamentazione delle distanze delle costruzioni dagli argini anche in eventuale deroga alla disposizione della lettera f) dell’art. 96, in relazione alla specifica condizione locale delle acque di cui trattasi.

L’art. 96 del r.d. n. 523 del 1904 elenca una serie di “lavori ed atti vietati in modo assoluto sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e difese”.
Come afferma costantemente la giurisprudenza, il divieto di costruzione di opere sugli argini dei corsi d’acqua, previsto dalla lettera f) dell’art. 96, è informato alla ragione pubblicistica di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici (cfr. Cass. civ., SS.UU., 30.07.2009, n. 17784) e ha carattere legale e inderogabile: ne segue che le opere costruite in violazione di tale divieto ricadono nella previsione dell’art. 33 della legge n. 47 del 1985 e non sono pertanto suscettibili di sanatoria (cfr. per tutte Cons. Stato, Sez. V, 26.03.2009, n. 1814; Id., Sez. IV, 12.02.2010, n. 772; Id., Sez. IV, 22.06.2011, n. 3781; Trib. Sup. acque pubbl., 15.03.2011, n. 35; ivi riferimenti ulteriori).
E’ ben vero che la lettera f) dell’art. 96, che qui viene in questione, commisura il divieto alla distanza “stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località” e in mancanza di queste lo stabilisce alla distanza “minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento del terreno e di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi”.
Sennonché –come è stato più volte affermato in giurisprudenza– alla luce del generale divieto di costruzione di opere in prossimità degli argini dei corsi d’acqua, il rinvio alla normativa locale assume carattere eccezionale. Tale normativa, per prevalere sulla norma generale, deve avere carattere specifico, ossia essere una normativa espressamente dedicata alla regolamentazione della tutela delle acque e alla distanza dagli argini delle costruzioni, che tenga esplicitamente conto della regola generale espressa dalla normativa statale e delle peculiari condizioni delle acque e degli argini che la norma locale prende in considerazione al fine di stabilirvi l'eventuale deroga. Nulla vieta che la norma locale sia espressa anche mediante l'utilizzo di uno strumento urbanistico, come può essere il piano regolatore generale, ma occorre che tale strumento contenga una norma esplicitamente dedicata alla regolamentazione delle distanze delle costruzioni dagli argini anche in eventuale deroga alla disposizione della lettera f) dell’art. 96, in relazione alla specifica condizione locale delle acque di cui trattasi (cfr. Cass. civ., SS. UU., 18.07.2008, n. 19813; Cons. Stato, Sez. IV, 29.04.2011, n. 2544) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.11.2012 n. 5619 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA-PRIVATAIl rilascio del titolo edilizio per la costruzione di una centrale idroelettrica, se indubbiamente rientra nell’ambito delle competenze comunali e presuppone la valutazione della compatibilità urbanistico-edilizia dell’intervento, non può essere scollegato dalle oggettive implicazioni che la realizzazione dell’impianto avrà sul regime delle acque, in modo particolare con riguardo alle rilevanti problematiche emergenti dal necessario rispetto del flusso minimo vitale del corso d’acqua interessato dalla costruenda centrale idroelettrica.
Pertanto, il vaglio di legittimità del provvedimento comunale impugnato è demandato al giudice competente in modo specifico in materia di acque pubbliche, quale è appunto il TSAP.
La giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, prevista dall'art. 143, comma 1, lett. a) r.d. 11.12.1933 n. 1775, ha per oggetto i ricorsi avverso provvedimenti amministrativi che siano caratterizzati dall'incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche: orbene, atteso che il provvedimento contestato da parte ricorrente, ancorché emanato da un'autorità diversa da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, proprio per l’oggetto e le ragioni che lo sottendono ha un’evidente incidenza sul regolare regime delle acque pubbliche, la cui tutela ha carattere inderogabile in quanto informata alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali e il libero deflusso delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici, ne deriva che l’esame della legittimità della determinazione assunta dall’amministrazione comunale debba essere devoluto al giudice tecnicamente competente, quale è il TSAP.

Si osserva, infatti, come il provvedimento demandato alla competenza del Comune, quale è il rilascio del titolo edilizio per la costruzione della centrale idroelettrica, se indubbiamente rientra nell’ambito delle competenze comunali e presuppone la valutazione della compatibilità urbanistico-edilizia dell’intervento, non possa essere scollegato dalle oggettive implicazioni che la realizzazione dell’impianto avrà sul regime delle acque, in modo particolare con riguardo alle rilevanti problematiche emergenti dal necessario rispetto del flusso minimo vitale del corso d’acqua interessato dalla costruenda centrale idroelettrica.
La stessa Regione Veneto – Direzione Distretto Bacino Idrografico Brenta e Bacchiglione di Vicenza, nell’indirizzare al Comune la nota del 07.10.2010 prot. n. 525751 (doc. n. 6 di parte resistente), ha infatti evidenziato le problematiche che potrebbero sorgere proprio con riguardo al livello minimo del flusso dell’acqua, con riguardo anche alla presenza di altri soggetti che usufruiscono dell’apporto idrico del corso d’acqua interessato.
Detti elementi portano quindi a ritenere che la richiesta avanzata dalla società istante, sebbene abbia per oggetto il rilascio del permesso di costruire, coinvolga interessi che esorbitano il mero profilo urbanistico edilizio dell’intervento, coinvolgendo anche profili, non certo di poca rilevanza, attinenti il regime delle acque.
Ciò comporta, in conformità con il costante orientamento giurisprudenziale, che nella specie, proprio perché risultano direttamente coinvolti interessi che hanno per oggetto il regime delle acque pubbliche, il vaglio di legittimità del provvedimento comunale impugnato sia demandato al giudice competente in modo specifico in materia di acque pubbliche, quale è appunto il TSAP.
Sul punto, concordando con la copiosa giurisprudenza, anche di questo Tribunale Amministrativo (cfr. TAR Veneto, Sez. I n. 4462/2001 e più recentemente Sez. II, n. 3/2011), citata dalla resistente, va ribadito che la giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, prevista dall'art. 143, comma 1, lett. a) r.d. 11.12.1933 n. 1775, ha per oggetto i ricorsi avverso provvedimenti amministrativi che siano caratterizzati dall'incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche: orbene, atteso che il provvedimento contestato da parte ricorrente, ancorché emanato da un'autorità diversa da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, proprio per l’oggetto e le ragioni che lo sottendono ha un’evidente incidenza sul regolare regime delle acque pubbliche, la cui tutela ha carattere inderogabile in quanto informata alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali e il libero deflusso delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici (Cass., SS.UU., 12.05.2009, n. 10845), ne deriva che l’esame della legittimità della determinazione assunta dall’amministrazione comunale di Valli del Pasubio debba essere devoluto al giudice tecnicamente competente, quale è il TSAP.
Invero nella fattispecie si prospetta l’esigenza che l’organo giudicante sia dotato della specifica competenza tecnica richiesta per verificare la validità di atti che incidono direttamente sul regime delle acque pubbliche: il dato è oggettivo ed avallato dai timori rappresentati alla Regione dagli altri soggetti utilizzatori, per scopi diversi, del corso d’acqua, i quali hanno tutto l’interesse a che sia assicurato il deflusso minimo vitale.
Inerendo quindi il provvedimento impugnato, con il quale è stata sospesa ogni determinazione al fine di non veder pregiudicato il mantenimento del flusso minimo vitale, nella prospettiva di un’indagine più approfondita sui riflessi che il rilascio del permesso di costruire la centrale idroelettrica avrebbe sulla qualità della risorsa idrica (esigenza peraltro condivisa dalla Regione, così come da nota del 07.10.2011, sopravvenuta in corso di causa), la valutazione della legittimità di tale atto deve essere demandata alla speciale competenza tecnica di cui è titolare il TSAP (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 05.07.2012 n. 963 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl divieto di costruzione di opere a meno di 10 metri dalla sponda del fiume, previsto dall'art. 96, lett. f), t.u. 25.07.1904 n. 523, ha carattere inderogabile in quanto diretto al fine di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche e soprattutto il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici, con la conseguenza che nessuna opera costruita in violazione di tale divieto può essere sanata.
... per l'annullamento dell’ordinanza n. 13 del 18.01.2000, con la quale è stata respinta l’istanza di condono edilizio presentata in data 10.07.1986, prot. n. 25032, prat. n. 2623.
...
Le censure sono infondate. In particolare, l'art. 96 R.D. 523/1904 stabilisce che "Sono lavori ed atti vietati in modo assoluto sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e difese i seguenti: ...
f) le piantagioni di alberi e siepi, le fabbriche, gli scavi e lo smovimento del terreno a distanza dal piede degli argini e loro accessori come sopra, minore di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località, ed in mancanza di tali discipline, a distanza minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento del terreno e di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi
".
Poiché, come sostenuto dal ricorrente stesso, l'immobile, ai fini di mantenere il rispetto della distanza dal confine della strada privata, è stato avvicinato oltre i 10 mt. all'alveo del torrente ove vige il divieto di inedificabilità assoluta ai sensi della norma sopra citata, il provvedimento non è sotto questo profilo viziato. Peraltro il Consiglio di Stato sez. IV, 22.06.2011, n. 3781 ha precisato che "Il divieto di costruzione di opere a meno di 10 metri dalla sponda del fiume, previsto dall'art. 96, lett. f), t.u. 25.07.1904 n. 523, ha carattere inderogabile in quanto diretto al fine di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche e soprattutto il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici, con la conseguenza che nessuna opera costruita in violazione di tale divieto può essere sanata".
Inoltre, non hanno alcuna incidenza sull’operatività tout court del vincolo di inedificabilità assoluta -ex lege operante-, da un lato una eventuale valutazione discrezionale dell'incidenza idraulica delle opere, peraltro non ammessa dal legislatore, e dall'altro l'eventuale autorizzazione all'esecuzione di opere (immobile, muro di contenimento) che resterebbero comunque illegittime.
Sostiene, poi, il ricorrente che tutti gli abusi ricadono all'interno della proiezione delle mura perimetrali esterne del fabbricato assentito con licenza edilizia 554 del 26.08.1968 e pertanto non hanno inciso sulla striscia di terreno tra il fabbricato e il torrente Acquatraversa. Tuttavia anche questa considerazione è priva di fondamento in relazione alla persistenza comunque delle opere in area di inedificabilità assoluta.
Ne deriva, tra l'altro, che nessun parere doveva essere richiesto all'amministrazione provinciale posto che nessuna discrezionalità la norma concede all'amministrazione nella valutazione dell'incidenza idraulica delle opere, ponendo nella distanza minima di 10 mt. un limite tassativo vincolante. Trattandosi, poi, di provvedimento vincolato l’omessa richiesta di preventivo parere della CEC si traduce in un vizio formale superabile ai sensi dell'art. 21-octies L. 241/1990. Il ricorso è pertanto infondato e va respinto (TAR Lazio-Latina, sentenza 18.06.2012 n. 489 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 96, primo comma, lett. f), del RD 25.07.1904, n. 523, vieta ad una distanza minore di 10 metri dal piede degli argini “le fabbriche, gli scavi e lo smovimento del terreno”, con una formula ampia, tale da ricomprendere qualsiasi manufatto che per le sue caratteristiche sia idoneo a compromettere il libero deflusso delle acque o l’espletamento dei necessari lavori di manutenzione.
Il divieto contenuto nella norma sopra citata si applica peraltro indistintamente a tutti i corsi d’acqua acquisiti al demanio dello Stato, senza che rilevi l’iscrizione o meno negli apposti elenchi.

Come sopra più volte osservato, il progetto prevede l’innalzamento da circa 5 mt. a circa 10 mt. dell’altezza della discarica, e l’art. 96, primo comma, lett. f), del RD 25.07.1904, n. 523, vieta ad una distanza minore di dieci metri dal piede degli argini “le fabbriche, gli scavi e lo smovimento del terreno”, con una formula ampia, tale da ricomprendere qualsiasi manufatto che per le sue caratteristiche sia idoneo a compromettere il libero deflusso delle acque o l’espletamento dei necessari lavori di manutenzione (per l’individuazione della ratio del divieto cfr. Tribunale Sup.re acque, 24.06.2010, n. 104; id. 29.04.2002, n. 58).
Il divieto contenuto nella norma sopra citata si applica peraltro indistintamente a tutti i corsi d’acqua acquisiti al demanio dello Stato, senza che rilevi l’iscrizione o meno negli apposti elenchi (cfr. Tar Piemonte, Sez. I, 20.04.2007, n. 1732).
Ne discende che nel caso di specie gli atti impugnati sono illegittimi anche per il mancato rispetto delle distanze dal corso d’acqua (tale conclusione risulta confortata anche dalla revisione progettuale di cui è stata data lettura dal difensore della parte controinteressata nella pubblica udienza, ove è espressamente previsto l’arretramento del nuovo argine di contenimento dal corso d’acqua per rientrare nella fascia di rispetto dal canale di 10 metri prevista dal RD 25.07.1904, n. 523, e l’allargamento della fascia arginale da utilizzare per la manutenzione dai mezzi consortili).
Nelle proprie difese la Regione e la controinteressata contestano che il corso d’acqua sia iscritto nel registro delle acque pubbliche e quindi che sia sottoposto al regime vincolistico di cui al D.lgs. 22.01.2004, n. 42 e, a sostegno dell’assunto, si limitano a citare la sentenza Tar Veneto, Sez. I, 15.04.1993, n. 364, che aveva ad oggetto l’impugnazione dell’originario provvedimento autorizzativo della discarica.
Sul punto il Collegio osserva che la predetta sentenza in realtà non ha accertato, neppure incidentalmente, la natura del corso d’acqua, ma ha semplicemente ritenuto in quella sede non sufficientemente provata l’iscrizione nell’elenco ai fini della definizione della necessità o meno dell’autorizzazione paesaggistica, lasciando sostanzialmente impregiudicata la questione.
Al riguardo il Collegio ritiene fondate e meritevoli di accoglimento le censure proposte dai Comuni ricorrenti di difetto di motivazione, difetto di istruttoria e contraddittorietà, perché dalla lettura del parere di compatibilità ambientale emerge una costante sottovalutazione delle problematiche attinenti alla presenza del corso d’acqua.
In primo luogo il parere, al fine di non applicare nelle fasce di rispetto il divieto che discende dal piano provinciale sui rifiuti (cfr. pag. 7), afferma che il corso d’acqua non è iscritto negli appositi elenchi, ma successivamente dà atto invece dell’avvenuta presentazione della relazione paesaggistica e di ritenere quindi espressamente necessaria l’acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica che ha come unico presupposto proprio l’iscrizione del corso d’acqua negli appositi elenchi (cfr. pag. 36, laddove si dice che “il vincolo vigente fa riferimento all’art. 142 -corsi d’acqua e fascia di m 150– del Dlgs. n. 42/2004, è originato dal Canale Cime Menegon che scorre, arginato, al di là della recinzione della discarica dimessa”).
In secondo luogo, come ripetutamente rappresentato dal Consorzio di bonifica (che non è stato coinvolto nella procedura nonostante lo avesse richiesto ed ha successivamente inviato un apposito parere che risulta essere stato ignorato: cfr. doc. 15 allegato alle difese della Regione), è stata omessa la valutazione delle maggiori sollecitazioni indotte dall’intervento sugli argini del corso d’acqua che già versano in una situazione di grave dissesto
(TAR Veneto, Sez. III, sentenza 08.03.2012 n. 333 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl Consiglio di Stato chiarisce il riparto di giurisdizione tra il Tribunale Superiore delle Acque e il giudice amministrativo in materia di acque pubbliche.
Nel giudizio in esame un Comune presentava domanda di concessione alla regione di una piccola derivazione dal fiume, per uso idroelettrico. La regione respingeva la richiesta con provvedimento che veniva impugnato dal Comune innanzi al giudice amministrativo che dichiarava il proprio difetto di giurisdizione. Avverso tale decisione ha proposto appello il comune che con la sentenza in esame e' stato rigettato sul presupposto che gli atti che regolano la materia delle “Acque pubbliche” non vanno considerati in astratto, ma con riferimento alla possibilità di influire, comunque, sulla loro regolamentazione (C.S. V n. 6942/2010).
Le Sezioni Unite hanno riaffermato che la giurisdizione di legittimità in unico grado attribuita al Tribunale superiore delle acque pubbliche con riferimento ai "ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere e per violazione di legge avverso i provvedimenti definitivi presi dall'amministrazione in materia di acque pubbliche", sussiste quando i provvedimenti amministrativi impugnati incidano direttamente sul regime delle acque pubbliche, nel senso che concorrano, in concreto, a disciplinare la gestione e l'esercizio delle opere idrauliche o a determinare i modi di acquisto dei beni necessari all'esercizio e alla realizzazione delle opere stesse od a stabilire o modificarne la localizzazione o a influire nella loro realizzazione mediante sospensione o revoca dei relativi provvedimenti (cfr. Cass., Sez. Un., n. 27528/2008 e 10848/2009).
Ed inoltre, hanno osservato che "l'incidenza diretta del provvedimento amministrativo sul regime delle acque pubbliche, che radica la giurisdizione di legittimità del Tribunale superiore delle acque pubbliche, è configurabile non solo quando l'atto provenga da organo amministrativo preposto alla cura di pubblici interessi in tale materia e costituisca manifestazione dei poteri attributi a tale organo per vigilare o disporre in ordine agli usi delle acque, ma anche quando l'atto, ancorché proveniente da organi dell'amministrazione non preposti alla cura degli interessi del settore, finisca, tuttavia, con l'incidere immediatamente sull'uso delle acque pubbliche, in quanto interferisca con i provvedimenti relativi a tale uso, autorizzando, impedendo o modificando i lavori relativi” (Cassazione civile, sez. un., 26.07.2002, n. 11126).
Da quanto sopra consegue che ha incidenza diretta sul regime delle acque il provvedimento con il quale l'organismo competente si pronuncia con proprio decreto sull'assoggettamento di un progetto di opera idrica (nella specie un progetto per il quale si chiede una concessione di derivazione) alla relativa procedura, in quanto tale provvedimento postula l'esame nel merito dell'opera o dell'intervento, chiaramente incidente sulla consistenza dell'opera e sulle modalità di gestione della stessa, e ne può condizionare la effettiva realizzazione o le modalità di gestione.
Pertanto, ove l'oggetto del progetto esaminato nella procedura di screening sia un'opera idraulica, l'impugnazione del decreto emesso dal Responsabile della struttura competente, per la sua ricaduta immediata sul regime delle acque pubbliche, va ricondotta alla giurisdizione del Tribunale delle acque pubbliche (cfr. C.S. V n. 3678/2009) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 21.02.2012 n. 928
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 133, lettera a), del r.d. 08.05.1904, n. 368 (“Regolamento per la esecuzione del t.u. della l. 22.03.1900, n. 195, e della l. 07.07.1902, n. 333, sulle bonificazioni delle paludi e dei terreni paludosi”) pone chiaro ed espresso divieto “in modo assoluto” di procedere ad una serie di lavori, tra cui la realizzazione di “…fabbriche… dal piede interno ed esterno degli argini e loro accessori o dal ciglio delle sponde dei canali non muniti di argini o dalle scarpate delle strade a distanza minore di… metri 4 a 10 per i fabbricati, secondo l'importanza del corso d’acqua”; e alla successiva lettera b), secondo capoverso, precisa, sempre per quanto qui interessa, che “…le fabbriche…esistenti… sono tollerate qualora non rechino un riconosciuto pregiudizio; ma, giunte a maturità o deperimento, non possono essere surrogate fuorché alle distanze sopra stabilite”.
La disposizione si differenzia da quella dell’art. 96, lettera f), del r.d. 27.07.1904, n. 523 (“Testo unico delle disposizioni di legge intorno alle opere idrauliche delle diverse categorie”) che, disponendo che sono vietate in modo assoluto, tra l’altro, “…le fabbriche… a distanza dal piede degli argini e loro accessori come sopra, minore di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località, ed in mancanza di tali discipline, a distanza minore…di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi”, consente alle “discipline locali” di derogare alla distanza minima assoluta ivi indicata, senza porre distinzione tra “fabbriche esistenti”e “nuove fabbriche”.
Nell’ambito di distanza stabilito dalle discipline locali il divieto di edificazione della fascia di rispetto è assoluto e inderogabile (tra l'altro, vale anche per i corsi d’acqua confinati in sotterraneo mediante tombinatura), laddove il maggior limite di 10 metri ha natura sussidiaria perché subordinato all’assenza di normative locali, ivi comprese quelle urbanistiche ed edilizie.
Al contrario, il vincolo d’inedificabilità posto dall’art. 133, lettera a), sia pure nell’intervallo da stabilirsi a cura dell’Autorità di bonifica (da 4 a 10 metri), è assoluto, perché inderogabile da discipline locali, ed è orientato alla salvaguardia delle “… normali operazioni di ripulitura e di manutenzione e ad impedire le esondazioni delle acque…”.
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L’art. 133, lettera a), del r.d. 08.05.1904, n. 368 nel consentire la conservazione delle “fabbriche”, ossia degli edifici esistenti, e peraltro “qualora non rechino un riconosciuto pregiudizio” (così ammettendo che, nel caso di riconosciuto pregiudizio possa al contrario imporsi l’arretramento alla distanza prescritta, o al limite anche la demolizione), prevede che, al contrario, il limite minimo variabile -da stabilirsi a cura dell’Autorità di bonifica- debba essere rispettato quando si intenda procedere alla “surrogazione”, ossia alla sostituzione dell’opera con altra opera.
Nell’ampia nozione di “surroga”, e in funzione dell’assoluta eccezionalità della conservazione dell’opera già esistente, non può non ricomprendersi la sostituzione anche nella forma della demolizione e della fedele ricostruzione.
In altri termini, l’interesse del privato proprietario al mantenimento dell’edificio entro la fascia di rispetto e a distanza inferiore a quella minima è tutelato solo se ed in quanto l’immobile non subisca alcuna trasformazione fisica, rimanga tal quale, come esistente, ed anche in tale ipotesi nemmeno in senso assoluto, potendo disporsi il suo arretramento o al limite il suo abbattimento se “rechi pregiudizio” all’interesse pubblico relativo alla più funzionale ed efficace manutenzione di argini, sponde, corsi d’acqua e canali e/o se presenti rischi in ordine all’esondazione e al naturale deflusso delle acque.
Al contrario, quando si intenda procedere alla “surrogazione”, ossia alla sostituzione dell’edificio esistente con un nuovo edificio, ancorché di superficie, sagoma, volumetria identiche -mediante demolizione e ricostruzione- l’interesse del proprietario non può che soccombere rispetto al predetto interesse pubblico, nel senso che trova piena applicazione il limite di distanza, da fissare a cura dell’Autorità di bonifica in relazione all’importanza del corso d’acqua e alle esigenze della sua cura e manutenzione, naturalmente con il minor sacrificio possibile ed entro limiti di adeguata proporzionalità e dimostrata funzionalizzazione al suddetto interesse pubblico, qualora esso sia fissato oltre il limite minimo inderogabile di 4 metri.
La norma delle N.T.A. del P.R.G. intitolata alla “Tutela dei corsi d’acqua” che consente “Per gli edifici esistenti ricadenti in tutto o in parte nelle fasce di rispetto… la manutenzione ordinaria, straordinaria, il restauro, la ristrutturazione nonché l’ampliamento purché non comporti avanzamento dell’edificio esistente sul fronte fluviale” può assumere valore di deroga soltanto al vincolo di cui all’art. 96, lettera f), del r.d. n. 523/1904 e non anche al vincolo di cui all’art. 133, lettera a), del r.d. n. 368/1904.

L’art. 133, lettera a), del r.d. 08.05.1904, n. 368 (“Regolamento per la esecuzione del t.u. della l. 22.03.1900, n. 195, e della l. 07.07.1902, n. 333, sulle bonificazioni delle paludi e dei terreni paludosi”) pone chiaro ed espresso divieto “in modo assoluto” di procedere ad una serie di lavori, tra cui, per quanto qui rileva, la realizzazione di “…fabbriche… dal piede interno ed esterno degli argini e loro accessori o dal ciglio delle sponde dei canali non muniti di argini o dalle scarpate delle strade a distanza minore di… metri 4 a 10 per i fabbricati, secondo l'importanza del corso d’acqua”; e alla successiva lettera b), secondo capoverso, precisa, sempre per quanto qui interessa, che “…le fabbriche…esistenti… sono tollerate qualora non rechino un riconosciuto pregiudizio; ma, giunte a maturità o deperimento, non possono essere surrogate fuorché alle distanze sopra stabilite”.
La disposizione si differenzia da quella dell’art. 96, lettera f), del r.d. 27.07.1904, n. 523 (“Testo unico delle disposizioni di legge intorno alle opere idrauliche delle diverse categorie”) che, disponendo che sono vietate in modo assoluto, tra l’altro, “…le fabbriche… a distanza dal piede degli argini e loro accessori come sopra, minore di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località, ed in mancanza di tali discipline, a distanza minore…di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi”, consente alle “discipline locali” di derogare alla distanza minima assoluta ivi indicata, senza porre distinzione tra “fabbriche esistenti”e “nuove fabbriche”.
E’ evidente, peraltro, che nell’ambito di distanza stabilito dalle discipline locali il divieto di edificazione della fascia di rispetto è assoluto e inderogabile (Cons. Stato, Sez. IV, 23.07.2009, n. 4663, che precisa come esso valga anche per i corsi d’acqua confinati in sotterraneo mediante tombinatura; vedi anche Sez. V, 26.03.2009, n. 1814), laddove il maggior limite di 10 metri ha natura sussidiaria perché subordinato all’assenza di normative locali, ivi comprese quelle urbanistiche ed edilizie (Cass., SS.UU. civili, 18.07.2008, n. 19813).
Al contrario, il vincolo d’inedificabilità posto dall’art. 133, lettera a), sia pure nell’intervallo da stabilirsi a cura dell’Autorità di bonifica (da 4 a 10 metri), è assoluto, perché inderogabile da discipline locali, ed è orientato alla salvaguardia delle “… normali operazioni di ripulitura e di manutenzione e ad impedire le esondazioni delle acque…” (Cass. Civ., Sez. I, 22.04.2005 n. 8536).
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La sentenza impugnata, e il provvedimento assessorile di diniego dell’annullamento in autotutela della concessione edilizia, hanno ritenuto che il limite di distanza non operi con riferimento a lavori di ristrutturazione edilizia, consistenti, come nel caso di specie, nella demolizione e ricostruzione con identica sagoma e volume sull’identica area di sedime.
Tale conclusione è erronea e priva di fondamento normativo.
L’art. 133, lettera a),
del r.d. 08.05.1904, n. 368 nel consentire la conservazione delle “fabbriche”, ossia degli edifici esistenti, e peraltro “qualora non rechino un riconosciuto pregiudizio” (così ammettendo che, nel caso di riconosciuto pregiudizio possa al contrario imporsi l’arretramento alla distanza prescritta, o al limite anche la demolizione), prevede che, al contrario, il limite minimo variabile -da stabilirsi a cura dell’Autorità di bonifica- debba essere rispettato quando si intenda procedere alla “surrogazione”, ossia alla sostituzione dell’opera con altra opera.
Nell’ampia nozione di “surroga”, e in funzione dell’assoluta eccezionalità della conservazione dell’opera già esistente, non può non ricomprendersi la sostituzione anche nella forma della demolizione e della fedele ricostruzione.
In altri termini, l’interesse del privato proprietario al mantenimento dell’edificio entro la fascia di rispetto e a distanza inferiore a quella minima è tutelato solo se ed in quanto l’immobile non subisca alcuna trasformazione fisica, rimanga tal quale, come esistente, ed anche in tale ipotesi nemmeno in senso assoluto, potendo disporsi il suo arretramento o al limite il suo abbattimento se “rechi pregiudizio” all’interesse pubblico relativo alla più funzionale ed efficace manutenzione di argini, sponde, corsi d’acqua e canali e/o se presenti rischi in ordine all’esondazione e al naturale deflusso delle acque.
Al contrario, quando si intenda procedere alla “surrogazione”, ossia alla sostituzione dell’edificio esistente con un nuovo edificio, ancorché di superficie, sagoma, volumetria identiche -mediante demolizione e ricostruzione- l’interesse del proprietario non può che soccombere rispetto al predetto interesse pubblico, nel senso che trova piena applicazione il limite di distanza, da fissare a cura dell’Autorità di bonifica in relazione all’importanza del corso d’acqua e alle esigenze della sua cura e manutenzione, naturalmente con il minor sacrificio possibile ed entro limiti di adeguata proporzionalità e dimostrata funzionalizzazione al suddetto interesse pubblico, qualora esso sia fissato oltre il limite minimo inderogabile di 4 metri.
Né può soccorrere l’argomento difensivo dell’applicabilità dell’art. 42 delle N.T.A. del P.R.G. del Comune di Noale (come richiamato nella memoria difensiva della Provincia di Venezia).
Tale disposizione regolamentare, intitolata alla “Tutela dei corsi d’acqua” consente bensì “Per gli edifici esistenti ricadenti in tutto o in parte nelle fasce di rispetto… la manutenzione ordinaria, straordinaria, il restauro, la ristrutturazione nonché l’ampliamento purché non comporti avanzamento dell’edificio esistente sul fronte fluviale”; sennonché essa può assumere valore di deroga, come già evidenziato, soltanto al vincolo di cui all’art. 96, lettera f), del r.d. n. 523/1904, e non anche al vincolo di cui all’art. 133, lettera a), del r.d. n. 368/1904
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16.02.2012 n. 816 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAppartiene “alla giurisdizione del Tribunale superiore delle acque, prevista dall’art. 143 del r.d. 11.12.1933, n. 1775, la controversia relativa al diniego di rilascio di concessione in sanatoria, opposto dall’autorità comunale in ragione dell’edificazione dell’immobile da condonare in violazione della fascia di rispetto di dieci metri dal piede dell’argine, ai sensi dell’art. 96, lett. f), del r.d. 25.07.1904, n. 523.
Detto provvedimento, infatti, ancorché emanato da un’autorità diversa da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, incide direttamente sul regolare regime delle acque, la cui tutela ha carattere inderogabile in quanto informata alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali e il libero deflusso delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti canali e scolatoi pubblici”.

Parte resistente ha preliminarmente eccepito l’inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione di questo giudice a conoscere della controversia, richiamando a sostegno dell’eccezione recente giurisprudenza delle Sezioni Unite della Cassazione che enuncia il principio il principio secondo cui appartiene “alla giurisdizione del Tribunale superiore delle acque, prevista dall’art. 143 del r.d. 11.12.1933, n. 1775, la controversia relativa al diniego di rilascio di concessione in sanatoria, opposto dall’autorità comunale in ragione dell’edificazione dell’immobile da condonare in violazione della fascia di rispetto di dieci metri dal piede dell’argine, ai sensi dell’art. 96, lett. f), del r.d. 25.07.1904, n. 523; detto provvedimento, infatti, ancorché emanato da un’autorità diversa da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, incide direttamente sul regolare regime delle acque, la cui tutela ha carattere inderogabile in quanto informata alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali e il libero deflusso delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti canali e scolatoi pubblici” (Cass. SS.UU., 12.05.2009, n. 10845) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 20.01.2012 n. 162 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2011

EDILIZIA PRIVATALa questione in esame (ndr: l'impugnazione del provvedimento con il quale l’Ufficio del Genio civile di Siracusa ha ordinato la parziale demolizione di un immobile, già oggetto di sanatoria edilizia concessa nel 1991, in quanto ricadente all’interno della fascia di rispetto di 10 metri dall’argine del fiume Gioi, come stabilita dagli artt. 93 e 96, lett. f, del T.U. approvato con R.D. 523/1904) rientra nella giurisdizione del Tribunale Superiore delle acque pubbliche (TSAP) ove si consideri che è stato impugnato per vizi tipici di legittimità dell’atto amministrativo un provvedimento definitivo adottato dall’amministrazione a tutela delle acque pubbliche, ed in particolare al fine di garantire l’intangibilità della fascia di rispetto del fiume normativamente individuata (cfr. art. 143, lett. a).
La soluzione non cambia –ma, anzi, ne esce confermata– ove si voglia inquadrare il provvedimento impugnato fra quelli adottati dal Genio civile ai sensi dell’art. 221 del R.D. 1775/1993 per ordinare la riduzione in pristino a seguito di contravvenzione alle norme del T.U. che abbia determinato l’alterazione dello stato delle cose. Ed infine, la giurisdizione del T.S.A.P. emerge anche sulla base di quanto prevede l’art. 2 del R.D. 523/1904 con riguardo al potere della PA di “(…) statuire e provvedere, anche in caso di contestazione, sulle opere di qualunque natura, (…), che possono aver relazione col buon regime delle acque pubbliche”.
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La giurisprudenza più recente avalla la sussistenza della giurisdizione del T.S.A.P. in casi come quello in esame, allorquando fa leva sui provvedimenti amministrativi che, sebbene non costituiscano esercizio di un potere propriamente attinente alla materia delle acque pubbliche, pure riguardino l'utilizzazione del demanio idrico, incidendo in maniera diretta e immediata sul regime delle acque (Cass., sez. un. 9149/2009, relativa a fattispecie in cui era stato impugnato il diniego di rilascio della concessione per la costruzione di un fabbricato sito nelle adiacenze del fiume Piave, in area da considerare esondabile).
Analogamente, in una vicenda ancora più simile a quella in esame, è stata ritenuta sussistente la giurisdizione del Tribunale Superiore delle acque pubbliche sulla “(…) controversia relativa al diniego di rilascio di concessione in sanatoria, opposto dall'autorità comunale in ragione dell'edificazione dell'immobile da condonare in violazione della fascia di rispetto di 10 metri dal piede dell'argine, ai sensi dell'art. 96, lett. f), del r.d. 25.07.1904, n. 523; detto provvedimento, infatti, ancorché emanato da un'autorità diversa da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, incide direttamente sul regolare regime delle acque pubbliche, la cui tutela ha carattere inderogabile in quanto informata alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali e il libero deflusso delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici”.

Il R.D. 1775/1933, recante Testo unico delle disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici, stabilisce le competenze giurisdizionali del Tribunale delle Acque Pubbliche.
In particolare, per l’art. 140 del suddetto T.U. “Appartengono in primo grado alla cognizione dei Tribunali delle acque pubbliche: a) le controversie intorno alla demanialità delle acque; b) le controversie circa i limiti dei corsi o bacini, loro alvei e sponde; c) le controversie, aventi ad oggetto qualunque diritto relativo alle derivazioni e utilizzazioni di acqua pubblica; d) le controversie di qualunque natura, riguardanti la occupazione totale o parziale, permanente o temporanea di fondi e le indennità previste dall'art. 46 della L. 25.06.1865, n. 2359, in conseguenza dell'esecuzione o manutenzione di opere idrauliche, di bonifica e derivazione utilizzazione delle acque. Per quanto riguarda la determinazione peritale dell'indennità prima dell'emissione del decreto della espropriazione resta fermo il disposto dell'art. 33 della presente legge; e) le controversie per risarcimenti di danni dipendenti da qualunque opera eseguita dalla pubblica amministrazione e da qualunque provvedimento emesso dall'autorità amministrativa a termini dell'art. 2 del T.U. 25.07.1904, n. 523 , modificato con l'art. 22 della L. 13.07.1911, n. 774; f) i ricorsi previsti dagli artt. 25 e 29 del testo unico delle leggi sulla pesca approvato con R.D. 08.10.1931, n. 1604;”, mentre per il successivo art. 143 “Appartengono alla cognizione diretta del Tribunale Superiore delle acque pubbliche: a) i ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere e per violazione di legge avverso i provvedimenti definitivi presi dall'amministrazione in materia di acque pubbliche; b) i ricorsi, anche per il merito, contro i provvedimenti definitivi dell'autorità amministrativa adottata ai sensi degli artt. 217 e 221 della presente legge; nonché contro i provvedimenti definitivi adottati dall'autorità amministrativa in materia di regime delle acque pubbliche ai sensi dell'art. 2 del testo unico delle leggi sulle opere idrauliche approvato con R.D. 25.07.1904, n. 523, modificato con l'art. 22 della L. 13.07.1911, n. 774, del R.D. 19.11.1921, n. 1688, e degli artt. 378 e 379 della L. 20.03.1865, n. 2248, all. F; c) i ricorsi la cui cognizione è attribuita al Tribunale superiore delle acque dalla presente legge e dagli artt. 23, 24, 26 e 28 del testo unico delle leggi sulla pesca, approvato con R.D. 08.10.1931, n. 1604 .(…)”.
La riportata normativa deve essere evidenziata nella parte in cui (art. 143, lett. a e b) conferisce giurisdizione al Tribunale Superiore delle acque pubbliche con riguardo ai provvedimenti definitivi presi dall'amministrazione in materia di acque pubbliche, ai provvedimenti definitivi dell'autorità amministrativa adottati ai sensi degli artt. 217 e 221 della legge; nonché ai provvedimenti definitivi adottati dall'autorità amministrativa in materia di regime delle acque pubbliche ai sensi dell'art. 2 del testo unico delle leggi sulle opere idrauliche approvato con R.D. 25.07.1904, n. 523.
Anche le ultime due richiamate normative devono essere allora esaminate, nelle parti rilevanti ai fini della questione posta:
A) l’art. 217 del T.U. 1775/1933 recita che “Salvo quanto dispone l'art. 49 della presente legge, sono opere ed atti che non si possono eseguire senza speciale autorizzazione del competente ufficio del Genio civile e sotto l'osservanza delle condizioni dal medesimo imposte: (…omissis…) h) le opere alle sponde dei pubblici corsi di acqua che possono alterare o modificare le condizioni delle derivazioni o della restituzione delle acque derivate”;
B) l’art. 221 del T.U. 1775/1933 prevede che “Per le contravvenzioni alle norme della presente legge, che alterano lo stato delle cose, è riservato all'ingegnere capo dell'ufficio dei Genio civile la facoltà di ordinare la riduzione al primitivo stato, dopo di aver riconosciuta la regolarità della denuncia. Nei casi di urgenza, l'ingegnere capo fa eseguire immediatamente di ufficio i lavori per il ripristino”;
C) il R.D. 523/1904, Testo unico delle disposizioni di legge intorno alle opere idrauliche delle diverse categorie, all’art. 2 stabilisce che “Spetta esclusivamente alla autorità amministrativa lo statuire e provvedere, anche in caso di contestazione, sulle opere di qualunque natura, e in generale sugli usi, atti o fatti, anche consuetudinari, che possono aver relazione col buon regime delle acque pubbliche, con la difesa e conservazione, con quello delle derivazioni legalmente stabilite, e con l'animazione dei molini ed opifici sovra le dette acque esistenti; e così pure sulle condizioni di regolarità dei ripari ed argini od altra opera qualunque fatta entro gli alvei e contro le sponde.”.
Alla luce dei richiamati referenti legislativi, allora, è possibile trarre le prime conclusioni.
Non sussiste, nel caso in esame, giurisdizione del Tribunale delle acque pubbliche, inteso quale organo specializzato della giurisdizione ordinaria (Cass., I, 8239/2002), giacché il suddetto giudice –ai sensi dell’art. 140 del R.D. 1775/1933– è competente a conoscere le questioni di diritti soggettivi inerenti la materia delle acque pubbliche (ad esempio, controversie sulla demanialità; sui limiti ed alvei dei corsi d’acqua; su diritti di uso e derivazione delle acque; sul risarcimento dei danni conseguenti alla esecuzione pubblica di opere idrauliche; ecc.). Nel caso a mani, invece, il ricorrente vanta una posizione di interesse legittimo teso a contestare l’esercizio del potere pubblicistico di repressione dell’attività edilizia svolta in prossimità, o in maniera potenzialmente pregiudizievole, rispetto alle acque pubbliche.
Astrattamente –in assenza di una norma specifica– si dovrebbe predicare in materia la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo, quale giudice degli interessi legittimi, in base al normale criterio di riparto della giurisdizione fissato nell’art. 2 della L. 2248/1865 all. E.
Ma, come detto, è stato istituito un giudice speciale in materia, da individuare per mezzo dell’art. 143 del R.D. 1775/1933, in combinato disposto con l’art. 221 e con l’art. 2 del R.D. 523/1904.
Alla luce di tali norme di legge –il cui testo è stato riportato sopra- si può affermare che la questione in esame rientri nella giurisdizione del Tribunale Superiore delle acque pubbliche ove si consideri che è stato impugnato per vizi tipici di legittimità dell’atto amministrativo un provvedimento definitivo adottato dall’amministrazione a tutela delle acque pubbliche, ed in particolare al fine di garantire l’intangibilità della fascia di rispetto del fiume normativamente individuata (cfr. art. 143, lett. a).
La soluzione non cambia –ma, anzi, ne esce confermata– ove si voglia inquadrare il provvedimento impugnato fra quelli adottati dal Genio civile ai sensi dell’art. 221 del R.D. 1775/1993 per ordinare la riduzione in pristino a seguito di contravvenzione alle norme del T.U. che abbia determinato l’alterazione dello stato delle cose. Ed infine, la giurisdizione del T.S.A.P. emerge anche sulla base di quanto prevede l’art. 2 del R.D. 523/1904 con riguardo al potere della PA di “(…) statuire e provvedere, anche in caso di contestazione, sulle opere di qualunque natura, (…), che possono aver relazione col buon regime delle acque pubbliche”.
E’ evidente che, nel caso trattato, la PA resistente abbia inteso adottare un provvedimento direttamente funzionale alla tutela del corso d’acqua pubblico, garantendo l’inedificabilità nella fascia di rispetto di dieci metri normativamente fissata dall’art. 96 del R.D. 523/1904.
La giurisprudenza più recente avalla la sussistenza della giurisdizione del T.S.A.P. in casi come quello in esame, allorquando fa leva sui provvedimenti amministrativi che, sebbene non costituiscano esercizio di un potere propriamente attinente alla materia delle acque pubbliche, pure riguardino l'utilizzazione del demanio idrico, incidendo in maniera diretta e immediata sul regime delle acque (Cass., sez. un. 9149/2009, relativa a fattispecie in cui era stato impugnato il diniego di rilascio della concessione per la costruzione di un fabbricato sito nelle adiacenze del fiume Piave, in area da considerare esondabile).
Analogamente, in una vicenda ancora più simile a quella in esame, è stata ritenuta sussistente la giurisdizione del Tribunale Superiore delle acque pubbliche sulla “(…) controversia relativa al diniego di rilascio di concessione in sanatoria, opposto dall'autorità comunale in ragione dell'edificazione dell'immobile da condonare in violazione della fascia di rispetto di dieci metri dal piede dell'argine, ai sensi dell'art. 96, lett. f), del r.d. 25.07.1904, n. 523; detto provvedimento, infatti, ancorché emanato da un'autorità diversa da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, incide direttamente sul regolare regime delle acque pubbliche, la cui tutela ha carattere inderogabile in quanto informata alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali e il libero deflusso delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici” (Cass., sez. un., 10845/2009).
D’altra parte, anche la giurisprudenza elaborata dal giudice amministrativo finisce col rafforzare la tesi qui propugnata, nel momento in cui ritiene sussistere la giurisdizione dei TT.AA.RR. nelle controversie che incidono solo in via “indiretta” e “mediata” sul regime delle acque pubbliche (si vedano, al riguardo le decisioni di Tar Liguria 406/2006; Tar Basilicata 993/2005; Tar Piemonte 2420/2005, riguardanti: a) le procedure pubbliche di selezione del concessionario per la gestione agricola di un’area di demanio fluviale; b) la demolizione di un impianto idroelettrico; c) l’occupazione per la realizzazione di un’opera pubblica che non incide sul regime delle acque).
E’ il caso di sottolineare il fatto che, per contro, la vicenda in esame -come già detto– investe in via diretta ed immediata la tutela delle acque pubbliche, sotto lo specifico aspetto della garanzia riservata a quel settore di territorio protetto definito “fascia di rispetto” e connotato da un regime di inedificabilità (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 30.12.2011 n. 3233 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Fascia di rispetto dell'argine trasversale di un fiume -Vincolo di inedificabilità - Art. 96, comma f), R.D. 25.07.1904 n. 523 e s.m.i. - Provvedimento inteso alla salvaguardia del vincolo - Giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche - Sussiste.
2. Fascia di rispetto dell'argine trasversale di un fiume -Vincolo di inedificabilità - Art. 96, comma f), R.D. 25.07.1904 n. 523 e s.m.i. - Rilevanza della conformazione del corpo superficiario - Non sussiste.

1. Compete al Tribunale superiore delle acque pubbliche e non agli organi ordinari della giustizia amministrativa la cognizione delle controversie aventi per oggetto la domanda di annullamento di provvedimenti adottati da un Comune per la salvaguardia del vincolo di inedificabilità assoluta della fascia di rispetto dell'argine trasversale di un fiume ex art. 96, comma f), R.D. 25.07.1904 n. 523 e s.m.i..
2. La disciplina delle acque pubbliche di cui all'art. 96, comma f), R.D. 25.07.1904 n. 523 e s.m.i., che impone un vincolo di inedificabilità entro la fascia di rispetto fluviale, ne impone inderogabilmente la tutela, senza che residuino margini per attribuire rilievo alla conformazione del corpo superficiario (e, quindi, al fatto che esso si presenti con argini o sponde, con tombinatura o senza), atteso che, per il rispetto della fascia, è vietata qualsiasi costruzione e, persino, qualunque deposito di terre o di altre materie, a distanza di metri dieci dal corso d'acqua (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 06.10.2011 n. 2378 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACompete al Tribunale superiore delle acque pubbliche (TSAP) e non agli organi ordinari della giustizia amministrativa (TAR) la cognizione delle controversie aventi per oggetto la domanda di annullamento di provvedimenti adottati da un comune e da una provincia per la salvaguardia del vincolo di inedificabilità della fascia di rispetto dell'argine trasversale di un fiume.
Osserva, al riguardo, il Collegio come l’odierno giudizio verta sull’impugnazione di un diniego di condono, adottato dal Comune di Rho sull’imprescindibile presupposto che: <<l’autorimessa è collocata sul confine del torrente Lura e, pertanto, in contrasto con le prescrizioni indicate nell’art. 96, comma f), del R.D. 25.07.1904 n. 523 e s.m.i. che vietano in modo assoluto le costruzioni a distanza dai corsi d’acqua minore di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località e, in mancanza di tali discipline, a metri dieci>>.
In tali evenienze, come correttamente osservato dalla difesa resistente, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno, anche recentemente, ribadito che: "Compete al Tribunale superiore delle acque pubbliche e non agli organi ordinari della giustizia amministrativa la cognizione delle controversie aventi per oggetto la domanda di annullamento di provvedimenti adottati da un comune e da una provincia per la salvaguardia del vincolo di inedificabilità della fascia di rispetto dell'argine trasversale di un fiume" (così, Cassazione civile, sez. un., 15.06.2009, n. 13898; id. 12.05.2009, n. 10845; 20.11.2008, n. 27528).
Nella specie, non può essere revocato in dubbio che il provvedimento impugnato è stato motivato in ragione dell’ubicazione dell’autorimessa, realizzata al confine del muro di sostegno del torrente Lura e, dunque, all’interno della fascia di 4 metri dall’alveo del torrente, su cui insiste il vincolo di inedificabilità assoluta, ai sensi dell’art. 96, lett. f) cit., come integrato dall’art. 82 del cit. reg. edilizio comunale.
Né può assumere rilievo, onde scalfire il profilo di interferenza, almeno astrattamente ipotizzabile, tra siffatto abuso edilizio e il regime delle acque pubbliche, la presenza -nel tratto di torrente qui considerato- di una tombinatura, trattandosi di opera a carattere non definitivo, comunque inidonea ad elidere le ragioni di fondo del vincolo di inedificabilità di cui al citato art. 96.
Si tratta, infatti, di una disciplina delle acque pubbliche che ne impone inderogabilmente la tutela, senza che residuino margini per attribuire rilievo alla conformazione del corpo superficiario (e, quindi, al fatto che esso si presenti con argini o sponde, con tombinatura o senza), atteso che, per il rispetto della predetta fascia, è vietata qualsiasi costruzione e, persino, qualunque deposito di terre o di altre materie, a distanza di metri dieci dal corso d’acqua (cfr. in tal senso, Cass. I, 22.04.2005, n. 8536, nonché, Cass. Sezioni Unite nn. 12271/2004; 19813/2008; analogamente Cons. Stato, IV 23.07.2009 n. 4663).
Sussiste, pertanto, l’eccepito profilo di inammissibilità del ricorso, con conseguente difetto di giurisdizione del giudice adito, trattandosi di questioni rientranti nella giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche (T.S.A.P.), come prevista dall’art. 143 del R.D. n. 1775/1933 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 06.10.2011 n. 2378 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl provvedimento di demolizione dell'abuso edilizio realizzato nella fascia di rispetto di 10 mt. del corso d'acqua demaniale va impugnato innanzi al Tribunale superiore delle acque pubbliche e non dinanzi al Tar.
La giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche, prevista dall'art. 143, comma 1, lett. a), del R.D. n. 1775/1933, ha per oggetto i ricorsi avverso provvedimenti amministrativi che siano caratterizzati dall'incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche: cosicché rientra nella sua giurisdizione la controversia «relativa al diniego di rilascio di concessione in sanatoria, opposto dall'autorità comunale in ragione dell'edificazione dell'immobile da condonare in violazione della fascia di rispetto di dieci metri dal piede dell'argine, ai sensi dell'art. 96, lett. f), r.d. 25.07.1904 n. 523; detto provvedimento, infatti, ancorché emanato da un'autorità diversa da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, incide direttamente sul regolare regime delle acque pubbliche, la cui tutela ha carattere inderogabile in quanto informata alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali e il libero deflusso delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici»

Sull'annullamento del provvedimento del 24.05.2011 prot. n. 4647, avente ad oggetto “Ordinanza n. 2 del 24.05.2011”, con la quale il Comune di San Pietro in Gu - Area Tecnica e Tecnico Manutentiva, Servizi per il Territorio, Ambiente e Lavori Pubblici, in persona del Responsabile del Procedimento, ha rigettato la richiesta di concessione edilizia in sanatoria ed ordinato la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi.
...
Come già affermato da questa stessa Sezione in alcune recenti sentenze (cfr. Tar Veneto, II, 03.01.2011, n. 3; Tar Veneto, II, 01.02.2011, n. 184) e ribadito anche dal Consiglio di Stato (cfr. Cons. Stato, VI, 09.05.2011, n. 2745), il provvedimento di demolizione de quo è -per l'iter procedimentale da cui è scaturito- chiaramente posto a tutela della fascia d'inedificabilità latistante un corso d'acqua demaniale: esso andava pertanto impugnato innanzi al Tribunale superiore delle acque pubbliche.
Invero, la giurisdizione di quest’ultimo Tribunale, prevista dall'art. 143, comma 1, lett. a), del R.D. n. 1775/1933, ha per oggetto i ricorsi avverso provvedimenti amministrativi che siano caratterizzati dall'incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche: cosicché rientra nella sua giurisdizione la controversia -intuitivamente affine a quella in esame- «relativa al diniego di rilascio di concessione in sanatoria, opposto dall'autorità comunale in ragione dell'edificazione dell'immobile da condonare in violazione della fascia di rispetto di dieci metri dal piede dell'argine, ai sensi dell'art. 96, lett. f), r.d. 25.07.1904 n. 523; detto provvedimento, infatti, ancorché emanato da un'autorità diversa da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, incide direttamente sul regolare regime delle acque pubbliche, la cui tutela ha carattere inderogabile in quanto informata alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali e il libero deflusso delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici» (Cass., S.U., 12.05.2009, n. 10845).
Va, pertanto, dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice adito, indicando nel Tribunale superiore delle acque pubbliche quello che ne è fornito, anche ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 11 c.p.a. (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 06.10.2011 n. 1488 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer “linea di battigia” deve intendersi la linea di contatto tra mare e terraferma e che la misurazione debba essere eseguita in orizzontale.
La distanza va quindi misurata tenendo conto dell’unica linea retta che congiunge l’immobile (od anche soltanto lo spigolo dello stesso) al punto più vicino in cui la terraferma entra in contatto con il mare.

Per quel che concerne il criterio da adottare ai fini della corretta misurazione della distanza intercorrente tra il punto della battigia più vicino all’edificio, oggetto di istanza di rilascio di concessione edilizia in sanatoria, e l’edificio stesso, il Collegio ritiene, sulla base di costante giurisprudenza, anche di questo C.G.A., che per “linea di battigia” debba intendersi la linea di contatto tra mare e terraferma e che la misurazione debba essere eseguita in orizzontale (cfr. decisione n. 617/2001).
La distanza va quindi misurata tenendo conto dell’unica linea retta che congiunge l’immobile (od anche soltanto lo spigolo dello stesso) al punto più vicino in cui la terraferma entra in contatto con il mare
(CGARS, sentenza 27.09.2011 n. 607 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: ACQUA E CORSI D’ACQUA - Argini - Divieto di costruzione ex art. 96, lett. f), T.U. n. 523/1904 - Carattere legale, assoluto e inderogabile - Normativa locale - Deroga di carattere eccezionale - Limiti.
Il divieto di costruzione di opere dagli argini dei corsi d'acqua, previsto dall'art. 96, lett. f), t.u. 25.07.1904 n. 523, ha carattere legale, assoluto e inderogabile, ed è diretto al fine di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque (cfr. Cassazione civile, sez. un., 30.07.2009, n. 17784); esso è cioè teso a garantire le normali operazioni di ripulitura/manutenzione e a impedire le esondazioni delle acque.
La deroga contenuta nella lettera F del citato art. 96, per cui la distanza minima si applica in mancanza di “discipline vigenti nelle diverse località” è quindi di carattere eccezionale e ciò significa che la normativa locale (espressa anche mediante uno strumento urbanistico), per prevalere sulla norma generale, deve avere carattere specifico (cfr. Cassazione civile, sez. un., 18.07.2008, n. 19813).
Di conseguenza, solo se lo scopo dell'attività costruttiva lungo il corso d'acqua è quello specifico di salvaguardarne il regime idraulico la disciplina locale assume valenza derogatoria della norma statale, in quanto meglio ne attua l'interesse pubblico perseguito (cfr. TAR Lombardia-Brescia, sentenza 13.06.2007 n. 540); ne deriva che nessuna opera realizzata in violazione della norma de qua può essere sanata e che è legittimo il diniego di rilascio di concessione edilizia in sanatoria relativamente ad un fabbricato realizzato all'interno della c.d. fascia di servitù idraulica (art. 33 l. 28.02.1985 n. 47) (da ultimo: TAR Roma-Latina, Sez. I, sentenza 15.12.2010 n. 1981) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 01.08.2011 n. 1231 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: ACQUA E CORSI D’ACQUA - Fascia di rispetto dagli argini - Art. 96, lett. f), R.D. n. 523/1904 - Regolamenti comunali - Tolleranza verso abusi edilizi - Conferimento di diritti edificatori - Esclusione.
I regolamenti comunali (o le linee-guida regionali) possano disciplinare diversamente la fascia di rispetto dagli argini prevista dall’art. 96, lett. f), del RD 523/1904 solo sulla base di un esame dettagliato della condizione dei luoghi, così da garantire in misura equivalente gli interessi pubblici (idraulici e ambientali) coinvolti (v. TAR Brescia, Sez. I, 26.02.2010 n. 986; TAR Brescia, Sez. I, 26.06.2007 n. 578).
In questo quadro la tolleranza mantenuta in passato verso certe tipologie di edificazione non acquista lo status di elemento normativo e non può costituire un presupposto idoneo per conferire ulteriori diritti edificatori (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 01.08.2011 n. 1228 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il divieto di costruzione di opere sugli argini dei corsi d'acqua ha carattere inderogabile.
In linea generale il divieto di costruzione di opere dagli argini dei corsi d'acqua, previsto dall'art. 96, lett. f), t.u. 25.07.1904 n. 523, ha carattere legale ed è inderogabile, ed è diretto al fine di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici (cfr. Cassazione civile, sez. un., 30.07.2009, n. 17784).
Il divieto sancito dall'art. 96, lett. f), cit., e dalla successiva lett. g), estende –con carattere di assoluta inderogabilità- il divieto a qualunque manufatto o volume collocato a meno di dieci metri dalla sponda del fiume, per cui nessuna opera realizzata in violazione di tali norme può sanata.
Una volta che un corso d’acqua è stato costitutivamente inserito negli elenchi, la successiva comunicazione del Magistrato delle Acque è meramente ricognitiva della sussistenza di un preesistente vincolo all’edificazione, di carattere assoluto ed inderogabile, e comunque va autonomamente impugnato presso il competente Tribunale delle Acque.
In difetto, nell'ipotesi di costruzione abusiva realizzata in contrasto con il divieto di cui all'art. 96, lett. f), r.d. 25.07.1904 n. 523, trova infatti applicazione l'art. 33 l. 28.02.1985 n. 47 sul condono edilizio, il quale ricomprende, nei vincoli di inedificabilità, tutti i casi in cui le norme vietino in modo assoluto di edificare in determinate aree (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 26.03.2009, n. 1814; Consiglio Stato, sez. IV, 23.07.2009, n. 4663).
Nel caso di specie l’autorimessa era stata realizzato all'interno della c.d. fascia di servitù idraulica, per cui il diniego di rilascio di concessione edilizia in sanatoria è conseguentemente legittimo (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.06.2011 n. 3781 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl divieto di costruzione di opere ad una determinata distanza dagli argini dei corsi d'acqua, previsto dall'art. 96, lett. f), t.u. 25.07.1904, n. 523, ha carattere assoluto ed inderogabile, in quanto teso a consentire le normali operazioni di ripulitura e di manutenzione, e di impedire le esondazioni delle acque.
Occorre ricordare che il divieto di costruzione di opere ad una determinata distanza dagli argini dei corsi d'acqua, previsto dall'art. 96, lett. f), t.u. 25.07.1904, n. 523, abbia carattere assoluto ed inderogabile, in quanto teso a consentire le normali operazioni di ripulitura e di manutenzione, e di impedire le esondazioni delle acque (Cassazione civile, sez. I, 22.04.2005, n. 8536; Consiglio di Stato, sez. IV, 23.07.2009, n. 4663; Consiglio di Stato, sez. V, 26.03.2009, n. 1814).
La deroga contenuta nella lettera F del citato art. 96, per cui la distanza minima si applica in mancanza di “discipline vigenti nelle diverse località” è quindi di carattere eccezionale. Come è stato chiarito dalla giurisprudenza della Suprema corte, “ciò significa che la normativa locale, per prevalere sulla norma generale, deve avere carattere specifico, ossia essere una normativa espressamente dedicata alla regolamentazione della tutela delle acque e alla distanza dagli argini delle costruzioni, che tenga esplicitamente conto della regola generale espressa dalla normativa statale e delle peculiari condizioni delle acque e degli argini che la norma locale prende in considerazione al fine di stabilirvi l'eventuale deroga.
Nulla vieta che la norma locale sia espressa anche mediante l'utilizzo di uno strumento urbanistico, come può essere il piano regolatore generale, ma occorre che tale strumento contenga una norma esplicitamente dedicata alla regolamentazione delle distanze delle costruzioni dagli argini anche in eventuale deroga al R.D. 25.07.1904, n. 523, art. 96, lett. f), in relazione alla specifica condizione locale delle acque di cui trattasi
” (Cassazione civile, sez. un., 18.07.2008, n. 19813) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 29.04.2011 n. 2544 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: ACQUA - Art. 133 r.d. 368/1904 - Distanze dal piede esterno e interno degli argini - Divieto di piantagione di alberi di edificazione e di movimento del terreno - Corsi d’acqua tombinati - Applicabilità del divieto - Fondamento.
Il divieto di piantagione di alberi, di edificazioni o fabbriche e di movimento del terreno del piede esterno e interno degli argini ad una certa distanza dal corso d’acqua (che per i manufatti è da 4 a 10 metri “secondo l’importanza del corso d’acqua” medesimo) vale non solo per i corsi d’acqua superficiali, ma anche per le altre opere di bonificazione (primo comma dell’art. 133 del r.d. 08.05.1904, n. 368), tra le quali va certamente compresa anche la tombinatura che non può dirsi come tale opera definitiva, essendo possibile riportare in qualunque momento il corso d’acqua allo stato precedente.
In definitiva, il rispetto delle distanze deve ritenersi inderogabile anche per i corsi d’acqua tombinati, al fine di consentire uno spazio di manovra nel caso di necessità di porre in essere attività di manutenzione delle condutture (Cons. Stato, Sez. IV, 23.07.2009, n. 4663) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 26.04.2011 n. 698 - link a www.ambientediritto.it).

anno 2010

EDILIZIA PRIVATAE' legittimo il diniego di rilascio di concessione edilizia in sanatoria relativamente ad un fabbricato realizzato all'interno della c.d. fascia di servitù idraulica atteso che il divieto di costruzione ad una certa distanza dagli argini dei corsi d'acqua demaniali, imposto dall'art. 96, lett. f), r.d. 25.07.1904 n. 523, ha carattere assoluto ed inderogabile; pertanto, nell'ipotesi di costruzione abusiva realizzata in contrasto con tale divieto trova applicazione l'art. 33 l. 28.02.1985 n. 47 sul condono edilizio, il quale contempla i vincoli di inedificabilità, includendo in tale ambito i casi in cui le norme vietino in modo assoluto di edificare in determinate aree.
La giurisprudenza ha affermato che “è legittimo il diniego di rilascio di concessione edilizia in sanatoria relativamente ad un fabbricato realizzato all'interno della c.d. fascia di servitù idraulica atteso che il divieto di costruzione ad una certa distanza dagli argini dei corsi d'acqua demaniali, imposto dall'art. 96, lett. f), r.d. 25.07.1904 n. 523, ha carattere assoluto ed inderogabile; pertanto, nell'ipotesi di costruzione abusiva realizzata in contrasto con tale divieto trova applicazione l'art. 33 l. 28.02.1985 n. 47 sul condono edilizio, il quale contempla i vincoli di inedificabilità, includendo in tale ambito i casi in cui le norme vietino in modo assoluto di edificare in determinate aree” (Consiglio Stato, sez. V, 26.03.2009, n. 1814)
(TAR Roma-Latina, Sez. I, sentenza 15.12.2010 n. 1981 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, 2° suppl. straord. al n. 44 del 04.11.2010, "Modifica delle dd.g.r. nn. 7868/2002, 13950/2003, 8943/2007 e 8127/2008, in materia di canoni demaniali di polizia idraulica" (deliberazione G.R. 26.10.2010 713).

EDILIZIA PRIVATAIntendendosi per «sponda» il confine naturale dell’ordinaria portata dell’acqua nelle sue variazioni stagionali e per «argini» le barriere esterne, per lo più artificiali, erette a ulteriore difesa del territorio per il caso di piene eccezionali, l’esigenza di evitare soluzioni del tutto arbitrarie impone di assegnare ai due termini un significato equivalente e quindi di assumere a riferimento principale la «sponda» e la funzione a questa connessa, con la conseguenza che la fascia di protezione di 150 metri va misurata dal limite di piena ordinaria del corso d’acqua, sia esso coincidente con il ciglio di sponda sia esso coincidente con il piede esterno dell’argine, mentre restano a tal fine estranee le barriere protettive preordinate a contrastare le piene straordinarie.
Appare necessario definire la portata dell’art. 142, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 42 del 2004, che sottopone a vincolo paesaggistico “…i fiumi, i torrenti, i corsi d’acqua iscritti negli elenchi previsti dal testo unico delle disposizioni di legge sulle acque ed impianti elettrici, approvato con regio decreto 11 dicembre 1933, n. 1775, e le relative sponde o piedi degli argini per una fascia di 150 metri ciascuna …”.
La giurisprudenza ha chiarito che, intendendosi per «sponda» il confine naturale dell’ordinaria portata dell’acqua nelle sue variazioni stagionali e per «argini» le barriere esterne, per lo più artificiali, erette a ulteriore difesa del territorio per il caso di piene eccezionali, l’esigenza di evitare soluzioni del tutto arbitrarie impone di assegnare ai due termini un significato equivalente e quindi di assumere a riferimento principale la «sponda» e la funzione a questa connessa, con la conseguenza che la fascia di protezione di 150 metri va misurata dal limite di piena ordinaria del corso d’acqua, sia esso coincidente con il ciglio di sponda sia esso coincidente con il piede esterno dell’argine, mentre restano a tal fine estranee le barriere protettive preordinate a contrastare le piene straordinarie (v. TAR Friuli Venezia Giulia 10.05.2007 n. 339).
Si tratta di orientamento conforme ad un consolidato indirizzo del giudice ordinario, formatosi in relazione alle corrispondenti norme contenute nell’art. 1 del decreto-legge n. 312 del 1985 (integrativo dell’art. 82 del d.P.R. n. 616/1977) e nell’art. 146 del d.lgs. n. 490 del 1999, orientamento da cui il Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi.
Va solo aggiunto che, per trattarsi di un vincolo paesaggistico ex lege, eventuali criteri diversi (da quello della c.d. “piena ordinaria”) contenuti in norme secondarie –quale il «piano territoriale di coordinamento provinciale» richiamato nella circostanza dall’Amministrazione comunale– cedono di fronte alla disciplina di rango primario, che prevale sulle altre previa loro disapplicazione da parte del giudice chiamato a risolvere la controversia
(TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 15.09.2010 n. 435 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl divieto di costruzione di opere ad una determinata distanza dagli argini dei corsi d’acqua, previsto dall’art. 96, lett. f), t.u. 25.07.1904, n. 523, è inderogabile (…).
In tema di tutela dei corpi idrici superficiali, l’art. 133 r.d. n. 368 del 1904, che impone una fascia di rispetto lungo i canali, comprende il divieto di qualunque costruzione, allo scopo di consentire le normali operazioni di ripulitura e di manutenzione, e di impedire le esondazioni delle acque.
Tale previsione è ampia e generale (…) e non consente neppure di dare rilievo alla conformazione del corpo superficiario, e cioè al fatto che esso si presenti con argini o sponde, atteso che, per il rispetto della fascia considerata, è vietata qualsiasi costruzione e persino qualunque deposito di terre o di altre materie, a distanza di metri dieci dal corso d’acqua
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Il divieto di costruzione di opere ad una determinata distanza dagli argini dei corsi d’acqua, previsto dall’art. 96, lett. f), t.u. 25.07.1904, n. 523, è inderogabile (…).
In tema di tutela dei corpi idrici superficiali, l’art. 133 r.d. n. 368 del 1904, che impone una fascia di rispetto lungo i canali, comprende il divieto di qualunque costruzione, allo scopo di consentire le normali operazioni di ripulitura e di manutenzione, e di impedire le esondazioni delle acque.
Tale previsione è ampia e generale (…) e non consente neppure di dare rilievo alla conformazione del corpo superficiario, e cioè al fatto che esso si presenti con argini o sponde, atteso che, per il rispetto della fascia considerata, è vietata qualsiasi costruzione e persino qualunque deposito di terre o di altre materie, a distanza di metri dieci dal corso d’acqua
” (Consiglio di Stato, IV, 23.07.2009, n. 4663)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 10.09.2010 n. 5656 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ampliamento di un immobile sito in prossimità di un corso d’acqua.
E’ chiesto parere in merito all’assentibilità di intervento edilizio consistente nell’ampliamento di un immobile preesistente a distanza inferiore a 100 metri da un corso d’acqua (Regione Piemonte, parere n. 40/2010 - link a www.regione.piemonte.it).

EDILIZIA PRIVATA: Certamente non si può sostenere che il vincolo idraulico ex art. 96, lett. f), del RD 523/1904 sia derogabile semplicemente per effetto degli usi locali.
La norma ha, al contrario, la finalità di interrompere la pericolosa tendenza a occupare gli spazi prossimi al reticolo idrico, sia a tutela del regolare scorrimento delle acque sia in funzione preventiva rispetto ai rischi per le persone e le cose che potrebbero derivare dalle esondazioni.
La natura degli interessi pubblici tutelati fa ritenere che il vincolo operi con un effetto conformativo particolarmente ampio determinando l’inedificabilità assoluta della fascia di rispetto.
Sfuggono a questa regola solo le costruzioni che abbiano un’oggettiva funzione ambientale di filtro per i solidi sospesi e gli inquinanti, di stabilizzazione delle sponde e di conservazione della biodiversità.

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Nel caso in esame tuttavia non possono essere trascurate le conseguenze derivanti dal rilascio della licenza edilizia e dal decorso del tempo.
In particolare il titolo edilizio, benché illegittimo per contrasto con il preesistente vincolo idraulico, cambia la situazione giuridica dell’immobile, in quanto elimina la presenza formale dell’abuso.
Il carattere abusivo si concentra quindi sugli interventi di ristrutturazione e ampliamento. Occorre peraltro precisare che le innovazioni non hanno condotto a un organismo edilizio radicalmente diverso, e dunque non vi è stata alcuna soluzione di continuità rispetto al rustico originario.
In tale contesto risulta possibile superare la questione dell’inderogabilità del vincolo idraulico: essendovi un radicato affidamento circa la collocazione dell’immobile all’interno della fascia di rispetto (per via della licenza edilizia e del tempo trascorso) la medesima aspettativa si estende alle opere successive, che possono essere intese come interventi pertinenziali.
Questa soluzione è coerente con alcune indicazioni provenienti sia dalla disciplina speciale sul condono sia dai principi in materia di abusi edilizi.
Da un lato l’art. 32, comma 5, della legge 47/1985 ammette il condono degli abusi sulle aree demaniali estendendo la sanatoria alle “pertinenze strettamente necessarie”. In questo modo viene evidenziato il favore legislativo per una soluzione unitaria che eviti la coesistenza nello stesso immobile di situazioni sanabili e altre insanabili. Il carattere positivo di questa regola e le esigenze di razionalizzazione urbanistica che ne sono alla base permettono di utilizzare la norma anche al di fuori del caso specifico.
Dall’altro lato l’art. 11 della legge 47/1985 (v. ora l’art. 38 del DPR 06.06.2001 n. 380) prevede che nell’ipotesi di annullamento del titolo edilizio la remissione in pristino di quanto edificato sulla base del suddetto titolo possa essere motivatamente sostituita da una sanzione pecuniaria con effetto sanante.
Il caso in esame può essere confrontato con questa fattispecie. In effetti se un fabbricato (previa valutazione dell’interesse pubblico) può evitare la demolizione nonostante l’annullamento del relativo titolo edilizio, non vi sono motivi per negare il condono a un edificio che sia in parte conforme a un titolo edilizio illegittimo ma ancora efficace, qualora in un lungo periodo di tempo non sia stato individuato alcun interesse pubblico all’annullamento di tale titolo.
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... per l'annullamento:
   - del provvedimento del responsabile dell’Area Gestione Territorio prot. n. 8854 del 21.07.1998, con il quale è stato comunicato il pronunciamento sfavorevole sulla richiesta di condono edilizio;
   - dell’ordinanza del responsabile del Settore Lavori Pubblici n. 1130 del 12.09.1998, con la quale è stata ingiunta la demolizione delle opere abusive;
   - del parere negativo espresso dal responsabile del Servizio Provinciale Genio Civile della Regione in data 06.04.1995;
...
1. Il ricorrente Ed.Cr. è proprietario per successione ereditaria dal padre Do.Cr. di un rustico realizzato da quest’ultimo nel 1962 nella frazione Corti S. Rocco del Comune di Costa Volpino. L’edificio si trova a meno di 10 metri dall’argine del torrente Supine e quindi rientra nella fascia sottoposta al vincolo di inedificabilità di cui all’art. 96, lett. f), del RD 25.07.1904 n. 523.
2. La costruzione dell’edificio era stata assentita mediante licenza edilizia. Il documento non è stato prodotto in giudizio in quanto il ricorrente non ne è mai venuto in possesso.
L’esistenza del titolo edilizio può tuttavia desumersi dai seguenti elementi: (a) progetto del geom. Ma.Zu. del 03.11.1962; (b) verbale della riunione della commissione edilizia del 12.12.1962, che al punto 2 approva il progetto del rustico presentato da Donato Cretti; (c) nulla-osta agli effetti tributari rilasciato il 16.11.1962 dall’Ufficio Imposte di Consumo di Costa Volpino per l’inizio dei lavori edilizi (v. art. 39 del RD 14.09.1931 n. 1175).
3. Nel 1964-1965 il ricorrente ha eseguito abusivamente dei lavori interni ed esterni trasformando il rustico in edificio residenziale. In data 30.05.1986 il ricorrente ha poi presentato domanda di condono ai sensi degli art. 31-44 della legge 28.02.1985 n. 47. Non avendo all’epoca la materiale disponibilità dei documenti indicati sopra al punto 2 il ricorrente ha chiesto il condono sia con riferimento alla costruzione del rustico sia relativamente alla trasformazione dello stesso in edificio residenziale (nella domanda si afferma che il fabbricato era stato costruito in assenza di licenza edilizia). Peraltro una volta acquisita la suddetta documentazione, nel luglio 1998, il ricorrente ha avvertito (ma solo verbalmente) l’ufficio tecnico comunale.
4. In considerazione del vincolo idraulico il Comune ha interpellato il Servizio Provinciale Genio Civile della Regione, che mediante parere del responsabile della struttura del 06.04.1995 si è espresso negativamente circa la possibilità di condono. La motivazione è che, non essendo l’edificio assentibile fin dall’inizio, non sarebbe possibile neppure l’applicazione della normativa sul condono, tenuto conto dei limiti imposti dagli art. 32 e 33 della legge 47/1985.
Sulla base di questo parere la commissione edilizia ha escluso il riconoscimento del condono, e il responsabile dell’Area Gestione Territorio con nota del 21.07.1998 ha dato rilievo esterno a tale posizione decretando così la reiezione della domanda del ricorrente. A questo ha fatto seguito l’ordinanza del responsabile del Settore Lavori Pubblici del 12.09.1998, con la quale è stata ingiunta la demolizione delle opere abusive.
5. Contro i suddetti provvedimenti il ricorrente ha presentato impugnazione con atto notificato il 13.11.1998 e depositato il 04.12.1998. Le censure contengono plurimi profili che possono essere sintetizzati nei seguenti vizi: (i) travisamento dei fatti (non avendo l’amministrazione tenuto conto della licenza edilizia e del tempo trascorso); (ii) erronea applicazione dell’art. 96, lett. f), del RD 523/1904 (che potrebbe essere derogato quando, come avviene nel Comune di Costa Volpino, vi sia un’antica consuetudine locale relativa all’edificazione in prossimità dei torrenti).
Il Comune e la Regione non si sono costituiti in giudizio.
6. Gli argomenti proposti nel ricorso sono condivisibili solo in parte, ma in misura sufficiente a giungere a una sentenza di accoglimento.
Certamente non si può sostenere che il vincolo idraulico ex art. 96, lett. f), del RD 523/1904 sia derogabile semplicemente per effetto degli usi locali. La norma ha al contrario la finalità di interrompere la pericolosa tendenza a occupare gli spazi prossimi al reticolo idrico, sia a tutela del regolare scorrimento delle acque sia in funzione preventiva rispetto ai rischi per le persone e le cose che potrebbero derivare dalle esondazioni. La natura degli interessi pubblici tutelati fa ritenere che il vincolo operi con un effetto conformativo particolarmente ampio determinando l’inedificabilità assoluta della fascia di rispetto (v. CS Sez. V 26.03.2009 n. 1814).
Sfuggono a questa regola solo le costruzioni che abbiano un’oggettiva funzione ambientale di filtro per i solidi sospesi e gli inquinanti, di stabilizzazione delle sponde e di conservazione della biodiversità (v. art. 115 del Dlgs. 03.04.2006 n. 152).
7. Nel caso in esame tuttavia non possono essere trascurate le conseguenze derivanti dal rilascio della licenza edilizia (v. sopra al punto 2) e dal decorso del tempo. In particolare il titolo edilizio, benché illegittimo per contrasto con il preesistente vincolo idraulico, cambia la situazione giuridica dell’immobile, in quanto elimina la presenza formale dell’abuso, almeno in relazione al rustico originario.
Il carattere abusivo si concentra quindi sugli interventi di ristrutturazione e ampliamento (quest’ultimo emerge confrontando il progetto iniziale con quello allegato alla domanda di condono). Occorre peraltro precisare che le innovazioni non hanno condotto a un organismo edilizio radicalmente diverso, e dunque non vi è stata alcuna soluzione di continuità rispetto al rustico originario.
8. In tale contesto risulta possibile superare la questione dell’inderogabilità del vincolo idraulico: essendovi un radicato affidamento circa la collocazione dell’immobile all’interno della fascia di rispetto (per via della licenza edilizia e del tempo trascorso) la medesima aspettativa si estende alle opere successive, che possono essere intese come interventi pertinenziali.
Questa soluzione è coerente con alcune indicazioni provenienti sia dalla disciplina speciale sul condono sia dai principi in materia di abusi edilizi.
Da un lato
l’art. 32, comma 5, della legge 47/1985 ammette il condono degli abusi sulle aree demaniali estendendo la sanatoria alle “pertinenze strettamente necessarie”. In questo modo viene evidenziato il favore legislativo per una soluzione unitaria che eviti la coesistenza nello stesso immobile di situazioni sanabili e altre insanabili. Il carattere positivo di questa regola e le esigenze di razionalizzazione urbanistica che ne sono alla base permettono di utilizzare la norma anche al di fuori del caso specifico.
Dall’altro lato
l’art. 11 della legge 47/1985 (v. ora l’art. 38 del DPR 06.06.2001 n. 380) prevede che nell’ipotesi di annullamento del titolo edilizio la remissione in pristino di quanto edificato sulla base del suddetto titolo possa essere motivatamente sostituita da una sanzione pecuniaria con effetto sanante.
Il caso in esame può essere confrontato con questa fattispecie. In effetti se un fabbricato (previa valutazione dell’interesse pubblico) può evitare la demolizione nonostante l’annullamento del relativo titolo edilizio, non vi sono motivi per negare il condono a un edificio che sia in parte conforme a un titolo edilizio illegittimo ma ancora efficace, qualora in un lungo periodo di tempo non sia stato individuato alcun interesse pubblico all’annullamento di tale titolo.
9. Il ricorso deve quindi essere accolto con il conseguente annullamento degli atti impugnati. Occorre precisare che la possibilità di applicare la sanatoria edilizia non attenua i poteri di polizia idraulica dell’amministrazione a tutela del reticolo idrico, compresa la facoltà di imporre interventi di sistemazione dell’edificio e dell’area circostante.
In considerazione dell’originaria formulazione della domanda di condono, che faceva riferimento a un abuso integrale indirizzando in questo senso le valutazioni del Comune, è possibile disporre la compensazione delle spese tra le parti (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 26.02.2010 n. 986 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Abuso edilizio - Vincolo Idraulico - Titolo edilizio illegittimo efficace - Decorso del tempo - Affidamento - opere successive pertinenziali - Condono edilizio - Sussiste.
2. Abuso edilizio - Titolo edilizio illegittimo - Decorso del tempo - Affidamento - Condono edilizio - Sussiste.

1. Benché il vincolo idraulico ex art. 96, lett. f), del RD 523/1904 non sia derogabile semplicemente per effetto degli usi locali, è possibile superarne l'inderogabilità in ipotesi di radicato affidamento circa la collocazione di immobile all'interno della fascia di rispetto (per licenza edilizia illegittima ma ancora efficace e tempo trascorso) ed in tal caso la medesima aspettativa può estendersi alle opere successive, se intese come interventi pertinenziali.
2. Se un fabbricato (previa valutazione dell'interesse pubblico) può evitare la demolizione nonostante l'annullamento del relativo titolo edilizio, non vi sono motivi per negare il condono a un edificio che sia in parte conforme a un titolo edilizio illegittimo ma ancora efficace, qualora in un lungo periodo di tempo non sia stato individuato alcun interesse pubblico all'annullamento di tale titolo (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 26.02.2010 n. 986 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2008

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, 2° suppl. straord. al n. 42 del 16.10.2008, "Modifica del reticolo idrico principale determinato con la d.g.r. 7868/2002" (deliberazione G.R. 01.10.2008 n. 8127).

EDILIZIA PRIVATA: ACQUA - BENI CULTURALI E AMBIENTALI - Art. 142 d.lgs. n. 42/2004 - Fiumi, torrenti e corsi d’acqua - Vincolo paesaggistico - Fiumi e torrenti - Imposizione del vincolo ex lege - Iscrizione negli elenchi delle acque pubbliche - Necessità per i soli corsi d’acqua diversi da fiumi e torrenti.
L’art. 142 del D.Lgs. n. 42 del 2004, nella parte in cui dispone che “sono comunque di interesse paesaggistico e sono sottoposti alle disposizioni di questo titolo ... i fiumi, i torrenti, i corsi d’acqua iscritti negli elenchi previsti dal … regio decreto 11.12.1933, n. 1775, e le relative sponde o piedi degli argini per una fascia di 150 metri” va interpretato nel senso che solo per le acque fluenti di minori dimensioni ed importanza, vale a dire per i corsi d’acqua che non sono né fiumi né torrenti, si impone, ai fini della loro rilevanza paesaggistica, la iscrizione negli elenchi delle acque pubbliche.
Quanto ai fiumi e torrenti, il requisito della pubblicità esiste di per sé (ex art. 822 c.c.) ed anche il vincolo paesaggistico è imposto ex lege senza necessità di iscrizione negli elenchi. Tale interpretazione è avvalorata dalla modifica apportata dal legislatore al testo dell’art. 146 del d.lgs. n. 490/1999, che operava riferimento a “i fiumi, i torrenti ed i corsi d’acqua iscritti…”.
La scomparsa della congiunzione ed e l’inserimento al suo posto di una virgola, quale segno di separazione, risulta indicativa della volontà del legislatore di evidenziare una cesura tra le diverse tipologie di acque fluenti e, per l’effetto, di sottolineare con maggiore evidenza che il requisito della iscrizione è riferito ai soli corsi d’acqua diversi dai fiumi e dai torrenti.
ACQUA - BENI CULTURALI E AMBIENTALI - Denominazione ufficiale di fiume o torrente - Successiva perdita delle caratteristiche proprie della categoria - Irrilevanza - Verifica sostanziale - Limiti.
La denominazione ufficiale di fiume o torrente, in quanto frutto dell’accertamento, da parte di soggetti qualificati, delle caratteristiche proprie della categoria non è dato liberamente disapplicabile. Una volta qualificato ufficialmente, il bene risulta vincolato, irrilevante essendo il dato sostanziale della mancanza ovvero della perdita delle caratteristiche proprie della categoria. Tali elementi rilevano, al fine del venir meno del vincolo, solo all’esito di un peculiare procedimento amministrativo di declassificazione.
La verifica sostanziale, pertanto, è consentita solo quando manchi una denominazione ufficiale ovvero quando questa sia contraddittoria, perplessa o ancora quando, in presenza di una pluralità di denominazioni, non sia certa l’appartenenza di uno specifico tratto del corso d’acqua all’una o all’altra qualificazione (fattispecie relativa ad un corso d’acqua per un tratto denominato nelle carte IGM “torrente” e per un tratto “fosso”) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 18.07.2008 n. 2172 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAIl divieto di costruzione di manufatti ad una certa distanza dagli argini dei corsi d’acqua, contenuto nell’art. 96, lett. f), del R.D. 25.07.1904 n. 523, ha carattere inderogabile e si riferisce sia all’ipotesi in cui esistano veri e propri manufatti sia a quella in cui i corsi d’acqua siano provvisti di argini naturali.
Il divieto di costruzione di manufatti ad una certa distanza dagli argini dei corsi d’acqua, contenuto nell’art. 96, lett. f), del R.D. 25.07.1904 n. 523 (testo unico sulle opere idrauliche), ha carattere inderogabile e si riferisce sia all’ipotesi in cui esistano veri e propri manufatti sia a quella in cui i corsi d’acqua siano provvisti di argini naturali (Consiglio di Stato, Sez. I, sent. n. 200 del 10.06.1988) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 07.03.2008 n. 267 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2007

EDILIZIA PRIVATA: Divieto di edificazione previsto dall'art. 96, lett. f) R.D. 523/1904 - Possibilità di deroga da parte della normativa edilizia locale - Sussiste solo nel caso in cui la normativa locale sia finalizzata a salvaguardare il regime idraulico.
L'art. 96 lett. f) del R.D. n. 523/1904 prevede, tra l'altro, il divieto di edificare ad una distanza inferiore a 10 metri dal piede degli argini dei corsi d'acqua, ed ammette la deroga quando la materia sia contemporaneamente disciplinata da normative locali.
Si impone tuttavia puntualizzare che tra tali normative derogatorie sono comprese anche quelle contemplate dai Piani Regolatori Generali e dai Regolamenti Edilizi, e che tuttavia solo se lo scopo dell'attività costruttiva lungo il corso d'acqua è quello specifico di salvaguardarne il regime idraulico la disciplina locale assume valenza derogatoria della norma statale, in quanto meglio ne attua l'interesse pubblico perseguito. In caso contrario, qualora la norma locale si proponesse finalità diverse, quali sono ad es. quelle meramente urbanistiche, essa non derogherebbe alla citata disciplina statale che -in quanto informata a tutelare il buon regime delle acque pubbliche nonché a prevenire i danni che possono derivare da una disordinata attività costruttiva e manutentiva lungo i corsi d'acqua- impone divieti da qualificarsi come tassativi (TAR Lombardia-Brescia,
sentenza 13.06.2007 n. 540 - massima tratta da www.solom.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanza delle costruzioni di 150 metri dalle sponde dei fiumi - Ex art. 142, comma 1, lett. c) D.Lgs. n. 42/2004 - Nozione di "sponda" - Individuazione.
La distanza di 150 metri, prevista dall’art. 142, comma 1, lett. c) del D.Lgs. n. 42/2004 dalle sponde o piedi degli argini dei fiumi, deve essere determinata riferendosi alla delimitazione effettiva del corso d’acqua, partendo dal ciglio di sponda o dal piede esterno dell’argine, solo quando quest’ultimo esplichi una funzione analoga alla sponda nel contenere le acque di piena ordinaria; pertanto, nella prospettiva di un equo contemperamento tra interesse pubblico e interesse dei privati proprietari, è al termine "sponda" che occorre fare riferimento, intendendo per sponda il confine naturale della ordinaria portata dell’acqua, a differenza degli argini, che costituiscono barriere esterne per lo più artificiali, erette a difesa del territorio nell’ipotesi del verificarsi di piene eccezionali (TAR Friuli Venezia Giulia, Sez. I,
sentenza 10.05.2007 n. 339 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costruzione in sanatoria nella fascia di rispetto di mt. 10 dei corsi d'acqua.
Secondo quanto enunciato nella richiesta di parere del Comune XXX, i termini della questione sono i seguenti:
= in data 23.02.2004 è stato rilasciato un permesso di costruire (n. 543/2004) avente ad oggetto l’intervento di ristrutturazione edilizia di un fabbricato ad uso civile abitazione;
= iniziati i lavori, a causa delle condizioni dell’immobile, la costruzione è pressoché integralmente crollata;
= la proprietà ha proceduto nei lavori di ristrutturazione, ormai concretatisi nella sostanziale ricostruzione dell’immobile, senza acquisire dal Comune un titolo abilitativo edilizio che approvasse i lavori predetti, divenuti diversi da quelli originariamente assentiti;
= tali lavori, con ordinanza del 09.10.2004, sono stati conseguentemente sospesi;
= la proprietà ha quindi presentato al Comune domanda di rilascio di permesso di costruire in sanatoria;
= l’immobile ricade in area sottoposta a vincolo paesaggistico, ai sensi del D.Lvo 42/2004; il 05.04.2007 è stata accertata e dichiarata la compatibilità paesaggistica dell’intervento, così come previsto dall’articolo 167 del citato decreto;
= il fabbricato risulta però ricadere anche all’interno della fascia di rispetto di cui al R.D. 523/1904, essendo posto a ridosso di un corso d’acqua denominato Rio XXX.
In relazione a quest’ultimo dato, viene richiesto se sia legittimo rilasciare il permesso di costruire in sanatoria, stante il fatto che la ricostruzione del fabbricato non rispetta la distanza prevista dall’articolo 96, lettera f), del citato regio decreto.
In termini ancora più espliciti, il dubbio che si pone è se alla luce dell’intervenuto crollo del fabbricato si possa procedere alla riedificazione sul medesimo sedime, e quindi ad una distanza dall’argine del corso d’acqua inferiore a quella prevista dalla legge, o se –invece- la costruzione debba essere arretrata a dieci metri dall’argine stesso
(Regione Piemonte, parere n. 107/2007 - tratto da www.regione.piemonte.it).

anno 2006

EDILIZIA PRIVATA: Corso d'acqua - Esecuzione di opere di difese spondili - Testo unico delle leggi sulle opere idrauliche R.D. 523/1904 - Divieti di cui all’art. 96, c. 1, lett. f) e lett. G) - Reato di pericolo e di danno - Differenza - Accertamento - Configurabilità - Fondamento.
Ha natura di reato di pericolo, il reato di cui all'art. 96, lett. f), del R.D. 25.07.1904 n. 523 che vieta “le piantagioni di alberi e siepi, le fabbriche, gli scavi e lo smovimento del terreno a distanza dal piede degli argini e loro accessori minore di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località, ed in mancanza di tali discipline, a distanza minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento del terreno e di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi”.
Sicché, per la sussistenza della fattispecie contravvenzionale, essendo puniti comportamenti ritenuti dal legislatore potenzialmente lesivi dell'assetto idrogeologico del territorio e, quindi, del corrispondente interesse pubblico, non occorre l'ulteriore verifica che l'azione illecita abbia recato nocumento all'alveo del corso d'acqua o alle sue sponde. Mentre, configura un'ipotesi di reato di danno, ai sensi del R.D. 25.07.1904, n. 523, art. 96, comma 1, lett. g), del cui disposto è sanzionata l'esecuzione di "qualunque opera o fatto che possa alterare lo stato la forma, le dimensioni, la resistenza e la convenienza all'uso, a cui sono destinati gli argini e loro accessori, e manufatti attinenti".
In questi casi, per la configurazione del reato, sussiste la necessità di un concreto accertamento del danno arrecato agli argini e loro accessori, dovendosi escludere la sussistenza del reato ogniqualvolta l'esecuzione delle opere non abbia alterato in alcun modo il regime del corso d'acqua (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.11.2006 n. 36502 - link a www.ambientediritto.it).

anno 2005

EDILIZIA PRIVATA: E. Ratto, Risorse idriche: la normativa - W. Fumagalli, L’edificazione lungo i corsi d’acqua (AL n. 5/2005).

EDILIZIA PRIVATA: Acqua - Fiumi e corsi d’acqua - Art. 96, lett. f), R.D. 523/1904 - Divieto di costruzione sull’argine - Ratio.
Il divieto di costruzione nella fascia di 10 metri dagli argini dei corsi d’acqua pubblici -di cui all’art. 96, lett. f, del R.D. 25.7.04 n. 523- tende ad evitare che la realizzazione di manufatti alteri lo stato attuale degli elementi e delle pertinenza idriche, sia per conservarne la sagoma effettiva, sia per permettere il necessario controllo dell’andamento del bacino, e ciò sia nel suo assetto sia nel naturale deflusso delle acque.
Inoltre la mancanza di fabbricati nei pressi dei corsi d’acqua è utile a consentire una tempestiva e libera effettuazione dei lavori di manutenzione e di riparazione che possono occorrere sulle opere idrauliche esistenti (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 01.03.2005 n. 304 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2003

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, 2° suppl. straord. al n. 35 del 28.08.2003, "Modifica della d.g.r. 25.01.2002 n. 7868 «Determinazione del reticolo idrico principale. Trasferimento delle funzioni relative alla polizia idraulica concernenti il reticolo idrico minore come indicato dall'art. 3, comma 114, della l.r. 1/2000. Determinazione dei canoni regionale di polizia idraulica»" (deliberazione G.R. 01.08.2003 n. 13950).

anno 2002

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 53 del 30.12.2002, "Approvazione dei criteri e disciplinari tipo di polizia idraulica concernenti autorizzazioni ai soli fini idraulici e concessioni di aree demaniali - D.G.R. n. 7868 del 25.01.2002" (decreto D.G. 13.12.2002 n. 25125).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 18 del 29.04.2002, "Rettifica del dispositivo di cui al punto 1 dell'allegato C alla d.g.r. n. 7868 del 25.01.2002 «Determinazione del reticolo principale. Trasferimento delle funzioni relative alla polizia idraulica concernenti il reticolo idrico minore come indicato dall'art. 3, comma 114, della l.r. 1/2000. determinazione dei canoni regionali di polizia idraulica»" (deliberazione G.R. 12.04.2002 n. 8743).

EDILIZIA PRIVATAI fiumi e i torrenti sono soggetti a tutela paesistica di per sé stessi, e a prescindere dalla iscrizione negli elenchi delle acque pubbliche.
Solo per i corsi d’acqua diversi dai fiumi e dai torrenti la iscrizione negli elenchi delle acque pubbliche ha efficacia costitutiva del vincolo paesaggistico.
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Sul piano letterale, l’art. 82, comma 5, lett. c), D.P.R. 24.07.1977, n. 616, introdotto dal D.L. 27.06.1985, n. 312, conv. nella L. 08.08.1985, n. 431, assoggetta a tutela <<i fiumi, i torrenti ed i corsi d'acqua iscritti negli elenchi di cui al testo unico delle disposizioni di legge sulle acque ed impianti elettrici, approvato con R.D. 11.12.1933, n. 1775, e le relative sponde o piede degli argini per una fascia di 150 metri ciascuna>>.
La previsione è stata riprodotta, con formulazione identica, nell’art. 146, comma 1, lett. c), D.Lgs. 29.10.1999, n. 490, testo unico delle disposizioni in materia di beni culturali e ambientali, a norma del quale sono soggetti a tutela: <<i fiumi, i torrenti ed i corsi d'acqua iscritti negli elenchi previsti dal testo unico delle disposizioni di legge sulle acque ed impianti elettrici, approvato con regio decreto 11.12.1933, n. 1775, e le relative sponde o piede degli argini per una fascia di 150 metri ciascuna>>.
La collocazione delle virgole e delle congiunzioni tra le parole <<fiumi>>, <<torrenti>>, <<corsi d’acqua>> non è di per sé significativa e dirimente, al fine dell’accogliere la tesi che riferisce la iscrizione in elenco ai soli corsi d’acqua ovvero anche ai fiumi e ai torrenti.
Occorre piuttosto soffermarsi sul significato delle parole <<fiumi>>, <<torrenti>>, <<corsi d’acqua>>, che va desunto dal sistema normativo complessivo, in cui si inserisce la previsione in commento, e dal significato letterale delle parole utilizzate.
Sul piano strettamente letterale, il dato comune a fiumi, torrenti e corsi d’acqua, è di essere acque <<fluenti>>.
Si può anche aggiungere che a rigore i <<corsi d’acqua>> sono un genere, in cui si collocano, quali specie, i fiumi e i torrenti.
Dal significato proprio delle parole nella lingua italiana, si apprende, infatti, che:
- il <<corso d’acqua>> indica semplicemente <<lo scorrere delle acque in movimento>>, ed è il <<nome generico di fiumi, torrenti, etc..>>;
- il <<fiume>> è un <<corso d’acqua a corrente perenne>>;
- mentre il <<torrente>> è un <<corso d’acqua caratterizzato da notevoli variazioni di regime, con periodi in cui scorre gonfio e impetuoso ed altri in cui è quasi completamente secco>>.
Se, dunque, anche i fiumi e i torrenti sono corsi d’acqua, ci si deve interrogare sulla ragione di una loro autonoma previsione accanto ai corsi d’acqua: sarebbe stato sufficiente, da parte del legislatore, prevedere i soli corsi d’acqua, salvo poi ad optare per la necessità o meno della iscrizione nell’elenco delle acque pubbliche.
La previsione autonoma assume allora una sola, plausibile spiegazione: si è pensato ai fiumi e ai torrenti come acque fluenti di maggiore importanza, e ai corsi d’acqua come categoria residuale, comprensiva delle acque fluenti di minore portata (p. es. ruscelli (<<piccolo corso d’acqua>>), fiumicelli (<<piccolo fiume>>), sorgenti (<<punto di affioramento di una falda d’acqua>>), fiumare (<<corso d’acqua a carattere torrentizio>>), etc..).
In tale logica, solo per le acque fluenti di minori dimensioni e importanza, vale a dire per i corsi d’acqua che non sono né fiumi né torrenti, si impone, al fine della loro rilevanza paesaggistica, la iscrizione negli elenchi delle acque pubbliche.
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Ulteriori argomenti esegetici a sostegno di tale tesi si colgono sul piano della interpretazione sistematica.
Il testo unico delle acque pubbliche, approvato con R.D. 11.12.1933, n. 1775, all’art. 1 stabilisce che <<Sono pubbliche tutte le acque sorgenti, fluenti e lacuali, anche se artificialmente estratte dal sottosuolo, sistemate o incrementate, le quali, considerate sia isolatamente per la loro portata o per l'ampiezza del rispettivo bacino imbrifero, sia in relazione al sistema idrografico al quale appartengono, abbiano od acquistino attitudine ad usi di pubblico generale interesse. Le acque pubbliche sono iscritte, a cura del ministero dei lavori pubblici, distintamente per province, in elenchi da approvarsi per decreto reale, su proposta del ministro dei lavori pubblici, sentito il consiglio superiore dei lavori pubblici, previa la procedura da esperirsi nei modi indicati dal regolamento>>.
Da tale norma si evince che la pubblicità di un’acqua discende dal requisito sostanziale di avere attitudine ad uso di pubblico interesse generale, mentre la iscrizione in elenco ha una portata solo dichiarativa e ricognitiva, ma non costitutiva della pubblicità.
Anche l’art. 822 cod. civ. nell’individuare il demanio pubblico, considera beni demaniali <<i fiumi, i torrenti e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia>>.
Da tale disamina si evince che fiumi e torrenti sono considerati beni pubblici demaniali di per sé, senza necessità alcuna di inserzione costitutiva in elenchi.
Le altre acque fluenti, che hanno minore importanza e che sono una categoria residuale, sono pubbliche se abbiano attitudine ad uso pubblico di interesse generale.
In nessun caso la inserzione in elenco ha portata costitutiva della pubblicità dell’acqua, ma solo ricognitiva della attitudine dell’acqua all’uso pubblico di interesse generale.
Se dunque, dal sistema normativo è dato evincere che la iscrizione di un bene in un elenco di beni pubblici non ha portata costitutiva della natura giuridica del bene medesimo, siffatta regola non può non essere stata seguita dal legislatore anche nella individuazione dei beni soggetti a vincolo paesistico.
Significativo è poi l’uso, da parte della L. n. 431 del 1985, della stessa terminologia impiegata nell’art. 822 cod. civ.: in entrambe le norme si parla di fiumi e torrenti, rispetto ai quali si collocano le altre acque, per le quali si richiede, ai fini della individuazione, la iscrizione in elenco.
Sicché, per fiumi e torrenti la pubblicità degli stessi esiste di per sé, in base all’art. 822 cod. civ., e conseguentemente anche il vincolo paesistico è imposto ex lege a prescindere dalla iscrizione in elenchi.

Da una interpretazione letterale, logica e sistematica, si evince che i fiumi e i torrenti sono soggetti a tutela paesistica di per sé stessi, e a prescindere dalla iscrizione negli elenchi delle acque pubbliche.
Solo per i corsi d’acqua diversi dai fiumi e dai torrenti la iscrizione negli elenchi delle acque pubbliche ha efficacia costitutiva del vincolo paesaggistico.
Sul piano letterale, l’art. 82, comma 5, lett. c), D.P.R. 24.07.1977, n. 616, introdotto dal D.L. 27.06.1985, n. 312, conv. nella L. 08.08.1985, n. 431, assoggetta a tutela <<i fiumi, i torrenti ed i corsi d'acqua iscritti negli elenchi di cui al testo unico delle disposizioni di legge sulle acque ed impianti elettrici, approvato con R.D. 11.12.1933, n. 1775, e le relative sponde o piede degli argini per una fascia di 150 metri ciascuna>>.
La previsione è stata riprodotta, con formulazione identica, nell’art. 146, comma 1, lett. c), D.Lgs. 29.10.1999, n. 490, testo unico delle disposizioni in materia di beni culturali e ambientali, a norma del quale sono soggetti a tutela: <<i fiumi, i torrenti ed i corsi d'acqua iscritti negli elenchi previsti dal testo unico delle disposizioni di legge sulle acque ed impianti elettrici, approvato con regio decreto 11.12.1933, n. 1775, e le relative sponde o piede degli argini per una fascia di 150 metri ciascuna>>.
La collocazione delle virgole e delle congiunzioni tra le parole <<fiumi>>, <<torrenti>>, <<corsi d’acqua>> non è di per sé significativa e dirimente, al fine dell’accogliere la tesi che riferisce la iscrizione in elenco ai soli corsi d’acqua ovvero anche ai fiumi e ai torrenti.
Occorre piuttosto soffermarsi sul significato delle parole <<fiumi>>, <<torrenti>>, <<corsi d’acqua>>, che va desunto dal sistema normativo complessivo, in cui si inserisce la previsione in commento, e dal significato letterale delle parole utilizzate.
Sul piano strettamente letterale, il dato comune a fiumi, torrenti e corsi d’acqua, è di essere acque <<fluenti>>.
Si può anche aggiungere che a rigore i <<corsi d’acqua>> sono un genere, in cui si collocano, quali specie, i fiumi e i torrenti.
Dal significato proprio delle parole nella lingua italiana, si apprende, infatti, che:
- il <<corso d’acqua>> indica semplicemente <<lo scorrere delle acque in movimento>>, ed è il <<nome generico di fiumi, torrenti, etc..>>;
- il <<fiume>> è un <<corso d’acqua a corrente perenne>>;
- mentre il <<torrente>> è un <<corso d’acqua caratterizzato da notevoli variazioni di regime, con periodi in cui scorre gonfio e impetuoso ed altri in cui è quasi completamente secco>>.
Se, dunque, anche i fiumi e i torrenti sono corsi d’acqua, ci si deve interrogare sulla ragione di una loro autonoma previsione accanto ai corsi d’acqua: sarebbe stato sufficiente, da parte del legislatore, prevedere i soli corsi d’acqua, salvo poi ad optare per la necessità o meno della iscrizione nell’elenco delle acque pubbliche.
La previsione autonoma assume allora una sola, plausibile spiegazione: si è pensato ai fiumi e ai torrenti come acque fluenti di maggiore importanza, e ai corsi d’acqua come categoria residuale, comprensiva delle acque fluenti di minore portata (p. es. ruscelli (<<piccolo corso d’acqua>>), fiumicelli (<<piccolo fiume>>), sorgenti (<<punto di affioramento di una falda d’acqua>>), fiumare (<<corso d’acqua a carattere torrentizio>>), etc..).
In tale logica, solo per le acque fluenti di minori dimensioni e importanza, vale a dire per i corsi d’acqua che non sono né fiumi né torrenti, si impone, al fine della loro rilevanza paesaggistica, la iscrizione negli elenchi delle acque pubbliche.
Ulteriori argomenti esegetici a sostegno di tale tesi si colgono sul piano della interpretazione sistematica.
Il testo unico delle acque pubbliche, approvato con R.D. 11.12.1933, n. 1775, all’art. 1 stabilisce che <<Sono pubbliche tutte le acque sorgenti, fluenti e lacuali, anche se artificialmente estratte dal sottosuolo, sistemate o incrementate, le quali, considerate sia isolatamente per la loro portata o per l'ampiezza del rispettivo bacino imbrifero, sia in relazione al sistema idrografico al quale appartengono, abbiano od acquistino attitudine ad usi di pubblico generale interesse. Le acque pubbliche sono iscritte, a cura del ministero dei lavori pubblici, distintamente per province, in elenchi da approvarsi per decreto reale, su proposta del ministro dei lavori pubblici, sentito il consiglio superiore dei lavori pubblici, previa la procedura da esperirsi nei modi indicati dal regolamento>>.
Da tale norma si evince che la pubblicità di un’acqua discende dal requisito sostanziale di avere attitudine ad uso di pubblico interesse generale, mentre la iscrizione in elenco ha una portata solo dichiarativa e ricognitiva, ma non costitutiva della pubblicità.
Anche l’art. 822 cod. civ. nell’individuare il demanio pubblico, considera beni demaniali <<i fiumi, i torrenti e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia>>.
Da tale disamina si evince che fiumi e torrenti sono considerati beni pubblici demaniali di per sé, senza necessità alcuna di inserzione costitutiva in elenchi.
Le altre acque fluenti, che hanno minore importanza e che sono una categoria residuale, sono pubbliche se abbiano attitudine ad uso pubblico di interesse generale.
In nessun caso la inserzione in elenco ha portata costitutiva della pubblicità dell’acqua, ma solo ricognitiva della attitudine dell’acqua all’uso pubblico di interesse generale.
Se dunque, dal sistema normativo è dato evincere che la iscrizione di un bene in un elenco di beni pubblici non ha portata costitutiva della natura giuridica del bene medesimo, siffatta regola non può non essere stata seguita dal legislatore anche nella individuazione dei beni soggetti a vincolo paesistico.
Significativo è poi l’uso, da parte della L. n. 431 del 1985, della stessa terminologia impiegata nell’art. 822 cod. civ.: in entrambe le norme si parla di fiumi e torrenti, rispetto ai quali si collocano le altre acque, per le quali si richiede, ai fini della individuazione, la iscrizione in elenco.
Sicché, per fiumi e torrenti la pubblicità degli stessi esiste di per sé, in base all’art. 822 cod. civ., e conseguentemente anche il vincolo paesistico è imposto ex lege a prescindere dalla iscrizione in elenchi.
Ne consegue, nel caso di specie, che il Testene, in quanto fiume, è soggetto a tutela paesaggistica per legge, e non occorre perciò verificare se sia o meno inserito in elenchi delle acque pubbliche (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.02.2002 n. 657).

anno 2000

EDILIZIA PRIVATABeni pubblici - Demanio idrico - Opere di manutenzione degli argini e dell'alveo di un corso d'acqua - Spettano alla P.A.
Ai proprietari dei fondi latistanti incombe l'obbligo (ex art. 12 R.D. n. 523/1904) solo della costruzione delle opere a difesa dei loro beni, mentre spetta all'autorità amministrativa (ex art. 2 T.U. n. 523/1904) di provvedere al mantenimento delle condizioni di regolarità dei ripari degli argini, sicché fa carico alla pubblica autorità provvedere alla manutenzione dell'argine di un torrente, appartenente al demanio, con conseguente responsabilità della stessa per i danni derivanti dall'omissione di tale manutenzione (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. I, sentenza 23.02.2000 n. 323 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 1994

EDILIZIA PRIVATADistanza dai corsi d'acqua.
Il divieto di cui all'art. 96, lett. g), r.d. 25.07.1904, n. 523 (t.u. delle leggi sulle opere idrauliche) appare riferito ad opere e atti che investono gli alvei delle acque pubbliche, le sponde e difese, e cioè lo spazio soggiacente alle piene ordinarie, le sponde e le ripe interne, formanti con l'alveo del corso d'acqua una unità inscindibile per il contenimento e l'economia di scorrimento delle acque, o, comunque, le opere e i fatti che incidano sull'economia e sul regime dell'alveo del corso d'acqua, come sopra definito.
Ciò è confermato dalle disposizioni degli artt. 57 e 58 stesso t.u., le quali -mentre assoggettano al controllo della pubblica amministrazione "i progetti per modificazioni di argini e per costruzioni e modificazioni di altre opere di qualsiasi genere che possono direttamente o indirettamente influire sul regime dei corsi d'acqua, ecc." (art. 57)- consentono una eccezione per "le opere eseguite dai privati per semplice difesa, aderente alle sponde dei loro beni, che non alterino in alcun modo il regime dell'alveo" (art. 58) (nella specie, relativa ad annullamento senza rinvio di sentenza di condanna perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, l'imputato, per riparare le vasche di decantazione dell'acqua proveniente dal lavaggio degli inerti (ghiaia e sabbia), aveva rialzato l'argine del fiume (operando peraltro sulla sua proprietà), e ciò non solo non aveva cagionato alcun pregiudizio all'ambiente e al paesaggio, ma aveva rinforzato l'argine del fiume, senza incidere sul regime dell'alveo e sul suo assetto) (massima tratta da www.lavatellilatorraca.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.03.1994).