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dossier ESPROPRIAZIONE
anno 2023

ESPROPRIAZIONE: L. Spallino, Espropriazione per pubblica utilità e misure perequative - Repertorio di giurisprudenza (08.11.2023 - link a www.dirittopa.it).
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1 - Acquisizione di aree ad uso pubblico: alternatività degli strumenti espropriativi e perequativi.
2 - Cessione a titolo gratuito al comune di aree gravate da vincolo di esproprio con compensazione di diritti edificatori: imposta di registro in misura fissa.
3 - Cessione perequativa aree a standard: alternatività all’espropriazione.
4 - Diritti edificatori compensativi e legittimazione del proprietario ad esigere dalla PA l'individuazione di un'area di atterraggio
5 - Domanda di accertamento dell'obbligo della PA di provvedere sulla istanza del privato titolare di diritti edificatori compensativi: giurisdizione esclusiva del g.a.
6 - ICI e diritti edificatori: irrilevanza ai fini imponibili del terreno inserito in un programma di compensazione urbanistica.
7 - Indennizzo per vincoli espropriativi: non esaustività della forma monetaria.
8 - Indennizzo per vincoli espropriativi: alternatività dei diritti edificatori compensativi rispetto al pagamento dell’indennizzo.
9 - Modelli di perequazione e di compensazione urbanistica: carattere non stringente.
10 - Cessione perequativa: criteri di determinazione dell’indennità
11 - Cessione perequativa: perequazione ^limitata^ e perequazione ^estesa^.
12 - Perequazione e compensazione: differenze.
13 - Regione Lombardia: differenze tra l’istituto della cessione compensativa di cui all’art. 11, comma 3, l.rg. Lombardia n. 12/2005 e l’istituto della perequazione.
14 - Regione Lombardia: registro delle cessioni dei diritti edificatori.
15 - Regolamenti edilizi: inidoneità a imporre pesi espropriativi.
16 - Volumetria perequativa: dimensionamento.

ESPROPRIAZIONE: L. Spallino, Occupazione senza titolo e usucapione del fondo a favore della P.A. (04.08.2023 - link a www.dirittopa.it).
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Cassazione civile, Sez. II, 28.06.2023, n. 18445
La Corte di Cassazione conferma la compatibilità dell'usucapione da parte dell'ente occupante con l'acquisizione sanante di cui all'articolo 42-bis del Testo Unico degli Espropri. La decisione completa il quadro descritto nel recente articolo Occupazione senza titolo e prescrizione del risarcimento del danno. (...continua).

ESPROPRIAZIONE: L. Spallino, Occupazione senza titolo e prescrizione del risarcimento del danno (01.07.2023 - link a www.dirittopa.it).
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Consiglio di Stato, Sez. IV, 19.04.2023, n. 3965
Il Consiglio di Stato consolida, per quanto necessario, l'indicazione secondo la quale la condotta illecita di una Pubblica amministrazione che incida sul diritto di proprietà del privato, sia pure concretizzantesi in un'opera pubblica, costituisce un illecito permanente che, come tale, impedisce il decorso del termine quinquennale di prescrizione del diritto al risarcimento del danno. Nulla di innovativo ma un'utile puntualizzazione, che consente di ripercorrere il percorso che ha portato all'attuale articolo 42-bis TU Espropri. (...continua).

anno 2022

ESPROPRIAZIONE: Il proprietario del terreno illegittimamente occupato per finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata e convenzionata può chiedere la retrocessione del bene.
La I Sez. civile della Corte di Cassazione, in tema occupazione di terreno per finalità di edilizia residenziale pubblica, sovvenzionata e convenzionata, ha affermato che l’art. 3 della l. n. 458 del 1988 (ancora applicabile alle fattispecie anteriori all’entrata in vigore del d.P.R. n. 327 del 2001), nella parte in cui prevede solo il risarcimento del danno, e non la restituzione del fondo, in caso di decreto di esproprio dichiarato illegittimo o di procedimento ablativo concluso in violazione dei termini e delle forme di legge, deve essere reinterpretato alla luce dei principi enunciati dalla Corte EDU sull’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione, oltre che dell’art. 42 Cost., sicché, a fronte della impossibilità di configurare un potere di acquisizione “indiretta”, non può ritenersi ancora operante il divieto di restituzione del bene al privato che lo richieda.
---------------

1. Il ricorrente lamenta:
...
   b) con il secondo motivo, la violazione e falsa applicazione, ex art. 360, n. 3 c.p.c., dell'art. 3, comma 1, l. 458/1988, essendo inapplicabile tale disposizione in assenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità;
   c) con il terzo motivo, l'omesso esame, ex art. 360, n. 5 c.p.c., di fatto decisivo in merito al rigetto della domanda restitutoria pur in mancanza di una valida dichiarazione di pubblica utilità;
...
4. Il secondo ed il terzo motivo sono invece fondati.
Prima dell'intervento delle Sezioni Unite del 2015, questa Corte aveva affermato l'ammissibilità della tutela restitutoria nell'ipotesi in cui l'attività di trasformazione del suolo privato non fosse riconducibile ad alcun fine di pubblico interesse legalmente dichiarato (fattispecie cosiddetta di occupazione usurpativa) anche in relazione «agli interventi astrattamente qualificati da finalità di edilizia residenziale pubblica, posto che l'art. 3 della legge n. 458 del 1988, che esclude la restituzione degli immobili a tal fine utilizzati, va interpretato nel senso che l'operatívità dell'esclusione resta subordinata alla preventiva esistenza di una dichiarazione di pubblica utilità valida ed efficace al momento della costruzione dell'immobile, a ciò inducendo sia il tenore della norma, che, con dizione analoga a quella dell'art. 42, terzo comma, Cost., introduce uno specifico vincolo di scopo ("per finalità di edilizia residenziale..."), che è da escludere in assenza della dichiarazione, sia la caratterizzazione della fattispecie dalla norma considerata, di annullamento o di declaratoria di illegittimità "del provvedimento espropriativo", che necessariamente presuppone l'esistenza della dichiarazione di pubblica utilità, sia l'interpretazione recepita dalla Corte costituzionale (sentenze n. 384 del 1990 e n. 486 del 1991), che considera la norma come una sostanziale applicazione al settore specifico della edilizia residenziale pubblica di quella particolare, ma diversa, fattispecie acquisitiva alla mano pubblica di beni privati costituita dalla figura della cosiddetta occupazione appropriativa, caratterizzata dall'esistenza di detta dichiarazione» (Cass. 18239/2005; Cass. 20131/2013).
L'art. 3 l. 458/1988 (abrogato dall'art. 58 del DPR 327/2001, ma ancora in vigore, ex art. 57 T.U.E., per fattispecie anteriori all'entrata in vigore del T.U.E) stabiliva, al primo comma, che il proprietario del terreno utilizzato per finalità di edilizia residenziale pubblica, aveva diritto al risarcimento del danno causato «da provvedimento espropriativo dichiarato illegittimo con sentenza passata in giudicato, con esclusione della retrocessione del bene».
La norma è stata sottoposta al vaglio della Corte costituzionale, la quale, con sentenza del 27.12.1991 n. 586, ne ha esteso l'applicabilità all'ipotesi di mancanza del provvedimento espropriativo.
Orbene, a seguito dell'intervento delle Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 735/2015, ogni distinzione tra occupazione acquisitiva ed occupazione usurpativa, a seconda della presenza o meno di una dichiarazione di pubblica utilità, che comportava diverse conseguenze sul piano economico ed anche dell'individuazione del momento di consumazione dell'illecito (momento dell'irreversibile trasformazione del suolo con la realizzazione dell'opera pubblica o il momento della proposizione della domanda risarcitoria), è stata superata e deve, dunque, parlarsi, in entrambi i casi, di occupazione abusiva o illegittima tout court, essendo la relativa domanda risarcitoria caratterizzata da una medesima causa petendi, rappresentata da un illecito a carattere permanente (Cass. n. 7135 del 2015; n. 12260 del 2016; n. 22929 del 2017), cosicché l'atto abdicativo del diritto dominicale va ricollegato alla proposizione della domanda di risarcimento per equivalente, in riferimento al quale va operata la stima del bene distrutto (Cass. 12961/2018).
In particolare, le Sezioni Unite del 2015, nell'interrogarsi, una volta espunto dall'ordinamento nazionale l'istituto dell'occupazione acquisitiva, elaborato dalla giurisprudenza e, successivamente, divenuto presupposto di diverse disposizioni di legge per contrarietà dell'istituto con i principi dettati dall'art. 1 dei protocollo addizionale alla Convenzione EDU, se, da un lato, l'interpretazione della giurisprudenza sulle conseguenze dell'illecita utilizzazione fosse o meno «la sola consentita dal sistema» e, dall'altro, se le norme di «copertura all'istituto» potessero o meno essere «sganciate» da questo ed essere oggetto di una diversa interpretazione, data risposta positiva al primo interrogativo, hanno affermato, in ordine al secondo interrogativo e con riguardo specifico anche all'art. 3 della l. 458/1988 (disposizione questa, abrogata dal D.P.R. n. 327 del 2001, art. 58, a decorrere dall'entrata in vigore dello stesso D.P.R, che, nell'escludere !a restituzione del bene, «presuppone evidentemente che alla trasformazione irreversibile dell'area consegua necessariamente l'acquisto della stessa da parte chi ha realizzato le opere») che:
   a) tale disposizione «non ha carattere generale, essendo limitata alla utilizzazione dei suoli per finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata e convenzionata»;
   b) inoltre, come chiarito da Cass. SU n. 12546/1992, essa si riferisce ad una fattispecie che non può neppure ricondursi all'istituto dell'occupazione acquisitiva, non essendo configurabile l'effetto acquisitivo in favore dell'ente territoriale, in mancanza di una legittima procedura espropriativa, e neppure essendo ipotizzabile, secondo l'orientamento giurisprudenziale all'epoca espresso dal giudice di legittimità, l'accessione invertita in favore di cooperative (o di privati), mancando «sia l'irreversibile destinazione del suolo privato a parte integrante di un'opera pubblica (bene demaniale o patrimoniale indisponibile) sia l'appartenenza a un soggetto pubblico».
Questa Corte a Sezioni Unite ha inoltre chiarito che «in materia di espropriazione per pubblica utilità, la necessità di interpretare il diritto interno in conformità con il principio enunciato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, secondo cui l'espropriazione deve sempre avvenire in "buona e debita forma", comporta che l'illecito spossessamento del privato da parte della P.A. e l'irreversibile trasformazione del suo terreno per la costruzione di un'opera pubblica non danno luogo, anche quando vi sia stata dichiarazione di pubblica utilità, all'acquisto dell'area da parte dell'Amministrazione, sicché il privato ha diritto a chiederne la restituzione, salvo che non decida di abdicare al suo diritto e chiedere il risarcimento del danno per equivalente»; l'illecito a carattere permanente, insito sia nell'occupazione appropriativa (occupazione sotto la vigenza della dichiarazione di pubblica utilità ma con realizzazione dell'opera pubblica in assenza di un decreto di esproprio) sia in quella usurpativa (ricorrente nell'ipotesi di mancanza anche di un valido ed efficace provvedimento di dichiarazione di pubblica utilità dell'opera), è dunque inidoneo a comportare l'acquisizione autoritativa alla mano pubblica del bene occupato, con cessazione dell'illecito soltanto per effetto della restituzione, di un accordo transattivo, della compiuta usucapione da parte dell'occupante che lo ha trasformato, ovvero della rinunzia del proprietario al suo diritto, implicita nella richiesta di risarcimento dei danni per equivalente (Cass. 22929/2017).
Deve poi richiamarsi il principio di diritto espresso da questa Corte nella ordinanza 16509/2019, secondo cui «nel caso di occupazione acquisitiva derivante dalla trasformazione irreversibile del terreno ablato nell'ambito di un procedimento inizialmente assistito da dichiarazione di pubblica utilità, e successivamente divenuto illegittimo per la mancata emanazione del decreto di esproprio nel termine di legge, l'inefficacia di detta dichiarazione opera "ex nunc", non verificandosi alcun travolgimento "ex post' delle attività legittimamente compiute dalla P.A. sulla base del decreto di occupazione e in pendenza del termine di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità», cosicché al privato è dovuta l'indennità di occupazione legittima «a far data dall'immissione in possesso nel bene fino alla perdita di efficacia della dichiarazione di p.u„, che determina in ogni caso la sopravvenuta carenza di potere ablatorio della P.A.».
Ora, nella specie, il giudice di primo grado aveva, con sentenza del 2009, accertato essere intervenuta una «occupazione usurpativa» del terreno del Sa., da parte del Comune, «in difetto di titolo sulla part. 683 (ex 384)» e che «neppure facendo riferimento all'ordinanza n. 461 del 20/08/1985 era possibile rinvenire una valida dichiarazione di pubblica utilità dell'opera ex art. 13 l. 2359/1865» (pag. 4 della sentenza impugnata), in quanto la realizzazione di edifici di edilizia economica e popolare nei terreni in oggetto (le part. 683 e 384, rimaste in contestazione) era avvenuta in assenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità, essendo emerso dagli atti che, disposta dal Comune di Messina un'occupazione d'urgenza, per la costruzione di alloggi di edilizia economica e popolare, con decreto n. 461/1985, coinvolgente anche terreni di proprietà del Sa., la Cooperativa originariamente incaricata («Consorzio dello Stretto», cui poi era subentrata, nel 1995, la Cooperativa So., la quale aveva realizzato e completato i lavori tra il settembre 1996 ed il maggio 2002, come descritto a pag. 15 della sentenza impugnata ) aveva «realizzato gli immobili su terreni diversi da quelli occupati in via d'urgenza» (pag. 2 della sentenza impugnata e pag. 12 del ricorso, che riporta estratti della CTU espletata in primo grado).
Il decreto sindacale n. 470 del 1999 consisteva, come riportato in ricorso, sulla base delle risultanze della CTU, in un atto con il quale «l'ente locale certificava l'avvenuta acquisizione al patrimonio comunale dei fondi occupati dalla So.... per effetto di accessione invertita ... ed irreversibile trasformazione determinata dall'esecuzione di quegli interventi». Il Tribunale aveva rilevato l'intervenuta inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità costituita dal decreto di occupazione d'urgenza del 1985, in mancanza di un'effettiva espropriazione entro i termini stabiliti e di qualsivoglia attività edificatoria sulle aree oggetto di occupazione d'urgenza, con conseguente giurisdizione del giudice ordinario.
Risulta, dalla sentenza della Corte d'appello, che il Comune, appellante principale, aveva contestato la statuizione di primo grado, deducendo che la fattispecie doveva essere ricostruita come «occupazione appropriativa», dal momento che il procedimento aveva preso «avvio dalla approvazione del piano di zona di cui alla del CC 885/C del 19/12/1979 nel quale era implicita la dichiarazione di pubblica utilità dell'opera», il che giustificava anche la successiva determina sindacale dell'01/06/1999, di acquisizione dell'area al patrimonio comunale.
Il Sa., appellante incidentale; aveva eccepito che la delibera del 1979, di approvazione del P.E.P. valevole ai fini della dichiarazione di pubblica utilità, non era stata neppure prodotta in giudizio e comunque l'irreversibile trasformazione dei terreni di proprietà del medesimo era avvenuta o nel 2002, alla data di completamento dei lavori, come accertato dal CTU, o nel giugno 1999, alla data del decreto sindacale di attestazione dell'acquisizione della porzione 683, non ancora irreversibilmente trasformata, al patrimonio comunale, in ogni caso «dopo la definitiva scadenza di validità del P.E.P. (al 19/12/1994) ex art. 38, comma 2, l. 865/1971» non potendo operare la proroga triennale di cui all'art. 51 l. 457/1978 (in quanto relativa a piani di zona già in essere alla data della sua entrata in vigore e non quindi successivamente deliberati, quale quello in oggetto, risalente al 1979).
La Corte d'appello, richiamandosi al contenuto della pronuncia delle Sezioni Unite n. 735/2015, nelle more del giudizio intervenuta, non ha preso posizione sulla questione, ritenendo assorbente il fatto che non assumeva più rilievo, dopo tale arresto, la distinzione tra occupazione usurpativa e occupazione appropriativa e che nella specie vi era stata, quanto alle part. 683 e 384, la realizzazione del programma di edilizia residenziale pubblica, con operatività dell'art. 3 l. 458/1988, spettando al privato il solo risarcimento del danno.
Assume quindi il ricorrente che vi sia stata violazione e falsa applicazione dell'art. 3 della L. 458/1988, ex art. 360 n. 3 c.p.c., nonché, ex art. 360 n. 5 c.p.c., omesso esame di fatto decisivo rappresentato dall'assenza di alcuna dichiarazione di pubblica utilità, in quanto, non ricorrendo il presupposto applicativo della costruzione e manipolazione del bene contrassegnata dal vincolo di scopo conseguente ad una dichiarazione di pubblica utilità, doveva e deve essere accolta la domanda restitutoria dell'attore, proposta in via principale, oggetto anche di specifica doglianza con appello incidentale (nel primo motivo), salvo un legittimo atto di acquisizione coattivo sanante ex art. 42-bis DPR 327/2001, allo stato non intervenuto.
Deduce, in replica, il Comune che, da un lato, l'art. 3 della l. 458/1988, disposizione di carattere speciale, esclude possa disporsi la retrocessione di area utilizzata per edilizia residenziale pubblica, una volta che sia intervenuta la trasformazione irreversibile della stessa e «l'acquisto» da parte di chi ha realizzato le opere (peraltro, quanto alla part. 683, per effetto anche di acquisizione al patrimonio del Comune, con decreto n. 4701 del 01/06/1999), e, dall'altro lato, nella specie, il Sa. avrebbe, in primo grado e in appello, «espressamente abdicato al suo diritto alla restituzione» (anche implicitamente), chiedendo la condanna al risarcimento del danno.
Ora, tale rinuncia implicita alla domanda di restituzione, con abdicazione del diritto dominicale, non emerge dagli atti, avendo il Sa. chiesto sin dal primo grado, in via principale, la restituzione dei terreni di proprietà e, solo in via subordinata, il risarcimento del danno per equivalente, tanto da avere proposto specifico motivo di appello incidentale avverso la decisione di primo grado che aveva solo per uno dei tre terreni accolto la domanda restitutoria, ritenendo impossibile per gli altri la tutela reale, in applicazione dell'art. 2058, comma 2, c.c. (eccessiva onerosità) e 2933, comma 2, c.c. (ritenendo che la distruzione dell'opera di edilizia residenziale convenzionata integrasse pregiudizio all'intera economia nazionale).
Deve quindi ritenersi che il Sa. non avesse chiaramente rinunciato al suo diritto alla restituzione dei terreni di proprietà. Occorre poi rilevare che sulla questione di giurisdizione (del giudice ordinario), in relazione a tutte le domande attoree, è calato il giudicato.
Orbene, come già detto, la proceduta è stata avviata (nel 1986) ed è proseguita nel vigore del 1° comma dell'art. 3 della legge speciale n. 458/1988; la realizzazione del programma costruttivo è stata completata nel 2002, ugualmente nel vigore della disposizione citata; il giudizio è stato introdotto nel 2001 quando il 1° comma dell'art. 3 della legge n. 458/1988 era ancora vigente.
Come già chiarito da questa Corte (Cass. 6390/2017; Cass. 25549/2018), la disposizione di cui all'art. 3, comma 1, l. 458 del 1988, -quale integrata, con la sentenza additiva della Corte Cost. n. 486 del 1991-che ha escluso la possibilità della retrocessione (da intendersi nel senso di restituzione, come precisato da Cass. n. 2712 del 1990) delle aree illecitamente occupate-, abrogata dall'art. 58 DPR 327/2001, ma ancora applicabile, in alcune fattispecie pregresse (anteriori all'entrata in vigore del TALE., 30/06/2003), ratione temporis,- deve essere intesa, «secondo l'impostazione esegetica convenzionalmente orientata data dalla menzionata sentenza n. 735 del 2015», «piuttosto che punto di emersione a livello normativo del fenomeno dell'occupazione acquisitiva, del quale il legislatore avrebbe preso atto», come «volta a riconoscere, secondo il normale criterio di efficacia delle leggi nel tempo di cui all'art 11 Preleggi, sia il diritto al risarcimento del danno per il proprietario del suolo utilizzato per opere di edilizia residenziale pubblica, agevolata e convenzionata, sia ad escludere in suo favore la tutela reale usualmente apprestata dall'ordinamento al danneggiato».
Tuttavia, nei suddetti precedenti, è stata ritenuta non rilevante la questione della compatibilità di tale disposizione coi principi della CEDU in tema di art. 1 Prot. 1 alla Convenzione e, dunque, la sua legittimità costituzionale in relazione al disposto dell'art 117 Cost. in quanto la parte ricorrente non aveva agito in via reipersecutoria, ma aveva chiesto il risarcimento per equivalente.
Il Consiglio di Stato (investito per giurisdizione esclusiva ex art. 133, comma 1, lett. g), c.p.a.), con sentenza della VI Sezione n. 460/2019, in controversia avente ad oggetto una domanda di restituzione, previa riduzione nel pristino stato, di terreni di proprietà di privati, l'occupazione dei terreni ed irreversibilmente trasformati, malgrado inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità ed in assenza di decreto di esproprio definitivo, ha affermato, confermando la decisione di primo grado che aveva accolto la domanda, che:
   a) sulla scorta di quanto statuito dall'Adunanza plenaria con la sentenza n. 2 del 2016, un'interpretazione letterale dell'art. 3 della L. n. 458 del 1988, escludendo la retrocessione del bene (con diritto al solo risarcimento del danno), consentirebbe «la reintroduzione di una fattispecie di espropriazione larvata o indiretta, conseguente al mero fatto dell'irreversibile trasformazione dell'area a seguito del compimento dell'opera pubblica, con correlativo acquisto della proprietà del fondo da parte chi ha realizzato le opere»;
   b) è pertanto necessario sottoporre la disposizione, già ritenuta il punto di emersione a livello normativo del fenomeno dell'occupazione acquisitiva (Corte di Cassazione. sez. un. 19.01.2015, n. 735), ad un'opera di interpretazione giuridica che tenga conto degli approdi raggiunti dalle Corti interne alla luce dei fondamentali pronunciamenti della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo;
   c) il contrasto tra l'istituto dell'occupazione acquisitiva e i principi dettati dall'art. 1, del protocollo addizionale alla Convenzione EDU può quindi essere risolto in via ermeneutica, addivenendo ad un adeguamento interpretativo della lettera della disposizione di cui al citato art. 3, alla luce dell'art. 42 della Costituzione;
   d) deve quindi essere escluso il presupposto sostanziaie «a monte» (il potere di acquisizione indiretta), con la conseguenze che cade, necessariamente, l'effetto meramente procedimentale «a valle» (il potere di non retrocedere il bene), così riconvertendo anche quest'ultima residuale ipotesi di occupazione appropriativa nel solco dei principi ormai consolidati dettati dall'Adunanza plenaria n. 2/2016;
   e) la previsione, così esattamente reinterpretata alla luce dei principi europei, costituzionali e giurisprudenziali delle Corti interne, nemmeno pone un dubbio di rilevanza, nel caso in esame, di una questione di legittimità costituzionale della L. n. 458 del 1988, art. 3, comma 1, in relazione al disposto dell'art. 117 Cost., comma 1.
Ora, ai sensi del 1 comma dell'art. 3 della legge n. 458/1988, l'utilizzazione di un'area per edilizia pubblica, sovvenzionata e convenzionata, con procedimento espropriativo dichiarato illegittimo o non concluso nei termini e forme di legge, determina per il proprietario il solo diritto ai danni, con esclusione della restituzione del fondo. La norma in esame, come già ritenuto da questa Corte (Cass. SU 735/2015) non presuppone necessariamente un'ipotesi di occupazione acquisitiva o usurpativa, mancando «sia l'irreversibile destinazione del suolo privato a parte integrante di un'opera pubblica (bene demaniale o patrimoniale indisponibile) sia l'appartenenza a un soggetto pubblico».
Invero, la costruzione di alloggi di edilizia residenziale può essere compiuta non da soggetti pubblici ma da parte di cooperative all'uopo delegate dal Comune, il che non poteva dare vita ad entità materiali qualificabili come opere pubbliche (cfr. Corte Cost. 1991 cit.) e gli alloggi realizzati vengono di regola assegnati a privati, al termine del programma costruttivo (cfr. Cass. 10709/1992; Cass. Sezz. UU. 12546/1992, ove si è evidenziato che l'intento del legislatore è stato quello di apprestare «tutela di un interesse solo indirettamente pubblico ma che non accede all'opera pubblica, essendo chiaro che, senza il riconoscimento legislativo, la posizione degli assegnatari di alloggi edificati mediante occupazione abusiva, pur se strutturalmente analoga a quella dell'ente beneficiario dell'opera pubblica, non avrebbe ricevuto tutela»).
Tuttavia, tale disposizione -premesso che per la sua applicazione la Corte d'appello avrebbe dovuto previamente verificare se ricorresse o meno una residuale ipotesi di occupazione appropriativa e quindi se vi fosse o meno una previa dichiarazione di pubblica utilità valida ed efficace al momento della costruzione dell'immobile, a ciò inducendo sia il tenore della norma, che, con dizione analoga a quella dell'art. 42, terzo comma, Cost., introduce uno specifico vincolo di scopo,- deve ormai essere reinterpretata alla luce dell'art. 42 Cost. e dell'art. 1, del protocollo addizionale alla Convenzione EDU e quindi dovendosi escludere un potere di acquisizione dei terreni in capo all'amministrazione, il divieto di restituzione del bene al privato, dettato dalla suddetta disposizione, non può essere ritenuto ancora operante (Corte di Cassazione, Sez. I civile, ordinanza 26.05.2022 n. 17017).

ESPROPRIAZIONECompetenza esclusiva dell’Organismo straordinario di liquidazione di un comune ad emanare un provvedimento art. 42-bis T.U. delle espropriazioni in conseguenza di un giudicato di ottemperanza.
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Processo amministrativo - Giudizio di ottemperanza – Provvedimento art. 42-bis T.U. delle espropriazioni - Competenza esclusiva dell’Organismo straordinario di liquidazione.
Rientra nella competenza esclusiva dell’Organismo straordinario di liquidazione di un comune il potere di emanare un provvedimento art. 42-bis T.U. delle espropriazioni in conseguenza di un giudicato di ottemperanza (1).
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   (1) Cfr. Cons. St., A.P., n. 15 del 2020.
Qualora l’Organismo straordinario di liquidazione non sia stato coinvolto nel giudizio di ottemperanza di primo grado e penda l’appello (anche in relazione alla mancata integrazione del contraddittorio), può essere nominato un Commissario ad acta, atteso che il ricorso di secondo grado non comporta, di per sé, un effetto sospensivo della sentenza di primo grado, tanto più ove, come nel caso che ne occupa, non sia stata nemmeno richiesta in sede cautelare la sospensione dell'esecuzione della stessa.
Da quanto sopra consegue anche una differente portata nei poteri del giudice dell’esecuzione, che devono essere opportunamente calibrati, al fine di non determinare l’irreversibilità degli effetti dell’esecuzione di sentenza.
Per tale ragione, parte ricorrente è onerata di prestare una cauzione, anche fideiussoria, avente ad oggetto l’intero importo così come quantificato nella parte motiva della sentenza da ottemperare ed i cui effetti cesseranno all’esito del giudizio di appello, ove pure favorevole (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 24.01.2022 n. 220 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2021

ESPROPRIAZIONEPer l’Adunanza plenaria il giudicato civile di rigetto della domanda risarcitoria in caso di occupazione acquisitiva preclude l’esercizio di altre azioni sul bene.
Secondo l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, il giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno per l’equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato dalla pubblica amministrazione, formatosi su una sentenza irrevocabile con cui è accertato il perfezionamento dell’occupazione acquisitiva, preclude alle parti, ai loro eredi o aventi causa il successivo esercizio, in relazione al medesimo bene, dell’azione di risarcimento del danno in forma specifica, dell’azione di rivendicazione e dell’azione avverso il silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza di provvedere ai sensi dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327 del 2001.
Ai fini di tale effetto preclusivo è sufficiente che dall’interpretazione della sentenza si possa ravvisare un accertamento, anche implicito, del perfezionamento della fattispecie dell’occupazione acquisitiva e dei relativi effetti sul regime proprietario del bene, purché si tratti di accertamento effettivo e costituente un necessario antecedente logico della statuizione finale di rigetto.
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Espropriazione per pubblico interesse – Occupazione acquisitiva – Domanda restitutoria – Preclusione in presenza di giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno per equivalente
In caso di occupazione illegittima, a fronte di un giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno per l’equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato dalla pubblica amministrazione, formatosi su una sentenza irrevocabile contenente l’accertamento del perfezionamento della fattispecie della cd. occupazione acquisitiva, alle parti e ai loro eredi o aventi causa è precluso il successivo esercizio, in relazione al medesimo bene, sia dell’azione (di natura personale e obbligatoria) di risarcimento del danno in forma specifica attraverso la restituzione del bene previa rimessione in pristino, sia dell’azione (di natura reale, petitoria e reipersecutoria) di rivendicazione, sia dell’azione ex artt. 31 e 117 Cod. proc. amm. avverso il silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza di provvedere ai sensi dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001.
Ai fini della produzione di tale effetto preclusivo non è necessario che la sentenza passata in giudicato contenga un’espressa e formale statuizione sul trasferimento del bene in favore dell’amministrazione, essendo sufficiente che, sulla base di un’interpretazione logico-sistematica della parte-motiva in combinazione con la parte-dispositiva della sentenza, nel caso concreto si possa ravvisare un accertamento, anche implicito, del perfezionamento della fattispecie della cd. occupazione acquisitiva e dei relativi effetti sul regime proprietario del bene, purché si tratti di accertamento effettivo e costituente un necessario antecedente logico della statuizione finale di rigetto (1).

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   (1) I. – Con la sentenza in rassegna, l’Adunanza plenaria, analizzando i quesiti sollevati da Cons. Stato, sez. IV, ordinanza 26.10.2020, n. 6531 (in Foro it., 2021, III, 8, con nota di BONA; oggetto della News US, n. 117 del 09.11.2020, sulla quale si veda infra § m), ha formulato i principi di diritto di cui in massima.
II. – Il collegio, dopo aver analizzato la vicenda processuale sottesa, le argomentazioni delle parti e quelli della sezione rimettente, nel decidere nel merito la controversia, ha osservato quanto segue:
      a) la soluzione dei quesiti sottoposti all’attenzione dell’Adunanza plenaria richiede di risolvere la questione se, e in presenza di quali presupposti, il giudicato civile di rigetto di una domanda di risarcimento per equivalente dei danni da perdita della proprietà sul suolo per effetto dell’occupazione illegittima e della trasformazione irreversibile del bene da parte della pubblica amministrazione, in applicazione dell’istituto di creazione giurisprudenziale della cd. occupazione acquisitiva, precluda:
         a1) l’esercizio di un’azione di risarcimento in forma specifica diretta alla restituzione del medesimo bene previa rimessione in pristino;
         a2) l’esercizio di un’azione reale di rivendicazione del bene;
         a3) l’esercizio di un’azione ai sensi degli artt. 31 e 117 c.p.a. avverso il silenzio dell’amministrazione sull’istanza di provvedere ai sensi dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327 del 2001;
      b) secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza, l’interpretazione del giudicato va effettuata alla stregua non soltanto del dispositivo della sentenza, ma anche della sua motivazione. Il contenuto decisorio della sentenza, ai fini della delimitazione dell’estensione del giudicato, è rappresentato non solo dal dispositivo, ma anche dalle affermazioni e dagli accertamenti contenuti nella motivazione, nei limiti in cui essi costituiscano una parte della decisione e risolvano questioni facenti parte del thema decidendum;
      c) occorre aderire a una concezione estensiva dei limiti oggettivi del giudicato, per cui il giudicato sostanziale si forma su tutto ciò che ha costituito oggetto della decisione, compresi gli accertamenti in fatto e in diritto, i quali rappresentano le premesse necessarie e il fondamento logico-giuridico della pronuncia finale, spiegando la sua autorità non solo sulla situazione giuridica soggettiva fatta valere con la domanda giudiziale –giudicato esplicito– ma anche sugli accertamenti che si ricollegano in modo inscindibile con la decisione e ne formano il presupposto –giudicato implicito –. In particolare:
         c1) il giudicato implicito si estende anche alla questione pregiudiziale di merito rispetto ad altra di carattere dipendente su cui si sia formato il giudicato esplicito, senza che a tale fine sia necessaria la proposizione di una domanda di parte volta a trasformare la questione pregiudiziale in causa pregiudiziale ai sensi dell’art. 34 c.p.c., purché dalla sentenza emerga che gli aspetti del rapporto su cui verte la questione pregiudiziale abbiano formato oggetto di una valutazione effettiva;
         c2) quindi “l’autorità di cosa giudicata copre l’accertamento, oltre che del singolo effetto dedotto come petitum (mediato), anche del rapporto complesso dedotto come causa petendi, sia esso di natura reale o di natura obbligatoria, dal quale l’effetto trae origine”;
      d) l’individuazione in modo più o meno estensivo dell’oggetto del processo si riflette anche sull’istituto processuale della modificazione della domanda, nelle forme della mutatio o della emendatio libelli, nel senso che quanto più si estendono i limiti oggettivi del giudicato, tanto più ampia dovrà essere concepita la facoltà di modifica delle domande in corso di giudizio, al fine di evitare che la parte possa vedersi preclusa la possibilità di proporre in futuro domande giudiziali, che potrebbero rivelarsi incompatibili con gli accertamenti oggetto di giudicato in quanto rientranti nella sfera del deducibile non dedotto nel processo definito;
      e) pertanto, aderendo a tale interpretazione estensiva del giudicato, deve ritenersi possibile convertire nel corso del giudizio la domanda di risarcimento o di restituzione in domanda ex art. 42-bis d.P.R. n. 327 del 2001;
      f) nel caso di specie, con riferimento alla sentenza resa dal Tribunale ordinario di Cagliari – con cui erano rigettate le domande di condanna della parte pubblica al pagamento della somma corrispondente al valore di mercato dei terreni illegittimamente occupati:
         f1) il giudice ha rigettato la domanda di risarcimento per equivalente del danno da perdita della proprietà per intervenuta prescrizione quinquennale, ricostruendo la fattispecie dedotta in giudizio in termini di occupazione acquisitiva, escludendo espressamente la configurabilità della occupazione usurpativa;
         f2) l’accertamento del perfezionamento dell’occupazione acquisitiva costituisce un passaggio logico necessario per qualificare l’occupazione illegittima e la trasformazione irreversibile del bene come illecito istantaneo e individuare il dies a quo del termine di prescrizione alla data di scadenza del termine dell’occupazione legittima, essendo la realizzazione dell’opera pubblica intervenuta in pendenza di tale termine;
         f3) il rigetto della domanda di risarcimento per equivalente dei danni da perdita della proprietà, per prescrizione quinquennale, contenuta nella sentenza passata in giudicato trova il suo antecedente logico necessario nell’accertato
perfezionamento della fattispecie dell’occupazione acquisitiva e dei relativi effetti, di estinzione della proprietà sul suolo in capo all’originaria proprietaria e di acquisizione della proprietà sullo stesso bene in capo all’amministrazione costruttrice dell’opera pubblica e nella correlata qualificazione dell’illecito generatore dell’obbligazione risarcitoria come illecito istantaneo;
         f4) il giudicato si è quindi formato, oltre che sull’inesistenza del diritto al risarcimento del danno, anche sul perfezionamento della fattispecie dell’occupazione acquisitiva e sui relativi effetti, di estinzione della proprietà del suolo in capo all’originaria proprietaria e di acquisizione della proprietà sullo stesso bene in capo all’amministrazione, in quanto antecedenti logici necessari della statuizione finale;
         f5) è irrilevante, ai fini della configurabilità del giudicato implicito, la mancata adozione, nella sentenza e nel relativo dispositivo, di una formale ed espressa statuizione sul trasferimento del bene in favore dell’amministrazione, in quanto i relativi effetti scaturiscono per legge dal perfezionamento della fattispecie, complessa, di creazione giurisprudenziale, rispetto ai quali la pronuncia giudiziale assume natura di sentenza di accertamento;
         f6) allo stesso modo è irrilevante che, nella specie, dalla documentazione catastale prodotta in giudizio emerga la persistente intestazione della proprietà dell’area all’originaria proprietaria;
         f7) pertanto, il giudicato civile si è formato sia sull’inesistenza del diritto al risarcimento dei danni perché estinto per prescrizione sia sul regime proprietario del bene conseguente all’accertato perfezionamento dell’occupazione acquisitiva;
      g) con riferimento all’effetto preclusivo scaturente dal giudicato civile sulla domanda risarcitoria in forma specifica proposta in giudizio:
         g1) si premette che l’azione di natura personale e obbligatoria di risarcimento dei danni in forma specifica ai sensi dell’art. 2058 c.c. si differenzia dall’azione reale di rivendicazione prevista dall’art. 948 c.c.;
         g2) con l’azione di rivendicazione, di carattere reale, petitorio e ripristinatorio, l’attore assume di essere proprietario della cosa e di non averne più il possesso e agisce contro chi la possegga e la detenga, al fine di ottenere il riconoscimento del suo diritto di proprietà e al fine di recuperare il bene, a prescindere dall’accertamento di un illecito;
         g3) l’azione di reintegrazione in forma specifica è un rimedio risarcitorio finalizzato alla rimozione delle conseguenze derivanti dall’evento lesivo tramite la produzione di una situazione materiale e giuridica corrispondente a quella che si sarebbe realizzata se non fosse intervenuto il fatto illecito produttivo di danno, il cui accoglimento è subordinato al ricorrere degli elementi della fattispecie di cui all’art. 2043 c.c., cui si aggiungono i limiti della possibilità e della non eccessiva onerosità per l’autore dell’illecito previsti dall’art. 2058 c.c.;
         g4) il giudice di primo grado ha qualificato le pretese fatte valere dinanzi al giudice civile come pretese risarcitorie e tale qualificazione della domanda non è stata impugnata con un motivo specifico in appello, con la conseguenza che sulla qualificazione della domanda -risarcimento in forma specifica – si è formato il giudicato interno;
         g5) quanto al rapporto tra azione di risarcimento in forma specifica –esercitata nel presente giudizio– e l’azione di risarcimento dei danni per equivalente –respinta con il giudicato civile–, si tratta di due rimedi in rapporto di concorso alternativo, diretti all’attuazione dell’unico diritto alla reintegrazione della sfera giuridica lesa che trova la sua fonte nella medesima fattispecie di illecito, con la particolarità che l’effetto programmato dalla norma al verificarsi della fattispecie si determina in seguito alla scelta compiuta dal titolare circa l’una o l’altra forma di tutela;
         g6) quindi, pur completandosi la fattispecie multipla con la proposizione della domanda e con l’opzione esercitata dall’attore a favore dell’una o dell’altra forma di tutela, il diritto rimane unico, come unica rimane la posizione giuridica sostanziale fatta valere in giudizio, con la conseguenza che il giudicato di rigetto della prima domanda preclude una nuova azione sulla seconda;
         g7) “pertanto, sotto tale angolo visuale l’effetto preclusivo si è formato in ragione della circostanza che sull’unico diritto al risarcimento dei danni, scaturente dal medesimo fatto illecito, si è già deciso e si è ormai formato il giudicato di rigetto fondato sul motivo portante, comune ad entrambi i rimedi, dell’estinzione per prescrizione dell’unico diritto al risarcimento dei danni”;
         g8) la domanda di risarcimento in forma specifica è, altresì, preclusa in ragione dell’incompatibilità indiretta con il giudicato formatosi sul regime proprietario del bene richiesto in restituzione, in particolare sull’effetto acquisitivo determinatosi in capo all’amministrazione costruttrice dell’opera pubblica, presupponendo l’azionabilità del diritto al risarcimento dei danni in forma specifica, la titolarità della proprietà del bene leso in capo all’attore, incompatibile con il giudicato implicito formatosi sul perfezionamento della fattispecie dell’acquisto della proprietà a titolo originario in capo all’amministrazione;
      h) l’esito di accoglimento dell’eccezione di giudicato non muterebbe neppure qualora fosse stata proposta azione reale di rivendicazione ai sensi dell’art. 948 ss. c.c., in quanto:
         h1) in considerazione del carattere di esclusività che caratterizza il diritto di proprietà, il principio logico di non contraddizione non consente la coesistenza di due diritti dello stesso contenuto relativi a un identico bene di cui siano titolari due soggetti diversi;
         h2) “l’essenza del giudicato sostanziale comporta l’impossibilità di far valere in un secondo processo tra le stesse parti (e/o relativi eredi e/o aventi causa) un diritto direttamente incompatibile con il diritto accertato da un primo giudicato”;
         h3) l’esercizio dell’azione di rivendicazione da parte del privato nei confronti dell’amministrazione dopo la formazione del giudicato sull’acquisto della proprietà in capo a quest’ultima è precluso dal giudicato in ragione della relazione di incompatibilità diretta del diritto di proprietà fatto valere con l’azione di rivendicazione rispetto al diritto di proprietà acquisito dall’amministrazione oggetto dell’accertamento passato in giudicato;
      i) anche l’azione ai sensi degli artt. 31 e 117 c.p.a. sull’istanza di provvedere ai sensi dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327 del 2001 trova il suo limite nei rapporti esauriti, quali quelli definiti con autorità di giudicato. L’azione sarebbe preclusa per l’incompatibilità sussistente tra la situazione giuridica soggettiva azionata, presupponente la persistente titolarità della proprietà del bene in capo alla parte ricorrente, e l’accertamento, con efficacia di giudicato, dell’effetto acquisitivo in favore dell’amministrazione;
      j) con riferimento alla questione relativa alla forza di resistenza del giudicato nazionale in caso di eventuale contrasto con il diritto dell’Unione europea, si rileva che:
         j1) la disciplina del regime di proprietà a norma del combinato disposto degli artt. 4, comma 1, e 5, comma 2, TUE e 345 TFUE esula dalle competenze attribuite all’Unione e appartiene alla competenza degli Stati membri, salvi eventuali profili di violazione del principio fondamentale di non discriminazione e del diritto di stabilimento che, nel caso di specie, non vengono in rilievo;
         j2) ai sensi dell’art. 6, commi 1 e 2, TUE, l’adesione dell’Unione alla Convenzione EDU non modifica o estende le competenze dell’Unione definite nei Trattati;
         j3) la giurisprudenza della Corte di giustizia UE non ha preso in considerazione le fattispecie di occupazione senza titolo che si sono avute nella prassi nazionale;
         j4) la questione appare pertanto irrilevante ai fini della decisione della controversia;
         j5) in ogni caso, la stessa Corte di giustizia UE ha variamente sottolineato l’importanza che il principio dell’autorità del giudicato riveste sia nell’ordinamento giuridico comunitario sia negli ordinamenti giuridici nazionali, rilevando che il diritto europeo non impone a un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata a una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto dell’Unione da parte di tale decisione;
         j6) in senso conforme la Corte di cassazione ha ribadito che il diritto dell’Unione europea non impone al giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne da cui deriva l’autorità di cosa giudicata di una decisione, nemmeno quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione, salva l’eccezionale ipotesi di discriminazione tra situazioni di diritto europeo e situazioni di diritto interno ovvero di pratica impossibilità o eccessiva difficoltà di esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento europeo;
         j7) quindi, l’oggetto del giudicato civile esula dal campo di applicazione del diritto dell’UE, non ponendosi una questione di compatibilità delle relative statuizioni con il diritto europeo;
      k) per quanto concerne il tema del giudicato civile contrastante con il diritto convenzionale della CEDU:
         k1) nel caso di specie, gli eredi dell’originaria proprietaria, non impugnando la sentenza di primo grado del giudice civile non hanno esaurito i rimedi processuali interni, con la conseguente mancata integrazione della condizione imprescindibile per la legittimazione a ricorrere alla Corte EDU, né, tanto meno, hanno adito la Corte entro il termine di decadenza di sei mesi dalla pronuncia nazionale definitiva di ultima istanza, stabilità dall’art. 35, comma 1, della CEDU;
         k2) in assenza di una pronuncia della Corte EDU sulla controversia decisa con la sentenza nazionale passata in giudicato, non può in concreto porsi la questione circa l’obbligo di esecuzione delle relative pronunce e di disapplicazione diretta del giudicato civile formatosi tra le parti;
         k3) a differenza di quanto accade per il diritto eurounitario, il giudice comune nazionale non può disapplicare la norma interna che ritenga incompatibile con la CEDU, dovendo invece, laddove ravvisi un contrasto tra la prima e la seconda, non risolvibile con lo strumento dell’interpretazione convenzionalmente conforme, sollevare questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 117, comma 1, Cost. e la norma convenzionale interposta;
         k4) la Corte costituzionale, con le sentenze n. 123 del 23.05.2017 (in Foro it., 2017, I, 2180, con nota di D'ALESSANDRO; Giur. cost., 2017, 1246, con nota di TRAVI; Giur. it., 2018, 708 (m), con nota di GRAZIANI; Dir. proc. amm., 2018, 642, con nota di POLICE, ROSSETTI) e n. 93 del 27.04.2018 (in Foro it., 2018, I, 2289, con nota di D'ALESSANDRO; Giur. it., 2018, 2667, con nota di SCALVINI; Nuova giur. civ., 2018, 1395, con nota di PASQUALETTO; Giur. cost., 2018, 1489, con nota di BRANCA), ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 106 c.p.a. e 395 e 396 c.p.c., per il processo amministrativo, e artt. 395 e 396 c.p.c., per il processo civile, censurati per violazione dell’art. 117, comma 1, Cost., nella parte in cui non prevedono un diverso caso di revocazione della sentenza quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, comma 1, CEDU, per conformarsi a una sentenza definitiva della Corte EDU;
         k5) con tali sentenze, la Corte, dopo aver distinto i ricorrenti nel giudizio di revocazione che avevano adito la Corte EDU da quelli che non si erano avvalsi di tale facoltà, escludendo per questi ultimi l’operatività del rimedio convenzionale, ha escluso la sussistenza di un obbligo convenzionale generale di riapertura dei processi, diversi da quelli penali, allorquando ciò fosse necessario per conformarsi a una sentenza della Corte EDU.
In particolare, la Corte ha evidenziato l’esigenza di tutelare i soggetti diversi dallo Stato che avevano preso parte al giudizio interno, unitamente al rispetto della certezza del diritto garantita dalla res iudicata ed al rilievo che nei processi civili e amministrativi non è in gioco la libertà personale, concludendo che nelle materie diverse da quella penale, non esiste, allo stato, un obbligo convenzionale generale di adottare la misura ripristinatoria della riapertura del processo;
         k6) su un piano ordinamentale più generale, il legislatore, proprio per adeguarsi all’orientamento della Corte EDU ha introdotto l’istituto dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327 del 2001, il quale, anche se dichiarato applicabile dal comma 8 ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore, incontra il limite generale dei rapporti chiusi in modo irretrattabile con efficacia di giudicato, ossia quello dei rapporti esauriti;
         k7) “deve pertanto escludersi la possibilità di una riapertura generalizzata dei processi –siano essi civili che amministrativi– definiti con sentenza passata in giudicato, nelle quali sia stata fatta applicazione dell’istituto pretorio della cd. occupazione acquisitiva, e di una disapplicazione dei relativi giudicati”;
      l) nel formulare i principi di diritto di cui in massima, il collegio ha ritenuto sussistenti i presupposti per decidere l’intera controversia ai sensi dell’art. 99, comma 4, c.p.a., rigettando l’appello proposto, incentrato sull’unico motivo di violazione dell’art. 2909 c.c. e del conseguente erroneo accoglimento dell’eccezione di giudicato.
La domanda di risarcimento dei danni in forma specifica esercitata è preclusa dal giudicato formatosi sulla statuizione di rigetto dell’azione di risarcimento per equivalente dei danni da perdita della proprietà, fondata sul motivo portante, comune a entrambi i rimedi, dell’estinzione per prescrizione dell’unico diritto al risarcimento dei danni scaturente dal perfezionamento del medesimo illecito istantaneo dell’occupazione acquisitiva.
   III. – Per completezza si osserva quanto segue:
      m) la questione, come già evidenziato, è stata rimessa all’Adunanza plenaria dalla citata Cons. Stato, sez. IV, ordinanza 26.10.2020, n. 6531 (in Foro it., 2021, III, 8, con nota di BONA; oggetto della News US, n. 117 del 09.11.2020), che ha, in particolare, sollevato alcune questioni relative alla rilevanza, ai fini del giudizio, del giudicato civile formatosi sulla domanda di risarcimento per equivalente rispetto alla domanda di “risarcimento in forma specifica”, proposta successivamente dinanzi alla giurisdizione amministrativa.
Alla citata News US si rinvia, oltre che per l’esame dei quesiti e delle argomentazioni sviluppate dal collegio: al § p), per precedenti giurisprudenziali sulla rinuncia abdicativa in generale; al § q), con riferimento alla rinuncia abdicativa e all’art. 42-bis d.P.R. n. 327 del 2001; al § r), sulla restituzione dell’area irreversibilmente trasformata dall’opera pubblica; al § s), sul superamento dell’istituto dell’occupazione appropriativa; al § t), sul rapporto tra domanda risarcitoria e precedente giudicato di rigetto; al § u), sul rispetto del principio della intangibilità del giudicato nel diritto europeo; al § v), sul principio dell’intangibilità del giudicato nell’esecuzione di sentenze di condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo; al § w), sul principio c.d. del “dedotto e deducibile” e sui limiti oggettivi e cronologici del giudicato; al § x), sul versante processuale del rapporto tra tutela in forma specifica e risarcimento per equivalente; al § aa), per riferimenti dottrinali sui vari argomenti esaminati nella News;
      n) sul diritto del proprietario a ottenere dalla pubblica amministrazione espropriante le necessarie trascrizioni per rendere opponibile ai terzi l’intervenuto trasferimento di proprietà, a fronte di giudicato civile che ha dichiarato sussistente l’occupazione appropriativa, si veda C.g.a., 19.02.2021, n. 125 (che ha anticipato i principi fissati dalla Plenaria), secondo cui:
- “Il privato ha titolo ad ottenere dalla P.A. espropriante le necessarie trascrizioni onde rendere conoscibile ed opponibile a terzi l’intervenuto passaggio di proprietà ed evitare i fastidi derivanti –in termini di pagamento tasse, formulazione dichiarazione redditi, e quant’altro- dalla condizione apparente per cui il bene in oggetto figurerebbe ancora nel compendio di pertinenza del privato espropriato; a tale risultato si può pervenire mediante accordo ricognitivo dell’avvenuto trasferimento della proprietà in virtù dei giudicati civili, ovvero mediante un decreto di esproprio (ora per allora), ovvero ancora attraverso un provvedimento ex art. 42-bis t.u. espr. (con esclusione di qualsiasi corresponsione di somme o indennità di sorta, ove la questione economica sia stata definita con i giudicati civili che abbiano riconosciuto al privato il diritto al risarcimento del danno per la perdita della proprietà degli immobili)”;
- “Ai fini della estensione del giudicato il contenuto decisorio di una sentenza è rappresentato non solo dal dispositivo, ma anche dalle affermazioni e dagli accertamenti contenuti nella motivazione, nei limiti in cui essi costituiscano una parte della decisione, in quanto risolvano questioni facenti parte del thema decidendi e specificamente dibattute tra le parti, ovvero integrino una necessaria premessa od un presupposto logico indefettibile della pronuncia; in tal caso è lecito invocare il principio della integrabilità del dispositivo con la motivazione della sentenza, e la portata precettiva di una pronuncia giurisdizionale va individuata non solo tenendo conto delle statuizioni formalmente contenute nel dispositivo, ma coordinando questo con la motivazione”;
      o) sull’esigenza di interpretare il giudicato coordinando il dispositivo con la motivazione, si vedano, tra le altre:
         o1) Cons. Stato, sez. III, 16.11.2018, n. 6471 (in Foro amm., 2018, 1896), secondo cui “Il contenuto decisorio di una sentenza è rappresentato, ai fini della estensione del relativo giudicato, non solo dal dispositivo, ma anche dalle affermazioni e dagli accertamenti contenuti nella motivazione, nei limiti in cui essi costituiscano una parte della decisione, in quanto risolvano questioni facenti parte del thema decidendi e specificamente dibattute tra le parti, ovvero integrino una necessaria premessa od un presupposto logico indefettibile della pronuncia; in tal caso è lecito invocare il principio della integrabilità del dispositivo con la motivazione della sentenza, e la portata precettiva di una pronuncia giurisdizionale va individuata non solo tenendo conto delle statuizioni formalmente contenute nel dispositivo, ma coordinando questo con la motivazione, le cui enunciazioni, se dirette univocamente all'esame di una questione dedotta in causa, incidono sul momento precettivo e vanno considerate come integrative del contenuto formale del dispositivo, con la conseguenza che il giudicato risulta simmetricamente esteso”; 
         o2) Cass. civ., sez. I, 08.06.2007, n. 13513 (in Mass., 2007, 1058), secondo cui “Il contenuto decisorio di una sentenza è rappresentato, non solo dal dispositivo, ma anche dalle affermazioni e dagli accertamenti contenuti nella motivazione, nei limiti in cui essi costituiscano una parte della decisione, in quanto risolvano questioni facenti parte del thema decidendum e specificamente dibattute tra le parti, ovvero integrino una necessaria premessa od un presupposto logico indefettibile della pronuncia”;
         o3) Cass. civ., sez. II, 27.10.1994, n. 8865 (in Mass., 1994), secondo cui “Il contenuto decisorio di una sentenza è rappresentato, ai fini della estensione del relativo giudicato, non solo dal dispositivo, ma anche dalle affermazioni e dagli accertamenti contenuti nella motivazione, nei limiti in cui essi costituiscano una parte della decisione, in quanto risolvano questioni facenti parte del thema decidendum e specificamente dibattute tra le parti, ovvero integrino una necessaria premessa od un presupposto logico indefettibile della pronuncia (nella specie, nel giudizio di merito era stato eccepito il giudicato esterno assumendosi che in un precedente giudizio era stata esclusa l'esistenza del credito azionato dall'attore, allora dallo stesso opposto in compensazione; nella sentenza di merito -cassata dalla suprema corte per violazione di legge e vizio di motivazione- si era ritenuto che il primo giudice non aveva statuito in ordine all'eccezione di compensazione, attribuendosi rilievo determinante al contenuto del dispositivo e trascurandosi le affermazioni contenute nella motivazione -secondo la suprema corte potenzialmente rilevanti, a prescindere dalla loro correttezza giuridica- secondo cui la tacita rinuncia del convenuto all'eccezione di compensazione equivaleva ad un rigetto nel merito della stessa e, conseguentemente, l'altra parte non aveva interesse a sollecitare una decisione al riguardo)”;
      p) sul giudicato implicito e sui relativi limiti, oltre a quanto richiamato al § m), si vedano, tra le altre:
         p1) Cass. civ., sez. III, 15.05.2018, n. 11754 (in Riv. dir. proc., 2020, 411, con nota di GABOARDI), secondo cui, tra l’altro, “Qualora due giudizi tra le stesse parti si riferiscano al medesimo rapporto giuridico ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l'accertamento così compiuto in ordine alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe le cause, formando la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza, preclude il riesame dello stesso punto accertato e risolto, senza che, ai fini della formazione del giudicato esterno sullo stesso, sia necessaria una domanda di parte volta ad ottenere la decisione di una questione pregiudiziale con efficacia di giudicato, come previsto dall'art. 34 c.p.c., essendo tale norma rivolta soltanto a disciplinare il profilo dell'individuazione della competenza per materia o per valore del giudice dell'intera causa”;
         p2) Cass. civ., sez. lav., 09.12.2016, n. 25269 (in Mass., 2016, 885), secondo cui “Qualora due giudizi tra le stesse parti si riferiscano al medesimo rapporto giuridico ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l'accertamento così compiuto in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe le cause, formando la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza, preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto, anche se il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo ed il petitum del primo (nella specie, la suprema corte ha cassato con rinvio la pronuncia impugnata ritenendo che, in materia di opposizione a cartella esattoriale, avesse effetti preclusivi l'insussistenza di un'intermediazione di manodopera ex art. 1 l. n. 1369 del 1960 accertata in un giudizio relativo ad una diversa cartella esattoriale)”;
         p3) Cass. civ., sez. I, 17.03.2015, n. 5264 (in Mass., 2015, 190; Riv. corte conti, 2015, fasc. 1, 327), secondo cui “Il giudicato non si forma, nemmeno implicitamente, sugli aspetti del rapporto che non hanno costituito oggetto di specifica disamina e valutazione da parte del giudice, cioè di un accertamento effettivo, specifico e concreto, come accade allorquando la decisione sia stata adottata alla stregua del principio della «ragione più liquida», basandosi la soluzione della causa su una o più questioni assorbenti”;
         p4) Cass. civ., sez. III, 21.05.2007, n. 11672 (in Mass., 2007, 887), secondo cui “Vero che gli effetti del giudicato sostanziale si estendono, anche in caso di rigetto della domanda, a tutte le statuizioni inerenti all'esistenza e alla validità del rapporto dedotto in giudizio, l'operatività di tale efficacia deve peraltro intendersi, limitata alle statuizioni necessarie ed indispensabili per giungere alla decisione, non estendendosi, invece, alle enunciazioni puramente incidentali, nonché alle considerazioni prive di relazione causale con quanto abbia formato oggetto della pronuncia, ovvero di collegamento con il contenuto del dispositivo - e prive pertanto di efficacia decisoria allo stesso modo, il giudicato implicito può ritenersi formato solo quando tra la questione risolta espressamente e quella considerata implicitamente, decisa sussista non soltanto un rapporto di causa ad effetto, ma un nesso di dipendenza così indissolubile che l'una non possa essere decisa senza la preventiva decisione dell'altra, poiché, diversamente, ne risulterebbero illegittimamente pregiudicati i diritti delle parti (nella specie, la suprema corte, sulla scorta dell'enunciato principio, ha confermato la sentenza impugnata con la quale, in riferimento ad una controversia di risoluzione per finita locazione, era stata rigettata l'eccezione di giudicato riferito ad una precedente pronuncia intercorsa tra le parti nella quale era rimasta accertata la sanatoria della morosità e, quindi, il mero adempimento sopravvenuto dell'obbligazione di corresponsione del canone da parte del conduttore, senza, però, che tale decisione potesse far stato sulla validità ed efficacia del contratto di locazione)”;
         p5) Cass. civ., sez. lav., 16.05.2002, n. 7140 (in Mass., 2002), secondo cui “Il giudicato si forma su tutto ciò che ha costituito oggetto della decisione, anche ove ne sia solo il necessario presupposto logico, e la relativa preclusione opera anche nell'ipotesi in cui il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che costituiscono il petitum del primo (nella specie, la suprema corte ha confermato l'impugnata sentenza, che aveva ritenuto precluso, per precedente giudicato, l'accertamento della tempestività di una domanda, in quanto necessario presupposto della pronuncia di accoglimento della domanda stessa)”;
         p6) Cass. civ., sez. III, 08.10.1997, n. 9775 (in Mass. 1997), secondo cui “Il giudicato si forma, oltre che sull'affermazione (o negazione) del bene della vita controverso, sugli accertamenti logicamente preliminari e indispensabili ai fini del decisum, quelli cioè che si presentano come la premessa indefettibile della pronunzia, mentre non comprende le enunciazioni puramente incidentali e in genere le considerazioni estranee alle controversie e prive di relazione causale col decisum; l'autorità del giudicato è circoscritta oggettivamente in conformità alla funzione della pronunzia giudiziale, diretta a dirimere la lite nei limiti delle domande hinc et inde proposte, sicché ogni affermazione eccedente la necessità logico giuridica della decisione deve considerarsi un obiter dictum, come tale non vincolante”;
         p7) Cass. civ., sez. III, 23.10.1995, n. 10999 (in Mass., 1995), secondo cui “Qualora due giudizi tra le stesse parti vertano sul medesimo negozio o rapporto giuridico, l'accertamento compiuto circa una situazione giuridica ovvero la risoluzione di una questione di fatto o di diritto che incida su di un punto fondamentale di entrambe le cause ed abbia costituito la logica premessa della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza passata in giudicato, preclude l'esame del punto accertato e risolto anche nel caso in cui l'altro giudizio abbia finalità diverse da quelle che costituiscono lo scopo od il petitum del primo (nella specie, la suprema corte ha confermato la sentenza del giudice del merito che chiamato a giudicare sulla spettanza dell'indennità per la perdita dell'avviamento commerciale aveva accolto l'eccezione di una cosa giudicata formulata dal convenuto con riferimento ad un precedente giudizio inter partes avente ad oggetto la durata del contratto di locazione ed in cui si era affermata la non assoggettabilità del rapporto alla disciplina della l. 27.07.1978 n. 392)”;
      q) sulle funzioni della trascrizione, si vedano, tra le altre:
         q1) Cass. civ., sez. II, 03.02.2005, n. 2161 (in Giur. it., 2005, 2275, con nota di PERATONER), secondo cui “Il conflitto tra acquirente a titolo derivato e acquirente per usucapione è sempre risolto a favore dell'usucapiente, indipendentemente dalla trascrizione della sentenza che accerta l'avvenuto acquisto a titolo originario e dall'anteriorità della trascrizione di essa o della relativa domanda rispetto alla trascrizione dell'acquisto a titolo derivato, perché il principio dettato dall'art. 2644 c.c., con riferimento agli atti indicati nell'art. 2643, non risolve il conflitto tra acquisto a titolo originario e acquisto a titolo derivativo, ma unicamente quello tra più acquisti a titolo derivativo dal medesimo dante causa”;
         q2) Cass. civ., 29.04.1982, n. 2717 (in Mass., 1982), secondo cui “La sentenza con cui viene pronunciato l'acquisto per usucapione del diritto di servitù ha natura dichiarativa e non costitutiva del diritto stesso e, pertanto, la trascrizione di detta sentenza non ricade nella disciplina dell'art. 2644, n. 14 c.c., bensì in quella dell'art. 2651 dello stesso codice per il quale la trascrizione ha funzione di mera pubblicità-notizia ed è, quindi, priva di efficacia sostanziale”;
         q3) nel senso che il diritto della parte interessata alla trascrizione dell’atto prescinda dalla presenza o meno di un ordine di trascrizione nella sentenza si veda Cass. civ., sez. II, 11.08.2005, n. 16853 (in Mass., 2005; Vita not., 2006, 300), secondo cui “Poiché, ai sensi dell'art. 2651 c.c., il conservatore ha l'obbligo di trascrivere l'atto anche senza l'ordine del giudice, il capo della sentenza contenente tale ordine non ha fra le parti un autonomo contenuto decisionale che lo renda suscettibile di impugnazione, giacché -in caso di rifiuto del conservatore- il diritto alla trascrizione è diversamente tutelato dalla procedura prevista dagli art. 2674 c.c., 113-bis disp. att. c.c. e 745 c.p.c.”;
      r) sulle differenze e sui rapporti tra azione di risarcimento dei danni in forma specifica e azione di rivendicazione, si vedano, tra le altre:
         r1) con specifico riferimento all’onere di allegazione e prova, Cass. civ., sez. II, 27.11.2018, n. 30705, secondo cui “Nel giudizio sul risarcimento del danno derivante dall'illegittimo protrarsi delle occupazioni finalizzate alle espropriazioni, l'indagine sulla spettanza all'istante del diritto di proprietà sul bene si traduce nell'accertamento della qualità di titolare del credito risarcitorio e, pertanto, può essere condotta con gli ordinari strumenti probatori, ed anche con il ricorso a presunzioni, non richiedendosi la rigorosa dimostrazione del diritto dominicale prescritta in tema di rivendicazione”;
         r2) Cass. civ., sez. un., 28.05.2014, n. 11912 (in Mass., 2014, 407), secondo cui “Il giudicato sulla condanna risarcitoria in forma specifica preclude ogni questione sulla giurisdizione del giudice adìto (nella specie amministrativo) anche relativamente al risarcimento per equivalente, atteso che ogni statuizione di merito comporta una pronuncia implicita sulla giurisdizione e che la pretesa risarcitoria, pur nella duplice alternativa attuativa, è unica, potendo la parte, tramite una mera emendatio, convertire l'originaria richiesta nell'altra ed il giudice di merito attribuire d'ufficio al danneggiato il risarcimento per equivalente, anziché in forma specifica”;
         r3) Cons. Stato, sez. IV, 22.01.2014, n. 306, secondo cui “Poiché la restituzione del bene, previa eventuale riduzione in pristino, costituisce modalità di risarcimento in forma specifica, ai sensi dell'art. 2058 c.c., alternativa al risarcimento per equivalente, ossia un mezzo concorrente per conseguire la riparazione del pregiudizio subìto, la scelta in corso di giudizio per una delle due modalità non costituisce mutatio libelli, risolvendosi solo in una emendatio libelli”;
         r4) Cons. Stato, sez. IV, 01.06.2011, n. 3331 (in Vita not., 2011, 935; Foro amm.-Cons. Stato, 2011, 1883), secondo cui “Qualora venga interposta domanda giudiziale avente ad oggetto il risarcimento del danno derivante dall'occupazione acquisitiva, costituisce non inammissibile mutatio, bensì ammissibile emendatio libelli, la proposizione della domanda di restituzione del terreno illegittimamente occupato, considerato che la doppia azione risarcitoria e restitutoria costituisce espressione della tutela approntata dall'ordinamento in favore dell'amministrato, in base alla quale la tutela in forma specifica e quella per equivalente appaiono come mezzi concorrenti per conseguire la riparazione del pregiudizio subìto”;
         r5) Cass. civ., sez. III, 10.12.2004, n. 23086 (in Mass., 2004; Riv. giur. edilizia, 2005, I, 1145, con nota di CICIA), secondo cui “L'azione di rivendicazione e quella di restituzione hanno natura distinta; la prima ha carattere reale, si fonda sul diritto di proprietà di un bene, del quale l'attore assume di essere titolare e di non avere la disponibilità, ed è esperibile contro chiunque in fatto possiede o detiene il bene al fine di ottenere l'accertamento del diritto di proprietà sul bene stesso e di riacquisirne il possesso; la seconda ha, invece, natura personale, si fonda sulla deduzione della insussistenza o del sopravvenuto venir meno di un titolo di detenzione del bene da parte di chi attualmente lo detiene per averlo ricevuto dall'attore o dal suo dante causa, ed è rivolta, previo accertamento di quella insussistenza o di quel venir meno, ad ottenere consequenzialmente la consegna del bene; ne discende che l'attore in restituzione non ha l'onere di fornire la prova del suo diritto di proprietà; ma solo dell'originaria insussistenza o del sopravvenuto venir meno -per invalidità, inefficacia, decorso del termine di durata, esercizio dell'eventuale facoltà di recesso- del titolo giuridico che legittimava il convenuto alla detenzione del bene nei suoi confronti; le due azioni, peraltro, pur avendo causa petendi e petitum distinti, in quanto dirette al raggiungimento dello stesso risultato pratico della disponibilità materiale del bene riacquisito, possono non solo proporsi in via alternativa o subordinata nel medesimo giudizio, ma anche trasformarsi l'una nell'altra nel corso di esso, nel rispetto delle preclusioni introdotte nel codice di rito dalla l. n. 353 del 1990”;
      s) con riferimento agli effetti del giudicato che abbia disposto la restituzione del bene, si veda, tra le altre, Cons. Stato, Ad. plen., 09.02.2016, n. 2 (in Foro it., 2016, III, 185, con note di BARILÀ, PARDOLESI R.; Corriere giur., 2016, 498, con nota di CARBONE; Giur. it., 2016, 1212, con nota di URBANI; Vita not., 2016, 196; Riv. neldiritto, 2016, 587; Riv. neldiritto, 2016, 607, con nota di BENEDETTI; Foro amm., 2016, 267; Urbanistica e appalti, 2016, 803, con nota di GISONDI; Riv. giur. edilizia, 2016, I, 94; Guida al dir., 2016, fasc. 11, 92, con nota di MEZZACAPO; Riv. amm., 2017, 38), secondo cui “Il provvedimento di acquisizione, previsto dall'art. 42-bis d.p.r. 08.06.2001 n. 327, non può essere emanato dal commissario ad acta in sede di esecuzione della sentenza che preveda esclusivamente la restituzione del bene utilizzato senza titolo dall'amministrazione; può invece essere emanato dal commissario in sede di esecuzione della sentenza di mero annullamento di atti del procedimento di espropriazione, o di sentenza che preveda espressamente tale possibilità di acquisizione o, ancora, di sentenza che abbia accertato il silenzio dell'amministrazione sulla istanza di acquisizione proposta dal privato interessato”;
      t) sull’istituto dell’occupazione acquisitiva e sulla giurisprudenza relativa al termine di prescrizione quinquennale per esperire l’azione di risarcimento del danno per equivalente, si vedano, oltre quanto evidenziato al § m):
         t1) sull’istituto dell’occupazione acquisitiva in particolare, Cass. civ., 26.02.1983, n. 1464 (in Foro it., 1983, I, 626, con nota di ORIANI; Giur. it., 1983, I, 1, 1629, con nota di ANNUNZIATA; Giust. civ., 1983, I, 1736, con nota di MASTROCINQUE, ANNUNZIATA; Giust. civ., 1983, I, 1736, con nota di CAROTENUTO; Rass. giur. Enel, 1983, 30, con nota di PATERNÒ; Riv. amm., 1983, 337, con nota di PALLOTTINO; Riv. giur. edilizia, 1983, I, 218, con nota di A.C.V.C.), secondo cui: “Occupato dalla p.a. (o da un suo concessionario) illegittimamente, per mancanza del provvedimento autorizzativo o per decorso dei termini di occupazione legittima, un fondo di proprietà privata per la costruzione di un'opera pubblica, la radicale trasformazione del fondo irreversibilmente destinato alla realizzazione dell'opera pubblica produce l'acquisto a titolo originario della proprietà da parte della p.a. e l'insorgere del diritto del privato al risarcimento del danno derivante dalla perdita del diritto di proprietà (nella specie: la sentenza ha ritenuto irrilevante in ordine al regime proprietario del bene ed inidoneo a far venir meno il diritto del privato al risarcimento del danno il decreto di espropriazione emanato dopo l'acquisto della proprietà da parte della p.a. e depositato per la prima volta nel giudizio dinanzi alla corte di cassazione)”;
         t2) Cass. civ., 05.02.1985, n. 784 (in Mass., 1985), secondo cui “Nelle ipotesi in cui la p.a. occupi un fondo di proprietà privata per la costruzione di un'opera pubblica e tale occupazione sia illegittima, per totale mancanza di provvedimento autorizzativo o per decorso dei termini in relazione ai quali l'occupazione si configura legittima, la radicale trasformazione del fondo, con l'irreversibile sua destinazione al fine della costruzione dell'opera pubblica, comporta l'estinzione del diritto di proprietà del privato e la contestuale acquisizione a titolo originario della proprietà in capo all'ente costruttore ed inoltre costituisce un fatto illecito (istantaneo, sia pure con effetti permanenti) che abilita il privato a chiedere, nel termine prescrizionale di cinque anni dal momento della trasformazione del fondo nei sensi indicati, la condanna dell'ente medesimo a risarcire il danno derivante dalla perdita del diritto di proprietà, mediante il pagamento di una somma pari al valore che il fondo aveva in quel momento, con la rivalutazione per l'eventuale diminuzione del potere di acquisto della moneta fino al giorno della liquidazione, con l'ulteriore conseguenza che un provvedimento di espropriazione del fondo per pubblica utilità, intervenuto successivamente a tale momento, deve considerarsi del tutto privo di rilevanza, sia ai fini dell'assetto proprietario sia ai fini della responsabilità da illecito”;
         t3) Cass. civ., 21.05.1984, n. 3118 (in Mass., 1984), secondo cui “In ipotesi di illegittima occupazione da parte della p.a. di fondo di proprietà privata, per la costruzione di un'opera pubblica, per mancanza di provvedimento autorizzativo o per decorso dei relativi termini, la radicale trasformazione del fondo, univocamente interpretabile nel senso dell'irreversibile sua destinazione al fine della costruzione dell'opera pubblica, da un lato, comporta l'estinzione in quel momento del diritto di proprietà del privato e la contestuale acquisizione, a titolo originario, della proprietà in capo all'ente costruttore e, dall'altro, costituisce un illecito (istantaneo, con effetti permanenti) che abilita il privato a chiedere, nel termine prescrizionale di cinque anni dal momento della trasformazione del fondo nei sensi prima indicati, la condanna dell'ente medesimo a risarcire il danno derivante dalla perdita del diritto di proprietà, mediante il pagamento di una somma pari al valore che il fondo aveva in quel momento con la rivalutazione monetaria e con l'ulteriore conseguenza che un provvedimento di espropriazione intervenuto successivamente a tale momento deve considerarsi del tutto privo di rilevanza, sia ai fini dell'assetto proprietario, sia ai fini della responsabilità da illecito e della individuazione del giudice competente sulla domanda risarcitoria secondo gli ordinari criteri di valore”;
         t4) Cass. civ., 06.02.1982, n. 1172 (in Mass., 1987), secondo cui “Nell'ipotesi di illegittima occupazione di un fondo del privato da parte della p.a. per l'esecuzione di una opera pubblica, è la radicale trasformazione (e non una mera modificazione) del fondo stesso con la sua irreversibile destinazione all'opera predetta, che determina la cosiddetta accessione invertita della proprietà del suolo a quella della costruzione su di esso effettuata e che contemporaneamente costituisce il fatto illecito che abilita il privato a chiedere il risarcimento del danno derivante dalla perdita del suo diritto di proprietà; pertanto è dal momento di tale irreversibile trasformazione (che può essere anche anteriore a quello della definitiva ultimazione dell'opera pubblica) che inizia a decorrere il termine quinquennale di prescrizione del diritto risarcitorio del privato”;
      u) sulla sussistenza o meno dell’obbligo del giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne da cui derivi l’autorità di cosa giudicata, si veda supra § m) –e, in particolare, § m), della News US, n. 117 del 09.11.2020 ivi citata– nonché:
         u1) Corte di giustizia UE, 11.09.2019, C-676/17, secondo cui “Il diritto dell'Unione, in particolare i principi di equivalenza e di effettività, deve essere interpretato nel senso che non osta, in linea di principio, ad una disposizione nazionale, come interpretata da una sentenza di un giudice nazionale, che prevede un termine di decadenza di un mese per la presentazione di una domanda di revocazione di una decisione giudiziaria definitiva pronunciata in violazione del diritto dell'Unione, che decorre dalla notifica della decisione di cui si chiede la revocazione; tuttavia, il principio di effettività, in combinato disposto con il principio della certezza del diritto, deve essere interpretato nel senso che osta, in circostanze come quelle di cui trattasi nel procedimento principale, all'applicazione da parte di un giudice nazionale di un termine di decadenza di un mese per la presentazione di una domanda di revocazione di una decisione giudiziaria definitiva qualora, al momento della presentazione di tale domanda di revocazione, la sentenza che stabilisce detto termine non sia stata ancora pubblicata nel Monitorul Oficial al României”;
         u2) Corte di giustizia CE, 16.03.2006, C-234/04 (in Foro amm.-Cons. Stato, 2006, 691; Guida al dir., 2006, fasc. 14, 109, con nota di CASTELLANETA; Riv. dir. internaz., 2006, 549), secondo cui “Il principio di cooperazione (art. 10 Ce) non impone ad un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne allo scopo di riesaminare ed annullare una decisione giurisdizionale contraria al diritto comunitario ma passata in giudicato; l'obbligo di riesaminare una decisione «definitiva» che risulti essere adottata in violazione del diritto comunitario sussiste a condizione che l'organo competente disponga, in virtù del diritto nazionale, del potere di tornare su tale decisione”;
         u3) Corte di giustizia CE, 01.06.1999, C-126/97 (in Foro it., 1999, IV, 470, con nota di BASTIANON; Dir. e pratica società, 1999, fasc. 16, 81, con nota di DITTA; Giust. civ., 1999, I, 2887), secondo cui “Il diritto comunitario non osta a norme di diritto processuale nazionale ai sensi delle quali un lodo arbitrale parziale avente natura di decisione definitiva che non ha fatto oggetto di impugnazione per nullità entro il termine di legge, acquisisce l'autorità della cosa giudicata e non può più essere rimesso in discussione da un lodo arbitrale successivo, anche se ciò è necessario per poter esaminare, nell'ambito del procedimento di impugnazione per nullità diretto contro il lodo arbitrale successivo, se un contratto, la cui validità giuridica è stata stabilita dal lodo parziale, sia nullo perché in contrasto con l'art. 81 Ce”;
         u4) nella giurisprudenza di legittimità: Cass. civ., sez. trib., 27.01.2017, n. 2046 (in Mass., 2017, 82), secondo cui:
- “Il diritto dell'Unione europea, così come costantemente interpretato dalla corte di giustizia, non impone al giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne da cui deriva l'autorità di cosa giudicata di una decisione, nemmeno quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione, salva l'ipotesi, assolutamente eccezionale, di discriminazione tra situazioni di diritto comunitario e situazioni di diritto interno, ovvero di pratica impossibilità o eccessiva difficoltà di esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento comunitario; pertanto, qualora il ricorso per cassazione sia inammissibile (nella specie, in quanto redatto mediante integrale riproduzione di una serie di documenti, con brevissima narrazione riassuntiva e motivi non preceduti da alcuna esposizione sommaria dei fatti) e la sentenza impugnata sia conseguentemente passata in giudicato, non è consentito il rinvio pregiudiziale alla corte di giustizia”;
- Cass. civ., sez. trib., 29.07.2015, n. 16032 (in Mass., 2015, 495), secondo cui “Il diritto comunitario, così come costantemente interpretato anche dalla corte di giustizia (sentenze del 03.09.2009 in C-2/08 e del 16.03.2006 in C-234/04), non impone al giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne da cui deriva l'autorità di cosa giudicata, nemmeno quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario, sicché è inammissibile il ricorso per cassazione tardivo nonostante la proposizione di un motivo avente ad oggetto la compatibilità della decisione impugnata con la disciplina comunitaria, salva l'ipotesi assolutamente eccezionale di discriminazione tra situazioni di diritto comunitario e situazioni di diritto interno ovvero di pratica impossibilità o eccessiva difficoltà di esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento comunitario”;
- Cass. civ., sez. I, 06.05.2015, n. 9127 (in Mass., 2015, 293), secondo cui “Il principio di intangibilità del giudicato riveste una tale importanza, sia nell'ordinamento giuridico dell'Unione europea che in quelli nazionali, che la corte di giustizia ha ripetutamente affermato che il diritto dell'Unione europea non impone a un giudice nazionale di disapplicare le norme procedurali interne che attribuiscono forza di giudicato a una pronuncia giurisdizionale, nemmeno se ciò permetterebbe di risolvere una situazione di contrasto tra il diritto nazionale e quello dell'Unione”;
      v) sulla restituzione dell’area irreversibilmente trasformata e sulla rinuncia abdicativa, si veda supra § m) –e, in particolare, § r), della News US, n. 117 del 09.11.2020 ivi citata– nonché:
         v1) Cons. Stato, Ad. plen., 18.02.2020, n. 5 (in Foro amm., 2020, 210; Riv. giur. edilizia, 2020, I, 287; oggetto della News US, n. 25 del 04.03.2020, alla quale si rinvia per ulteriori approfondimenti), secondo cui:
- “L’art. 42-bis del DPR 08.06.2001 n. 327 si applica a tutte le ipotesi in cui un bene immobile altrui sia utilizzato e modificato dall’amministrazione per scopi di interesse pubblico, in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, e dunque quale che sia la ragione che abbia determinato l’assenza di titolo che legittima alla disponibilità del bene”;
- “Il giudicato restitutorio (amministrativo o civile), inerente all’obbligo di restituire un’area al proprietario da parte dell’Amministrazione occupante sine titulo, non preclude l’emanazione di un atto di imposizione di una servitù, in esercizio del potere ex art. 42-bis, comma 6, DPR 08.06.2001 n. 327, poiché questo presuppone il mantenimento del diritto di proprietà in capo al suo titolare”;
         v2) Cons. Stato, Ad. plen., 20.01.2020, n. 4 (in Foro it., 2020, III, 134, con note di BARILA', BONA, PARDOLESI R.; Riv. giur. edilizia, 2020, I, 302 oggetto della News US, n. 16 del 03.02.2020, alla quale si rinvia per ulteriori approfondimenti), secondo cui “Per le fattispecie rientranti nell’ambito di applicazione dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001 la rinuncia abdicativa del proprietario del bene occupato sine titulo dalla pubblica amministrazione, anche a non voler considerare i profili attinenti alla forma, non costituisce causa di cessazione dell’illecito permanente dell’occupazione senza titolo”;
         v3) Cons. Stato, Ad. plen., 20.01.2020, nn. 3 e 2 (in Foro it., 2020, III, 135, con note di BARILA', BONA, PARDOLESI R.; Guida al dir., 2020, fasc. 9, 90, con note di PONTE; Foro amm., 2020, 16; Urbanistica e appalti, 2020, 361, con nota di AMANTE; Ambiente, 2020, 225; Riv. giur. edilizia, 2020, I, 322; Giur. it., 2020, 1989, con nota di MASERA; oggetto della News US, n. 15 del 03.02.2020, alla quale si rinvia per ulteriori approfondimenti), secondo cui “Per le fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis TUEs., l’illecito permanente dell’Autorità viene meno nei casi da esso previsti (l’acquisizione del bene o la sua restituzione), salva la conclusione di un contratto traslativo tra le parti, di natura transattiva e la rinuncia abdicativa non può essere ravvisata” (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza 09.04.2021 n. 6 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEL’Adunanza plenaria pronuncia sulle azioni esperibili in caso di giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno per l’equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato.
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Espropriazione per pubblica utilità – Occupazione acquisitiva - Risarcimento del danno - Equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato - Giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno - Azione (di natura personale e obbligatoria) di risarcimento del danno in forma specifica e azione (di natura reale, petitoria e reipersecutoria) di rivendicazione – Esclusione.
In caso di occupazione illegittima, a fronte di un giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno per l’equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato dalla pubblica amministrazione, formatosi su una sentenza irrevocabile contenente l’accertamento del perfezionamento della fattispecie della cd. occupazione acquisitiva, alle parti e ai loro eredi o aventi causa è precluso il successivo esercizio, in relazione al medesimo bene, sia dell’azione (di natura personale e obbligatoria) di risarcimento del danno in forma specifica attraverso la restituzione del bene previa rimessione in pristino, sia dell’azione (di natura reale, petitoria e reipersecutoria) di rivendicazione, sia dell’azione ex artt. 31 e 117 c.p.a.. avverso il silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza di provvedere ai sensi dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327 del 2001.
Ai fini della produzione di tale effetto preclusivo non è necessario che la sentenza passata in giudicato contenga un’espressa e formale statuizione sul trasferimento del bene in favore dell’amministrazione, essendo sufficiente che, sulla base di un’interpretazione logico-sistematica della parte-motiva in combinazione con la parte-dispositiva della sentenza, nel caso concreto si possa ravvisare un accertamento, anche implicito, del perfezionamento della fattispecie della cd. occupazione acquisitiva e dei relativi effetti sul regime proprietario del bene, purché si tratti di accertamento effettivo e costituente un necessario antecedente logico della statuizione finale di rigetto. (1)

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   (1) La questione era stata rimessa dalla sez. IV, con ord. 26.10.2020, n. 6531.
Ha chiarito l’Alto consesso la questione da risolvere è in presenza di quali presupposti il giudicato civile di rigetto, per intervenuta prescrizione del diritto fatto valere in giudizio, di una domanda di risarcimento (per equivalente) dei danni da perdita della proprietà sul suolo per effetto dell’occupazione illegittima e della trasformazione irreversibile del bene da parte della pubblica amministrazione, in applicazione dell’istituto (ormai superato) di creazione giurisprudenziale della cd. occupazione acquisitiva, precluda l’esercizio di un’azione di risarcimento in forma specifica diretta alla restituzione dell’eadem res previa rimessione in pristino.
Ulteriore tematica da affrontare  ancorché non rilevante ai fini della decisione della presente causa, ma pur sempre da esaminare da questa Adunanza plenaria nell’esercizio della funzione nomofilattica, attesa la stretta connessione con l’oggetto delle questioni deferite con l’ordinanza di rimessione– è se siffatto giudicato civile precluda, o meno, l’esercizio di un’azione reale di rivendicazione del bene, oppure, ancora, l’esercizio di un’azione ex artt. 31 e 117 c.p.a. avverso il silenzio dell’amministrazione sull’istanza di provvedere ai sensi dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001.
Ha osservato che, secondo consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa e civile, l’interpretazione del giudicato formatosi su una sentenza civile pronunciata a definizione di un giudizio ordinario di cognizione, va effettuata alla stregua non soltanto del dispositivo della sentenza, ma anche della sua motivazione: infatti, il contenuto decisorio di una sentenza è rappresentato, ai fini della delimitazione dell’estensione del relativo giudicato, non solo dal dispositivo, ma anche dalle affermazioni e dagli accertamenti contenuti nella motivazione, nei limiti in cui essi costituiscano una parte della decisione e risolvano questioni facenti parte del thema decidendum (Cons Stato, sez. III, 16.11.2018, n. 6471; Cass. civ., sez. I, 08.06.2007, n. 13513; id., sez. II, 27.10.1994, n. 8865).
La posizione della giurisprudenza, condivisa da questa Adunanza plenaria per preminenti ragioni di economia processuale e di garanzia della certezza e stabilità dei rapporti giuridici, è, invero, attestata su una concezione estensiva dei limiti oggettivi del giudicato, per cui il giudicato sostanziale (art. 2909 c.c.) –che, in quanto riflesso di quello formale (art. 324 c.p.c..), fa stato ad ogni effetto fra le parti, i loro eredi o aventi causa, relativamente all’accertamento di merito, positivo o negativo, del diritto controverso– si forma su tutto ciò che ha costituito oggetto della decisione, compresi gli accertamenti in fatto e in diritto, i quali rappresentino le premesse necessarie e il fondamento logico-giuridico della pronuncia finale, spiegando, quindi, la sua autorità non solo sulla situazione giuridica soggettiva fatta valere con la domanda giudiziale (cd. giudicato esplicito), ma estendendosi agli accertamenti che si ricollegano in modo inscindibile con la decisione e ne formano il presupposto, così da coprire tutto quanto rappresenta il fondamento logico-giuridico della statuizione finale (cd. giudicato implicito).
Pertanto, l’accertamento su una questione di fatto o di diritto costituente la premessa necessaria e il motivo portante della decisione divenuta definitiva, quando sia comune ad una causa introdotta posteriormente inter partes, preclude il riesame della questione, anche se il giudizio successivo abbia finalità diverse da quelle del primo (v., ex plurimis, Cass. civ., sez. lav., 09.12.2016, n. 25269; id., sez. 3, 23.10.1995, n. 10999, per cui, «[q]ualora due giudizi tra le stesse parti vertano sul medesimo negozio o rapporto giuridico, l’accertamento compiuto circa una situazione giuridica ovvero la risoluzione di una questione di fatto o di diritto che incida su un punto fondamentale di entrambe le cause ed abbia costituito la logica premessa della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza passata in giudicato, preclude l’esame del punto accertato e risolto anche nel caso in cui l’altro giudizio abbia finalità diverse da quelle che costituiscono lo scopo od il petitum del primo»).
In particolare, il giudicato implicito si estende anche alla questione pregiudiziale di merito rispetto ad altra di carattere dipendente su cui si sia formato il giudicato esplicito, senza che a tal fine sia necessaria la proposizione, in via principale o riconvenzionale, di una domanda di parte volta a trasformare la questione pregiudiziale in causa pregiudiziale ai sensi dell’art. 34 Cod. proc. civ. (v. Cass. civ., Sez. III, 15.05.2018, n. 11754), allorché la seconda sia legata alla prima da un nesso di dipendenza così indissolubile da non poter essere decisa senza la preventiva decisione di quella pregiudiziale, avente ad oggetto un antecedente giuridico necessitato in senso logico dalla decisione e potenzialmente idoneo a riprodursi fra le stesse parti in relazione ad ulteriori e distinte controversie. Ciò, a condizione che dalla sentenza emerga che gli aspetti del rapporto su cui verte la questione pregiudiziale abbiano formato oggetto di una valutazione effettiva, il che, ad esempio, è da escludere allorquando la decisione sia stata adottata in applicazione del cd. ‘primato della ragione più liquida’ e la soluzione della causa sia basata su una o più questioni assorbenti, oppure si sia in presenza di un obiter dictum privo di relazione causale con il decisum (Cass. civ., sez. I, n. 5264 del 17.03.2015; id., sez. III, 08.10.1997, n. 9775; id. 08.11.2006, n. 23871). Quindi l’autorità di cosa giudicata copre l’accertamento, oltre che del singolo effetto dedotto come petitum (mediato), anche del rapporto complesso dedotto come causa petendi, sia esso di natura reale o di natura obbligatoria, dal quale l’effetto trae origine.
Giova sin d’ora precisare che l’individuazione, in modo più o meno estensivo, dell’oggetto del processo e del giudicato si riflette, oltre che su una serie di altri istituti processuali (quali la litispendenza, la continenza, la competenza, la connessione, il regime delle impugnazioni, ecc.), anche su quello della modificazione della domanda (nelle forme della mutatio e, rispettivamente, della emendatio libelli), nel senso che, quanto più si estendono i limiti oggettivi del giudicato, tanto più ampia dovrà essere concepita la facoltà di modifica delle domande in corso di giudizio, onde evitare che la parte attrice possa vedersi preclusa, in un futuro nuovo processo, la proposizione di domande giudiziali che, ancorché connotate da diversità di causa petendi e/o petitum, nella finalità perseguita potrebbero rilevarsi incompatibili con gli accertamenti assurti ad autorità di cosa giudicata ed essere ricomprese nella sfera del ‘deducibile’ non dedotto nel processo definito con efficacia di giudicato.
In tale prospettiva, la qui condivisa concezione estensiva dei limiti oggettivi del giudicato su un piano generale appare senz’altro coerente con il principio richiamato nell’ordinanza di rimessione, per il quale –nel caso di occupazione illegittima del terreno da parte dell’amministrazione– si applica sul piano sostanziale l’art. 42-bis d.P.R. n. 327 del 2001, con la conseguente possibilità di convertire la domanda nel corso del giudizio e quindi di ritenere ammissibile il rimedio di tutela da esso previsto, sebbene basato sulla diversità della causa petendi e del petitum (riferibili a una posizione di interesse legittimo correlativo al potere di acquisizione) rispetto alle domande di risarcimento o di restituzione (riferibili alla tutela del diritto di proprietà in quanto tale) proposte in origine. Al proposito occorre precisare che l’operatività di tale principio presuppone che la questione sia ancora sub iudice e non si sia formato un giudicato sull’una o l’altra delle domande proposte e sulle eventuali questioni pregiudiziali, per cui lo stesso non ha modo di influire sul presente giudizio, il quale è, appunto, connotato dalla già intervenuta formazione del giudicato civile di rigetto della domanda risarcitoria per equivalente del danno da perdita della proprietà (v. infra).
Nel caso di specie il giudicato civile si è formato sia sull’inesistenza del diritto al risarcimento dei danni perché estinto per prescrizione, sia sul regime proprietario del bene conseguente all’accertato perfezionamento della cd. occupazione acquisitiva.
Passando all’esame dell’effetto preclusivo scaturente da tale giudicato sulla domanda risarcitoria in forma specifica proposta nel presente giudizio, occorre premettere, in punto di qualificazione dell’azione restitutoria/riparatoria esercitata, che hanno proposto azione (di natura personale e obbligatoria) di risarcimento dei danni in forma specifica ai sensi dell’art. 2058 Cod. civ., e non già azione (di natura reale e petitoria) di rivendicazione ex art. 948 Cod. civ..
Trattasi, invero, di azioni diverse per causa petendi e petitum, ancorché dirette al raggiungimento dello stesso risultato pratico di recuperare la disponibilità materiale del bene: infatti, con l’azione di rivendicazione, di carattere reale, petitorio e reipersecutorio/ripristinatorio, l’attore assume di essere proprietario della cosa e di non averne più il possesso, sicché agisce contro chi di fatto la possegga e la detenga, sia al fine di ottenere il riconoscimento del suo diritto di proprietà sia al fine di recuperare l’eadem res previo ripristino dello stato anteriore per rimuovere la divergenza tra situazione di fatto e quella dominicale di diritto rispetto al bene, a prescindere dall’accertamento di un illecito; l’azione di reintegrazione in forma specifica è, invece, un rimedio risarcitorio finalizzato alla rimozione delle conseguenze derivanti dall’evento lesivo tramite la produzione di una situazione materiale e giuridica corrispondente a quella che si sarebbe realizzata se non fosse intervenuto il fatto illecito produttivo del danno, il cui accoglimento è subordinato al ricorrere dei presupposti della responsabilità aquiliana ex art. 2043 cod. civ., cui si aggiungono i limiti della possibilità e della non eccessiva onerosità per l’autore dell’illecito previsti dall’art. 2058 cod. civ. (sulla differenza tra l’azione di risarcimento dei danni in forma specifica e l’azione di rivendicazione, v., ex plurimis, in via generale, Cass. civ., sez. III, 10.12.2004, n. 23086; con specifico riguardo agli oneri di allegazione e di prova incombenti sulla parte attrice in punto di titolarità del diritto di proprietà, v. Cass. civ., sez. II, 27.11.2018, n. 30705).
Sotto un profilo strettamente processuale e procedurale, deve ritenersi che l’azione esercitata nel presente giudizio sia stata proposta ai sensi degli artt. 30, commi 1, 2 e 6, e 34, comma 1, lett. c), c.p.a., nell’ambito della giurisdizione esclusiva attribuita al giudice amministrativo dall’art. 133, comma 1, lett. g), c.p.a., secondo cui spettano alla cognizione del giudice amministrativo tutte le controversie aventi ad oggetto gli atti, i provvedimenti, gli accordi e i comportamenti riconducibili, anche mediatamente, all’esercizio di un pubblico potere da parte delle pubbliche amministrazioni in materia di espropriazione per pubblica utilità, quali che siano i diritti (reali o personali) fatti valere nei confronti di quest’ultima, nonché la natura (reipersecutoria/ripristinatoria o risarcitoria) della pretesa avanzata.
Quanto al rapporto tra l’azione di risarcimento in forma specifica (esercitata nel presente giudizio) e l’azione di risarcimento dei danni per equivalente (respinta con il giudicato civile), si osserva che si tratta di due rimedi in rapporto di concorso alternativo, diretti all’attuazione dell’unico diritto alla reintegrazione della sfera giuridica lesa che trova la sua fonte nella medesima fattispecie di illecito, con la particolarità che l’effetto programmato dalla norma al verificarsi della fattispecie si determina, nel suo specifico contenuto, con riguardo alla scelta compiuta dal titolare circa l’una o l’altra forma di tutela.
Per consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato, formatasi in sede di giurisdizione esclusiva con specifico riferimento a fattispecie di occupazione illegittima del bene da parte della pubblica amministrazione, i due rimedi costituiscono mezzi concorrenti alternativi a tutela dell’unico diritto al risarcimento dei danni, tant’è che è consentita la scelta in corso di giudizio per una delle due modalità, qualificata come ammissibile emendatio libelli anziché come vietata mutatio (v. Cons. Stato, sez. IV, 22.01.2014, n. 306; id. 01.06.2011, n. 3331; per la giurisprudenza civile, v. Cass. civ., Sez. Un., 28.05.2014, n. 11912, secondo cui la pretesa risarcitoria, pur nella duplice alternativa attuativa, è unica, potendo la parte, tramite una mera emendatio, convertire l’originaria richiesta nell’altra ed il giudice di merito attribuire d’ufficio al danneggiato il risarcimento per equivalente, anziché in forma specifica; con la precisazione, che la giurisprudenza civile non sembra, invece, consentire la modificazione della domanda di risarcimento per equivalente a domanda di risarcimento in forma specifica, argomentando dalla maggiore onerosità di quest’ultimo rimedio: v. i richiami giurisprudenziali di cui al § 13.1 dell’ordinanza di rimessione).
Quindi, pur completandosi la fattispecie multipla con la proposizione della domanda e con l’opzione esercitata dall’attore a favore dell’una o dell’altra forma di tutela, il diritto rimane unico, come unica rimane la posizione giuridica sostanziale fatta valere in giudizio, con la conseguenza che il giudicato di rigetto della prima domanda (nella specie, quella di risarcimento per equivalente respinta dal Tribunale ordinario di Cagliari con la sentenza n. 22860/2006) preclude una nuova azione sulla seconda (nella specie, quella di risarcimento in forma specifica, proposta nel presente giudizio). Pertanto, sotto tale angolo visuale l’effetto preclusivo si è formato in ragione della circostanza che sull’unico diritto al risarcimento dei danni, scaturente dal medesimo fatto illecito, si è già deciso e si è ormai formato il giudicato di rigetto fondato sul motivo portante, comune ad entrambi i rimedi, dell’estinzione per prescrizione dell’unico diritto al risarcimento dei danni.
Sotto altro profilo, la domanda di risarcimento in forma specifica è, altresì, preclusa in ragione dell’incompatibilità indiretta con il giudicato formatosi sul regime proprietario del bene richiesto in restituzione, in particolare sull’effetto acquisitivo, nella ‘logica’ dell’istituto dell’occupazione appropriativa, determinatosi in capo all’amministrazione costruttrice dell’opera pubblica, presupponendo invero l’azionabilità del diritto al risarcimento dei danni in forma specifica (tramite domanda di rilascio previa rimessione in pristino) la titolarità della proprietà del bene leso in capo all’attore, incompatibile con il giudicato implicito formatosi sul perfezionamento della fattispecie dell’acquisto della proprietà a titolo originario in capo all’amministrazione.
L’esito di accoglimento dell’eccezione di giudicato non muterebbe neppure, qualora gli odierni appellanti avessero proposto azione reale di rivendicazione ex artt. 948 ss. c.c., in quanto: il carattere di esclusività proprio di ogni diritto il principio logico di non contraddizione non consente la coesistenza di due di diritti dello stesso contenuto relativi ad un identico bene di cui siano titolari attivi esclusivi due soggetti diversi; l’essenza del giudicato sostanziale comporta l’impossibilità di far valere in un secondo processo tra le stesse parti (e/o relativi eredi e/o aventi causa) un diritto direttamente incompatibile con il diritto accertato da un primo giudicato; pertanto, l’esercizio dell’azione di rivendica da parte del privato nei confronti dell’amministrazione, dopo la formazione del giudicato sull’acquisto della proprietà in capo a quest’ultima, è precluso dal giudicato in ragione della relazione di incompatibilità diretta del diritto di proprietà fatto valere con l’azione di rivendicazione (avente tra l’altro natura petitoria, volta al riconoscimento del diritto di proprietà in capo all’attore, oltre che natura reipersecutoria) rispetto al diritto di proprietà acquisito dall’amministrazione oggetto dell’accertamento passato in giudicato.
Non diversamente, anche l’eventuale azione avverso il silenzio della pubblica amministrazione sull’istanza di provvedere ai sensi dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327 del 2001, ancorché tale istituto a norma del comma 8 sia applicabile ai fatti anteriori, trova il suo limite nei rapporti esauriti, quali quelli definiti con autorità di cosa giudicato [cfr., con riferimento all’ipotesi di rapporto esaurito per essere intervenuto un giudicato che abbia disposto la restituzione del bene al proprietario, Corte Cost. n. 71 del 1995, § 6.9.1; Ad. plen., n. 2 del 2016, §§ 6.2 e 5.4, lettera f)].
Anche in questo caso, l’azione ex artt. 31 e 117 c.p.a. sarebbe preclusa dal giudicato civile formatosi sul regime proprietario, per l’incompatibilità sussistente tra la situazione giuridica soggettiva azionata, presupponente la persistente titolarità della proprietà del bene in capo alla parte ricorrente, e l’accertamento, con efficacia di giudicato, dell’effetto acquisitivo in favore dell’amministrazione (Consiglio di Stato, A.P., sentenza 09.04.2021 n. 6 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2020

ESPROPRIAZIONE: L.r. Lombardia 11.03.2005, n. 12 (art. 9, comma 12) – Vincoli preordinati all’espropriazione per la realizzazione ad opera della pubblica amministrazione di attrezzature e servizi previsti dal piano dei servizi – Questione di legittimità costituzionale in via incidentale – Asserita violazione dei precetti costituzionali della temporaneità e della indennizzabilità dei vincoli espropriativi (art. 42 Cost.) e pregiudizio della competenza concorrente in materia di governo del territorio (art. 117 Cost.) – Illegittimità costituzionale in parte qua.
Va dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 12, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), secondo periodo, limitatamente alla parte in cui prevede che i vincoli preordinati all’espropriazione per la realizzazione, esclusivamente ad opera della pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi previsti dal piano dei servizi decadono qualora, entro cinque anni decorrenti dall’entrata in vigore del piano stesso, l’intervento cui sono preordinati non sia inserito, a cura dell’ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale delle opere pubbliche e relativo aggiornamento.
La Regione, disciplinando una nuova ipotesi di attuazione del vincolo espropriativo, ha infatti superato i limiti imposti alla sua competenza concorrente in materia (art. 117, comma 3, Cost.), con l’introduzione di una nuova condizione in cui il vincolo preordinato all’esproprio si consolida, pur in mancanza di un «serio inizio della procedura espropriativa», condizione ritenuta invece essenziale dalla giurisprudenza costituzionale e la cui ricorrenza è stata individuata dal legislatore statale –esclusivamente al quale spetta la relativa competenza– solo nella dichiarazione di pubblica utilità dell’opera.
La disposizione regionale censurata si pone peraltro in contrasto con l’art. 42 Cost., poiché consente l’esercizio del potere ablatorio a tempo indeterminato, in ragione di un provvedimento, quale l’approvazione del piano triennale delle opere pubbliche, la cui adozione non garantisce la partecipazione procedimentale degli interessati e che può essere indefinitamente rinnovato, senza necessità né di motivazione, né di indennizzo
(Corte Costituzionale, sentenza 18.12.2020 n. 270 - link a www.ambientediritto.it).

ESPROPRIAZIONEReiterazione di vincoli espropriativi a tempo indeterminato: la Corte costituzionale ne ribadisce le ragioni di illegittimità costituzionale.
La Corte costituzionale, in accoglimento di una questione sollevata dal Tar per la Lombardia–Brescia, dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge regionale (l’art. 9, comma 12, della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, recante “Legge per il governo del territorio”), con la quale, in sostanza, si prevedeva la possibilità di reiterare, a tempo indeterminato, l’efficacia di vincoli preordinati all’esproprio, oltre quindi il termine quinquennale stabilito dall’art. 9, comma 2, del d.P.R. n. 327 del 2001 (c.d. testo unico delle espropriazioni).
In motivazione, la Corte ribadisce che la proroga, in via legislativa, dei vincoli espropriativi costituisce un “fenomeno inammissibile dal punto di vista costituzionale, qualora essa si presenti sine die o all’infinito (attraverso la reiterazione di proroghe a tempo determinato che si ripetano aggiungendosi le une alle altre), o quando il limite temporale sia indeterminato, cioè non sia certo, preciso e sicuro e, quindi, anche non contenuto in termini di ragionevolezza”.
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Espropriazione per pubblico interesse – Regione Lombardia – Vincolo preordinato all’esproprio – Reiterazione – Violazione degli artt. 42, terzo comma, e 117, terzo comma, Cost. – Illegittimità costituzionale in parte qua.
E’ incostituzionale, per violazione degli artt. 42, terzo comma, e 117, terzo comma, Cost., l’art. 9, comma 12, secondo periodo, della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, in quanto, consentendo la protrazione dell’efficacia del vincolo preordinato all’esproprio ben oltre la naturale scadenza quinquennale e –in virtù del richiamo al programma triennale delle opere pubbliche– per un tempo sostanzialmente indefinito, senza che sia previsto il riconoscimento di alcun indennizzo, realizza un effetto che si pone in frontale contrasto con la giurisprudenza costituzionale in materia di espropriazione per pubblica utilità, dando seguito alla quale il legislatore statale ha individuato un ragionevole punto di equilibrio tra la reiterabilità indefinita dei vincoli e la necessità di indennizzare il proprietario (1).
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   (1) I. – Con la sentenza in rassegna, la Corte costituzionale ribadisce la propria costante giurisprudenza in materia di durata del vincolo espropriativo, confermando che la legge (in questo caso, si trattava di una norma della legge generale della Regione Lombardia in materia di governo del territorio) non può prevedere una protrazione indefinita del vincolo, ben oltre il termine quinquennale individuato dall’art. 9, comma 2, del t.u. espropriazioni (di cui al d.P.R. n. 327 del 2001), termine che rappresenta il “punto di equilibrio”, individuato dal legislatore, oltre il quale non è costituzionalmente tollerabile il sacrificio del diritto di proprietà privata senza il riconoscimento di un adeguato indennizzo.
La questione era stata sollevata dal Tar per la Lombardia–Brescia, sezione II, con ordinanza 14.08.2019, n. 740 (in Riv. giur. edilizia, 2019, I, 1250, nonché oggetto della News US n. 109 del 16.10.2019, cui si rinvia per gli ampi riferimenti di dottrina e di giurisprudenza). Nel giudizio a quo, era impugnato l’atto contenente la dichiarazione di pubblica utilità, insieme ai successivi provvedimenti, adottati nell’ambito di una procedura espropriativa iniziata dal Comune di Agro per la realizzazione di una strada di collegamento progettata, in parte, su un fondo privato.
Il vincolo preordinato all’esproprio, derivante dall’approvazione del piano comunale di governo del territorio, avrebbe esaurito la propria durata quinquennale nel novembre 2017 ma, in applicazione della norma regionale censurata, esso risultava prorogato sine die per effetto dell’avvenuto inserimento dell’opera nel programma triennale delle opere pubbliche, approvato nell’aprile del 2017.
In base alla norma regionale oggetto dei dubbi sollevati dal Tar per la Lombardia, infatti, i vincoli preordinati all’esproprio, aventi una durata pari a cinque anni, “decadono qualora, entro tale termine, l'intervento cui sono preordinati non sia inserito, a cura dell'ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale delle opere pubbliche e relativo aggiornamento, ovvero non sia stato approvato lo strumento attuativo che ne preveda la realizzazione”.
II. – La Corte costituzionale, dunque, dichiara l’illegittimità costituzionale di tale norma per violazione degli artt. 42, comma 3, e 117, comma 3, Cost., concludendo invece per l’inammissibilità (per difetto di motivazione) della questione in relazione al parametro di cui agli artt. 117, comma 1, Cost., e 1 del Protocollo addizionale alla CEDU. Questo, in sintesi, il percorso seguito dalla Corte per giungere –dopo aver superato alcune questioni di inammissibilità– alla declaratoria di incostituzionalità:
      a) la Corte premette, anzitutto, un’articolata ricostruzione del quadro normativo statale vigente in subiecta materia, ripercorrendone le tappe salienti e ricordando quanto segue:
         a1) l’espropriazione per motivi d’interesse generale, governata dall’art. 42, comma 3, Cost., è un procedimento preordinato all’emanazione di un provvedimento che trasferisce la proprietà o altro diritto reale su di un bene; le fasi del procedimento, finalizzate all’emissione del decreto di esproprio, sono scandite dall’art. 8 del t.u. espropriazioni, e sono costituite dalla sottoposizione del bene al vincolo preordinato all’esproprio, dalla dichiarazione di pubblica utilità dell’opera che deve essere realizzata e dalla determinazione dell’indennità di espropriazione;
         a2) ai sensi dell’art. 9 del medesimo testo unico, un bene è sottoposto al vincolo preordinato all’espropriazione quando diventa efficace, in base alla specifica normativa statale e regionale di riferimento, l’atto di approvazione del piano urbanistico generale, ovvero una sua variante, che preveda la realizzazione di un’opera pubblica o di pubblica utilità; l’effetto del vincolo comporta che il proprietario del bene, pur restando titolare del diritto sulla cosa, non può utilizzarla in contrasto con la destinazione dell’opera, fino a che l’amministrazione non proceda all’espropriazione;
         a3) il legislatore, chiamato ad adeguarsi ai principi enunciati con la sentenza 29.05.1968, n. 55 (in Giur. cost., 1968), ha stabilito, con l’art. 2 della legge n. 1187 del 1968, una durata quinquennale del vincolo espropriativo, periodo durante il quale la necessità di corrispondere un indennizzo è esclusa;
         a4) con la sentenza 20.05.1999, n. 179 (in Foro it., 1999, I, 1705, con nota di BENINI, in Corriere giur., 1999, 830, con note di CARBONE e GIOIA, in Giorn. dir. amm., 1999, 851, con nota di MAZZARELLI, in Urb. e appalti, 1999, 712, con nota di LIGUORI, in Giust. civ., 1999, I, 2597, con nota di STELLA RICHTER, in Appalti urbanistica edilizia, 1999, 395, con nota di GISONDI, in Riv. amm., 1999, 274, con nota di CACCIAVILLANI, in Giur. it., 1999, 2155, con nota di DE MARZO, in Le Regioni, 1999, 804, con nota di CIVITARESE MATTEUCCI, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 1999, 873, con nota di BONATTI, ed in Guida al dir., 1999, 22, 133, con nota di RICCIO), la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 7, numeri 2), 3) e 4), e 40 della legge n. 1150 del 1942, e 2, primo comma, della legge n. 1187 del 1968, nella parte in cui consentiva alla pubblica amministrazione di reiterare i vincoli espropriativi scaduti senza la previsione di un indennizzo;
         a5) con l’adozione del testo unico sulle espropriazioni, di cui al già richiamato d.P.R. n. 327 del 2001, il legislatore statale si è adeguato alle indicazioni della giurisprudenza costituzionale, prevedendo la durata quinquennale del vincolo preordinato all’esproprio (art. 9, comma 2; si tratta del c.d. periodo di franchigia, durante il quale al proprietario del bene non è dovuto alcun indennizzo), nonché la decadenza dal vincolo se, entro tale termine, non è dichiarata la pubblica utilità dell’opera (art. 9, comma 3); il vincolo può essere motivatamente reiterato, subordinatamente alla previa approvazione di un nuovo piano urbanistico generale o di una sua variante (art. 9, comma 4), e con la corresponsione di un apposito indennizzo (art. 39) – ciò, fermo restando che le stesse garanzie devono sorreggere un’eventuale proroga del vincolo prima della sua naturale scadenza (in tal senso, Corte cost., sentenza 20.07.2007, n. 314, in Foro it., 2009, I, 1711);
         a6) la dichiarazione di pubblica utilità, che deve intervenire entro il termine di efficacia del vincolo espropriativo (art. 13, comma 1, t.u. espropriazioni), è l’atto con il quale vengono individuati in concreto i motivi di interesse generale cui l’art. 42, comma 3, Cost. subordina l’espropriazione della proprietà privata nei casi previsti dalla legge (cfr. Corte cost., sentenza 08.05.1995, n. 155, in Foro it., 1995, I, 2389), e segna l’effettivo avvio della procedura espropriativa, nel necessario rispetto del contraddittorio tra i cittadini interessati e l’amministrazione;
         a7) un “ruolo centrale”, nella disciplina in esame, è poi svolto dalla c.d. dichiarazione implicita di pubblica utilità, la quale (a norma dell’art. 12 del d.P.R. n. 327 del 2001) si intende disposta “quando l’autorità espropriante approva a tale fine il progetto definitivo dell’opera pubblica o di pubblica utilità, ovvero quando sono approvati il piano particolareggiato, il piano di lottizzazione, il piano di recupero, il piano di ricostruzione, il piano delle aree da destinare a insediamenti produttivi, ovvero quando è approvato il piano di zona”, nonché nei casi in cui la normativa vigente prevede che equivalga “a dichiarazione di pubblica utilità l’approvazione di uno strumento urbanistico, anche di settore o attuativo, la definizione di una conferenza di servizi o il perfezionamento di un accordo di programma, ovvero il rilascio di una concessione, di una autorizzazione o di un atto avente effetti equivalenti”;
         a8) a livello statale, poi, un ruolo decisivo gioca il programma triennale dei lavori pubblici, attualmente previsto dall’art. 21 del codice dei contratti pubblici (di cui al d.lgs. n. 50 del 2016) il quale disciplina unitariamente la programmazione, sia per i lavori pubblici che per i servizi e le forniture, demandando (comma 8) a un decreto ministeriale, di natura regolamentare, la normazione di dettaglio; tale programma triennale, ai sensi dell’art. 3, lettera ggggg-sexies), del cod. contratti pubblici, rappresenta il documento, da aggiornare annualmente, che le amministrazioni adottano al fine di individuare i lavori da avviare nel triennio;
         a9) l’art. 5, comma 5, dell’apposito regolamento (di cui al d.m. 16.01.2018, n. 14) stabilisce le modalità di partecipazione dei privati interessati in relazione alla definizione del contenuto del programma in questione, prevedendo la possibilità di presentare osservazioni prima dell’approvazione definitiva del programma;
      b) a livello regionale, e con specifico riguardo alla disciplina vigente nella Regione Lombardia, la Corte poi ricorda che:
         b1) la disciplina sul governo del territorio, contenuta nella legge regionale n. 12 del 2005, nonché la disciplina sul procedimento di espropriazione (di cui alla legge della Regione Lombardia n. 3 del 2009) sono state varate nell’esercizio della potestà legislativa concorrente, come previsto dallo stesso testo unico delle espropriazioni (art. 5, comma 1), posto che l’espropriazione costituisce una funzione trasversale, che può esplicarsi anche nella materia concorrente del “governo del territorio” nella quale, come più volte riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale, rientra l’urbanistica (cfr. sentenza 26.06.2020, n. 130, e sentenza 05.12.2019, n. 254, quest’ultima in Quad. dir. e politica ecclesiastica, 2019, 697, con nota di MARCHEI, in Dir. pen. globalizzazione, 2020, 33, con nota di PLACANICA, ed in Giur. cost., 2019, 3131, con nota di GORLANI);
         b2) con specifico riferimento alle prime due fasi della procedura espropriativa (che vengono in rilievo nella fattispecie di cui al giudizio a quo), la disciplina regionale lombarda presenta delle differenze rispetto a quella statale, in quanto (per un verso) fa discendere un “peculiare effetto” dall’inserimento dell’opera pubblica o di pubblica utilità nel programma triennale delle opere pubbliche (ossia, la mancata decadenza del vincolo, pur superato il periodo quinquennale), mentre (per altro verso) l’art. 9 della legge regionale sul procedimento espropriativo, a determinate condizioni, include proprio il programma triennale delle opere pubbliche tra gli atti che comportano la dichiarazione di pubblica utilità;
      c) nel solco tracciato dalla sentenza n. 179 del 1999, cit., la Corte ribadisce dunque che “la proroga in via legislativa dei vincoli espropriativi è fenomeno inammissibile dal punto di vista costituzionale, qualora essa si presenti sine die o all’infinito (attraverso la reiterazione di proroghe a tempo determinato che si ripetano aggiungendosi le une alle altre), o quando il limite temporale sia indeterminato, cioè non sia certo, preciso e sicuro e, quindi, anche non contenuto in termini di ragionevolezza”; di conseguenza, la Corte enuclea i seguenti vizi della norma regionale censurata:
         c1) essa consente la protrazione dell’efficacia del vincolo “ben oltre la naturale scadenza quinquennale e, in virtù dell’inclusione dell’aggiornamento annuale del programma triennale delle opere pubbliche nell’ambito applicativo della norma, per un tempo sostanzialmente indefinito, senza che sia previsto il riconoscimento al privato interessato di alcun indennizzo”;
         c2) tale effetto “si pone in frontale contrasto con la giurisprudenza costituzionale illustrata in precedenza, dando seguito alla quale il legislatore statale ha individuato un ragionevole punto di equilibrio tra la reiterabilità indefinita dei vincoli e la necessità di indennizzare il proprietario”;
         c3) peraltro, la norma lombarda “ha omesso di imporre un preciso onere motivazionale circa l’interesse pubblico al mantenimento del vincolo per un periodo che oltrepassa quello cosiddetto di franchigia”, con ciò ulteriormente discostandosi dalla legge statale di riferimento (cfr. art. 9, comma 4, del d.P.R. n. 327 del 2001);
         c4) ancora, la norma lombarda “appare del tutto carente quanto al livello di garanzia partecipativa da riconoscersi al privato interessato”, così contravvenendo ad un’altra prescrizione già in passato ribadita dalla giurisprudenza costituzionale, quella cioè di mettere i privati, ancora prima dell’adozione dell’atto limitativo, “in condizioni di esporre le proprie ragioni, sia a tutela del proprio interesse, sia a titolo di collaborazione nell’interesse pubblico” (viene richiamata la sentenza 30.04.2015, n. 71, in Foro it., 2015, I, 2629, con nota di R. PARDOLESI, in Urb. e appalti, 2015, 767, con note di ARTARIA e BARILÀ, in Guida al dir., 2015, 21, 84, con nota di PONTE, in Resp. civ. e prev., 2015, 1492, con nota di REGA, in Giur. cost., 2015, 998, con nota di MOSCARINI, in Europa e dir. privato, 2015, 951, con nota di GRISI, ed in Riv. giur. edilizia, 2015, I, 581, con note di MARI e STRAZZA);
         c5) del resto, le forme di partecipazione che sono previste per l’approvazione del programma triennale delle opere pubbliche appaiono –precisa la Corte– “di qualità e grado insufficienti, e comunque non corrispondenti a quelle stabilite dal t.u. espropriazioni (in particolare nell’art. 11) per gli atti appositivi e per quelli reiterativi del vincolo espropriativo”, trovando esse la loro fonte in un atto meramente regolamentare (il già ricordato d.m. n. 14 del 2018), il quale oltretutto le prevede in modalità solo eventuale.
   III. – Per completezza, si consideri quanto segue:
      d) nella decisione in rassegna, la Corte afferma la “trasversalità” della materia delle espropriazioni, in quanto riconducibile all’urbanistica la quale, a sua volta, è da ricomprendere nella materia concorrente del governo del territorio; su quest’ultima affermazione cfr., di recente:
         d1) Corte cost., sentenza n. 130 del 2020, cit., secondo cui “la normativa sui centri storici si trovi al crocevia fra le competenze regionali in materia urbanistica o di governo del territorio e la tutela dei beni culturali”, con la conseguente precisazione secondo cui “le Regioni hanno dedicato specifiche discipline ai centri storici, nell’ambito delle competenze in materia di governo del territorio o urbanistica, cercando di superare la visione parcellizzata degli interventi edilizi per privilegiare la considerazione unitaria dei nuclei storici. In accordo con l’ordinamento statale, le Regioni stesse affidano a strumenti urbanistici comunali e al lavoro di uffici tecnici territorialmente competenti l’attuazione delle norme dettate a livello regionale e statale”;
         d2) Corte cost., sentenza n. 254 del 2019, cit., secondo cui “nel regolare, in sede di disciplina del governo del territorio, l’edilizia di culto, le regioni possono perseguire esclusivamente finalità urbanistiche, nell’ambito delle quali deve essere ricondotta anche la necessaria specifica considerazione delle esigenze di allocazione delle attrezzature religiose. In ragione del peculiare rango costituzionale della libertà di culto, inoltre, la stessa disciplina urbanistico-edilizia deve far fronte, con riferimento alle attrezzature religiose, all’ulteriore esigenza della necessaria previsione di luoghi per il loro insediamento, con la conseguenza che essa non può comportare l’esclusione o l’eccessiva compressione della possibilità di realizzare strutture di questo tipo”, giungendosi così alla seguente conclusione: “In questo quadro, la previsione –ad opera della legislazione regionale in materia di governo del territorio– di uno speciale piano dedicato alle attrezzature religiose, riconducibile al modello della pianificazione urbanistica di settore, non è di per sé illegittima. Non lo è, tuttavia, alla duplice condizione che essa persegua lo scopo del corretto insediamento nel territorio comunale delle attrezzature religiose aventi impatto urbanistico, e che, in questo orizzonte, tenga adeguatamente conto della necessità di favorire l’apertura di luoghi di culto destinati alle diverse comunità religiose (corrispondendo così anche agli standard urbanistici, cioè alla dotazione minima di spazi pubblici)”;
      e) per l’affermazione secondo cui le garanzie partecipative devono trovare applicazione nell’ambito del procedimento espropriativo, cfr. la sentenza della Corte costituzionale n. 71 del 2015, cit., menzionata anche dalla pronuncia in epigrafe, secondo cui:
         e1) il principio del “giusto procedimento” (in virtù del quale i soggetti privati dovrebbero poter esporre le proprie ragioni, e in particolare prima che vengano adottati provvedimenti limitativi dei loro diritti) “non può dirsi assistito in assoluto da garanzia costituzionale” (in tal senso, nella giurisprudenza della Corte, cfr. già: sentenza 12.07.1995, n. 312, in Cons. Stato, 1995, II, 1197; sentenza 31.05.1995, n. 210, in Cons. Stato, 1995, II, 906; sentenza 24.02.1995, n. 57, in Mass. giur. lav., 1995, 146, con nota di SANTONI, in Lavoro giur., 1995, 657, con nota di PILATI, in Giorn. dir. amm., 1995, 801, con nota di MARIANI, in Dir. lav., 1995, II, 132, con nota di PELLACANI, ed in Riv. it. dir. lav., 1995, II, 738, con nota di CORSINOVI; sentenza 19.03.1993, n. 103, in Foro it., 1993, I, 2410; ordinanza 10.12.1987, n. 503, in Giur. cost., 1987, I, 3317, con nota di AMODIO; sentenza 20.03.1978, n. 23, in Giur. it., 1979, I, 209);
         e2) ciò, tuttavia, “non sminuisce certo la portata che tale principio ha assunto nel nostro ordinamento, specie dopo l’entrata in vigore della legge 07.08.1990, n. 241”;
         e3) in materia espropriativa, è ormai risalente l’affermazione secondo cui i privati interessati devono essere messi “in condizioni di esporre le proprie ragioni sia a tutela del proprio interesse, sia a titolo di collaborazione nell’interesse pubblico” (cfr. sentenza 20.07.1990, n. 344, in Giur. cost., 1990, 2158; sentenza 21.03.1989, n. 143, in Foro it., 1991, I, 1970; sentenza 27.06.1986, n. 151, in Foro it., 1986, I, 2690, con note di COZZUTO QUADRI e CARAVITA; sentenza 02.03.1962, n. 13, in Giur. cost., 1962);
      f) in tema di proroga di vincoli espropriativi già scaduti, cfr., nella giurisprudenza costituzionale, la sentenza n. 314 del 2007, cit. (menzionata anche dalla decisione in rassegna), con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale di una norma di legge della Regione Campania che prorogava, per un triennio, i piani regolatori dei nuclei e delle aree industriali già scaduti; in tale pronuncia si legge, per quanto qui di maggiore interesse:
         f1) che la reiterazione dei vincoli espropriativi, pur in linea di principio “consentita in via amministrativa, e a maggior ragione, per legge”, deve tuttavia essere “puntualmente motivata con riguardo alla persistente necessità di acquisire la proprietà privata (da valutare sulla base di una apposita istruttoria procedimentale da cui emerga la prevalenza dell’interesse pubblico rispetto a quello privato da sacrificare); e, contemporaneamente, deve prevedere la corresponsione del giusto indennizzo. In mancanza di tali presupposti vi è lesione del diritto di proprietà”;
         f2) che “La regola dell’indennizzabilità dei vincoli espropriativi reiterati è ormai un principio consolidato nell’ordinamento, anche per l’entrata in vigore dell’art. 39 t.u. delle espropriazioni (d.p.r. 08.06.2001 n. 327). La reiterazione di qualsiasi vincolo preordinato all’esproprio, o sostanzialmente espropriativo, dunque, è da intendere implicitamente integrabile con il principio generale dell’indennizzabilità” (con richiamo alla precedente ordinanza 25.07.2002, n. 397, in Riv. giur. edilizia, 2002, I, 1207);
      g) nella giurisprudenza amministrativa, con riferimento all’obbligo di motivazione del provvedimento con cui è reiterato il vincolo espropriativo, cfr. Cons. Stato, Ad. plen. 24.05.2007, n. 7 (in Foro it., 2007, III, 350 con nota di TRAVI; in Guida al dir., 2007, 24, 73, con nota di FORLENZA; in Riv. amm., 2007, 461, con nota di CACCIAVILLANI; in Corriere merito, 2007, 1092, con nota di VELTRI; in Urb. e appalti, 2007, 1113, con nota di CARBONELLI; in Giorn. dir. amm., 2007, 1174, con nota di MAZZARELLI; in Resp. e risarcimento, 2007, 7, 95, con nota di PAPPALARDO; in Quaderni centro documentaz., 2007, 242, con nota di COLLACCHI) secondo cui:
         g1) “l'esercizio del potere di reiterazione di un vincolo preordinato all'esproprio decaduto per decorrenza del termine quinquennale può essere esercitato unicamente sulla base di una idonea istruttoria e di una adeguata motivazione che escluda un contenuto vessatorio o comunque ingiusto dei relativi atti”;
         g2) “per valutare l'adeguatezza della motivazione dei provvedimenti di reiterazione di vincoli preordinati all'esproprio occorre distinguere se questi riguardano o meno una pluralità di aree, se riguardano solo una parte già incisa da vincoli decaduti, se, infine, la reiterazione sia disposta (o meno) per la prima volta sull'area”;
         g3) “si ha adeguato supporto motivazionale dell'atto di reiterazione del vincolo preordinato all'esproprio qualora l'amministrazione, nell'evidenziare l'attualità dell'interesse pubblico da soddisfare, abbia a seguito di specifica istruttoria, tenuto conto delle seguenti circostanze:
1) in caso di reiterazione disposta con riguardo o meno una pluralità di aree, nell'ambito dell'adozione di una variante generale o comunque riguardante una consistente parte del territorio comunale, si devono distinguere le ipotesi in cui la reiterazione del vincolo riguardi un'area ben specificata (per realizzare una singola opera pubblica o per soddisfare i prescritti standard sui servizi pubblici o sul verde pubblico) e quelle in cui la reiterazione riguardi una pluralità di aree per una consistente parte del territorio comunale, a seguito della decadenza di uno strumento urbanistico generale che abbia disposto una molteplicità di vincoli preordinati all'esproprio (necessari per l'adeguamento degli standard, a seguito della realizzazione di ulteriori manufatti). Tale distinzione ha ragion d'essere perché solo nell'ipotesi in cui vengono reiterati ‘in blocco’ i vincoli decaduti, già riguardanti una pluralità di aree, la sussistenza di un attuale specifico interesse pubblico risulta dalla perdurante constatata insufficienza delle aree destinate a standard (indispensabili per la vivibilità degli abitati), mentre l'assenza di un intento vessatorio si evince dalla parità di trattamento che hanno tutti i destinatari dei precedenti vincoli decaduti;
2) in caso di reiterazione disposta con riguardo solo ad una parte delle aree già incise dai vincoli decaduti, mentre per l'altra parte non è disposta la reiterazione in quanto il vincolo venga impresso su nuovi terreni. Tale scelta, pur costituendo senz'altro un'anomalia della funzione pubblica, deve fondarsi, pena il profilarsi di un intento vessatorio nei confronti dei proprietari delle aree riassoggettate a vincolo, su una motivazione da cui emergano le ragioni di interesse pubblico che giustifichino il vantaggio di chi non è più coinvolto nelle determinazioni di reperimento degli standard, a scapito di chi lo diventa, pur non essendo stato destinatario di un precedente vincolo preordinato all'esproprio;
3) in caso di reiterazione disposta per la prima volta, può ritenersi giustificato il richiamo alle originarie valutazioni; di converso, quando il rinnovato vincolo sia a sua volta decaduto, l'autorità urbanistica deve procedere con una ponderata valutazione degli interessi coinvolti, evidenziano le ragioni, con riferimento al rispetto degli standard, alle esigenze della spesa, agli specifici accadimenti riguardanti le precedenti fasi procedimentali, che diano conto dell'attuale sussistenza dell'interesse pubblico
”;
         g4) “secondo il quadro normativo vigente antecedentemente al testo unico sugli espropri approvato con il d.P.R. n. 327 del 2001, valeva il principio che, in caso di atti di reiterazione dei vincoli preordinati all'esproprio, imponeva l'obbligo di un'adeguata motivazione (poi espressamente disposto dall'art. 9, comma 4, d.P.R. cit.), nella quale l'amministrazione doveva indicare la ragione che l'avevano indotta a scegliere nuovamente proprio l'area sulla quale la precedente scelta si era appuntata, evidenziando, a tal fine, l'attualità dell'interesse pubblico da soddisfare, ciò in quanto tale specie di determinazione è destinata ad incidere sulla sfera giuridica di un proprietario che già per un quinquennio è stato titolare di un bene suscettibile di dichiarazione di pubblica utilità e successivamente di esproprio”;
         g5) la deliberazione riguardante la reiterazione del vincolo espropriativo non necessita di copertura finanziaria volta a garantire il pagamento del corrispondente indennizzo (“la delibera impugnata in primo grado non doveva essere preceduta dall’approvazione di un ‘piano finanziario’”);
      h) sulla distinzione fra vincoli conformativi e vincoli espropriativi, in relazione a motivazione e indennizzo, cfr. da ultimo, nella giurisprudenza amministrativa (cui adde le ulteriori indicazioni riportate nella News US n. 109 del 16.10.2019, cit.):
         h1) Cons. Stato, sezione IV, sentenza 19.02.2020, n. 1253, secondo cui “l’art. 40 della legge n. 1150/1942, dopo l’intervento della Corte costituzionale con la sentenza n. 55 del 1968, deve intendersi nel senso che gli obblighi di allineamento rispetto alle previsioni di piano sulle vie di comunicazione non decadono perché non hanno natura espropriativa”;
         h2) Cons. Stato, sezione IV, sentenza 12.04.2018, n. 2205, in cui si legge quanto segue: “il concetto di ‘limiti comportanti la totale inutilizzazione’ va enucleato in base alla insuperata giurisprudenza costituzionale, in materia di cd. espropriazione di valore (sentenze 20.01.1966 n. 6 e 29.05.1968 n. 55), che indica il criterio per discernere le ipotesi in cui l'amministrazione esercita sui beni di proprietà privata un potere conformativo (come tale, non indennizzabile), da quelle in cui -viceversa- esercita un potere sostanzialmente ablatorio (come tale, indennizzabile [...])”;
         h3) Cons. Stato, sezione IV, decisione 28.10.2009, n. 6661 (in Giurisdiz. amm., 2009, I, 1399), secondo cui “In tema di convenzione urbanistica di lottizzazione, quando sia scaduto un piano di lottizzazione si applicano alla convenzione le disposizioni dell'art. 17 l. 1150/1942, le quali impongono, in mancanza di una diversa disciplina di dettaglio, di rispettare gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabilite dallo strumento urbanistico attuativo, ancorché scaduto; la previsione di «ultrattività» delle disposizioni del piano scaduto è finalizzata ad evitare l'alterazione dello sviluppo urbanistico-edilizio così come armonicamente programmato e ad assicurare una edificazione omogenea”;
      i) sulla programmazione triennale dei lavori pubblici cfr., in dottrina: L. PETRANGELI PAPINI, La programmazione e la progettazione dei lavori pubblici, in Appalti urbanistica edilizia, 2000, 12, 643 ss.; G. FORMICHELLA, Lavori pubblici. La programmazione dei lavori pubblici negli Enti locali. I principi, le procedure, gli aspetti positivi e gli spunti problematici, in Nuova rass., 2001, 1857 ss.; A. MATARAZZO, Lavori pubblici. Brevi annotazioni operative in tema di programmazione dei lavori pubblici, in Nuova rass., 2001, 1871 ss.; E. BARUSSO, Le competenze degli organi dell’Ente Locale, Santarcangelo di Romagna, 2001, 127 ss.; G. PESCE, Effetti del programma triennale delle opere pubbliche e valutazione di fattibilità dell'intervento, in Urb. e appalti, 2003, 442 ss.; A. PAGANO, Programma triennale dei lavori pubblici, Commento a d.m. Infrastrutture e trasporti 09.06.2005, in Urb. e appalti, 2005, 914; D. GHIANDONI, E. MASINI, Le principali novità del programma oo.pp. 2019/2021, in Azienditalia, 2018, 10, 1247; P. LEONCINO, La contabilizzazione delle opere pubbliche, in Azienditalia, 2019, 6, 885; A. GRAZIANO, in Trattato sui contratti pubblici, diretto da M.A. SANDULLI e R. DE NICTOLIS, I, Fonti e principi, Ambito, Programmazione e progettazione, 2019, 1123 ss.; R. DE NICTOLIS, Appalti pubblici e concessioni, Bologna, 2020, 300 ss. (Corte Costituzionale, sentenza 18.12.2020 n. 270 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEIllegittimo l’art. 9, comma 12, secondo periodo, della L.R. Lombardia n. 12 del 2005 che consente la protrazione dell’efficacia del vincolo preordinato all’esproprio oltre la naturale scadenza quinquennale.
La Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 12, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, secondo periodo, limitatamente alla parte in cui prevede che i vincoli preordinati all’espropriazione per la realizzazione, esclusivamente ad opera della pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi previsti dal piano dei servizi decadono qualora, entro cinque anni decorrenti dall’entrata in vigore del piano stesso, l’intervento cui sono preordinati non sia inserito, a cura dell’ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale delle opere pubbliche e relativo aggiornamento.
Osserva al riguardo la Corte che:
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le questioni di legittimità costituzionale sollevate sull’art. 9, comma 12, della legge reg. n. 12 del 2005 sono fondate, poiché tale disposizione viola gli artt. 42, terzo comma, e 117, terzo comma, Cost..
Non può che ribadirsi, nel solco della sentenza n. 179 del 1999, che la proroga in via legislativa dei vincoli espropriativi è fenomeno inammissibile dal punto di vista costituzionale, qualora essa si presenti «sine die o all’infinito (attraverso la reiterazione di proroghe a tempo determinato che si ripetano aggiungendosi le une alle altre), o quando il limite temporale sia indeterminato, cioè non sia certo, preciso e sicuro e, quindi, anche non contenuto in termini di ragionevolezza».
Questo è proprio il vizio che presenta, in primo luogo, la disposizione censurata.
Come correttamente evidenziato dal giudice rimettente, infatti, l’art. 9, comma 12, secondo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, consente la protrazione dell’efficacia del vincolo preordinato all’esproprio ben oltre la naturale scadenza quinquennale e, in virtù dell’inclusione dell’aggiornamento annuale del programma triennale delle opere pubbliche nell’ambito applicativo della norma, per un tempo sostanzialmente indefinito, senza che sia previsto il riconoscimento al privato interessato di alcun indennizzo.
Questo effetto si pone in frontale contrasto con la giurisprudenza costituzionale illustrata in precedenza, dando seguito alla quale il legislatore statale ha individuato un ragionevole punto di equilibrio tra la reiterabilità indefinita dei vincoli e la necessità di indennizzare il proprietario.
Gli artt. 42, terzo comma, e 117, terzo comma, Cost. sono, infatti, violati in tutti i casi in cui –come avviene nella specie– alla protrazione automatica di vincoli di natura espropriativa, disposta da una legge regionale oltre il punto di tollerabilità individuato dal legislatore statale, non corrisponda l’obbligo di riconoscere un indennizzo.
A ciò si aggiunga che, nel consentire la proroga senza indennizzo del vincolo preordinato all’esproprio oltre il quinquennio originario, il legislatore regionale ha omesso di imporre un preciso onere motivazionale circa l’interesse pubblico al mantenimento del vincolo per un periodo che oltrepassa quello cosiddetto di franchigia: ciò che invece è richiesto dalla legge statale (art. 9, comma 4, t.u. espropriazioni) per le ipotesi di reiterazione del vincolo.
Ancora, e si tratta di un profilo che non risulta certo ultimo per importanza, la disposizione censurata appare del tutto carente quanto al livello di garanzia partecipativa da riconoscersi al privato interessato.
Proprio in materia espropriativa, questa Corte ha da tempo affermato che i privati interessati, prima che l’autorità pubblica adotti provvedimenti limitativi dei loro diritti, devono essere messi «in condizioni di esporre le proprie ragioni, sia a tutela del proprio interesse, sia a titolo di collaborazione nell’interesse pubblico» (da ultimo, sentenza n. 71 del 2015).
La garanzia in parola è, invece, frustrata da un atto –l’approvazione del programma triennale delle opere pubbliche– in relazione al cui contenuto il codice dei contratti pubblici prevede forme di partecipazione di qualità e grado insufficienti, e comunque non corrispondenti a quelle stabilite dal t.u. espropriazioni (in particolare nell’art. 11) per gli atti appositivi e per quelli reiterativi del vincolo espropriativo.
Infatti, la partecipazione al procedimento che sfocia nel programma in questione è prevista esclusivamente dalla fonte regolamentare (d.m. n. 14 del 2018), non già dall’art. 21 cod. contratti pubblici e nemmeno dalla legge regionale. Inoltre, e soprattutto, l’art. 5, comma 5, del d.m. prima ricordato si limita a prevedere che le «amministrazioni possono consentire la presentazione di eventuali osservazioni» da parte dei privati interessati, così degradando la partecipazione a mera eventualità
>> (commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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Espropriazione per pubblica utilità - Norme della Regione Lombardia - Piano dei servizi - Durata quinquennale dei vincoli preordinati all'espropriazione per la realizzazione di attrezzature e servizi previsti dal piano dei servizi, decorrenti dall'entrata in vigore del piano stesso - Decadenza dei vincoli qualora, entro tale termine, l'intervento cui sono preordinati non sia inserito, a cura dell'ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale delle opere pubbliche.
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1.– Il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione staccata di Brescia, con
ordinanza 20.09.2019 n. 827 (r.o. n. 221 del 2019), solleva, in riferimento agli artt. 42 e 117, terzo e primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a Parigi il 20.03.1952, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 12, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio).
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1.– Il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione staccata di Brescia, dubita che l’art. 9, comma 12, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), violi gli artt. 42 e 117, terzo e primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a Parigi il 20.03.1952.
1.1.– Il TAR Lombardia ricorda che la disposizione censurata disciplina i vincoli preordinati all’espropriazione per la realizzazione, esclusivamente ad opera della pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi previsti dal piano dei servizi.
Quest’ultimo costituisce una componente del piano di governo del territorio, previsto dall’art. 7, comma 1, lett. b), della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005 quale strumento urbanistico generale della pianificazione di livello comunale.
La disposizione censurata, dopo aver stabilito nel primo periodo, in cinque anni, decorrenti dall’entrata in vigore del citato piano dei servizi, la durata dei vincoli ablativi in questione, prevede, nel secondo periodo (cioè proprio nella parte della cui legittimità costituzionale il rimettente dubita), che «[d]etti vincoli decadono qualora, entro tale termine, l’intervento cui sono preordinati non sia inserito, a cura dell’ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale delle opere pubbliche e relativo aggiornamento […]».
Ciò posto, il rimettente espone, in punto di rilevanza, che le società Te.Mo. spa e So.Ag.Be. ss hanno impugnato l’atto contenente la dichiarazione di pubblica utilità e i successivi provvedimenti, adottati nell’ambito del procedimento espropriativo preordinato alla realizzazione di una strada di collegamento, in parte prevista su un fondo di proprietà della Te.Mo. spa e destinato dalla So.Ag.Be. ss alla coltivazione di uva per la produzione di vino pregiato.
La dichiarazione di pubblica utilità, contenuta nella deliberazione del Consiglio comunale del 15.02.2018, n. 11 (recante l’approvazione del progetto dell’opera da realizzare), sarebbe stata adottata –riferisce il rimettente– quando erano già decorsi cinque anni dal momento dell’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio.
Quest’ultimo, infatti, troverebbe origine nell’approvazione, in data 21.11.2012, del piano di governo del territorio del Comune di Adro, che prevedeva l’assoggettamento del fondo in questione a vincolo ablativo fino al 21.11.2017.
La decadenza del vincolo ablativo sarebbe stata impedita proprio e soltanto in forza dell’applicazione della disposizione censurata. Tale effetto sarebbe cioè derivato dall’inserimento dell’intervento, prima della scadenza quinquennale del vincolo espropriativo, nel programma triennale delle opere pubbliche –nella specie approvato in data 06.04.2017– inserimento che avrebbe così legittimato l’adozione della dichiarazione di pubblica utilità dell’opera, pur se intervenuta in data 15.02.2018, e dunque oltre il termine quinquennale decorrente dall’approvazione del piano di governo del territorio.
Il TAR Lombardia riferisce che, nella medesima data da ultimo indicata, è stata anche adottata dal Consiglio comunale di Adro una variante urbanistica (poi approvata con deliberazione del 12.05.2018, n. 23).
Tuttavia, con riferimento all’opera pubblica di cui si tratta, quest’ultima deliberazione non avrebbe legittimamente reiterato il vincolo preordinato all’esproprio (ormai già scaduto), in quanto il Comune di Adro, in applicazione della disposizione censurata, avrebbe semplicemente «preso atto» dell’inserimento dell’intervento nel programma triennale delle opere pubbliche e del conseguente «effetto “confermativo”» dell’efficacia del vincolo.
A giudizio del TAR Lombardia –che attribuisce al provvedimento di variante urbanistica funzione meramente ricognitiva di un effetto legale già prodottosi– la sua mancata impugnazione da parte delle società ricorrenti non avrebbe dunque rilievo, poiché il provvedimento stesso «risulterebbe inevitabilmente ed automaticamente travolto dall’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale della norma che ne rappresenta il presupposto».
Infatti, la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera, impugnata dalle ricorrenti, sarebbe comunque intervenuta sulla base di un vincolo preordinato all’esproprio risalente a più di cinque anni prima, sicché essa poggerebbe esclusivamente su una sorta di “proroga automatica” del vincolo, conseguente all’inclusione dell’opera nel programma triennale delle opere pubbliche ai sensi della disposizione censurata.
Quest’ultima costituirebbe, in definitiva, l’unico ostacolo frapposto all’annullamento dell’atto.
1.2.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo, sulla scorta della giurisprudenza di questa Corte, ricorda che, trascorso un periodo di ragionevole durata –oggi fissato in cinque anni dall’art. 9, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 08.06.2001, n. 327, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità (Testo A)» (d’ora innanzi: t.u. espropriazioni)– la pubblica amministrazione può reiterare il vincolo solo motivando adeguatamente in relazione alla persistenza di effettive esigenze urbanistiche (art. 9, comma 4, t.u. espropriazioni), e comunque corrispondendo un indennizzo (ai sensi del successivo art. 39 del medesimo testo unico).
Secondo il Tribunale amministrativo rimettente, dunque, l’esercizio del potere ablatorio può essere ritenuto conforme all’art. 42 Cost., solo se risulti limitato nel tempo e compensato, in caso di reiterazione del vincolo, dalla corresponsione di un equo indennizzo.
Ricorda il giudice a quo, in particolare, che la giurisprudenza costituzionale (è richiamata la sentenza n. 179 del 1999) ha escluso che il vincolo possa essere reiterato senza che si proceda, alternativamente, all’espropriazione (o comunque al «serio inizio dell’attività preordinata all’espropriazione stessa mediante approvazione dei piani attuativi)», oppure alla corresponsione di un indennizzo.
Nella ricostruzione del TAR Lombardia, questo «serio inizio» dell’attività espropriativa sarebbe stato individuato dal legislatore statale, unico competente a tal fine, nel provvedimento che dichiara la pubblica utilità dell’opera; quindi, in un atto che comunque garantisce la partecipazione del proprietario del bene.
L’art. 9, comma 12, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, avrebbe, invece, disciplinato una nuova ipotesi di attuazione del vincolo espropriativo, in mancanza di un serio avvio della procedura espropriativa e, in particolare, di una tempestiva dichiarazione di pubblica utilità dell’opera.
In tal modo, in violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., la legge regionale avrebbe ecceduto la propria competenza concorrente in materia, dal momento che l’art. 12 t.u. espropriazioni non ricomprenderebbe, tra gli atti che comportano la dichiarazione di pubblica utilità, l’inserimento dell’opera pubblica nel programma triennale.
Inoltre, in lesione dell’art. 42 Cost., la disposizione censurata consentirebbe l’esercizio del potere ablatorio «a tempo indeterminato», in ragione di un provvedimento –appunto l’approvazione del piano triennale delle opere pubbliche– la cui adozione, da un lato, non può essere qualificata come serio avvio della procedura espropriativa, e, dall’altro, non garantisce la partecipazione procedimentale degli interessati e può essere indefinitamente rinnovato, senza necessità né di motivazione, né di indennizzo.
2.– In via preliminare, non può essere accolta la richiesta di una declaratoria d’inammissibilità delle questioni per sopravvenuto difetto di rilevanza, avanzata dal Comune di Adro, costituito in giudizio, in conseguenza della rinuncia al ricorso depositata nel giudizio a quo dalle società espropriate.
Come stabilito dall’art. 18 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, il giudizio incidentale di costituzionalità è autonomo rispetto al giudizio a quo, nel senso che non risente delle vicende di fatto, successive all’ordinanza di rimessione e relative al rapporto dedotto nel processo principale. Per questo, la costante giurisprudenza costituzionale afferma che la rilevanza della questione deve essere valutata alla luce delle circostanze sussistenti al momento del provvedimento di rimessione, senza che assumano rilievo eventi sopravvenuti (sentenze n. 244 e n. 85 del 2020), quand’anche costituiti dall’estinzione del giudizio principale per effetto di rinuncia da parte dei ricorrenti (ordinanza n. 96 del 2018).
3.– Deve essere, inoltre, circoscritto il thema decidendum.
Il giudice a quo, in dispositivo, indirizza le proprie censure sull’intero comma 12 dell’art. 9 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005.
La motivazione dell’ordinanza di rimessione, tuttavia, consente agevolmente di delimitare l’oggetto delle censure al solo secondo periodo del comma in esame, limitatamente alla parte in cui prevede che i vincoli preordinati all’espropriazione decadono qualora, entro cinque anni dall’approvazione del piano dei servizi che prevede l’intervento, quest’ultimo non sia inserito, a cura dell’ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale delle opere pubbliche e relativo aggiornamento.
4.– Sempre in via preliminare, va rigettata l’eccezione d’inammissibilità per difetto di rilevanza, originariamente avanzata dalla difesa del Comune di Adro, secondo cui l’adozione della variante allo strumento urbanistico, in quanto idonea a reiterare il vincolo preordinato all’esproprio, renderebbe irrilevanti le questioni di legittimità costituzionale sollevate.
Nel caso in esame, non risulta implausibile il ragionamento del rimettente, secondo il quale il Comune di Adro non sarebbe stato obbligato a reiterare il vincolo –nonostante la scadenza del quinquennio dalla originaria apposizione– proprio in virtù della norma censurata, che avrebbe determinato una “prorogaex lege del vincolo, a seguito dell’inserimento dell’opera nel programma triennale, per la durata di quest’ultimo e dei suoi eventuali aggiornamenti annuali.
Infatti, da questo punto di vista, il provvedimento di variante urbanistica, quantomeno in relazione all’opera di cui si tratta, potrebbe considerarsi meramente ricognitivo e, come tale, prima ancora che “atipico” (come ritenuto dal rimettente), addirittura superfluo.
Non si versa, pertanto, in una di quelle ipotesi di manifesta implausibilità della motivazione sulla rilevanza, che impediscono, secondo costante giurisprudenza costituzionale, l’esame del merito (da ultimo, sentenze n. 218 del 2020 e n. 208 del 2019).
5.– Neppure può essere accolta l’eccezione d’inammissibilità delle censure di violazione dell’art. 117 Cost., per non avere il rimettente indicato «quale comma e/o lettera sarebbero stati violati».
In primo luogo, il giudice a quo, almeno in un passaggio dell’ordinanza di rimessione, individua espressamente il terzo comma dell’art. 117 Cost. quale parametro evocato.
È, poi, ininfluente che il rimettente non menzioni espressamente la materia di legislazione concorrente tra quelle indicate nel terzo comma dell’art. 117 Cost., quando la questione, nel contesto della motivazione, risulti chiaramente enunciata (in senso analogo, da ultimo, sentenza n. 264 del 2020). E dal tenore dell’ordinanza di rimessione si evince con sufficiente chiarezza che le censure si incentrano sulla violazione della competenza legislativa concorrente spettante alla Regione nella materia «governo del territorio».
6.– Va invece, e ancora preliminarmente, dichiarata l’inammissibilità della questione sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU.
Il rimettente non ha, infatti, assolto l’onere di motivazione sulla non manifesta infondatezza del prospettato dubbio di legittimità costituzionale.
L’ordinanza di rimessione è, invero, volta unicamente a denunciare la lesione degli artt. 42 e 117, terzo comma, Cost., sotto i profili prima illustrati, e non indica alcuna ragione a sostegno di uno specifico contrasto della disposizione censurata con il parametro interposto sovranazionale.
Tale carenza conduce inevitabilmente all’inammissibilità della specifica questione in esame (in tal senso, tra le molte, sentenze n. 223 e n. 115 del 2020).
7.– Quanto all’esame del merito delle residue questioni di legittimità costituzionale, è utile premettere qualche sintetico richiamo alla disciplina statale e regionale rilevante, nonché alla pertinente giurisprudenza costituzionale.
8.– Governata dall’art. 42, terzo comma, Cost., l’espropriazione per motivi d’interesse generale consiste in un procedimento preordinato all’emanazione di un provvedimento che trasferisce la proprietà o altro diritto reale su di un bene.
Il legislatore statale ha introdotto a tal fine uno schema procedimentale articolato nelle fasi indicate dall’art. 8 t.u. espropriazioni, costituite dalla sottoposizione del bene al vincolo preordinato all’esproprio, dalla dichiarazione di pubblica utilità dell’opera che deve essere realizzata e dalla determinazione dell’indennità di espropriazione.
Tali fasi sono finalizzate all’emissione del decreto di esproprio.
Ai sensi del successivo art. 9 del medesimo testo unico, un bene è sottoposto al vincolo preordinato all’espropriazione quando diventa efficace, in base alla specifica normativa statale e regionale di riferimento, l’atto di approvazione del piano urbanistico generale, ovvero una sua variante, che preveda la realizzazione di un’opera pubblica o di pubblica utilità.
Una volta apposto il vincolo espropriativo, il proprietario del bene resta titolare del suo diritto sulla cosa e nel possesso di essa, ma non può utilizzarla in contrasto con la destinazione dell’opera, fino a che l’amministrazione non proceda all’espropriazione.
Come ricorda il giudice rimettente, questa Corte, con la sentenza n. 55 del 1968, ha dichiarato costituzionalmente illegittimi i numeri 2), 3) e 4) dell’art. 7 della legge 17.08.1942, n. 1150 (Legge urbanistica), nonché l’art. 40 della stessa legge, nella parte in cui non prevedevano un indennizzo per le limitazioni espropriative a tempo indeterminato.
Il legislatore statale, chiamato a sciogliere l’alternativa tra un indennizzo da corrispondere immediatamente, al momento dell’apposizione del vincolo di durata indeterminata, e un vincolo senza immediato indennizzo ma a tempo determinato, ha optato per tale seconda soluzione, con la legge 19.11.1968, n. 1187 (Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150), il cui art. 2 ha stabilito la durata quinquennale del vincolo, periodo durante il quale la necessità di corrispondere un indennizzo è esclusa.
Con la sentenza n. 179 del 1999, infine, questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 7, numeri 2), 3) e 4), e 40 della legge n. 1150 del 1942, e 2, primo comma, della legge n. 1187 del 1968, nella parte in cui consentiva alla pubblica amministrazione di reiterare i vincoli espropriativi scaduti senza la previsione di un indennizzo.
Il legislatore statale si è adeguato a queste indicazioni con l’emanazione del già richiamato t.u. espropriazioni.
In base alle norme dettate da quest’ultimo, il vincolo preordinato all’esproprio è di durata quinquennale (art. 9, comma 2) –periodo, cosiddetto di franchigia, durante il quale al proprietario del bene non è dovuto alcun indennizzo– e decade se, entro tale termine, non è dichiarata la pubblica utilità dell’opera (art. 9, comma 3).
Una volta decaduto e, dunque, divenuto inefficace, il vincolo può solo essere motivatamente reiterato, subordinatamente alla previa approvazione di un nuovo piano urbanistico generale o di una sua variante (art. 9, comma 4), e con la corresponsione di un apposito indennizzo (art. 39).
Le stesse garanzie devono sorreggere una eventuale proroga del vincolo prima della sua naturale scadenza (in tal senso, sentenza n. 314 del 2007).
Una volta apposto il vincolo, occorre procedere alla dichiarazione di pubblica utilità dell’opera, entro il termine di efficacia del vincolo espropriativo (art. 13, comma 1, t.u. espropriazioni).
Si tratta dell’atto con il quale vengono individuati in concreto i motivi di interesse generale cui l’art. 42, terzo comma, Cost. subordina l’espropriazione della proprietà privata nei casi previsti dalla legge (sentenza n. 155 del 1995).
Con la dichiarazione di pubblica utilità, la pubblica amministrazione avvia effettivamente la procedura espropriativa, accertando l’interesse pubblico dell’opera attraverso l’individuazione specifica di essa e la sua collocazione nel territorio, nel rispetto del contraddittorio tra i cittadini interessati e l’amministrazione.
Un ruolo centrale nell’attuale disciplina del procedimento espropriativo è svolto dalla cosiddetta dichiarazione implicita di pubblica utilità.
Il t.u. espropriazioni, infatti, prevede che l’adozione di taluni atti, aventi struttura e funzioni proprie, comporti anche la dichiarazione di pubblica utilità delle opere da essi previste.
In particolare, ai sensi dell’art. 12, comma 1, la dichiarazione di pubblica utilità si intende disposta «quando l’autorità espropriante approva a tale fine il progetto definitivo dell’opera pubblica o di pubblica utilità, ovvero quando sono approvati il piano particolareggiato, il piano di lottizzazione, il piano di recupero, il piano di ricostruzione, il piano delle aree da destinare a insediamenti produttivi, ovvero quando è approvato il piano di zona». Inoltre, e comunque, essa si intende disposta quando la normativa vigente prevede che equivalga «a dichiarazione di pubblica utilità l’approvazione di uno strumento urbanistico, anche di settore o attuativo, la definizione di una conferenza di servizi o il perfezionamento di un accordo di programma, ovvero il rilascio di una concessione, di una autorizzazione o di un atto avente effetti equivalenti».
8.1.– In ambito statale, il programma triennale dei lavori pubblici è attualmente previsto dall’art. 21 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici), il quale disciplina unitariamente la programmazione, sia per i lavori pubblici che per i servizi e le forniture, demandando (comma 8) a un decreto ministeriale, di natura regolamentare, la normazione di dettaglio.
Ai sensi dell’art. 3, lettera ggggg-sexies), cod. contratti pubblici, il programma rappresenta il documento, da aggiornare annualmente, che le amministrazioni adottano al fine di individuare i lavori da avviare nel triennio.
Ai fini della presente decisione, va altresì sottolineato che, in relazione alla definizione del contenuto del programma in questione, la disciplina della partecipazione dei privati interessati è contenuta nella fonte regolamentare prima evocata: l’art. 5, comma 5, del decreto ministeriale 16.01.2018, n. 14 («Regolamento recante procedure e schemi-tipo per la redazione e la pubblicazione del programma triennale dei lavori pubblici, del programma biennale per l’acquisizione di forniture e servizi e dei relativi elenchi annuali e aggiornamenti annuali»), prevede, infatti, che le amministrazioni «possono consentire» la presentazione di «eventuali» osservazioni entro trenta giorni dalla pubblicazione del programma sul profilo informatico del committente e che l’approvazione definitiva del documento programmatico triennale, con gli eventuali aggiornamenti, avviene entro i successivi trenta giorni dalla scadenza del termine fissato per tali «consultazioni», ovvero, comunque, entro sessanta giorni dalla pubblicazione sul suddetto profilo.
9.– La complessiva disciplina statale sinteticamente richiamata ha trovato peculiare attuazione nella legislazione della Regione Lombardia.
Come riconosce significativamente lo stesso art. 5, comma 1, t.u. espropriazioni («[l]e Regioni a statuto ordinario esercitano la potestà legislativa concorrente, in ordine alle espropriazioni strumentali alle materie di propria competenza […]»), l’espropriazione costituisce una funzione trasversale, che può esplicarsi in varie materie, anche di competenza concorrente. Tra queste, soprattutto, il «governo del territorio», per la pacifica attrazione in quest’ultimo dell’urbanistica, come chiarito dalla giurisprudenza costituzionale (tra le più recenti, sentenze n. 130 del 2020 e n. 254 del 2019).
La Regione Lombardia, nell’esercizio delle proprie competenze legislative, si è dotata sia di una propria legge per il governo del territorio (legge reg. Lombardia n. 12 del 2005), sia di una disciplina in materia di procedimento di espropriazione, contenuta nella legge della Regione Lombardia 04.03.2009, n. 3 (Norme regionali in materia di espropriazione per pubblica utilità).
Con specifico riferimento alla vicenda che ha dato origine al giudizio a quo, relativo ad una fattispecie in cui sono in questione le prime due fasi della procedura espropriativa (apposizione del vincolo preordinato all’esproprio e dichiarazione di pubblica utilità) assumono rilievo, nella legislazione della Regione Lombardia, due disposizioni: da un lato, quella effettivamente censurata, contenuta nella legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, che attribuisce, come s’è visto, peculiare effetto all’inserimento dell’opera pubblica o di pubblica utilità nel programma triennale delle opere pubbliche; dall’altro, l’art. 9 della legge reg. Lombardia n. 3 del 2009, il quale, nell’indicare gli atti che comportano la dichiarazione di pubblica utilità, include –a differenza della appena ricordata disciplina statale– anche il programma triennale delle opere pubbliche, subordinando però tale effetto all’accertamento di alcuni requisiti.
In particolare, il comma 2 della previsione da ultimo citata esige, relativamente a ciascuna opera per la quale il programma triennale intende produrre l’effetto in parola, che esso contenga: un piano particellare che individui i beni da espropriare, con allegate le relative planimetrie catastali; una motivazione circa la necessità di dichiarare la pubblica utilità in tale fase; la determinazione del valore da attribuire ai beni da espropriare, in conformità ai criteri applicabili in materia, con l’indicazione della relativa copertura finanziaria.
Pur riguardando entrambe il programma triennale delle opere pubbliche in ambito regionale, le due disposizioni hanno differenti obbiettivi: la prima (oggetto delle censure di legittimità costituzionale) è relativa alla fase dell’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio e stabilisce che il vincolo non decade se l’opera viene inserita nel programma; la seconda, relativa alla fase successiva del procedimento, include, alle condizioni viste, il programma in questione tra gli atti la cui approvazione comporta dichiarazione di pubblica utilità, con scelta, si è detto, innovativa rispetto alla disciplina statale.
Il giudice a quo non si occupa affatto della seconda disposizione e perciò non ne definisce il rapporto (di coordinamento, di alternatività, di esclusione) con la prima, che sospetta di illegittimità costituzionale. Si deve ritenere, peraltro, che tale pur indubbia lacuna non comporti l’inammissibilità delle questioni, per incompleta ricostruzione del quadro normativo di riferimento, oppure per una erronea o incompleta individuazione della disciplina da censurare. Avendo affermato, nell’ordinanza di rimessione, che il programma triennale delle opere pubbliche approvato dal Comune di Adro non costituisce «serio inizio» della procedura espropriativa (carattere che, invece, è in generale riconosciuto alla dichiarazione di pubblica utilità di un’opera, e che, in virtù dei requisiti posti dall’art. 9, comma 2, legge reg. Lombardia n. 3 del 2009, potrebbe derivare, almeno nelle intenzioni del legislatore regionale, dall’inserimento nel programma triennale delle opere pubbliche corredate da quei requisiti), se ne deve dedurre che il rimettente abbia implicitamente ritenuto non applicabile l’art. 9 della legge reg. Lombardia n. 3 del 2009 alla fattispecie al suo esame.
Trattandosi, dunque, di disposizione non ritenuta pertinente alla definizione del giudizio, questa Corte può prescindere da qualsiasi valutazione su di essa, sia in punto di ammissibilità delle questioni, sia, nel merito, circa la sua riconducibilità alla legittima espressione della potestà legislativa concorrente spettante alla Regione nella materia «governo del territorio».
10.– Tutto ciò premesso, le questioni di legittimità costituzionale sollevate sull’art. 9, comma 12, della legge reg. n. 12 del 2005 sono fondate, poiché tale disposizione viola gli artt. 42, terzo comma, e 117, terzo comma, Cost.
Non può che ribadirsi, nel solco della sentenza n. 179 del 1999, che la proroga in via legislativa dei vincoli espropriativi è fenomeno inammissibile dal punto di vista costituzionale, qualora essa si presenti «sine die o all’infinito (attraverso la reiterazione di proroghe a tempo determinato che si ripetano aggiungendosi le une alle altre), o quando il limite temporale sia indeterminato, cioè non sia certo, preciso e sicuro e, quindi, anche non contenuto in termini di ragionevolezza».
Questo è proprio il vizio che presenta, in primo luogo, la disposizione censurata.
Come correttamente evidenziato dal giudice rimettente, infatti, l’art. 9, comma 12, secondo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, consente la protrazione dell’efficacia del vincolo preordinato all’esproprio ben oltre la naturale scadenza quinquennale e, in virtù dell’inclusione dell’aggiornamento annuale del programma triennale delle opere pubbliche nell’ambito applicativo della norma, per un tempo sostanzialmente indefinito, senza che sia previsto il riconoscimento al privato interessato di alcun indennizzo.
Questo effetto si pone in frontale contrasto con la giurisprudenza costituzionale illustrata in precedenza, dando seguito alla quale il legislatore statale ha individuato un ragionevole punto di equilibrio tra la reiterabilità indefinita dei vincoli e la necessità di indennizzare il proprietario.
Gli artt. 42, terzo comma, e 117, terzo comma, Cost. sono, infatti, violati in tutti i casi in cui –come avviene nella specie– alla protrazione automatica di vincoli di natura espropriativa, disposta da una legge regionale oltre il punto di tollerabilità individuato dal legislatore statale, non corrisponda l’obbligo di riconoscere un indennizzo.
A ciò si aggiunga che, nel consentire la proroga senza indennizzo del vincolo preordinato all’esproprio oltre il quinquennio originario, il legislatore regionale ha omesso di imporre un preciso onere motivazionale circa l’interesse pubblico al mantenimento del vincolo per un periodo che oltrepassa quello cosiddetto di franchigia: ciò che invece è richiesto dalla legge statale (art. 9, comma 4, t.u. espropriazioni) per le ipotesi di reiterazione del vincolo.
Ancora, e si tratta di un profilo che non risulta certo ultimo per importanza, la disposizione censurata appare del tutto carente quanto al livello di garanzia partecipativa da riconoscersi al privato interessato.
Proprio in materia espropriativa, questa Corte ha da tempo affermato che i privati interessati, prima che l’autorità pubblica adotti provvedimenti limitativi dei loro diritti, devono essere messi «in condizioni di esporre le proprie ragioni, sia a tutela del proprio interesse, sia a titolo di collaborazione nell’interesse pubblico» (da ultimo, sentenza n. 71 del 2015).
La garanzia in parola è, invece, frustrata da un atto –l’approvazione del programma triennale delle opere pubbliche– in relazione al cui contenuto il codice dei contratti pubblici prevede forme di partecipazione di qualità e grado insufficienti, e comunque non corrispondenti a quelle stabilite dal t.u. espropriazioni (in particolare nell’art. 11) per gli atti appositivi e per quelli reiterativi del vincolo espropriativo.
Infatti, la partecipazione al procedimento che sfocia nel programma in questione è prevista esclusivamente dalla fonte regolamentare (d.m. n. 14 del 2018), non già dall’art. 21 cod. contratti pubblici e nemmeno dalla legge regionale. Inoltre, e soprattutto, l’art. 5, comma 5, del d.m. prima ricordato si limita a prevedere che le «amministrazioni possono consentire la presentazione di eventuali osservazioni» da parte dei privati interessati, così degradando la partecipazione a mera eventualità.
11.– Per queste complessive ragioni
va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 12, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, secondo periodo, limitatamente alla parte in cui prevede che i vincoli preordinati all’espropriazione per la realizzazione, esclusivamente ad opera della pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi previsti dal piano dei servizi decadono qualora, entro cinque anni decorrenti dall’entrata in vigore del piano stesso, l’intervento cui sono preordinati non sia inserito, a cura dell’ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale delle opere pubbliche e relativo aggiornamento.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
   1)
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 12, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), secondo periodo, limitatamente alla parte in cui prevede che i vincoli preordinati all’espropriazione per la realizzazione, esclusivamente ad opera della pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi previsti dal piano dei servizi decadono qualora, entro cinque anni decorrenti dall’entrata in vigore del piano stesso, l’intervento cui sono preordinati non sia inserito, a cura dell’ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale delle opere pubbliche e relativo aggiornamento;
   2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 12, legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a Parigi il 20.03.1952, dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione staccata di Brescia, con l’ordinanza indicata in epigrafe (Corte Costituzionale, sentenza 18.12.2020 n. 270).

ESPROPRIAZIONE: Espropriazione per pubblica utilità - Norme della Regione Lombardia - Vincoli preordinati all'espropriazione per la realizzazione di attrezzature e servizi previsti dal piano dei servizi - Termine di decadenza quinquennale, decorrente dalla vigenza del piano - Proroga, in caso di inserimento dei relativi interventi nel programma triennale delle opere pubbliche e relativo aggiornamento - Violazione del diritto di proprietà e dei principi in materia di governo del territorio - Illegittimità costituzionale.
  
È dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 42, terzo comma, e 117, terzo comma, Cost., l'art. 9, comma 12, secondo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, limitatamente alla parte in cui prevede che i vincoli preordinati all'espropriazione per la realizzazione, esclusivamente ad opera della pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi previsti dal piano dei servizi decadono qualora, entro cinque anni decorrenti dall'entrata in vigore del piano stesso, l'intervento cui sono preordinati non sia inserito, a cura dell'ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale delle opere pubbliche e relativo aggiornamento.
La norma censurata dal TAR Lombardia, sez. staccata di Brescia, consente la protrazione dell'efficacia del vincolo preordinato all'esproprio ben oltre la naturale scadenza quinquennale e, in virtù dell'inclusione dell'aggiornamento annuale del programma triennale delle opere pubbliche nell'ambito applicativo della medesima norma, per un tempo sostanzialmente indefinito, senza che sia previsto il riconoscimento al privato interessato di alcun indennizzo.
Pertanto, essa è in frontale contrasto con la giurisprudenza costituzionale formatasi in tema di vincoli ablativi finalizzati all'espropriazione, dando seguito alla quale il legislatore statale ha individuato un ragionevole punto di equilibrio tra la reiterabilità indefinita dei vincoli e la necessità di indennizzare il proprietario. Nel consentire la proroga senza indennizzo del vincolo preordinato all'esproprio oltre il quinquennio originario, il legislatore regionale ha omesso di imporre un preciso onere motivazionale circa l'interesse pubblico al mantenimento del vincolo per un periodo che oltrepassa quello c.d. di franchigia: ciò che invece è richiesto dalla legge statale (art. 9, comma 4, t.u. espropriazioni) per le ipotesi di reiterazione del vincolo.
Ancora, la disposizione censurata appare del tutto carente quanto al livello di garanzia partecipativa da riconoscersi al privato interessato, in quanto la partecipazione al procedimento che sfocia nel programma triennale delle opere pubbliche -in relazione al cui contenuto il codice dei contratti pubblici prevede forme di partecipazione di qualità e grado insufficienti, e comunque non corrispondenti a quelle stabilite dal t.u. espropriazioni (in particolare nell'art. 11) per gli atti appositivi e per quelli reiterativi del vincolo espropriativo- è prevista esclusivamente dalla fonte regolamentare (d.m. n. 14 del 2018), non già dall'art. 21 cod. contratti pubblici e nemmeno dalla legge regionale.
Inoltre, e soprattutto, l'art. 5, comma 5, dell'indicato d.m., prevedendo che le amministrazioni possano consentire la presentazione di eventuali osservazioni da parte dei privati interessati, degrada la partecipazione a mera eventualità
(precedenti citati: sentenze n. 314 del 2007, n. 179 del 1999, n. 155 del 1995 e n. 55 del 1968).
  
L'espropriazione costituisce una funzione trasversale, che può esplicarsi in varie materie, anche di competenza concorrente. Tra queste, soprattutto, il «governo del territorio», per la pacifica attrazione in quest'ultimo dell'urbanistica (precedenti citati: sentenze n. 130 del 2020 e n. 254 del 2019).
La proroga in via legislativa dei vincoli espropriativi è fenomeno inammissibile dal punto di vista costituzionale, qualora essa si presenti sine die o all'infinito (attraverso la reiterazione di proroghe a tempo determinato che si ripetano aggiungendosi le une alle altre), o quando il limite temporale sia indeterminato, cioè non sia certo, preciso e sicuro e, quindi, anche non contenuto in termini di ragionevolezza (precedente citato: sentenza n. 179 del 1999).
  
In materia espropriativa, i privati interessati, prima che l'autorità pubblica adotti provvedimenti limitativi dei loro diritti, devono essere messi in condizioni di esporre le proprie ragioni, sia a tutela del proprio interesse, sia a titolo di collaborazione nell'interesse pubblico (precedente citato: sentenza n. 71 del 2015) (Corte Costituzionale, sentenza 18.12.2020 n. 270).

ESPROPRIAZIONESoggetto legittimato ad impugnare la procedura espropriativa e ad avere l’indennità di esproprio.
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Processo amministrativo – Legittimazione attiva – Espropriazione – Esistenza di un diritto reale o personale di godimento su cosa altrui – Sufficienza.
  
Espropriazione per pubblica utilità - Indennità di esproprio – Soggetti aventi diritto – Individuazione.
  
La legittimazione ad agire contro una procedura espropriativa spetta sia ai proprietari dei terreni colpiti che a tutti gli altri soggetti titolari di un interesse qualificato ad essi ricollegabile, che deve essere provato sulla base di un titolo giuridico; ai fini della sussistenza della legittimazione attiva all’impugnazione degli atti di una procedura ablativa, cioè, non è ritenuto essenziale che la relazione giuridica col bene immobile sia costituita dal diritto di proprietà, ma è sufficiente l’esistenza di un diritto reale o personale di godimento su cosa altrui, ossia comunque una relazione giuridica qualificata con il bene oggetto del provvedimento ablativo, tale da identificare una posizione giuridica soggettiva individualizzata e specifica che connoti un interesse all’annullamento dell’atto ablativo (1).
  
Tra i titolari di diritti reali o personali di godimento, solo l’enfiteuta è espressamente preso in considerazione ai fini della corresponsione dell’indennità di esproprio; per contro, agli altri non è riconosciuto il diritto ad indennità aggiuntive, risolvendosi la relativa posizione sul piano dei rapporti con la proprietà, la tutela della pienezza del ristoro della quale è rafforzata dalla riconosciuta possibilità di proporre l’opposizione alla stima, ovvero di partecipare al giudizio già instaurato allo scopo (2).
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   (1) Cons. Stato, sez. IV, 18.06.2008, n. 3033.
La Sezione affronta il problema della legittimazione attiva dei titolari di un diritto reale o personale di godimento avuto riguardo ad una procedura di esproprio. Ha affermato che anche la titolarità in capo ai ricorrenti di una “concessione livellaria” consente di riconoscere loro una posizione giuridica qualificata azionabile in giudizio parificabile a quella del titolare di un diritto di enfiteusi.
Ciò non può non valere anche in caso di azioni meramente risarcitorie o restitutorie, nel limitato ambito di ammissibilità delle stesse innanzi al giudice amministrativo alla luce dei principi affermati di recente dalle pronunce dell’Adunanza plenaria nn. 2, 3, 4 e 5 del 2020. Ciò rende pertanto irrilevante la prova della proprietà piena dei terreni ai fini della riconosciuta legittimazione, impattando la stessa casomai sul quantum della richiesta, ma non sull’an.
   (2) Ha ricordato la Sezione che l’art. 42-bis, d.P.R. n. 327 del 2001, pur essendo rubricato in termini generali “utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico”, declina alla lettera l’acquisizione al patrimonio indisponibile dello stesso e la corresponsione “al proprietario” dell’indennizzo per il danno subito, quantificato nel 10% del valore venale del bene.
Il combinato disposto di tale disposizione con la previsione della titolarità del diritto all’indennizzo anche per l’enfiteuta -e dunque, mutatis mutandis, per il livellario, cui si riferisce il caso di specie- non possa non imporre all’Amministrazione procedente di attivarsi per concludere il procedimento avviato, acquisendo o restituendo il bene, previa rimessione in pristino, all’esito di motivata valutazione comparativa degli interessi in gioco, siccome chiarito dall’Adunanza plenaria nelle decisioni nn. 2, 3, 4 e 5 del 2020 (
Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 09.11.2020 n. 6863 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
6. Preliminarmente il Collegio ritiene di dovere scrutinare il secondo e il terzo motivo di ricorso, con i quali si contesta la sentenza nella parte in cui ha declinato la giurisdizione con riferimento ai beni illegittimamente occupati senza alcuna previa attivazione di procedure ablatorie.
Afferma il Tribunale che nel caso di specie le parti non hanno fornito la prova che l’occupazione possa essere addebitata al Comune di Africo, con ciò adombrando anche un profilo di difetto di legittimazione passiva dello stesso, espressamente sviluppato dalla difesa civica in sede di ricorso incidentale.
Rileva la Sezione come a tutto concedere alla tesi degli appellanti, dando rilievo alla destinazione pubblica delle aree occupate, piuttosto che alla individuazione degli autori materiali delle opere nelle quali si è concretizzata ridetta occupazione, ai fini della perimetrazione della competenza del giudice amministrativo è sufficiente evidenziare la natura meramente comportamentale della condotta lesiva.
In sintesi, esula dalla giurisdizione del giudice amministrativo la richiesta risarcitoria relativa alle porzioni della particella catastale n. 48, sulle quali insistono strade prive di denominazione di collegamento tra arterie viarie pubbliche, meglio individuate in atti, di estensione pari, rispettivamente, a mq. 532,00 e 144,00, nonché a quella del mappale 53, per un totale di circa mq. 880,00. Ciò in quanto, come peraltro rilevato anche dal giudice civile nella sentenza del 2004 richiamata sub § 1, la relativa occupazione non è sorretta da una dichiarazione di pubblica utilità, ancorché illegittima o inefficace o comunque non seguita dal completamento della procedura.
Costituisce al riguardo ius receptum, cui questo Collegio intende fare riferimento, quello in forza del quale rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la richiesta risarcitoria il cui presupposto sia la trasformazione del fondo in assenza di un atto autoritativo formale ovvero in forza di un mero comportamento materiale, non collegato, cioè, all’esercizio, pur se illegittimo, del relativo potere (al riguardo v. Corte cost., n. 191 del 2006; Cass. civ., sez. un., n. 23462 del 2016; Cons. Stato, A.P., nn. 10 e 12 del 2007).
Quanto detto è da estendere anche alla richiesta risarcitoria per il danno arrecato dalla realizzazione della strada insistente sul mappale 53 in maniera difforme rispetto alle previsioni del Piano regolatore generale, sì da impedire la realizzazione per i terreni residui di interesse dei ricorrenti dei previsti sei lotti edificabili di circa mq. 700 cadauno. Essa, infatti, attiene alla sostanziale perdita di valore della porzione residua derivata da una più ampia ablazione, che finanche in caso di illegittimità solo formale della stessa è egualmente da ricondurre all’ambito di competenza del giudice ordinario (v. ex multis Cass., SS.UU., n. 2721 del 2018).
L’eventuale abusività della realizzazione delle opere, quale parrebbe emergere proprio dalla ricostruzione della difesa civica, che ne disconosce la paternità, senza tuttavia indicare il titolo di natura urbanistico-edilizia, in forza delle quali esse sarebbero state realizzate da privati, attiene alla fase dei controlli, peraltro doverosi, facenti capo al Comune ai sensi dell’art. 27 del d.P.R. n. 380/2001, ma non rileva ai fini dell’odierna controversia.
7. Da quanto detto consegue la reiezione dei motivi di appello rubricati come secondo e terzo e la conseguente conferma della sentenza impugnata nella parte in cui afferma il difetto di giurisdizione con riferimento ai terreni in atti meglio identificati.
Consegue altresì la declaratoria di improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse dell’autonomo motivo di doglianza incidentalmente prospettato dal Comune di Africo inerente, appunto, il richiesto riconoscimento del proprio difetto di legittimazione passiva con riferimento agli stessi, da stralciare dal perimetro della decisione.
8. Circoscritto come sopra il petitum che ci occupa in via residuale, può passarsi ad esaminare la assai più complessa questione della disconosciuta legitimatio ad causam. Afferma dunque il giudice di prime cure che nel caso di specie la mancata prova della proprietà dei lotti occupati dal Comune, renderebbe irrilevante la qualifica di livellari posseduta dai ricorrenti e risultante dalle visure catastali.
Ritiene il Collegio che l’assunto, condivisibile nelle premesse, non lo è nelle conseguenze, dovendo pertanto trovare accoglimento la doglianza di parte che, nella denegata ipotesi confermativa della mancata affrancazione dal livello ope legis, chiede di dare rilievo allo stesso quale titolo di legittimazione ad agire.
Se da un lato, dunque, non può essere bastevole al riconoscimento della piena proprietà la produzione di una dichiarazione unilaterale, resa peraltro “ai soli fini catastali”, dall’altro anche lo status di livellario consente di agire a tutela dei propri diritti, indebitamente lesi da un illegittimo procedimento di esproprio.
La l. 29.01.1974, n. 16, infatti, successivamente abrogata dall’art. 24 del d.l. 25.06.2008, n. 112, convertito, con modificazioni dalla l. 06.08.2008, n. 133, vigente ratione temporis ed invocata dagli appellanti, ha previsto la cancellazione del livello in caso di omesso versamento per oltre un ventennio di un canone inferiore a £. 1.000,00, ove il rapporto tra le parti fosse stato costituito anteriormente al 28.10.1941, con la chiara finalità di eliminare per ragioni di antieconomicità diritti perpetui di contenuto spesso anacronistico. Essa tuttavia si riferisce dichiaratamente alle sole Amministrazioni e Aziende autonome dello Stato, e non può trovare applicazione, come correttamente affermato dal TAR per la Calabria, ad altri enti territoriali, quali un Comune, siccome le parti pretenderebbero nel caso di specie.
Ciò del resto ha trovato da subito conferma nelle indicazioni della magistratura contabile, laddove, esprimendosi su specifico quesito (Corte dei conti, sez. regionale controllo della Campania, parere n. 18 del 18.05.2006), si è fatto leva sia sulla richiamata lettera della legge, sia sulla volontà del legislatore, per come emerge dai, pur scarni, riferimenti contenuti in proposito negli atti parlamentari (atto Senato della Repubblica n. 365; atto Camera dei Deputati n. 2460, della IV legislatura).
D’altro canto, è evidente che la richiamata procedura di affrancazione non può operare in automatico e sulla base di una mera dichiarazione di parte, dovendo essere collocata nella complessa cornice normativa in materia di diritti reali di godimento, tra i quali rientrano anche i livelli e l’enfiteusi, la cui antica origine e larga diffusione nel passato, non trova più riscontro nel mutato quadro economico-sociale, rendendo di sicuro interesse, ma intuibile complessità l’immediata risoluzione di tutti i possibili risvolti di ciascuna singola vicenda ad essi riconducibile.
Essa presuppone comunque un accertamento giudiziale, ovvero convenzionale del titolo, tanto più che la mera indicazione catastale non consente, ad esempio, di rilevarne l’eventuale derivazione da usi civici, secondo l’ancor più risalente disciplina contenuta nel r.d. 16.06.1927, n. 1766 e relativo regolamento di esecuzione r.d. 26.02.1928, n. 332. Circostanza questa che il Comune di Africo ha manifestato l’intenzione di accertare, seppure tardivamente, ricorrendo all’apposito procedimento di verifica di cui alla l.r. n. 18/2007.
In sintesi, come peraltro affermato dal giudice di prime cure, il sistema di norme dettate in prevalenza per l’enfiteusi, ma di fatto estendibili anche ai livelli, «contempla una precisa procedura giudiziale per la proposizione della domanda di affrancazione […] che esplica effetti costitutivi, che non può essere sostituita da una dichiarazione unilaterale a soli fini catastali, quale quella che parte ricorrente ha prodotto in atti».
8.1. Escluso, dunque, che possa ritenersi provata l’affrancazione dal livello e l’acquisizione della piena proprietà da parte dei ricorrenti, al pari, del resto, di quanto da essi genericamente preteso in termini di usucapione, resta acclarato e incontestata tra le parti l’esistenza del livello stesso su concessione del medesimo Comune di Africo.
Il fatto, poi, che ciò si fosse tradotto in un uso esclusivo e assimilabile alla proprietà da parte dei ricorrenti è in qualche modo dimostrato dal comportamento tenuto dall’amministrazione medesima, che ha scelto di formalizzare una procedura di esproprio, poi indebitamente interrotta. Pur non essendo, infatti, stata precisata l’esatta natura degli atti adottati, ricondotti genericamente a “consegna” e/o ultimazione di lavori, la formalizzazione degli stessi -incontestata tra le parti e dunque ormai assurta a forza di giudicato- ha fondato l’affermazione della giurisdizione del giudice amministrativo per i terreni cui gli stessi si riferiscono, «trattandosi di controversia nella quale si controverte intorno alla esecuzione di atti o provvedimenti amministrativi riconducibili, secondo la loro causa, all’esercizio del pubblico potere dell’amministrazione».
9. Il TAR per la Calabria, traendo argomenti anche da -in verità superate- pronunce di questo giudice, acquisita la circostanza dell’esistenza del “livello”, la ha tuttavia ritenuta insufficiente a fondare un’azione di tipo risarcitorio per la relativa occupazione sine titulo.
La difesa civica, dal canto suo, nel controdedurre alla prospettazione avversa, non ha inteso contestare tale peculiare rapporto con i fondi occupati, limitandosi a negare la possibilità che il giudice, una volta adìto da sedicenti proprietari, possa scrutinarne le pretese mutandone il titolo di legittimazione.
Il Collegio non ritiene corretta nessuna delle due affermazioni.
9.1.
La legittimazione a ricorrere, ovvero il titolo o possibilità giuridica dell’azione, discende da qualsivoglia speciale posizione qualificata del soggetto che lo distingue dal quisque de populo rispetto all’esercizio del potere amministrativo. Essa assume evidentemente un aspetto del tutto particolare nell’azione di condanna, basata sulla invocata sussistenza del diritto di credito (che esiste se sussistono i presupposti dell’art. 2043 c.c. in relazione alla sfera giuridico-patrimoniale di un determinato soggetto).
Secondo la giurisprudenza consolidata della Corte di legittimità (cfr. ex plurimis Cass. n. 14468 del 2008),
ridetta legitimatio ad causam, attiva e passiva, consiste nella affermazione della titolarità del potere e del dovere di promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto in causa, mediante la rappresentazione di fatti in astratto idonei a fondare il diritto azionato, secondo la prospettazione dell’attore, prescindendo dall’effettiva titolarità del rapporto (che costituisce questione di merito).
A ciò consegue il dovere del giudice di verificarne l’esistenza in ogni stato e grado del procedimento
(cfr. Cass. civ., Sez. un., 16.02.2016, n. 2951 secondo cui, da un lato, «la titolarità della posizione soggettiva, attiva o passiva, vantata in giudizio è un elemento costitutivo della domanda e spetta all’attore allegarla e provarla, salvo che il convenuto non la riconosca o svolga difese incompatibili con la sua negazione»; dall’altro, «la carenza di titolarità, attiva o passiva, del rapporto controverso è rilevabile di ufficio dal giudice se risultante dagli atti di causa»).
Va tuttavia considerato l’altrettanto consolidato indirizzo della Corte di cassazione, secondo il quale «
nel giudizio di risarcimento dei danni derivati ad un bene immobile da un illecito comportamento del convenuto, atteso che oggetto della pretesa azionata è, non già il diretto e rigoroso accertamento della proprietà del fondo, bensì l'individuazione del titolare del bene avente diritto al risarcimento, non è richiesta la prova rigorosa della proprietà (cd. probatio diabolica), potendo il convincimento del giudice in ordine alla legittimazione alla pretesa risarcitoria formarsi sulla base di qualsiasi elemento documentale e presuntivo sufficiente ad escludere un'erronea destinazione del pagamento dovuto» (da ultimo, Cass. n. 18841 del 2016).
Principio che è stato affermato anche in riferimento specifico alla occupazione da parte della Pubblica Amministrazione (Cass. n. 10294 del 2002; id., n. 7904 del 2012).
10. Traslando tali affermazioni paradigmatiche nella disamina concreta della fattispecie all’esame, va ricordato come
secondo la prevalente interpretazione giurisprudenziale, dalla quale non v’è motivo per discostarsi, la legittimazione ad agire contro una procedura espropriativa spetta sia ai proprietari dei terreni colpiti che a tutti gli altri soggetti titolari di un interesse qualificato ad essi ricollegabile, che deve essere provato sulla base di un titolo giuridico (cfr. Consiglio di stato, Sez. IV, 18.06.2008, n. 3033).
Ai fini della sussistenza della legittimazione attiva all’impugnazione degli atti di una procedura ablativa, cioè, non è ritenuto essenziale che la relazione giuridica col bene immobile sia costituita dal diritto di proprietà, ma è sufficiente l’esistenza di un diritto reale o personale di godimento su cosa altrui, ossia comunque una relazione giuridica qualificata con il bene oggetto del provvedimento ablativo, tale da identificare una posizione giuridica soggettiva individualizzata e specifica che connoti un interesse all’annullamento dell’atto ablativo (cfr. Cons. Stato sez. IV, 06.04.2012, n. 2050; per questione specificamente relativa alla posizione legittimante del c.d. livellario, ancorché negandosi che l’Amministrazione sia tenuta a notificargli avvisi e comunicazioni, assieme o in luogo del concedente, v. anche Cons. Stato, sez. IV, 16.09.2011, n. 5233, che conferma TAR per la Campania, Salerno, 26.02.2009, n. 669, al cui orientamento si è richiamato anche TAR per il Lazio, sez. II-bis, 29.07.2010, n. 29121).
La titolarità in capo ai ricorrenti di una “concessione livellaria” consente di riconoscere loro una posizione giuridica qualificata azionabile in giudizio parificabile a quella del titolare di un diritto di enfiteusi. Ciò non può non valere anche in caso di azioni meramente risarcitorie o restitutorie, nel limitato ambito di ammissibilità delle stesse alla luce dei principi affermati di recente dalle richiamate pronunce dell’Adunanza plenaria.
Quanto detto rende pertanto irrilevante la prova della proprietà piena dei terreni ai fini della riconosciuta legittimazione, impattando la stessa casomai sul quantum della richiesta, ma non sull’an. In sintesi, la circostanza che, diversamente da quanto affermato dal primo giudice, l’atto di una procedura espropriativa -e conseguentemente i comportamenti interni alla stessa suscettibili di ledere posizioni giuridiche- possa essere impugnato anche da un livellario, rende neutra ai fini del riconoscimento della legittimazione la prova della precisa qualificazione dello status di riferimento, purché quantomeno uno dei due sia dimostrato come sussistente.
Non merita pertanto accoglimento l’eccezione sollevata dall’Amministrazione comunale, in forza della quale l’aver agito rivendicando il diritto al risarcimento quali proprietari escluderebbe la possibilità che l’istanza venga valutata con riferimento alla titolarità di altri diritti, seppure sussistenti. In presenza, infatti, di oggettivi elementi che comprovano l’effettiva titolarità -o quanto meno la disponibilità giuridicamente qualificata- dei terreni da parte dei ricorrenti, non è degna di pregio l’argomentazione circa la non piena corrispondenza tra le situazioni giuridiche rappresentate e quelle concretamente emerse, laddove queste ultime siano comunque tutelate dalla norma. L’involucro giuridico all’interno del quale è stata prospettata la richiesta risarcitoria, seppure errato, non ne preclude infatti la ricollocazione in altra veste, laddove incontestata tra le parti e rilevante a fini (anche) risarcitori. La verifica della legittimazione attiva, peraltro, può avvenire anche d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, secondo la legge che regola il rapporto dedotto, salvo che sulla questione sia intervenuto giudicato interno.
11.
L’art. 34, comma 1, del D.P.R. n. 327/2001, sotto la rubrica “indennità di esproprio”, prevede espressamente che essa spetti sia al proprietario che all’enfiteuta, ove possessore del bene immobile, con ciò ritenendo di particolare incisività rispetto al bene il rapporto intercorrente fra il titolare di tale diritto di godimento e il terreno oggetto della procedura. Per contro, la titolarità di qualsivoglia diritto reale o personale di godimento sul bene (ultimo comma della medesima norma) non dà diritto ad indennità aggiuntive, ma si risolve sul piano dei rapporti con la proprietà, la tutela della pienezza del ristoro della quale è rafforzata dalla riconosciuta possibilità di proporre l’opposizione alla stima, ovvero di partecipare al giudizio già instaurato allo scopo.
In sintesi, sotto il profilo del procedimento espropriativo e del diritto all’indennità di esproprio, il T.U.es. considera l’enfiteuta, unico fra i titolari di diritto reale di godimento, sullo stesso piano del concedente proprietario, col quale è destinato a concorrere alla percezione dell’indennità in ragione del valore attribuibile ai relativi diritti
(cfr. TAR Sicilia-Catania, Sez. III, 21.11.2013, n. 2801).
12.
Il “livello” o “precario” (che mutua il suo nome da libellus, vale a dire dal documento, in cui si consacrava il contratto, costituente il rapporto), è un istituto giuridico utilizzato in epoca imperiale e diffusissimo fino al 1800.
Privo di una propria configurazione normativa, esso differiva dal censo perché, dei vari obblighi gravanti sul livellario, nel censo non vi era che quello del pagamento di un tenue canone; il livello, inoltre, ampiamente usato nel Medioevo soprattutto fra privati e chiese, si configurava originariamente come una vendita per un certo termine, allo scadere del quale il contratto si poteva rinnovare versando nuovamente il corrispettivo (detto esso stesso livello, o anche “pensio”, censo), mentre alla morte del livellario la piena proprietà tornava alla Chiesa concedente.
Il livello finì per confondersi e unificarsi completamente con l’enfiteusi –e così il corrispettivo del livello, col canone di questa– già prima delle codificazioni moderne (lo stesso dicasi per le norme sul diritto di prelazione, sui laudemi, ecc.), fino alla sostanziale affermazione legislativa della applicabilità allo stesso delle norme di cui agli artt. 957 ss., c.c.
Emerge, quindi, un primo dato di fatto, vale a dire che, secondo un’esegesi di tipo storico-sistematico, il livello è un diritto reale, assimilabile all’enfiteusi, con la conseguenza che è alla disciplina di quest’istituto che occorre far riferimento, per la soluzione del problema che ci occupa.

12.1.
Proprio a causa, infatti, della commistione o confusione, determinatasi già sul finire del Medioevo tra i termini di livello e di enfiteusi, fin dal codice civile del 1865 tali contratti agrari sono rientrati in una tendenza legislativa volta all’accorpamento disciplinare degli istituti a vantaggio dell’enfiteusi.
Tale tendenza ha avuto il suo culmine con le leggi 22.07.1966, n. 607 e 18.12.1970, n. 1138, non a caso evocate quale “cornice di sistema” anche nell’apprezzabile ricostruzione operata dal giudice di prime cure. In verità queste ultime due leggi tentarono di assoggettare alle regole dell’enfiteusi anche altri tipi di contratti o rapporti di concessione fondiaria: dapprima quella del 1966, con riferimento ai contratti aventi contenuto e caratteri analoghi o affini a quelli tipici del rapporto enfiteutico e poi la successiva del 1970, estesero infatti l’applicabilità della enfiteusi a quasi tutti gli altri tipi di contratti agrari con clausola migliorativa (elemento questo la cui mancanza aveva costituito in passato uno dei possibili fattori di distinzione tra le due situazioni).
L’obiettivo era quello di favorire gli enfiteuti o concessionari di fondi rustici per motivi di ordine economico-sociale, agevolando l’affrancazione con più convenienti criteri di determinazione dei canoni e dei capitali d’affranco e con più rapide e sommarie forme di procedimento. Sebbene dunque alcune parti o articoli delle leggi menzionate furono oggetto di declaratoria d’illegittimità ad opera della Corte Costituzionale
(sentenze n. 37 del 1969 e n. 53 del 1974), gli interventi legislativi de quibus hanno comunque prodotto una sempre maggiore confusione tra questi rapporti agrari.
Da qui anche la necessità, talvolta, proprio ai fini di valutare l’impatto su eventuali vincoli di inedificabilità, di individuare nella fonte del livello la tipologia ed intensità dello stesso, distinguendosi quelli cc.dd. alloidali in quanto connotati da un rapporto meramente obbligatorio, parificabile alla piena proprietà privata del bene, proveniente dalla sdemanializzazione (sistemazione) di terre civiche (proprietà collettive) gravate da un canone (demaniale) di natura enfiteutica imposto con vari istituti normativamente previsti. In tali ipotesi, la demanialità si è cioè trasferita dal bene civico al canone “di natura enfiteutica” il cui capitale di affrancazione è imprescrittibile in quanto destinato alla collettività per opere che vadano a compensare la perdita del valore dell’area demaniale civica perduta (ai sensi dell’art. 24 della l. n. 1766/1927).
La evidente mancanza di chiarezza sulla genesi giuridica del livello in controversia, che il Comune di Africo tenta di fare entrare tardivamente nella controversia richiamando la propria volontà di verificare la preesistenza di usi civici attiene agli esiti, futuri e incerti, oltre che eventuali, di ulteriore contenzioso. Se ne è doverosamente fatto cenno in questa sede al solo scopo di evidenziare gli aspetti ancora chiaroscurali della vicenda tra le parti, e tuttavia i punti fermi allo stato della controversia, riconducibili alla sussistenza di un livello a favore del medesimo Comune, come tale assimilabile ad un’enfiteusi, sufficiente a legittimare la richiesta risarcitoria per l’occupazione finalizzata alla realizzazione di opere pubbliche pregiudizievoli della fruizione dello stesso.
13.
Il riconoscimento, in favore del livellario, del diritto a ricorrere avverso gli atti ablativi costituisce un risultato, cui può pervenirsi solo per via interpretativa, in considerazione dei penetranti poteri che lo stesso, com’è innegabile, esercita sul fondo (al pari dell’enfiteuta): ciò, peraltro, non esclude, ed anzi necessariamente implica, che tale potere (di gravare gli atti espropriativi) debba esser riconosciuto, in primis, al concedente del diritto (di cd. “precario”), che è, e resta, proprietario, fino all’affrancazione (com’è, e resta, proprietario, fino all’affrancazione, il concedente nell’enfiteusi).
Da ultimo, peraltro, tale assimilazione è stata da sempre ribadita dai giudici di legittimità laddove hanno evidenziato i punti di contatto tra le due posizioni giuridiche sul piano concettuale e sistematico nella tendenziale perpetuità del rapporto (tanto che si parla anche, appunto, di locazione perpetua) e nella possibilità di sfruttamento del terreno in tutto assimilabile a quella del proprietario
(cfr. Cass. Civ.,sez. I, 09.01.2020, n. 213).
La differenza tra i due istituti, pertanto, appare spesso più teorica che pratica: la confusione spesso sorta rispetto al diverso fenomeno dell’affrancazione dei terreni, gravati da usi civici, oltre ad essere in contrasto con il dato letterale (una cosa sono, evidentemente, gli usi civici, un’altra è il cd. “livello” o “precario”), è palesemente smentita dalla storia del cd. “precario”, tale da patrocinare l’assimilazione del medesimo all’enfiteusi, salvo situazioni specifiche di cui si è fatto cenno.
14.
Sulla materia dell’occupazione sine titulo, come già ricordato più volte, sono di recente intervenute importanti pronunce dell’Adunanza plenaria che hanno posto imprescindibili punti fermi, ai quali occorre fare riferimento anche per risolvere l’odierna controversia.
In particolare
si è chiarito come non possa trovare spazio nel nostro ordinamento un istituto quale la rinuncia abdicativa alla proprietà, tendenzialmente identificata nell’avvenuta proposizione di un’azione risarcitoria per equivalente da parte del proprietario i cui terreni siano stati indebitamente occupati. Risulta infatti ormai acquisita l’incompatibilità con la tipicità che caratterizza il procedimento di espropriazione, di meccanismi atipici di acquisizione della proprietà riconducibili al paradigma dell’occupazione acquisitiva o usurpativa, cui può corrispondere, dalla parte del soggetto che la subisce, la rinuncia traslativa o abdicativa. Da qui la tendenziale inammissibilità di una domanda di parte avente contenuto solo risarcitorio, il cui disconosciuto valore di rinuncia implica la permanenza dell’illecito sotteso alla relativa richiesta.
A fronte, dunque, della natura permanente dell’illecito concretizzatosi nell’avvio in fatto o in diritto di una procedura di esproprio senza formalizzarne l’atto finale, si è rivitalizzata l’importanza che ridetto atto intervenga comunque, sanando, ancorché pro futuro, la situazione e facendo coincidere lo stato di fatto con quello di diritto.
15. Con riferimento, tuttavia, alle ipotetiche conseguenze di tali affermazioni anche sui giudizi in corso, il giudice della Plenaria ha opportunamente richiamato l’adeguato “strumentario” messo a disposizione dall’ordinamento processuale amministrativo per evitare che le domande proposte in primo grado, congruenti con quello che allora appariva il vigente quadro normativo e l’orientamento giurisprudenziale di riferimento assurto a diritto vivente, siano di ostacolo alla formulazione di istanze di tutela adeguate al diverso contesto normativo e giurisprudenziale vigente al momento della decisione della causa in appello, quali la conversione della domanda, ove ne ricorrano le condizioni, la rimessione in termini per errore scusabile ai sensi dell’art. 37 c.p.a., l’invito alla precisazione della domanda in relazione al definito quadro giurisprudenziale, in tutti i casi previa sottoposizione della relativa questione processuale, in ipotesi rilevata d’ufficio, al contraddittorio delle parti ex art. 73, comma 3, c.p.a., a garanzia del diritto di difesa di tutte le parti processuali.
Ciò è quanto accaduto nel caso di specie, laddove, a fronte del possibile impatto su un’insistita richiesta solo risarcitoria dei principi affermati dall’Adunanza plenaria, gli appellanti hanno riqualificato la propria originaria domanda, richiedendo espressamente l’intimazione al Comune di Africo di provvedere ai sensi dell’art. 42-bis del T.U.es., già infruttuosamente invocato in via stragiudiziale. Sul punto, la difesa civica oppone la sostanziale inapplicabilità della disposizione ad una posizione giuridica diversa dalla proprietà.
16. Il Collegio non condivide la prospettazione del Comune di Africo, ritenendo conforme alla sistematica della normativa, come sopra ricostruita, una diversa opzione ermeneutica, ispirata ai principi di certezza delle situazioni giuridiche poste a base della codifica del relativo principio una volta venuta meno la previsione dell’acquisizione sanante di cui all’art. 43 del medesimo T.U.es. a seguito della sua declaratoria di illegittimità costituzionale (Corte cost., n. 193 del 04.10.2010).
In punto di diritto, va infatti ricordato in termini generali come l’occupazione abusiva di un immobile, quale situazione nella quale rientra qualsiasi situazione originaria (apprensione del bene diretta da parte della P.A., senza alcuna previa attivazione di procedure ablatorie) o sopravvenuta (a seguito di declaratoria di illegittimità di procedure espropriative, ovvero di inefficacia delle stesse) di acquisizione della disponibilità materiale di immobili da parte della mano pubblica, in passato ricondotte alla dizione di “vie di fatto”, “occupazione usurpativa”, “occupazione acquisitiva”, “accessione invertita”, costituisce un illecito permanente rientrante nel genus dell’art. 2043 c.c.
La cessazione di ridetta permanenza consegue a specifici fatti o atti giuridici, tra i quali la restituzione del fondo al legittimo proprietario, la stipula di un accordo transattivo con effetti traslativi del diritto di proprietà in capo all’amministrazione agente, il maturare dell’usucapione a condizioni date, ovvero l’adozione del provvedimento oggi previsto dall’art. 42-bis del T.U.es.

17.
L’art. 42-bis del d.P.R. n. 327/2001, pur essendo rubricato in termini generali “utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico”, declina alla lettera l’acquisizione al patrimonio indisponibile dello stesso e la corresponsione “al proprietario” dell’indennizzo per il danno subito, quantificato nel 10% del valore venale del bene. Nei commi successivi si preoccupa altresì di indicare i criteri alla stregua dei quali calcolare il ristoro, pure parificato ad indennizzo malgrado l’improprio riferimento lessicale alla funzione risarcitoria, per la precedente occupazione sine titulo.
Ritiene la Sezione che
il combinato disposto di tale disposizione con la previsione della titolarità del diritto all’indennizzo anche per l’enfiteuta -e dunque, mutatis mutandis, per il livellario- non possa non imporre all’Amministrazione procedente di attivarsi per concludere il procedimento avviato, acquisendo o restituendo il bene, previa rimessione in pristino, all’esito di motivata valutazione comparativa degli interessi in gioco, siccome ben chiarito dalle più volte ricordate pronunce della Plenaria.
19. Nel caso di specie, tuttavia, l’ulteriore peculiarità è data dal fatto che sedicente concedente il diritto di livello è lo stesso Comune che dovrebbe acquisirne la proprietà. Il che rende all’apparenza ontologicamente incompatibile qualsivoglia ipotesi acquisitiva di quanto in realtà già nella disponibilità dell’Ente procedente.
Ritiene tuttavia il Collegio che siffatta ricostruzione comporterebbe un’indebita discriminazione tra l’ipotesi in cui il fondo sia gravato da enfiteusi o livello a favore di un privato o di un ente diverso da quello che agisce per l’esproprio e quella in cui, al contrario, concedente ed espropriante -rectius, nella prima fase, occupante- coincidano. Lasciare tale situazione priva di qualsivoglia forma di tutela equivarrebbe a consentire al concedente di disporre del proprio bene prescindendo dall’esistenza di un diritto reale sullo stesso, addirittura trasformandolo irreversibilmente sì da renderlo inutilizzabile ai fini posti a base dell’originario rapporto tra le parti.
E’ evidente invece che la tutela accordata allo stesso, ove si identifichi nell’enfiteusi ovvero, per quanto chiarito, in un livello, non può non estendersi fino alla pretesa che le opzioni gestionali funzionali alla realizzazione dell’opera pubblica vengano tradotte nei corrispondenti provvedimenti amministrativi, superando situazioni di illegittimità e incertezza. Del resto, ove l’esistenza di un penetrante diritto di godimento altrui si fosse palesato neutro rispetto ai poteri dispositivi sul bene, non si spiega l’avvenuta attivazione della procedura di esproprio, evidentemente finalizzata alla caducazione dello stesso e al rientro nella piena proprietà per finalità di interesse pubblico.
20. Se così è, appare evidente la necessità che il Comune di Africo si determini formalmente sui terreni in controversia con riferimento ai quali ha agito a fini di esproprio, provvedendo ad “acquisirli”, intendendosi necessariamente con tale espressione la formale cancellazione del livello, ove le necessiti la permanenza dell’opera pubblica realizzata sui terreni gravati dallo stesso; ovvero a “restituirli” alla relativa fruizione, senza che ciò impatti sul regime proprietario.
21. Quanto infine alla rivendicata usucapione da parte della difesa civica, essa non è in alcun modo assentibile, stante che affinché essa operi si è da sempre ritenuto necessario il carattere non violento della condotta, l’individuazione del momento esatto della interversio possessionis, nonché il computo della prescrizione acquisitiva dalla data di entrata in vigore del T.U.es. (30.06.2003), perché solo l’art. 43 dello stesso ha sancito il superamento dell’istituto dell’occupazione acquisitiva e, dunque, solo da quel momento può ritenersi individuato, ex art. 2935 c.c., il “giorno in cui il diritto può essere fatto valere” (cfr. C.g.a. n. 255/2019; Cons. Stato, A.P., n. 2 del 2016). Circostanze queste non ravvisabili nel caso di specie.
22. Concludendo, il Collegio ritiene pertanto che l’appello debba essere respinto, confermando il difetto di giurisdizione, avuto riguardo ai terreni occupati al di fuori di qualsivoglia procedura ablatoria, individuati dal giudice di prime cure con le lettere C), D) e E), riferita quest’ultima anche alla richiesta risarcitoria per la perdita di valore di area residua; lo accoglie, nei limiti della necessità che si addivenga ad acquisizione o restituzione, per le ulteriori porzioni, nell’accezione poc’anzi meglio precisata.
Pertanto, ai sensi dell’art. 34, primo comma, lett. c), c.p.a., il Collegio, anche allo scopo di porre termine ad una controversia ormai risalente negli anni, ritiene opportuno disporre che il Comune di Africo addivenga ad un accordo sostitutivo di provvedimento entro centoventi giorni dalla comunicazione o dalla notificazione della sentenza, comprensivo della quantificazione delle voci di ristoro riconosciute di spettanza degli appellanti, corrispondenti a quanto dovuto per equivalente ovvero all’indennizzo per il periodo di occupazione successivo alla scadenza degli atti in forza dei quali è stata effettuata l’immissione in possesso; in caso di decorrenza infruttuosa di tale termine, emetta, nei successivi sessanta giorni, un formale e motivato decreto di acquisizione dell’area, secondo i dettami rivenienti dall’art. 42-bis T.U.es. o ne disponga la restituzione, quantificando da subito in termini temporali ed economici le scansioni della necessaria riduzione in pristino dello stato dei luoghi.
Val la pena ricordare come nella quantificazione delle somme dovute ex art. 42-bis T.U.es., l’Amministrazione dovrà necessariamente calcolare un indennizzo pari al valore venale della parte di terreni occupati poi oggetto del provvedimento di acquisizione al momento di adozione di quest’ultimo. A ciò si aggiunge il risarcimento per l’occupazione illegittima, nella misura dell’interesse del 5% sul valore venale del terreno occupato al momento dell’adozione del provvedimento di acquisizione (art. 42-bis, terzo comma).
All’inutile decorso di ciascuno dei termini come sopra indicati, a tanto provvederà, nella qualità di Commissario ad acta, il Prefetto di Reggio Calabria, il quale, anche avvalendosi di personale dell’Ufficio Territoriale del Governo al quale è preposto, appositamente delegato, adotterà -in luogo dell’Amministrazione intimata- le determinazioni necessarie al fine di dare compiuta esecuzione a quanto stabilito nella presente pronunzia.
Il Collegio fa presente che qualsiasi controversia che dovesse nuovamente insorgere sulla determinazione o sul pagamento dell’indennità di esproprio è appannaggio della giurisdizione del giudice ordinario (Cass. civ., sez. un., n. 4880 del 2019; 02.02.2018, n. 2583; Cons. Stato, sez. IV, 25.02.2019, n. 1272).
Ciò a valere anche per quelle aventi ad oggetto l’interesse del cinque per cento del valore venale del bene, dovuto per il periodo di occupazione senza titolo dei terreni successivamente acquisiti, siccome previsto dal comma 3, ultima parte, di detto articolo, «a titolo di risarcimento del danno», giacché esso, ad onta del tenore letterale della norma, costituisce solo una voce del complessivo «indennizzo per il pregiudizio patrimoniale» di cui al comma 1 della medesima norma, secondo un'interpretazione imposta dalla necessità di salvaguardare il principio costituzionale di concentrazione della tutela giurisdizionale avverso i provvedimenti ablatori; dette controversie sono devolute alla competenza, in unico grado, della Corte di appello (Cons. Stato, sez. IV , 29.09.2017, n. 4550 del 2017; Cass. civ., sez. un., 25.07.2016, n. 15283; id., ord. 29.10.2015, n. 22096) (
Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 09.11.2020 n. 6863 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEAll’Adunanza plenaria questioni connesse al giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno per l’equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato.
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Espropriazione per pubblica utilità – Occupazione acquisitiva - Risarcimento del danno - Equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato - Giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno – Rimessione alla Adunanza plenaria di questioni connesse.
Sono rimesse all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato le questioni:
   a) se -in caso di occupazione illegittima, a fronte di un giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno per l’equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato, formatosi con una sentenza emessa quando vi era la prassi nazionale che dava rilievo alla ‘occupazione appropriativa’ o ‘accessione invertita’- sia precluso l’esercizio attuale dell’azione di risarcimento del danno in forma specifica attraverso il rilascio dei terreni, previa rimessione in pristino;
   b) in caso positivo, se l’effetto preclusivo derivante dal giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno, per l’equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato, sia subordinato alla sussistenza in tale pronuncia (e nel dispositivo) della formale, chiara e univoca statuizione costitutiva sul trasferimento del bene in favore dell’Amministrazione in base alla ‘occupazione appropriativa’ ovvero se a tali fini sia sufficiente che –in motivazione- la pronuncia abbia unicamente (eventualmente anche per implicito) fatto riferimento a tale istituto per giungere al rigetto della domanda risarcitoria;
   c) come possa influire sull’esito del giudizio il principio per il quale –nel caso di occupazione senza titolo del terreno occupato dall’Amministrazione– si applica sul piano sostanziale l’art. 42-bis del testo unico sugli espropri, con la conseguente possibilità ormai riconosciuta dalla giurisprudenza di disporre la conversione della domanda nel corso del giudizio, e dunque di ritenere ammissibile il rimedio di tutela da esso previsto, basato sulla diversità della causa petendi e del petitum (riferibili a posizioni di interesse legittimo correlativo al potere di acquisizione) rispetto alle domande di risarcimento o di restituzione (riferibili alla tutela del diritto di proprietà in quanto tale);
   d) per il caso in cui ritenga che gli appellanti sono ancora proprietari del bene (aventi pertanto titolo a chiedere l’emanazione del provvedimento discrezionale previsto dall’art. 42-bis del testo unico sugli espropri), se –nel caso di emanazione dell’atto di acquisizione– l’Autorità debba disporre unicamente il pagamento del controvalore del terreno e non anche ulteriori importi a titolo di risarcimento del danno, in considerazione del giudicato civile, che a suo tempo ha respinto la domanda risarcitoria (sia pure per equivalente) (1).

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   (1) Ha chiarito la Sezione che ai fini dell’inquadramento della questione ed in particolare con l’obiettivo di valutare se nel caso di specie la proposizione della domanda restitutoria successivamente alla formazione del giudicato sulla domanda di risarcimento per equivalente integri o meno una violazione dell’art. 2909 c.c., va ricostruito il rapporto tra gli istituti del risarcimento in forma specifica e del risarcimento per equivalente.
Al riguardo, la giurisprudenza suole costantemente riconoscere l’esistenza di una relazione di continenza del secondo nel primo, ritenendo che la seconda domanda costituisca un minus rispetto alla prima, al punto che:
   a) mentre costituisce certamente domanda nuova quella volta ad ottenere il risarcimento in forma specifica rispetto alla domanda proposta di risarcimento per equivalente, viceversa la richiesta di risarcimento del danno per equivalente costituisce mera modificazione (“emendatio”), e non mutamento (“mutatio”), della domanda di reintegrazione in forma specifica, dovendosi la prima ritenere già compresa nella seconda (cfr. da ultimo Cass. civ., sez. VI, 16.05.2017, n. 12168).
Ne consegue che la domanda risarcitoria per equivalente, proposta in via alternativa a quella risarcitoria in forma specifica, non è incompatibile con quest’ultima, proprio perché è già contenuta in essa;
   b) in tema di danni, rientra nei poteri discrezionali del giudice del merito attribuire al danneggiato il risarcimento per equivalente anziché quello in forma specifica come domandato dall’attore in forza di quanto previsto dall’art. 2058, comma secondo, c.c. e ciò proprio perché il risarcimento per equivalente costituisce un minus rispetto al risarcimento in forma specifica e, quindi, la relativa richiesta è implicita nella richiesta di risarcimento in quest'ultima forma, per cui il giudice può condannare d’ufficio al risarcimento per equivalente senza violare l’art. 112 c.p.c.; per contro non è consentito al giudice, senza violare l'art. 112 c.p.c., ove sia stato richiesto il risarcimento per equivalente, disporre la reintegrazione in forma specifica, non compresa, neppure per implicito, in quella domanda così proposta (cfr., ex plurimis, Cass. civ. n. 259 del 2013; id., sez. III, 21.05.2004, n. 9709; id., sez. II, 18.01.2002, n. 552; id., sez. I, 12.01.2010, n. 254, sulla possibilità di ricondurre la domanda di restituzione del fondo allo schema dell'art. 2058 c.c., in tema appunto di reintegrazione in forma specifica);
   c) “per come ricavabile dal dato testuale dell'art. 2058 c.c. (là dove precisa che "il danneggiato può chiedere..."), mentre la richiesta del risarcimento per equivalente contiene la domanda di risarcimento in forma specifica, sicché domandata la prima si può sempre (validamente) invocare la seconda in corso di causa (che può anche essere concessa d'ufficio dal giudice, senza violare il principio della domanda), la richiesta della prima (esclusivamente riservata ad una libera opzione processuale del soggetto danneggiato) non autorizza la scelta della seconda ad opera del giudice e non postula, per la sua concessione, l'impraticabilità della riparazione in forma specifica” (Cons. St., sez. IV, 10.08.2004, n. 5500), ponendosi altrimenti in violazione dell’art. 112 c.p.c. (C.g.a. 03.11.2017, n. 465);
   d) la restituzione del bene, previa eventuale riduzione in pristino, costituisce modalità di risarcimento in forma specifica, ai sensi dell’art. 2058 cod. civ., alternativa al risarcimento per equivalente e, quindi, mezzo concorrente per conseguire la riparazione del pregiudizio subito; di conseguenza è da escludere che la scelta, in corso di giudizio, per una delle due modalità costituisca una mutatio libelli, risolvendosi solo in una emendatio libelli (cfr. Cons. St., sez. IV, 22.01.2014, n. 306; id. 01.06.2011, n. 3331), essendo evidente, per un verso, che la tutela in forma specifica e quella per equivalente appaiono come mezzi concorrenti per conseguire la riparazione del pregiudizio subito, per altro verso, che tra esse vi è identità delle posizioni giuridiche soggettive (proprietari di suoli oggetto di illegittima occupazione e trasformazione), del petitum (la restituzione del suolo, salvo esercizio del potere discrezionale di acquisizione ex art. 42-bis) e della causa petendi (l’illecita perdurante occupazione e utilizzazione del suolo) (Cons. St., sez. IV, 22.01.2014, n. 306).
Conclusivamente sul punto e con specifico riferimento al caso in esame, si dovrebbe quindi valutare se può essere riconosciuta la ‘piena coincidenza’ dell’azione originariamente intentata dinanzi al giudice civile con l’azione restitutoria di cui al presente giudizio, con la conseguenza che, qualora si ritenesse sussistente l’unicità dell’obbligazione risarcitoria, la pronuncia passata in giudicato relativa alla domanda di risarcimento per equivalente dovrebbe coprire -a rigore- anche le pretese oggetto di questo giudizio.
A tale ultimo riguardo ed in particolare con riferimento all’efficacia del giudicato, rileva anche la giurisprudenza europea e nazionale per la quale il diritto europeo non impone al giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne da cui deriva l’autorità di cosa giudicata, nemmeno quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario.
Pur se di per sé la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea non ha preso in considerazione le fattispecie di occupazione senza titolo che si sono avute nella prassi nazionale (in quanto la relativa materia non è disciplinata di per sé dai Trattati istitutivi), è opportuno sottolineare come –in termini generali- la stessa Corte di giustizia (sentenza 03.09.2009, in causa C-2/8 Olimpiclub, e sentenza 16.03.2006, in causa C-234/4, Kapferer) ha sottolineato l’importanza che il principio dell’autorità di cosa giudicata riveste sia nell’ordinamento giuridico comunitario sia negli ordinamenti giuridici nazionali, in quanto, al fine di garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia una buona amministrazione della giustizia, è importante che le decisioni giurisdizionali divenute definitive dopo l’esaurimento delle vie di ricorso disponibili o dopo la scadenza dei termini previsti per questi ricorsi non possano più essere rimesse in discussione (Corte di giustizia UE, sentenza 30.09.2003, causa C‑224/01, Köbler, Racc. pag. I‑10239, punto 38, e 16.03.2006, causa C‑234/04, Kapferer, Racc. pag. I‑2585, punto 20).
Ciò premesso, la Corte ha comunque ricordato che, in assenza di una normativa comunitaria in materia, le modalità di attuazione del principio dell’autorità di cosa giudicata rientrano nell’ordinamento giuridico interno degli Stati membri in virtù del principio dell’autonomia procedurale di questi ultimi, sebbene esse non debbano essere meno favorevoli di quelle che riguardano situazioni analoghe di natura interna (principio di equivalenza) né essere strutturate in modo da rendere in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività) (v., in tal senso, sentenza 16.05.2000, causa C 78/98, Preston e a., Racc. pag. I 3201, punto 31 e giurisprudenza ivi citata).
In conclusione, ad avviso della Corte di giustizia UE, il diritto comunitario non impone ad un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione (v. Corte di giustizia UE, 16.03.2006, causa C‑234/04, Kapferer, cit., punto 21; 01.06.1999, causa C 126/97, Eco Swiss, Racc. pag. I 3055, punti 46 e 47).
Peraltro, di recente, la Corte di giustizia, ritornando sulla questione (Corte giustizia, grande sezione, 06.10.2015, causa C-69/14, T. c. Gov. Romania), con riguardo al diritto di ottenere il rimborso di tributi riscossi in uno Stato membro in violazione del diritto unionale, ha stabilito che il diritto dell’Unione, in base ai principi di equivalenza e di effettività, dev’essere interpretato nel senso che non osta al fatto che a un giudice nazionale non spetti la possibilità di revocare una decisione giurisdizionale definitiva pronunciata nel contesto di un ricorso di natura civile. E ciò anche quando tale decisione risulti incompatibile con un’interpretazione del diritto dell’Unione accolta dalla Corte di giustizia successivamente alla data in cui la decisione è divenuta definitiva, finanche qualora, di contro, una tale possibilità sussista per le decisioni giurisdizionali definitive incompatibili con il diritto dell’Unione pronunciate nel contesto dei ricorsi di natura amministrativa.
È stata, quindi, ribadita l’importanza che riveste anche nell’ordinamento giuridico dell’Unione il principio dell’intangibilità del giudicato, al fine di garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia una buona amministrazione della giustizia, di modo che il giudice nazionale non è vincolato dal diritto dell’Unione a disapplicare le norme processuali interne che conferiscono forza di giudicato ad una pronuncia giurisdizionale, neanche quando ciò consentirebbe di rimediare ad una situazione nazionale contrastante col diritto unionale.
Conforme risulta la giurisprudenza nazionale, la quale ha precisato come il diritto dell’Unione europea non impone al giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne da cui deriva l'autorità di cosa giudicata di una decisione, nemmeno quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione, salve le ipotesi, assolutamente eccezionali, di discriminazione tra situazioni di diritto comunitario e situazioni di diritto interno, ovvero di pratica impossibilità o eccessiva difficoltà di esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento comunitario ovvero di contrasto con una decisione definitiva della Commissione europea emessa prima della formazione del giudicato (cfr. Cass., sez. trib., 28.11.2019, n. 31084; sez. V, 13.07.2018, n. 18642; Sez. trib., 27.01.2017, n. 2046; Sez. trib., 29.07.2015, n. 16032; sez. I, 06.05.2015, n. 9127; sez. V, 29.07.2015, n. 16032; Sez. trib., 15.12.2010, n. 25320).
Inoltre, la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 71/2015, al punto n. 5.3, ha ammesso, implicitamente, che l’avvenuto giudicato formatosi precluda la rivisitazione della tematica (“Come evidenziato nell'ordinanza di rimessione, ne risulta che se la norma censurata fosse dichiarata incostituzionale, il ristoro economico sarebbe assoggettato al regime del risarcimento ex art. 2043 cod. civ., a prescindere dal riconoscimento del diritto alla restituzione del bene. In altri termini, la rilevanza della questione emerge dal fatto che se la questione di legittimità costituzionale fosse accolta, il giudizio rimarrebbe incardinato innanzi al giudice amministrativo, investito della domanda di rideterminazione del ristoro economico, che acquisterebbe natura risarcitoria; se essa fosse rigettata, ne deriverebbe invece la traslatio iudicii innanzi al giudice ordinario, per i profili di quantificazione dell'indennizzo previsto dall'art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni”).
Le conclusioni a cui conducono le sopra esposte considerazioni devono, d’altro canto, essere ponderate alla luce del peculiare rapporto intercorrente tra il diritto nazionale e le disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Infatti, le sentenze della Corte di Strasburgo, anche quelle che hanno più volte condannato la Repubblica Italiana per le prassi nazionali sulla ‘occupazione appropriativa’, sono state pronunciate in casi in cui per definizione si erano formati giudicati sfavorevoli per i proprietari, all’esito dei relativi giudizi civili.
Dunque, mentre le sopra citate sentenze della Corte di Giustizia hanno espresso il principio per cui il diritto unionale non impone all’ordinamento e al giudice nazionale di superare il giudicato che con esso si sia posto in contrasto, quando si tratta invece della Convenzione europea dei diritti dell’uomo la Corte di Strasburgo è competente a valutare proprio se il giudicato nazionale si sia posto in contrasto con la Convenzione, una volta esauriti i rimedi interni.
La Sezione ha altresì ricordato che la stessa Corte EDU, pur ritenendo la restituzione del bene quale forma privilegiata di riparazione, ammetteva, “quando la restituzione di un terreno risulta impossibile per motivi plausibili in concreto”, il risarcimento per equivalente in una misura pari al valore integrale del bene alla data della pronuncia (v. Corte EDU, 30.05.2000, Belvedere Alberghiera s.r.l. c. Italia, § 69; 06.03.2007, Scordino c. Italia, § 16): la Corte ha ammesso sì in sostanza la sanatoria della situazione venutasi a verificare, ma purché vi sia il ristoro dei proprietari.
D’altra parte, per la soluzione della questione in esame, rilevano anche i principi enunciati dalle sentenze nn. 2, 3 e 4 del 2020 dell’Adunanza Plenaria, la quale:
   a) ha ribadito la contrarietà alla Convezione europea dei diritti dell’uomo di qualunque forma di trasferimento della proprietà in favore dell’Amministrazione che sia priva di una base legale, in tal modo negando l’ammissibilità nel nostro ordinamento anche della c.d. rinuncia abdicativa, quale atto implicito nella proposizione, da parte di un privato illegittimamente espropriato, della domanda di risarcimento del danno per equivalente monetario derivante dall’illecito permanente costituito dall’occupazione di un suolo da parte della P.A., a fronte della irreversibile trasformazione del fondo;
   b) ha affermato che “l’ordinamento processuale amministrativo offre un adeguato strumentario per evitare, nel corso del giudizio, che le domande proposte in primo grado, congruenti con quello che allora appariva il vigente quadro normativo e l’orientamento giurisprudenziale di riferimento assurto a diritto vivente, siano di ostacolo alla formulazione di istanze di tutela adeguate al diverso contesto normativo e giurisprudenziale vigente al momento della decisione della causa in appello, quali la conversione della domanda ove ne ricorrano le condizioni, la rimessione in termini per errore scusabile ai sensi dell’art. 37 Cod. proc. amm. o l’invito alla precisazione della domanda in relazione al definito quadro giurisprudenziale, in tutti i casi previa sottoposizione della relativa questione processuale, in ipotesi rilevata d’ufficio, al contraddittorio delle parti ex art. 73, comma 3, Cod. proc., a garanzia del diritto di difesa di tutte le parti processuali”;
   c) ha ritenuto che l’art. 42-bis d.P.R. 08.06.2001, n. 327, sia applicabile a tutte le ipotesi in cui un bene immobile altrui sia utilizzato e modificato dall’amministrazione per scopi di interesse pubblico, in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, e dunque quale che sia la ragione che abbia determinato l’assenza di titolo che legittima alla disponibilità del bene).
Va dunque rimarcato come anche in sede d’appello si possa riconvertire la domanda di restituzione del bene in domanda di applicazione dell’art. 42-bis del testo unico sugli espropri (Cons. St., sez. IV, 21.09.2020, nn. 5527 e 5522), sicché anche per questa ragione si potrebbe sostenere che il giudicato civile di rigetto, a suo tempo formatosi sulla domanda risarcitoria per l’accoglimento della eccezione di prescrizione, non precluda l’esame della domanda di tutela basata sul citato art. 42-bis (anche a seguito della conversione della domanda in sede d’appello), nettamente diversa da quella decisa dal giudice civile quanto alla causa petendi (basata sull’interesse legittimo pretensivo) ed al petitum (volto ad ottenere un provvedimento ai sensi dell’art. 42-bis) (Consiglio di Stato, Sez. IV, ordinanza 26.10.2020 n. 6531 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Effetti della decadenza del vincolo di esproprio sulle fasce di rispetto stradali.
La circostanza che «il vincolo preordinato all’esproprio sia decaduto ex lege non comporta la decadenza anche delle fasce di rispetto stradali connesse alla realizzazione dell’opera; e ciò in quanto, secondo consolidati principi giurisprudenziali, le fasce di rispetto stradali hanno natura di vincoli di carattere conformativo, e non espropriativo, e come tali non sono soggetti a decadenza ex lege per effetto del decorso del termine quinquennale di cui all’art. 9 d.p.r. 327/2001, ma conservano la propria efficacia a tempo indeterminato, fino all’intervento di una nuova pianificazione urbanistica» (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 24.09.2020 n. 657 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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SENTENZA
5. Con il quinto motivo, la ricorrente ha dedotto l’illegittimità della Variante impugnata nella parte in cui ha previsto una fascia di rispetto stradale di 40 metri, così incidendo su fabbricati già costruiti e su aree di potenziale espansione dello stabilimento, in violazione dell’art. 26, comma 3, del Regolamento di esecuzione del Codice della Strada che per le strade di tipo C prevede una fascia di rispetto di 10 metri, in assenza di specifica motivazione; la stessa variante parziale al P.T.C.P. in corso di approvazione prevederebbe per questo tratto stradale una distanza di 30 metri.
Nei propri scritti conclusivi, la ricorrente ha aggiunto che con la decadenza ex lege del vincolo preordinato all’esproprio, sopravvenuta in corso di causa, sarebbero venute meno automaticamente anche le fasce di rispetto stradali, essendo state previste a servizio di un’opera viabilistica non più attuale. Per tale motivo, ha chiesto a questo Tribunale di accertare il proprio diritto di edificare sulle aree di sua proprietà già assoggettate a vincolo preordinato all’esproprio e all’osservanza della fascia di rispetto stradale, entrambe decadute per legge.
La censura (e la domanda) non possono essere condivise.
5.1. La difesa della parte interveniente Società di Progetto Autovia Padana s.p.a., attuale titolare della concessione di costruzione ed esercizio dell’Autostrada A21 Piacenza-Cremona-Brescia, in forza di convenzione stipulata nel maggio del 2017 con il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, ha documentato in giudizio che il progetto di realizzazione del “Terzo ponte sul fiume Po” è ancora attuale, tanto da essere stato incluso nell’”oggetto” della convenzione di concessione, all’art. 2.1., nella parte in cui si fa specifico riferimento alle “Opere Lotto n. 2: Nuovo Casello di Castelvetro, Raccordo Autostradale con la SS 10 “Padana inferiore” e completamento della bretella autostradale tra la SS 10 “padana inferiore” e la SS 234”.
L’art. 11-bis della convenzione ha previsto l’impegno della concessionaria a reperire i necessari finanziamenti entro la fine del primo periodo regolatorio, che –da quel che è dato di comprendere- dovrebbe giungere a scadenza nel maggio del 2022, dopo di che, in mancanza di finanziatori, il progetto potrebbe essere stralciato dall’oggetto della concessione. Allo stato, in pendenza del primo quinquennio regolatorio, la previsione dell’opera viabilistica è ancora attuale e la concessionaria ha ribadito in giudizio il proprio interesse a realizzarla, previo reperimento delle risorse necessarie, in ossequio agli impegni convenzionali.
5.2. Ciò posto, la circostanza che, nelle more del presente giudizio il vincolo preordinato all’esproprio sia decaduto ex lege non comporta la decadenza anche delle fasce di rispetto stradali connesse alla realizzazione dell’opera; e ciò in quanto, secondo consolidati principi giurisprudenziali, le fasce di rispetto stradali hanno natura di vincoli di carattere conformativo, e non espropriativo (TAR Catania, sez. I , 22/10/2015, n. 2458; TAR , Salerno, sez. II, 13/06/2013, n. 1276; TAR Palermo, sez. III, 24/05/2013, n. 1167; TAR Lecce, sez. I, 24/09/2009, n. 2156; TAR Firenze, sez. III, 20/12/2012, n. 2110), e come tali non sono soggetti a decadenza ex lege per effetto del decorso del termine quinquennale di cui all’art. 9 d.p.r. 327/2001, ma conservano la propria efficacia a tempo indeterminato, fino all’intervento di una nuova pianificazione urbanistica (Cons. Stato, Sez. IV, 18.05.2018, n. 3002; Consiglio di Stato, sez. IV, 12/04/2017, n. 1700; TAR Napoli, sez. II, 27/12/2019, n. 6149; TAR Torino, sez. II, 29/08/2014, n. 1457; TAR Milano, sez. II , 30/11/2007, n. 6532).
5.3. Quanto all’ampiezza della fascia di rispetto stradale connessa alla realizzazione dell’opera viabilistica, venendo in considerazione la realizzazione di un collegamento autostradale, e quindi di una strada di tipologia A -secondo la classificazione di cui all’art. 2 comma 2 del Codice della Strada– essa non poteva essere fissata in misura inferiore a 30 metri, secondo quanto previsto dall’art. 16, comma 3, lett. a), del Regolamento di esecuzione del Codice della Strada, norma applicabile “fuori dai centri abitati ma all’interno di zone previste come edificabili o trasformabili dallo strumento urbanistico”, come nel caso di specie.
Nell’impugnato P.G.T. la fascia di rispetto stradale è stata fissata in 40 metri, misura da ritenersi legittima in quanto “non inferiore” alla misura minima di 30 metri prescritta dalla normativa di settore; e ciò sarebbe già di per sé sufficiente a consentire il rigetto della censura.
Nelle more del giudizio, peraltro, secondo la documentata deduzione della difesa comunale, in occasione dell’approvazione del P.G.T. del 2018 è stata accolta la richiesta della ricorrente di ridurre da 40 a 30 metri la fascia di rispetto stradale esistente, recependo i contenuti del Protocollo d’Intesa sottoscritto in data 28.10.2018 dalla ricorrente e dal Comune di Cremona. In tale Protocollo d’Intesa, il Comune si è impegnato, in particolare, “al mantenimento della profondità di 30 metri della fascia di rispetto del cosiddetto terzo Ponte e, qualora se ne presentassero le condizioni, a fornire il proprio il proprio pieno appoggio presso gli Enti competenti per una sua ulteriore riduzione in una misura compatibile con le esigenze di sviluppo produttivo di Ol.Zu.”.
Alla luce di tale accordo intercorso tra le parti, pacificamente recepito nel P.G.T. del 2018 non impugnato dalla parte ricorrente, la censura in esame è diventata improcedibile per acquiescenza e sopravvenuta carenza di interesse, così come eccepito dalle difese dell’amministrazione e della parte controinteressata. Né convince la replica della parte ricorrente secondo cui l’efficacia del Protocollo d’Intesa sarebbe stata limitata fino al 31.12.2020 (art. 4, comma 2), dal momento che, a tutto concedere, questo implicherebbe la riviviscenza, a far data dal 01.01.2021, della distanza previgente di 40 metri, derogata solo temporaneamente dal Protocollo d’Intesa del 2018.
5.4. La domanda della società ricorrente di accertamento del proprio diritto di edificare sull’area di sua proprietà inclusa all’interno della fascia di rispetto, prima ancora che infondata nel merito alla luce di quanto sopra esposto, è inammissibile ai sensi dell’art. 34, comma 2, c.p.a., perché volta a sollecitare una pronuncia del giudice su poteri amministrativi non ancora esercitati.

ESPROPRIAZIONE: 1.- Espropriazione per pubblica utilità – “usucapione pubblica” – inconfigurabilità.
Va respinta la tesi della predicabilità sistematica di una “usucapione pubblica” che si innesti su un procedimento espropriativo: a tutto concedere, in astratto una problematica di vaglio in ordine alla usucapibilità di beni appresi mercé l’occupazione dell’area innervata su un procedimento espropriativo non regolarmente conclusosi (come nel caso all’esame, per omessa emissione di un tempesti vo decreto di esproprio) potrebbe porsi laddove l’Amministrazione abbia posseduto ininterrottamente detto compendio immobiliare per il torno di tempo prescritto dal codice civile individuandosi quale dies a quo quello dell’entrata in vigore del d.P.R. 08.06.2001 n. 327, il cui art. 43 ha sancito il superamento normativo dell’istituto dell’occupazione acquisitiva che costituiva una vera e propria fattispecie ablatoria seppure atipica.
Invero sino alla data di entrata in vigore del d.P.R. 08.06.2001 n. 327 costituiva approdo consolidato quello per cui la trasformazione dell’area implicasse acquisto automatico della proprietà (appunto per accessione invertita, ex art. 938 c.c.) in capo all’Amministrazione del suolo sul quale l’opera pubblica era sorta. Il privato spossessato, quindi, non avrebbe potuto validamente esercitare alcuna opzione reintegratoria specifica, e non avrebbe potuto conseguire la restituzione dell’area, in quanto già passata in proprietà dell’Amministrazione.
Anche in conseguenza degli approdi a cui è pervenuta la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, il Legislatore statale è intervenuto e, in virtù del d.P.R. 08.06.2001 n. 327, è stato sancito il superamento normativo dell’istituto dell’occupazione acquisitiva
(massima free tratta da www.giustamm.it).
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7.1. L’appello è fondato e va accolto, nei termini di cui alla motivazione che segue: in riforma della sentenza di primo grado, quindi, il ricorso di primo grado va accolto, nei termini precisati nella parte motiva della presente decisione.
7.1. In particolare, il Collegio, richiamando plurime sentenze di questa stessa Sezione (Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 4096/2015 su ricorso n. 10128/2014; Consiglio di Stato Sezione IV sentenza n. 3346 del 2014, resa nell’ambito del ricorso 2584 del 2014; Consiglio di Stato Sezione IV sentenza n. 3988/2015 resa nell’ambito del ricorso 7608 del 2014; Consiglio di Stato, Sezione IV, sentenza n. 5410/2015 resa nell’ambito del ricorso 1498 del 2014), nelle quali sono già state compiutamente esposte le motivazioni che non consentono di condividere la tesi della predicabilità sistematica di una “usucapione pubblica” che si innesti su un procedimento espropriativo, osserva che nelle menzionate decisioni è stato chiarito che comunque –a tutto concedere– in astratto una problematica di vaglio in ordine alla usucapibilità di beni appresi mercé l’occupazione dell’area innervata su un procedimento espropriativo non regolarmente conclusosi (ad esempio, come nel caso all’esame, per omessa emissione di un tempesti vo decreto di esproprio) potrebbe porsi laddove l’Amministrazione abbia posseduto ininterrottamente detto compendio immobiliare per il torno di tempo prescritto dal codice civile individuandosi quale dies a quo quello dell’entrata in vigore del d.P.R. 08.06.2001 n. 327, il cui art. 43 ha sancito il superamento normativo dell’istituto dell’occupazione acquisitiva che costituiva una vera e propria fattispecie ablatoria seppure atipica.
7.2. Invero sino alla data di entrata in vigore del d.P.R. 08.06.2001 n. 327 –come è noto– costituiva approdo consolidato in giurisprudenza quello per cui la trasformazione dell’area implicasse acquisto automatico della proprietà (appunto per accessione invertita, ex art. 938 c.c.) in capo all’Amministrazione del suolo sul quale l’opera pubblica era sorta.
Il privato spossessato, quindi, non avrebbe potuto validamente esercitare alcuna opzione reintegratoria specifica, e non avrebbe potuto conseguire la restituzione dell’area, in quanto già passata in proprietà dell’Amministrazione.
7.3. Anche in conseguenza degli approdi a cui è pervenuta la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (ex multis sentenze CEDU Belvedere Alberghiera s.r.l. c. Italia 30.05.2000, n. 31524/96; Sciarrotta c. Italia 12.01.2006, n. 14793/02; Guiso-Gallisay c. Italia, 22.12.2009, n. 58858/00; Soc. Immobiliare Podere Trieste c. Italia, 23.10.2012, n. 19041/2004; Rolim Commercial S.A. c. Portogallo, 16.04.2013, n. 16153/2009), il Legislatore statale è intervenuto e, in virtù del d.P.R. 08.06.2001 n. 327, è stato sancito il superamento normativo dell’istituto dell’occupazione acquisitiva.
7.4. Da tale ricostruzione il Collegio non ha motivo per discostarsi.
7.5. Ciò implica, in primo luogo, che per tutte le occupazioni antecedenti alla entrata in vigore del d.P.R. 08.06.2001 n. 327, il tempo durante il quale l’Amministrazione ha esercitato un potere materiale sul bene occupato (ed eventualmente, medio tempore, trasformato) in epoca precedente alla entrata in vigore del citato d.P.R., non vale ai fini del computo del termine per la maturazione della usucapione dell’area.
Ciò per una ragione dirimente: se è vero che l’istituto dell’usucapione risponde ad una esigenza di certezza giuridica, “premia” il possesso ininterrotto dell’area e “sanziona” l’inerzia del proprietario dell’area medesima, il quale non ha esercitato le condotte materiali e/o le iniziative giuridiche che dimostrano il suo interesse a mantenerne la titolarità, è evidente che tale istituto può operare soltanto nei casi in cui il privato possa esercitare i diritti posti a presidio della propria posizione.
E’ questo, un principio logico, oltre che di civiltà giuridica, che nel sistema giuridico italiano trova espresso conforto normativo sub art. 2935 c.c. “la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere”.
Posto che, antecedentemente alla entrata in vigore del d.P.R. 08.06.2001 n. 327, il privato proprietario non avrebbe potuto fare valere il proprio diritto alla restituzione, è del tutto logico che il tempo decorso (durante il quale l’Amministrazione ha, anche ininterrottamente detenuto il bene) prima di tale data non si computi ai fini della maturata usucapione.
7.6. Tanto basta, con portata dirimente, ad accogliere l’appello.
7.7. Invero il Tar ha:
   - condivisibilmente stabilito che il tempo necessario ad usucapire il bene fosse quello ordinario ventennale;
   - ha ritenuto che detto termine fosse maturato, computando ai fini del raggiungimento dell’arco temporale ventennale il torno di tempo antecedente al 2001 (l’occupazione era divenuta illegittima in data 31.10.1986);
   - ha ritenuto che il detto termine prescrizionale non sia stato validamente interrotto dalla nota del legale della dante causa di uno degli appellanti datata 28.04.2006, poiché quest’ultima non costituisce un atto di natura giudiziale/processuale di instaurazione del giudizio e poiché a mezzo di essa non è stata chiesta la restituzione del bene, ma soltanto il pagamento dell’indennità di esproprio o il risarcimento del danno.
7.8. Ciò, per le già chiarite ragioni, non è condivisibile:
   - il “diritto vivente” antecedente alla entrata in vigore nel sistema del d.P.R. n. 327/2001, non consentiva l’esperimento dell’azione restitutoria/reintegratoria del suolo;
   - parte appellante non avrebbe quindi potuto proporre la relativa domanda;
   - opera il principio sopra richiamato e sancito dall’art. 2935 c.c. (contra non valentem agere non currit praescriptio);
   - il torno di tempo antecedente alla entrata in vigore nel sistema del d.P.R. n. 327/2001 non è quindi computabile per far ritenere prescritta l’azione di rivendica e, quindi, per ritenere maturata l’usucapione ascrivibile al permanente possesso dell’area in capo all’Amministrazione;
   - non rileva, in ogni caso, la questione in ordine al se la citata nota del 28.04.2006 indirizzata al Comune di Manfredonia (all. n. 15 fascicolo di primo grado) valga ad interrompere l’inerzia del privato giacché, per quanto più sopra argomentato, lo sbarramento temporale per ravvisare l’usucapione è quello dell’entrata in vigore del d.P.R. 08.06.2001 n. 327;
   - in ogni caso, dalle domande contenute nella nota del 28.04.2006 non è possibile inferire alcuna volontà di abdicare al diritto di proprietà da parte dei proprietari delle aree in questione, per tutte le considerazioni e motivazioni svolte dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato del 20.01.2020 n. 4, in particolare al § 16 in tema di rinuncia abdicativa e di valenza della domanda di risarcimento del danno sotto tale profilo (par. 16.3.1. e 16.3.2).
8. L’appello va quindi accolto e la sentenza di prime cure deve essere riformata.
9. Passando ad esaminare le conseguenze dell’accoglimento dell’appello e posto che l’Amministrazione né ha restituito il bene né lo ha acquistato né ha emesso il provvedimento ai sensi dell’art. 42-bis del T.U. espropriazioni, mentre è accertata l’illegittimità del procedimento espropriativo, ne discende che l’Amministrazione può avvalersi in via postuma dello strumento acquisitivo della proprietà di cui all’art. 42-bis d.P.R. n. 327/01, corrispondendo il valore venale del bene.
9.1. Nell’ipotesi in cui l’Amministrazione non opti per la soluzione testé indicata dovrà restituire l’area, previa remissione in pristino della stessa a propria cura e spese, corrispondendo le somme per la illegittima occupazione.
9.2. Entro sessanta giorni decorrenti dalla data di pubblicazione/notificazione della presente sentenza, l’Amministrazione dovrà avviare l’uno o l’altro procedimento indicati ai punti che precedono.
La giuridica regolarizzazione della fattispecie mediante l’immediata restituzione dei beni (previa integrale riduzione in pristino) ovvero attivandosi per il legittimo acquisto della proprietà dell'area assume carattere prioritario rispetto ad ogni valutazione circa l’an e il quantum della spettanza di somme a titolo di illegittima occupazione e/o di risarcimento dei danni (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 3880 del 2020), discendenti dalla scelta che effettuerà l’Amministrazione.
10. Conclusivamente pronunciando, quindi, in accoglimento dell’appello, la sentenza resa in primo grado va annullata e il ricorso di primo grado va accolto nei termini di cui alla motivazione che precede (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 11.09.2020 n. 5430 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ESPROPRIAZIONEL’Adunanza plenaria pronuncia sulla competenza dell’organo liquidatore, quando va emanato un atto di liquidazione di una somma, spettante a seguito di acquisizione sanante.
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Enti locali – Comuni – Dichiarazione di dissesto – Competenza organo liquidatore liquidazione di una somma, spettante a seguito della realizzazione di un’opera pubblica su fondo altrui - Epoca anteriore alla dichiarazione di dissesto dell’ente - Competenza dell’organo straordinario di liquidazione – Condizione.
L’atto di acquisizione sanante, generatore dell’obbligazione (e, quindi, del debito), è attratto nella competenza dell’organo straordinario di liquidazione, e non rientra quindi nella gestione ordinaria, sia sotto il profilo contabile sia sotto il profilo della competenza amministrativa, se detto provvedimento ex art. 42-bis T.U. Espropriazione è pronunciato entro il termine di approvazione del rendiconto della Gestione Liquidatoria e si riferisce a fatti di occupazione illegittima anteriori al 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato (1).
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   (1) Cons. St., sez. IV, ord., 20.03.2020, n. 1994.
Ha chiarito l’Alto consenso che è pur vero che l’emanando provvedimento ex art. 42-bis T.U. Espropriazione, che farebbe sorgere il debito oggetto della presente controversia, ha natura costitutiva, come confermato da questa Adunanza con la sentenza 20.01.2020, n. 2, che ha escluso la rilevanza del risarcimento del danno ai fini dell’occupazione acquisitiva.
Il provvedimento dell’amministrazione che dispone la cd. acquisizione sanante, quindi, non accerta un debito preesistente, ma lo determina ex novo, quantificandone altresì l’ammontare e non ha, quindi, carattere ricognitivo, ma costitutivo, determinando, sul piano amministrativo e civilistico, un effetto traslativo ex nunc.
Tuttavia, detto provvedimento ex art. 42-bis, d.P.R. 08.06.2001, n. 327, ha per presupposto (ai sensi del primo comma della predetta norma) l’utilizzazione “di un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità”; inoltre il provvedimento di acquisizione, ai sensi del successivo comma 4, deve recare “l'indicazione delle circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell'area e se possibile la data dalla quale essa ha avuto inizio”.
Pertanto, il provvedimento risulta certamente correlato, sul piano della stessa attribuzione causale, “ad atti e fatti di gestione verificatisi entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato, pur se accertati, anche con provvedimento giurisdizionale, successivamente a tale data”, come specifica l’art. 5, comma 2, d.l. n. 80 del 2004 (convertito con l. n. 140 del 2004).
Sul piano dell’interpretazione letterale, quindi, le “circostanze” (ovvero i fatti) che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell'area costituiscono il presupposto per l’emanazione del provvedimento di acquisizione sanante che l’amministrazione, prima della sua adozione, deve accertare.
Parimenti, anche l’utilizzazione “di un bene immobile per scopi di interesse pubblico” costituisce un fatto che deve esser oggetto di un accertamento da parte dell’amministrazione, prodromico all’adozione del provvedimento in esame.
Si tratta quindi, in entrambi i casi di fatti necessariamente correlati al successivo provvedimento, il cui positivo accertamento costituisce uno dei presupposti di legittimità del medesimo.
Pertanto, sotto il profilo finanziario, se tali fatti sono cronologicamente ricollegabili all’arco temporale anteriore al 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato, il provvedimento successivo (non necessariamente giurisdizionale, come è evidente dalla mera lettura del citato art. 5) che determina l’insorgere del titolo di spesa deve essere imputato alla Gestione Liquidatoria, purché detto provvedimento sia emanato prima dell’approvazione del rendiconto della gestione di cui all’art. 256, comma 11, t.u. n. 267 del 2000.
In questo caso, non solo il debito viene imputato al Bilancio della Gestione Liquidatoria sotto il profilo amministrativo-contabile, e non a quello della gestione ordinaria, ma anche la competenza amministrativa ad emanare il provvedimento che costituisce il titolo di spesa (nella specie, l’acquisizione sanante) deve essere attribuita al Commissario Liquidatore, in quanto è quest’ultimo soggetto che deve costituire la relativa partita debitoria del bilancio da lui gestito (Consiglio di Stato, A.P., sentenza 05.08.2020 n. 15 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONELiquidazione del risarcimento del danno conseguente alla occupazione senza titolo di un terreno.
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Risarcimento danni – Espropriazione per pubblica utilità - Occupazione sine titulo - Liquidazione secondo equità – Possibilità.
Qualora sia chiesto il risarcimento del danno conseguente alla occupazione senza titolo di un terreno, poi restituito dall’Amministrazione, non si applica l’art. 42-bis, comma 3, del testo unico sugli espropri (la cui regola del computo del 5% annuo sul valore dell’area si applica solo qualora l’Autorità che utilizza l’area ne disponga l’acquisizione) e il giudice amministrativo –in mancanza della specifica prova del danno conseguente al suo mancato godimento– può disporne la liquidazione secondo equità, tenendo conto della estensione del terreno, della durata della occupazione e della sua precedente utilizzazione, e può quantificare l’importo nel suo preciso ammontare (evitando la fissazione di parametri che implicano la previa determinazione del valore dell’area) (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che il comma 3 dell’art. 42-bis del t.u. sugli espropri dispone che: “Per il periodo di occupazione senza titolo è computato a titolo risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la prova di una diversa entità del danno, l'interesse del cinque per cento annuo sul valore determinato ai sensi del presente comma”.
Tale disposizione ha un campo di applicazione imprescindibilmente legato all’applicazione del comma 1 dell’art. 42-bis, il quale, come ribadito da questo Consiglio, in Adunanza Plenaria, ha disciplinato un procedimento semplificato da seguire quando l’amministrazione disponga l’acquisizione al proprio patrimonio di un bene che possieda, senza titolo, per un interesse pubblico, e che sia stato modificato nella sua originaria consistenza.
Si tratta di una normativa dal preciso ambito di applicazione, che delinea una “fattispecie normativa di diritto amministrativo settoriale in materia espropriativa, quale tassativamente predeterminata dal legislatore” (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 20.01.2020, n. 4, v., in particolare, punto 16.2.3.; Corte Cost., 30.04.2015, n. 71).
Relativamente alla questione se il parametro del 5 per cento annuo (previsto dal comma 3) sia applicabile anche quando l’area sia restituita al proprietario, il Collegio è consapevole che alcuni precedenti della Sezione –richiamati dall’appellante- hanno liquidato proprio in base a tale parametro, in via equitativa, il danno patito dal privato per l’occupazione senza titolo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 27.05.2019, n. 3428; sez. IV, 09.05.2018, n. 2765; sez. IV, 23.09.2016, n. 3929; sez. IV, 28.01.2016 n. 329; sez. V, 02.11.2011, n. 5844).
La Sezione, tuttavia, dopo maturo esame e re melius perpensa, ritiene che questa impostazione vada tuttavia rimeditata.
Logicamente, prima ancora di esaminare l’applicabilità del comma 3 sopra riportato per quantificare il danno fatto valere nel presente giudizio, il Collegio ritiene che vada comunque approfondito se sia configurabile una responsabilità risarcitoria e, in particolare, un danno derivante dall’occupazione senza titolo di un fondo, allorché, nel giudizio, il ricorrente si sia limitato ad allegare la mera lesione della facoltà di godimento del bene, senza ulteriormente specificare e descrivere i pregiudizi patrimoniali che da essa sono scaturiti.
Nel caso in esame, per l’appunto, in prime cure, l’interessato ha descritto la lesione arrecata al suo diritto di proprietà, lamentando che l’occupazione del bene da parte del Comune avrebbe cagionato il suo mancato godimento per tutto il periodo in cui l’occupazione si è protratta.
È necessario domandarsi, dunque, preliminarmente, se, in ragione della allegazione ‘estremamente sintetica’ del pregiudizio sofferto (ampliata in questo secondo grado di processo), possa comunque riconoscersi l’esistenza di un danno risarcibile, inteso come conseguenza pregiudizievole, economicamente valutabile, verificatasi nel patrimonio di chi asserisce di avere subito la lesione di una sua situazione giuridica soggettiva.
In base alle allegazioni dell’interessato, questo pregiudizio viene infatti a coincidere con la lesione di una delle due facoltà del diritto di proprietà –quella di godimento- in cui, tradizionalmente e usualmente, si articola il contenuto di questa situazione giuridica soggettiva.
Da tale compromissione, nondimeno, non si fa scaturire una conseguenza pregiudizievole specifica, quale sarebbe il non aver potuto trarre profitto da un uso –e, dunque, da un godimento- diretto o indiretto del bene (ad es., adibendolo ad una proficua coltivazione oppure concedendolo in locazione [per chi ritiene che quest’ultima ipotesi costituisca esplicazione della facoltà di godimento e non di quella di disposizione]).
L’orientamento di questo Consiglio incline all’applicazione del criterio dettato dall’art. 42-bis, comma 3, d.P.R. n. 327 del 2001, per l’aspetto relativo alla quantificazione del danno (per fattispecie diverse da quelle disciplinate dal medesimo art. 42-bis, e in particolare per i casi di rilevata spettanza di un risarcimento, nelle ipotesi di restituzione dell’area o di constatato acquisto del bene da parte dell’Amministrazione in assenza dell’atto formale di acquisizione), ha riguardato i profili relativi all’“an”: si è affermato che, in presenza della lesione o della compressione della facoltà di godimento derivanti dall’occupazione senza titolo, non fosse necessario assolvere ad un onere di descrizione -del pregiudizio patrimoniale sofferto- particolarmente particolareggiato e dettagliato, per ammetterne la sussistenza.
A tale semplificazione degli oneri di allegazione e di prova della sussistenza del danno patrimoniale, seguiva quella relativa alla quantificazione attuata con l’applicazione dell’art. 42-bis, comma 3, d.P.R. n. 327 del 2001.
Si accoglieva, dunque, un’impostazione particolarmente favorevole al proprietario sia sul versante dell’allegazione e della prova dell’an del danno, che sul versante relativo al quantum.
La Sezione ritiene che si possa dare continuità a questo orientamento solo per quanto riguarda l’an del danno: si può ritenere sufficientemente provata la sussistenza di un danno patrimoniale per il solo fatto che il proprietario di un bene ne abbia sofferto lo spossessamento e ne abbia dunque perduto, temporaneamente, il godimento.
Non rileva in questa sede approfondire la questione se la lesione così arrecata al diritto di proprietà costituisca un c.d. “danno-evento”, circa il profilo dell’an, oppure un danno conseguenza “in re ipsa”, circa il profilo del quantum.
A fronte di un sistema normativo articolato e composito, sovranazionale e nazionale, scandito da norme di rango diverso, che attribuisce una consistente e multiforme tutela al diritto di proprietà, mediante la previsioni di differenti rimedi, il quadro degli oneri probatori gravanti su chi si assume danneggiato va “semplificato”, nel rispetto delle regole che presidiano il processo, al fine di dare piena attuazione al principio di effettività della tutela giurisdizionale (art. 1 c.p.a.).
L’allegazione della perdita temporanea della facoltà di godimento costituisce non soltanto un profilo rilevante ai fini della descrizione della lesione occorsa alla situazione giuridica soggettiva, che si assume violata, ma anche un aspetto dirimente per gli aspetti correlati ai pregiudizi economici che da quella lesione sono scaturiti.
13. Secondo una valutazione basata sull’id quod plerumque accidit e, dunque, facendosi applicazione dell’istituto delle presunzioni semplici (art. 2729 c.c.), può evidenziarsi come la perdita del godimento del bene si traduca, di regola, nella perdita del valore d’uso di quel bene o, anche, della sua mera “disponibilità statica”; di quella che, con locuzione descrittiva, può essere definita come una “posta attiva potenziale” della sfera giuridica dell’interessato, cioè dei molteplici impieghi, profittevoli o anche solo di svago, che si traggono dall’essere nella disponibilità del bene.
Pur se con riguardo alla diversa fattispecie del ritardo del pagamento di un’obbligazione pecuniaria, la Corte di Cassazione (Sez. Unite, 16.07.2008, n. 19499) ha fornito importanti principi in materia di prova:
   - ha ammesso che si possa fornire la prova della sussistenza del maggior danno attraverso il meccanismo delle presunzioni semplici, con tecniche di semplificazione dell'istruzione probatoria variate nel corso del tempo e adattate al mutare del contesto economico-sociale;
   - ha affermato che “è stato da tempo chiarito come, in definitiva, è nel rapporto tra normalità ed anormalità, tra regola ed eccezione che si rinviene il criterio teorico pratico della ripartizione dell'onere della prova, il quale non costituisce un istituto giuridico in sé concluso, ma un modo di osservare l'esperienza giuridica. E la giurisprudenza ha quindi fatto ricorso, tutte le volte che il modello legale prefissato non risultava appagante in relazione alle posizioni delle parti riguardo ai singoli temi probatori, allo schema della presunzione in modo talora così tipico e costante da creare, in definitiva, vere e proprie regole di giudizio. Col risultato non già di invertire l'onere della prova, ma di distribuirlo in senso conforme alla realtà dell'esperienza positiva”;
   - ha dunque ritenuto che, poiché di regola del bene-denaro si fa un uso remunerativo o proficuo, si può presumere l’esistenza del (maggior) danno occorso e di quantificarlo attraverso un criterio equitativamente determinato.
Il principio di diritto suesposto risulta applicabile –ai sensi degli articoli 2043, 2056 e 1226 del codice civile e con le precisazioni di seguito esposte- anche quando l’Amministrazione abbia temporaneamente occupato senza titolo un bene altrui (e non lo abbia formalmente acquisito in applicazione dell’art. 42-bis del testo unico sugli espropri), nel corso di un procedimento non conclusosi con un valido ed efficace decreto d’esproprio o con un accordo di cessione.
Anche in tal caso, per un certo lasso di tempo, è configurabile il ‘mancato godimento’ di un bene (il fondo illegittimamente occupato) del quale, usualmente, il titolare può fare un uso remunerativo o proficuo: anzi, mentre la mera disponibilità del denaro di per sé non soddisfa esigenze ed aspirazioni personali, la mera disponibilità di un proprio fondo ne consente molteplici impieghi, profittevoli o anche solo di svago (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 23.07.2020 n. 4709 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
9. Può procedersi oltre all’esame del terzo motivo di appello, congiuntamente ai motivi successivi. Con essi, in sintesi, si censura la sentenza di primo grado riproponendosi, in chiave critica, la domanda di applicazione, in via equitativa, del parametro del cinque per cento annuo del valore venale del bene, sancito dall’art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001, cui potrebbe farsi riferimento, secondo l’appellante, per liquidare il danno da temporanea perdita o mancato godimento del bene di cui si ha la proprietà.
La domanda risarcitoria viene formulata anche con riferimento alla porzione del bene non occupata (quarto motivo) e si domanda, infine, sulla somma eventualmente liquidata, il riconoscimento della spettanza della rivalutazione e degli interessi (quinto motivo).
9.1. I motivi di appello sono fondati nei limiti che si vanno a chiarire.
Il comma 3 dell’art. 42-bis del t.u. sugli espropri dispone che: “Per il periodo di occupazione senza titolo è computato a titolo risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la prova di una diversa entità del danno, l'interesse del cinque per cento annuo sul valore determinato ai sensi del presente comma”.
Tale disposizione ha un campo di applicazione imprescindibilmente legato all’applicazione del comma 1 dell’art. 42-bis, il quale, come ribadito da questo Consiglio, in Adunanza Plenaria, ha disciplinato un procedimento semplificato da seguire quando l’amministrazione disponga l’acquisizione al proprio patrimonio di un bene che possieda, senza titolo, per un interesse pubblico, e che sia stato modificato nella sua originaria consistenza.
Si tratta di una normativa dal preciso ambito di applicazione, che delinea una “fattispecie normativa di diritto amministrativo settoriale in materia espropriativa, quale tassativamente predeterminata dal legislatore” (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 20.01.2020, n. 4, v., in particolare, punto 16.2.3.; Corte Cost., 30.04.2015, n. 71).
Relativamente alla questione se il parametro del 5 per cento annuo (previsto dal comma 3) sia applicabile anche quando l’area sia restituita al proprietario, il Collegio è consapevole che alcuni precedenti della Sezione –richiamati dall’appellante- hanno liquidato proprio in base a tale parametro, in via equitativa, il danno patito dal privato per l’occupazione senza titolo (cfr. Cons. Stato Sez. IV, 27.05.2019, n. 3428; Sez. IV, 09.05.2018, n. 2765 ; Sez. IV, 23.09.2016, n. 3929; Sez. IV, 28.01.2016 n. 329; Sez. IV, 02.11.2011, n. 5844).
9.2. La Sezione, tuttavia, dopo maturo esame e re melius perpensa, ritiene che questa impostazione vada tuttavia rimeditata.
10. Logicamente, prima ancora di esaminare l’applicabilità del comma 3 sopra riportato per quantificare il danno fatto valere nel presente giudizio, il Collegio ritiene che vada comunque approfondito se sia configurabile una responsabilità risarcitoria e, in particolare, un danno derivante dall’occupazione senza titolo di un fondo, allorché, nel giudizio, il ricorrente si sia limitato ad allegare la mera lesione della facoltà di godimento del bene, senza ulteriormente specificare e descrivere i pregiudizi patrimoniali che da essa sono scaturiti.
Nel caso in esame, per l’appunto, in prime cure, l’interessato ha descritto la lesione arrecata al suo diritto di proprietà, lamentando che l’occupazione del bene da parte del Comune avrebbe cagionato il suo mancato godimento per tutto il periodo in cui l’occupazione si è protratta.
È necessario domandarsi, dunque, preliminarmente, se, in ragione della allegazione ‘estremamente sintetica’ del pregiudizio sofferto (ampliata in questo secondo grado di processo), possa comunque riconoscersi l’esistenza di un danno risarcibile, inteso come conseguenza pregiudizievole, economicamente valutabile, verificatasi nel patrimonio di chi asserisce di avere subito la lesione di una sua situazione giuridica soggettiva.
In base alle allegazioni dell’interessato, questo pregiudizio viene infatti a coincidere con la lesione di una delle due facoltà del diritto di proprietà –quella di godimento- in cui, tradizionalmente e usualmente, si articola il contenuto di questa situazione giuridica soggettiva.
Da tale compromissione, nondimeno, non si fa scaturire una conseguenza pregiudizievole specifica, quale sarebbe il non aver potuto trarre profitto da un uso –e, dunque, da un godimento- diretto o indiretto del bene (ad es., adibendolo ad una proficua coltivazione oppure concedendolo in locazione [per chi ritiene che quest’ultima ipotesi costituisca esplicazione della facoltà di godimento e non di quella di disposizione]).
11. L’orientamento di questo Consiglio incline all’applicazione del criterio dettato dall’art. 42-bis, comma 3, del d.P.R. n. 327 del 2001, per l’aspetto relativo alla quantificazione del danno (per fattispecie diverse da quelle disciplinate dal medesimo art. 42-bis, e in particolare per i casi di rilevata spettanza di un risarcimento, nelle ipotesi di restituzione dell’area o di constatato acquisto del bene da parte dell’Amministrazione in assenza dell’atto formale di acquisizione), ha riguardato i profili relativi all’“an”: si è affermato che, in presenza della lesione o della compressione della facoltà di godimento derivanti dall’occupazione senza titolo, non fosse necessario assolvere ad un onere di descrizione -del pregiudizio patrimoniale sofferto- particolarmente particolareggiato e dettagliato, per ammetterne la sussistenza.
A tale semplificazione degli oneri di allegazione e di prova della sussistenza del danno patrimoniale, seguiva quella relativa alla quantificazione attuata con l’applicazione dell’art. 42-bis, comma 3, del d.P.R. n. 327 del 2001.
Si accoglieva, dunque, un’impostazione particolarmente favorevole al proprietario sia sul versante dell’allegazione e della prova dell’an del danno, che sul versante relativo al quantum.
12. La Sezione ritiene che si possa dare continuità a questo orientamento solo per quanto riguarda l’an del danno: si può ritenere sufficientemente provata la sussistenza di un danno patrimoniale per il solo fatto che il proprietario di un bene ne abbia sofferto lo spossessamento e ne abbia dunque perduto, temporaneamente, il godimento.
Non rileva in questa sede approfondire la questione se la lesione così arrecata al diritto di proprietà costituisca un c.d. “danno-evento”, circa il profilo dell’an, oppure un danno conseguenza “in re ipsa”, circa il profilo del quantum.
A fronte di un sistema normativo articolato e composito, sovranazionale e nazionale, scandito da norme di rango diverso, che attribuisce una consistente e multiforme tutela al diritto di proprietà, mediante la previsioni di differenti rimedi, il quadro degli oneri probatori gravanti su chi si assume danneggiato va “semplificato”, nel rispetto delle regole che presidiano il processo, al fine di dare piena attuazione al principio di effettività della tutela giurisdizionale (art. 1 c.p.a.).
L’allegazione della perdita temporanea della facoltà di godimento costituisce non soltanto un profilo rilevante ai fini della descrizione della lesione occorsa alla situazione giuridica soggettiva, che si assume violata, ma anche un aspetto dirimente per gli aspetti correlati ai pregiudizi economici che da quella lesione sono scaturiti.
13. Secondo una valutazione basata sull’id quod plerumque accidit e, dunque, facendosi applicazione dell’istituto delle presunzioni semplici (art. 2729 c.c.), può evidenziarsi come la perdita del godimento del bene si traduca, di regola, nella perdita del valore d’uso di quel bene o, anche, della sua mera “disponibilità statica”; di quella che, con locuzione descrittiva, può essere definita come una “posta attiva potenziale” della sfera giuridica dell’interessato, cioè dei molteplici impieghi, profittevoli o anche solo di svago, che si traggono dall’essere nella disponibilità del bene.
13.1. Pur se con riguardo alla diversa fattispecie del ritardo del pagamento di un’obbligazione pecuniaria, la Corte di Cassazione (Sez. Unite, 16.07.2008, n. 19499) ha fornito importanti principi in materia di prova:
   - ha ammesso che si possa fornire la prova della sussistenza del maggior danno attraverso il meccanismo delle presunzioni semplici, con tecniche di semplificazione dell'istruzione probatoria variate nel corso del tempo e adattate al mutare del contesto economico-sociale;
   - ha affermato che “è stato da tempo chiarito come, in definitiva, è nel rapporto tra normalità ed anormalità, tra regola ed eccezione che si rinviene il criterio teorico pratico della ripartizione dell'onere della prova, il quale non costituisce un istituto giuridico in sé concluso, ma un modo di osservare l'esperienza giuridica. E la giurisprudenza ha quindi fatto ricorso, tutte le volte che il modello legale prefissato non risultava appagante in relazione alle posizioni delle parti riguardo ai singoli temi probatori, allo schema della presunzione in modo talora così tipico e costante da creare, in definitiva, vere e proprie regole di giudizio. Col risultato non già di invertire l'onere della prova, ma di distribuirlo in senso conforme alla realtà dell'esperienza positiva”;
   - ha dunque ritenuto che, poiché di regola del bene-denaro si fa un uso remunerativo o proficuo, si può presumere l’esistenza del (maggior) danno occorso e di quantificarlo attraverso un criterio equitativamente determinato.
13.2. Il principio di diritto suesposto risulta applicabile –ai sensi degli articoli 2043, 2056 e 1226 del codice civile e con le precisazioni di seguito esposte- anche quando l’Amministrazione abbia temporaneamente occupato senza titolo un bene altrui (e non lo abbia formalmente acquisito in applicazione dell’art. 42-bis del testo unico sugli espropri), nel corso di un procedimento non conclusosi con un valido ed efficace decreto d’esproprio o con un accordo di cessione.
Anche in tal caso, per un certo lasso di tempo, è configurabile il ‘mancato godimento’ di un bene (il fondo illegittimamente occupato) del quale, usualmente, il titolare può fare un uso remunerativo o proficuo: anzi, mentre la mera disponibilità del denaro di per sé non soddisfa esigenze ed aspirazioni personali, la mera disponibilità di un proprio fondo ne consente molteplici impieghi, profittevoli o anche solo di svago (come si è evidenziato nel precedente punto 13).
14. Vi è inoltre un’ulteriore ragione di ordine sistematico che induce a ritenere provato il pregiudizio economico, pur in assenza di ulteriori e più specifiche allegazioni rispetto alla dimostrata occupazione senza titolo.
14.1. L’art. 50, comma 1, del d.P.R. n. 327 del 2001, dispone che, “Nel caso di occupazione di un'area, è dovuta al proprietario una indennità per ogni anno pari ad un dodicesimo di quanto sarebbe dovuto nel caso di esproprio dell'area e, per ogni mese o frazione di mese, una indennità pari ad un dodicesimo di quella annua”.
14.2. Anche per tale caso, il legislatore ha posto uno specifico criterio di quantificazione preventiva e forfetaria del pregiudizio economico conseguente alla emanazione del provvedimento autoritativo di occupazione d’urgenza, sul presupposto che la perdita del godimento del bene di cui si è proprietari sia inevitabilmente foriero (anche) di un pregiudizio di natura economica.
15. Del resto, la consolidata giurisprudenza di questo Consiglio e della Corte di Cassazione ha sempre ritenuto risarcibili i danni patiti dal proprietario, in caso di occupazioni connesse a procedimenti di esproprio poi non conclusi o conclusi con atti poi annullati, anche laddove l’unico pregiudizio allegato era stato individuato nella compressione della facoltà di godimento.
16. La Sezione ritiene, dunque, che qualora risulti allegata o provata la temporanea privazione del godimento di un bene, ciò costituisca sempre una lesione del diritto soggettivo da cui scaturisce, di regola, un danno risarcibile, ferma restando la possibilità di provare le ulteriori poste di danno sofferto in relazione al mancato uso profittevole del bene medesimo.
17. Si tratta, giova ribadirlo, di una semplificazione probatoria, attuata mediante l’applicazione dell’istituto delle presunzioni semplici.
Chi ha sofferto l’occupazione illegittima di un proprio bene, e se ne ritiene danneggiato, potrà allegare conseguenze economiche più puntuali e significative rispetto a quelle genericamente ravvisate nella perdita temporanea del godimento del bene, così come, viceversa, l’amministrazione potrà invece dedurre circostanze o avvenimenti volti a smentire la sussistenza di conseguenze economiche pregiudizievoli o volti a ridimensionarle nella loro entità (sul punto è consolidato l’indirizzo della giurisprudenza più recente, cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 5703 del 2019; sez. IV, n. 3428 del 2019; sez. IV, n. 2765 del 2018; sez. IV, n. 2285 del 2018; sez. IV n. 5262 del 2017; sez. IV, n. 897 del 2017; sez. IV, n. 4636 del 2016; Cass. civ., sez. I, n. 29990 del 2018; sez. I, n. 5687 del 2017; sez. III, n. 16670 del 2016).
18. Ritenuto dunque che l’allegazione e la prova della lesione del godimento del bene siano sufficienti a comprovare la sussistenza del danno patrimoniale, occorre esaminare le problematiche relative alla sua quantificazione.
In particolare, vanno ora esposte le motivazioni per le quali la Sezione ritiene che vada rimeditato il richiamato precedente orientamento che liquidava in via automatica il danno derivante dal mero mancato godimento del bene immobile occupato utilizzando, a titolo equitativo ex art. 1226 c.c., il parametro del 5% di cui al più volte menzionato art. 42-bis, comma 3, del d.P.R. n. 327 del 2001.
19. E’ evidente che l’applicazione del comma 3, ultimo periodo, dell’art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001, già in considerazione del suo testo letterale, non risulta disciplinare una fattispecie di illecito aquiliano rientrante nel genus dell’art. 2043 c.c..
Il comma 3, che prevede la corresponsione di questa somma a titolo indennitario per l’occupazione senza titolo subita dal proprietario, è infatti inserito nell’ambito di una disciplina interamente finalizzata a disciplinare le conseguenze dell’emanazione del provvedimento di acquisizione.
Il comma 3, dunque, correla, in modo evidente, la liquidazione forfetaria del danno da occupazione senza titolo –nella misura ivi prevista– esclusivamente all’eventualità che venga emanato il provvedimento di acquisizione.
20. Anche da un punto di vista sistematico, vi sono elementi che inducono ad escludere che si possa applicare, come una sorta di automatismo, il comma 3 dell’art. 42-bis del testo unico sugli espropri per quantificare il risarcimento del danno da occupazione illegittima di un fondo, nel caso in un cui sia mancato il provvedimento di acquisizione al patrimonio indisponibile.
20.1. “La disciplina del procedimento espropriativo speciale ex art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001 regola, in modo tipico, esaustivo e tassativo, il procedimento di (ri)composizione del contrasto tra l’interesse privato del proprietario e l’interesse generale cui è preordinata l’acquisizione del bene alla mano pubblica comportate la cessazione dell’illecito permanente” (v. punto 16.2.3. della richiamata sentenza della Adunanza Plenaria n. 4 del 2020).
Tale affermazione evidenzia che l’art. 42-bis ha uno specifico ambito di operatività e che il comma 3 ha disciplinato le conseguenze patrimoniali dell’emanazione dell’atto di acquisizione, con disposizioni speciali –insuscettibili di applicazione analogica– riguardanti la spettanza di un importo forfettario a titolo di danno non patrimoniale, nonché la spettanza di un importo pari al cinque per cento annuo del valore del bene, per il periodo in cui l’occupazione risulti stata effettuata senza titolo.
Il comma 3 dell’art. 42-bis ha disciplinato una fattispecie complessa caratterizzata da una originaria condotta contra ius (l’occupazione senza titolo), cui è seguita l’emanazione di un provvedimento secundum ius (l’atto di acquisizione) e rispetto alla quale al proprietario –che perda tale qualità– spettano importi (per la cui quantificazione sussiste la giurisdizione del giudice civile) sia per la condotta contra ius (il risarcimento forfettizzato del danno non patrimoniale e la misura del cinque per cento annuo a seguito dell’occupazione senza titolo), sia per l’emanazione del provvedimento secundum ius (l’indennizzo pari al controvalore del bene).
Il medesimo comma 3 non si applica, invece, quando si sia verificata l’occupazione senza titolo di un fondo e, però, manchi l’emanazione del provvedimento di acquisizione del bene.
20.2. Va poi esclusa l’applicazione automatica, sia pure in via analogica, del comma 3 dell’art. 42-bis, anche per un’altra ragione.
L’applicazione analogica postula la lacuna della disciplina nella quale si invoca l’analogia.
Nella fattispecie in esame, non sussiste alcuna lacuna legislativa.
Si è verificato infatti un illecito disciplinato dall’art. 2043 del codice civile (applicabile per il fatto che l’Amministrazione ha deciso di restituire l’area a suo tempo occupata), sicché si applicano tutte le disposizioni riguardanti l’illecito aquiliano.
20.3. Anche sul piano dell’interpretazione teleologica, vi sono chiari elementi che inducono a rimeditare l’orientamento sinora seguito sul rilievo dell’applicazione automatica del parametro del cinque per cento.
La liquidazione forfetaria prevista dal comma 3 spetta nell’ambito di un procedimento finalizzato ad adeguare la situazione di diritto a quella di fatto, nel rispetto del principio di legalità sostanziale più volte ribadito dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo.
Nel disciplinare questo potere, il legislatore ha inteso dunque porre una serie di misure volte a differenziare l’ordinario procedimento di espropriazione, da questo procedimento di espropriazione “semplificato”, al fine di rendere il primo più vantaggioso per l’amministrazione e il secondo, invece, più oneroso, così da assicurarne il rapporto regola-eccezione.
Una simile finalità non potrebbe ritrovarsi, invece, al di fuori della fattispecie descritta, con riferimento a quella che è un’ordinaria azione risarcitoria, per illegittima compressione di una delle facoltà del diritto dominicale su un fondo.
20.4. In altri termini, e per sintetizzare, osserva la Sezione che, per il caso di occupazione di un fondo preordinata all’esproprio, il legislatore ha preso in espressa considerazione due specifiche fattispecie, per determinare il quantum spettante al proprietario:
   a) nel caso di occupazione preordinata all’esproprio supportata dalla relativa ordinanza (in cui la condotta risulta secundum ius), si applica l’articolo 50, comma 1, del testo unico sugli espropri, sicché l’Amministrazione deve preventivare tra i costi da affrontare anche quelli –quantificati dal legislatore- da sostenere per il pagamento di quanto spetti al proprietario per il periodo di occupazione anteriore al conseguimento del titolo di proprietà (costi di evidente notevole entità, in un’ottica di disincentivazione di tale preventiva occupazione, non disciplinata dall’originario testo unico approvato con il d.P.R. n. 327 del 2001, ma ridisciplinata prima della sua entrata in vigore);
   b) nel caso di occupazione senza titolo, seguita dall’emanazione dell’atto di acquisizione da parte dell’Autorità che utilizza il bene (in cui la condotta inizialmente risulta contra ius e poi è seguita dal provvedimento che adegua la situazione di diritto a quella di fatto), si applica l’art. 42-bis, comma 3, del medesimo testo unico, sicché l’Amministrazione deve preventivare tra i costi da affrontare anche quelli –quantificati dal legislatore- da sostenere per risarcire il danno arrecato per il periodo d’occupazione (con costi di evidente notevole entità, in un sistema nel quale ha avuto decisiva rilevanza la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, volta a disincentivare la verificazione di tali illeciti e ad attribuire al proprietario leso un quid pluris, anche con l’integrazione del quantum spettante rispetto a quanto ordinariamente spetti nel caso di emanazione del decreto di esproprio),
Per il caso rilevante nel presente giudizio -di occupazione senza titolo preordinata all’esproprio, poi seguita dalla restituzione dell’area- in assenza di specifiche disposizioni di legge trovano invece applicazione, in sede di giurisdizione esclusiva ai sensi dell’art. 133 del codice del processo amministrativo, i sopra richiamati articoli 2043, 2056 e 1226 del codice civile.
21. Va dunque esclusa l’applicabilità del criterio sancito, per altro contesto e con diverse finalità, dall’art. 42 bis, comma 3, ultimo periodo, del d.P.R. n. 327 del 2001, per quantificare il danno subito in vicende analoghe a quella in esame.
22. Ravvisata l’inapplicabilità in via automatica dell’art. 42-bis del testo unico sugli espropri –da riservarsi dunque ai casi da esso disciplinati- ritiene il Collegio che, per la quantificazione del danno, in difetto di una prova più puntuale sulle poste negative legate al mero mancato godimento dell’immobile, possa farsi applicazione di altri criteri equitativi.
22.1. Nel compiere tale valutazione, il giudice amministrativo deve tenere conto delle circostanze salienti relative al caso di specie, come emergenti dalle allegazioni delle parti e dagli atti di causa, così da liquidare un danno, che rispecchi, nella misura maggiore possibile, il pregiudizio economico sofferto.
22.2. Esemplificativamente, potrà tenersi conto della maggiore o minore estensione dell’area occupata, della durata dell’occupazione, dell’uso che fino a quel momento ne aveva fatto il suo proprietario, di circostanze attinenti al proprietario (se, ad es., è un imprenditore o un agricoltore o comunque è un soggetto che impiega o può impiegare proficuamente quel bene per scopi produttivi) oppure al bene stesso (destinazione urbanistica del bene occupato, il contesto territoriale e il tessuto economico in cui esso è inserito, la possibilità, in atto o in potenza, di adoperare quel bene per scopi economici o di svago).
22.3. Relativamente al caso di specie, sui profili relativi alla vocazione edificatoria del fondo -pure allegati dal proprietario del bene, ma incidenti sul mancato esercizio della facoltà di godimento del bene- il Collegio si è già diffusamente espresso in precedenza, quando si è esaminato, per respingerlo, il secondo motivo di appello, evidenziandosi che la compressione della facoltà di godimento non ha inciso in modo definitivo sullo jus aedificandi, né ha prodotto –per quel che si ricava dagli atti del giudizio- una compromissione o una diminuzione di questa potenzialità di questo aspetto o altra lesione economicamente valutabile.
Non risultano, inoltre, allegate, da parte del proprietario del bene, ulteriori circostanze utili a quantificare il danno occorso in maniera più specifica.
Di rilievo è invece la contraria circostanza allegata dall’amministrazione comunale, la quale ha evidenziato che, al momento dell’immissione nel possesso, l’area occupata era incolta e a basso potenziale produttivo.
22.4. Questo Consiglio ritiene allora che:
   - allorquando si intraprende la via dell’equità, non esiste un solo criterio utile che consenta di farne applicazione, ma ve ne sono molteplici;
   - specie in tema di risarcimento del danno da perdita della disponibilità di un immobile, quelli maggiormente diffusi sono incentrati sul c.d. valore locativo o sul saggio legale annuale di interessi computato sul valore venale del bene;
   - la Sezione, tuttavia, anche per ragioni di economia dei mezzi processuali e di correntezza amministrativa, propende per un criterio equitativo puro ancorato all’esemplificativa indicazione dei criteri sopra richiamati;
   - in linea di principio, anche per evitare il differimento della definizione della controversia, è preferibile che, in sede di liquidazione equitativa del danno, il giudice amministrativo quantifichi l’importo nel suo preciso ammontare (evitando così la fissazione di parametri più o meno determinati o comunque opinabili, la cui applicazione implica ulteriori insorgenze di controversie sulla successiva quantificazione, se del caso, in sede di giudizio d’ottemperanza, pur se nulla vieta la fissazione di un parametro percentuale che possa tenere anche conto dei tassi annui degli interessi legali);
   - nella specie, è equo quantificare il danno subito, per l’occupazione illegittima del fondo protrattasi dal 29.06.2010 al 03.09.2013, in una somma di euro cinquemila, complessivamente determinata al momento di pubblicazione della presente sentenza.
Tale quantificazione si giustifica, alla luce dei criteri suesposti, in considerazione delle seguenti considerazioni:
   - il pregiudizio lamentato è semplicemente quelle relativo alla perdita del mero godimento del bene, non essendone stato (ammissibilmente e fondatamente) allegato uno più specifico;
   - il bene in questione, al momento dell’occupazione e in precedenza, non era adibito ad alcun uso produttivo;
   - il bene occupato non si prestava neppure ad usi di mero svago o diletto, trattandosi, come emerge dal verbale di immissione in possesso, di un fondo sul quale “insistono sterpaglie ed arbusti”;
   - l’occupazione si è protratta per un tempo non eccessivamente lungo ed è stata seguita da una restituzione disposta in sede amministrativa;
   - non rileva in questa sede la dedotta vocazione edificatoria;
   - l’istanza per il rilascio del permesso di costruire non può rilevare quale possibile prova da far valere nel giudizio risarcitorio, non essendovi concreti elementi che inducano a ritenere che vi fosse una reale intenzione di procedere allo sfruttamento delle potenzialità edificatorie del fondo (e d’altra parte non risulta che, dopo la restituzione del terreno, vi siano state iniziative in questo senso).
23. Relativamente al danno asseritamente subito con riferimento alla porzione residua del fondo, ritiene il Collegio che esso non spetti, in ragione di quanto dedotto proprio dal ricorrente, circa la qualificazione del fondo come un “unicum sotto il profilo sia funzionale che economico”, sicché la somma riconosciuta è suscettibile di risarcire tutti gli aspetti patrimonialmente apprezzabili, poiché essi non possono che considerarsi unitariamente.
24. L’importo risarcitorio così liquidato si deve intendere quantificato al valore attuale (ovvero al momento della pubblicazione della sentenza) -secondo il criterio della taxatio rei utilizzabile in tutti i casi di risarcimento del danno da illecito aquiliano, con l’utilizzo dell’equità integrativa di cui all’art. 1226 c.c.– e quindi comprensivo degli accessori quali gli interessi compensativi e la rivalutazione monetaria del debito di valore (Cons. Stato, sez. IV, n. 3105 del 2018; sez. IV, n. 2778 del 2018; sez. IV, n. 2765 del 2018; sez. IV, 5262 del 2017; sez. IV, n. 897 del 2017; sez. IV, n. 4636 del 2016): dalla data di pubblicazione della presente decisione decorreranno, sulla somma così individuata, gli interessi al tasso legale.

ESPROPRIAZIONE - URBANISTICAIn ordine alla qualificazione giuridica della fascia di rispetto, il vincolo imposto sulle aree site in fasce di rispetto stradale o autostradale comporta un divieto assoluto di edificazione che le rende legalmente inedificabili, trattandosi di limitazioni costituzionalmente legittime, in quanto concernenti la generalità dei cittadini proprietari di determinati beni individuati a priori per categoria e localizzazione, espressione del potere conformativo della P.A. di cui all'art. 42 Cost..
Detto vincolo non ha natura espropriativa, né è preordinato all'espropriazione, in base a quanto previsto dagli art. 32, comma 1, e 37, comma 4, del d.p.r. n. 327/2001, e l'indennità di esproprio relativa alla sola fascia di rispetto ablata deve, pertanto, calcolarsi secondo il valore di mercato di terreno non edificabile.
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Deve escludersi qualsiasi incidenza dell'area corrispondente alla fascia di rispetto ablata sulla determinazione della volumetria edificabile del lotto in cui è compresa.
Il vincolo di inedificabilità discende dalla legge, che prevale sulla pianificazione e programmazione urbanistica, è sancito nell'interesse pubblico e non può, perciò, configurarsi come mero "vincolo di distanza".
La connotazione di inedificabilità, che caratterizza ineludibilmente, anche in base alle citate norme del T.U.E., la fascia di rispetto prima dell'assoggettamento alla procedura ablatoria, osta a che se ne possa tenere conto senza quella connotazione ai fini del computo della volumetria edificabile, in unione con la parte non ablata, secondo la disciplina urbanistica, che è sotto-ordinata gerarchicamente alla legge, fonte del vincolo.
Non è, pertanto, condivisibile l'indirizzo, a cui si sono attenuti i Giudici di merito (Cass. n. 5875/2012; Cass. n. 13970/2011), in base al quale anche la superficie della fascia di rispetto deve computarsi nell'individuazione della volumetria edificabile del lotto unitario, in quanto non vi sarebbe interferenza o contrasto tra la qualificazione legale del vincolo e la valutazione dello stesso ai fini urbanistici.
Deve, invece, ritenersi preclusa ogni difformità della seconda rispetto alla prima, e ciò in quanto l'area corrispondente alla fascia di rispetto, a prescindere dall'assoggettamento alla procedura espropriativa, non ha alcuna potenzialità edificatoria in virtù di disposizioni di legge, non derogabili dalla sotto-ordinata regolamentazione urbanistica, come è dato desumere anche dal tenore letterale dell'art. 37, comma 4, d.p.r. 327/2001.
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In tema di determinazione dell’indennità di espropriazione per pubblica utilità, lo spostamento della fascia di rispetto autostradale all’interno dell’area residua rimasta in proprietà degli espropriati, pur traducendosi in un vincolo assoluto di inedificabilità, di per sé non indennizzabile, può rilevare nella determinazione dell’indennizzo dovuto al privato, in applicazione estensiva dell’art.33 d.p.r. n. 327 /2001, per il deprezzamento dell’area residua mediante il computo delle singole perdite ad essa inerenti, qualora risultino alterate le possibilità di utilizzo della stessa ed anche per la perdita di capacità edificatoria realizzabile sulle più ridotte superfici rimaste in proprietà.
Il vincolo imposto sulle aree site in fasce di rispetto stradale o autostradale comporta un divieto assoluto di edificazione che le rende legalmente inedificabili, trattandosi di limitazioni costituzionalmente legittime, in quanto concernenti la generalità dei cittadini proprietari di determinati beni individuati a priori per categoria e localizzazione, espressione del potere conformativo della P.A. di cui all’art. 42 Cost.
La connotazione di inedificabilità, che caratterizza ineludibilmente, anche in base alle citate norme del T.U. Espropriazioni, la fascia di rispetto prima dell’assoggettamento alla procedura ablatoria, osta a che se ne possa tenere conto senza quella qualità ai fini del computo della volumetria edificabile, in unione con la parte non ablata, secondo la disciplina urbanistica, che è sottordinata gerarchicamente alla legge, fonte del vincolo.
Nell’ipotesi di spostamento della fascia di rispetto all’interno dell’area residua di proprietà, concettualmente distinta dall’altra già considerata (ablazione della fascia di rispetto), la corrispondente porzione del bene è edificabile prima dell’imposizione sulla stessa del vincolo legale di inedificabilità conseguente dall’ablazione della fascia di rispetto, mentre diviene inedificabile solo dopo l’esproprio dell’originaria fascia di rispetto, così producendosi, per la “nuova” fascia di rispetto che resta in proprietà, la perdita, e quindi la sostanziale ablazione, di un diritto diverso da quello di proprietà, ossia del diritto di costruire.
Ove si verifichi detta situazione, poiché deve aversi riguardo alla consistenza dell’area ante procedura espropriativa e, in allora, non esisteva il vincolo di inedificabilità su quella porzione di bene, non può assumere rilevanza l’inedificabilità successiva della stessa ai fini dell’applicazione dell’art. 33 d.p.r. n. 327/2001.
Dunque, l’edificabilità originaria di quella porzione consente di valutarne la volumetria edificatoria realizzabile in unione con l’altra parte residua, rimasta in proprietà degli espropriati, così come, peraltro, rimane in proprietà anche la nuova fascia di rispetto
(massima tratta da www.sdanganelli.it).
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1. Con il primo motivo la società ricorrente lamenta «Violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.. Violazione degli artt. 32, 33, 37 e 40 d.p.r. n. 327/2001 del d.p.r. 495/1992 art. 26 del d.lgs. n. 285/1992 art. 6- dell'art. 41-septies l. n. 1150/1941, aggiunto dall'art. 19 l. n. 765/1967 - art. 9 l. n. 729/1961 - D.M. 01.04.1968 art. 4».
La ricorrente deduce che la natura giuridica della fascia di rispetto comporta l'inedificabilità assoluta, come da giurisprudenza di questa Corte che richiama, e di conseguenza trova applicazione l'art. 40 TUE, e non l'art. 33. Sostiene che l'area in fascia di rispetto non possa concorrere al calcolo della superficie edificabile e l'indennità di espropriazione deve liquidarsi in base al valore agricolo del terreno, senza che rilevi il trasferimento della relativa volumetria.
Adduce la ricorrente che la disciplina non può essere derogata dagli strumenti generali di pianificazione e il deprezzamento della parte residua non può essere preso in considerazione perché la fascia di rispetto è un vincolo legale conformativo che cagiona un pregiudizio non indennizzabile. La disposizione legislativa precede e prevale sugli strumenti generali di pianificazione del territorio e la Corte territoriale avrebbe dovuto preliminarmente accertare se la destinazione edificatoria fosse preclusa dalle norme di legge citate in rubrica.
...
6. Il primo motivo è fondato nei limiti di seguito precisati.
Occorre premettere che le articolate censure espresse con il primo motivo di ricorso involgono questioni di diritto in ordine alle quali il Collegio ritiene di disattendere l'istanza dei controricorrenti di rimessione alle Sezioni Unite, trattandosi di tematiche che, pur presentando profili di indubbio rilievo nomofilattico, possono essere decise dalla Sezione semplice mediante interpretazione del contesto normativa in via estensiva e chiarificatrice di principi già affermati da questa Corte, nel senso che sarà illustrato.
Le questioni sottoposte allo scrutinio di questa Corte possono così sintetizzarsi:
   A) qualificazione giuridica della fascia di rispetto e correlata incidenza, in ipotesi di sua ablazione, sul criterio di determinazione dell'indennità di espropriazione e sull'individuazione della volumetria edificabile, ante assoggettamento alla procedura di espropriazione, dell'originario lotto unitario;
   B) rilevanza, in ordine all'individuazione della medesima volumetria edificabile, del solo "spostamento" della fascia di rispetto, nell'ipotesi in cui il vincolo, in conseguenza dell'espropriazione parziale, si sia spostato sull'area contigua, rimasta in proprietà dell'espropriato, venutasi a trovare per effetto dell'espropriazione all'interno della fascia di rispetto, nella quale in precedenza non rientrava.
6.1. In ordine alla qualificazione giuridica della fascia di rispetto, secondo l'orientamento di questa Corte che il Collegio ritiene di condividere, il vincolo imposto sulle aree site in fasce di rispetto stradale o autostradale comporta un divieto assoluto di edificazione che le rende legalmente inedificabili, trattandosi di limitazioni costituzionalmente legittime, in quanto concernenti la generalità dei cittadini proprietari di determinati beni individuati a priori per categoria e localizzazione, espressione del potere conformativo della P.A. di cui all'art. 42 Cost. (tra le tante Cass. n. 14632/2018, n. 13516/2015 e n. 27114/2013).
Detto vincolo non ha natura espropriativa, né è preordinato all'espropriazione, in base a quanto previsto dagli art. 32, comma 1, e 37, comma 4, del d.p.r. n. 327/2001, e l'indennità di esproprio relativa alla sola fascia di rispetto ablata deve, pertanto, calcolarsi secondo il valore di mercato di terreno non edificabile (Cass. 14632/2018 e Cass. n. 5875/2015).
6.2. In ordine alle tematiche, più controverse, che presuppongono la sussistenza, accertata nella specie dalla Corte territoriale, dell'esproprio parziale di bene unitario ai sensi dell'art. 33 d.p.r. n. 327 /2001, ritiene il Collegio che sia condivisibile l'orientamento secondo cui deve escludersi qualsiasi incidenza dell'area corrispondente alla fascia di rispetto ablata sulla determinazione della volumetria edificabile del lotto in cui è compresa (tra le altre Cass. n. 8121/2009 e Cass. n. 26899/2008).
Il vincolo di inedificabilità discende dalla legge, che prevale sulla pianificazione e programmazione urbanistica, è sancito nell'interesse pubblico e non può, perciò, configurarsi come mero "vincolo di distanza" (sulla qualificazione della fascia di rispetto come vincolo di distanza cfr. Cons. Stato n. 2076/2010 e Cass. n. 25118/2018).
La connotazione di inedificabilità, che caratterizza ineludibilmente, anche in base alle citate norme del T.U.E., la fascia di rispetto prima dell'assoggettamento alla procedura ablatoria, osta a che se ne possa tenere conto senza quella connotazione ai fini del computo della volumetria edificabile, in unione con la parte non ablata, secondo la disciplina urbanistica, che è sotto-ordinata gerarchicamente alla legge, fonte del vincolo.
Non è, pertanto, condivisibile l'indirizzo, a cui si sono attenuti i Giudici di merito (Cass. n. 5875/2012; Cass. n. 13970/2011), in base al quale anche la superficie della fascia di rispetto deve computarsi nell'individuazione della volumetria edificabile del lotto unitario, in quanto non vi sarebbe interferenza o contrasto tra la qualificazione legale del vincolo e la valutazione dello stesso ai fini urbanistici.
Deve, invece, ritenersi preclusa ogni difformità della seconda rispetto alla prima, e ciò in quanto l'area corrispondente alla fascia di rispetto, a prescindere dall'assoggettamento alla procedura espropriativa, non ha alcuna potenzialità edificatoria in virtù di disposizioni di legge, non derogabili dalla sotto-ordinata regolamentazione urbanistica, come è dato desumere anche dal tenore letterale dell'art. 37, comma 4, d.p.r. 327/2001.
6.3. A diversa conclusione si deve pervenire nell'ipotesi di spostamento della fascia di rispetto all'interno dell'area residua di proprietà, dovendosi rimarcare la sua dirimente distinzione dall'altra già considerata (ablazione della fascia di rispetto).
Infatti, in ipotesi di spostamento, la corrispondente porzione del bene è edificabile prima dell'imposizione sulla stessa del vincolo legale di inedificabilità conseguente dall'ablazione della fascia di rispetto, mentre diviene inedificabile solo dopo l'esproprio dell'originaria fascia di rispetto, così producendosi, per la "nuova" fascia di rispetto che resta in proprietà, la perdita, e quindi la sostanziale ablazione, di un diritto diverso da quello di proprietà, ossia del diritto di costruire.
In altri termini, come chiarito da questa Corte in precedenti pronunce (Cass. n. 5875/2012 e Cass. n. 23210/2012), il vincolo, in conseguenza dell'espropriazione, può essersi spostato sull'area contigua, rimasta in proprietà del privato, venutasi a trovare per effetto dell'espropriazione all'interno della fascia di rispetto, nella quale in precedenza non rientrava (Cass. n. 13970/2011; n. 6518/2007; n. 14643/2001). Ove si verifichi detta situazione, poiché deve aversi riguardo alla consistenza dell'area ante procedura espropriativa e, in allora, non esisteva il vincolo di inedificabilità su quella porzione di bene, non può assumere rilevanza l'inedificabilità successiva della stessa ai fini dell'applicazione dell'art. 33 d.p.r. n. 327/2001.
Dunque, l'edificabilità originaria di quella porzione consente di valutarne la volumetria edificatoria realizzabile in unione con l'altra parte residua, rimasta in proprietà degli espropriati, così come, peraltro, rimane in proprietà anche la "nuova" fascia di rispetto. Negare rilevanza, nel senso indicato, alla descritta situazione si porrebbe in contrasto con i principi costantemente affermati da questa Corte in tema di espropriazioni per pubblica utilità, anche alla luce delle pronunce della Corte Costituzionale (sentenze n. 348/2007, n. 349/2007 e 181/2011) e della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, secondo i quali non solo il sistema indennitario deve ritenersi improntato al riconoscimento del valore venale del bene ablato, ma l'indennizzo dovuto al proprietario, in base alla disciplina dettata dal citato art. 33, riguarda anche la compromissione o l'alterazione delle possibilità di utilizzazione della restante porzione del bene rimasta nella disponibilità del proprietario stesso, in tutti i casi in cui il distacco di una parte del fondo e l'esecuzione dell'opera pubblica influiscano negativamente sulla proprietà residua, in modo da compensare il pregiudizio arrecato dall'ablazione ad essa (tra le tante Cass. n. 34745/2019).
Con riguardo a detti principi deve orientarsi l'interpretazione dell'art. 33 nella fattispecie in esame, la cui peculiarità risiede nel collegamento funzionale con una parte del fondo non espropriata, ma assoggettata, in diretta dipendenza dall'ablazione della fascia di rispetto, a vincolo assoluto di inedificabilità, e, quindi, alla perdita del diritto di costruire, pur nella permanenza del diritto di proprietà.
In tale ottica interpretativa, può darsi rilevanza, ai fini della configurabilità dell'esproprio parziale, a quel collegamento, a sua volta direttamente funzionale all'espropriazione della proprietà dell'area già in precedenza vincolata in quanto fascia di rispetto. Il fondamento normativa di suddetta ricostruzione si può rinvenire nell'art. 32, comma 1, citato d.p.r., che prescrive di tener conto, nella determinazione del valore del bene ai fini indennitari, anche dell'espropriazione di un diritto diverso da quello di proprietà, e a detta espropriazione è assimilabile l'ipotesi che si sta scrutinando, in cui il proprietario ha perso il diritto di costruire sulla porzione del fondo corrispondente alla "nuova" fascia di rispetto.
In base a detta opzione ermeneutica, estensiva nei termini consentiti dalla specificità del caso, il privato potrà ottenere il deprezzamento dell'area residua non ablata commisurato alla reale perdita o diminuzione di capacità edificatoria di essa.
Detto risultato può essere, infatti, raggiunto, in termini di effettività, solo se la valutazione della capacità edificatoria, da effettuarsi mediante comparazione delle caratteristiche del bene unitario ante e post procedura espropriativa, comprenda, nella ricostruzione della situazione ante procedura ablatoria, l'area della "nuova" fascia di rispetto originariamente edificabile, determinandosi, diversamente opinando, ingiustificata disparità di trattamento rispetto a situazioni con caratteristiche iniziali identiche, quanto alla pregressa destinazione urbanistica dell'area che, all'esito dell'espropriazione, rimane in proprietà.
Resta da precisare, sempre in ragione della specificità del caso, che il criterio di stima differenziale, che comporta la sottrazione all'iniziale valore dell'intero immobile quello della parte rimasta in capo al privato, non è vincolante e può essere sostituito dal criterio che procede al calcolo del deprezzamento della sola parte residua, per poi aggiungerlo alla somma liquidata per la parte espropriata, purché si raggiunga il medesimo risultato di compensare l'intero pregiudizio arrecato dall'ablazione alla proprietà residua (da ultimo Cass. n. 25385/2019 e n. 34745/2019).
Nella specie, poiché la perdita del diritto di costruire sull'area residua corrispondente alla "nuova" fascia di rispetto non è indennizzabile, il giudice di merito potrà accertare e calcolare la diminuzione di valore dell'area residua rimasta in proprietà a seguito dell'avanzamento della fascia di rispetto mediante il computo delle singole perdite ad essa inerenti (Cass. n. 24304/2011).
In altri termini, l'indennizzo eventualmente spettante al proprietario per la perdita di valore dell'area residua dovrà essere calcolato in relazione alla più limitata capacità edificatoria consentita sulla più ridotta superficie rimasta a seguito della creazione o dell'avanzamento della fascia di rispetto (Cass. n. 7195 del 2013).
Sulla scorta delle considerazioni che precedono, il primo motivo va accolto nei limiti indicati, con la cassazione dell'ordinanza impugnata, e i Giudici di merito dovranno attenersi al principio di diritto secondo il quale, in tema di determinazione dell'indennità di espropriazione per pubblica utilità, lo spostamento della fascia di rispetto autostradale all'interno dell'area residua rimasta in proprietà degli espropriati, pur traducendosi in un vincolo assoluto di inedificabilità, di per sé non indennizzabile, può rilevare nella determinazione dell'indennizzo dovuto al privato, in applicazione estensiva dell'art. 33 d.p.r. n. 327 /2001, per il deprezzamento dell'area residua mediante il computo delle singole perdite ad essa inerenti, qualora risultino alterate le possibilità di utilizzo della stessa ed anche per la perdita di capacità edificatoria realizzabile sulle più ridotte superfici rimaste in proprietà (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 30.06.2020 n. 13203).

ESPROPRIAZIONEAi fini della decorrenza del termine d'impugnazione dell'approvazione del progetto di un'opera pubblica, avente valore di dichiarazione di pubblica utilità, non è sufficiente la mera pubblicazione dell'atto ma è necessaria la notifica o, almeno, la piena conoscenza dello stesso, quante volte esso ha effetti specifici e circoscritti all'area da espropriare per l'esecuzione dell'opera e, quindi, è rivolto a soggetti determinati anche se non esplicitamente nominati.
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Da un lato, "non può accedersi all'impostazione secondo cui il più recente provvedimento, nella specie il decreto di esproprio, avrebbe prodotto una sorta di effetto "novativo" dell'intera procedura, con la conseguenza di rimettere l'interessato in termini per l'impugnazione di atti anteriori, già immediatamente lesivi e incontestatamente a lui noti o comunque conoscibili, e tuttavia non censurati a suo tempo nel termine di legge".
Dall’altro, “la dichiarazione di pubblica utilità non può essere considerata un atto meramente preparatorio del procedimento espropriativo e del conclusivo decreto di espropriazione, trattandosi invece di atto presupposto dotato di autonoma lesività e, quindi, da impugnarsi immediatamente, con la conseguenza che la sua mancata tempestiva impugnazione determina la preclusione a dedurre, in sede di impugnativa del decreto di esproprio, motivi attinenti ad asseriti vizi della dichiarazione stessa".
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È ben noto che, ai sensi dell’art. 12, comma 1, lett. a), del d.P.R. n. 327/2001, nella procedura espropriativa, la dichiarazione di pubblica utilità è un effetto che consegue ex lege quando l’Autorità espropriante approva il progetto definitivo dell’opera pubblica, che non richiede una particolare dichiarazione, cosicché il termine quinquennale per la tempestiva adozione del decreto di esproprio inizia a decorrere da tale approvazione.
Né sul punto assume rilevanza la circostanza dell’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento teso ad adottare la disposta proroga, poiché, come è stato osservato in giurisprudenza, "se è pur vero che la proroga dei termini fissati dalla dichiarazione di pubblica utilità richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento, è altrettanto vero che occorre verificare, in concreto, quali avrebbero potuto essere gli apporti partecipativi dei privati e, dunque, un eventuale, diverso contenuto del provvedimento, con ciò evitando che, in assenza di specifiche allegazioni, sia validata una rilevanza meramente formale dell'omissione di comunicazione".
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2.2.- Tanto premesso, con il presente ricorso, la parte ricorrente ha impugnato il suddetto decreto di esproprio, nonché, quali atti precedenti e presupposti, le delibere in epigrafe indicate, concernenti la procedura espropriativa complessivamente considerata.
Osserva il Collegio che le censure dedotte nel gravame sono tuttavia riconducibili non a vizi propri del provvedimento ablativo finale, bensì a pretesi vizi, in tesi inficianti quest’ultimo, derivati dall’illegittimità delle antecedenti delibere comunali n. 26/2013 e n. 10/2015, che, secondo la prospetta impostazione censoria, avrebbero prorogato l’originario termine di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità oltre il limite preclusivo posto dal combinato disposto degli artt. 12 e 13 DPR n. 327/2001.
2.3.- Tenuto conto di quanto appena osservato, con riguardo alla delibera n. 26/2013 del 28.2.2013, il mezzo di gravame all’uopo articolato appare, all’evidenza, tardivamente proposto, essendo stata la predetta delibera richiamata e superata dalla delibera n. 181 del 12/12/2013, non specificamente impugnata dalla ricorrente. Invero, con tale delibera la Giunta Comunale aveva approvato il progetto definitivo relativo alla viabilità ex art. 12, D.P.R. n. 327/2001.
Orbene, il giudice di appello, abbandonando la risalente giurisprudenza (Cons. Stato - Sez. VI, 18.01.2007, n. 86) e pervenendo ad un approdo maggiormente sostanzialistico (ex aliis, Cons. Stato - Sez. IV, 05.06.2013, n. 3112), ha infine affermato che "ai fini della decorrenza del termine d'impugnazione dell'approvazione del progetto di un'opera pubblica, avente valore di dichiarazione di pubblica utilità, non è sufficiente la mera pubblicazione dell'atto ma è necessaria la notifica o, almeno, la piena conoscenza dello stesso, quante volte esso ha effetti specifici e circoscritti all'area da espropriare per l'esecuzione dell'opera e, quindi, è rivolto a soggetti determinati anche se non esplicitamente nominati" (cfr.: Consiglio di Stato - sez. IV, 11/11/2014, n. 5526)
Nella specie, sebbene sia pacifico che non vi sia stata comunicazione personale della delibera recante l’approvazione del progetto definitivo e, quindi, della rinnovata dichiarazione di pubblica utilità, reputa il Collegio, in linea con il riferito orientamento giurisprudenziale, che la decorrenza del termine di proposizione del gravame deve farsi risalire all’esecuzione, avvenuta in data 27.05.2014, del decreto n. 11/2014 di occupazione dei cespiti successivamente espropriati (verdi verbale sottoscritto dal delegato della ricorrente).
A fronte di ciò, la circostanza che parte ricorrente non conoscesse l'esistenza della delibera n. 181/2013 appare irrilevante: se anche fosse vero che non ne fosse venuta formalmente a conoscenza, non è dubbio che ciò avvenne per fatto imputabile a propria autoresponsabilità, nonostante l'amministrazione l’avesse messa in condizione di conoscerla onde, eventualmente, dedurre in modo tempestivo il vizio riguardante la sua asserita tardiva adozione.
Inoltre, deve considerarsi l'effetto di presunzione legale di conoscenza dell'avvio del procedimento di approvazione del progetto definitivo, prodottosi in capo alla ricorrente in conseguenza della pubblicazione del relativo avviso, con le modalità semplificate dell'art. 11, comma 2 e 16, comma 5, del DPR 327/2001 (trattandosi di oltre cinquanta destinatari).
La ricorrente, avuta conoscenza dell'esistenza di una procedura espropriativa in corso e, segnatamente, dell'avvio del procedimento di dichiarazione di pubblica utilità, era senz’altro onerata ad assumere ogni iniziativa per la tempestiva impugnativa dei relativi atti, senza attendere l’adozione del decreto di esproprio, anche in considerazione del fatto che le doglianze articolate in ricorso attengono proprio alla legittimità del procedimento con cui la suddetta dichiarazione era stata prorogata.
Si trattava di una condotta concretamente esigibile e rispondente al principio di buona fede che impone alle parti, anche nella relazione procedimentale, obblighi di informazione e di denuncia tempestivi, la cui omissione determina conseguenze che non possono non ricadere sulle parti medesime, in applicazione del generale principio di auto-responsabilità (cfr. in questo senso il principio di diritto enunciato da Cons. Stato, IV, 11.11.2014, n. 5526).
Infine, corrobora la conclusione cui si è pervenuti il consolidato formante giurisprudenziale, fermo nell’affermare che, da un lato, "non può accedersi all'impostazione secondo cui il più recente provvedimento, nella specie il decreto di esproprio, avrebbe prodotto una sorta di effetto "novativo" dell'intera procedura, con la conseguenza di rimettere l'interessato in termini per l'impugnazione di atti anteriori, già immediatamente lesivi e incontestatamente a lui noti o comunque conoscibili, e tuttavia non censurati a suo tempo nel termine di legge" (Cons. di St., sez. IV, 23.02.2012, n. 981); dall’altro, che “la dichiarazione di pubblica utilità non può essere considerata un atto meramente preparatorio del procedimento espropriativo e del conclusivo decreto di espropriazione, trattandosi invece di atto presupposto dotato di autonoma lesività e, quindi, da impugnarsi immediatamente, con la conseguenza che la sua mancata tempestiva impugnazione determina la preclusione a dedurre, in sede di impugnativa del decreto di esproprio, motivi attinenti ad asseriti vizi della dichiarazione stessa" (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 22.12.2014, n. 6280).
Deve, pertanto, ritenersi che, al momento della proposizione del presente gravame, era oramai decorso il termine decadenziale per l'impugnazione sia della delibera n. 26/2013 del 28.02.2013, sia della delibera n. 181 del 12.12.2013 di approvazione del progetto definitivo.
2.4.- Passando alla disamina della delibera n. 10/2015 del 03.04.2015, il mezzo di gravame si manifesta palesemente infondato, poiché la proroga biennale è stata disposta prima della scadenza quinquennale dell’efficacia della dichiarazione di pubblica utilità disposta con la delibera n. 181/2013 ed il decreto di espropriazione del 21.02.2017, rispetto a tali atti, è stato legittimamente emesso prima della loro scadenza.
È ben noto che, ai sensi dell’art. 12, comma 1, lett. a), del d.P.R. n. 327/2001, nella procedura espropriativa, la dichiarazione di pubblica utilità è un effetto che consegue ex lege quando l’Autorità espropriante approva il progetto definitivo dell’opera pubblica, che non richiede una particolare dichiarazione, cosicché il termine quinquennale per la tempestiva adozione del decreto di esproprio inizia a decorrere da tale approvazione (cfr.: Consiglio di Stato, sez. III, 25/02/2014, n. 906).
Né sul punto assume rilevanza la circostanza dell’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento teso ad adottare la disposta proroga, poiché, come è stato osservato in giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 20.07.2016 n. 3248; id. 09.11.2012 n. 5822), "se è pur vero che la proroga dei termini fissati dalla dichiarazione di pubblica utilità richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento, è altrettanto vero che occorre verificare, in concreto, quali avrebbero potuto essere gli apporti partecipativi dei privati e, dunque, un eventuale, diverso contenuto del provvedimento, con ciò evitando che, in assenza di specifiche allegazioni, sia validata una rilevanza meramente formale dell'omissione di comunicazione" (cfr.: TAR Veneto, sez. II, 19/12/2019, n. 1391).
Nell’odierna fattispecie, la parte ricorrente non ha allegato quale avrebbe potuto essere il proprio apporto procedimentale, limitandosi in proposito ad affermare la sopravvenuta scadenza del termine di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità (argomentazione ut supra confutata) e la generica insussistenza delle ragioni per la proroga.
Pertanto, in parte qua, alla luce delle argomentazioni sopra svolte, il gravame è manifestamente infondato (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 24.06.2020 n. 2573 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEScelta tra azione risarcitoria a fronte di una occupazione sine titulo nell’ambito di un procedimento di espropriazione mai completato e restituzione del bene.
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Risarcimento danni - Espropriazione per pubblica utilità – Occupazione sine titulo – Legittimazione – E’ del proprietario – Rinuncia all’azione di restituzione – Necessità – Rinuncia al diritto di proprietà – Esclusione – Scelta tra restituzione e risarcimento – E’ dell’Amministrazione.
La proposizione dell’azione risarcitoria a fronte di una occupazione sine titulo nell’ambito di un procedimento di espropriazione mai completato è un’opzione spettante al proprietario ed implica rinunzia all’azione di restituzione e non già al diritto di proprietà; peraltro, l’abdicazione all’azione non interferisce con i poteri discrezionali della P.A. di disporne l’acquisizione sanante ex art. 42-bis, con la conseguenza che l’opzione finale tra restituzione e risarcimento resta pur sempre rimessa alla P.A., sia pure nei limiti in cui residua il relativo potere discrezionale, tenuto conto dell’interesse pubblico alla conservazione dell’opera, ove realizzata (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che abrogato l’istituto di matrice giurisprudenziale dell’”accessione invertita”, la richiesta risarcitoria a fronte dell’irreversibile trasformazione del fondo comporterebbe una rinunzia abdicativa al diritto di proprietà (Cons. St., sez. II, 28.11.2019, n. 8119 e 17.05.2019, n. 3195).
Non sono tuttavia mancate perplessità rispetto a tale ricostruzione.
In particolare il Tar Piemonte, con sentenza della I Sez. n. 368 del 28.03.2018, aveva escluso l’ammissibilità di una rinuncia al diritto di (piena) proprietà che avrebbe lasciato il bene privo di proprietario.
Ad avviso del Tar l’opzione per l’azione risarcitoria rappresenta espressione della volontà del proprietario di non avvalersi della tutela restitutoria rispetto al bene illecitamente occupato. Comporta, in altri termini, una rinunzia all’azione di restituzione del bene, nell’ambito di più opzioni alternative, nessuna delle quali prodromica né pregiudiziale all’altra.
Peraltro, se è vero che la richiesta risarcitoria del proprietario dell’area ha valore di rinunzia abdicativa all’azione di restituzione del bene illecitamente occupato (o addirittura, secondo l’orientamento prevalente, alla proprietà stessa) e che-si ribadisce- “la scelta dei rimedi a tutela della proprietà è pur sempre riservata al privato danneggiato” (Cass. civile, sez. I, ord., 08.01.2020, n. 144 su citata), non appare in linea con l’attuale quadro giuridico estenderne gli effetti fino a elidere il potere discrezionale attribuito in via esclusiva all’Ente che ha utilizzato un’area sine titulo di valutarne l’acquisizione in proprietà (in alternativa alla restituzione previa riduzione in pristino dell’opera ivi realizzata), stante la specifica norma di legge (art. 42-bis), perfettamente inquadrabile nella cornice costituzionale dei limiti alla proprietà privata (art. 42 Cost.).
Pertanto, incombe sull’Ente comunale l’obbligo della suddetta valutazione; ove ne deliberasse l’acquisizione in proprietà, sarebbe tenuto a liquidare in favore di parte ricorrente il valore venale del bene al momento dell'emanazione del provvedimento quale indennizzo a fronte del pregiudizio patrimoniale subito (combinato disposto commi 1 e 3 dell’art. 42-bis), nonché –a tenore dello stesso 42-bis, comma 3, ultima parte– un risarcimento del 5% del valore venale stesso, per ogni anno successivo alla scadenza dell’occupazione legittima (avvenuta per decorrenza del termine quinquennale dall’immissione in possesso), a fronte del pregiudizio prodotto dall’occupazione sine titulo; salva la detrazione di quanto eventualmente già corrisposto e subordinando –come per legge- l'effetto traslativo dell’acquisizione sanante all'effettivo pagamento delle somme.
Il risarcimento per il protrarsi dell’occupazione sine titulo –dovuto ex art. 42-bis, comma 3, ultima parte- dovrà essere corrisposto anche nel caso in cui l'Amministrazione optasse per la restituzione del bene (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 30.03.2020 n. 455 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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SENTENZA
2 - Il gravame è fondato e va accolto nei termini che saranno di seguito chiariti, previa reiezione delle eccezioni preliminari.
2.1 - Prendendo le mosse dall’eccezione di inammissibilità per mancata formulazione della domanda di restituzione, deve sinteticamente rimarcarsi che, abrogato l’istituto di matrice giurisprudenziale dell’”accessione invertita”, la richiesta risarcitoria a fronte dell’irreversibile trasformazione del fondo comporterebbe –stando ad un recente ma consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa– una rinunzia abdicativa al diritto di proprietà (cfr., da ultimo, C.d.S., Sez. II, 28.11.2019, n. 8119 e 17.5.2019, n. 3195; in termini, C.d.S., Sez. IV, 26.2.2019 n. 1332; cfr. anche la più risalente decisione dell’Adunanza plenaria n. 2 del 09.02.2016); posizione sulla quale è attestata anche la prevalente giurisprudenza dei Tribunali amministrativi (cfr., tra le molteplici pronunzie, TAR Puglia-Lecce Sez. III, 13/01/2020, n. 19; TAR Campania-Napoli Sez. V, 15/10/2019, n. 4873; TAR Veneto Sez. II, 12/06/2019, n. 691).
Non sono tuttavia mancate perplessità rispetto a tale ricostruzione.
In particolare il Tar Piemonte, con sentenza della prima Sezione n. 368 del 28.03.2018, aveva escluso l’ammissibilità di una rinuncia al diritto di (piena) proprietà che avrebbe lasciato il bene privo di proprietario, osservando quanto segue: “La rinunzia abdicativa non è ammessa in via generale dal nostro ordinamento, non potendo essere desunta in via interpretativa da norme che disciplinano casi specifici di rinunzia, dai quali semmai si dovrebbe ricavare che il legislatore ha voluto ammettere solo figure tipiche di rinunzia. In particolare, dall'analisi delle norme codicistiche che contemplano ipotesi di rinuncia ai diritti reali su cosa altrui è lecito presumere che il legislatore abbia ammesso solo quelle fattispecie di rinunzia abdicativa a diritti immobiliari che non determinano una "vacatio" nella titolarità del bene, con conseguente nullità dei negozi potenzialmente idonei a determinarla e, su tutti, della rinunzia abdicativa al diritto di proprietà immobiliare”.
E la quarta Sezione del Consiglio di Stato, con sentenza n. 4636 del 07.11.2016, aveva altresì stigmatizzato i limiti della ricostruzione stessa, delineando una “rinunzia (abdicativa) sottoposta a condizione risolutiva, il cui mancato inveramento è rappresentato dal provvedimento con il quale l'amministrazione procede all'effettiva liquidazione del danno e che, pertanto, va trascritto anche al fine di conseguire gli effetti dell'acquisizione della proprietà in capo all'amministrazione”.
Ritiene il Collegio che l’opzione per l’azione risarcitoria possa piuttosto rappresentare espressione della volontà del proprietario di non avvalersi della tutela restitutoria rispetto al bene illecitamente occupato. Comporti, in altri termini, una rinunzia all’azione di restituzione del bene, nell’ambito di più opzioni alternative, nessuna delle quali prodromica né pregiudiziale all’altra; ricostruzione questa supportata da un recentissimo orientamento espresso dalla Corte di Cassazione alla stregua del quale “la scelta dei rimedi a tutela della proprietà è pur sempre riservata al privato danneggiato” al quale, in particolare, non può imputarsi “il mancato esperimento del rimedio restitutorio in forma specifica che l’ordinamento interno e internazionale gli accorda per la tutela della proprietà” (cfr.: Cass. civile, Sez. I, ord. 08.01.2020 n. 144).
In ogni caso, per quanto precede, non può rinvenirsi nella fattispecie alcuna preclusione processuale e, pertanto, vanno disattese le prospettazioni sul punto della difesa dell’Amministrazione comunale; ferma restando la diversa questione, di cui si tratterà al punto 3, delle coordinate del potere discrezionale dell’Amministrazione di valutare l’opzione dell’acquisizione sanante, ex art. 42-bis del D.P.R. n. 327/2001 (T.U. Espropri), in alternativa alla restituzione del suolo, previa riduzione in pristino dell’opera.
2.2 - Va, parimenti, respinta l’ulteriore eccezione preliminare, formulata in via subordinata dal Comune resistente, di intervenuta usucapione, avendo la giurisprudenza escluso –tenuto conto dell’istituto dell’”accessione invertita” di creazione pretoria- la valenza ad usucapionem del possesso mantenuto dall’Amministrazione su un bene occupato sine titulo, in ragione del fatto che, a fronte di tale condotta materiale, il proprietario del bene non si vedeva riconosciuta dall'ordinamento, alcuna azione utile per recuperare il possesso del fondo; ciò allo scopo di evitare che, sotto mentite spoglie (per alleviare gli oneri finanziari altrimenti gravanti sull'Amministrazione responsabile), si reintroducesse una forma surrettizia di espropriazione indiretta in violazione dell'art. 1 del Protocollo addizionale della C.E.D.U. (cfr., tra le molteplici pronunzie, TAR Puglia Lecce Sez. I, 17/07/2019, n. 1276; TAR Campania Napoli Sez. V, 03/10/2019, n. 4724; TAR Campania Salerno Sez. II, 11/10/2019, n. 1730; TAR Campania Napoli Sez. V, 15/10/2019, n. 4873; TAR Veneto Venezia Sez. II, 12/06/2019, n. 691; TAR Calabria Catanzaro Sez. II, 16/05/2019, n. 981).
Sul punto si era già espressa l’Adunanza plenaria nel 2016, con la stessa decisione n. 2 su richiamata, statuendo che l’usucapione potesse compiersi in ipotesi di occupazione sine titulo per fini di pubblica utilità subordinatamente alle seguenti condizioni: “che: - sia effettivamente configurabile il carattere non violento della condotta; - si possa individuare il momento esatto della interversio possesionis; - si faccia decorrere la prescrizione acquisitiva dalla data di entrata in vigore del D.P.R. n. 327/2001 (30.06.2003), per evitare che sotto mentite spoglie (alleviare gli oneri finanziari altrimenti gravanti sull'Amministrazione responsabile), si reintroduca una forma surrettizia di espropriazione indiretta in violazione dell'art. 1 del Protocollo addizionale della Cedu…” (in termini, di recente C.d.S., sez. IV, n. 5703 del 09.05.2019 e C.d.S. Sez. II, n. 8119 dell’08.10.2019).
Del resto, come la prescrizione estintiva non corre a danno del titolare del diritto che non sia nelle condizioni giuridiche di farlo valere, così l’usucapione (quale forma di prescrizione acquisitiva) non è concepibile allorché il proprietario non abbia alcuna facoltà giuridica di rientrare in possesso del bene (C.d.S. Stato, sez. IV, 01.08.2017, n. 3838; C.d.S.., sez. IV, 30.08.2017, n. 4106; C.d.S., sez. IV, 13.08.2019, n. 5703).
3 - Venendo alla pretesa sostanziale, la domanda può trovare accoglimento, nei termini qui di seguito enunciati.
3.1- Come anticipato in fatto, l’area è stata legittimamente occupata in virtù di valida ed efficace dichiarazione di pubblica utilità ma, trasformata irreversibilmente per la realizzazione dell’opera pubblica (Biblioteca comunale), non è mai stata oggetto di un definitivo decreto di esproprio per pubblica utilità.
Parte ricorrente chiede i danni da perdita di proprietà, quantificandoli in €. 331.656,33 quale valore venale del bene o nella “maggiore o minore determinanda somma, oltre interessi e rivalutazione monetaria dalla occupazione del suolo e sino al soddisfo”.
Orbene, deve in proposito rimarcarsi che –come su accennato- le ripetute pronunzie della Corte europea dei diritti dell’uomo hanno determinato la cancellazione dal nostro ordinamento dell’istituto della c.d. “accessione invertita”, ideato e disciplinato dalla giurisprudenza e privo di suggello normativo, rilevandone l’insanabile contrasto con le garanzie di cui la proprietà privata è assistita all’interno della Carta europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e, più precisamente, all’art. 1 del Protocollo n. 1 (prima tra tutte, C.e.d.u., Sez. II, 30.05.2000, Carbonara e Ventura c/ Italia).
Tali pronunzie hanno destabilizzato e mutato il vecchio sistema nazionale assestato sull’elaborazione di principi giurisprudenziali condivisi, sicché oggi la realizzazione di un intervento pubblico su fondo illegittimamente occupato costituisce un mero fatto, inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà, conseguibile in via esclusiva attraverso un formale atto di acquisizione dell’Amministrazione, non anche attraverso atti o comportamenti di tipo rinunziativo o abdicativo (cfr., da ultimo, C.d.S. Sez. IV, 08.09.2015, n. 4193; C.d.S., Sez. IV, 03.09.2014, n. 4479; TAR Sicilia Palermo, Sez. III, 05.06.2015, n. 1317; TAR Sicilia Catania Sez. II, 27.02.2015, n. 615; cfr., in termini, anche questa Sezione, 16.09.2014, n. 1111).
Non può tuttavia dubitarsi che –nel mutato quadro ordinamentale- l’Amministrazione abbia l’obbligo giuridico di far venir meno l’occupazione sine titulo, adeguando la situazione di fatto a quella di diritto. Ed è proprio in tale mutato contesto che si giustifica l’inserimento del richiamato art. 42-bis nel T.U. Espropri, alla stregua del quale l'Autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, valutati gli interessi in conflitto, può –ha dunque la facoltà di- disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un indennizzo (ex art. 42-bis, commi 1 e 3, T.U. Espropri).
Secondo condivisa giurisprudenza, il potere sanante rimesso alla discrezionalità dell’Amministrazione non è mai precluso; neanche in ipotesi di annullamento giurisdizionale di atti della procedura espropriativa. In tali casi (ai quali può evidentemente assimilarsi la fattispecie del mancato perfezionamento della procedura stessa, che viene qui in rilievo), ove il giudice - in applicazione dei principi generali - condannasse sic et simpliciter l’Amministrazione intimata alla restituzione del bene illegittimamente trasformato, il potere sanante stesso risulterebbe eliso dal vincolo del giudicato, con conseguente frustrazione degli obiettivi avuti a riferimento dal legislatore (cfr.: C.d.S., Sez. IV, 16.03.2012, n. 1514; in termini Tar Sicilia, Palermo, Sez. III, 3238/2014 e questo Tar Puglia Bari, Sez. III, n. 1104/2014).
In tali decisioni si è, pertanto, condivisibilmente addivenuti alla conclusione che i principi desumibili dalla norma su citata e le possibilità insite nel principio di atipicità delle pronunce di condanna, ex art. 34 lett. c) c.p.a., impongano una limitazione della condanna stessa all'obbligo generico di provvedere a tenore dell’art. 42-bis T.U. Espropri.
La quarta Sezione del Consiglio di Stato è tornata, a più riprese, sulla questione, ribadendo che “il potere di acquisizione c.d. sanante spetta alla P.A. a titolo originario e autonomo, essendo soggetto esclusivamente alla valutazione comparativa degli interessi imposta dal Legislatore ed esercitabile anche in corso di causa, e finanche in presenza di un giudicato già formato in materia di occupazione sine titulo” (cfr. Sez. IV, 7.7.2015, n. 3363); da ultimo, ha richiamato e ribadito “l’orientamento giurisprudenziale formatosi in materia, secondo cui, dinanzi ad un’occupazione che possa qualificarsi sine titulo, spetta alla pubblica Amministrazione attivarsi affinché venga posto in essere un valido titolo di acquisto dell’area sulla quale l’opera pubblica insiste (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 16.03.2012, n., 1514 e 26.03.2013, n. 1713)” (cfr.: C.d.S. IV Sezione, n. 7334 del 28.10.2019, punto 22).
3.2 - Orbene, l’applicazione dei riportati principi alla fattispecie in esame comporta che, accertata l'assenza di un valido titolo di esproprio nonché la modifica del fondo e la sua utilizzazione, rimanga impregiudicata la discrezionale valutazione in ordine agli interessi in conflitto da parte del Comune resistente, essendo in ultima analisi rimesso all’Ente stesso l’opzione per l’acquisizione dell’area o per la restituzione della stessa.
Se è vero, cioè, che la richiesta risarcitoria del proprietario dell’area –come chiarito al punto 2.1- ha valore di rinunzia abdicativa all’azione di restituzione del bene illecitamente occupato (o addirittura, secondo l’orientamento prevalente, alla proprietà stessa) e che-si ribadisce- “la scelta dei rimedi a tutela della proprietà è pur sempre riservata al privato danneggiato” (cfr. Cass. civile, Sez. I, ord. 08.01.2020 n. 144 su citata), non appare in linea con l’attuale quadro giuridico estenderne gli effetti fino a elidere il potere discrezionale attribuito in via esclusiva all’Ente che ha utilizzato un’area sine titulo di valutarne l’acquisizione in proprietà (in alternativa alla restituzione previa riduzione in pristino dell’opera ivi realizzata), stante la specifica norma di legge (art. 42-bis), perfettamente inquadrabile nella cornice costituzionale dei limiti alla proprietà privata (art. 42 Cost.).
Pertanto, anche nella fattispecie in esame, incombe sull’Ente comunale l’obbligo della suddetta valutazione; ove ne deliberasse l’acquisizione in proprietà, sarebbe tenuto a liquidare in favore di parte ricorrente il valore venale del bene al momento dell'emanazione del provvedimento quale indennizzo a fronte del pregiudizio patrimoniale subito (combinato disposto commi 1 e 3 dell’art. 42-bis), nonché –a tenore dello stesso 42-bis, comma 3, ultima parte– un risarcimento del 5% del valore venale stesso, per ogni anno successivo alla scadenza dell’occupazione legittima (avvenuta per decorrenza del termine quinquennale dall’immissione in possesso), a fronte del pregiudizio prodotto dall’occupazione sine titulo; salva la detrazione di quanto eventualmente già corrisposto e subordinando –come per legge- l'effetto traslativo dell’acquisizione sanante all'effettivo pagamento delle somme.
Il risarcimento per il protrarsi dell’occupazione sine titulo –dovuto, si ribadisce, ex art. 42-bis comma 3, ultima parte- dovrà essere corrisposto anche nel caso in cui l'Amministrazione optasse per la restituzione del bene.
4 - Pertanto, alla luce delle considerazioni che precedono, si condanna l’Amministrazione intimata -ai sensi dell'art. 34, lett. c), c.p.a.– ad operare una valutazione degli interessi pubblici alla cura dei quali è preposta, deliberando -entro e non oltre 120 giorni dalla comunicazione o dalla notificazione della presente decisione- se acquisire l’area ex art. 42-bis T.U. Espropri o restituirla al legittimo proprietario, tenuto conto di due significativi elementi: a) che l’opera pubblica è stata completata; b) che l’Ente proprietario ricorrente ha optato per l’azione risarcitoria.
Le relative determinazioni dovranno essere tempestivamente notificate all’Ente ricorrente e, nel caso dell’acquisizione, anche trascritte presso la Conservatoria dei registri immobiliari a cura dell'Amministrazione procedente, nonché comunicate alla competente Corte dei Conti, ex art. 42-bis comma 7, T.U. Espropri. Si condanna altresì il Comune stesso a corrispondere all’Ente ricorrente –anche in ipotesi di opzione per la restituzione del bene epurato dell’opera pubblica- il risarcimento, ex art. 42-bis comma 3, T.U. espropri, a ristoro del pregiudizio subito in conseguenza del mancato godimento del bene durante il periodo di occupazione illegittima, maggiorato degli interessi legali dall’inizio dell’occupazione illegittima e fino alla regolarizzazione del possesso attraverso l’acquisizione sanante o la restituzione del bene.
Nel calcolo dell’indennizzo per il pregiudizio patrimoniale (ex art. 42-bis, commi 1 e 3, parametrato al valore venale del bene) e nel calcolo del risarcimento (ex art. 42-bis, comma 3, parametrato al 5% annuo del valore venale stesso, mancando qui la prova di una diversa entità del danno), dovrà tenersi conto delle risultanze della consulenza tecnica espletata nel giudizio civile sotto il profilo dell’estensione dell’area occupata e del valore venale della stessa, attualizzato alla data di adozione dell’eventuale provvedimento (di restituzione o acquisizione del bene); consulenza già agli atti di causa e di cui si dispone l’acquisizione al presente giudizio in applicazione del principio di economia processuale (cfr., in termini, il precedente di questa III Sezione n. 1604/2019).
Eventuali contestazioni sul quantum dell’indennizzo complessivo (pregiudizio patrimoniale e risarcimento per occupazione illecita) o del solo risarcimento per occupazione illecita dovranno essere presentate alla Corte di appello competente per territorio, in unico grado, secondo il prevalente orientamento della giurisprudenza (cfr., per tutte, Cass. civ., Sez. Unite. ord., 21.02.2019, n. 5201; C.d.S., Sez. IV, 03.09.2019, n. 6074; C.G.A.S. 11.02.2019, n. 102).

ESPROPRIAZIONE: 1.- Espropriazione per p.u. – provvedimento art. 45 DPR n. 327/2001 – natura ablatoria – va riconosciuta.
   2.- Processo amministrativo – dimidiazione dei termini – art. 119 CPA e art. 23-bis L. n. 1034/1971 – domande risarcitorie – non si applica.
   3.- Processo amministrativo – appello – principio generale della immediata efficacia della disciplina processuale – si applica.
   4.- Processo amministrativo – errore scusabile – riconoscibilità – limiti.

   1. Il provvedimento a suo tempo disciplinato dall’art. 43 del D.P.R. n. 327 del 2001 (sostituito dall’art. 42-bis con l’articolo 34, comma 1, del d.l. 06.07.2011, n. 98, convertito con modificazioni nella legge 15.07.2011, n. 111, dopo la sua dichiarazione di incostituzionalità per eccesso di delega) ha natura ablatoria ed è assimilabile a un provvedimento espropriativo, assorbendo in sé, uno actu, sia la dichiarazione di pubblica utilità che il decreto di espropriocosicché in tale ambito trova applicazione la dimidiazione dei termini di cui all'art. 119 c.p.a. e, precedentemente, all'art. 23-bis della legge n. 1034 del 1971.
La dimidiazione dei termini, in passato riconducibile al disposto dell’art. 23-bis, non riguarda le domande risarcitorie autonome, nelle quali non si mira a demolire i provvedimenti adottati nell’ambito della procedura di esproprio ma si lamenta il danno derivante dalla loro esecuzione: l’oggetto del giudizio risarcitorio non rientra dunque tra quelli tassativamente enumerati al comma 1 dell’art. 23, le cui disposizioni acceleratorie -nella misura in cui derogano incisivamente all’ordinario regime processuale- risultano di stretta interpretazione e non possono essere applicate estensivamente al di fuori delle ipotesi nominate che il Legislatore ha ritenuto di individuare.
   2. Secondo il principio generale dell’immediata efficacia della disciplina processuale, l’appello al Consiglio di Stato è regolato dalle norme in vigore al momento della proposizione del gravame.
   3. Per l’orientamento più rigoristico, ai fini del riconoscimento dell’errore scusabile è irrilevante il comportamento processuale delle controparti e la stessa condotta processuale tenuta dal giudice nel corso del giudizio di primo grado, trattandosi di evenienza che non esclude ex se la doverosa applicazione del rito (ordinario o speciale), effettivamente stabilito dalla legge.
   4. L’atto c.d. di cessione bonaria -ossia di cessione volontaria del bene espropriando con la corresponsione di prezzo non superiore al 50% dell’indennità provvisoria di espropriazione-, come previsto dall’art. 12 della legge 22.10.1971, n. 865, non deve rivestire forme diverse e particolari rispetto a quelle in generale richieste per ogni contratto di compravendita (art. 1350 C.C.). E’ quindi condizione essenziale e sufficiente di validità dell’atto traslativo della proprietà la sola forma scritta ad substantiam, e tale validità deve essere riconosciuta anche ad una scrittura privata, quando -come nel caso di specie- essa non sia stata disconosciuta, contestandosene la sottoscrizione o la provenienza mediante proposizione di querela di falso, ai sensi dell’art. 2702 cod. civ..
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Sotto tale aspetto, l’eventuale riproduzione nella forma di atto pubblico di un contratto con effetto traslativo della proprietà già perfezionato con scrittura privata non può conferire alla seconda effetti meramente obbligatori.
La successiva stipulazione, in forma di atto pubblico, di un contratto di vendita definitivamente concluso dalle parti mediante scrittura privata, -secondo la giurisprudenza civile- non vale a trasformare quest'ultimo in una promessa bilaterale di futuro contratto, giacché la successiva redazione dell'atto pubblico assolve una funzione meramente riproduttiva degli estremi del negozio, al fine di potere adempiere al sistema di pubblicità previsto dalla legge.
In altri termini, qualora la compravendita di un immobile venga conclusa con scrittura privata, l'obbligo delle parti di addivenire in un secondo tempo alla stipulazione dell'atto pubblico di compravendita non converte il negozio definitivo concluso in un negozio preliminare, poiché, in tale ipotesi, la successiva stipulazione formale risponde all'esigenza di provvedere alla trascrizione del trasferimento della proprietà, ai fini della sua opponibilità ai terzi, e non implica perciò una nuova effettiva manifestazione di volontà, ma solo la ripetizione, per fini formali, del consenso già validamente prestato.
La idoneità di una scrittura privata a perfezionare una cessione volontaria, ai sensi dell’art. 12 della legge n. 865/1971, non è esclusa dalla peculiarità di questo accordo (pur se denominato dalle parti come contratto), come individuata dalla legge (cfr., l’art. 11 della legge n. 241 del 1990).
Per la giurisprudenza civile tale accordo ha alcuni elementi “costitutivi, indispensabili a differenziarla dal contratto di compravendita di diritto comune”: “a) l'inserimento del negozio nell'ambito di un procedimento di espropriazione per pubblica utilità, nel cui contesto la cessione assolve alla peculiare funzione dell'acquisizione del bene da parte dell'espropriante, quale strumento alternativo all'ablazione d'autorità; b) la preesistenza non solo di una dichiarazione di pubblica utilità ancora efficace, ma anche di un subprocedimento di determinazione dell'indennità e delle relative offerta ed accettazione, con la sequenza e le modalità previste dall'art. 12 l. 22.10.1971 n. 865; c) il prezzo di trasferimento volontario correlato ai parametri di legge stabiliti, inderogabilmente, per la determinazione dell'indennità di espropriazione".
Peraltro è ben evidente la differenza tra un accordo preliminare di cessione bonaria, inteso quale species del genus del contratto preliminare, e un accordo di cessione bonaria, costituente contratto con efficacia traslativa, poiché il primo impegna le parti a prestare in un momento successivo il consenso al trasferimento del bene, mentre il secondo realizza il trasferimento stesso “contestualmente o a decorrere da un momento successivo”, “senza necessità di ulteriori manifestazioni di volontà" (massima free tratta da www.giustamm.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16.03.2020 n. 1888 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ESPROPRIAZIONEPer l’Ad. plen. il giudicato che obbliga la p.a. a restituire il bene occupato senza titolo non preclude l’imposizione di una servitù ex art. 42-bis TUEs.
Secondo l’Adunanza plenaria l’art. 42-bis del d.P.R. 08.06.2001, n. 327, recante il Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità, si applica a tutte le ipotesi in cui un bene immobile sia occupato dalla p.a. per scopi di interesse pubblico, quale che sia la ragione che abbia determinato l’assenza di titolo che legittima alla disponibilità del bene, e il giudicato avente ad oggetto l’obbligo di restituire un’area al proprietario da parte dell’amministrazione occupante sine titulo non preclude all’amministrazione di emanare un atto di imposizione di una servitù, ai sensi dello stesso art. 42-bis.
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Espropriazione per pubblico interesse – Atto di acquisizione – Assenza di titolo che legittima disponibilità del bene – Applicabilità
  
Espropriazione per pubblico interesse – Atto di acquisizione recante imposizione di servitù – Giudicato restitutorio – Ammissibilità
  
L’art. 42-bis del DPR 08.06.2001 n. 327 si applica a tutte le ipotesi in cui un bene immobile altrui sia utilizzato e modificato dall’amministrazione per scopi di interesse pubblico, in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, e dunque quale che sia la ragione che abbia determinato l’assenza di titolo che legittima alla disponibilità del bene (1).
  
Il giudicato restitutorio (amministrativo o civile), inerente all’obbligo di restituire un’area al proprietario da parte dell’Amministrazione occupante sine titulo, non preclude l’emanazione di un atto di imposizione di una servitù, in esercizio del potere ex art. 42-bis, comma 6, DPR 08.06.2001 n. 327, poiché questo presuppone il mantenimento del diritto di proprietà in capo al suo titolare (2).
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   (1, 2) I. – Con la sentenza in rassegna, l’Adunanza plenaria ha ritenuto che la disciplina dall’art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001 si applica a tutte le ipotesi in cui un bene immobile altrui sia utilizzato e modificato dall’amministrazione per scopi di interesse pubblico e, quindi, qualunque sia la ragione che abbia determinato l’assenza di titolo che legittima alla disponibilità del bene. Il collegio ha inoltre precisato che il giudicato restitutorio, con cui viene fissato l’obbligo di restituire un’area al proprietario da parte dell’amministrazione occupante senza titolo, non preclude l’emanazione di un atto di imposizione di una servitù, adottato in base alla medesima norma.
   II. – La quarta sezione del Consiglio di Stato con ordinanza 15.07.2019, n. 4950 (oggetto della News US n. 100 del 10.09.2019), aveva formulato all’adunanza plenaria i seguenti quesiti:
a) se il giudicato civile, sull’obbligo di restituire un’area al proprietario da parte dell’Amministrazione occupante sine titulo, precluda o meno l’emanazione di un atto di imposizione di una servitù di passaggio, col mantenimento del diritto di proprietà in capo al suo titolare;
b) se la formazione del giudicato interno -sulla statuizione del TAR per cui il giudicato civile consente l’attivazione di un ordinario procedimento espropriativo– imponga nella specie di affermare che sussiste anche il potere dell’Amministrazione di imporre la servitù di passaggio ex art. 42-bis, comma 6;
c) se la preclusione del ‘giudicato restitutorio’ sussista anche quando la sentenza (nella specie, del giudice civile) non abbia espressamente precluso l’esercizio dei poteri previsti dall’art. 42-bis per adeguare lo stato di fatto a quello di diritto;
d) se la preclusione del ‘giudicato restitutorio’ sussista solo in relazione ai giudicati formatisi dopo la pubblicazione della sentenza della Adunanza Plenaria n. 2 del 2016, ovvero anche in relazione ai giudicati formatisi in precedenza
”.
   III. – Con la sentenza in rassegna, il collegio, dopo aver esaminato la vicenda processuale sottesa, ha osservato quanto segue:
      a) l’esame dei quesiti proposti dalla sezione remittente richiede di verificare l’applicabilità dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327 del 2001 anche al di fuori dei casi in cui vi sia stato un procedimento espropriativo e questo non si sia concluso o si sia concluso con un provvedimento poi annullato dal giudice amministrativo. L’Adunanza plenaria ritiene che la disposizione trovi applicazione in tutti i casi in cui un bene immobile altrui sia nella disponibilità e sia stato utilizzato dall’amministrazione pubblica per finalità di pubblico interesse, pur in assenza di titolo;
      b) sotto un profilo testuale;
         b1) ai sensi del citato art. 42-bis “1. Valutati gli interessi in conflitto, l'autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, quest'ultimo forfetariamente liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene. 2. Il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche quando sia stato annullato l'atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all'esproprio, l'atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di un'opera o il decreto di esproprio. Il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche durante la pendenza di un giudizio per l'annullamento degli atti di cui al primo periodo del presente comma, se l'amministrazione che ha adottato l'atto impugnato lo ritira…(Omissis)… 6. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano, in quanto compatibili, anche quando è imposta una servitù e il bene continua a essere utilizzato dal proprietario o dal titolare di un altro diritto reale; in tal caso l'autorità amministrativa, con oneri a carico dei soggetti beneficiari, può procedere all'eventuale acquisizione del diritto di servitù al patrimonio dei soggetti, privati o pubblici, titolari di concessioni, autorizzazioni o licenze o che svolgono servizi di interesse pubblico nei settori dei trasporti, telecomunicazioni, acqua o energia….”;
         b2) la formulazione della disposizione induce a ritenere che la stessa, lungi dal poter trovare applicazione nei soli casi in cui la p.a. agisca nella sua veste di autorità, sia pure senza valido titolo, deve essere invece intesa come una disposizione di chiusura del sistema;
         b3) argomentando dal primo comma dell’articolo in esame può ritenersi che esso trovi possibile applicazione in tutti i casi in cui un bene immobile, che si trovi nella disponibilità dell’amministrazione, sia stato da questa utilizzato e, dunque, modificato nella sua consistenza materiale, per finalità di pubblico interesse, finalità che denota l’agire dell’amministrazione quale pubblica autorità;
         b4) il primo comma dell’art. 42-bis, infatti, rende possibile l’esercizio del potere nel caso in cui sussistano due presupposti: l’avvenuta modifica del bene immobile e la sua utilizzazione per scopi di interesse pubblico, senza che assumano alcun rilievo le circostanze che hanno condotto alla occupazione senza titolo e la riconducibilità di tali circostanze a vicende di natura privatistica o pubblicistica;
         b5) nello stesso senso, il secondo comma non restringe l’ambito di applicazione della norma ai casi connessi all’esercizio di un potere amministrativo, ma afferma che il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche quando siano stati annullati l’atto di vincolo preordinato all’esproprio, l’atto di dichiarazione della pubblica utilità dell’opera ovvero il decreto di espropriazione. L’utilizzo della locuzione “anche” esclude una applicazione della norma limitata ai soli casi di illegittimo esercizio in concreto del potere amministrativo;
         b6) il quarto comma, nel descrivere il contenuto del provvedimento di acquisizione, impone, tra l’altro, che questo debba indicare le circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell’area e se possibile la data dalla quale essa ha avuto inizio, senza limitare tale indicazione a una o più specifiche forme di indebita utilizzazione;
         b7) la natura di norma di chiusura propria della disposizione rende evidente la finalità di ricondurre nell’alveo legale del sistema tutte le situazioni in cui l’amministrazione, quale che ne sia la causa, si trovi ad avere utilizzato la proprietà privata per ragioni di pubblico interesse, ma in difetto di un valido titolo legittimante;
         b8) ne discende che la disposizione è applicabile anche quando il difetto di titolo si manifesti per intervenuta declaratoria di nullità o per annullamento del contratto di vendita;
      c) in base ad un inquadramento logico-sistematico della disposizione medesima, nell’ambito di una più generale riflessione sull’attività amministrativa e sugli strumenti ad essa inerenti;
         c1) l’attività della pubblica amministrazione risulta costantemente funzionalizzata alla cura, tutela, perseguimento dell’interesse pubblico, sia che a tali fini vengano esercitati poteri pubblicistici ad essa conferiti sia che vengano utilizzati strumenti propri del diritto privato, in un contesto generale già delineato attraverso l’esercizio di potestà pubbliche. Tale affermazione trova riscontro nell’art. 1 della l. 7 agosto 1990, n. 241, che, nell’enunciare i principi generali dell’attività amministrativa, prevede che la stessa si effettui sia mediante l’esercizio di poteri autoritativi, sia ricorrendo ad istituti di diritto privato;
         c2) “l’azione amministrativa che si concretizza nell’emanazione di provvedimenti amministrativi, ovvero quella che si svolge, in forma paritetica, attraverso la sottoscrizione di accordi con i soggetti privati (art. 11 l. n. 241/1990, in particolare attraverso gli accordi sostitutivi di provvedimento), così come la stessa azione che utilizza direttamente strumenti disciplinati dal diritto privato (in specie, contratti), partecipa dell’unica (ed unificante) ragione di interesse pubblico, che la sorregge e giustifica, rappresentandone la causa in senso giuridico”;
         c3) mentre nelle prime due ipotesi le finalità di pubblico interesse sono implicite nello stesso ricorso ad atti tipici, quali il provvedimento o l’accordo procedimentale o sostitutivo, nella terza ipotesi il ricorso ad atti di diritto privato in tanto può essere ricondotto all’ambito di un’azione amministrativa funzionalizzata, in quanto esso si iscriva, anche in base al principio di legalità dell’azione amministrativa, in un contesto di finalità di interesse pubblico, previamente definito mediante l’esercizio dei poteri all’uopo occorrenti e obiettivamente accertabile;
         c4) muovendo da tale generale immanenza dell’interesse pubblico, la giurisprudenza amministrativa ha variamente affermato la irriducibilità degli accordi di cui all’art. 11 della l. n. 241 del 1990 a meri strumenti di matrice civilistica;
         c5) nei casi di contratto ad oggetto pubblico, infatti, l’amministrazione mantiene comunque la sua tradizionale posizione di supremazia; tali contratti non sono disciplinati dalle regole proprie del diritto privato, ma solo dai principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti, in quanto compatibili e salvo che non sia diversamente disposto;
         c6) alle ipotesi costituite da accordi sostitutivi di provvedimento tra amministrazione e privato, ben possono affiancarsi le ipotesi in cui l’amministrazione stipuli contratti di diritto privato in un quadro che risulta già delineato dal precedente esercizio di poteri pubblici, sui quali si è già provveduto a individuare le finalità di pubblico interesse da perseguire;
         c7) la finalità di pubblico interesse determina diversamente il contenuto dei c.d. contratti ad oggetto pubblico rispetto ai c.d. contratti ad evidenza pubblica. Nei primi la predetta finalità non costituisce un elemento esterno al contratto, ma conforma il contratto medesimo e, in particolare, la sua causa e il suo oggetto.
Nei secondi, una volta scelto il contraente, il contratto stipulato non rifluisce immediatamente nella più generale disciplina civilistica, in considerazione della presenza di una disciplina speciale che normalmente assiste il momento genetico e quello funzionale del contratto e che non può che giustificarsi se non in ragione della particolare natura dello stesso, ovvero dall’essere la causa e l’oggetto del contratto differentemente conformati, in ragione delle finalità di interesse pubblico perseguite con il contratto e dunque con l’adempimento delle obbligazioni assunte per il tramite delle rispettive prestazioni;
         c8) in definitiva, nei casi in cui la pubblica amministrazione decida di perseguire la finalità di pubblico interesse ricorrendo a ordinari modelli privatistici, la predetta finalità resta immanente al contratto e al rapporto così posto in essere;
         c9) di conseguenza, laddove la finalità di pubblico interesse non risulti essere perseguita o perseguibile per il tramite del contratto, non può escludersi, in generale, che l’amministrazione possa intervenire sul rapporto insorto ovvero sulle conseguenze di fatto di un rapporto comunque cessato per il tramite dell’esercizio di poteri pubblicistici;
         c10) la pluralità delle modalità di scansione dell’attività amministrativa funzionalizzata non consente una divaricazione netta tra attività privata e pubblica, con la conseguenza che il citato art. 42-bis ben può trovare applicazione anche nei casi di utilizzazione del bene senza titolo, non ostando a ciò la sussistenza di un rapporto svoltosi sotto l’egida del diritto privato;
         c11) tale conclusione è ulteriormente confermata dal fatto che: per un verso non sussistono particolari dubbi sull’applicabilità della disposizione alle ipotesi di utilizzazione del bene per effetto di contratto di cessione volontaria successivamente dichiarato nullo o annullato; per altro verso, se la disposizione è applicabile ai casi di c.d. occupazione usurpativa, e, dunque, nelle ipotesi in cui l’utilizzazione del bene immobile si configura illecito ab initio, a maggior ragione potrà trovare applicazione la norma laddove il preesistente rapporto tra privati si connette ad un contratto di vendita dichiarato nullo o annullato cioè ad un titolo astrattamente valido a disporre il trasferimento del bene;
         c12) nel caso di specie, il contratto di vendita riguardava un terreno mediante il quale sono state attuate le previsioni del vigente programma di fabbricazione e il contratto aveva sostanzialmente natura di accordo di cessione del bene espropriando, attuativo dello strumento urbanistico con la dichiarata volontà dell’allora proprietario.
A prescindere dalla possibilità di qualificarlo come accordo di cessione, il contratto si configura, pertanto, come uno strumento attuativo di finalità di pubblico interesse definite dall’atto di pianificazione urbanistica adottato in esercizio del relativo potere. L’art. 42-bis, pertanto, potrò trovare applicazione anche nei casi in cui l’amministrazione perda la disponibilità del bene per vicende inerenti alla validità ed efficacia del contratto di vendita;
      d) in relazione all’ulteriore quesito proposto, il giudicato civile non preclude l’emanazione di un atto di imposizione di una servitù di passaggio, con mantenimento del diritto di proprietà in capo al suo titolare, anche nel caso in cui la sentenza non abbia espressamente vietato l’esercizio dei poteri previsti dall’art. 42-bis;
         d1) la Corte costituzionale con sentenza 30.04.2015, n. 71 (in Foro it., 2015, 9, 1, 2629; Urbanistica e appalti, 2015, 6, 644; Urbanistica e appalti, 2015, 7, 767, con note di ARTARIA, BARILA'; Quotidiano Giuridico, 2015, con nota di SALVATO), ha osservato che la disposizione in esame ha reintrodotto la possibilità, per l’amministrazione che utilizza senza titolo un bene privato per scopi di interesse pubblico, di evitarne la restituzione al proprietario, attraverso un atto di acquisizione coattiva al proprio patrimonio indisponibile; tale atto, sostituendo il procedimento ablativo ordinario, costituisce una sorta di procedimento espropriativo semplificato e si differenzia dal modello previsto dall’art. 43 TUEs perché non produce alcun effetto di sanatoria. Mentre l’art. 43 prevedeva un generalizzato potere di sanatoria, attribuito alla stessa amministrazione che aveva commesso l’illecito, anche in deroga a un giudicato che avesse disposto il ristoro in forma specifica del diritto di proprietà violato, l’art. 42-bis consente l’acquisto della proprietà solo con effetto ex nunc al momento dell’emanazione del decreto di acquisizione;
         d2) l’Adunanza plenaria, con sentenza 09.02.2016, n. 2 (in Foro it., 2016, III, 185, con note di BARILÀ, PARDOLESI; Corr. giur., 2016, 4, 498, con nota di CARBONE; Giur. it., 2016, 5, 1212, con nota di URBANI; Urbanistica e appalti, 2016, 7, 803, con nota di GISONDI), ha affermato, tra l’altro, che: l’art. 42-bis introduce un procedimento ablatorio sui generis caratterizzato da una precisa base legale, semplificato nella struttura, complesso negli effetti, il cui scopo non è quello di sanatoria di un precedente illegittimo comportamento perpetrato dall’amministrazione, ma quello di soddisfare esigenze pubbliche, redimibili esclusivamente attraverso il mantenimento e la gestione di qualsiasi opera dell’infrastruttura realizzata senza titolo; un elemento caratterizzante dell’istituto è rappresentato dalla impossibilità che l’amministrazione emani il provvedimento di acquisizione in presenza di un giudicato che abbia disposto la restituzione del bene al proprietario (giudicato che può intervenire anche in sede di ottemperanza); sorge l’effetto inibitorio collegato al giudicato nel caso in cui lo stesso giudicato disponga espressamente la restituzione del bene; nel caso in cui il giudicato si presenti, per effetto dell’assenza di una domanda reipersecutoria, come puramente cassatorio, per scelta del proprietario, non si produrrebbe l’effetto inibitorio dell’emanazione del provvedimento ex art. 42-bis; se nonostante la proposizione di domanda restitutoria, per ragioni processuali, il giudicato continua a non recare la statuizione restitutoria, l’amministrazione potrà comunque emanare il provvedimento previsto dall’art. 42-bis non sussistendo la preclusione inibente richiamata;
         d3) in base ai principi desumibili dalle citate sentenze può affermarsi che: da un lato, “perché possa prodursi l’effetto preclusivo derivante dal giudicato restitutorio, occorre che la sentenza preveda espressamente, in accoglimento di una specifica domanda avanzata in tal senso dal ricorrente o dall’attore, la condanna dell’amministrazione alla restituzione del bene”; dall’altro lato “l’effetto preclusivo, in quanto derivante, come si è detto, da una espressa condanna alla restituzione del bene, si realizza con riguardo al provvedimento ex art. 42-bis, co. 2, comportante l’acquisizione dello stesso alla proprietà pubblica (in particolare, al patrimonio indisponibile della medesima) e non può, quindi, inibire anche l’adozione del diverso provvedimento di imposizione di servitù, di cui al successivo comma 6”;
         d4) la sentenza coperta da giudicato in senso sostanziale, ai sensi dell’art. 2909 c.c., fa stato fra le parti, i loro eredi ed aventi causa, nei limiti oggettivi costituiti dai suoi elementi costitutivi, ovvero il titolo della stessa azione e il bene che ne forma oggetto;
         d5) nel caso in cui l’oggetto del petitum sia il recupero del bene alla piena proprietà e disponibilità del soggetto privato originariamente proprietario, non rientra nell’ambito oggettivo del giudicato un provvedimento che, senza incidere sulla titolarità del bene, imponga sullo stesso ex novo una servitù, trattandosi di ipotesi diversa da quella inibita dal giudicato e assolutamente coerente con il mantenimento della proprietà in capo al privato;
         d6) pertanto, il giudicato restitutorio non preclude l’emanazione di un atto di imposizione di una servitù di passaggio sull’area in questione che presuppone il mantenimento del diritto di proprietà in capo al suo titolare;
         d7) il citato sesto comma dell’art. 42-bis non deve essere interpretato nel ristretto senso di consentire all’amministrazione l’emanazione di un provvedimento solo quanto è stata imposta una servitù, poi venuta meno. Deve invece ritenersi che, una volta venuto meno il titolo di proprietà del bene, la pubblica amministrazione, alla quale è riconosciuto il potere di avvalersi della disposizione, in considerazione di quanto modificato sul bene appreso per la realizzazione dell’opera pubblica, può limitare l’esercizio del potere e, quindi, procedere con limitazioni parziali delle facoltà o dei poteri connessi al diritto reale del privato e dunque emanare decreti di imposizione di servitù, in luogo della piena acquisizione del bene medesimo con corrispondente perdita dell’altrui diritto di proprietà;
      e) la risposta fornita al precedente quesito rende superfluo l’esame degli ulteriori quesiti proposti.
   IV. – Per completezza si segnala quanto segue:
      f) per un inquadramento generale della tematica, con particolare riferimento alla rinuncia abdicativa, si vedano la News US, n. 15 del 03.02.2020 (a Cons. Stato, Ad. plen., 20.01.2020, n. 2) e la News US, n. 16 del 03.02.2020 (a Cons. Stato, Ad. plen., 20.01.2020, n. 4);
      g) sul rapporto tra giudicato restitutorio e provvedimento ex art. 42-bis TUEs, si veda, in particolare, Cons. Stato, Ad. plen., 09.02.2016, n. 2, cit., secondo cui, tra l’altro:
         g1) “l'art. 42-bis del D.P.R. 08.06.2001, n. 327 (T.U. espropriazione per p.u.). configura un procedimento ablatorio sui generis, caratterizzato da una precisa base legale, semplificato nella struttura (uno actu perficitur), complesso negli effetti (che si producono sempre e comunque ex nunc), il cui scopo non è (e non può essere) quello di sanatoria di un precedente illecito perpetrato dall'Amministrazione (perché altrimenti integrerebbe una espropriazione indiretta per ciò solo vietata), bensì quello autonomo, rispetto alle ragioni che hanno ispirato la pregressa occupazione contra ius, consistente nella soddisfazione di imperiose esigenze pubbliche, redimibili esclusivamente attraverso il mantenimento e la gestione di qualsiasi opera dell'infrastruttura realizzata sine titulo. Un tale obiettivo istituzionale, inoltre, deve emergere necessariamente da un percorso motivazionale -rafforzato, stringente e assistito da garanzie partecipative rigorose- basato sull'emersione di ragioni attuali ed eccezionali che dimostrino in modo chiaro che l'apprensione coattiva si pone come extrema ratio”;
         g2) “deve escludersi la formazione di un giudicato restitutorio allorché il proprietario non proponga una rituale domanda di condanna dell'amministrazione alla restituzione previa rimessione in pristino dell'area occupata oppure ove il giudice non si pronunci o si pronunci in modo insoddisfacente su tale domanda”;
         g3) “l’Amministrazione non può emanare il provvedimento di acquisizione, ex art. 42-bis del D.P.R. n. 327/2001, in presenza di un giudicato che abbia disposto la restituzione del bene al proprietario; tale elemento si desume implicitamente dalla previsione del comma 2 dello stesso art. 42-bis nella parte in cui consente all'autorità di adottare il provvedimento durante la pendenza del giudizio avente ad oggetto l'annullamento della procedura ablatoria (ovvero nel corso del successivo eventuale giudizio di ottemperanza), ma non oltre, e quindi dopo che si sia formato un eventuale giudicato non soltanto cassatorio ma anche esplicitamente restitutorio”;
         g4) “il provvedimento di acquisizione, previsto dall'art. 42-bis del D.P.R. 08.06.2001, n. 327, non può essere emanato dal commissario ad acta in sede di esecuzione della sentenza che preveda esclusivamente la restituzione del bene utilizzato senza titolo dall'amministrazione; può invece essere emanato dal commissario in sede di esecuzione della sentenza di mero annullamento di atti del procedimento di espropriazione, o di sentenza che preveda espressamente tale possibilità di acquisizione o, ancora, di sentenza che abbia accertato il silenzio dell'amministrazione sulla istanza di acquisizione proposta dal privato interessato”;
      h) sugli orientamenti espressi dal giudice civile in relazione alla tematica esaminata dall’Adunanza plenaria, si vedano, tra le altre:
         h1) Cass. civ., sez. II, 04.11.2019, n. 28271, secondo cui “la servitù di elettrodotto acquistata per usucapione ha natura di servitù volontaria, pur in presenza dei presupposti per l'imposizione coattiva del vincolo, in quanto estranea all'attuazione di un potere autoritativo o di un dovere legalmente imposto a servitù, essendo nata non secondo il volere coatto o contro il volere del soggetto passivo, ma indipendentemente da esso, in forza della conversione di una situazione di fatto in una situazione di diritto”;
         h2) Cass. civ., sez. I; 17.10.2019, n. 26437, secondo cui “l'ammontare dell'indennità dovuta in conseguenza della imposizione di una servitù, necessaria per la realizzazione di linee ferroviarie, deve essere determinato con riferimento alla data del decreto di asservimento e non a quella di imposizione del vincolo preordinato all'esecuzione dell'opera, in analogia con quanto previsto in materia di indennità di espropriazione”;
         h3) Cass. civ., sez. I, 19.06.2019, n. 16495, secondo cui “l'indennità di asservimento, prevista dall'art. 44 d.p.r. n. 327 del 2001, deve essere determinata riducendo proporzionalmente l'indennità corrispondente al valore venale del bene, in ragione della minore compressione del diritto reale determinata dall'asservimento rispetto all'espropriazione; ne consegue l'inapplicabilità dell'art. 1038, 1° comma, c.c. che, in riferimento alla diversa fattispecie delle servitù di acquedotto e scarico coattivo, commisura l'indennità dovuta al proprietario del fondo servente all'intero valore venale del terreno occupato, in quanto, da un lato, la sua applicabilità in materia di opere pubbliche è preclusa dall'operatività della disciplina speciale dettata in materia di espropriazione e, dall'altro, essa presuppone che il proprietario del fondo servente perda la disponibilità della parte di terreno da occupare per la costruzione dell'acquedotto”;
         h4) Cass. civ., sez. I, 27.06.2018, n. 16979, secondo cui “il comportamento del proprietario di un fondo, il quale, nel lottizzarlo, metta volontariamente e con carattere di continuità una striscia di terreno a disposizione della collettività, assoggettandola al relativo uso pedonale e carrabile, rende applicabile l'istituto della c.d. dicatio ad patriam, quale modo di costituzione di una servitù; ne deriva che la successiva esecuzione, da parte del comune, di lavori di miglioria su detta striscia e, segnatamente, la realizzazione di un marciapiedi, non dà luogo ad una c.d. occupazione usurpativa, difettandone i presupposti della trasformazione del bene in opera pubblica e della sua radicale manipolazione in guisa da farlo divenire strutturalmente un aliud rispetto a quello precedente e, mancando, altresì, a monte, un provvedimento amministrativo che riveli l'intendimento della p.a. di appropriarsi della strada e di trasformarla in strada pubblica, includendola nel relativo elenco”;
         h5) Cass. civ., sez. I, 05.11.2012, n. 18936, secondo cui “qualora una porzione di fondo privato sia appresa senza titolo dal comune per la realizzazione della locale rete fognaria, non si determina la costituzione di una servitù secondo lo schema della cosiddetta «occupazione acquisitiva» -non configurabile rispetto ai diritti reali in re aliena- e si deve ravvisare un illecito a carattere permanente, il quale perdura fino a quando non venga (anche per disposizione del giudice ordinario) rimosso l'impianto, cessi il suo esercizio o sia costituita regolare servitù, con le consequenziali implicazioni in tema di prescrizione dell'azione risarcitoria”;
         h6) Cass. civ., sez. I, 28.05.2012, n. 8433, secondo cui “il provvedimento di occupazione temporanea preordinato alla espropriazione di un immobile privato attribuisce immediatamente alla p.a. il diritto di disporne allo scopo di accelerare la realizzazione dell'opera pubblica, per la quale è stato emanato, ed incide in misura corrispondente sui poteri dominicali del titolare del bene, privandolo, in tutto o in parte, delle facoltà di godimento e di disposizione; ciò fa sorgere, per il mancato godimento del bene, il diritto all'indennizzo ex art. 42 cost., separato ed aggiuntivo rispetto all'indennità di espropriazione e all'indennità di asservimento nel caso di imposizione di una servitù (nella specie, di elettrodotto), sebbene a questa commisurato, ed a prescindere dal titolo in base al quale la vicenda ablativa possa concludersi (cessione volontaria, espropriazione formale, occupazione acquisitiva, asservimento)”;
      i) con riferimento agli accordi ex art. 11 della l. n. 241 del 1990, al loro ambito applicativo, ai contratti ad oggetto pubblico e alle concessioni contratto, si segnala quanto segue:
         i1) nel senso della irriducibilità degli accordi ex art. 11 a meri strumenti di matrice civilistica e, in generale, sull’ambito di applicazione della disposizione, si vedano, tra le altre:
- Cons. Stato, sez. IV, 15.05.2017, n. 2256, secondo cui “sotto la comune dizione di accordi (art. 11, L. 07.08.1990, n. 241), sono richiamati (e succintamente disciplinati) sia moduli più propriamente procedimentali, cioè attinenti alla definizione dell'oggetto dell'esercizio del potere provvedimentale, sia accordi con contenuto più propriamente contrattuale, veri e propri contratti ad oggetto pubblico in quanto disciplinanti aspetti patrimoniali connessi all'esercizio di potestà”;
- Cons. Stato, sez. IV, 19.08.2016, n. 3653, secondo cui “sotto la comune dizione di accordi (art. 11, L. 07.08.1990, n. 241), sono richiamati (e succintamente disciplinati) sia moduli più propriamente procedimentali, cioè attinenti alla definizione dell'oggetto dell'esercizio del potere provvedimentale, sia accordi con contenuto più propriamente contrattuale, veri e propri contratti ad oggetto pubblico in quanto disciplinanti aspetti patrimoniali connessi all'esercizio di potestà” e “il rapporto tra amministrazione e concessionario, fondato sulle (usualmente definite) concessioni contratto, in ragione delle sue peculiarità originate dall'inerenza all'esercizio di pubblici poteri, non ricade in modo immediato, e tanto meno integrale, nell'ambito di applicazione delle disposizioni del codice civile, le quali, se possono certamente trovare applicazione in quanto compatibili ovvero se espressamente richiamate, tuttavia non costituiscono la disciplina ordinaria di tali convenzioni, né ciò è indicato dalla L. n. 241/1990, ed in particolare dal suo art. 11”;
- Cons. Stato, sez. IV, 02.12.2015, n. 5510, secondo cui “l'art. 11 Legge n. 241/1990 non rende applicabili agli accordi della P.A. le norme del codice civile in tema di obbligazioni e contratti, bensì i principi, con ciò stesso presupponendo una non immediata adattabilità (sia ad accordi non aventi natura contrattuale, sia a convenzioni contratto) delle norme valevoli per le espressioni di autonomia privata, ma richiedendo la verifica della applicabilità, in ragione della specifica natura dell'atto bilaterale sottoposto a giudizio, dei principi (e di quanto da essi desumibile) in tema di obbligazioni e contratti, senza per ciò stesso escludere la stessa applicazione di nome in tema di obbligazioni e contratti, nei casi in cui agli accordi possa riconoscersi una natura prettamente contrattuale”;
- Cons. Stato, sez. V, 05.12.2013, n. 5786, secondo cui “vi è una fondamentale distinzione tra contratti di diritto privato e contratti di diritto pubblico (o ad oggetto pubblico). In base a questa dicotomia entrambi possono essere conclusi con privati, ma in quelli rientrati nella seconda categoria, a dispetto della loro struttura bilaterale, l'amministrazione mantiene comunque la sua tradizionale posizione di supremazia. Con tale nozione di contratti di diritto pubblico si allude quindi ai casi in cui un contratto interviene a determinare consensualmente il contenuto di un provvedimento amministrativo o a regolare i rapporti economici discendenti da quest'ultima; altre volte addirittura in sua sostituzione. Si tratta dei fenomeni degli accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento di cui all'art. 11 l. n. 241/1990 e delle concessioni-contratto”;
- Cons. Stato, sez. V, 14.10.2013, n. 5000, secondo cui, tra l’altro “anche se il potere amministrativo può concretizzarsi in atti bilaterali (accordi ex art. 11 della l. n. 241/1990) ovvero atti di diritto privato (art. 1, comma 1-bis, di detta legge), con fusione tra potere amministrativo e autonomia privata in un atto bilaterale consensuale in cui essi confluiscono nella regolamentazione di interessi comuni, tuttavia l'Amministrazione, nella conclusione di tali accordi, diversamente dalla parte privata, non esercita alcuna autonomia privata (come dimostrato dalla previsione di cui al comma 4-bis dell'art. 11 della l. n. 241/1990 relativa alla necessità della previa deliberazione da parte dell'organo competente per l'adozione del provvedimento integrato o sostituito), bensì un potere unilaterale non privatistico”;
         i2) sulla nullità del contratto con cui una pubblica amministrazione rinuncia ad esercitare un potere pubblico si veda Cass. civ., sez. un., 04.01.1995, n. 93 (in Giur. it., 1995, I, 1, 1683, con nota di CANNADA-BARTOLI; Giust. Civ., 1995, I, con nota di ANNUNZIATA; Foro it., 1995, I), secondo cui “l’impossibilità per un Comune di stipulare contratti che comportino rinuncia al perseguimento delle finalità istituzionali ed all'esercizio di potestà pubbliche e la conseguente esclusione che da tali contratti, radicalmente invalidi ed inefficaci, scaturiscano obbligazioni e diritti soggettivi, rendono improponibili davanti all'autorità giudiziaria ordinaria azioni innominate cautelari ex art. 700 c.p.c., nei confronti del Comune, trattandosi di materia riservata alla giurisdizione amministrativa”; “il r.d.l. n. 454 del 1934 attribuisce alla P.A. il potere indisponibile di promuovere l'organizzazione di fiere e mercati, con la conseguenza che un Comune non può stipulare contratti che comportino la rinunzia a perseguire detta finalità istituzionale e ad esercitare i relativi poteri e che, ancorché concluso, un siffatto contratto, poiché invalido ed inefficace, è inidoneo a far nascere obbligazioni e diritti soggettivi di cui possa pretendersi l'osservanza. Pertanto, in relazione all'indicato contratto invalido, non è proponibile al giudice ordinario la domanda di un provvedimento cautelare a norma dell'art. 700 c.p.c. (inibitorio, nella specie, di una manifestazione fieristica organizzata dal Comune), essendo i danni che ne giustificherebbe l'emanazione riconducibili al preteso inadempimento del contratto in questione”;
         i3) sul riparto di giurisdizione, si vedano tra le altre:
- Cons. Stato, sez. IV, 28.10.2016, n. 4539, secondo cui “appartiene alla giurisdizione del Giudice Ordinario la controversia relativa ad una convenzione avente ad oggetto l’integrale ristrutturazione ed ampliamento di un impianto sportivo comunale, nonché la sua successiva gestione pluriennale, ove, nella comparazione tra le prestazioni a carico del concessionario, risulti preminente e tale da identificare il vero oggetto del contratto, la realizzazione delle opere rispetto alla gestione degli impianti, che, per il canone richiesto, assume rilievo solo quale mezzo per conseguire, dal lato dell’impresa, la remunerazione necessaria, restando al contempo soddisfatto l’interesse dell’amministrazione al funzionamento dei servizi sportivi”;
- Cass. civ., sez. un., 07.01.2016, n. 64 (in Foro it., 2016, I, 1296, con nota di GAMBINO), secondo cui la domanda di risarcimento dei danni per l'inadempimento degli obblighi del soggetto attuatore di un accordo di programma, attenendo alla fase di esecuzione dell'accordo, appartiene alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo;
- Cass. civ., sez. un., 06.07.2015, n. 13864 (in Urbanistica e appalti, 2015, 10, 1014), secondo cui “appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia relativa ad una convenzione avente ad oggetto l'integrale ristrutturazione ed ampliamento di un impianto sportivo comunale, nonché la sua successiva gestione pluriennale, ove, nella comparazione tra le prestazioni a carico del concessionario, risulti preminente -e tale da identificare il vero oggetto del contratto in relazione all'interesse concretamente perseguito dalle parti e da qualificare la concessione come di costruzione e gestione- la realizzazione delle opere (il cui importo risulti superiore a due milioni di euro) rispetto alla gestione degli impianti, che, per il canone richiesto (pari a trentaseimila euro l'anno, per un importo complessivo, rapportato ai diciotto anni di concessione, non superiore a settecentomila euro), assume rilievo solo quale mezzo per conseguire, dal lato dell'impresa, la remunerazione necessaria, restando al contempo soddisfatto l'interesse dell'amministrazione al funzionamento dei servizi sportivi”;
- Cass. civ., sez. un., 12.03.2015, n. 4948 (in Foro it., 2015, I, 1994; Riv. giur. edilizia, 2015, I, 702), secondo cui “rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la controversia promossa dal concessionario della rete ferroviaria pubblica che, lamentando l’inadempimento di un comune alle obbligazioni discendenti da una convenzione volta alla soppressione di passaggi a livello, chiedeva di dichiarare il diritto di far eliminare uno di tali passaggi a livello e di far eseguire le opere necessarie, nonché di condannare l’ente locale al risarcimento dei danni”;
- Cass. civ., sez. un., 29.07.2013, n. 18192; Cass. civ., sez. un., 09.11.2012, n. 19391, secondo cui “nel nuovo quadro normativo (D.Lgs. n. 163 del 2006 - Codice degli appalti), non è più consentita la precedente distinzione tra concessione di sola costruzione e concessione di gestione dell'opera (o di costruzione e gestione congiunte), ma sussiste l'unica categoria della "concessione di lavori pubblici", ove prevale il profilo autoritativo della traslazione delle pubbliche funzioni inerenti l'attività organizzativa e direttiva dell'opera pubblica, con le conseguenti implicazioni in tema di riparto di giurisdizione "in quanto, ormai, la gestione funzionale ed economica dell'opera non costituisce più un accessorio eventuale della concessione di costruzione, ma la controprestazione principale e tipica a favore del concessionario, come risulta dall'art. 143 del codice, con la conseguenza che le controversie relative alla fase di esecuzione appartengono alla giurisdizione ordinaria" (L. n. 109 del 1994, art. 31-bis; art. 133, c. 1, lett. e), n. 1 C.P.A. - D.Lgs. n. 104/2010).
Alla medesima declaratoria della giurisdizione ordinaria si perverrebbe, nel caso di specie, pur nell'ipotesi in cui nella convenzione potesse ravvisarsi un appalto di o.p. posto che, contrariamente all'assunto del comune, per effetto della L. n. 205 del 2000, artt. 6 e 7, ora trasfusi nell'art. 133 cod. proc. amm. nelle procedure ad evidenza pubblica aventi ad oggetto l'affidamento di lavori pubblici, spetta alla giurisdizione esclusiva del g.a. soltanto la cognizione di comportamenti ed atti assunti prima dell'aggiudicazione e nella successiva fase compresa tra l'aggiudicazione e la stipula dei singoli contratti; mentre nella successiva fase contrattuale riguardante, come nella fattispecie, l'esecuzione del rapporto la giurisdizione continua ad appartenere al g.o.”; Cass. civ., sez. un., 04.01.1995, n. 91 (in Foro it., 1995, I, 1195; Giust. civ., 1995, I, 1228; Cons. Stato, 1995, II, 2085, con nota di CARNEVALE; Giur. it., 1995, I, 1, 1173, con nota di CANNADA BARTOLI; Edilizia urbanistica appalti, 1995, 1392).
Come evidenziato in giurisprudenza, questa ipotesi di giurisdizione esclusiva non è correlata ad una determinata materia, bensì ad una specifica tipologia di atto, indipendentemente dalla materia che ne costituisce oggetto; in questo senso Cass. civ., sez. un., 09.03.2012, n. 3689; Cass. civ., sez. un., 03.02.2011, n. 2546 (in Urbanistica e appalti, 2011, 663, con nota di D'ANGELO; Ammin. it., 2011, 868; Giust. civ., 2013, I, 506).
Sull’alternatività tra giurisdizione amministrativa e arbitrato si veda Cons. Stato, sez. III, 15.05.2013, n. 2641 (in Foro amm.-Cons. Stato, 2013, 1195), secondo cui “il principio di alternatività tra ricorso al collegio arbitrale e ricorso giurisdizionale amministrativo è stato confermato dal c.p.a. il quale all'art. 7, 7º comma, afferma in via generale principi di economia e di concentrazione della giurisdizione amministrativa, che devono ritenersi estesi anche ai rapporti tra giurisdizione amministrativa e collegi arbitrali, al fine di non vanificare gli scopi delle norme che prevedono questi ultimi proprio come soluzione alternativa alla giurisdizione”;
         i4) in dottrina, tra gli altri, si vedano: MANFREDI, Accordi e azione amministrativa, Torino, 2001; SCOCA, Autorità e consenso, in Dir. amm., 2002, 431 ss.; CERULLI IRELLI, Note critiche in tema di attività amministrativa secondo moduli negoziali, in Dir. amm., 2003, 216 ss.; GRECO, Accordi amministrativi tra provvedimento e contratto, Torino, 2003; SCIULLO, Profili degli accordi tra amministrazioni pubbliche e privati, in Dir. amm., 2007, 808 ss.; RENNA, Il regime delle obbligazioni nascenti dall’accordo amministrativo, in Dir. amm., 2010, 1, p. 270 ss.; AA.VV., La rigenerazione di beni e spazi urbani. Contributo al diritto delle città, a cura di DI LASCIO e GIGLIONI, passim;
j) sull’accordo di programma si vedano, tra l’altro:
         j1) GAMBINO, nota a Cass. civ., sez. un., 07.01.2016, n. 64, cit., il quale precisa, tra l’altro, che connotati distintivi dell’istituto —che permettono di differenziarlo da altri moduli di coordinamento dell’attività amministrativa— emergono dall’art. 34, primo comma, d.lgs. 18.08.2000, n. 267, in base al quale “per la definizione e l’attuazione di opere, di interventi o di programmi di intervento che richiedono, per la loro completa realizzazione, l’azione integrata e coordinata di comuni, di province e regioni, di amministrazioni statali e di altri soggetti pubblici, o comunque di due o più tra i soggetti predetti, il presidente della regione o il presidente della provincia o il sindaco, in relazione alla competenza primaria o prevalente sull’opera o sugli interventi o sui programmi di intervento, promuove la conclusione di un accordo di programma, anche su richiesta di uno o più dei soggetti interessati, per assicurare il coordinamento delle azioni e per determinarne i tempi, le modalità, il finanziamento ed ogni altro connesso adempimento”.
L’accordo di programma è, quindi, un atto di programmazione di interventi futuri, realizzato non attraverso l’adozione di singoli provvedimenti autoritativi, ma mediante il raggiungimento di un accordo vincolante tra le diverse amministrazioni competenti. L’accordo di programma è un istituto di coordinamento dell’azione amministrativa, introdotto dalla l. 08.06.1990 n. 142 e oggi regolato dall’art. 34 d.lgs. n. 267 del 2000;
         j2) Cons. Stato, sez. IV, 02.03.2011, n. 1339 (in Foro amm.-Cons. Stato, 2011, 839), secondo cui l’istituto rappresenta un duttile strumento di azione amministrativa preordinata, senza rigidi caratteri di specificità, alla rapida conclusione di una molteplicità di procedimenti tutte le volte in cui il loro ordinario svolgimento richiederebbe l’espletamento di più sub-procedimenti, indispensabili per la ponderazione di interessi pubblici concorrenti;
         j3) sulla possibilità di recesso in materia di accordo di programma, Tar Lombardia, Brescia, sez. I, 30.04.2010, n. 1635 (in Foro amm.-Tar, 2010, 1215), secondo cui “in tema di accordo di programma, salvo il caso in cui siano state le stesse parti a prevedere il diritto di recesso, il contenuto dell'accordo è modificabile solo mediante una nuova determinazione espressa da tutte le amministrazioni contraenti che giungono ad una nuova sistemazione concordata dell'assetto degli interessi sottostanti all'azione amministrativa; ne consegue che, in caso di rifiuto delle altre parti alla modifica dell'assetto degli interessi originariamente concordato, l'amministrazione che intende recedere dall'accordo potrà censurare in sede giurisdizionale tale rifiuto qualora non sia conforme al principio di leale cooperazione tra gli enti pubblici che deve informare i rapporti tra le amministrazioni pubbliche per effetto della sentenza corte cost. 303/2003”;
         j4) sugli effetti dell’accordo di programma, Cons. Stato, sez. VI, 05.01.2001, n. 25 (in Urbanistica e appalti, 2001, 305, con nota di MUCIO; Giur. it., 2001, 1274; Cons. Stato, 2001, I, 12; Riv. giur. ambiente, 2001, 476, con nota di CIVITARESE MATTEUCCI; Foro amm., 2001, 77; Riv. corte conti, 2001, fasc. 1, 265; Giust. civ., 2001, I, 2809), secondo cui, tra l’altro, “l'accordo di programma, che è stato reso di generale applicazione dall'art. 15 l. 07.08.1990 n. 241, e dall'art. 27 l. 08.06.1990 n. 142, costituisce il migliore strumento per garantire una forma di coordinamento idonea al soddisfacimento del pubblico interesse, i cui limiti oggettivi devono essere individuati con il solo riferimento all'ampia definizione contenuta nel 1º comma dell'art. 27 l. n. 241/1990; pertanto tale strumento può essere utilizzato non solo per qualsiasi tipo di opera pubblica, ma anche per la programmazione di attività ulteriori e complementari rispetto alla realizzazione delle opere”; “l'accordo di programma, che prevede anche la variante di un piano territoriale paesistico, non può derogare agli ordinari criteri di competenza fissati dalla legge per l'approvazione della suddetta variante; pertanto le parti stipulanti sono obbligate ad ottemperare agli impegni assunti con l'accordo nel pieno rispetto delle competenze che caratterizzano ciascuna amministrazione”;
         j5) sulla notifica del ricorso a tutte le amministrazioni che l’abbiano sottoscritto, Cons. Stato, sez. IV, 02.12.2014, n. 5957 (in Foro amm., 2014, 3081), secondo cui “in caso di impugnazione di un accordo di programma avente a oggetto la realizzazione di un'opera pubblica, il ricorso va notificato, a pena di inammissibilità, a tutte le pubbliche amministrazioni firmatarie dell'accordo, dovendo considerarsi amministrazioni emananti tutte quelle che all'accordo stesso hanno partecipato; tale principio deve ritenersi estensibile anche ai patti territoriali i quali, a norma dell'art. 2, 203º comma, lett. d), l. 23.12.1996 n. 662, costituiscono una species del più ampio genus degli accordi di programmazione negoziata, nel quale rientrano anche gli accordi di programma, la cui disciplina procedimentale peraltro condividono sulla scorta della delibera del Cipe del 10.05.1995”;
         j6) in dottrina, nel senso che l’istituto sia riconducibile al fenomeno dell’amministrazione per accordi si veda TULUMELLO, Accordo di programma, voce Dig. pubbl., Torino, agg. 2012, 1;
         j7) sulla disciplina generale degli accordi tra pubbliche amministrazioni si veda l’art. 15 l. 07.08.1990 n. 241.
La dottrina (FERRARA, Gli accordi fra le amministrazioni pubbliche, in Codice dell’azione amministrativa a cura di M.A. SANDULLI, Milano, 2011, 677) osserva che la disposizione costituisce un esempio di norma in bianco, poiché definisce il regime generale degli accordi tra amministrazioni, rimandando a discipline speciali per la regolamentazione di specifiche figure di accordi.
L’art. 34 d.lgs. n. 267 del 2000 disciplina, invece, in modo dettagliato gli accordi di programma, prevedendo le modalità di formazione (convocazione della conferenza di servizi, unanimità della decisione), gli effetti dell’accordo, gli organi di vigilanza sulla sua esecuzione, la possibilità di devolvere ad arbitri le controversie.
Un altro esempio di accordi regolati dettagliatamente dalla legge è costituito dagli istituti di programmazione negoziata (l. 23.12.1996 n. 662, art. 2, comma 203).
Secondo FERRARA tra la fattispecie dell’art. 15 l. n. 241 del 1990 e queste tipologie di accordo intercorre un rapporto da genere a specie, che comporta l’applicazione della disciplina generale per gli aspetti non regolati dalla normativa di dettaglio.
Nello stesso senso: Cons. Stato, sez. IV, 25.06.2013, n. 3458 (in Foro amm.-Cons. Stato, 2013, 1619); Tar Puglia, sez. I, 04.06.2013, n. 899 (in Giurisdiz. amm., 2013, II, 1071); Cons. Stato, sez. IV, 24.10.2012, n. 5450 (in Giurisdiz. amm., 2012, I, 1511);
         j8) osserva GAMBINO, op. ult. cit., che la partecipazione del privato all’accordo di programma realizza un accordo tra pubbliche amministrazioni e privati, regolato dall’art. 11 l. n. 241 del 1990.
Infatti, l’art. 34 d.lgs. n. 267 del 2000 prevede la partecipazione all’accordo di programma dei soli soggetti pubblici; una partecipazione dei privati, invece, è rimessa al giudizio delle amministrazioni, le quali possono individuare le modalità più idonee per il loro intervento (in questo senso anche Tar Lazio, sez. I, 20.01.1995, n. 62, in Foro it., 1995, III, 460, con nota di REGGIANI; Foro amm., 1995, 1060).
Sulla base di tale ricostruzione anche la domanda di risarcimento dei danni, proposta dal comune ricorrente nei confronti del soggetto attuatore dell’accordo, appartiene alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 11, quinto comma, l. n. 241 del 1990.
Essa, infatti, attiene alla fase di esecuzione dell’accordo di programma, fase espressamente attribuita alla giurisdizione del giudice amministrativo, prima dall’art. 11, quinto comma, l. n. 241 del 1990, ed ora dall’art. 133, primo comma, lett. a), n. 2, c.p.a.;
      k) sulla tendenza alla c.d. deformalizzazione dell’istituto degli accordi amministrativi, ossia a qualificare gli artt. 11 e 15 della l. n. 241 del 1990 come schemi generali all’interno dei quali inquadrare specifiche ipotesi di accordi si vedano, tra gli altri:
         k1) in dottrina: BASSI, Gli accordi integrativi o sostituitivi del provvedimento, in Codice dell’azione amministrativa, cit.; TRAVI, Accordi fra proprietari e comune per modifiche al piano regolatore ed oneri esorbitanti, in Foro it., 2002, V, 276;
         k2) in giurisprudenza per una applicazione degli articoli in esame: agli accordi di programma quadro, ai contratti di programma, ai patti territoriali (Cons. Stato, sez. IV, 02.12.2014, n. 5957, cit.; Cons. Stato, sez. V, 27.12.2013, n. 6277, in Foro amm. Cons. Stato, 2013, 3473); ad alcune convenzioni-concessioni (Cass. civ, sez. un., 03.06.2015, n. 11376; Cons. Stato, sez. V, 18.03.2015, n. 1400, in Urbanistica e appalti, 2015, 932, con nota di GIORDANENGO; Tar Lazio, sez. III, 22.07.2014, n. 8001, in Urbanistica e appalti, 2015, 341, con nota di CATANZANI; Riv. amm., 2014, 377, con nota di CATANZANI) e alle convenzioni urbanistiche (Tar Lombardia, 11.05.2015, n. 1137, in Urbanistica e appalti, 2015, 1203, con nota di DE PAULI; Cass. civ., sez. un., 31.10.2014, n. 23256, in Foro it., 2015, I, 1687).
Discussa è, invece, l’applicazione dell’art. 11 l. n. 241 del 1990, in tema di cessione volontaria: Cons. Stato, sez. V, 20.08.2013, n. 4179 (in Giurisdiz. amm., 2012, ant., 1513; Foro amm. Cons. Stato, 2013, 2096; Riv. giur. edilizia, 2013, I, 1157); Cass. civ., sez. un., 06.12.2010, n. 24687 (in Foro it. Rep. 2010, voce Espropriazione per p.i., n. 126).
L’effetto principale di tale qualificazione consiste proprio nella devoluzione delle controversie alla giurisdizione del giudice amministrativo (
Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza 18.02.2020 n. 5 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ESPROPRIAZIONELa cessione volontaria di beni immobili rientra nel genus dei cd. contratti ad oggetto pubblico.
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Espropriazione per pubblica utilità – Cessione volontaria – Individuazione.
La cessione volontaria di beni immobili rientra nel più ampio genus dei cd. contratti ad oggetto pubblico, che si diversifica dai normali contratti di compravendita di diritto privato per una serie di imprescindibili elementi costitutivi, che vanno individuati nell’inserimento del negozio nell’ambito di un procedimento di espropriazione per pubblica utilità, nel cui contesto la cessione assolve alla peculiare funzione dell’acquisizione del bene da parte dell’espropriante, quale strumento alternativo all’ablazione d’autorità mediante decreto di esproprio; nella preesistenza non solo di una dichiarazione di pubblica utilità ancora efficace, ma anche di un subprocedimento di determinazione dell’indennità e delle relative offerte ed accettazione, con la sequenza e le modalità previste dall’art. 12, l. n. 865 del 1971; nel prezzo di trasferimento volontario correlato ai parametri di legge stabiliti, inderogabilmente, per la determinazione dell’indennità di espropriazione (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che la peculiarità di tale tipologia di accordo ha comportato oscillazioni giurisprudenziali rivenienti dall’accentuato valore solo civilistico degli stessi (Cass., SS.UU. 06.12.2010, n. 24687), ovvero, al contrario, sull’enfatizzato rilievo attribuito al potere autoritativo comunque sotteso alla relativa stipula, con conseguente assegnazione al giudice amministrativo della giurisdizione esclusiva anche per le controversie che attengono alla loro esecuzione (Cons. St. sez. V, 20.08.2013, n. 4179).
Il Giudice delle leggi (Corte cost. nn. 204 del 2004 e 191 del 2006), ha chiarito che l'utilizzo dello strumento degli accordi presuppone l'esistenza in capo alla p.a. di un potere autoritativo: l'accordo sostituisce l'atto unilaterale, ma non può essere utilizzato se non in sostituzione di un provvedimento espressione di potere autoritativo.
Traendo spunto dalle coordinate offerte dalla Consulta in sede di valutazione della costituzionalità dell'art. 53, d.P.R. n. 327 del 2001, si è dunque affermato che, attratta la cessione volontaria sotto il più duttile ombrello dell’accordo sostitutivo o integrativo di provvedimento, sia pure nei limiti della tipicità dei provvedimenti autoritativi che va a sostituire, le controversie relative alla sua esecuzione, diverse da quelle in tema di indennità, devono essere conosciute dal giudice amministrativo (Cons. St., sez. VI. 14.09.2005, n. 4735).
L’inserimento della cessione nell’ambito di un accordo integrativo o sostitutivo di provvedimento ex art. 11, l. n. 241 del 1990 non si palesa dunque neutra rispetto all’individuazione del giudice chiamato a decidere le relative controversie, con ciò dequotando l’accordo a vuoto simulacro formale.
Gli accordi sostitutivi di provvedimento, disciplinati a livello generale nell’art. 11 della l. n. 241 del 1990, costituiscono la formale consacrazione della legittimazione negoziale delle pubbliche amministrazioni. Trattasi di un istituto che attinge egualmente alla natura di patto o convenzione, ma anche di fonte di situazioni giuridiche patrimoniali diverse dalle obbligazioni civilistiche, che non esaurisce, come ha evidenziato la dottrina più accorta, il previgente modello del contratto ad oggetto pubblico, proprio in ragione della molteplicità di funzioni cui può assolvere.
Esso si connota per la sostanziale equivalenza o sovrapponibilità fra funzione economico sociale e cura dell’interesse pubblico e “sostituisce” il provvedimento anche in senso finalistico, consentendo cioè attraverso il modulo della negoziazione di ottenere un risultato più conveniente di quello ottenibile con il primo da parte dell’amministrazione.
La previsione, all’interno della disciplina del procedimento amministrativo, di un istituto generale quale l’accordo integrativo o sostitutivo di provvedimento, quest’ultimo originariamente circoscritto ai soli casi previsti dalla legge (v. la novella apportata con la l. 11.02.2005, n. 15, che ha eliminato il relativo inciso dalla norma), ha definitivamente sancito la legittimazione negoziale delle pubbliche amministrazioni.
L’istituto, tuttavia, in quanto nel contempo patto o convenzione, ma anche fonte di situazioni giuridiche patrimoniali diverse dalle obbligazioni civilistiche, non esaurisce, come ha evidenziato la dottrina più accorta, il previgente modello del contratto ad oggetto pubblico, proprio in ragione della molteplicità di funzioni cui può assolvere, pur connotandosi per la sostanziale equivalenza o sovrapponibilità fra funzione economico sociale e cura dell’interesse pubblico.
L’accordo, dunque, “sostituisce” il provvedimento anche in senso finalistico, consentendo cioè attraverso il modulo della negoziazione di ottenere un risultato più conveniente di quello ottenibile con il primo da parte dell’amministrazione. Laddove, cioè, il responsabile del procedimento valuti che esso costituisce lo strumento più idoneo per la composizione degli interessi coinvolti nell’azione amministrativa, può addivenire alla stipula di un contratto cui l’ordinamento giuridico ricollega determinati effetti, ciascuno dei quali a sua volta conseguibile anche con provvedimenti.
La significatività dell’istituto sta pertanto proprio nel suo mutuare aspetti necessariamente civilistici mischiandoli a contenuti tipicamente autoritativi, con ciò realizzando un’efficace sintesi -rectius, la miglior sintesi possibile, secondo la valutazione del soggetto pubblico agente- tra l’interesse pubblico sotteso all’intervento, complessivamente inteso, e il necessario incontro tra le volontà, quale metodologia per il suo perseguimento (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 28.01.2020 n. 705 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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SENTENZA
4. La cessione volontaria dell’immobile oggetto di procedura di esproprio all’epoca dei fatti di cui è causa risultava ancora regolamentata dall’art. 12 della l. 22.10.1971, n. 865. La norma, infatti, è stata formalmente abrogata dall’art. 58 del d. P.R. n. 327/2001, entrato in vigore tuttavia solo il 30.06.2003, giusta le reiterate proroghe di efficacia intervenute al riguardo, da ultimo con il d.lgs. 27.12.2002, n. 302. Inconferente appare pertanto il richiamo, da parte della difesa della società appellata, ai fini dell’individuazione del giudice competente, al combinato disposto degli artt. 45 e 53, comma 2 (che comunque, utilizzando la clausola «Resta fermo», ha carattere meramente ricognitivo dell’assetto preesistente) del medesimo Testo unico.
L’istituto può essere ricondotto al genus dei cd. contratti ad oggetto pubblico, che si diversifica dai normali contratti di compravendita di diritto privato per una serie di imprescindibili elementi costitutivi che la giurisprudenza ha individuato:
   - nell’inserimento del negozio nell’ambito di un procedimento di espropriazione per pubblica utilità, nel cui contesto la cessione assolve alla peculiare funzione dell’acquisizione del bene da parte dell’espropriante, quale strumento alternativo all’ablazione d’autorità mediante decreto di esproprio;
   - nella preesistenza non solo di una dichiarazione di pubblica utilità ancora efficace, ma anche di un subprocedimento di determinazione dell’indennità e delle relative offerte ed accettazione, con la sequenza e le modalità previste dall’art. 12 della legge n. 865 del 1971;
   - nel prezzo di trasferimento volontario correlato ai parametri di legge stabiliti, inderogabilmente, per la determinazione dell’indennità di espropriazione.
Ove non siano riscontrabili tutti i ridetti requisiti, non potendosi astrattamente escludere che l’amministrazione abbia inteso perseguire una finalità di pubblico interesse tramite un ordinario contratto di compravendita, al negozio traslativo non possono collegarsi gli effetti tipici della cessione volontaria disciplinata dall’art. 12 della legge n. 865 del 1971, ossia l’estinzione dei diritti reali o personali gravanti sul bene acquisito dall’amministrazione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 30.10.2019, n. 7445; id., 27.07.2016, n. 3391; Cass. 22.01.2018, n. 1534; id., 22.05.2009, n. 11955).
4.1. Presupposto necessario, ma non sufficiente, dunque, perché si possa configurare la cessione volontaria, e perché si possano produrre i suoi effetti tipici, è il collegamento tra il rapporto contrattuale ed il procedimento amministrativo di espropriazione per pubblica utilità che vi ha dato origine, il quale funge da essenziale momento genetico e fondamentale presupposto del trasferimento immobiliare. Senza l’apertura di una formale procedura espropriativa non può esserci spazio per la cessione volontaria, e ciò per la semplice ragione che essa non potrebbe in tale caso espletare la sua funzione tipica di strumento di acquisizione della proprietà immobiliare in capo all’amministrazione espropriante alternativo rispetto al provvedimento amministrativo autoritativo costituito dal decreto di esproprio (cfr. Cass. 29.03.2007, n. 7779).
La causa del contratto pubblicistico di cessione va quindi ricondotta a tale modalità alternativa di realizzazione del procedimento espropriativo mediante l’utilizzo di uno strumento privatistico, peraltro soggetto per taluni aspetti -tra cui la determinazione del prezzo di cessione- alla disciplina contenuta in norme di legge imperative (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 07.04.2015, n. 1768; id. 03.03.2015, n. 1035; Cass., SS.UU. 13.02.2007, n. 3040, quest’ultima richiamata anche dal giudice di prime cure).
5. Ora, nel caso di specie, senza neppure entrare nella concreta indagine dei contenuti dell’accordo di cui è causa, il giudice di prime cure, attraverso il semplice richiamo all’art. 12 della l. n. 865/1971 ne ha operato la qualificazione giuridica, depauperando di qualsivoglia significato aggiuntivo o interpretativo il riferimento all’accordo di cui all’art. 11 della l. n. 241/1990.
5.1. Il Collegio non ignora al riguardo che nell’ambito della giurisprudenza della Corte di Cassazione si sia talora affermato il carattere esclusivamente civilistico degli accordi in questione, considerati in quanto tali ontologicamente incompatibili col paradigma generale di cui all’art. 11 della l. n. 241/1990, necessariamente pubblicistico (cfr. al riguardo Cass., SS.UU. 06.12.2010, n. 24687).
La cessione volontaria degli immobili assoggettati ad espropriazione quale modo tipico di chiusura del relativo procedimento in forza di una relazione legale e predeterminata di alternatività, non di mera sostituzione, rispetto al decreto ablatorio, si caratterizzerebbe per una discrezionalità limitata all’an, laddove gli accordi ex art. 11 della l. n. 241/1990 si connotano per la sussistenza della stessa anche nel quomodo.
Orientamento peraltro presente anche nella giurisprudenza amministrativa, che tuttavia finisce poi per enfatizzare l’aspetto contenutistico del pagamento del corrispettivo quale elemento tipico dell’accordo, tale da orientare ex se l’attribuzione della controversia al giudice ordinario giusta la previsione in tal senso dell’art. 133, comma 1, lett. g) c.p.a. (cfr. ex multis Cons. Stato, sez. IV, 03.03.2015, n. 1035).
Il che corrisponde esattamente al percorso ermeneutico seguito dal giudice di prime cure, che fa seguire all’inquadramento dello schema contrattuale utilizzato come cessione volontaria del bene l’affermazione della giurisdizione del giudice civile; salvo poi precisare che ciò avverrebbe non tanto (o non solo) in ragione della stessa, quanto più propriamente per -e limitatamente al- il suo contenuto indennitario.
5.2. La complessità dogmatica della questione trova altresì riscontro negli opposti orientamenti che hanno diversamente qualificato la cessione volontaria o semplicemente facendo leva sul carattere autoritativo del potere di esproprio che comunque si va a sostituire; ovvero, in maniera più articolata, facendo leva sugli ulteriori possibili effetti che anche tale tipologia di contratto può conseguire, avuto riguardo al suo concreto atteggiarsi nel contesto locale nel quale è destinato ad incidere.
Il rapporto con il più generale paradigma dell’accordo sostitutivo è stato a seconda dei casi attinto o meno, facendo leva sulle prerogative dell’uno per ascriverle all’altro, attraendolo nel relativo quadro definitorio e regolatorio, e viceversa (cfr. ancora Cass., SS.UU. 06.12.2010, n. 24687, ove si invoca il combinato disposto dei commi 1 e 5 dell’art. 11 della l. n. 241/1990 per ribadire la giurisdizione del giudice amministrativo).
Nella prima direzione, si è dunque genericamente affermato che la cessione volontaria del bene, in quanto sostitutiva del decreto di espropriazione di cui produce i medesimi effetti, non perde la connotazione di atto autoritativo, implicando, più semplicemente, la confluenza in un unico testo del provvedimento e del negozio e senza che la presenza del secondo snaturi l'attività dell'Amministrazione (ex multis Cons. Stato, sez. V, 20.08.2013, n. 4179; sez. VI; 14.09.2005, n. 4735); da ciò la sua riconducibilità sub art. 11, l. 07.08.1990 n. 241, avuto riguardo all'ampia duttilità che la caratterizza, sia pure nei limiti della tipicità dei provvedimenti autoritativi che va a sostituire.
Nella seconda, particolarmente significativa si rivela la casistica delle cessioni volontarie che in qualche modo implicano anche riferimenti alla destinazione urbanistica delle aree interessate, direttamente o indirettamente, dall’esproprio. Atteso, infatti, che la convenzione stipulata, ad esempio, «nel corso di una procedura espropriativa, con cui l'espropriato cede al Comune l'area necessaria per la realizzazione dell'opera pubblica ed il Comune si obbliga a trasferire al privato la proprietà di altra area da destinare a parcheggio, viene conclusa in funzione della programmata espropriazione in corso e, quindi, dell'attuazione della relativa attività di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, così realizzando l'individuazione convenzionale del contenuto di uno o più provvedimenti che l'amministrazione avrebbe dovuto emettere a conclusione del procedimento in atto, nel caso di mancata esecuzione dell'accordo, la relativa controversia rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, sia perché la convenzione rientra tra quelle di cui all'art. 11 della legge n. 241 del 1990 sia perché la stessa attiene alla materia urbanistica ai sensi dell'art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998, come modificato dalla legge n. 205 del 2000, senza che abbia incidenza la parziale illegittimità costituzionale (sent. n. 204 del 2004), giacché nella specie l'uso del territorio consegue ad atti della P.A. e non a meri comportamenti» (v. Cass., 30.01.2008, n. 2029).
5.3. Il Giudice delle leggi (Corte Cost., nn. 204/2004 e 191/2006), ha chiarito che l'utilizzo dello strumento degli accordi presuppone l'esistenza in capo alla p.a. di un potere autoritativo: l'accordo sostituisce l'atto unilaterale, ma non può essere utilizzato se non in sostituzione di un provvedimento espressione di potere autoritativo. Da qui l'impossibilità di ricondurre sic et simpliciter l'accordo allo schema del contratto di diritto privato e la conseguente giustificazione dell'assegnazione al giudice amministrativo della giurisdizione esclusiva anche per quelle controversie che attengono alla sua esecuzione.
Traendo spunto, cioè, dalle coordinate offerte dalla Consulta in sede di valutazione della costituzionalità dell'art. 53 del d.P.R. n. 327/2001, si è dunque affermato che: «La dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 53 comma 1, del d.lgs. 08.06.2001, n. 325, trasfuso nell'art. 53, comma 1, del d.P.R. 08.06.2001, n. 327, ad opera della sentenza n. 191 del 2006 della Corte costituzionale, riguarda soltanto la devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle controversie relative ai comportamenti delle pubbliche amministrazioni, conseguenti all'applicazione delle disposizioni del testo unico, non riconducibili, nemmeno mediatamente, all'esercizio di un pubblico potere e, dunque, tenuti in carenza di potere od in via di mero fatto; conseguentemente appartengono alla giurisdizione del giudice amministrativo quelle controversie in tema di risarcimento del danno derivante da provvedimenti che, benché impugnati per illegittimità od illiceità, sono comunque riconducibili ai poteri ablatori riconosciuti alla P.A. dagli artt. 43 e 44 del T.U. n. 327 e dall'art. 3» (Cass., SS.UU.,Ord. 22.12.2011, n. 28343; Cons. Stato, sez. V, 20.08.2013, n. 4179).
In definitiva, come pure questo Consiglio di Stato ha già avuto modo di chiarire, attraendo la cessione volontaria sotto il più duttile ombrello dell’accordo sostitutivo o integrativo di provvedimento, sia pure nei limiti della tipicità dei provvedimenti autoritativi che va a sostituire, in ragione del riconosciuto mantenimento della sua connotazione di atto autoritativo, caratterizzato semplicemente dalla confluenza in un unico testo di provvedimento e negozio, si è comunque potuto affermare che le controversie relative alla sua esecuzione, diverse da quelle in tema di indennità, devono essere conosciute dal giudice amministrativo (Cons. St., Sez. VI; 14.09.2005, n. 4735),
6. La previsione, all’interno della disciplina del procedimento amministrativo, di un istituto generale quale l’accordo integrativo o sostitutivo di provvedimento, quest’ultimo originariamente circoscritto ai soli casi previsti dalla legge (v. la novella apportata con la l. 11.02.2005, n. 15, che ha eliminato il relativo inciso dalla norma), ha definitivamente sancito la legittimazione negoziale delle pubbliche amministrazioni.
L’istituto, tuttavia, in quanto nel contempo patto o convenzione, ma anche fonte di situazioni giuridiche patrimoniali diverse dalle obbligazioni civilistiche, non esaurisce, come ha evidenziato la dottrina più accorta, il previgente modello del contratto ad oggetto pubblico, proprio in ragione della molteplicità di funzioni cui può assolvere, pur connotandosi per la sostanziale equivalenza o sovrapponibilità fra funzione economico sociale e cura dell’interesse pubblico.
L’accordo, dunque, “sostituisce” il provvedimento anche in senso finalistico, consentendo cioè attraverso il modulo della negoziazione di ottenere un risultato più conveniente di quello ottenibile con il primo da parte dell’amministrazione. Laddove, cioè, il responsabile del procedimento valuti che esso costituisce lo strumento più idoneo per la composizione degli interessi coinvolti nell’azione amministrativa, può addivenire alla stipula di un contratto cui l’ordinamento giuridico ricollega determinati effetti, ciascuno dei quali a sua volta conseguibile anche con provvedimenti.
La significatività dell’istituto sta pertanto proprio nel suo mutuare aspetti necessariamente civilistici mischiandoli a contenuti tipicamente autoritativi, con ciò realizzando un’efficace sintesi -rectius, la miglior sintesi possibile, secondo la valutazione del soggetto pubblico agente- tra l’interesse pubblico sotteso all’intervento, complessivamente inteso, e il necessario incontro tra le volontà, quale metodologia per il suo perseguimento.
6.1. La natura complessa dell’accordo sostitutivo di provvedimento, pertanto, non ne consente la dequotazione a vuoto simulacro formale, così come di fatto affermato dal giudice di prime cure, che ne ritiene del tutto neutro l’utilizzo ai fini dell’individuazione del riparto di giurisdizione: ciò peraltro non contestando il mero ricorso al nomen iuris, senza rilevata corrispondenza sostanziale con il modello evocato; bensì semplicemente in ragione della sua incapacità di incidere sulla qualificazione civilistica della cessione di immobili.
6.2. Rileva al contrario la Sezione che proprio il fervore del dibattito dottrinario e giurisprudenziale insorto sulla tematica evidenzia la necessità di non risolvere la questione sul piano delle mere astrazioni dogmatiche, dovendo la categoria concettuale generale del contratto ad oggetto pubblico essere ulteriormente vagliata e scrutinata in concreto onde valutare l’atteggiarsi del modello utilizzato, pur se normativamente già previsto, in un senso piuttosto che nell’altro.
E’ dunque rimessa al giudice, a fronte di una fattispecie consensuale pubblica, una precisa operazione ermeneutica che non può prescindere dalla disamina della fase formativa dell’accordo, della sua struttura e dei suoi effetti, senza partire da categorizzazioni preconcette: solo all’esito di tale specifica analisi, è infatti possibile non tanto e non solo l’inquadramento concettuale della singola fattispecie, ma anche e soprattutto l’individuazione degli strumenti rimediali alla stessa applicabili.
7. Da tutto quanto sopra, rileva la Sezione, emerge che la linea di demarcazione stabilita dall’art. 133, comma 1, lettera g), per separare la giurisdizione del giudice amministrativo da quella del giudice ordinario, in necessario combinato disposto con le indicazioni rivenienti anche dalla lett. a), n. 2) della medesima norma, non possa essere fatta cadere sulla sola affermazione della natura giuridica degli atti adottati astrattamente intesa, ma debba essere riguardata dall’ottica del collegamento eziologico che gli stessi, pur intercorsi pattiziamente tra le parti, hanno con l’esercizio del potere pubblico, in primo luogo di esproprio e, soprattutto, analizzandone nello specifico gli effetti.
8. Quale che sia la cornice definitoria nella quale si colloca l’accordo, tuttavia, certo è che fuoriescono dalla stessa le questioni “solo” indennitarie, in quanto rientranti ratione materiae nella giurisdizione del giudice ordinario.
8.1. Costituisce infatti ius receptum, dalle cui conclusioni non è ragione di discostarsi, che qualsiasi domanda attinente alla determinazione o al pagamento della indennità di esproprio rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, perfino se proposta dall’amministrazione per recuperare quella indebitamente versata ad un privato ovvero connessa a quella risarcitoria da perdita del terreno spettante al giudice amministrativo (cfr. ex multis, Cass. civ., SS.UU., 19.02.2019, n. 4880).
Quanto detto è stato riconosciuto finanche ove coesistano contestazioni che investono sia la legittimità del decreto ex art. 42-bis del Testo unico sull’espropriazione, sia la quantificazione dell'indennizzo: invero, salvo eccezioni normative espresse, vige nell'ordinamento processuale il principio generale dell'inderogabilità della giurisdizione per motivi di connessione, potendosi risolvere i problemi di coordinamento posti dalla concomitante operatività della giurisdizione ordinaria e di quella amministrativa su rapporti diversi, ma interdipendenti, secondo le regole della sospensione del procedimento pregiudicato (Cons. Stato, sez. IV, 01.03.2017, n. 941; id., 12.05.2016, n. 1910, che si sono poste sulla scia di Cass., SS.UU., ord. 19.04.2013, n. 9534).

ESPROPRIAZIONEL’Adunanza plenaria pronuncia sulla cessazione dell’illecito permanente dell’occupazione senza titolo per effetto della rinuncia abdicativa.
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Espropriazione per pubblica utilità – Occupazione - Senza titolo – Illecito permanente – Cessazione per rinuncia abdicativa – Esclusione.
Per le fattispecie rientranti nell’ambito di applicazione dell’art. 42-bis, d.P.R. n. 327 del 2001 la rinuncia abdicativa del proprietario del bene occupato sine titulo dalla pubblica amministrazione, anche a non voler considerare i profili attinenti alla forma, non costituisce causa di cessazione dell’illecito permanente dell’occupazione senza titolo (1)
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   (1) Ha chiarito l’Alto consesso che nel contesto dell’orientamento affermativo dell’ammissibilità della rinuncia abdicativa quale strumento alternativo di tutela del privato leso dall’occupazione illegittima in funzione della domanda risarcitoria per equivalente del danno da perdita della proprietà, non è mai stata fornita una soluzione certa e univoca in ordine all’individuazione del titulus e del modus adquirendi del diritto di proprietà in capo all’amministrazione occupante obbligata al risarcimento dei danni.
In particolare, in tale contesto, l’effetto acquisitivo in capo all’amministrazione occupante non può essere ricondotto all’art. 827 Cod. civ., il quale prevede l’acquisto –a titolo originario e non iure successionis, come nella diversa fattispecie disciplinata dall’art. 586 Cod. civ.– dei beni vacanti da parte dello Stato (segnatamente, al suo patrimonio disponibile; v., su tale ultimo punto, Cass. civ., 14.04.1966, n. 942).

Pur in tesi non attribuendo all’art. 827 Cod. civ. una portata meramente transitoria collegata all’entrata in vigore del Codice civile –volta, cioè, a disciplinare la sola situazione giuridica dei beni che, in ragione di discipline pregresse, a tale momento siano stati privi di proprietario–, la sua applicazione alle vicende espropriative quale quella all’esame giammai consentirebbe di sprigionare l’effetto dell’acquisto della proprietà del bene (che, peraltro, secondo le previsioni dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, dovrebbe avvenire al patrimonio indisponibile) in capo all’amministrazione occupante diversa dallo Stato, ma ne determinerebbe l’acquisto al patrimonio disponibile di quest’ultimo (o, nelle Regioni a statuto speciale della Sardegna, della Sicilia e del Trentino-Alto Adige, al patrimonio delle rispettive Regioni, in forza degli articoli 14, 34 e 67 dei rispettivi statuti speciali), con la conseguenza che l’ente occupante, pur ad avvenuto versamento della somma liquidata a titolo risarcitorio, non ne diverrebbe proprietario.
Né a risolvere lo iato tra effetto abdicativo della rinuncia ed effetto acquisitivo in capo all’amministrazione occupante, determinato dall’applicazione dell’art. 827 Cod. civ., appare idonea la tesi, per cui la rinuncia alla titolarità del bene dovrebbe ritenersi risolutivamente condizionata all’inadempimento dell’amministrazione occupante all’obbligo di corrispondere il controvalore monetario liquidato dal giudice al momento della definizione della controversia, sicché la rinuncia, interinalmente efficace, consoliderebbe i propri effetti al momento dell’effettivo ed integrale versamento del risarcimento da parte dell’amministrazione occupante; secondo tale tesi, il relativo provvedimento di liquidazione escluderebbe in via definitiva la verificazione dell’evento (appunto l’inadempimento) dedotto in condizione e sarebbe soggetto a trascrizione ai sensi del combinato disposto degli artt. 2643 n. 5) e 2645 Cod. civ. «anche al fine di conseguire gli effetti della acquisizione del diritto di proprietà in capo all’amministrazione, a far data dal negozio unilaterale di rinuncia» (v., in tal senso, Cons. Stato, Sez. IV, 07.11.2016, n. 4636).
Infatti, la tesi si scontra con il rilievo che la trascrizione assolve alla funzione dell’opponibilità a terzi degli atti dispositivi di diritti reali, ma non ne integra la validità o l’efficacia né può assurgere a elemento costitutivo della fattispecie traslativa o acquisitiva, con la conseguenza che, in mancanza di idoneo titolo d’acquisto in capo all’amministrazione occupante, l’ordine di trascrizione in favore di quest’ultima resterebbe privo di base legale.
Neppure appare possibile l’applicazione analogica di altre fattispecie di acquisto a titolo originario per fatti ‘occupatori’ disciplinate dal Codice civile, quali gli artt. 923, 940 o 942 Cod. civ., in quanto si incorrerebbe nella violazione del principio di legalità delle fattispecie ablative, sancito dalla Costituzione e dalla CEDU.
Ad analoga obiezione si espongono i tentativi di ricostruire in via pretoria fattispecie traslative complesse, mediate da eventuali sentenze costitutive, atteso il principio di tassatività delle sentenze costitutive di effetti traslativi o acquisitivi di diritti reali, né offrendo l’art. 34, comma 1, lettera e), Cod. proc. amm. una sufficiente base legale per pronunce di siffatto tenore.
Né, infine, appare configurabile un’ipotesi di formazione tacita di un accordo traslativo tra parte privata e pubblica amministrazione –ad es., ipotizzando un atto di consenso del privato coessenziale alla dismissione della proprietà e la non opposizione all’acquisto da parte dell’amministrazione–, attesa la necessità della forma scritta ad substantiam per i contratti traslativi della proprietà immobiliare, tanto più se parte contrattuale è una pubblica amministrazione.
In secondo luogo, s’impone il rilievo che l’evento della perdita della proprietà è un elemento costitutivo del fatto illecito produttivo del danno.
Aderendo alla tesi della rinuncia abdicativa, l’evento dannoso (perdita della proprietà) verrebbe cagionato dallo stesso danneggiato, in contrasto con i principi che presiedono all’illecito aquiliano, che esigono un rapporto di causalità diretta tra evento dannoso e comportamento del soggetto responsabile, nella specie invece interrotto dalla rinuncia dello stesso danneggiato, la quale soltanto –secondo la tesi all’esame– determina l’effetto della perdita.
Né tale rilievo appare superabile con l’obiezione per cui il proprietario verrebbe ‘costretto’ ad abdicare in quanto con l’occupazione gli sarebbe rimasto un bene totalmente privo di utilità, sicché sarebbe l’irreversibile trasformazione del fondo da parte dell’amministrazione ad averne causato la perdita: infatti, per un verso, in caso di contestazione s’imporrebbe la necessità di (spesso complessi) accertamenti giudiziari sul grado di trasformazione del fondo idoneo a giustificare l’atto abdicativo, dall’esito per definizione incerto, con la conseguente introduzione, sotto diversa veste, dell’acquisizione giudiziaria già prevista nel pregresso art. 43 d.P.R. n. 327/2001 ed espunta dall’ordinamento per le criticità che la connotavano, e, per altro verso, attraverso la riconduzione causale della perdita del bene alla sua occupazione e trasformazione sine titulo da parte dell’amministrazione si (re)introdurrebbe una forma di espropriazione indiretta in contrasto con i canoni della CEDU.
Se, invece, la determinazione circa la rinuncia abdicativa fosse rimessa alla libera e insindacabile (sotto il profilo causale) scelta del proprietario –come sotteso alla tesi della sua ammissibilità, quale espressione della libera autodeterminazione del proprietario in ordine al diritto di proprietà sul bene leso dall’occupazione illegittima–, l’applicazione di tale strumento negoziale alle vicende delle occupazioni illegittime contrasterebbe con i richiamati principi civilistici in tema di illecito aquiliano.
Da ultimo, si osserva che la disciplina del procedimento espropriativo speciale ex art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001 regola, in modo tipico, esaustivo e tassativo, il procedimento di (ri)composizione del contrasto tra l’interesse privato del proprietario e l’interesse generale cui è preordinata l’acquisizione del bene alla mano pubblica comportante la cessazione dell’illecito permanente. L’operatività dell’istituto postula, sul piano logico-giuridico, che la formale titolarità della proprietà risulti ancora in capo al privato (e non sia venuta meno, in tesi, con l’eventuale rinuncia implicita nella proposizione della domanda risarcitoria): infatti, l’adozione dell’atto, unitamente alla liquidazione dell’indennizzo, rappresenta il necessario presupposto per il trasferimento del diritto di proprietà in favore dell’amministrazione.
Una volta disciplinata dal legislatore in modo compiuto ed esauriente, la procedura ablativa speciale –presupponente l’occupazione illegittima e la correlativa modificazione del bene da parte dell’amministrazione (in sé prive di riflessi in ordine alla titolarità del bene)– ‘tipizza’ i poteri dell’amministrazione e ‘conforma’ la facoltà di autodeterminazione del proprietario in ordine alla sorte del bene rimasto di sua proprietà.
Per quanto riguarda l’amministrazione, essa è titolare di una funzione, a carattere doveroso nell’an, consistente nella scelta tra la restituzione del bene previa rimessione in pristino e acquisizione ai sensi dell’articolo 42-bis; non quindi una mera facoltà di scelta (o di non scegliere) tra opzioni possibili, ma doveroso esercizio di un potere che potrà avere come esito o la restituzione al privato o l’acquisizione alla mano pubblica del bene. Alternative entrambe finalizzate a porre fine allo stato di illegalità in cui versa la situazione presupposta dalla norma.
Quanto al privato –e corrispondentemente all’alternativa posta in termini funzionali all’amministrazione–, la sua facoltà di autodeterminazione resta conformata (sul piano legislativo, ex art. 42, secondo e terzo comma, Cost.) nel senso che al medesimo è attribuita la potestà di compulsare la pubblica amministrazione, attraverso una correlativa istanza/diffida, all’esercizio del potere/dovere di porre comunque termine alla situazione di illecito permanente costituita dall’occupazione senza titolo e ricondurla a legalità secondo la seguente alternativa:
   - o adottando il provvedimento di acquisizione sulla base degli stringenti criteri motivazionali delineati dal comma 4 dell’art. 42-bis, verso la corresponsione dell’indennizzo parametrato ai criteri stabiliti nel precedente comma 1;
   - oppure, in mancanza dell’acquisizione, disponendo la restituzione del bene previa rimessione allo stato pristino (con salvezza, in entrambe le ipotesi, del diritto al risarcimento dei danni per il periodo dell’occupazione illegittima e degli eventuali danni ulteriori).
Altre soluzioni, che potevano trovare una spiegazione in presenza di una lacuna legislativa, non sono ipotizzabili, in quanto resterebbe irrisolta la definizione di una base legale certa per l’effetto traslativo della proprietà. Di conseguenza, all’interprete non è consentito più (se mai lo sia stato) di ricorrere all’analogia iuris per integrare la fattispecie normativa di diritto amministrativo settoriale in materia espropriativa, quale tassativamente predeterminata dal legislatore, attraverso il ricorso ad un istituto di natura prettamente privatistica, al dichiarato fine di aggiungere un ulteriore strumento di tutela del privato, limitativo e derogatorio all’istituto dell’art. 42-bis.
Siffatta operazione ermeneutica –oltre a non essere necessaria sotto il profilo della garanzia della effettività della tutela del proprietario leso, in quanto sussistono idonei mezzi coercitivi affinché l’amministrazione occupante provveda a compiere la scelta tra acquisizione o restituzione– comporta, invero, uno stravolgimento dell’assetto d’interessi sotteso e (ri)composto (d)alla particolare procedura ablativa disciplinata dal citato articolo di legge; affida la decisione sulla sorte del bene ad un atto eventuale e unilaterale del proprietario, cui si finirebbe per attribuire una sorta di diritto potestativo direttamente ricadente nella sfera giuridica dell’amministrazione; e si risolve, in definitiva, nell’inammissibile introduzione praeter legem di una nuova fattispecie ablativa/traslativa (peraltro, lasciando irrisolta la questione fondamentale circa il titulus e il modus adquirendi della proprietà del bene in capo all’ente occupante), la cui disciplina è, invece, riservata alla legge e informata alla tassatività e tipicità dei poteri ablatori e delle relative procedure.
Concludendo sul punto, preminenti esigenze di sicurezza giuridica, implicanti la prevedibilità, per tutti i soggetti coinvolti (compresa la parte pubblica), della fattispecie ablativa/acquisitiva, non possono che escludere la rilevanza dell’atto unilaterale di rinuncia abdicativa alla proprietà dell’immobile, ai fini della cessazione dell’illecito permanente costituito dall’occupazione sine titulo del bene di proprietà privata e della riconduzione della situazione di fatto a legalità.
Come sopra ripetutamente accennato, l’ordinamento processuale amministrativo appresta uno strumentario processuale efficace per reagire all’eventuale inerzia della pubblica amministrazione con l’azione ex artt. 31 e 117 Cod. proc. amm., oppure, a seconda della fase in cui pende il processo e del tipo di azione esercitata, attraverso l’assegnazione, nella sentenza cognitoria, di un termine per provvedere in ordine all’acquisizione o (in caso di non acquisizione) alla restituzione del bene illegittimamente occupato, ai sensi dell’art. 34, comma 1, lettera b), Cod. proc. amm., con eventuale contestuale nomina di un commissario ad acta a norma dell’art. 34, comma 1, lett. e), Cod. proc. amm. per il caso di persistente inottemperanza all’ordine di provvedere (al fine, appunto, di ricondurre la situazione di occupazione illegittima nell’alveo della legalità attraverso l’esercizio del correlativo potere, di natura vincolata nell’an e discrezionale nel quomodo).
In particolare, l’iniziativa procedimentale e il successivo giudizio sul silenzio costituiscono mezzi con cui il proprietario del bene occupato può far valere l’interesse ad ottenere un ristoro pecuniario in luogo della restituzione del bene, che, per le ragioni sopra esposte, non può più trovare tutela attraverso il meccanismo della rinuncia abdicativa (che rimetterebbe alla determinazione unilaterale del privato la decisione sulla sorte del bene, al contempo lasciando irrisolta la vicenda acquisitiva).
Viene, con ciò, offerta al privato una tutela celere, concentrata e definitiva dell’interesse leso, senza necessità di ricorrere alla costruzione della rinuncia abdicativa. Ricorso, per quanto si è detto, non più consentito in assenza di una lacuna legislativa e anzi in presenza di una disciplina volta a fornire una base legale specifica, certa e prevedibile, all’effetto ablativo della proprietà.
Il carattere assorbente della risposta al quesito precedente rende non rilevante il quesito sub § 16.(ii), che comunque rafforza le criticità della teoria della rinuncia abdicativa.
In primo luogo, la proposizione di una domanda risarcitoria del pregiudizio sofferto rispetto a un bene, attraverso la richiesta di una somma corrispondente al controvalore del bene, nulla esprime realmente in ordine alla volontà di preservarne, o meno, la titolarità.
Infatti, siffatta domanda non è né logicamente né giuridicamente incompatibile con la volontà di permanere titolare del diritto di proprietà, potendo anche il danno da perdita del godimento del bene, in vista della sua proiezione tendenziale all’infinito in ragione di una prospettata radicale e irreversibile trasformazione del bene, finire per equivalere al valore di scambio, sicché la mera richiesta di un risarcimento del danno commisurato al valore del bene appare del tutto neutra sotto il profilo della volontà di rinunciare, o meno, alla proprietà.
Considerata la rilevanza degli effetti dell’atto abdicativo, comportante la perdita del diritto di proprietà su un bene immobile, non appare ammissibile, per ragioni di certezza del traffico giuridico immobiliare, ancorare l’effetto a manifestazioni di volontà enucleabili da atti processuali a contenuto non univoco, in violazione dei principi di accessibilità, precisione e prevedibilità cui deve essere improntata la disciplina delle procedure ablative nonché lo stesso regime giuridico di circolazione dei beni, per di più immobili.
In secondo luogo, occorre rilevare che l’atto di rinuncia al diritto di proprietà su beni immobili è soggetto alla forma scritta ad substantiam ai sensi dell’art. 1350, n. 5), Cod. civ., per cui vanno redatti per iscritto «gli atti di rinunzia ai diritti indicati dai numeri precedenti» (nei quali rientra anche il diritto di proprietà).
Ebbene, anche in ipotesi aderendo all’orientamento giurisprudenziale e dottrinario che ritiene ammissibile una manifestazione tacita di volontà nel contesto di un atto per la cui validità è richiesta la forma scritta –con la motivazione che una forma vincolata non significa che la volontà debba essere espressa, essendo sufficiente che la stessa vi sia contenuta, anche in forma tacita, ma in modo da rilevare, per quanto qui interessa, una volontà incompatibile con il mantenimento del diritto di proprietà–, l’atto formale contenente la volontà tacita di rinuncia deve, in ogni caso, assumere la forma scritta ad substantiam (scrittura privata o atto pubblico), ossia essere munita della sottoscrizione personale della parte, autenticata o comunque riconosciuta nelle forme di legge.
Tratterebbesi di requisito formale da vagliare caso per caso attraverso l’esame degli atti processuali di parte in tesi suscettibili di essere interpretati quali atti contenenti una volontà abdicativa.
Nel caso concreto sub iudice, né l’atto per motivi aggiunti del 31.10.2007 né quello successivo notificato il 24.05.2013 –con cui erano state veicolate le domande di risarcimento per equivalente rapportate al valore venale del bene (oltre ai danni da perdita del godimento per occupazione illegittima)– recano la sottoscrizione personale delle parti, né risulta conferita al difensore una procura speciale a disporre del diritto di proprietà attraverso un’eventuale rinuncia abdicativa.
Pertanto, anche sotto i profili sopra esaminati, la teoria della rinuncia abdicativa all’atto della sua applicazione pratica appaleserebbe una serie di criticità (Consiglio di Stato, A.P., sentenza 20.01.2020 n. 4 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ESPROPRIAZIONEPer la Plenaria, nelle ipotesi dell’art. 42-bis TUEs, l’illecito della p.a. viene meno nei casi da esso previsti e non è ravvisabile la rinuncia abdicativa.
Secondo l’Adunanza plenaria per le fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis del d.P.R. 08.06.2001, n. 327, recante il Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità, l’illecito permanente dell’amministrazione viene meno nei casi da esso previsti (l’acquisizione del bene o la sua restituzione), salva la conclusione di un contratto traslativo tra le parti, di natura transattiva, mentre la rinuncia abdicativa non può essere ravvisata.
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Espropriazione per pubblico interesse – Acquisizione sanante – Rinuncia abdicativa – Esclusione
Per le fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis TUEs., l’illecito permanente dell’Autorità viene meno nei casi da esso previsti (l’acquisizione del bene o la sua restituzione), salva la conclusione di un contratto traslativo tra le parti, di natura transattiva e la rinuncia abdicativa non può essere ravvisata. (1)
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   (1) I. – Con la sentenza in rassegna (analogamente alla n. 3 resa in pari data), l’Adunanza plenaria ha ritenuto che, per le fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001, l’illecito permanente dell’amministrazione viene meno nei casi da esso previsti (acquisizione o restituzione del bene), salva la conclusione di un contratto traslativo di natura transattiva tra le parti, e non può essere ravvisata la rinuncia abdicativa.
   II. – Nel caso esaminato dal collegio, l’appellante aveva proposto ricorso al Tar deducendo che il decreto ministeriale, in base al quale erano stati approvati i lavori di costruzione di un’opera pubblica e fissati i termini per la realizzazione dei lavori e l’emanazione dei decreti di esproprio, era stato annullato con sentenza del Consiglio di Stato.
Rappresentava, quindi, che, nel frattempo, l’opera pubblica era stata integralmente realizzata e il terreno di sua proprietà era irreversibilmente trasformato in assenza di un decreto di esproprio. Chiedeva la condanna dell’amministrazione resistente al risarcimento del danno derivante dalla illecita e illegittima apprensione del bene, essendo impossibile la sua restituzione. Il Tar per la Puglia, Lecce, con sentenza 25.09.2007, n. 3373, ravvisando un’ipotesi di occupazione acquisitiva, ha accolto l’eccezione, sollevata dall’amministrazione, di prescrizione del diritto del ricorrente al risarcimento del danno da occupazione acquisitiva, ritenendo decorso il termine quinquennale previsto dall’art. 2947 c.c. tra la data in cui l’occupazione d’urgenza sarebbe divenuta illegittima e la data di notifica del ricorso di primo grado.
La parte ricorrente proponeva appello contestando la prescrizione del diritto e deducendo che avrebbe perso il diritto di proprietà sul bene interessato dall’occupazione, con contestuale acquisizione a titolo originario della proprietà del suolo in capo alla p.a. Con sentenza parziale e contestuale ordinanza del 30.07.2019, n. 5391 (richiamata nella News US n. 104 del 25.09.2019, alla quale si rinvia per ulteriori approfondimenti, ma sulla quale si veda infra § h), il Consiglio di Stato, dopo aver ritenuto che il Tar avesse erroneamente accolto l’eccezione di prescrizione e aver individuato le ulteriori statuizioni da emanare per definire la controversia (ordine all’amministrazione che utilizza il bene pubblico di emanare un provvedimento che disponga l’acquisizione del bene al suo patrimonio indisponibile o, in alternativa, la sua restituzione), ha rimesso all’Adunanza plenaria due questioni giuridiche pregiudiziali alla decisione dell’appello: se la domanda risarcitoria vada qualificata come dichiarazione di rinuncia abdicativa del bene in questione; se, in caso affermativo, una tale rinuncia abbia giuridica rilevanza.
   III. – La plenaria ha osservato quanto segue:
      a) la questione di diritto sottoposta al suo esame riguarda esclusivamente la configurabilità, nella materia della espropriazione, della rinuncia abdicativa quale atto implicito e implicato nella proposizione, da parte di un privato illegittimamente espropriato, della domanda di risarcimento del danno per equivalente monetario derivante dall’illecito permanente, costituito dall’occupazione di un suolo da parte della p.a., a fronte dell’irreversibile trasformazione del suolo;
      b) la questione non riguarda, invece, l’ammissibilità in generale dell’istituto della rinuncia abdicativa nell’ordinamento giuridico:
         b1) la rinuncia abdicativa è un negozio giuridico unilaterale, non recettizio, con il quale il rinunciato dismette una situazione giuridica di cui è titolare, senza che ciò comporti il trasferimento del diritto in capo ad altro soggetto, né l’automatica estinzione del diritto;
         b2) gli ulteriori effetti, estintivi o modificativi del rapporto, che possono incidere sui terzi, sono conseguenze riflesse del negozio rinunziativo, non direttamente collegabili all’intento negoziale e non correlate al contenuto causale dell’atto;
         b3) la rinuncia abdicativa si differenzia dalla rinuncia traslativa proprio in considerazione della mancanza del carattere traslativo-derivativo dell’acquisto e per la mancanza di natura contrattuale, con la conseguenza che l’effetto in capo al terzo si produce ipso iure, a prescindere dalla volontà del rinunciante, quale effetto di legge;
         b4) per il suo perfezionamento non è quindi richiesto l’intervento o l’espressa accettazione del terzo, né che lo stesso ne sia a conoscenza;
      c) la tesi della ammissibilità della rinuncia abdicativa nella materia espropriativa è stata sostenuta sia dalla giurisprudenza amministrativa che da quella civile di legittimità, si fonda su vari argomenti e presenta effetti positivi per il privato sul piano pratico in quanto:
         c1) valorizza il principio di concentrazione della tutela ricavabile dall’art. 111 Cost., quale corollario del principio di ragionevole durata del processo, che sarebbe pregiudicato dalla sua segmentazione in una fase amministrativistica relativa al giudizio sulla legittimità degli atti espropriativi e in una fase civilistica per la determinazione del quantum da corrispondere al soggetto espropriato;
         c2) offre maggiori garanzie di compensare integralmente il privato per il bene perduto, in quanto l’utilità deve essere a questo corrisposta a titolo di risarcimento del danno e non a titolo di indennizzo;
         c3) poiché il risarcimento del danno è connesso alla proposizione della domanda da parte del privato in giudizio, che implica rinuncia abdicativa, è da tale momento che si verifica un debito di valore, con tutte le implicazioni in tema di interessi legali e rivalutazione;
      d) la tesi della rinuncia abdicativa in materia espropriativa non appare, tuttavia, condivisibile per diverse ragioni;
      e) in primo luogo, non spiega esaurientemente la vicenda traslativa in capo all’autorità espropriante:
         e1) se l’atto abdicativo è astrattamente idoneo a determinare la perdita della proprietà privata, non è altrettanto idoneo a determinare l’acquisto della proprietà in capo all’ente espropriante;
         e2) nel diritto privato è discusso se l’art. 827 c.c., in base al quale gli immobili che non sono in proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello Stato, possa essere la base legale di una dichiarazione di rinuncia del proprietario di un diritto reale immobiliare, a parte i casi previsti dalla legge.
In ogni caso, tale acquisto, a titolo originario e non derivativo, si realizzerebbe in capo allo Stato e non in capo all’autorità espropriante, che sarebbe del tutto esclusa dalla vicenda giuridica pur avendone costituito la causa efficiente tramite l’illecita apprensione del bene del privato. “La spiegazione dell’effetto traslativo, pertanto, sarebbe del tutto eccentrica rispetto al rapporto amministrativo che viene innescato dall’Amministrazione espropriante, rendendo evidente l’artificiosità della soluzione teorica proposta”;
         e3) l’effetto traslativo non può essere recuperato attraverso l’ordine di trascrizione della sentenza di condanna al risarcimento del danno (e, quindi, della sua rinuncia abdicativa implicita a favore dell’amministrazione espropriante), in quanto le vicende della trascrizione si pongono solo sul piano dell’opponibilità verso terzi degli atti giuridici dispositivi di diritti reali, ma non disciplinano la validità e l’efficacia giuridica degli stessi. Pertanto, se l’atto non è idoneo a determinare il passaggio del bene in capo all’amministrazione espropriante non potrà essere trascrivibile e l’ordine del giudice contenuto nella sentenza non potrebbe avere adeguata base legale;
      f) in secondo luogo, la rinuncia viene ricostruita quale atto implicito senza averne le caratteristiche essenziali, in quanto:
         f1) la rinuncia abdicativa, se riferita al ricorso giurisdizionale, non viene effettuata dalla parte, né personalmente, né attraverso un soggetto dotato di idonea procura;
         f2) nel diritto amministrativo è ammessa la sussistenza del provvedimento implicito quando l’amministrazione, pur non adottando formalmente un provvedimento, ne determina univocamente i contenuti sostanziali, o attraverso un comportamento conseguente, ovvero determinandosi in una direzione, anche con riferimento a fasi istruttorie coerentemente svolte, a cui non può essere ricondotto altro volere che quello equivalente al contenuto del provvedimento formale corrispondente, congiungendosi tra loro i due elementi di una manifestazione chiara di volontà dell’organo competente e della possibilità di desumere in modo non equivoco una specifica volontà provvedimentale, nel senso che l’atto implicito deve essere l’unica conseguenza possibile della presunta manifestazione di volontà.
Nella dogmatica degli atti impliciti nel diritto amministrativo emerge la sussistenza di un atto formale, perfetto e validamente emanato che contiene per implicito un’ulteriore volontà provvedimentale, oltre a quella espressa nel testo del provvedimento medesimo.
In questa ricostruzione non si riscontrano violazioni del principio di legalità dell’azione amministrativa perché la volontà amministrativa esiste ed è contenuta in un atto avente tutte le caratteristiche previste dalla legge per conferirle validità, con la peculiarità che detta volontà è ricavabile da una interpretazione non meramente letterale dell’atto. Nel caso di specie, la rinuncia abdicativa è totalmente estranea alla teorica degli atti impliciti che riguarda solo gli atti amministrativi e non quelli del privato;
         f3) non sembra possibile utilizzare lo stesso paradigma dei provvedimenti amministrativi impliciti per ricondurre la volontà di chiedere il risarcimento del danno alla volontà di abdicare alla proprietà privata.
Sul piano sostanziale non sembra che da una domanda risarcitoria sia possibile univocamente desumere la rinuncia del privato al diritto sul bene. Sul piano formale la domanda di risarcimento del danno contenuta nel ricorso giurisdizionale amministrativo è una domanda redatta e sottoscritta dal difensore e non dalla parte proprietaria del bene che ne ha la disponibilità e che è l’unico soggetto avente la legittimazione ad abdicarvi.
D’altro canto, nel mandato difensivo della parte al proprio difensore non può rinvenirsi una procura a rinunciare alla proprietà del bene;
     g) in terzo luogo, in senso decisivo e assorbente, la ricostruzione della rinuncia abdicativa non è provvista di base legale in ambito espropriativo, dove il rispetto del principio di legalità è richiamato con forza a vari livelli;
         g1) ai sensi dell’art. 42, commi 2 e 3, Cost. la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge che ne determina i modi di acquisto e può essere, nei casi previsti dalla legge e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale. La rinuncia abdicativa non costituisce uno dei casi previsti dalla legge;
         g2) l’istituto sembra inoltre presentare gli stessi problemi e dubbi interpretativi che avevano caratterizzato l’occupazione acquisitiva, di cui la Corte europea dei diritti dell’uomo ha evidenziato la contrarietà alla convenzione europea. In particolare, la c.d. occupazione appropriativa o acquisitiva, istituto di origine pretoria, determinava l’acquisizione della proprietà del fondo a favore della pubblica amministrazione per accessione invertita in caso di irreversibile trasformazione dell’area.
L’istituto risulta peraltro privo di base legale ed è stato pertanto ritenuto illegittimo dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, con la conseguenza che, attualmente, il mero fatto dell’intervenuta realizzazione dell’opera pubblica non costituisce titolo di acquisto del diritto, non determina il trasferimento della proprietà e non fa venire meno l’obbligo dell’amministrazione di restituire al privato il bene illegittimamente appreso;
         g3) nel delineato contesto il legislatore nazionale è intervenuto per regolare la fattispecie in esame, fornendo una base legale, sistematica e coerente, dapprima con l’art. 43 del d.P.R. n. 327 del 2001 e, quindi, dopo la dichiarazione di incostituzionalità della disposizione per eccesso di delega, con l’art. 42-bis, il quale, tra l’altro: prevede che l’autorità che utilizza sine titulo un bene immobile per scopi di interesse pubblico, dopo aver valutato,
con un procedimento d’ufficio, gli interessi in conflitto, adotta un provvedimento conclusivo del procedimento con cui sceglie se acquisire il bene o restituirlo, al fine di adeguare la situazione di diritto a quella di fatto; comporta che, nel caso di occupazione sine titulo, l’Autorità commette un illecito di carattere permanente; esclude che il giudice possa decidere la sorte del bene nel giudizio di cognizione instaurato dal proprietario; non può che escludere che la ‘sorte’ del bene sia decisa dal proprietario e che l’Autorità acquisti coattivamente il bene, solo perché il proprietario dichiari di averlo perso o di volerlo perdere, o di volere il controvalore del bene;
         g4) “l’art. 42-bis ha, quindi, definito in maniera esaustiva la disciplina della fattispecie, con una normativa autosufficiente, rispetto alla quale non trovano spazio elaborazioni giurisprudenziali che, se forse giustificate in assenza di una base legale, non si giustificano più una volta che intervenga un’esplicita disciplina normativa, ritenuta conforme al diritto europeo e alla Costituzione, che viene a costituire la base legale espressa della fattispecie in questione”.
La disposizione non obbliga l’amministrazione ad acquisire il bene, ma impone che la stessa eserciti il potere di valutare se apprendere il bene definitivamente o restituirlo al soggetto privato, secondo una concezione di doverosità delle funzioni amministrative che discende dai principi di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione;
         g5) pertanto, per le fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis, una rigorosa applicazione del principio di legalità richiede una base legale certa perché si determini l’effetto dell’acquisto della proprietà in capo all’espropriante;
         g6) nessuna norma attribuisce al soggetto espropriato, pur a fronte dell’illegittimità del titolo espropriativo, un diritto, sostanzialmente potestativo, di determinare il trasferimento della proprietà all’amministrazione espropriante, previa corresponsione del risarcimento del danno. Al contrario, è stato introdotto nell’ordinamento giuridico un istituto che attribuisce all’amministrazione una funzione autoritativa in forza della quale essa può scegliere tra restituzione e acquisizione del bene nel rispetto dei requisiti sostanziali e secondo le modalità ivi previste;
         g7) inoltre, poiché la disposizione in esame prevede che il titolo di acquisto sia un atto espressione di scelta dell’autorità, alcun rilievo può essere attribuito a tal fine a un atto diverso, ossia al successivo atto di liquidazione del danno, peraltro emanato in esecuzione di una sentenza; “né dall’art. 42-bis né da altra norma può ricavarsi l’attribuzione dell’effetto giuridico di rinuncia abdicativa alla fattispecie complessa derivante dalla coesistenza della sentenza di condanna e dell’atto di liquidazione del danno”;
      h) pertanto, con riferimento alle scelte del privato e dell’amministrazione:
         h1) nel caso in cui l’amministrazione non adotti l’atto discrezionale, il privato potrà esperire gli ordinari rimedi di tutela, compreso quello restitutorio, non residuando alcuno spazio per giustificare la perdurante inerzia dell’amministrazione;
         h2) la scelta tra acquisizione e restituzione va effettuata dall’amministrazione (o dal commissario ad acta nominato dal giudice amministrativo, all’esito del giudizio di cognizione o del giudizio di ottemperanza ai sensi dell’art. 34 o dell’art. 114 c.p.a.). In sede di giurisdizione di legittimità, né il giudice amministrativo né il proprietario possono sostituire le proprie valutazioni a quelle attribuite alla competenza e alla responsabilità dell’autorità individuata dalla norma.
Il giudice amministrativo, in caso di inerzia dell’amministrazione e di ricorso avverso il silenzio ai sensi dell’art. 117 c.p.a., può nominare il commissario ad acta che provvederà a esercitare i poteri previsti dalla disposizione o nel senso della acquisizione o nel senso della restituzione del bene illegittimamente espropriato;
         h3) qualora sia invocata la sola tutela risarcitoria o restitutoria prevista dal codice civile, senza richiamare l’art. 42-bis, il giudice deve pronunciarsi tenuto conto del quadro normativo delineato e del carattere doveroso della funzione attribuita dalla disposizione in esame all’amministrazione. Non sarebbe, quindi, ammissibile una richiesta solo risarcitoria in quanto essa si porrebbe al di fuori dello schema legale tipico previsto dalla legge per disciplinare la materia ponendosi anzi in contrasto con lo stesso, anche se il giudice potrà, ove ne ricorrano i presupposti, accogliere la domanda.
La domanda risarcitoria consiste essenzialmente nell’accertamento della illegittimità degli atti della procedura espropriativa e nella scelta del rimedio previsto dalla legge. Nel caso di espropriazione senza titolo valido, la legge speciale prevede che il trasferimento del bene non avvenga, per carenza di titolo, e il bene vada restituito al privato. La restituzione può essere impedita dall’amministrazione, la quale è tenuta, nell’esercizio di una funzione doverosa, a valutare se procedere alla restituzione del bene, previa riduzione in pristino, o all’acquisizione del bene nel rispetto di tutti i presupposti declinati dall’art. 42-bis e con la corresponsione di un’indennità pari al valore del bene maggiorato del 10 per cento;
         h4) in ogni caso il diritto processuale amministrativo offre un adeguato strumentario per evitare, nel corso del giudizio, che le domande proposte in primo grado, congruenti con quello che allora appariva il vigente quadro normativo e l’orientamento giurisprudenziale di riferimento siano di ostacolo alla formulazione di istanze adeguate al diverso contesto normativo e giurisprudenziale vigente al momento della decisione, quali la conversione della domanda, la rimessione in termini per errore scusabile, l’invito alla precisazione della domanda in relazione al definito quadro giurisprudenziale, in tutti i casi previa sottoposizione della relativa questione processuale, in ipotesi rilevata d’ufficio, al contraddittorio delle parti ex art. 73, comma 3, c.p.a., a garanzia del diritto di difesa di tutte le parti processuali.
   IV. – Per completezza si segnala quanto segue: i) con riferimento al rapporto tra rinuncia abdicativa e art. 42-bis:
        i1) Cons. Stato, Ad. plen., 20.01.2020, n. 4 (oggetto di coeva News US) ha pronunciato il seguente principio di diritto “Per le fattispecie rientranti nell’ambito di applicazione dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001 la rinuncia abdicativa del proprietario del bene occupato sine titulo dalla pubblica amministrazione, anche a non voler considerare i profili attinenti alla forma, non costituisce causa di cessazione dell’illecito permanente dell’occupazione senza titolo”, restituendo per il resto gli atti alla sezione rimettente ai sensi dell’art. 99, comma 4, c.p.a.;
         i2) le questioni esaminate dalle citate decisioni dell’Adunanza plenaria sono state oggetto di tre rimessioni: Cons. Stato, sez. IV, 30.07.2019, n. 5400 (oggetto della citata News US n. 104 del 25.09.2019, alla quale si rinvia specie con riferimento ai precedenti giurisprudenziali sul tema, § t), con riferimento alla sentenza n. 4 del 2020), nonché le nn. 5399 (sulla quale è intervenuta la citata sentenza n. 3 del 2020 dell’Adunanza plenaria) e 5391 (sulla quale è intervenuta la decisione in commento n. 2 del 2020) emesse in pari data, che hanno deferito all’Adunanza plenaria le seguenti questioni:
a) se per le fattispecie sottoposte all’esame del giudice amministrativo e disciplinate dall’art. 42-bis del testo unico sugli espropri, l’illecito permanente dell’Autorità viene meno solo nei casi da esso previsti (l’acquisizione del bene o la sua restituzione), salva la conclusione di un contratto traslativo tra le parti, di natura transattiva;
b) se, pertanto, la ‘rinuncia abdicativa’, salve le questioni concernenti le controversie all’esame del giudice civile, non può essere ravvisata quando sia applicabile l’art. 42-bis;
c) se, ove sia invocata la sola tutela restitutoria e/o risarcitoria prevista dal codice civile e non sia richiamato l’art. 42-bis, il giudice amministrativo può qualificare l’azione come proposta avverso il silenzio dell’Autorità inerte in relazione all’esercizio dei poteri ex art. 42-bis;
d) se, in tale ipotesi, il giudice amministrativo può conseguentemente fornire tutela all’interesse legittimo del ricorrente applicando la disciplina di cui all’art. 42-bis e, eventualmente, nominando un Commissario ad acta già in sede di cognizione;
e) se, nella specie, l’atto di acquisizione emesso da Roma Capitale in data 23.11.2018 vada considerato giuridicamente rilevante (ciò che dovrebbe ammettersi, qualora si dovesse ritenere che l’Amministrazione solo con l’emanazione dell’atto di data 23.11.2018 ha fatto venire meno l’illecito permanente conseguente alla occupazione sine titulo)
”;
      j) sempre con riferimento all’art. 42-bis, Cons. Stato, sez. IV, ordinanza 15.07.2019, n. 4950 (oggetto della News US n. 100 del 10.09.2019, alla quale si rinvia per ulteriori approfondimenti, specie con riferimento al tema dell’overruling processuale, § q)), ha deferito all’Adunanza plenaria le seguenti questioni: “a) se il giudicato civile, sull’obbligo di restituire un’area al proprietario da parte dell’Amministrazione occupante sine titulo, precluda o meno l’emanazione di un atto di imposizione di una servitù di passaggio, col mantenimento del diritto di proprietà in capo al suo titolare; b) se la formazione del giudicato interno -sulla statuizione del TAR per cui il giudicato civile consente l’attivazione di un ordinario procedimento espropriativo– imponga nella specie di affermare che sussiste anche il potere dell’Amministrazione di imporre la servitù di passaggio ex art. 42-bis, comma 6; c) se la preclusione del ‘giudicato restitutorio’ sussista anche quando la sentenza (nella specie, del giudice civile) non abbia espressamente precluso l’esercizio dei poteri previsti dall’art. 42-bis per adeguare lo stato di fatto a quello di diritto; d) se la preclusione del ‘giudicato restitutorio’ sussista solo in relazione ai giudicati formatisi dopo la pubblicazione della sentenza della Adunanza Plenaria n. 2 del 2016, ovvero anche in relazione ai giudicati formatisi in precedenza”.
In particolare, con la citata ordinanza, il collegio ha deferito all’Adunanza plenaria alcune questioni relative alla interpretazione dell’art. 42-bis del TUEs, con particolare riferimento alla possibilità di adottare un decreto di acquisizione sanante per la costituzione, in favore di un Comune, di una servitù pubblica di passaggio per l’accesso ad un parco pubblico, in presenza di un giudicato civile di restituzione del terreno, conseguente non ad una procedura espropriativa illegittima ma alla declaratoria di nullità di un contratto di compravendita con immissione immediata nel possesso in favore del Comune resistente dinanzi al Tar;
      k) di recente, Cass. civ., sez. un., 12.11.2019, n. 29466, secondo un percorso logico antitetico a quello intrapreso dalla Plenaria in commento, ha dato per assodato: l’esistenza dell’istituto della rinuncia abdicativa sia per occupazione usurpativa che acquisitiva; l’eccezionalità dello strumento previsto dall’art. 42-bis; l’inapplicabilità in ambito espropriativo degli artt. 2058 e 2033 c.c.; che il giudicato sul risarcimento del danno, anche per equivalente monetario, blocca l’emanazione del provvedimento previsto dall’art. 42-bis ispirato a una logica indennitaria; la necessità di una motivazione rafforzata per giustificare l’adozione di una delle scelte di cui all’art. 42-bis da parte dell’amministrazione; l’applicabilità dell’art. 21-octies al provvedimento ex art. 42-bis. La Corte ha, in particolare, ritenuto che:
        k1) il provvedimento di acquisizione sanante, disciplinato dall’art. 42-bis, “costituisce l'esercizio di uno speciale, autonomo ed eccezionale potere espropriativo, che è innestato su un precedente procedimento espropriativo irrimediabilmente viziato o, comunque, fondato su titolo astrattamente annullabile sub judíce, e che è teso a sostituire il regolare procedimento ablativo, in quanto contiene uno actu sia la dichiarazione di pubblica utilità, sia il decreto di esproprio”;
         k2) “nel caso in esame, a differenza che in quelli oggetto di tale orientamento, il giudicato attiene bensì all'illegittimità della condotta della parte pubblica, ma non comprende alcuna statuizione di risarcimento del danno per equivalente, statuizione che presuppone, pur sempre, una rinuncia -espressa o implicita nella richiesta risarcitoria- al diritto dominicale da parte del proprietario”;
      l) sul carattere permanente dell’illecito dell’amministrazione in caso di utilizzo sine titulo di un bene immobile per scopi di interesse pubblico, si veda tra le altre: Cons. Stato, Ad. plen., 09.02.2016, n. 2 (in Foro it., 2016, III, 185; Corr. giur., 2016, 4, 498, con nota di CARBONE; Giur. it., 2016, 5, 1212, con nota di URBANI), secondo cui “in linea generale, quale che sia la sua forma di manifestazione (vie di fatto, occupazione usurpativa, occupazione acquisitiva), la condotta illecita dell'amministrazione incidente sul diritto di proprietà non può comportare l'acquisizione del fondo e configura un illecito permanente ex art. 2043 c.c., con decorrenza del termine di prescrizione quinquennale dalla proposizione della domanda basata sull'occupazione contra ius, ovvero, dalle singole annualità per quella basata sul mancato godimento del bene. Tale illecito viene a cessare solo in conseguenza:
a) della restituzione del fondo;
b) di un accordo transattivo;
c) della rinunzia abdicativa da parte del proprietario implicita nella richiesta di risarcimento del danno per equivalente monetario a fronte dell'irreversibile trasformazione del fondo;
d) di una compiuta usucapione, ma solo a condizione che: - sia effettivamente configurabile il carattere non violento della condotta; - si possa individuare il momento esatto della interversio possesionis; - si faccia decorrere la prescrizione acquisitiva dalla data di entrata in vigore del D.P.R. n. 327/2001 (30.06.2003), per evitare che sotto mentite spoglie (alleviare gli oneri finanziari altrimenti gravanti sull'Amministrazione responsabile), si reintroduca una forma surrettizia di espropriazione indiretta in violazione dell'art. 1 del Protocollo addizionale della Cedu;
e) di un provvedimento emanato ex art. 42-bis del D.P.R. n. 327/2001
”;
      m) sulla teoria dell’atto implicito nel diritto amministrativo, si veda, tra le altre, Cons. Stato, sez. VI, 27.11.2014, n. 5887 (in Quotidiano giuridico, 2014) secondo cui “deve ammettersi, seppure in via restrittiva, la sussistenza di un provvedimento implicito, quando l'Amministrazione pur non adottando formalmente un provvedimento, ne determina univocamente i contenuti sostanziali, o attraverso un comportamento conseguente, ovvero determinandosi in una direzione, anche con riferimento a fasi istruttorie coerentemente svolte, a cui non può essere ricondotto altro volere che quello equivalente al contenuto del provvedimento formale corrispondente. Si congiungono, infatti, i due elementi di una manifestazione chiara di volontà dell'organo competente e della possibilità di desumerne in modo non equivoco una specifica volontà provvedimentale nel senso che l'atto implicito deve essere l'unica conseguenza possibile della presunta manifestazione di volontà”;
      n) la rassegna monotematica di giurisprudenza, sia civile che amministrativa, a cura dell’Ufficio Studi, massimario e formazione dal titolo “L’occupazione abusiva di immobili da parte della pubblica amministrazione” (aggiornata al 02.09.2019, cui si rinvia per ogni approfondimento anche di dottrina); ivi si mette in luce la maggiore efficienza economica sottesa alla scelta del privato di rinunciare alla proprietà del bene occupato nonché l’abbattimento del contenzioso invece incrementato dalla attivazione del procedimento di cui all’art. 42-bis (che potrà essere contestato innanzi al G.A. per i profili di legittimità e davanti alla Corte d’appello per tutti i profili indennitari), specie se emanato a seguito di un giudicato che accerti il silenzio-inadempimento dell’Amministrazione sulla istanza del privato rivolta all’amministrazione; è evidente che a fronte della possibilità, offerta dall’istituto della rinuncia abdicativa, di definire in un unico giudizio innanzi al giudice amministrativo (per le occupazioni comunque collegate ad una dichiarazione di pubblica utilità) ovvero a quello civile (per le occupazioni ab origine sine titulo c.d. usurpative pure) l’intera vicenda contenziosa, il percorso procedimentale e processuale prescelto dalle Plenarie nn. 2, 3 e 4 dilata i tempi della definizione stabile dell’assetto dei contrapposti interessi (sul punto cfr. in particolare i paragrafi 11 e da 14 a 21 della Rassegna e la citata News US n. 100 del 10.09.2019 relativa a Cons. Stato, sez. IV, ordinanza 15.07.2019, n. 4950 sull’interpretazione dell’art. 42-bis del T.U. espropriazione in presenza di un giudicato restitutorio del g.o.);
      o) sui limiti alla conversione d’ufficio della domanda risarcitoria in azione contro il silenzio per l’adozione del provvedimento ex art. 42-bis, si vedano i principi in materia di conversione dell’azione di annullamento in azione risarcitoria affermati da Cons. Stato, Ad. plen., 13.04.2015, n. 4 (in Foro it., 2015, III, 265, con nota di TRAVI; Urbanistica e appalti, 2015, 917, con nota di MANGANARO, MAZZA LABOCCETTA; Giur. it., 2015, 1693, con nota di COMPORTI; Guida al dir., 2015, fasc. 20, 92, con nota di MASARACCHIA; Foro amm., 2015, 2206 (m), con nota di SILVESTRI; Corriere giur., 2015, 1596, con nota di SCOCA; Dir. proc. amm., 2016, 173, con nota di TURRONI), secondo cui posto che il processo amministrativo è soggetto al principio della domanda, il giudice amministrativo non può emettere d'ufficio una pronuncia di risarcimento del danno, in presenza di una domanda di annullamento della parte ricorrente; si veda altresì Cons. Stato, Ad. plen., 27.04.2015, n. 5 (in Foro it., 2015, III, 265, con nota di TRAVI; Urbanistica e appalti, 2015, 1177, con nota di VAIANO; Riv. neldiritto, 2015, 2084, con nota di COLASCILLA NARDUCCI; Riv. dir. proc., 2015, 1256, con nota di FANELLI; Giur. it., 2015, 2192, con nota di FOLLIERI; Dir. proc. amm., 2016, 205, con nota di PERFETTI, TROPEA; Dir. proc. amm., 2016, 830, con nota di BERTONAZZI);
      p) nel senso della improcedibilità della domanda di risarcimento del danno (per equivalente) o di restituzione, se sopravviene nel corso del giudizio il provvedimento ex art. 42-bis, è unanime la giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 25.05.2018, n. 3148; Cons. Stato, sez. IV, 09.05.2018, n. 2765; Cass. civ., sez. I, 31.05.2016, n. 11258; sul punto si rinvia al § 9 della citata rassegna monotematica);
      q) sulla immanenza del principio dispositivo che caratterizza la giurisdizione amministrativa di legittimità, dovendosi escludere per tale via suggestive ricostruzioni incentrate sull’indole oggettiva di tale giurisdizione, cfr. da ultimo Corte cost., 13.12.2019, n. 271 (oggetto della News US n. 2 dell’08.01.2020 cui si rinvia per ogni approfondimento sul punto) (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza 20.01.2020 n. 2 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

anno 2019

ESPROPRIAZIONERichiesta di retrocessione di una parte di un terreno che la proprietà aveva venduto prima della dichiarazione di pubblica utilità.
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Espropriazione per pubblica utilità – Cessione volontaria – Vendita terreno – Antecedente l’apertura di una formale procedura ablatoria – Non è tale.
La vendita di un terreno avvenuta prima della apertura di una formale procedura ablatoria mediante dichiarazione di pubblica utilità non può essere assimilata alla cessione volontaria prevista dalla normativa sugli espropri, e ciò per la semplice ragione che l'atto traslativo non potrebbe in tale caso espletare la sua funzione tipica di strumento di acquisizione della proprietà immobiliare in capo all’amministrazione espropriante alternativo rispetto al provvedimento amministrativo autoritativo costituito dal decreto di esproprio (1).
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   (1) Ha ricordato la Sezione che la cessione volontaria di cui all’art. 12, l. n. 865 del 1971 costituisce un contratto ad oggetto pubblico i cui elementi costituitivi, indispensabili per differenziarla da un normale contratto di compravendita di diritto privato, sono:
a) l’inserimento del negozio nell’ambito di un procedimento di espropriazione per pubblica utilità, nel cui contesto la cessione assolve alla peculiare funzione dell’acquisizione del bene da parte dell’espropriante, quale strumento alternativo all’ablazione d’autorità mediante decreto di esproprio;
b) la preesistenza non solo di una dichiarazione di pubblica utilità ancora efficace, ma anche di un subprocedimento di determinazione dell’indennità e delle relative offerte ed accettazione, con la sequenza e le modalità previste dall’art. 12, l. n. 865 del 1971;
c) il prezzo di trasferimento volontario correlato ai parametri di legge stabiliti, inderogabilmente, per la determinazione dell’indennità di espropriazione.
Ne consegue che, ove non siano riscontrabili tutti i requisiti sopra indicati, non potendosi escludere che l’amministrazione abbia inteso perseguire una finalità di pubblico interesse tramite un ordinario contratto di compravendita, al negozio traslativo non possono collegarsi gli effetti tipici della cessione volontaria disciplinata dall’art. 12 della legge n. 865 del 1971, ossia l’estinzione dei diritti reali o personali gravanti sul bene acquisito dall’amministrazione (Cass. 22.01.2018, n. 1534; id. 22.05.2009, n. 11955; Cons. St., sez. IV, 27.07.2016, n. 3391).
Pertanto, presupposto indispensabile perché si possa configurare la cessione volontaria, e perché si possano produrre i suoi effetti tipici, è il collegamento tra il rapporto contrattuale ed il procedimento amministrativo di espropriazione per pubblica utilità che vi ha dato origine, il quale funge da essenziale momento genetico e fondamentale presupposto del trasferimento immobiliare. Senza l’apertura di una formale procedura espropriativa non può esserci spazio per la cessione volontaria, e ciò per la semplice ragione che la cessione non potrebbe in tale caso espletare la sua funzione tipica di strumento di acquisizione della proprietà immobiliare in capo all’amministrazione espropriante alternativo rispetto al provvedimento amministrativo autoritativo costituito dal decreto di esproprio (Cass. 29.03.2007, n. 7779).
La causa del contratto pubblicistico di cessione di cui all’art. 12, l. n. 865 del 1971 va quindi ricondotta ad una modalità alternativa di realizzazione del procedimento espropriativo mediante l’utilizzo di uno strumento privatistico, peraltro soggetto per taluni aspetti – tra cui la determinazione del prezzo di cessione - alla disciplina contenuta in norme di legge imperative (Cons. Stato, sez. IV, 07.04.2015, n. 1768; id. 03.03.2015, n. 1035; Cass., S.U., 13.02.2007, n. 3040).
Nell’ambito di questa cornice normativa, e nel rispetto dei presupposti su indicati, la conclusione del contratto di cessione rimane comunque soggetta alla disciplina del contratto privatistico, non essendo caratterizzata dalla posizione di preminenza dell’amministrazione pubblica espropriante bensì dall’incontro paritetico delle volontà (Cass. 17.11.2000, n. 14901).
Traslando i superiori principi all’odierno gravame, non può che rilevarsi l’assenza di un requisito essenziale perché possa ritenersi integrata la fattispecie tipica della cessione volontaria di cui all’art. 12, l. n. 865 del 1971, ovvero quel collegamento necessario tra una procedura espropriativa per pubblica utilità e quella modalità alternativa di conclusione della medesima procedura costituita dalla cessione volontaria dell’immobile espropriando (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.10.2019 n. 7445 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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SENTENZA
2.3 La cessione volontaria di cui all’art. 12 della legge n. 865 del 1971 costituisce invero un contratto ad oggetto pubblico i cui elementi costituitivi, indispensabili per differenziarla da un normale contratto di compravendita di diritto privato, sono:
   a) l’inserimento del negozio nell’ambito di un procedimento di espropriazione per pubblica utilità, nel cui contesto la cessione assolve alla peculiare funzione dell’acquisizione del bene da parte dell’espropriante, quale strumento alternativo all’ablazione d’autorità mediante decreto di esproprio;
   b) la preesistenza non solo di una dichiarazione di pubblica utilità ancora efficace, ma anche di un subprocedimento di determinazione dell’indennità e delle relative offerte ed accettazione, con la sequenza e le modalità previste dall’art. 12 della legge n. 865 del 1971;
   c) il prezzo di trasferimento volontario correlato ai parametri di legge stabiliti, inderogabilmente, per la determinazione dell’indennità di espropriazione. Ne consegue che, ove non siano riscontrabili tutti i requisiti sopra indicati, non potendosi escludere che l’amministrazione abbia inteso perseguire una finalità di pubblico interesse tramite un ordinario contratto di compravendita, al negozio traslativo non possono collegarsi gli effetti tipici della cessione volontaria disciplinata dall’art. 12 della legge n. 865 del 1971, ossia l’estinzione dei diritti reali o personali gravanti sul bene acquisito dall’amministrazione (cfr. Cass. 22.01.2018, n. 1534; Id. 22.05.2009, n. 11955; negli stessi termini, Cons. Stato, sez. IV, 27.07.2016, n. 3391).
Pertanto, presupposto indispensabile perché si possa configurare la cessione volontaria, e perché si possano produrre i suoi effetti tipici, è il collegamento tra il rapporto contrattuale ed il procedimento amministrativo di espropriazione per pubblica utilità che vi ha dato origine, il quale funge da essenziale momento genetico e fondamentale presupposto del trasferimento immobiliare.
Senza l’apertura di una formale procedura espropriativa non può esserci spazio per la cessione volontaria, e ciò per la semplice ragione che la cessione non potrebbe in tale caso espletare la sua funzione tipica di strumento di acquisizione della proprietà immobiliare in capo all’amministrazione espropriante alternativo rispetto al provvedimento amministrativo autoritativo costituito dal decreto di esproprio (cfr. Cass. 29.03.2007, n. 7779).
La causa del contratto pubblicistico di cessione di cui all’art. 12 della legge n. 865 del 1971 va quindi ricondotta ad una modalità alternativa di realizzazione del procedimento espropriativo mediante l’utilizzo di uno strumento privatistico, peraltro soggetto per taluni aspetti –tra cui la determinazione del prezzo di cessione- alla disciplina contenuta in norme di legge imperative (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 07.04.2015, n. 1768; Id. 03.03.2015, n. 1035; Cass. S.U. 13.02.2007, n. 3040).
Nell’ambito di questa cornice normativa, e nel rispetto dei presupposti su indicati, la conclusione del contratto di cessione rimane comunque soggetta alla disciplina del contratto privatistico, non essendo caratterizzata dalla posizione di preminenza dell’amministrazione pubblica espropriante bensì dall’incontro paritetico delle volontà (cfr. Cass. 17.11.2000, n. 14901).

ESPROPRIAZIONE: 1.- Beni pubblici e privati – espropriazione per p.u. – retrocessione – esproprio realizzato nell’ambito della riforma agraria – retrocessione – è esclusa.
L’istituto della retrocessione –sia totale sia parziale– non è applicabile nei casi in cui l’utilizzazione dell’immobile ablato consegua alla semplice espropriazione dell’area, considerata in sé e per sé ed indipendentemente dalla sua specifica destinazione.
Vi rientra (come nella specie) un’ipotesi di attuazione della riforma fondiaria di cui alle leggi nn. 230 del 1950 e 841 del 1950: infatti, l’espropriazione prevista dalla riforma agraria del secondo dopoguerra realizza sempre e automaticamente almeno il ridimensionamento dei latifondi, che rappresenta una delle finalità del legislatore (oltre alla trasformazione e colonizzazione agraria), sicché la mancata utilizzazione dei beni non può fondare alcuna retrocessione
(massima free tratta da www.giustamm.it).
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8. L’appello è infondato e deve essere respinto alla stregua delle seguenti considerazioni in fatto e diritto.
9. Con riferimento al primo motivo di gravame, si rileva che del tutto correttamente il Tar ha affermato che l’istituto della retrocessione –sia totale sia parziale– non è applicabile nelle ipotesi in cui l’utilizzazione dell’immobile ablato consegua alla semplice espropriazione dell’area, considerata in sé e per sé ed indipendentemente dalla sua specifica destinazione. Tra queste ipotesi rientra certamente il caso di specie, dove vi è stata un’attuazione della riforma fondiaria di cui alle leggi nn. 230 del 1950 e 841 del 1950.
In sostanza, il collegio di primo grado ha ben chiarito che l’espropriazione prevista dalla riforma agraria del secondo dopoguerra realizza sempre e automaticamente almeno il ridimensionamento dei latifondi, che rappresenta una delle finalità del legislatore (oltre alla trasformazione e colonizzazione agraria), sicché la mancata utilizzazione dei beni non può fondare alcuna retrocessione.
In tal senso si è espressa la Corte suprema di cassazione, con la sentenza delle Sezioni unite, del 02.02.1963, n. 183, e in proposito non si è mai successivamente prospettata in giurisprudenza una diversa lettura ermeneutica.
Non rilevano nel caso de quo i richiami formulati dagli appellanti alla successiva giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia espropriativa nonché ai principi codificati dal D.P.R. n. 327 del 2001, atteso che l’ablazione è avvenuta in un quadro di legalità formale e sostanziale e che non è oggetto del presente giudizio la quantificazione delle pretese indennitarie.
10. Circa il secondo motivo d’impugnazione, il Collegio considera legittima la precisazione svolta dal Tar per cui la circostanza che sull’area oggetto di causa sia stata attivata una nuova procedura ablatoria da parte del Comune di Eboli (non preclusa dalle precedenti determinazioni e, pertanto, non automaticamente illegittima) rende improcedibile il ricorso, posto che l’ipotetico diritto di retrocessione si convertirebbe in un diritto all’indennità.
Ad ogni modo, la valutazione svolta dal collegio di primo grado, nel secondo paragrafo della parte motiva in diritto della pronuncia impugnata, sull’improcedibilità del ricorso ha il valore di una motivazione addizionale non determinante l’esito della lite, in quanto il ricorso non è stato dichiarato improcedibile, bensì stato respinto nel merito, sulla base delle considerazioni presenti nel paragrafo primo della medesima parte motiva, cosicché una sua riforma non potrebbe incidere da sola sulla decisione di rigetto.
11. In relazione ai motivi contenuti nel ricorso di primo grado e ai successivi motivi aggiunti, si osserva che loro mera trascrizione, effettuata con espresso riferimento sia ad una maggiore esplicitazione dei motivi d’appello sia all’art. 346 c.p.c., allora regolante le decadenze in appello nel processo amministrativo, non è di per sé sufficiente ad integrare una rituale riproposizione delle contestazioni formulate in primo grado, come più volte ribadito dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. Cons. Stato, sezione IV, sentenze 05.03.2015, 1115, 20.04.2006, n. 2233, 16.04.2010, n. 2178; Cons. Stato, sez. VI, sentenze 10.04.2012, n. 2060 e 07.02.2014, n. 590), trattandosi di una generica modalità di reiterazione dei motivi, la quale fuoriesce dalla critica alla sentenza impugnata, che costituisce il proprium dell’appello.
In ogni caso, le cennate censure non sono accoglibili, recando, in sostanza, doglianze analoghe a quelle proposte con i due motivi d’impugnazione, che sono stati valutati infondati. È, invece, meritevole di vaglio autonomo –seppur non necessario– soltanto il terzo motivo del ricorso di primo grado, non esaminato dal Tar, con cui si è lamentata la violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, per non aver l’amministrazione comunicato agli interessati il preavviso di rigetto dell’istanza di retrocessione parziale del fondo.
Al riguardo giova evidenziare che la giurisprudenza amministrativa interpreta il citato art. 10-bis, così come le altre norme in materia di partecipazione procedimentale, non in senso formalistico, bensì avendo riguardo all’effettivo e oggettivo pregiudizio che la sua inosservanza abbia causato alle ragioni del soggetto privato nello specifico rapporto con la pubblica amministrazione. Ne deriva che l’omissione del preavviso di rigetto non cagiona l’automatica illegittimità del provvedimento finale qualora possa trova applicazione l’art. 21-octies della stessa legge, secondo cui non è annullabile il provvedimento per vizi formali non incidenti sulla sua legittimità sostanziale e il cui contenuto non avrebbe potuto essere differente da quello in concreto adottato, poiché detto art. 21-octies, attraverso la dequotazione dei vizi formali dell’atto, mira a garantire una maggiore efficienza all’azione amministrativa, risparmiando antieconomiche ed inutili duplicazioni di attività, laddove il riesercizio del potere non potrebbe comunque portare all’attribuzione del bene della vita richiesto dall’interessato (cfr. Cons. Stato, sezione III, sentenza 19.02.2019, n. 1156; Cons. Stato, sezione IV, sentenze 11.01.2019, n. 256 e 27.09.2018, n. 5562).
Tanto chiarito, il Collegio ritiene che nel caso di specie un contraddittorio sull’istanza dei privati non avrebbe potuto condurre ad un diverso esito dell’azione amministrativa, poiché non sono emersi elementi tali da far ritenere che il provvedimento regionale contestato avrebbe potuto avere un contenuto differente qualora le odierne appellanti avessero presentato ulteriori considerazioni, atteso, che –come già sopra analizzato– le decisione dell’amministrazione è legittima ed è stata adottata su una completa conoscenza della situazione di fatto, che era già stata precedentemente scandagliata in altri procedimenti, anche giudiziari.
12. In conclusione l’appello deve essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 17.09.2019 n. 6209 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ESPROPRIAZIONEAlla Corte costituzionale la disciplina regionale sull’inserimento dell’opera nel programma dei lavori pubblici e conseguente proroga del vincolo espropriativo.
Il Tar per la Lombardia dubita della legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 12, della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005 (“Legge per il governo del territorio”), nella parte in cui stabilisce che i vincoli preordinati all’espropriazione, di durata quinquennale, non decadono quando l’opera sia inserita, prima della scadenza del quinquennio, nel programma triennale delle opere pubbliche e relativo aggiornamento.
Tale previsione sarebbe, infatti, violativa dei principi fondamentali della materia e sarebbe stata dettata oltre i limiti della competenza concorrente delle regioni a statuto ordinario, avendo essa dato luogo, in assenza di indennizzo, ad un’ipotesi di attuazione del vincolo espropriativo –volta ad impedirne la decadenza– difforme dalla disciplina statale la quale, diversamente, ricollega tale effetto di mantenimento dell’efficacia del vincolo ad un serio inizio della procedura espropriativa.
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Espropriazione per pubblico interesse – Vincolo preordinato all’esproprio – Reiterazione – Regione Lombardia – Effetti della previsione dell’opera nel piano triennale dei lavori pubblici – Questione non manifestamente infondata di costituzionalità
È rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 12, della legge regionale della Lombardia n. 12 del 2005, nella parte in cui, in violazione dei limiti alla propria competenza legislativa concorrente definiti dall’art. 117 Cost. e comunque dei principi fondamentali relativi ai limiti del potere espropriativo discendenti dall’art. 42 Cost., attribuisce all’inserimento della previsione della realizzazione di un’opera pubblica nella programmazione triennale di cui all’art. 21 del d.lgs. n. 50 del 2016 l’effetto preclusivo della decadenza del vincolo quinquennale preordinato all’esproprio per la sua esecuzione (1).
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   (1) I. – Con l’ordinanza in rassegna il Tar per la Lombardia dubita della legittimità costituzionale –in relazione agli artt. 42 e 117 Cost., oltre che con riferimento all’art. 1 del Primo protocollo della C.E.D.U.– dell’art. 9, comma 12, l.r. Lombardia 11.03.2005, n. 12 nella parte in cui stabilisce che l’inserimento dell’opera nel programma triennale dei lavori pubblici previsto dall’art. 21 del d.lgs. n. 50 del 2016, ove intervenuto nel periodo di efficacia quinquennale del vincolo, impedisce la decadenza dello stesso vincolo. L’ordinanza evidenzia come la previsione di cui trattasi violerebbe le regole che connotano l’esercizio del potere ablatorio, ivi compreso l’obbligo di erogazione di un indennizzo in caso di espropriazione di valore, fermo restando che il programma triennale dei lavori pubblici sarebbe uno strumento inidoneo ad integrare il presupposto del “serio avvio della procedura espropriativa” che la Corte costituzionale ha considerato necessario per l’attuazione
del vincolo medesimo. Il Tar rimettente, adìto per l’annullamento degli atti della procedura espropriativa, con sentenza non definitiva n. 736 del 2019 ha dichiarato talune doglianze in parte inammissibili e in parte infondate ed ha riservato all’ordinanza in rassegna lo scrutinio dei dubbi di legittimità costituzionale.
   II. – Il ragionamento del Ter si articola nelle seguenti considerazioni:
      a) il riparto di competenze tra disciplina statale e disciplina regionale stabilito all’art. 117, terzo comma, Cost., non consentirebbe al legislatore regionale (e, segnatamente, a quello di una regione a statuto ordinario) titolare della potestà legislativa concorrente, di individuare ipotesi di “attuazione” del vincolo espropriativo –idonee ad impedirne la decadenza per superamento del termine di efficacia quinquennale– ulteriori rispetto a quelle dettate dalla disciplina statale;
      b) l’assetto normativo statale ha mutuato le regole previgenti (già contenute nella legge n. 1187 del 1968 in tema di durata dei vincoli) ed i principi espressi da Corte cost. 20.05.1999, n. 179 (in Foro it., 1999, I, 1705, con nota di BENINI, all’esito di questioni sollevate da Cons. Stato, ad. plen., 25.09.1996, n. 20, in Foro it., 1997, III, 4) in tema di reiterazione del divieto di edificazione, così compendiati:
         b1) il potere espropriativo è ammesso solo nei limiti in cui ciò sia previsto dalla legge, a condizione che l’assoggettamento all’attività ablatoria sia limitato nel tempo e che, a fronte di una pur possibile indeterminatezza temporale del vincolo, il proprietario sia indennizzato per la perdita, in via di fatto, della proprietà (Corte cost. 22.12.1989, n. 575, in Foro it., 1990, I, 1130);
         b2) la decadenza del vincolo per superamento del quinquennio di efficacia è preclusa dall’intervenire, prima della scadenza, dell’espropriazione ovvero del “serio inizio dell’attività preordinata all’espropriazione” (quale quella data dall’approvazione di un piano attuativo o di provvedimento che dichiari la pubblica utilità dell’opera);
         b3) la reiterazione del vincolo è ammessa all’esito di un procedimento che preveda la garanzia partecipativa per i proprietari interessati e che sia concluso con un provvedimento motivato che tenga conto, in particolar modo, delle esigenze di soddisfacimento degli standard;
         b4) la reiterazione del vincolo preordinato all’esproprio deve dar luogo ad un indennizzo ancorché, come chiarito da Cons. Stato, ad. plen., n. 7 del 2007 (in Foro it., 2007, III, 350, con nota di TRAVI), per la legittimità della reiterazione non sia necessaria la puntuale quantificazione, da parte dell’Amministrazione, dell’effettivo danno subìto da parte del proprietario inciso;
      c) una previsione quale quella contenuta nell’art. 9, comma 12, l.r. cit., secondo cui “I vincoli preordinati all'espropriazione per la realizzazione, esclusivamente ad opera della Pubblica Amministrazione, di attrezzature e servizi previsti dal piano dei servizi hanno la durata di cinque anni, decorrenti dall'entrata in vigore del piano stesso. Detti vincoli decadono qualora, entro tale termine, l'intervento cui sono preordinati non sia inserito, a cura dell'ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale delle opere pubbliche e relativo aggiornamento, ovvero non sia stato approvato lo strumento attuativo che ne preveda la realizzazione […]”, violerebbe: I) le regole di riparto di competenze costituzionalmente stabilite (art. 117 Cost.); II) l’art. 1 del Primo protocollo della C.E.D.U. poiché integrerebbe l’ipotesi di una espropriazione di valore non indennizzata;
III) i principi fondamentali in materia espropriativa dettati dall’art. 42 Cost. e dal d.P.R. n. 327 del 2001;
      d) in particolare: la scelta del legislatore regionale di considerare l’inserimento dell’opera –nel termine di efficacia del vincolo– nel piano triennale dei lavori pubblici previsto dall’art. 21 del d.lgs. n. 50 del 2016 inteso quale strumento di attuazione della volontà espropriativa, per un verso, non sarebbe conforme al perimetro della competenza legislativa concorrente delle regioni a statuto ordinario e, per altro verso, non sarebbe sincronizzabile con l’assetto dei principi statali posti alla base dell’attribuzione del potere espropriativo per pubblica utilità;
      e) in tal senso deve essere evidenziato che la legge regionale di cui trattasi avrebbe previsto un “atipico” procedimento espropriativo fondato su un potere ablatorio esercitabile con uno strumento –il programma triennale dei lavori pubblici che preveda la realizzazione anche dell’opera oggetto del vincolo in scadenza– inidoneo ad integrare il presupposto del “serio inizio dell’attività preordinata all’espropriazione” in considerazione che:
         e1) le modalità di adozione, declinate da apposita normativa di dettaglio, non garantiscono –malgrado l’obbligo della sua preliminare pubblicazione ai sensi del predetto art. 21 d.lgs. n. 50 del 2016– l’esercizio di una vera e propria partecipazione del privato al procedimento, in presenza di un atto che, così come è configurato dalla legislazione regionale, dà l’avvio al procedimento espropriativo;
         e2) si tratterebbe di uno strumento –previsto dalla disciplina nazionale dei contratti pubblici– la cui funzione è connessa fondamentalmente alla programmazione finanziaria, di bilancio ed all’assetto organizzativo dell’attività dell’ente chiamato alla realizzazione dell’opera;
         e3) non offre alcuna garanzia circa il fatto che l’opera sia effettivamente realizzata, non comportando alcun impegno di spesa e non essendo previsto alcun termine di efficacia entro cui i lavori debbano essere conclusi;
         e4) le previsioni del programma possono essere reiterate nel tempo senza bisogno né di motivazione, né di indennizzo;
         e5) conseguentemente, esso svuoterebbe, di fatto, completamente di contenuto il diritto di proprietà;
         e6) la connotazione attribuita al piano quale strumento di attuazione del vincolo preordinato all’esproprio (ciò che, in realtà, non è come tale neppure previsto dalla disciplina statale sulla programmazione dei lavori pubblici), violerebbe anche il fondamentale presupposto, introdotto in recepimento del principio individuato da Corte cost. n. 179 del 1999, cit., e trasfuso nell’art. 39 del d. P.R. n. 327 del 2001, secondo cui “nel caso di reiterazione di un vincolo preordinato all’esproprio o di un vincolo sostanzialmente espropriativo è dovuta al proprietario una indennità, commisurata all’entità del danno effettivamente prodotto”.
III. – Si segnala per completezza quanto segue:
      f) sui rapporti tra disciplina C.E.D.U. e ordinamento interno in materia espropriativa: Corte cost., 24.10.2007, n. 348 (in Corriere giur., 2008, 185, con note di LUCIANI, CONTI; Immobili & dir., 2008, 1, 54, con nota di SCAGLIONE; Giur. it., 2008, 565, con note di CONFORTI, CALVANO; Arch. locazioni, 2008, 25, con nota di SCRIPELLITI; Urbanistica e appalti, 2008, 163 (m), con nota di MIRATE; Riv. giur. urbanistica, 2007, 356, con nota di CORVAJA; Dir. uomo, 2007, 3, 105, con note di DONATI, GULLOTTA, SACCUCCI; Giornale dir. amm., 2008, 25 (m), con note di RANDAZZO, MAZZARELLI, PACINI; Riv. dir. internaz., 2008, 197, con note di GAJA, CANNIZZARO, PADELLETTI, SACCUCCI; Resp. civ. e prev., 2008, 52, con nota di MIRATE; Giust. civ., 2008, I, 51 (m), con nota di DUNI, STELLA) e 24.10.2007, n. 349 (in Foro it. 2008, I, 39);
      g) sulla indeterminatezza temporale del vincolo espropriativo, v. Corte cost. n. 575 del 1989, cit., secondo cui:
         g1) “è propria della potestà pianificatoria la possibilità di rinnovare illimitatamente nel tempo i vincoli su beni individuati, purché, come ritenuto dalla giurisprudenza amministrativa, risulti adeguatamente motivata in relazione alle effettive esigenze urbanistiche. Tale possibilità, tuttavia, darebbe luogo ad un sistema non conforme ai principi affermati nella richiamata sentenza n. 55 del 1968, qualora il vincolo venga protratto a tempo indeterminato senza la previsione di indennizzo”;
         g2) “i due requisiti della temporaneità e della indennizzabilità sono difatti tra loro alternativi, per cui l'indeterminatezza temporale dei vincoli, resa possibile dalla potestà di reiterarli indefinitamente nel tempo anche se con diversa destinazione o con altri mezzi, é costituzionalmente legittima a condizione che l'esercizio di detta potestà non determini situazioni incompatibili con la garanzia della proprietà secondo i principi affermati nelle sentenze n. 6 del 1966 e n. 55 del 1968”;
      h) sulla possibilità per l’amministrazione espropriante di reiterare i vincoli urbanistici scaduti:
         h1) con riferimento all’obbligo di indennizzo: Corte cost. n. 179 del 1999, cit. –e, in diretta linea di continuità con questa, 09.05.2003, n. 148 in Foro it., 2003, I, 1955 con nota di BENINI e 18.12.2001, n. 411, id., 2002, I, 2252, con nota di CIAMPA– secondo cui “E' costituzionalmente illegittimo, per violazione dell'art. 42, comma terzo, Cost., il combinato disposto degli artt. 7, numeri 2, 3 e 4, e 40 l. 17.08.1942, n. 1150 (Legge urbanistica) e 2, comma 1, l. 19.11.1968, n. 1187 (Modifica ed integrazioni alla legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150), nella parte in cui consente all'Amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici scaduti, preordinati all'espropriazione o che comportino l’inedificabilità, senza la previsione di indennizzo, in quanto -posto che il problema di un indennizzo a seguito di vincoli urbanistici (come alternativa non eludibile tra previsione di indennizzo ovvero di un termine di durata massima dell'efficacia del vincolo) si può porre sul piano costituzionale quando si tratta di vincoli che a) siano preordinati all'espropriazione, ovvero abbiano carattere sostanzialmente espropriativo, nel senso di comportare come effetto pratico uno svuotamento, di rilevante entità ed incisività, del contenuto della proprietà, mediante imposizione, immediatamente operativa, di vincoli a titolo particolare su beni determinati, comportanti inedificabilità assoluta, qualora non siano stati discrezionalmente delimitati nel tempo dal legislatore dello Stato o delle Regioni, b) superino la durata che dal legislatore sia stata determinata come limite, non irragionevole e non arbitrario, alla sopportabilità del vincolo urbanistico da parte del singolo soggetto titolare del bene determinato colpito dal vincolo, ove non intervenga l'espropriazione, ovvero non si inizi la procedura attuativa (preordinata all'esproprio) attraverso l'approvazione di piani particolareggiati o di esecuzione, aventi a loro volta termini massimi di attuazione fissati dalla legge, c) superino sotto un profilo quantitativo la normale tollerabilità secondo una concezione della proprietà, che resta regolata dalla legge per i modi di godimento ed i limiti preordinati alla funzione sociale (art. 42, comma secondo, Cost.); che la reiterazione in via amministrativa dei vincoli urbanistici decaduti (preordinati all'espropriazione o con carattere sostanzialmente espropriativo) ovvero la proroga in via legislativa o la particolare durata dei vincoli stessi prevista in talune regioni a statuto speciale non sono fenomeni di per sé inammissibili dal punto di vista costituzionale; che essi assumono, invece, carattere certamente patologico, in assenza di previsione alternativa di indennizzo e fermo che l'obbligo di indennizzo opera una volta superato il periodo di durata (tollerabile) fissato dalla legge (periodo di franchigia), quando vi sia una indefinita reiterazione o una proroga "sine die" o all'infinito (attraverso la reiterazione di proroghe a tempo determinato che si ripetano aggiungendosi le une alle altre), o quando il limite temporale sia indeterminato, e cioè non sia certo, preciso e sicuro e, quindi, anche non contenuto in termini di ragionevolezza; e che restano al di fuori dell'ambito della indennizzabilità i vincoli incidenti con carattere di generalità e in modo obiettivo su intere categorie di beni (ivi compresi i vincoli ambientali-paesistici), i vincoli derivanti da limiti non ablatori posti normalmente nella pianificazione urbanistica, i vincoli comunque estesi derivanti da destinazioni realizzabili anche attraverso l'iniziativa privata in regime di economia di mercato, i vincoli che non superano sotto il profilo quantitativo la normale tollerabilità e i vincoli non eccedenti la durata (periodo di franchigia) ritenuta ragionevolmente sopportabile- una volta oltrepassato il periodo di durata temporanea (periodo di franchigia da ogni indennizzo), il vincolo urbanistico, avente le anzidette caratteristiche, se permane a seguito di reiterazione, non può essere dissociato, in via alternativa all'espropriazione (o al serio inizio dell’attività preordinata all'espropriazione stessa mediante approvazione dei piani attuativi), dalla previsione di un indennizzo”;
         h2) sulla alternatività tra temporaneità e indennizzabilità del vincolo preordinato all’esproprio: Corte cost. 29.04.1982, n. 82 (in Regioni, 1982, 681, con nota di BARDUSCO e in Riv. giur. edilizia, 1982, I, 421, con nota di ALPA) secondo cui, in linea con la sentenza n., 55 del 1968, è stata posta un’alternativa nel senso che la Corte “ha ritenuto come necessaria la previsione di un indennizzo ovvero quella di un termine di durata dell'efficacia del vincolo. Data questa alternativa, pacificamente riconosciuta in dottrina e giurisprudenza, il legislatore correttamente si è limitato a fissare, per l'efficacia del vincolo, un termine massimo di durata”;
         h3) con riferimento all’obbligo di motivazione del provvedimento con cui è reiterato il vincolo: Cons. Stato, Ad. plen. 24.05.2007, n. 7 (in Foro it., 2007, III, 350 con nota di TRAVI; Guida al dir., 2007, 24, 73 con nota di FORLENZA; Riv. amm., 2007, 5-6, 461 con nota di CACCIAVILLANI; Corriere merito, 2007, 1092, con nota di VELTRI; Urbanistica e appalti, 2007, 1113, con nota di CARBONELLI; Giornale dir. amm., 2007, 1174, con nota di MAZZARELLI; Resp. e risarcimento, 2007, 7, 95, con nota di PAPPALARDO; Quaderni centro documentaz., 2007, 3, 242, con nota di COLLACCHI ) secondo cui:
I) “l'esercizio del potere di reiterazione di un vincolo preordinato all'esproprio decaduto per decorrenza del termine quinquennale può essere esercitato unicamente sulla base di una idonea istruttoria e di una adeguata motivazione che escluda un contenuto vessatorio o comunque ingiusto dei relativi atti”;
II) “per valutare l'adeguatezza della motivazione dei provvedimenti di reiterazione di vincoli preordinati all'esproprio occorre distinguere se questi riguardano o meno una pluralità di aree, se riguardano solo una parte già incisa da vincoli decaduti, se, infine, la reiterazione sia disposta (o meno) per la prima volta sull'area”;
III) “si ha adeguato supporto motivazionale dell'atto di reiterazione del vincolo preordinato all'esproprio qualora l'amministrazione, nell'evidenziare l'attualità dell'interesse pubblico da soddisfare, abbia a seguito di specifica istruttoria, tenuto conto delle seguenti circostanze:
   1) in caso di reiterazione disposta con riguardo o meno una pluralità di aree, nell'ambito dell'adozione di una variante generale o comunque riguardante una consistente parte del territorio comunale, si devono distinguere le ipotesi in cui la reiterazione del vincolo riguardi un'area ben specificata (per realizzare una singola opera pubblica o per soddisfare i prescritti standard sui servizi pubblici o sul verde pubblico) e quelle in cui la reiterazione riguardi una pluralità di aree per una consistente parte del territorio comunale, a seguito della decadenza di uno strumento urbanistico generale che abbia disposto una molteplicità di vincoli preordinati all'esproprio (necessari per l'adeguamento degli standard, a seguito della realizzazione di ulteriori manufatti). Tale distinzione ha ragion d'essere perché solo nell'ipotesi in cui vengono reiterati «in blocco» i vincoli decaduti, già riguardanti una pluralità di aree, la sussistenza di un attuale specifico interesse pubblico risulta dalla perdurante constatata insufficienza delle aree destinate a standard (indispensabili per la vivibilità degli abitati), mentre l'assenza di un intento vessatorio si evince dalla parità di trattamento che hanno tutti i destinatari dei precedenti vincoli decaduti;
   2) in caso di reiterazione disposta con riguardo solo ad una parte delle aree già incise dai vincoli decaduti, mentre per l'altra parte non è disposta la reiterazione in quanto il vincolo venga impresso su nuovi terreni. Tale scelta, pur costituendo senz'altro un'anomalia della funzione pubblica, deve fondarsi, pena il profilarsi di un intento vessatorio nei confronti dei proprietari delle aree riassoggettate a vincolo, su una motivazione da cui emergano le ragioni di interesse pubblico che giustifichino il vantaggio di chi non è più coinvolto nelle determinazioni di reperimento degli standard, a scapito di chi lo diventa, pur non essendo stato destinatario di un precedente vincolo preordinato all'esproprio;
   3) in caso di reiterazione disposta per la prima volta, può ritenersi giustificato il richiamo alle originarie valutazioni; di converso, quando il rinnovato vincolo sia a sua volta decaduto, l'autorità urbanistica deve procedere con una ponderata valutazione degli interessi coinvolti, evidenziano le ragioni, con riferimento al rispetto degli standard, alle esigenze della spesa, agli specifici accadimenti riguardanti le precedenti fasi procedimentali, che diano conto dell'attuale sussistenza dell'interesse pubblico
”;
   IV) “secondo il quadro normativo vigente antecedentemente al testo unico sugli espropri approvato con il d.P.R. n. 327 del 2001, valeva il principio che, in caso di atti di reiterazione dei vincoli preordinati all'esproprio, imponeva l'obbligo di un'adeguata motivazione (poi espressamente disposto dall'art. 9, comma 4, d.P.R. cit.), nella quale l'amministrazione doveva indicare la ragione che l'avevano indotta a scegliere nuovamente proprio l'area sulla quale la precedente scelta si era appuntata, evidenziando, a tal fine, l'attualità dell'interesse pubblico da soddisfare, ciò in quanto tale specie di determinazione è destinata ad incidere sulla sfera giuridica di un proprietario che già per un quinquennio è stato titolare di un bene suscettibile di dichiarazione di pubblica utilità e successivamente di esproprio”;
   V) la deliberazione riguardante la reiterazione del vincolo espropriativo non necessita di copertura finanziaria volta a garantire il pagamento del corrispondente indennizzo (“la delibera impugnata in primo grado non doveva essere preceduta dall’approvazione di un ‘piano finanziario’”);
         h4) sulla copertura finanziaria dell’indennizzo: cfr. Tar per la Sicilia, sez. III, 10.07.2012, n. 1464, secondo cui “La relazione economico-finanziaria richiesta dall'art. 30 della legge 17.08.1942 n. 1150 non costituisce elemento essenziale del piano regolatore generale, potendo essa sopravvenire in un momento successivo, e cioè allorché il Comune deve deliberare circa l'espropriazione delle aree private ai sensi dell'art. 18 della legge citata; pertanto, è a fortiori pienamente valido il piano regolatore generale che difetti di adeguate previsioni economico-finanziarie. La previsione succitata deve essere ormai letta alla luce dell’ordinamento finanziario e contabile degli enti locali introdotto dapprima con il d.lgs. n. 77 del 1995 e, successivamente, con il d.lgs. n. 267 del 2000 (Testo unico degli enti locali), le cui disposizioni costituiscono oggetto del rinvio cd. «dinamico» disposto dal legislatore regionale con l’art. 1 della l.r. n. 48 del 1991. Ne deriva che ogni preesistente previsione normativa di carattere finanziario e contabile deve essere ricondotta al sistema ordinamentale che regola la spesa dell’ente territoriale la quale, come è noto non prescinde da specifiche forma di programmazione all’uopo previste (si pensi, fra tutte, al programma triennale dei lavori pubblici ed all’elenco annuale dei lavori, i quali contemplano strumenti progettuali e piani economici che involgono anche spese per indennizzi espropriativi)";
         h5) sull’inapplicabilità del criterio della edificabilità di fatto alle “aree bianche” e relativo regime indennitario: Cass. civ., sez. I, 29.10.2015, n. 22992 (in Foro it., 2015, 5, I, 1690) secondo cui “Ai fini della determinazione dell'indennità, il regime urbanistico, nel senso dell'edificabilità o inedificabilità, di un'area al momento del decreto di esproprio, è definibile, nell'ipotesi in cui l'originario vincolo di inedificabilità sia scaduto per decorso del termine quinquennale, tenendo conto della reiterazione del vincolo, che può dare diritto ad una speciale indennità, tuttavia distinta da quella di esproprio, restando inapplicabile il criterio dell'edificabilità di fatto, riservato all'ipotesi in cui al momento del concludersi della vicenda ablatoria persista, riguardo alla stessa area, una situazione di carenza di pianificazione”;
      i) sulla natura e finalità del programma triennale dei lavori pubblici: C. conti, sez. contr. Reg. Campania, 06.06.2018, n. 77/18, secondo cui l’art. 21 del d.lgs. n. 50 del 2016 “pone a carico delle amministrazioni aggiudicatrici l’obbligo di adottare il programma biennale degli acquisti dei beni e dei servizi e il programma triennale dei lavori pubblici, nonché i relativi aggiornamenti annuali. Tali programmi «sono approvati nel rispetto dei documenti programmatori e in coerenza con il bilancio e, per gli enti locali, secondo le norme che disciplinano la programmazione economico-finanziaria degli enti»”; sulla correlazione tra programma triennale e strumenti finanziari, v. Allegato n. 4/1 al d.lgs. n. 118 del 2011, “principio contabile applicato concernente la programmazione di bilancio”, punti 5.4., 8.2., 9.8);
      j) sul rapporto tra programma triennale dei lavori pubblici e vincoli urbanistici: Tar per la Sicilia, sez. I, 30.09.2008, n. 1234, secondo cui “ai sensi dell’art. 10 T.U. cit., qualora la realizzazione di un'opera pubblica o di pubblica utilità non sia prevista dal piano urbanistico generale, il vincolo preordinato all'esproprio può essere disposto, ove espressamente se ne dia atto, su richiesta dell'interessato ai sensi dell' articolo 14, comma 4, della legge 07.08.1990, n. 241, ovvero su iniziativa dell'amministrazione competente all'approvazione del progetto, mediante una conferenza di servizi, un accordo di programma, una intesa ovvero un altro atto, anche di natura territoriale, che in base alla legislazione vigente comporti la variante al piano urbanistico. Ritiene il Collegio che l’approvazione del piano triennale delle opere pubbliche di cui alla delibera del C.C. cit. integri la previsione dell’ultima parte della normativa richiamata, comportando la concretizzazione ad opera della P.A. della previsione meramente conformativa prevista dal P.R.G. cui il privato, pur avendone il potere, non ha dato seguito”;
      k) sulla distinzione tra vincoli conformativi e vincoli espropriativi, preso atto che nei casi “limite” la giurisprudenza non è univoca, si veda, di recente:
         k1) Cons. giust. amm. sic., sez. giur., 04.04.2018, n. 205, secondo cui il vincolo posto dal piano regolatore per la realizzazione di attrezzature pubbliche o ad uso pubblico deve essere qualificato come espropriativo e non conformativo: “La decisione di primo grado, nella parte in cui ritiene che la destinazione di tale terreno alla realizzazione di attrezzature pubbliche e di uso pubblico possa «essere realizzata anche da un privato», pecca, in particolare, per astrattezza, dovendosi realizzare detta destinazione in regime di libero mercato nel contesto economico sociale tipico dei piccoli comuni della Sicilia”;
         k2) Cons. giust. amm. sic., sez. giur., 24.09.2015 n. 610, secondo cui “Un vincolo non può ritenersi conformativo ogni qualvolta le iniziative edilizie consentite dallo strumento urbanistico non siano suscettibili di operare in regime di libero mercato”, sicché va “condiviso- nel caso di specie- il giudizio formulato dal primo Giudice circa la natura sostanzialmente ‘espropriativa’ dei vincoli urbanistici apposti sull’area di proprietà degli odierni appellati. A nulla rilevando, nel senso ‘conformativo’ ex adverso invocato dalla difesa dell’Amministrazione Comunale, il fatto che la disposizione delle norme di attuazione consentiva la possibilità che la scuola dell’obbligo, alla quale era destinata l’edificazione sull’area, potesse essere realizzata anche da privati, considerato che la tipologia di uso e/o di iniziativa economica che così viene individuata riguarda un’opera per l’esercizio di un’ attività: quella relativa all’insegnamento obbligatorio, che anche a voler comprendere forme di esercizio da parte di ‘privati’, non manifesta -né allo stato, né entro un arco di tempo ragionevolmente determinato- una elasticità e dinamicità della domanda tali da consentire al privato, che non voglia esso stesso intraprendere l’iniziativa, di poter disporre sul ‘mercato’ dell’area così destinata”;
         k3) Cons. Stato, sez. IV, 23.04.2013, n. 2254, secondo cui “La destinazione a verde pubblico attrezzato ha di regola natura conformativa dovendo però verificarsi, caso per caso, alla stregua della concreta disciplina urbanistica posta dallo strumento generale, se questa comporti la preclusione pressoché totale di ogni attività edilizia, con conseguente svuotamento sostanziale del diritto di proprietà: solo in tale ultima ipotesi può affermarsi il suo carattere espropriativo”;
         k4) Cons. giust. amm. sic., sez. giur., 19.12.2008, n. 1113, secondo cui sono fuori dello schema ablatorio i vincoli che importano una destinazione di contenuto specifico realizzabile ad iniziativa privata o promiscua (pubblico-privato) che non comportino, quindi, necessariamente espropriazioni o interventi ad esclusiva iniziativa pubblica.
Nel sistema delineato dalla Costituzione e dalla C.E.D.U. la norma conformatrice dello jus aedificandi non costituisce annullamento del diritto di proprietà e dunque non è riguardata con sfavore (nei limiti della ragionevolezza e del rispetto della natura stessa dei luoghi), mentre la norma ablatoria è considerata eccezione di stretto diritto al principio fondamentale della inviolabilità della proprietà. Tale eccezione è legata alla sussistenza di motivi di interesse pubblico tali da necessitare una deviazione dalla funzione propria della proprietà e quindi una finalizzazione di essa a scopi non economica-mente conformi con tale diritto.
Sotto questo profilo la distinzione tra norme conformative e norme ablatorie non può più seguire i criteri tradizionali elaborati dalla giurisprudenza amministrativa sino ad oggi. Si deve, infatti, avere riguardo al tasso di deviazione dalla finalità ordinaria della area in questione rispetto alla sua vocazione naturale, che è sicuramente quella di dare luogo ad un opus economicamente e commercialmente idoneo a procurare il massimo profitto al proprietario. La norma conformativa, che impone standard di distanze, cubatura, altezza, tipologia etc., si inserisce in un mercato immobiliare omogeneo, stabilendo restrizioni uguali per gli appartenenti alla classe (proprietari della zona omogenea) e determinando, quindi, i parametri di mercato (valore dell’immobile realizzabile e quindi dell’area edificabile) in relazione alle restrizioni omogenee.
Si tratta, nel mercato che si crea, di vincoli economici esterni, accettabili e compatibili con l’economia di mercato e con i principi di uguaglianza, nella misura in cui operino, sostanzialmente, come limiti esterni allo jus aedificandi. Non costituisce, giuridicamente, una restrizione del diritto di proprietà la diminuzione di valore di un’area sita, ad esempio, in zona umida e malsana, rispetto alla analoga area sita in collina, o di un’area allocata distante dal mare rispetto ad una posta nelle vicinanze della riva, atteso, appunto, che tali limitazioni sono insite ed ontologicamente connaturate alle aree stesse.
Allo stesso modo, non costituisce restrizione al diritto di proprietà ed allo jus aedificandi l’obbligo conformativo che opera quale limite generale, quasi natura-le, alle facoltà della classe di aree insistenti in zona omogenea. L’interesse pubblico, quindi, opera ab extrinseco non incidendo sul diritto di proprietà, ma sulla sua valorizzazione di mercato, a fronte di un potere conformativo, eccezionale ma accettabile, riconosciuto per il bene della collettività.
Viceversa, ove ci si trovi innanzi ad una potestà conformativa che imponga realizzazioni difformi dalla naturale destinazione dell’area, ne consegue, di fatto, l’ablazione di una precisa facoltà inerente al diritto di proprietà. In tal caso non giova la considerazione che l’opus necessario (ad esempio un parcheggio) possa anche essere realizzato dal medesimo privato, poiché è fin troppo evidente che la diminuzione di valore dell’opera realizzabile non risponde ad una conformazione omogenea del mercato della zona, ma ad un intervento autoritario del pubblico che si propone quale terzo indefettibile del successivo rapporto.
In altri termini, se l’opera realizzabile, sia pure con le limitazioni dovute alla conformazione, può comunque essere posta sul mercato scontando il meccanismo usuale della do-manda ed offerta per la determinazione del prezzo, la destinazione indefettibile ad opera o servizio pubblico individua, necessariamente e senza possibilità di eccezione, il soggetto (pubblico) cui l’opera stessa non potrà che essere destinata. In tal guisa che l’opera non è finalizzata ad essere posta sul mercato, ma necessariamente ad esser posta a disposizione di un solo soggetto. Ciò anche nella ipotesi in cui l’opera sia realizzata dallo stesso privato, magari in convenzione con il soggetto pubblico, poiché ciò che rileva non è chi materialmente la realizzi (il privato o il pubblico dopo l’espropriazione), ma chi concretamente può essere il solo destinatario della sua utilizzazione.
Non vi è mercato, come è noto, quando uno dei contraenti si pone in posizione di monopolio (nel caso monopolista per l’acquisto). Corollario di questa impostazione è che l’area in questione, se effettivamente serve allo scopo di realizzare gli standard urbanistici, non potrà, alla fine, che essere espropriata, proprio in virtù del fatto che su di essa non può che essere realizzata altro che l’opera in questione asservita ad un interesse pubblico e riferita all’ente pubblico
”;
         k5) seguono un approccio parzialmente difforme: Cons. Stato, sez. IV, 07.01.2019, n. 112 secondo cui “La destinazione ad attrezzature ricreative, sportive e a verde pubblico, data dal piano regolatore ad aree di proprietà privata, non comporta l'imposizione di un vincolo espropriativo, ma solo conformativo, conseguente alla zonizzazione effettuata dallo strumento urbanistico per definire i caratteri generali dell'edificabilità in ciascuna delle zone in cui è suddiviso il territorio comunale, ponendo limitazioni in funzione dell'interesse pubblico generale che non danno diritto ad indennizzo, trattandosi di limiti non ablatori, ma derivanti da destinazioni realizzabili anche dall'iniziativa privata, in regime di economia di mercato”;
      l) in dottrina, si veda:
         l1) sulla disciplina vincolistica: W. PELINO, A. BARTONE, I vincoli sostanzialmente espropriativi: la prolungata compressione dello jus aedificandi tra indennizzi, perequazione e compensazione, in Riv. amm., 2000, 8, 2, 811-824; V. CARBONE, I. NASTI, Vincoli urbanistici speciali, conformazione della proprietà ed espropriazioni anomale: un segnale dalle Sezioni Unite, in Corriere giur., 2001, 869-874; R. CONTI, Occupazione acquisitiva, usurpativa e reiterazione di vincoli espropriativi, in Urbanistica e appalti, 2002, 12, 1437-1444; G. LAVITOLA, Urbanistica e tutela della proprietà tra Corte Costituzionale, Consiglio di Stato e testo unico sull'espropriazione, in Riv. giur. edilizia, 2002, 1, 3, 59-78; R. IANNOTTA, (In tema di) vincoli espropriativi scaduti in mancanza di previsione di durata e di indennizzo, in Foro amm.-Cons. Stato, 2003, 5, 1506; S. ANTONIAZZI, Le conseguenze della reiterazione di vincoli espropriativi e di inedificabilità, secondo la più recente giurisprudenza amministrativa: gli obblighi di motivazione e di indennizzo nonché di nuova pianificazione dell'area priva di destinazione urbanistica, in Riv. giur. edilizia, 2004, 6, 1, 1975-1984; P. LORO, Il risarcimento da reiterazione dei vincoli secondo la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, in Riv. amm., 2004, 7, 780-786; M. GHILONI, Nuovi strumenti di gestione del territorio: riflessi sui vincoli espropriativi e sulla realizzazione dei servizi pubblici, in Arch. giur. oo.pp., 2005, 68, 6, 679-689; M. M. CARBONELLI, La reiterazione dei vincoli di pianificazione urbanistica: il paso doble di Plenaria e Corte Costituzionale, in Urbanistica e appalti, 2007, 9, 1118-1125; F. G. SCOCA, Amministrazione pubblica e diritto amministrativo nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Dir. amm., 2012, 1-2, 21 ss; G. PAGLIARI, M. SOLINI, G. FARRI, Regime della proprietà privata tra vincoli e pianificazione dall'unità d'Italia ad oggi, in Riv. giur. edilizia, 2015, 6, 282;
         l2) sui termini per l‘adozione della dichiarazione di pubblica utilità: M. BORGO, M. MORELLI, L’acquisizione e l’utilizzo di immobili da parte della p.a., Milano, 2012, 55 ss.;
         l3) sulle questioni di giurisdizione in materia espropriativa, ancorché inerente alla disciplina anteriore al Codice del processo amministrativo: R. VILLATA, Problemi attuali della giurisdizione amministrativa, Milano, 2009, 23 ss.;
         l4) sul procedimento ablatorio nelle diverse disposizioni regionali: N. CENTOFANTI, Diritto di costruire, pianificazione urbanistica, espropriazione, Milano, 2010, I, 1635 ss.;
         l5) sulla reiterazione del vincolo preordinato all’esproprio: G. CERISANO – R. DAMONTE, in L’espropriazione per pubblica utilità nel nuovo testo unico (a cura di F. CARINGELLA – G. DE MARZO, MILANO), 2005, 95 ss.; L. MARUOTTI, Vincoli derivanti da piani urbanistici, in CARINGELLA – DE MARZO – DE NICTOLIS – MARUOTTI, L’espropriazione per pubblica utilità, Milano, 2006, 155 ss.;
         l6) sulla ratio, ruolo e finalità del programma triennale dei lavori pubblici: L. PETRANGELI PAPINI, La programmazione e la progettazione dei lavori pubblici, in Appalti urbanistica edilizia, 2000, 12, 643-662; G. FORMICHELLA, Lavori pubblici. La programmazione dei lavori pubblici negli Enti locali. I principi, le procedure, gli aspetti positivi e gli spunti problematici, in Nuova rass., 2001, 17-18, 1857-1870; A. MATARAZZO, Lavori pubblici. Brevi annotazioni operative in tema di programmazione dei lavori pubblici, in Nuova rass., 2001, 17-18, 1871-1874; E. BARUSSO, Le competenze degli organi dell’Ente Locale, Santarcangelo di Romagna, 2001, 127 ss.; G. PESCE, Effetti del programma triennale delle opere pubbliche e valutazione di fattibilità dell'intervento, in Urbanistica e appalti, 2003, 4, 442-447; A. PAGANO, Programma triennale dei lavori pubblici, Commento a d.m. Infrastrutture e trasporti 09.06.2005, in Urbanistica e appalti, 2005, 8, 914; D.GHIANDONI, E. MASINI, Le principali novità del programma oo.pp. 2019/2021, in Azienditalia, 2018, 10, 1247; P. LEONCINO, La contabilizzazione delle opere pubbliche, in Azienditalia, 2019, 6, 885;
      m) sui poteri regionali in materia espropriativa:
         m1) in dottrina v.: G. BERGONZINI, La potestà legislativa della Regione in tema di esproprio finalizzato alla realizzazione di opere pubbliche di interesse regionale, in Dir. regione, 2002, 2-3, 493-505; M. MUTI, Il testo unico sull'espropriazione per pubblica utilità: prime riflessioni sul riparto di competenze legislative alla luce della riforma del titolo V della Costituzione, in Riv. amm., 2002, 3, 1, 169-204; N. MACCABIANI, La Corte “compone” e “riparte” la competenza relativa al “governo del territorio”, in Riv. giur. edilizia, 2005, 5, 209; G. CERISANO, in L’espropriazione, cit., 14 ss.; R. DE NICTOLIS, in CARINGELLA – DE MARZO – DE NICTOLIS – MARUOTTI, L’espropriazione per pubblica utilità, Milano, 2006, 22 ss.; V. LOPILATO, Manuale di diritto amministrativo, Torino, 2019, 1091 ss., ove è evidenziato che “le regole di riparto delle funzioni legislative tra Stato e Regione sono modulate in ragione della particolare nozione […] di espropriazione dettata dall’art. 42 Cost. […]. Quest’ultima, infatti, non costituisce una materia inclusa negli elenchi dell’art. 117 Cost. Se, infatti, la materia si identifica alla luce dell’oggetto e delle finalità perseguite dal legislatore, risulta evidente come l’espropriazione non abbia un oggetto definito, ma esso è individuato in relazione alla specifica finalità perseguita. Si tratta, pertanto, di una «materia strumentale» che rientra nelle altre materie di cui all’art. 117 Cost. a seconda dell’ambito in cui il potere espropriativo è esercitato”.
Tale assetto è stato confermato dall’art. 5 del d.P.R. n. 327 del 2001 il quale prevede che “Le Regioni a statuto ordinario esercitano la potestà legislativa concorrente, in ordine alle espropriazioni strumentali alle materie di propria competenza, nel rispetto dei principi fondamentali della legislazione statale nonché dei principi generali dell'ordinamento giuridico desumibili dalle disposizioni contenute nel testo unico”;
         m2) in relazione ai poteri delle Regioni a statuto speciale in materia espropriativa, v. M.T. SEMPREVIVA, Criteri indennitari e Regioni a statuto speciale, in Urbanistica e appalti, 1999, 6, 610-612;
         m3) secondo la giurisprudenza, le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di Bolzano, esercitano “la propria potestà legislativa in materia di espropriazione per pubblica utilità nel rispetto dei rispettivi statuti e delle relative norme di attuazione, anche con riferimento alle disposizioni del titolo V, parte seconda, della Costituzione per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite” (Corte cost., 02.07.2014, n. 187, in Foro it., 2015, I, 1175, con nota di MENTO), fermo restando l’obbligo delle stesse di conformarsi ai principi che traggono supporto dal testo fondamentale e caratterizzano l’ordinamento giuridico dello Stato (in tal senso, Corte cost., 30.07.1984, n. 231, in Foro it., 1985, I, 46, con nota di PIETROSANTI e in Regioni, 1984, 1413, con nota di SORACE) (TAR Lombardia–Brescia, Sez. II, ordinanza 14.08.2019 n. 740 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ESPROPRIAZIONEAlla Corte costituzionale la legge lombarda che prevede il potere ablatorio sia esercitabile a tempo indeterminato in ragione dell’approvazione del Piano triennale delle opere pubbliche.
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Espropriazione per pubblica utilità – Lombardia – Potere ablatorio è esercitabile a tempo indeterminato – In ragione dell’approvazione del Piano triennale delle opere pubbliche – Art. 9, comma 12, l. reg. n. 12 del 2005 – Violazione artt. 42 e 117 Cost. – Rilevanza e non manifesta infondatezza.
E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 12, l.reg. Lombardia n. 12 del 2005, per violazione degli artt. 42 e 117 Cost., nella parte in cui prevede che il potere ablatorio è esercitabile a tempo indeterminato, in ragione dell’approvazione del Piano triennale delle opere pubbliche che preveda la realizzazione anche di quella oggetto del vincolo in scadenza, la cui adozione non garantisce la partecipazione procedimentale degli interessati e che può essere rinnovato all’infinito senza bisogno né di motivazione né di indennizzo (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che il legislatore lombardo ha derogato al principio fondamentale affermato nella sentenza della Corte costituzionale n. 179 del 1999, secondo cui, alla scadenza del termine di efficacia quinquennale del vincolo preordinato all’esproprio esso decade a meno che non ricorra una delle seguenti condizioni: a) il vincolo sia reiterato seguendo l’apposito procedimento a tal fine previsto dalla legge, con le conseguenti garanzie in termini di partecipazione al procedimento e di indennizzo del danno conseguente; b) la sua decadenza sia preclusa dall’intervenire, prima della scadenza, dell’espropriazione ovvero del “serio inizio dell’attività preordinata all’espropriazione”.
Tale condizione è stata ravvisata dalla stessa sentenza in parola nell’approvazione di un piano attuativo e poi dal legislatore del testo unico del 2001 nell’approvazione del provvedimento che dichiara la pubblica utilità dell’opera e, quindi, di un provvedimento che comunque garantisce la partecipazione in chiave collaborativa al proprietario/espropriando e che rappresenta il primo atto di un procedimento (quello espropriativo) puntualmente cadenzato, che delimita nel tempo l’esercizio del potere espropriativo, prevedendo che, in difetto di un più breve termine espressamente previsto, il decreto d’esproprio debba intervenire entro cinque anni decorrenti dal giorno in cui è divenuto efficace il provvedimento dichiarativo della pubblica utilità.
Da tutto il quadro sin qui delineato emerge chiaramente come, nel corso del tempo, sia stato chiarito che l’esercizio del potere ablatorio può essere ritenuto conforme all’art. 42 della Costituzione (e oggi anche all’art. 1 del Primo protocollo allegato alla CEDU, dal momento che si è chiarito come il rispetto della norma pattizia, quale è la Carta europea dei diritti dell’uomo, pone dei precisi limiti alla potestà legislativa dello Stato e a maggior ragione delle Regioni, la cui violazione genera questioni di legittimità costituzionale attratte nella competenza della Corte Costituzionale – cfr. le sentenze nn. 348 e 349 del 2007) se e in quanto risulti limitato nel tempo e compensato dalla corresponsione di un equo indennizzo.
Il legislatore regionale lombardo, quindi, risulta, a parere del Collegio, aver disatteso i limiti imposti alla propria competenza legislativa, violando l’art. 117 Cost., per aver, nell’esercizio di una competenza legislativa concorrente, eluso i principi fondamentali della materia, desumibili anche dall’art. 1 del Protocollo n. 1 della CEDU e affermati dal legislatore statale nel T.U. delle espropriazioni, sulla scorta della giurisprudenza costituzionale che li ha estrapolati dall’art. 42 Cost..
Più precisamente, la Regione Lombardia ha violato i limiti posti dall’art. 117 Cost., perché, esorbitando dalla propria competenza concorrente in materia, ha introdotto una nuova ipotesi in cui il vincolo preordinato all’esproprio si consolida, che per le ragioni che si andranno a meglio evidenziare, non può rappresentare un “serio inizio della procedura espropriativa”, condizione ritenuta essenziale dalla Corte Costituzionale e la cui ricorrenza è stata individuata dal legislatore nazionale solo nell’intervento del primo atto della procedura espropriativa intesa in senso stretto, quale è stata qualificata la dichiarazione di pubblica utilità.
Il Tar ritiene, dunque, che la Regione Lombardia abbia travalicato i limiti della propria competenza legislativa, disciplinando una nuova ipotesi di “attuazione” del vincolo espropriativo, in violazione dell’art. 117 Cost. che, riserva al legislatore nazionale l’individuazione degli atti la cui adozione equivale al serio avvio della procedura espropriativa, che la Corte Costituzionale ha indicato come condizione necessaria per ritenere rispettato il principio della temporaneità del potere espropriativo esercitabile su determinati beni.
L’esercizio di questo potere pare, dunque, porsi, nella fattispecie in esame, in contrasto con l’art. 42 Cost., da una corretta interpretazione del quale discende, come già anticipato, che il potere espropriativo può essere esercitato solo nei limiti in cui ciò sia previsto dalla legge e, come evidenziato nella sentenza della Corte costituzionale n. 575 del 1989, a condizione che l’assoggettamento al potere espropriativo sia limitato nel tempo ovvero che, a fronte di una indeterminatezza temporale del vincolo, il proprietario sia indennizzato per la perdita, in via di fatto, della proprietà.
Ne discende che il vincolo preordinato all’esproprio, imposto mediante un apposito procedimento che garantisca la partecipazione dell’interessato, deve avere durata determinata nel tempo e nell’arco del periodo di efficacia deve intervenire la dichiarazione di pubblica utilità, la quale, a sua volta, è pronunciata a conclusione di un procedimento che garantisce la partecipazione e deve essere attuata, con l’intervento del decreto di esproprio, entro il termine all’uopo fissato dall’Amministrazione e comunque non superiore ai cinque anni.
Nell’ipotesi di cui al comma 12 dell’art. 9, l.reg. Lombarda n. 12 del 2005, invece, il potere ablatorio finisce per essere esercitabile a tempo indeterminato, in ragione di un provvedimento, l’approvazione del Piano triennale delle opere pubbliche che preveda la realizzazione anche di quella oggetto del vincolo in scadenza, la cui adozione non garantisce la partecipazione procedimentale degli interessati e che può essere rinnovato all’infinito senza bisogno né di motivazione, né di indennizzo (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, ordinanza 14.08.2019 n. 740 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it - si legga anche TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, ordinanza 20.09.2019 n. 827).
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SENTENZA
1. Le società ricorrenti hanno impugnato l’atto recante la dichiarazione di pubblica utilità e i successivi provvedimenti adottati nell’ambito del procedimento espropriativo preordinato alla realizzazione della nuova strada di collegamento tra la via Cattaneo e la via per Torbiato nel Comune di Adro, la cui localizzazione è stata in parte prevista sulla proprietà della società Te.Mo., destinata dalla società Be. alla coltivazione dell’uva per la produzione di vino con denominazione “Franciacorta DOCG”.
Più precisamente, con il ricorso introduttivo, le società ricorrenti hanno censurato la legittimità della dichiarazione di pubblica utilità, mentre con il primo ricorso per motivi aggiunti hanno impugnato la successiva deliberazione di approvazione di alcune modifiche progettuali e con il secondo il decreto di esproprio.
Al fine di ottenere l’annullamento di detti provvedimenti, le ricorrenti hanno formulato una pluralità di censure, con le quali sono stati dedotti vizi procedurali (censure 1, 4 e 5 del ricorso introduttivo, 1, 2 e 3 del primo ricorso per motivi aggiunti e 2 del secondo ricorso per motivi aggiunti), oltre che la violazione dei principi posti a tutela del suolo agricolo e l’eccesso di potere connesso alla scelta di realizzare un’opera che, separata dalla più ampia opera di cui era originariamente parte (la circonvallazione dell’abitato), avrebbe una pubblica utilità limitata, recessiva rispetto alla conservazione della pregiata coltura in atto, nonché l’illegittimità costituzionale della norma in ragione della quale è stata ravvisata, nel 2018, la conformità urbanistica dell’opera prevista nel PGT del 2012.
2. Con sentenza non definitiva n. 736/2019, questo Tribunale ha ritenuto che le doglianze suddette fossero in parte inammissibili e in parte infondate, con la sola esclusione della censura n. 2 del ricorso introduttivo, riproposta anche nel primo ricorso per motivi aggiunti (e, in termini di invalidità derivata, anche nel secondo ricorso per motivi aggiunti), avente ad oggetto l’efficacia del presupposto essenziale del procedimento espropriativo, rappresentato dal vincolo preordinato all’esproprio: efficacia disciplinata dall’art. 9, comma 12, della legge regionale n. 12/2005, sospettato di illegittimità costituzionale per contrasto con gli art. 3, 42, comma 2, e 117, comma 3, della Costituzione.
3.
Ad avviso del Collegio sussistono i presupposti per sollevare la questione avanti alla Corte Costituzionale.
3.1. Sulla rilevanza della questione di costituzionalità.
Come noto, l’art. 23 della legge n. 87 del 1953 prevede che il giudice debba sospendere il giudizio in corso e trasmettere gli atti alla Corte Costituzionale quando il giudizio non possa essere risolto indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale.
Tale condizione risulta ricorrere nella fattispecie, posto che, respinte tutte le altre censure, il ricorso revoca in dubbio la legittimità costituzionale della disposizione applicata nella fattispecie al fine di sostenere la efficacia del vincolo preordinato all’esproprio sulla scorta del quale è stata dichiarata la pubblica utilità dell’opera in questione, così adottando il provvedimento che ha degradato il diritto di proprietà rendendolo aggredibile con la procedura espropriativa.
Se il dubbio sollevato da parte ricorrente fosse fondato, dunque, il vincolo espropriativo dovrebbe essere ritenuto decaduto, al momento dell’adozione della dichiarazione di pubblica utilità, che, per ciò stesso, dovrebbe essere dichiarata illegittima, perché priva del presupposto fondante l’esercizio del potere ablatorio (cfr. la lettera a) dell’art. 8 del DPR 327/2001, la quale afferma che il decreto di esproprio può essere emanato qualora “l’opera da realizzare sia prevista nello strumento urbanistico generale o in un atto di natura ed efficacia equivalente e sul bene da espropriare sia stato apposto in vincolo preordinato all’esproprio”).
Infatti, nel caso in esame, il vincolo preordinato all’esproprio è divenuto efficace nel momento in cui ha acquistato efficacia il PGT del Comune di Adro approvato nel 2012 e cioè il giorno 21.11.2012. Il primo comma dell’art. 9 del DPR 327/2001 prevede espressamente che “Un bene è sottoposto al vincolo preordinato all’esproprio quando diventa efficace l’atto di approvazione del piano urbanistico generale, ovvero una sua variante, che prevede la realizzazione di un’opera pubblica o di pubblica utilità”.
I successivi commi stabiliscono che “2. Il vincolo preordinato all’esproprio ha la durata di cinque anni. Entro tale termine, può essere emanato il provvedimento che comporta la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera. 3. Se non è tempestivamente dichiarata la pubblica utilità dell’opera, il vincolo preordinato all’esproprio decade e trova applicazione la disciplina dettata dall’articolo 9 del testo unico in materia edilizia approvato con decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380. 4. Il vincolo preordinato all’esproprio, dopo la sua decadenza, può essere motivatamente reiterato, con la rinnovazione dei procedimenti previsti al comma 1 e tenendo conto delle esigenze di soddisfacimento degli standard.”.
In base alla disposizione ora citata il vincolo sarebbe, dunque, venuto meno il 21.11.2017, mentre la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera è intervenuta solo il 15.02.2018.
Secondo la tesi del Comune, però, la sussistenza della necessaria conformità urbanistica dell’opera rispetto allo strumento urbanistico sarebbe garantita, nella fattispecie, come espressamente attestato nella deliberazione del Consiglio comunale che ha approvato il progetto e dichiarato la pubblica utilità, dalla vigenza dell’art. 9, comma 12, della legge regionale n. 12/2005, il quale recita: “I vincoli preordinati all’espropriazione per la realizzazione, esclusivamente ad opera della pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi previsti dal piano dei servizi hanno la durata di cinque anni, decorrenti dall’entrata in vigore del piano stesso. Detti vincoli decadono qualora, entro tale termine, l’intervento cui sono preordinati non sia inserito, a cura dell’ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale delle opere pubbliche e relativo aggiornamento, ovvero non sia stato approvato lo strumento attuativo che ne preveda la realizzazione.”.
Poiché, nella fattispecie, il piano triennale delle opere pubbliche 2017-2019 è stato approvato, prevedendo la realizzazione anche del collegamento tra le via Cattaneo e per Torbiato, in data 06.04.2017 (con deliberazione del consiglio comunale n. 12 del 2017) e, dunque, prima della scadenza del quinquennio di efficacia del vincolo espropriativo, quest’ultimo è stato dichiaratamente assunto quale presupposto della procedura espropriativa avversata: circostanza, questa, rilevante ai fini dell’ammissibilità sia della doglianza stessa, che della questione di legittimità costituzionale.
Infatti, è pur vero che, lo stesso giorno in cui è stata dichiarata la pubblica utilità, è stata anche adottata (con la deliberazione precedente, recante il numero 10 del 2018) una variante urbanistica, poi approvata solo con deliberazione del consiglio comunale n. 23 del 12.05.2018, con cui il Comune di Adro ha preso atto della “conferma” dell’efficacia del vincolo preordinato all’esproprio in ragione dell’inclusione dell’opera nel Programma triennale delle opere pubbliche. Tale deliberazione ha un duplice contenuto: da un lato reitera i vincoli preordinati all’esproprio relativi ad alcune opere pubbliche per cui erano decaduti, dall’altro, per una pluralità di opere pubbliche, tra cui il collegamento tra le vie Cattaneo e per Torbiato in parola, dà atto dell’inserimento delle stesse nel Programma triennale delle opere pubbliche e del conseguente effetto “confermativo” dell’efficacia del vincolo, derivante dall’art. 9, comma 12, della LR 12/2005.
In tale seconda parte, il provvedimento risulta essere del tutto atipico (dal momento che l’effetto della norma richiamata è automatico) e, dunque, al più, sostanzialmente ricognitivo. L’assenza di contenuto dispositivo, innovativo dell’ordinamento, congiuntamente con la considerazione del fatto che la statuizione contenuta in tale atipica variante urbanistica è divenuta efficace ben dopo la dichiarazione di pubblica utilità, rende, contrariamente a quanto sostenuto dal Comune, irrilevante la sua mancata impugnazione. Non appare, infatti, revocabile in dubbio il fatto che, nella fattispecie, la dichiarazione di pubblica utilità sia intervenuta sulla base di un vincolo preordinato all’esproprio divenuto efficace più di cinque anni prima dell’approvazione del progetto, la cui efficacia risulta prorogata automaticamente per effetto dell’inclusione dell’opera nel Programma delle opere pubbliche triennale, a prescindere da ogni motivazione circa l’interesse pubblico alla reiterazione, da ogni garanzia partecipativa per il proprietario e dalla corresponsione di un adeguato indennizzo (così come, invece, previsto dall’art. 39 del T.U. DPR 327/2001), così come puntualmente rappresentato nella stessa dichiarazione di pubblica utilità dell’opera.
A nulla rileva che di tale effetto si sia preso atto in un provvedimento successivo alla dichiarazione di pubblica utilità stessa, privo di capacità innovativa circa l’efficacia del vincolo, il quale, per ciò stesso, risulterebbe inevitabilmente ed automaticamente travolto dall’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale della norma che ne rappresenta il presupposto.
Considerato, dunque, che, data la sua formulazione, la disposizione non risulta suscettibile di un’interpretazione costituzionalmente orientata, rispettosa dei precetti costituzionali, così come enunciati nel ricordato articolo 9 del DPR 327/2001, il Collegio ravvisa la necessità, ai fini della risoluzione della controversia, di accertare se nell’approvare l’art. 9 della L.R della Lombardia n. 12/2005, la Regione abbia violato i principi fondamentali della materia espropriativa e, dunque, non solo l’art. 42 della Costituzione, ma anche l’art. 1 del Primo protocollo della CEDU, nonché i limiti della potestà legislativa regionale di cui all’art. 117 della Costituzione.
Solo l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale consentirebbe, infatti, al Collegio di annullare i provvedimenti impugnati.
3.2. Sulla non manifesta infondatezza della questione.
Ritiene il Collegio che l’art. 9, comma 12, della legge regionale lombarda n. 12/2005 violi gli art. 117 e 42 della Costituzione, per le ragioni che si andranno ad esplicitare.
Con sentenza n. 575 del 1989, la Corte Costituzionale, pur rigettando la questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione alla violazione dell’articolo 42 della Costituzione, affermò che l’indeterminatezza temporale del vincolo espropriativo (da non confondersi con il ben diverso vincolo conformativo) desse luogo a una situazione di incompatibilità con la garanzia della proprietà privata e, di fatto, a un’espropriazione di valore, con conseguente necessità della previsione di un indennizzo.
Più precisamente, il giudice delle leggi, ha affermato che “
è propria della potestà pianificatoria la possibilità di rinnovare illimitatamente nel tempo i vincoli su beni individuati, purché, come ritenuto dalla giurisprudenza amministrativa, risulti adeguatamente motivata in relazione alle effettive esigenze urbanistiche. Tale possibilità, tuttavia, darebbe luogo ad un sistema non conforme ai principi affermati nella richiamata sentenza n. 55 del 1968, qualora il vincolo venga protratto a tempo indeterminato senza la previsione di indennizzo. Come si evince dalla stessa sentenza e come e stato ribadito più di recente (sent. n. 82 del 1982), i due requisiti della temporaneità e della indennizzabilità sono difatti tra loro alternativi, per cui l'indeterminatezza temporale dei vincoli, resa possibile dalla potestà di reiterarli indefinitamente nel tempo anche se con diversa destinazione o con altri mezzi, é costituzionalmente legittima a condizione che l'esercizio di detta potestà non determini situazioni incompatibili con la garanzia della proprietà secondo i principi affermati nelle sentenze n. 6 del 1966 e n. 55 del 1968.
Sulla scorta di tale pronuncia, il legislatore, nel modificare l’articolo 2 della legge 19.11.1968, n. 1187, stabilì la durata quinquennale del vincolo preordinato all’esproprio, subordinandone la reiterazione alla rappresentazione di una debita motivazione fondata sulla presenza di un elemento di novità che la giustificasse.
A seguito del dubbio di costituzionalità anche in relazione a tale disposizione (sollevato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con ordinanza n. 20/1996), con sentenza n. 179 del 20.05.1999, il giudice delle leggi dichiarò l’incostituzionalità del combinato disposto degli artt. 7, numeri 2, 3 e 4, e 40 della legge 17.08.1942, n. 1150 (Legge urbanistica) e 2, primo comma, della legge 19.11.1968, n. 1187 (Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150) “
nella parte in cui consente all’Amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici scaduti, preordinati all’espropriazione o che comportino l’inedificabilità senza la previsione di indennizzo”.
In altri termini, si legge ancora nella sentenza “
una volta oltrepassato il periodo di durata temporanea (periodo di franchigia da ogni indennizzo), il vincolo urbanistico (avente le anzidette caratteristiche), se permane a seguito di reiterazione, non può essere dissociato, in via alternativa all’espropriazione (o al serio inizio dell’attività preordinata all’espropriazione stessa mediante approvazione dei piani attuativi) dalla previsione di un indennizzo”.
Tempestivamente il legislatore del 2001 fece propri tali principi e introdusse, nel testo unico delle espropriazioni approvato con DPR 327/2001:
   a) la previsione della durata quinquennale del vincolo preordinato all’esproprio;
   b) la possibilità della reiterazione del vincolo seguendo un procedimento che prevede la garanzia partecipativa per i proprietari interessati e si conclude con un provvedimento motivato che deve tenere conto, in particolar modo, delle esigenze di soddisfacimento degli standard;
   c) l’obbligo della corresponsione, nel caso di reiterazione, di un indennizzo, ancorché, come chiarito con sentenza dell’Adunanza plenaria n. 7/2007, per la legittimità della reiterazione non sia necessaria la puntuale definizione dell’indennizzo da parte dell’Amministrazione, subordinata alla prova, da parte del proprietario inciso, dell’effettivo danno subìto e alla sua esatta quantificazione.
Venendo alla previsione regionale sospetta di incostituzionalità, il legislatore lombardo ha, a parere del Collegio, derogato al principio fondamentale affermato nella sentenza della Corte Costituzionale n. 179/1999, secondo cui, alla scadenza del termine di efficacia quinquennale del vincolo preordinato all’esproprio esso decade a meno che non ricorra una delle seguenti condizioni:
   A. il vincolo sia reiterato seguendo l’apposito procedimento a tal fine previsto dalla legge, con le conseguenti garanzie in termini di partecipazione al procedimento e di indennizzo del danno conseguente;
   B. la sua decadenza sia preclusa dall’intervenire, prima della scadenza, dell’espropriazione ovvero del “serio inizio dell’attività preordinata all’espropriazione”. Tale condizione è stata ravvisata dalla stessa sentenza in parola nell’approvazione di un piano attuativo e poi dal legislatore del testo unico del 2001 nell’approvazione del provvedimento che dichiara la pubblica utilità dell’opera e, quindi, di un provvedimento che comunque garantisce la partecipazione in chiave collaborativa al proprietario/espropriando e che rappresenta il primo atto di un procedimento (quello espropriativo) puntualmente cadenzato, che delimita nel tempo l’esercizio del potere espropriativo, prevedendo che, in difetto di un più breve termine espressamente previsto, il decreto d’esproprio debba intervenire entro cinque anni decorrenti dal giorno in cui è divenuto efficace il provvedimento dichiarativo della pubblica utilità.
Da tutto il quadro sin qui delineato
emerge chiaramente come, nel corso del tempo, sia stato chiarito che l’esercizio del potere ablatorio può essere ritenuto conforme all’art. 42 della Costituzione (e oggi anche all’art. 1 del Primo protocollo allegato alla CEDU, dal momento che si è chiarito come il rispetto della norma pattizia, quale è la Carta europea dei diritti dell’uomo, pone dei precisi limiti alla potestà legislativa dello Stato e a maggior ragione delle Regioni, la cui violazione genera questioni di legittimità costituzionale attratte nella competenza della Corte Costituzionale – cfr. le sentenze nn. 348 e 349 del 2007) se e in quanto risulti limitato nel tempo e compensato dalla corresponsione di un equo indennizzo.
Il legislatore regionale lombardo, quindi, risulta, a parere del Collegio, aver disatteso i limiti imposti alla propria competenza legislativa, violando l’art. 117 della Costituzione, per aver, nell’esercizio di una competenza legislativa concorrente, eluso i principi fondamentali della materia, desumibili anche dall’art. 1 del Protocollo n. 1 della CEDU e affermati dal legislatore statale nel T.U. delle espropriazioni, sulla scorta della giurisprudenza costituzionale che li ha estrapolati dall’art. 42 della Costituzione.
Più precisamente,
la Regione Lombardia ha violato i limiti posti dall’art. 117 della Costituzione, perché, esorbitando dalla propria competenza concorrente in materia, ha introdotto una nuova ipotesi in cui il vincolo preordinato all’esproprio si consolida, che per le ragioni che si andranno a meglio evidenziare, non può rappresentare un “serio inizio della procedura espropriativa”, condizione ritenuta essenziale dalla Corte Costituzionale e la cui ricorrenza è stata individuata dal legislatore nazionale solo nell’intervento del primo atto della procedura espropriativa intesa in senso stretto, quale è stata qualificata la dichiarazione di pubblica utilità.
Il Collegio ritiene, dunque, che la Regione Lombardia abbia travalicato i limiti della propria competenza legislativa, disciplinando una nuova ipotesi di “attuazione” del vincolo espropriativo, in violazione dell’art. 117 della Costituzione che, riserva al legislatore nazionale l’individuazione degli atti la cui adozione equivale al serio avvio della procedura espropriativa, che la Corte Costituzionale ha indicato come condizione necessaria per ritenere rispettato il principio della temporaneità del potere espropriativo esercitabile su determinati beni.
L’esercizio di questo potere pare, dunque, porsi, nella fattispecie in esame, in contrasto con l’art. 42 della Costituzione, da una corretta interpretazione del quale discende, come già anticipato, che il potere espropriativo può essere esercitato solo nei limiti in cui ciò sia previsto dalla legge e, come evidenziato nella sentenza della Corte Costituzionale n. 575/1989 già ricordata, a condizione che l’assoggettamento al potere espropriativo sia limitato nel tempo ovvero che, a fronte di una indeterminatezza temporale del vincolo, il proprietario sia indennizzato per la perdita, in via di fatto, della proprietà.
Ne discende che
il vincolo preordinato all’esproprio, imposto mediante un apposito procedimento che garantisca la partecipazione dell’interessato, deve avere durata determinata nel tempo e nell’arco del periodo di efficacia deve intervenire la dichiarazione di pubblica utilità, la quale, a sua volta, è pronunciata a conclusione di un procedimento che garantisce la partecipazione e deve essere attuata, con l’intervento del decreto di esproprio, entro il termine all’uopo fissato dall’Amministrazione e comunque non superiore ai cinque anni.
Nell’ipotesi di cui al comma 12 dell’art. 9 della Legge regionale lombarda n. 12/2005, invece, il potere ablatorio finisce per essere esercitabile a tempo indeterminato, in ragione di un provvedimento, l’approvazione del Piano triennale delle opere pubbliche che preveda la realizzazione anche di quella oggetto del vincolo in scadenza, la cui adozione non garantisce la partecipazione procedimentale degli interessati e che può essere rinnovato all’infinito senza bisogno né di motivazione, né di indennizzo.
L’art. 21 del codice degli appalti, infatti, disciplina l’approvazione del piano triennale delle opere pubbliche senza particolari formalità che garantiscano la partecipazione al procedimento dei soggetti interessati dalla realizzazione delle opere in esso inserite, anche in considerazione della sua funzione prettamente programmatica, strettamente connessa alla programmazione finanziaria e di bilancio e alla sua natura organizzativa dell’attività dell’ente, individuando le opere da eseguirsi con priorità.
Tant’è che anche a seguito dell’entrata in vigore del D.M. 16.01.2018, n. 14, recante il regolamento relativo alle procedure e schemi tipo per la redazione e la pubblicazione del piano triennale dei lavori pubblici, pur essendo ribadita la necessità della pubblicazione del piano, la garanzia partecipativa risulta essere minima, dal momento che l’art. 5 prevede che l’amministrazione “possa” consentire la presentazione delle osservazioni entro trenta giorni dalla pubblicazione, facendo ricorso a un subprocedimento che la norma definisce come “consultazioni”, che, quindi, è eventuale, rimesso alla scelta dell’ente e può concludersi senza che sul Comune gravi un preciso onere motivazionale, nel caso in cui le prospettazioni del privato vengano disattese.
Inoltre, nessuna disposizione normativa limita la possibilità di riproporre, negli aggiornamenti annuali, il mantenimento delle previsioni di realizzazione della stessa opera, che, dunque, potrebbe essere procrastinata all’infinito, di fatto svuotando completamente di contenuto il diritto di proprietà e, così, espropriando il suo titolare, cui è preclusa ogni utilizzazione che non sia quella per la coltivazione agricola, pur in assenza di alcun indennizzo.
In questo modo si finisce per eludere sia il principio della temporaneità del potere espropriativo, sia quello dell’indennizzabilità in caso di un potere che si consolidi nel tempo pur non essendo intervenuta l’espropriazione, espressamente indicati come alternativi dal giudice delle leggi nelle sentenze già più volte ricordate.
L’inserimento nel piano triennale delle opere pubbliche, infatti:
   - se da un lato non può essere qualificato come un serio inizio della procedura espropriativa, in quanto non offre alcuna garanzia circa il fatto che l’opera sia effettivamente realizzata, non comportando alcun impegno di spesa e non essendo previsto alcun termine di efficacia entro cui i lavori debbono essere conclusi;
   - dall’altro, viola anche il fondamentale presupposto, introdotto dal legislatore in recepimento del principio individuato dalla Corte Costituzionale nella citata sentenza n. 179/1999 e trasfuso nel primo comma dell’art. 39 del T.U. DPR 327/2001, secondo cui “nel caso di reiterazione di un vincolo preordinato all’esproprio o di un vincolo sostanzialmente espropriativo è dovuta al proprietario una indennità, commisurata all’entità del danno effettivamente prodotto.”.
4. In conclusione
questo Tribunale ritiene che l’art. 9, comma 12, della legge regionale della Lombardia n. 12/2005 sia costituzionalmente illegittimo laddove ricollega all’inserimento dell’opera pubblica nella programmazione triennale prevista dalla normativa in materia di lavori pubblici, l’effetto preclusivo della decadenza del vincolo preordinato all’esproprio.
5. Ciò premesso,
questo Tribunale solleva la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 12, della legge regionale della Lombardia n. 12/2005, nella parte in cui, in violazione dei limiti alla propria competenza legislativa concorrente definiti dall’art. 117 Cost. e comunque dei principi fondamentali relativi ai limiti del potere espropriativo discendenti dall’art. 42 Cost., attribuisce all’inserimento della previsione della realizzazione di un’opera pubblica nella programmazione triennale di cui all’art. 21 del d.lgs. 50/2016 l’effetto preclusivo della decadenza del vincolo quinquennale preordinato all’esproprio per la sua esecuzione, secondo i profili e per le ragioni sopra indicate, con sospensione del giudizio fino alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana della decisione della Corte Costituzionale sulle questioni indicate, ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 79 ed 80 del c.p.a. e art. 295 c.p.c..
Riserva al definitivo la decisione nel merito e sulle spese.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia (Sezione Seconda),
ritenuta la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 12, della legge regionale della Lombardia n. 12/2005, per violazione degli artt. 42 e 117 della Costituzione, dispone la sospensione del giudizio e la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, ordinanza 14.08.2019 n. 740 - link a www.giustizia-amministrartiva.it - si legga anche TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, ordinanza 20.09.2019 n. 827).

ESPROPRIAZIONERichiesta risarcimento danni per equivalente pari al valore del fondo formulata in costanza di occupazione acquisitiva.
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Risarcimento danni - Espropriazione per pubblica utilità – Richiesta di risarcimento danni per equivalente pari al valore del fondo – Formulata in costanza di occupazione acquisitiva – Riconoscimento risarcimento danni da occupazione illegittima – Possibilità.
  
Espropriazione per pubblica utilità - Occupazione acquisitiva - Possesso ad usucapionem – Esclusione – Conseguenza.
   Non viola il principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato la sentenza che, a fronte della richiesta del danno per equivalente pari al valore del fondo formulata allorché l'ordinamento contemplava l'istituto dell'occupazione acquisitiva, abbia disposto il solo danno da occupazione illegittima, nel presupposto della permanente proprietà del cespite in capo al privato: la tutela giurisdizionale, infatti, deve essere modulata in base all'assetto esegetico generalmente condiviso al momento della pronuncia (1).
  
Nel periodo di tempo in cui trovava applicazione l'istituto dell'occupazione acquisitiva non è in radice ravvisabile alcun possesso ad usucapionem, di talché non può ipotizzarsi l'acquisto in capo a terzi (nella specie, assegnatari di alloggi di edilizia residenziale pubblica) della proprietà del bene ai sensi dell'art. 1159 c.c. (cd. "usucapione abbreviata") allorché il decennio sia maturato in costanza dell'indirizzo giurisprudenziale che riconosceva l'occupazione acquisitiva (2).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che la richiesta di giustizia avanzata dall’appellante aveva come causa petendi la posizione dominicale illo tempore incisa dall’indebita occupazione del bene da parte dell’Amministrazione e ne chiedeva la tutela nell’ambito dei rimedi allora considerati rilevanti dalle Corti.
Correttamente, dunque, il Tribunale ha fatto riferimento alla (diversa) tutela contemplata dall’attuale diritto vivente, che ha espunto dall’ordinamento, per insuperabile contrasto con superiori principi sovranazionali cui la Repubblica è costituzionalmente tenuta a conformarsi, l’istituto dell’occupazione acquisitiva.
Più in particolare, venuto meno il riconoscimento della valenza acquisitiva dei comportamenti di apprensione materiale del bene posti in essere sine titulo dall’Amministrazione, il Tribunale ha ricondotto la domanda nell’alveo dell’ordinario illecito aquiliano ed ha, pertanto, condannato l’Ente al risarcimento del solo danno (“a carattere permanente”) da perdita della disponibilità materiale del bene, specificando che la proprietà è rimasta in capo ai ricorrenti.
   (2) Cons. St., A.P., 09.02.2016, n. 2; id., sez. IV, 01.08.2017, n. 3838; id. 30.08.2017, n. 4106 (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 13.08.2019 n. 5703
- commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ESPROPRIAZIONETorna alla Adunanza plenaria l’interpretazione dell’art. 42-bis del T.U. espropriazione in relazione all’istituto della c.d. rinuncia abdicativa.
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Espropriazione per pubblico interesse – Acquisizione sanante – Rinuncia abdicativa – Configurabilità – Deferimento all’Adunanza plenaria.
Vanno deferite all'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, le seguenti questioni:
   a) se per le fattispecie sottoposte all’esame del giudice amministrativo e disciplinate dall’art. 42-bis del testo unico sugli espropri, l’illecito permanente dell’Autorità viene meno solo nei casi da esso previsti (l’acquisizione del bene o la sua restituzione), salva la conclusione di un contratto traslativo tra le parti, di natura transattiva;
   b) se, pertanto, la ‘rinuncia abdicativa’, salve le questioni concernenti le controversie all’esame del giudice civile, non può essere ravvisata quando sia applicabile l’art. 42-bis;
   c) se, ove sia invocata la sola tutela restitutoria e/o risarcitoria prevista dal codice civile e non sia richiamato l’art. 42 bis, il giudice amministrativo può qualificare l’azione come proposta avverso il silenzio dell’Autorità inerte in relazione all’esercizio dei poteri ex art. 42-bis;
   d) se, in tale ipotesi, il giudice amministrativo può conseguentemente fornire tutela all’interesse legittimo del ricorrente applicando la disciplina di cui all’art. 42-bis e, eventualmente, nominando un Commissario ad acta già in sede di cognizione;
   e) se, nella specie, l’atto di acquisizione emesso da Roma Capitale in data 23.11.2018 vada considerato giuridicamente rilevante (ciò che dovrebbe ammettersi, qualora si dovesse ritenere che l’Amministrazione solo con l’emanazione dell’atto di data 23.11.2018 ha fatto venire meno l’illecito permanente conseguente alla occupazione sine titulo). (1)

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   (1) I. – Con l’ordinanza in rassegna (che segue due analoghe ordinanze di rimessione, la n. 5399 e la n. 5391 in pari data) la Quarta sezione del Consiglio di Stato ha deferito all’Adunanza plenaria la questione della ammissibilità della rinuncia abdicativa nei giudizi dinanzi al giudice amministrativo, sollecitando una rimeditazione dei principi affermati in tema dalla Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con sentenza n. 2 del 2016 (in Foro it., 2016, III, 185 con note di TRAVI, BARILA’ e PARDOLESI ).
In primo grado il Tar escludeva la configurabilità di una “rinunzia abdicativa” e riteneva applicabile l’art. 42-bis del testo unico sugli espropri, con conseguente legittimità del provvedimento poi effettivamente adottato da Roma capitale resistente in primo grado.
Tale capo della sentenza veniva appellato dagli interessati i quali prospettavano di non essere più proprietari da tempo, in conseguenza di una loro “rinunzia abdicativa”.
La Quarta sezione, evidenziava la possibile inefficacia dell’atto di acquisizione sanante in conseguenza dell’intervenuto acquisto della proprietà da parte di Roma Capitale in forza della allegata rinuncia abdicativa da parte degli originari proprietari che avrebbe determinato il venir meno dell’oggetto del provvedimento di acquisizione; pertanto riteneva di deferire alla Adunanza plenaria la questione se l’atto di acquisizione, emesso da Roma Capitale, dovesse essere considerato autoritativo ed efficace (con la conseguente improcedibilità dei ricorsi di primo grado, quanto meno parziale) oppure inefficace, o perché non seguito dal pagamento di quanto dovuto entro i successivi trenta giorni, o perché emesso quando l’Amministrazione era da considerarsi già proprietaria, potendosi ipotizzare in tal caso l’applicazione dell’art. 21-septies, comma 1, della legge n. 241 del 1990, avendo l’atto di acquisizione per oggetto un bene di cui l’Autorità risultava già proprietaria in forza della intervenuta rinuncia abdicativa.
La rimessione veniva prospettata sulla scorta delle seguenti considerazioni tese ad escludere la configurabilità di una rinunzia abdicativa, sia nel caso di specie che in via generale:
      a) negli anni susseguenti all’entrata in vigore del testo unico, il Consiglio di Stato non ha affrontato funditus la questione se la volontà del proprietario possa comportare la perdita del suo diritto e una sua pretesa di ottenere il controvalore del bene;
      b) tale possibilità è stata ammessa dalla giurisprudenza della Corte di cassazione (Cass. civ., sez. un., 19.01.2015, n. 735 in Foro it., 2015, I, 436, n. PARDOLESI R., in Corriere giur., 2015, 314, con nota di CONTI; in Nuova giur. civ., 2015, I, 632, con nota di IMBRENDA; in Urbanistica e appalti, 2015, 413, con nota di BARILÀ; in Riv. neldiritto, 2015, 220 (m), con nota di IANNONE; in Nuove autonomie, 2015, 187 (m), con nota di RUSSO), per i casi devoluti alla giurisdizione del giudice civile, nei giudizi instaurati prima della entrata in vigore della legge n. 205 del 2000, che ha previsto la giurisdizione amministrativa esclusiva in materia espropriativa. A tale giurisprudenza ha poi fatto richiamo il § 5.3. della sentenza della Adunanza plenaria n. 2 del 2016;
      c) il principio affermato dalle sezioni unite –che hanno annoverato la “rinuncia abdicativa” tra i modi con i quali viene meno l’occupazione sine titulo- è applicabile per le controversie devolute al giudice civile (quelle sorte prima della entrata in vigore della legge n. 205 del 2000, che ha previsto la giurisdizione esclusiva in materia espropriativa, nonché quelle sorte successivamente in tema di “sconfinamento”, qualora si ritenga irrilevante la giurisdizione esclusiva);
      d) la stessa sentenza delle sezioni unite ha dato atto dei dubbi interpretativi sulla applicabilità dapprima dell’art. 43 e poi dell’art. 42-bis per le occupazioni senza titolo poste in essere prima della loro entrata in vigore, poste all’esame del giudice civile;
      e) la sentenza n. 735 del 2015 non si è quindi occupata dei casi in cui sussiste la giurisdizione amministrativa esclusiva, né delle implicazioni sistematiche che discendono dalla applicazione dell’art. 42-bis del testo unico espropriazione, ritenuto non applicabile al caso al suo esame;
      f) di conseguenza, tenuto conto dei principi affermati dalle sezioni unite (per le controversie devolute al giudice civile) e delle disposizioni del testo unico espropriazione (applicabili per le controversie proposte in sede di giurisdizione esclusiva), si potrebbe escludere che la “rinuncia abdicativa” possa avere giuridica rilevanza innanzi al giudice amministrativo;
      g) infatti, per i casi di occupazione sine titulo di un fondo da parte della Autorità (devoluti alla cognizione del giudice amministrativo), è in vigore la specifica disciplina prevista dall’art. 42-bis del testo unico sugli espropri, che ha in dettaglio individuato i poteri e i doveri della medesima Autorità, nonché i poteri del giudice amministrativo;
      h) in particolare l’art. 42-bis:
         h1) prevede che l’Autorità che utilizza sine titulo un bene immobile per scopi di interesse pubblico debba valutare, con un procedimento d’ufficio (che può essere sollecitato dalla parte in caso di inerzia), “gli interessi in conflitto”, adottando un provvedimento conclusivo con cui sceglie se acquisire il bene o restituirlo, per adeguare la situazione di diritto a quella di fatto; in altri termini, vincola l’Amministrazione occupante all’esercizio del potere ed attribuisce alla stessa un potere discrezionale in ordine alla scelta finale, all’esito della comparazione e della valutazione degli interessi;
         h2) comporta che nel caso di occupazione sine titulo l’Autorità commette un illecito di carattere permanente;
         h3) esclude che il giudice decida la “sorte” del bene nel giudizio di cognizione instaurato dal proprietario;
         h4) a maggior ragione, non può che escludere che la “sorte” del bene sia decisa dal proprietario e che l’Autorità acquisti coattivamente il bene, sol perché il proprietario dichiari di averlo perso o di volerlo perdere, o di volere il controvalore del bene;
         h5) l’art. 42-bis ha esaurito la disciplina della fattispecie, con una normativa “autosufficiente”, rispetto alla quale non dovrebbero rilevare “prassi” ulteriori, limitative dell’applicazione della legge;
      i) per le fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis vi dovrebbe essere una rigorosa applicazione del principio di legalità, in materia affermato dall’art. 42 della Costituzione e rimarcato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo in tema di assenza della base legale delle prassi sulla “espropriazione indiretta”: nessuna norma ha indicato i requisiti formali necessari per la validità della “rinuncia abdicativa”, né ha precisato quali effetti si producano;
      j) nel diritto privato, è discusso se l’art. 827 del codice civile sia la base legale di una dichiarazione di rinuncia del proprietario di un diritto reale immobiliare, a parte i casi previsti dalla legge;
      k) è molto dubbio che le sue disposizioni prevalgano su quelle dell’art. 42-bis, che attribuisce all’Autorità e non al proprietario la possibilità di decidere quale sia il regime del bene: nel vigore dell’art. 42-bis, non vi è alcuna lacuna normativa da colmare;
      l) per l’art. 42-bis l’Autorità può acquisire il bene con un atto discrezionale, in assenza del quale vi sono gli ordinari rimedi di tutela, anche quello della restituzione;
      m) la scelta, di acquisizione del bene o della sua restituzione, va effettuata esclusivamente dall’Autorità (o dal commissario ad acta nominato dal giudice amministrativo, all’esito del giudizio di cognizione o del giudizio d’ottemperanza, ai sensi dell’art. 34 o dell’art. 114 del c.p.a.): in sede di giurisdizione di legittimità, né il giudice amministrativo né il proprietario possono sostituire le proprie valutazioni a quelle attribuite alla competenza e alle responsabilità dell’Autorità individuata dall’art. 42-bis;
      n) l’art. 827 c.c. si riferisce alla titolarità del bene da parte dello Stato, sicché esso non è neanche in astratto rilevante quando l’illecito sia stato commesso da una Autorità non statale;
      o) il comma 1 dell’art. 42-bis ha attribuito al proprietario un peculiare interesse legittimo a che l’Amministrazione adegui la situazione di diritto a quella di fatto -acquisendo essa stessa la titolarità del bene illecitamente occupato e corrispondendo le relative somme nelle misure previste dalla legge, ovvero restituendo il bene al legittimo proprietario- che può essere azionato per costringere anche in tempi rapidi l’Autorità a provvedere attraverso il ricorso avverso il silenzio ai sensi dell’art. 117 c.p.a.;
      p) nel tutelare tale interesse legittimo, il comma 1 “paralizza temporaneamente” l’accoglibilità della domanda del proprietario di ottenere senz’altro il risarcimento o la restituzione del suo bene, poiché:
         p1) se l’Autorità –d’ufficio o su sollecitazione di parte– dispone l’acquisizione, all’ex proprietario spetta l’indennizzo per la cui quantificazione, in caso di contestazione, sussiste la giurisdizione del giudice civile;
         p2) se l’Autorità invece decide di non acquisire il bene, solo allora il giudice amministrativo può applicare le disposizioni del codice civile;
         p3) il giudice amministrativo, in caso di inerzia dell’amministrazione e di ricorso avverso il silenzio ex art. 117 c.p.a., può nominare già in sede di cognizione il commissario ad acta, che provvederà ad esercitare i poteri di cui all’art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001 o nel senso della acquisizione o nel senso della restituzione;
      q) qualora sia invocata solo la tutela (restitutoria e risarcitoria) prevista dal codice civile e non si richiami l’art. 42-bis il giudice, qualificata l’azione come proposta avverso il silenzio, si potrebbe pronunciare ai sensi dell’art. 117 c.p.a.;
      r) in definitiva:
         r1) per le fattispecie sottoposte all’esame del giudice amministrativo e disciplinate dall’art. 42-bis del testo unico sugli espropri, l’illecito permanente dell’Autorità viene meno nei casi da esso previsti (l’acquisizione del bene o la sua restituzione), salva la conclusione di un contratto traslativo tra le parti, di natura transattiva;
         r2) la “rinuncia abdicativa”, salve le questioni concernenti le controversie all’esame del giudice civile, non può essere ravvisata quando sia applicabile l’art. 42-bis.
   II. – Per completezza sull’argomento si segnala:
      s) la rassegna monotematica di giurisprudenza, sia civile che amministrativa, a cura dell’Ufficio Studi, massimario e formazione dal titolo “L’occupazione abusiva di immobili da parte della pubblica amministrazione” (aggiornata al 02.09.2019, cui si rinvia per ogni approfondimento anche di dottrina; ivi si mette in luce la maggiore efficienza economica sottesa alla scelta del privato di rinunciare alla proprietà del bene occupato nonché l’abbattimento del contenzioso invece incrementato dalla attivazione del procedimento di cui all’art. 42-bis specie se promosso a seguito di un giudicato che accerti il silenzio inadempimento dell’Amministrazione; cfr. in particolare i paragrafi § 11 e da 14 a 21) e la News US n. 100 del 10.09.2019 relativa a Cons. Stato, sez. IV, ordinanza 15.07.2019, n. 4950 sull’interpretazione dell’art. 42-bis del T.U. espropriazione in presenza di un giudicato restitutorio del g.o.;
      t) tra le più recenti pronunce in tema si segnalano:
         t1) Cass. civ., sez. un., n. 3517 del 2019 (in Foro it., 2019, I, 1644, con nota di BARILÀ dal titolo “La partecipazione del privato al procedimento di acquisizione sanante”), resa in materia di impugnazione di un atto di asservimento coattivo in sanatoria ex art. 42-bis T.U. espropriazione, la quale, ribadendo principi consolidati ed in dichiarata adesione a quanto espresso dalla Adunanza plenaria n. 2 del 2016, afferma che “L'atto di acquisizione sanante è, dunque, volto a ripristinare la legalità amministrativa con effetto non retroattivo, attraverso «una sorta di procedimento espropriativo semplificato», di carattere eccezionale, innestato su un precedente procedimento espropriativo irrimediabilmente viziato o, comunque, fondato su titolo astrattamente annullabile sub iudice”;
         t2) sul tema della ammissibilità della rinuncia abdicativa cfr. Cons. Stato, sez. IV, 24.05.2018, n. 3105 (favorevole); Cons. Stato, sez. IV, 20.04.2018, n. 2396 (favorevole); Tar per il Piemonte; sez., I, 28.03.2018, n. 368 (contraria, con ampia motivazione) tutte in Foro it., 2018, III, 403 con nota redazionale di C. BONA contenente una puntuale rassegna delle posizioni dottrinali sul tema. Favorevoli alla rinuncia abdicativa sono anche Cass. civ., sez. I, 24.05.2018, n. 12961 in Foro it., 2018, I, 2363, nonché Cass. civ., sez. I, 07.03.2017, n. 5686 in Foro it., 2017, I, 1992 con approfondita nota redazionale di E Barilà; nello stesso senso si veda Corte appello Genova 27.11.2018 (che ammette la trascrivibilità dell'atto di rinuncia abdicativo) e Tribunale civile Genova 01.03.2018, in Foro it., 2019, I, 308, con nota di richiami;
      u) sui limiti alla conversione d’ufficio della domanda risarcitoria in azione contro il silenzio per l’adozione del provvedimento ex art. 42-bis, si vedano i principi in materia di conversione dell’azione di annullamento in azione risarcitoria affermati da Cons. Stato, Ad. plen., 13.04.2015, n. 4 (in Foro it., 2015, III, 265, con nota di TRAVI; in Urbanistica e appalti, 2015, 917, con nota di MANGANARO, MAZZA LABOCCETTA; in Giur. it., 2015, 1693 (m), con nota di COMPORTI; in Guida al dir., 2015, fasc. 20, 92, con nota di MASARACCHIA; in Foro amm., 2015, 2206 (m), con nota di SILVESTRI; in Corriere giur., 2015, 1596, con nota di SCOCA; in Dir. proc. amm., 2016, 173, con nota di TURRONI) secondo cui posto che il processo amministrativo è soggetto al principio della domanda, il giudice amministrativo non può emettere d'ufficio una pronuncia di risarcimento del danno, in presenza di una domanda di annullamento della parte ricorrente; si veda altresì Cons. Stato, Ad. plen., 27.04.2015, n. 5 in Foro it., 2015, III, 265, con nota di TRAVI; in Urbanistica e appalti, 2015, 1177, con nota di VAIANO; in Riv. neldiritto, 2015, 2084, con nota di COLASCILLA NARDUCCI; in Riv. dir. proc., 2015, 1256, con nota di FANELLI; in Giur. it., 2015, 2192 (m), con nota di FOLLIERI; in Dir. proc. amm., 2016, 205, con nota di PERFETTI, TROPEA; in Dir. proc. amm., 2016, 830 (m), con nota di BERTONAZZI;
      v) nel senso della improcedibilità della domanda di risarcimento del danno (per equivalente) o di restituzione se sopravviene nel corso del giudizio il provvedimento ex art. 42-bis, è unanime la giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 3148 del 2018; sez. IV, n. 2765 del 2018; Cass. civ., sez. I, n. 5686 del 2017; sez. I, n. 11258 del 2016; sul punto si rinvia al § 9 della citata rassegna monotematica);
      w) per quanto concerne la ipotetica nullità del provvedimento emanato ex art. 42-bis, perché privo di oggetto secondo una certa lettura della norma sancita dall’art. 21-septies l. n. 241 del 1990 (secondo questa ricostruzione, infatti, l’immobile, a seguito di rinuncia abdicativa, sarebbe già transitato nel patrimonio dell’ente occupante, da qui l’impossibilità giuridica di farne il presupposto per l’esercizio del potere di acquisizione ex post) si segnala l’opinione contraria espressa, in linea generale, dalla giurisprudenza:
         w1) per Cass. civ., sez. un., 05.03.2018, n. 5097 (in Riv. giur. edilizia, 2018, I, 636, nonché oggetto della News US 14.03.2018 cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e giurisprudenza ivi compresa quella amministrativa), solo il difetto assoluto di attribuzione (ovvero l’assenza in astratto di qualsivoglia norma giuridica attributiva del potere esercitato con il provvedimento amministrativo) radica la nullità ex art. 21-septies, l comma 1, l. n. 241 del 1990);
         w2) nella stessa direzione appare muoversi Corte cost. 02.05.2019, n. 106 (in Foro it., 2019, I, 1829 nonché oggetto della News US n. 57 del 14.05.2019 cui si rinvia per ogni approfondimento), secondo cui sarebbe impossibile configurare la nullità del provvedimento ex art. 21-septies cit., sempre e comunque a seguito della declaratoria di incostituzionalità della norma sottoposta al sindacato del giudice delle leggi, dovendosi ravvisare il più radicale dei vizi dell’atto solo quando la norma illegittima attenga al fondamento del potere e non alle sue modalità di esercizio (Consiglio di Stato, Sez. IV, ordinanza 30.07.2019 n. 5400 - tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ESPROPRIAZIONE Torna alla Adunanza plenaria l’interpretazione dell’art. 42-bis del T.U. espropri in presenza di un giudicato restitutorio del g.o..
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Espropriazione per pubblico interesse – Acquisizione sanante – Applicabilità alla costituzione di una servitù pubblica in presenza di giudicato civile restitutorio – Deferimento all’Adunanza plenaria
Vanno deferite all'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, le seguenti questioni:
   a) se il giudicato civile, sull’obbligo di restituire un’area al proprietario da parte dell’Amministrazione occupante sine titulo, precluda o meno l’emanazione di un atto di imposizione di una servitù di passaggio, col mantenimento del diritto di proprietà in capo al suo titolare;
   b) se la formazione del giudicato interno -sulla statuizione del TAR per cui il giudicato civile consente l’attivazione di un ordinario procedimento espropriativo– imponga nella specie di affermare che sussiste anche il potere dell’Amministrazione di imporre la servitù di passaggio ex art. 42-bis, comma 6;
   c) se la preclusione del ‘giudicato restitutorio’ sussista anche quando la sentenza (nella specie, del giudice civile) non abbia espressamente precluso l’esercizio dei poteri previsti dall’art. 42-bis per adeguare lo stato di fatto a quello di diritto;
   d) se la preclusione del ‘giudicato restitutorio’ sussista solo in relazione ai giudicati formatisi dopo la pubblicazione della sentenza della Adunanza Plenaria n. 2 del 2016, ovvero anche in relazione ai giudicati formatisi in precedenza (1).

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   (1) I. – Con l’ordinanza in rassegna la quarta sezione del Consiglio di Stato ha deferito all’Adunanza plenaria alcune questioni relative alla interpretazione dell’art. 42-bis del t.u. espropri, con particolare riferimento alla possibilità di adottare un decreto di acquisizione sanante per la costituzione, in favore di un Comune, di una servitù pubblica di passaggio per l’accesso ad un parco pubblico, in presenza di un giudicato civile di restituzione del terreno, conseguente non ad una procedura espropriativa illegittima ma alla declaratoria di nullità di un contratto di compravendita con immissione immediata nel possesso in favore del Comune resistente dinanzi al Tar.
In primo grado il Tar per le Marche ha accolto il ricorso proposto dai proprietari del terreno, gravato dalla servitù pubblica, in dichiarata applicazione dei principi espressi dalla Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con sentenza n. 2 del 2016 (in Foro it., 2016, III, 185) che ha escluso la possibilità, in presenza di un giudicato civile restitutorio conseguente a procedura espropriativa illegittima, di adottare il decreto di acquisizione sanante.
La quarta sezione, adita dalla contro interessata che beneficiava della servitù pubblica di passaggio, ha ritenuto di deferire nuovamente alla Adunanza plenaria la questione del rapporto tra giudicato civile restitutorio e decreto di acquisizione sanante, sulla scorta delle seguenti considerazioni:
      a) è opinabile, rispetto a quanto osservato dal Tar, che nella specie si ravvisi una vicenda di mero rilievo privatistico, su cui non potrebbe ‘interferire’ il potere pubblicistico;
      b) l’art. 42-bis t.u. espropri si applica infatti testualmente ad ogni caso in cui –per qualsiasi ragione– un bene immobile altrui sia utilizzato dall’Amministrazione per scopi di interesse pubblico, senza che abbiano rilievo le circostanze che hanno condotto alla occupazione sine titulo e alla riconducibilità di tali circostanze a vicende di natura privatistica o pubblicistica;
      c) in particolare la parola ‘anche’ evidenzia la natura meramente esemplificativa dei casi indicati dal comma 2 dell’art. 42-bis (annullamento dell’atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all’esproprio, dell’atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di un’opera o del decreto di esproprio);
      d) peraltro, nel caso di specie, per escludere un mero rilievo ‘privatistico’ della vicenda, la sezione sottolinea come l’Amministrazione –con la stipula del contratto poi dichiarato nullo– ha invero attuato le previsioni dell’allora vigente programma di fabbricazione, sicché il medesimo contratto avrebbe sostanzialmente la natura di accordo di cessione del bene espropriando, attuativo dello strumento urbanistico;
      e) quanto al limite del giudicato restitutorio, enunciato da Corte cost., 30.04.2015, n. 71 (in Foro it., 2015, I, 2629 con nota di R. PARDOLESI “Acquisizione sanante: ansia di riscatto e violenza latente”) e ribadito da Cons. Stato, Ad. plen., 09.02.2016, n. 2 cit., si tratta di principio affermato con specifico riferimento alla emanazione dell’atto di acquisizione “in proprietà” mentre nel caso di specie il Comune si è limitato a costituire una servitù di passaggio, ai sensi dell’art. 42-bis, comma 6, sicché il suddetto principio non dovrebbe ritenersi ostativo;
      f) la costituzione di una servitù, in luogo della acquisizione della proprietà, sarebbe decisiva per differenziare la presente fattispecie dal principio affermato dalla Corte costituzionale e dalla Adunanza plenaria in quanto il Comune ha mantenuto ferma (ed ha riconosciuto) la titolarità del diritto di proprietà in capo agli appellati e –nel contemperare gli interessi in conflitto– ha imposto la servitù per una parte delimitata dell’area, in ragione dello specifico interesse pubblico, riferito alla migliore utilizzabilità del ‘fondo dominante’ (costituito dal vicino parco pubblico), oltre che alla razionalità dell’assetto viario;
      g) inoltre la formazione del giudicato interno sulla statuizione del Tar per cui il giudicato restitutorio consente comunque l’attivazione di un ordinario procedimento espropriativo volto all’acquisto della proprietà, dovrebbe indurre a concludere nel senso che sussiste anche il potere dell’Amministrazione di imporre la servitù di passaggio ex art. 42-bis, comma 6;
      h) la sezione pone altresì la questione se la preclusione del ‘giudicato restitutorio’ sussista anche quando la sentenza del giudice civile non abbia espressamente precluso l’esercizio dei poteri previsti dall’art. 42-bis per adeguare lo stato di fatto a quello di diritto; la sussistenza del ‘giudicato restitutorio’ potrebbe essere affermata solo quando la relativa sentenza abbia ritenuto di escludere l’applicabilità della normativa pubblicistica, introdotta dal legislatore proprio per consentire l’adeguamento della situazione di fatto a quella di diritto; non v’è dubbio infatti che proprio a seguito dell’annullamento degli atti del procedimento ablatorio da parte del g.a. si possano esercitare i poteri previsti dall’art. 42-bis: allo stesso modo, il giudice civile –nell’emettere unicamente le statuizioni prettamente civilistiche conseguenti alla declaratoria della nullità del contratto- non va ad incidere sull’ambito di applicabilità del medesimo articolo;
      i) occorre dunque chiarire se il principio enunciato dalla Adunanza plenaria n. 2 del 2016 sia applicabile ai soli casi in cui il ‘giudicato restitutorio’ sia caratterizzato dalla espressa statuizione sulla inapplicabilità dell’art. 42-bis, ovvero anche ai casi in cui l’ordine di restituzione sia stato emesso –come nella specie, dal giudice civile- senza alcun richiamo alla normativa pubblicistica applicabile in materia;
      j) per l’ipotesi in cui si ritenga che la sentenza del giudice civile sia tale da comportare un ‘giudicato restitutorio preclusivo’ con conseguente inapplicabilità dell’art. 42-bis, la sezione chiede alla plenaria di modulare la portata temporale della regola affermata dalla precedente sentenza n. 2 del 2016 ritenendola applicabile solo ai giudicati formatisi successivamente, evidenziando che il ‘giudicato restitutorio’ –disposto dalla sentenza della Corte d’appello di Ancona nel 2014– si è formato prima della enunciazione del principio di diritto da parte dell’Adunanza plenaria, e dunque quando il Comune –anche per l’assenza di una statuizione del giudice civile sulla impossibilità di esercitare i poteri pubblicistici– non poteva percepire la gravità delle conseguenze che sarebbero derivate dal suo passaggio in giudicato;
      k) diversamente, come osservato dalla Adunanza plenaria con sentenza 22.12.2017, n. 13 (in Foro it., 2018, III, 145 con nota critica di M. CONDORELLI “Il nuovo prospective overruling, «dimenticando» l'adunanza plenaria n. 4 del 2015” oggetto della News US del 08.01.2018, con ampi richiami di dottrina e di giurisprudenza), vi sarebbe una ‘notevole compromissione’ degli interessi pubblici coinvolti –oltre che una lesione del legittimo affidamento dell’Amministrazione- se si dovesse ritenere che ai giudicati restitutori ‘antecedenti’ alle statuizioni della Adunanza plenaria vada attribuito un rilievo assolutamente preclusivo dell’esercizio del potere previsto dall’art. 42-bis, col conseguente obbligo dell’Amministrazione di restituire ineluttabilmente le aree, previa la loro restitutio in integrum;
      l) rileva al riguardo anche il principio di certezza del diritto, per il quale, sempre secondo la richiamata pronuncia n. 13 del 2017, si può limitare “la possibilità per gli interessati di far valere la norma giuridica come interpretata, se vi è il rischio di ripercussioni economiche o sociali gravi, dovute, in particolare, all’elevato numero di rapporti giuridici costituiti in buona fede sulla base di una diversa interpretazione normativa, sempre che risulti che i destinatari del precetto erano stati indotti ad un comportamento non conforme alla normativa in ragione di una obiettiva e rilevante incertezza circa la portata delle disposizioni”;
m) in materia di occupazione sine titulo solo la citata sentenza della Corte costituzionale ha fugato i dubbi interpretativi sulla legittimità costituzionale dell’art. 42-bis ed ha sottolineato il rilievo ostativo del ‘giudicato restitutorio’, al quale ha operato il suo richiamo l’Adunanza plenaria;
      n) è pertanto comprensibile che prima di tali pronunce le Amministrazioni –per lo più indotte a non emettere il provvedimento di acquisizione dal timore di non incorrere in responsabilità e dalla scarsità delle risorse economiche- non abbiano avuto nemmeno adeguata contezza dell’impatto innovativo delle ‘nuove’ disposizioni e delle preclusioni che sarebbero state desunte in sede interpretativa.
II. – Per completezza sull’argomento si segnala:
      o) la rassegna monotematica di giurisprudenza, sia civile che amministrativa, a cura dell’Ufficio studi, massimario e formazione dal titolo “L’occupazione abusiva di immobili da parte della pubblica amministrazione” (aggiornata al 02.09.2019, cui si rinvia per ogni approfondimento anche di dottrina in relazione all’istituto della rinuncia abdicativa);
      p) tra le più recenti pronunce in tema si vedano:
         p1) Cass. civ., sez. un., n. 3517 del 2019 (in Foro it., 2019, I, 1644, con nota di BARILÀ dal titolo “La partecipazione del privato al procedimento di acquisizione sanante”), resa in materia di impugnazione di un atto di asservimento coattivo in sanatoria ex art. 42-bis t.u. espropri, la quale, ribadendo principi consolidati ed in dichiarata adesione a quanto espresso dalla Adunanza plenaria n. 2 del 2016, afferma che “L'atto di acquisizione sanante è, dunque, volto a ripristinare la legalità amministrativa con effetto non retroattivo, attraverso «una sorta di procedimento espropriativo semplificato», di carattere eccezionale, innestato su un precedente procedimento espropriativo irrimediabilmente viziato o, comunque, fondato su titolo astrattamente annullabile sub iudice”;
         p2) sul tema connesso della ammissibilità della rinuncia abdicativa cfr. Cons. Stato, sez. IV, 24.05.2018, n. 3105 (favorevole); Cons. Stato, sez. IV, 20.04.2018, n. 2396 (favorevole); Tar per il Piemonte; sez, I; 28.03.2018, n. 368 (contraria, con ampia motivazione) tutte in Foro it., 2018, III, 403 con nota redazionale di C. BONA contente una puntuale rassegna delle posizioni dottrinali sul tema. Favorevoli alla rinuncia abdicativa sono anche Cass. civ., sez. I, 24.05.2018, n. 12961 in Foro it., 2018, I, 2363 nonché Cass. civ., sez. I, 07.03.2017, n. 5686 in Foro it., 2017, I, 1992 con approfondita nota redazionale di BARILÀ; nello stesso senso si veda Corte appello Genova 27.11.2018 (che ammette la trascrivibilità dell'atto di rinuncia abdicativo) e Tribunale civile Genova 01.03.2018, in Foro it., 2019, I, 308 con nota di richiami;
      q) sul tema dell’overruling processuale e sostanziale si veda:
         q1) Cass. civ., sez. un., n. 4135 del 2019, in Foro it., 2019, I, 1623 con nota di CAPASSO la quale ha ribadito che il prospective overruling è limitato alle norme di carattere processuale e serve a tutelare “la parte che vedrebbe frustrato il proprio legittimo affidamento nell'interpretazione resa dalla Suprema corte nel momento in cui ha tenuto la condotta processuale, qualora fosse esposta agli effetti processuali pregiudizievoli (nullità, decadenze, preclusioni, inammissibilità) derivanti dal successivo revirement giurisprudenziale, ma pur sempre riconducibili alle disposizioni processuali vincolanti per tutti i giudici, soggetti solo alla legge (art. 101, 2° comma, Cost.)”.
Ha inoltre ribadito che un orientamento del giudice della nomofilachia cessa di essere retroattivo, come, invece, dovrebbe essere in forza della natura formalmente dichiarativa degli enunciati giurisprudenziali, e può quindi parlarsi di prospective overruling, a condizione che ricorrano cumulativamente i seguenti presupposti:
   che si verta in materia di mutamento della giurisprudenza di legittimità su norme regolatrici del processo, non anche su disposizioni di natura sostanziale;
   che tale mutamento sia stato imprevedibile o quantomeno inatteso e privo di preventivi segnali anticipatori del suo manifestarsi, in ragione del carattere consolidato nel tempo del pregresso indirizzo, tale, cioè, da indurre la parte a un ragionevole affidamento su di esso, ipotesi non ravvisabile in presenza di preesistenti contrasti interpretativi o di incertezza interpretativa delle norme processuali ad opera della Corte di cassazione in assenza di un orientamento consolidato della stessa Corte o nel caso in cui la parte abbia confidato nell'orientamento che non è prevalso;
   che l'overruling sia causa diretta ed esclusiva di un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte, ponendosi esso quale causa di sopravvenuta inammissibilità, improcedibilità, decadenze o preclusioni, in ragione della diversità delle forme e dei termini da osservare sulla base dell'orientamento sopravvenuto alla proposizione del ricorso, che abbia reso impossibile una decisione sul merito della pretesa azionata in giudizio;
         q2) Corte cost., 25.06.2019, n. 160 (oggetto della News US n. 79 del 08.07.2019) secondo cui solo la legge può modulare gli effetti della tutela costitutiva d’annullamento.
Se è infatti indiscutibile che i principi fondamentali del nostro sistema costituzionale espressi dagli artt. 24 e 113 Cost. devono trovare applicazione rigorosa a garanzia delle posizioni giuridiche dei soggetti che ne sono titolari, “ciò non significa che l’art. 113 Cost., correttamente interpretato sia diretto ad assicurare in ogni caso e incondizionatamente una tutela giurisdizionale illimitata e invariabile contro l’atto amministrativo, spettando invece al legislatore ordinario un certo spazio di valutazione nel regolarne modi ed efficacia”; il “secondo comma dell’art. 113 non può essere interpretato senza collegarlo col comma che lo segue immediatamente e che contiene la norma, secondo la quale la legge può determinare quali organi di giurisdizione possano annullare gli atti della pubblica Amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge medesima. Il che sta a significare che codesta potestà di annullamento non è riconosciuta a tutti indistintamente gli organi di giurisdizione, né è ammessa in tutti i casi, e non produce in tutti i casi i medesimi effetti”; nella stessa direzione si muovono anche le considerazioni sviluppate da Corte di giustizia dell’UE, 29.07.2019, C-411/17, ASBL (Newsletter n. 32 del 02.09.2019), secondo cui, in buona sostanza, in presenza della violazione del diritto europeo da parte di misure amministrative:
   gli Stati membri (inclusi gli apparati giudiziari) sono tenuti, in linea generale e tendenzialmente inderogabile, a rimuovere le conseguenze dell’illecito europeo ex tunc, sospendendo ovvero annullando il relativo provvedimento;
   solo la Corte di giustizia può acconsentire, a determinate condizioni, che i giudici nazionali (incluse le Corti costituzionali), per esigenze imperative ed in via del tutto eccezionale, modulino gli effetti nel tempo della declaratoria di illegittimità della disposizione sottoposta a controllo, in presenza di una previsione nazionale espressa;
   per tale via sarebbe possibile applicare la disposizione nazionale che consente espressamente di mantenere determinati effetti di un atto nazionale annullato;
         q3) Cons. Stato, Ad. plen., 23.02.2018, n. 1 (
oggetto della News US del 27.02.2018  nonché in Foro it., 2018, III, 193), la quale ha escluso che il principio di diritto affermato (concernente il divieto di cumulo tra risarcimento del danno ed emolumenti di carattere indennitario erogati da enti pubblici) possa ritenersi applicabile soltanto a rapporti futuri e non anche a quelli in corso, avendo gli enunciati giurisprudenziali natura formalmente dichiarativa.
Rammenta al riguardo che la diversa opinione «finisce per attribuire alla esegesi valore ed efficacia normativa in contrasto con la logica intrinseca della interpretazione e con il principio costituzionale della separazione dei poteri venendosi a porre in sostanza come una fonte di produzione» (Cons. Stato, Ad. plen., 02.11.2015, n. 9 in Foro it., 2016, III, 65; Riv. neldiritto, 2016, 93; Riv. neldiritto, 2016, 285, con nota di BRICI; Foro amm., 2015, 2747; Contratti Stato e enti pubbl., 2015, fasc. 4, 87, con nota di VESPIGNANI; Urbanistica e appalti, 2016, 167, con nota di GASTALDO, LONGO, CANZONIERI; Giornale dir. amm., 2016, 365 (m), con nota di GALLI, CAVINA; Riv. giur. edilizia, 2015, I, 1138; Nuovo dir. amm., 2016, fasc. 3, 53, con nota di NARDOCCI);
         q4) di segno opposto è invece Cons. Stato, Ad. plen., 22.12.2017, n. 13 cit., richiamata dalla ordinanza in rassegna, in materia di ultrattività delle proposte di vincolo paesaggistico, che ha ritenuto ammissibile l’istituto dell’overruling anche su questione di diritto sostanziale, su cui si veda: ANTONIO VACCA, Adunanza Plenaria, ius dicere e creazione del diritto (commento a Cons. Stato, Ad. Plenaria, sent. 22.12.2017 n. 13) in Lexitalia, 05.01.2018, secondo il quale la limitazione pro futuro degli effetti della sentenza interpretativa dell’Adunanza plenaria equivarrebbe alla creazione di una norma transitoria, in funzione para normativa, e può integrare un’ipotesi di diniego di giurisdizione in danno della parte ricorrente, suscettibile di ricorso per cassazione ex art. 111 Cost.; D. PAGANO, L'Adunanza Plenaria n. 13/20017: summum jus, summa iniura?, ibidem, 22.02.2018. Ampi approfondimenti sul tema sono contenuti anche nella News US in data 08.01.2018 cit. cui si rinvia (Consiglio di Stato, Sez. IV, ordinanza 15.07.2019 n. 4950 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ESPROPRIAZIONE: Riparto di giurisdizione in materia di retrocessione.
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Giurisdizione – Espropriazione per pubblica utilità – Retrocessione – Giurisdizione giudice amministrativo – Condizione.
In presenza di una controversia che involga la retrocessione totale di un fondo, la potestas dedicendi del giudice amministrativo, in funzione di giurisdizione esclusiva di cui all’art. 133, comma 1, lett. g) c.p.a., sussisterà non solo se la richiesta di retrocessione totale sia avanzata nello stesso giudizio innanzi al giudice amministrativo in uno alla domanda di retrocessione parziale (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che sebbene si registri una successiva decisione della Suprema Corte, che si conforma al diverso e tradizionale orientamento interpretativo (Corte di Cassazione, Sez. II, 17.10.2017, n. 24485), l’innovativa opzione ermeneutica è stata ribadita in via incidentale da altra ordinanza delle Sezioni Unite, in cui è statuito che “in tema di espropriazione per pubblica utilità, sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. g), dell'all. 1 al d.lgs. n. 104 del 2010, allorquando il comportamento della P.A., cui si ascrive la lesione, sia la conseguenza di un assetto di interessi conformato da un originario provvedimento ablativo, legittimo o illegittimo, ma comunque espressione di un potere amministrativo (in concreto) esistente, cui la condotta successiva si ricollega in senso causale. Pertanto, poiché, diversamente dalla mancata retrocessione del fondo occupato, l'eventuale usucapione della proprietà di quest'ultimo non è immediatamente riconducibile al pregresso esercizio del potere espropriativo, ma ne costituisce una conseguenza meramente occasionale …, il relativo suo accertamento appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario” (Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 11.07.2017, n. 17110).
Sulla scorta del revirement operato in argomento dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, pertanto, in presenza di una controversia che involga la retrocessione totale di un fondo, la potestas dedicendi del g.a., in funzione di giurisdizione esclusiva di cui all’art. 133, comma 1, lett. g) c.p.a., sussisterà non solo, come già affermato in passato, se la richiesta di retrocessione totale sia avanzata nello stesso giudizio innanzi al g.a. in uno alla domanda di retrocessione parziale (ex multis, Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 27.01.2014, n. 1520) ma anche ove proposta in via autonoma (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 16.05.2019 n. 990 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA  - ESPROPRIAZIONEL'inclusione del terreno espropriato in una fascia di rispetto stradale vale a qualificarlo come non edificabile, ai fini della determinazione dell'indennità di espropriazione, trattandosi di una limitazione legale della proprietà, concretante il divieto assoluto di edificazione sancito nell'interesse pubblico, avente carattere generale, in quanto concernente, sotto il profilo soggettivo, tutti i cittadini proprietari di determinati beni che si trovino nella medesima situazione e, sotto il profilo oggettivo, beni immobili individuati a priori per categoria derivante dalla loro posizione o localizzazione rispetto a un'opera pubblica stradale o ferroviaria, non rilevando in senso contrario che il terreno sia collocato all'interno di un piano di insediamento industriale (P.I.P.) o di un piano di edilizia economica e popolare (P.E.E.P.).
Tali vincoli imposti sulle aree in fasce di rispetto della sede stradale o autostradale, in conseguenza della destinazione di interesse pubblico, non arrecano alla parte sottratta al privato alcun deprezzamento, del quale debba tenersi conto in sede di determinazione del valore dell'immobile, facendo difetto il nesso di causalità sia con l'ablazione e sia con l'esercizio del pubblico servizio cui l'opera è destinata.
La predetta disciplina non può essere derogata neppure da parte degli strumenti generali di pianificazione del territorio, i quali, in quanto provvedimenti amministrativi, sono assoggettati pur essi al rispetto delle norme di legge che impongono limitazioni legali di carattere assoluto.
Ne consegue che al giudice, in sede di valutazione dell'indennità di occupazione, non è consentito prescinderne, dovendo egli limitarsi a prendere atto del regime direttamente stabilito dal legislatore.

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4.4. L'art. 16 del d.lgs. 30/04/1992 n. 285, recante il Codice della strada, in tema di «Fasce di rispetto in rettilineo ed aree di visibilità nelle intersezioni fuori dei centri abitati» vieta ai proprietari o aventi diritto dei fondi confinanti con le proprietà stradali fuori dei centri abitati, tra l'altro, di costruire, ricostruire o ampliare, lateralmente alle strade, edificazioni di qualsiasi tipo e materiale; il successivo art. 18, in tema di « Fasce di rispetto ed aree di visibilità nei centri abitati», impone nei centri abitati, per le nuove costruzioni, ricostruzioni ed ampliamenti, le fasce di rispetto a tutela delle strade, misurate dal confine stradale, di dimensioni non inferiori a quelle indicate nel regolamento in relazione alla tipologia delle strade. Gli artt. 26 e 28 del regolamento di cui al d.P.R. 485 del 16/12/1992 dettano la misura precisa delle distanze da rispettare.
4.5. Secondo la giurisprudenza consolidata della Corte, l'inclusione del terreno espropriato in una fascia di rispetto stradale vale a qualificarlo come non edificabile, ai fini della determinazione dell'indennità di espropriazione, trattandosi di una limitazione legale della proprietà, concretante il divieto assoluto di edificazione sancito nell'interesse pubblico, avente carattere generale, in quanto concernente, sotto il profilo soggettivo, tutti i cittadini proprietari di determinati beni che si trovino nella medesima situazione e, sotto il profilo oggettivo, beni immobili individuati a priori per categoria derivante dalla loro posizione o localizzazione rispetto a un'opera pubblica stradale o ferroviaria, non rilevando in senso contrario che il terreno sia collocato all'interno di un piano di insediamento industriale (P.I.P.) o di un piano di edilizia economica e popolare (P.E.E.P.) (Sez. 1, 06/06/2018, n. 14632; Sez. 1, 21/12/2015, n. 25668; Sez. 1, 04/12/2013, n. 27114).
Tali vincoli imposti sulle aree in fasce di rispetto della sede stradale o autostradale, in conseguenza della destinazione di interesse pubblico, non arrecano alla parte sottratta al privato alcun deprezzamento, del quale debba tenersi conto in sede di determinazione del valore dell'immobile, facendo difetto il nesso di causalità sia con l'ablazione e sia con l'esercizio del pubblico servizio cui l'opera è destinata. La predetta disciplina non può essere derogata neppure da parte degli strumenti generali di pianificazione del territorio, i quali, in quanto provvedimenti amministrativi, sono assoggettati pur essi al rispetto delle norme di legge che impongono limitazioni legali di carattere assoluto. Ne consegue che al giudice, in sede di valutazione dell'indennità di occupazione, non è consentito prescinderne, dovendo egli limitarsi a prendere atto del regime direttamente stabilito dal legislatore (Sez. 1, 17/12/2012, n. 23210; Sez. 1, 13/04/2012, n. 5875) (Corte di Cassazione, Sez. I civile, ordinanza 11.04.2019 n. 10223).

ESPROPRIAZIONE: A differenza dell’annullamento di atti presupposti o prodromici, di cui può predicarsi l’eventuale effetto caducante o invalidante degli atti successivi, l’annullamento di un atto a valle non inficia la validità degli atti precedenti che conservano la loro validità ed efficacia in applicazione del principio generale di conservazione previsto dall’art. 159, comma 1, c.p.c..
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L.2. Anche il secondo motivo di ricorso deve essere rigettato.
E invero, il decreto di espropriazione, costituendo l’atto conclusivo del procedimento espropriativo, può essere riemesso, in vigenza dell’originaria dichiarazione di pubblica utilità, non necessitando la rinnovazione dell’intero iter.
A differenza dell’annullamento di atti presupposti o prodromici (cui rimanda la giurisprudenza citata in seno al ricorso introduttivo), di cui può predicarsi l’eventuale effetto caducante o invalidante degli atti successivi, l’annullamento di un atto a valle non inficia la validità degli atti precedenti che conservano la loro validità ed efficacia in applicazione del principio generale di conservazione previsto dall’art. 159, comma 1, c.p.c.
Inoltre, deve evidenziarsi come il provvedimento n. 611 del 19.08.2010 ha solo parzialmente annullato il precedente decreto di esproprio in relazione all’esatta individuazione delle aree oggetto del procedimento di espropriazione per pubblica utilità confermandone la persistente validità per la restante parte anche in relazione alla determinazione dell’indennità provvisoria
Ne consegue che il provvedimento impugnato con il presente ricorso, nel richiamare gli effetti prodotti dall’originario (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 27.03.2019 n. 904 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Nell’impianto normativo dell’espropriazione per pubblica utilità così come configurata dal Dpr n. 327/2001, la dichiarazione di pubblica utilità (d.p.u), disciplinata dall’art. 12, pur differenziandosi dalla d.p.u. disciplinata dalla legge n. 2359/1865, sostanzialmente rappresenta il necessario presupposto del decreto di esproprio, tale per cui il riconoscimento dell’assenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità o il suo annullamento in sede giurisdizionale ha un effetto caducante e non meramente viziante sul decreto di esproprio, che, pertanto, resta travolto, come tutti gli altri atti della procedura espropriativa, senza necessità della loro impugnativa.
Si invera, cioè, un effetto automaticamente caducante, derivante dalla invalidità degli atti presupposti, senza che si possa configurare a carico della parte interessata un onere di impugnazione del decreto finale di esproprio.

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6.- Ad ogni buon fine, anche a volere –in tesi– aderire alla difesa attorea radicata all’insussistenza di un controinteressato in materia espropriativa, il ricorso deve ritenersi, comunque, inammissibile anche per mancata impugnazione della dichiarazione di pubblica utilità nel termine di decadenza.
6.1.- Gioverà ricordare che parte ricorrente, con la memoria finale, al fine di neutralizzare l’eccezione di inammissibilità del ricorso per tardiva impugnazione della d.p.u., ha rimarcato che “non ha denunciato l’illegittimità della dichiarazione di pubblica utilità si da imporre l’impugnazione del provvedimento nei termini prescritti dall’art. 29 del CPA… (bensì) ha evidenziato l’inefficacia ex lege della dichiarazione di p.u. per l’insussistenza a monte di un efficace vincolo espropriativo e, comunque, la sua sopravvenuta inidoneità a costituire presupposto legittimante l’adozione del decreto di esproprio per decorso del termine quinquennale prescritto dall’art. 13, comma 4, del Testo Unico”.
E ciò in quanto sarebbe scaduta sia la dichiarazione di pubblica utilità, contenuta nella deliberazione consiliare n. 103 del 17.12.1996 di approvazione del Piano di lottizzazione della Maglia C1-n. 16, per decorso del decennio ex art. 28 l. n. 1150/1942; sia la d.p.u. di cui alla successiva deliberazione giuntale n. 124 del 14.07.2005, essendo decorso, ai sensi del combinato disposto dei commi 4 e 6 dell’art. 13 dpr n. 327/01, il quinquennio entro il quale deve essere adottato il decreto di esproprio; non risultando utile a tal fine la determinazione dirigenziale n. 585 del 29.04.2014 di approvazione del progetto esecutivo, non potendo la d.p.u. essere ricollegata a siffatto livello di approfondimento, risultando detta determina anche priva degli elementi essenziali a valere quale d.p.u. (estremi dell’atto impositivo del vincolo preordinato all’esproprio ex art. 17 dpr 327/2001; indicazione dei termini iniziali e finali per l’avvio ed il compimento dei lavori e delle occupazioni).
L’abile difesa attorea, per quanto pregevolmente costruita, non risulta condivisibile.
6.2.- Nell’impianto normativo dell’espropriazione per pubblica utilità così come configurata dal Dpr n. 327/2001, la dichiarazione di pubblica utilità (d.p.u), disciplinata dall’art. 12, pur differenziandosi dalla d.p.u. disciplinata dalla legge n. 2359 del 1865, sostanzialmente rappresenta il necessario presupposto del decreto di esproprio, tale per cui il riconoscimento dell’assenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità o il suo annullamento in sede giurisdizionale ha un effetto caducante e non meramente viziante sul decreto di esproprio, che, pertanto, resta travolto, come tutti gli altri atti della procedura espropriativa, senza necessità della loro impugnativa (ex multis Cons. St. Sez. IV 03.10.2012 n. 5189).
Si invera, cioè, un effetto automaticamente caducante, derivante dalla invalidità degli atti presupposti, senza che si possa configurare a carico della parte interessata un onere di impugnazione del decreto finale di esproprio (Cons. Stato Sez. IV 29.01.2008 n. 258; idem 30.12.2003 n. 9155 e 30.06.2003 n. 3896) (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 01.02.2019 n. 155 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: La rimozione delle determinazioni che ab origine hanno dato l’abbrivio alla procedura ablatoria produce un effetto “domino”, con l’invalidazione dei successivi atti del procedimento espropriativo ivi compreso quello conclusivo, rappresentato dal decreto finale di esproprio che viene anch’esso travolto. Si invera, in tali casi, un effetto automaticamente caducante e non meramente viziante, derivante dalla invalidità degli atti presupposti, senza che si possa configurare a carico della parte interessata un onere di impugnazione del decreto finale di esproprio.
Sulla base di tale esegesi, non può essere sic et simpliciter condivisa la prospettazione dell’appellante secondo cui il decreto di esproprio, seppure atto consequenziale alla dichiarazione di pubblica utilità, sarebbe sempre dotato di una sua precisa autonomia e lesività, in quanto segna la conclusione del procedimento ed è in grado di realizzare il definitivo trasferimento del titolo di proprietà.
Va da sé, peraltro, che l’adozione di un decreto di esproprio in pendenza di un giudizio di impugnazione dei suoi atti presupposti, in quel momento efficaci, potrebbe condurre, anche dopo un considerevole intervallo di tempo, al travolgimento del decreto stesso a seguito dell’annullamento degli atti a “monte”, per cui tale efficacia caducante, e non meramente viziante, può inverarsi solo in ragione di un rigoroso ed esaustivo accertamento del nesso di presupposizione necessaria che deve sussistere tra gli atti annullati e quelli “travolti” a prescindere da una loro impugnazione, atteso che, viceversa, si avrebbe un’ingiustificata violazione dell’onere di tempestiva impugnazione dei provvedimenti amministrativi nei termini decadenziali, posto a presidio della acquisizione di una sollecita certezza in ordine alle situazioni giuridiche afferenti l’esercizio del potere pubblico.
La presupposizione necessaria cui va ricondotta la figura dell’invalidità derivata con effetto caducante sull’atto a “valle” si ravvisa nelle ipotesi in cui gli atti annullati in sede giurisdizionale costituiscono il presupposto unico ed imprescindibile dei successivi atti che, in quanto tali, sono meramente consequenziali.
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3.3.5. La giurisprudenza di questa Sezione ha già avuto modo di porre in rilievo che la rimozione delle determinazioni che ab origine hanno dato l’abbrivio alla procedura ablatoria produce un effetto “domino”, con l’invalidazione dei successivi atti del procedimento espropriativo ivi compreso quello conclusivo, rappresentato dal decreto finale di esproprio che viene anch’esso travolto (cfr., ex multis, Cons. Stato, IV, 4193 del 2015 e Cons. Stato, IV, 5189 del 2012). Si invera, in tali casi, un effetto automaticamente caducante e non meramente viziante, derivante dalla invalidità degli atti presupposti, senza che si possa configurare a carico della parte interessata un onere di impugnazione del decreto finale di esproprio (cfr., altresì, Cons. Stato, IV, 29.01.2008 n. 258; idem 30.12.2003, n. 9155 e 30.06.2003, n. 3896).
Sulla base di tale esegesi, non può essere sic et simpliciter condivisa la prospettazione dell’appellante -pur basata sul fondamentale principio della esigenza di certezza delle situazioni e dei rapporti giuridici, cui è ispirata la previsione del termine decadenziale di impugnativa dei provvedimenti amministrativi- secondo cui il decreto di esproprio, seppure atto consequenziale alla dichiarazione di pubblica utilità, sarebbe sempre dotato di una sua precisa autonomia e lesività, in quanto segna la conclusione del procedimento ed è in grado di realizzare il definitivo trasferimento del titolo di proprietà.
Va da sé, peraltro, che l’adozione di un decreto di esproprio in pendenza di un giudizio di impugnazione dei suoi atti presupposti, in quel momento efficaci, potrebbe condurre, anche dopo un considerevole intervallo di tempo, al travolgimento del decreto stesso a seguito dell’annullamento degli atti a “monte”, per cui tale efficacia caducante, e non meramente viziante, può inverarsi solo in ragione di un rigoroso ed esaustivo accertamento del nesso di presupposizione necessaria che deve sussistere tra gli atti annullati e quelli “travolti” a prescindere da una loro impugnazione, atteso che, viceversa, si avrebbe un’ingiustificata violazione dell’onere di tempestiva impugnazione dei provvedimenti amministrativi nei termini decadenziali, posto a presidio della acquisizione di una sollecita certezza in ordine alle situazioni giuridiche afferenti l’esercizio del potere pubblico.
La presupposizione necessaria cui va ricondotta la figura dell’invalidità derivata con effetto caducante sull’atto a “valle” si ravvisa nelle ipotesi in cui gli atti annullati in sede giurisdizionale costituiscono il presupposto unico ed imprescindibile dei successivi atti che, in quanto tali, sono meramente consequenziali (cfr., in argomento, ex multis, Cons. Stato, VI, 20.03.2018, n. 1777; Cons. Stato, II, parere del 27.08.2014, n. 2957) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.01.2019 n. 510 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2018

ESPROPRIAZIONE: Decreto di esproprio pronunciato al di là dei termini della dichiarazione di pubblica utilità.
Il decreto di esproprio pronunciato al di là dei termini della dichiarazione di pubblica utilità non può considerarsi nullo, ma deve qualificarsi come illegittimo, con conseguente necessità d’impugnazione entro i termini di decadenza.
Invero, “laddove esista una norma attributiva del potere di emettere l'atto autoritativo, ma questo venga emanato senza rispettare i presupposti previsti da essa per la corretta esplicazione del potere conferito, si configuri una violazione di legge. Questa sussiste tutte le volte in cui venga violata una qualsivoglia regola posta dall'ordinamento giuridico e va qualificata quale vizio di legittimità dell'atto amministrativo unitamente ed al pari dell'incompetenza o dell'eccesso di potere.
La previsione, ex art. 13 della l. 25.06.1865 n. 2359, di termini per l'emanazione del decreto di esproprio, configura un precetto posto dalla legge ed indirizzato all'amministrazione pubblica al fine di porre un vincolo alla discrezionalità dei suoi poteri.
La sua violazione, pertanto, va qualificata come violazione di legge ossia come vizio di legittimità dell'atto amministrativo. Se il mancato rispetto dei presupposti a cui la norma riconnette la corretta esplicazione del potere configura un vizio di legittimità dell'atto e la previsione dei termini ex art. 13 cit. altro non è se non presupposto per la legittima esplicazione del potere, è evidente che il precipitato logico del ragionamento seguito consiste nella qualificabilità della violazione dei termini fissati per l'emanazione del decreto di esproprio quale vizio dell'atto da farsi valere negli ordinari termini decadenziali, pena la inoppugnabilità dello stesso ed il divieto, per il Giudice Amministrativo, di disapplicazione”
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Il ricorso è in parte infondato e in parte irricevibile.
Dato per pacifico tra le parti –oltre agli ulteriori fatti sopra specificati- che il decreto di esproprio di data 01.03.1999 è stato assunto tardivamente rispetto ai termini indicati nella dichiarazione di pubblica utilità del 20.10.1992, si osserva che non può trovare accoglimento la domanda di accertamento della nullità del suddetto decreto.
Non ignora il Collegio l’esistenza di alcune pronunce che affermano che il decreto di esproprio, ove emesso oltre la scadenza del termine finale per il completamento della procedura espropriativa, debba essere dichiarato tardivo e tamquam non esset (TAR Lazio, Latina, sez. I, 12.05.2015, n. 383), ma ritiene di aderire al consolidato orientamento giurisprudenziale –dal quale non sussistono valide ragioni per discostarsi- secondo cui, al contrario, il decreto di esproprio pronunciato al di là dei termini della dichiarazione di pubblica utilità non può considerarsi nullo, ma deve qualificarsi come illegittimo, con conseguente necessità d’impugnazione entro i termini di decadenza (ex multis,TAR Campania, Napoli, sez. V, 23.01.2016, n. 1494).
Invero, come è stato con divisibilmente osservato, “laddove esista una norma attributiva del potere di emettere l'atto autoritativo, ma questo venga emanato senza rispettare i presupposti previsti da essa per la corretta esplicazione del potere conferito, si configuri una violazione di legge. Questa sussiste tutte le volte in cui venga violata una qualsivoglia regola posta dall'ordinamento giuridico e va qualificata quale vizio di legittimità dell'atto amministrativo unitamente ed al pari dell'incompetenza o dell'eccesso di potere. La previsione, ex art. 13 della l. 25.06.1865 n. 2359, di termini per l'emanazione del decreto di esproprio, configura un precetto posto dalla legge ed indirizzato all'amministrazione pubblica al fine di porre un vincolo alla discrezionalità dei suoi poteri. La sua violazione, pertanto, va qualificata come violazione di legge ossia come vizio di legittimità dell'atto amministrativo. Se il mancato rispetto dei presupposti a cui la norma riconnette la corretta esplicazione del potere configura un vizio di legittimità dell'atto e la previsione dei termini ex art. 13 cit. altro non è se non presupposto per la legittima esplicazione del potere, è evidente che il precipitato logico del ragionamento seguito consiste nella qualificabilità della violazione dei termini fissati per l'emanazione del decreto di esproprio quale vizio dell'atto da farsi valere negli ordinari termini decadenziali, pena la inoppugnabilità dello stesso ed il divieto, per il Giudice Amministrativo, di disapplicazione” (in tal senso TAR Calabria, Reggio Calabria, 12.05.2008, n. 248, espressamente richiamata da TAR Puglia, Bari, sez. III, 06.04.2017, n. 375; nello stesso senso anche Consiglio di Stato, sez. IV, 18.11.2016, n. 4799; TAR Umbria, 21.04.2015, n. 189; TAR Lazio, Roma, sez. II-bis, 04.03.2015, n. 3710; TAR Sicilia, Palermo, sez. I, 28.02.2013, n. 453).
La domanda di accertamento della nullità del decreto di esproprio va, dunque, respinta.(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 29.11.2018 n. 1130 - link a www.giustizia-amministrativa.it
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ESPROPRIAZIONE: Possibilità di abdicare al diritto di proprietà di un fondo occupato ma poi non espropriato.
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Espropriazione per pubblica utilità – Occupazione – Omessa espropriazione – Abdicazione diritto di proprietà – Esclusione.
Il privato il cui fondo sia stato occupato per la realizzazione di un’opera pubblica o di pubblica utilità e che poi non sia stato espropriato nelle forme legislativamente previste, non può unilateralmente abdicare al diritto di proprietà vantato sul fondo medesimo (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che alla base di tale conclusione ci sono due ordini di ragioni.
Va rilevato, in primo luogo, che l’art. 42-bis, d.P.R. 08.06.2001, n. 327 consente di regolarizzare le predette occupazioni illegittime mercé l’adozione del c.d. “decreto di acquisizione sanante”, e tanto con riferimento a qualsiasi fattispecie di occupazione illegittima, futura o passata, sia essa connotata, o meno, da una rinuncia abdicativa del privato; inoltre, non è prevista la possibilità che il “decreto di acquisizione sanante” abbia come destinatario un soggetto diverso dal proprietario del fondo occupato né che esso possa avere effetti diversi da quelli traslativi della proprietà.
L’art. 42-bis, d.P.R. n. 327 del 2001, in definitiva, sottende che il bene immobile illegittimamente occupato per la realizzazione di un’opera di pubblica utilità rimane sempre di proprietà del soggetto che risulta esserne proprietario al momento della occupazione, fino a che la proprietà venga ceduta alla amministrazione occupante (o a terzi) nei modi previsti dalla legge. Pertanto si può affermare che l’art. 42-bis, d.P.R. n. 327 del 2001 ha definitivamente certificato l’impossibilità per il privato di rinunciare unilateralmente al diritto di proprietà di un fondo illegittimamente occupato per scopi di pubblica utilità
In secondo luogo, ed a prescindere dalle considerazioni che possono trarsi dalla disciplina specifica afferente le occupazioni illegittime per causa di pubblica utilità, va rilevato che nel nostro ordinamento giuridico la rinunzia abdicativa (e non traslativa) ad un diritto reale può ritenersi consentita solo nei casi tipici previsti dal codice civile, tra i quali non è inclusa la rinunzia abdicativa al diritto di proprietà esclusiva su bene immobile: una tale rinunzia, pertanto, non può essere validamente esercitata né tramite atto unilaterale espresso, ancorché rogato da notaio, né implicitamente, mediante domanda giudiziale tendente al riconoscimento dell’equivalente monetario del bene immobile oggetto della rinunzia abdicativa.
Diversamente opinando –e cioè ammettendo che il privato possa abdicare unilateralmente alla proprietà di un bene immobile, occupato o meno per scopi di pubblica utilità- si perviene a risultati paradossali ed estremamente dannosi per la finanza pubblica.
A livello generale va rilevato che la rinunzia abdicativa alla proprietà esclusiva di beni immobili renderebbe i beni stessi privi di proprietario e, come tali, devoluti al patrimonio dello Stato ai sensi dell’art. 827 c.c.: per effetto di ciò lo Stato diventerebbe proprietario di un numero indefinito di beni immobili con riferimento ai quali dovrebbe assicurare la custodia e la manutenzione, rimanendo contestualmente privato del relativo gettito tributario: tali effetti, di tutta evidenza estremamente gravosi per le finanze dello Stato, si produrrebbero ex lege ed a prescindere dalla conoscenza effettiva che lo Stato abbia dell’acquisto della proprietà di immobili per effetto di rinunzia abdicativa.
Con riferimento specifico alla occupazione illegittima di fondi finalizzata alla realizzazione di opere di pubblica utilità, premesso e ricordato che risulta ormai completamente superato l’insegnamento pretorio secondo il quale il privato perderebbe la proprietà del bene immobile occupato per scopi di pubblica utilità quale effetto della trasformazione impressa dalla attività manipolatrice della amministrazione occupante, e rammentato altresì che in giurisprudenza –soprattutto quella amministrativa– si è progressivamente consolidato il principio secondo cui la restituzione del bene al privato deve ritenersi sempre possibile, e doverosa, perché in realtà nulla, se non fattori di natura meramente economica, impedisce il ripristino del bene allo stato originario e la restituzione di esso, si deve constatare che:
   a) non si giustifica (più) la corresponsione, al privato, del risarcimento del danno commisurato al valore venale del bene immobile, stante che tale bene non è estinto e viene restituito al legittimo proprietario, virtualmente arricchito del valore dell’opera pubblica che su di esso è stata realizzata, che il privato volendo può ritenere e sfruttare;
   b) ammettendo che il privato, il cui bene sia stato illegittimamente occupato per scopi di pubblica utilità, possa unilateralmente rinunziare, a titolo “abdicativo” (e non “traslativo”) alla proprietà del bene medesimo, condizionando tale rinunzia al risarcimento del danno commisurato al valore venale di esso, si ha che l’amministrazione “occupante” rimane gravata dell’onere di corrispondere un risarcimento privo (ormai) di valida giustificazione giuridica e pur senza divenire proprietaria del fondo sul quale ha realizzato l’opera di pubblica utilità (giacché l’unico effetto immediato della rinunzia “abdicativa” consiste nella dismissione del bene dal patrimonio del privato, la cui proprietà sarebbe semmai devoluta allo Stato ai sensi dell’art. 827 c.c.) (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 28.03.2018 n. 368 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
1. La ricorrente era proprietaria in Comune di Cherasco di un terreno di circa 1.200 mq censito al locale Catasto terreni al Foglio 8, mapp. 93, avente destinazione agricola.
2. Il terreno in questione è adiacente alla strada “frazione Veglia”, in relazione alla quale il Comune di Cherasco, con delibera della Giunta municipale n. 118 del 28/08/2007, ha approvato un progetto esecutivo per la realizzazione di lavori di ampliamento e sistemazione, provvedendo dipoi a contattare tutti i proprietari interessati per verificare la possibilità di addivenire a cessione bonaria: tra essi anche la ricorrente, il cui fondo sopra indicato è adiacente alla strada comunale e del quale in base al progetto esecutivo il Comune doveva acquisire una porzione.
3. Nel frangente la ricorrente ha firmato una sorta di pre-accordo con il quale dimostrava la disponibilità alla cessione gratuita “per l’asservimento dell’area necessaria ad ampliare la strada fino ad ottenere una larghezza dell’asfalto a 6 metri. La proprietaria richiede che in occasione della prossima variante al PRGC venga inserita la possibilità di realizzare un piccolo fabbricato residenziale”, possibilità fino a quel momento non esistente attesa la destinazione agricola del fondo.
4. Accordi bonari sono stati stipulati dal Comune anche con gli altri proprietari, come risulta dalla delibera di Giunta Municipale impugnata, n. 13 del 24.01.2008, oggetto di gravame, nella quale vengono anche esplicitati i criteri di indennizzo e laddove, nella lista dei proprietari interessati, accanto al nome della ricorrente non è indicato alcun indennizzo.
5. L’Amministrazione, senza dover disporre l’occupazione d’urgenza degli immobili, ha quindi preso possesso delle aree necessarie, ha iniziato i lavori nel febbraio 2008 e li ha terminati nel settembre 2009.
6. Dopo di ciò, constatata l’effettiva superficie occupata a danno di ciascuno dei proprietari interessati, il Comune ha determinato le relative indennità di espropriazione: la ricorrente, tuttavia, secondo quanto il Comune ha riferito nella nota di chiarimenti acquisita in corso di causa, in realtà non è mai stata contattata a tale scopo poiché l’Amministrazione riteneva che essa avesse acconsentito alla cessione a titolo gratuito.
7. Il decreto di esproprio, con riguardo al fondo della ricorrente, non è mai stato emesso né è stato stipulato alcun atto comportante traslazione della proprietà.
8. La ricorrente nel 2009, a lavori ultimati, tramite il proprio difensore ha formulato richiesta di restituzione del fondo o, in difetto, di risarcimento del danno: ne è seguita una trattativa che non è andata a buon fine.
9. La ricorrente si è pertanto indotta ad impugnare la delibera di Giunta n. 13 del 24.01.2008, che essa asserisce di aver conosciuto solo nel 2010, lesiva nella misura in cui non riconosce ad essa alcun indennizzo: nell’atto introduttivo del giudizio essa ha pertanto chiesto al Tribunale di annullare la delibera medesima e, in via risarcitoria, di “accertare e dichiarare tenuta l’Amministrazione comunale alla reintegrazione in forma specifica del danno patito dalla ricorrente con conseguente restituzione della parte di terreno acquisita dal Comune di Cherasco senza titolo, ovvero, in subordine, condannare l’Amministrazione al risarcimento del danno per equivalente monetario in misura non inferiore ad E. 5848,00 oltre interessi dal giorno della occupazione illegittima al saldo, oltre alla rivalutazione monetaria.”
10. Nessuno si è costituito in giudizio per il Comune di Cherasco.
11. Con atto depositato il 07.04.2011 la ricorrente, premesso di aver ricevuto dalla Amministrazione comunale una comunicazione nella quale si faceva presente che l’occupazione del terreno della signora Ta. era legittima, che essa aveva manifestato la disponibilità a cederlo gratuitamente, che la richiesta formulata dalla medesima risultava eccessiva e che peraltro il Comune era disponibile ad acquistare l’appezzamento di 90 mq. di proprietà della medesima, utilizzato per l’ampliamento della strada, al prezzo di Euro 2,74 mq., tanto premesso la signora Ta. ha dichiarato di rinunciare alla domanda di annullamento dell’atto impugnato, insistendo solo per le domande risarcitorie.
12. Il ricorso è stato chiamato alla pubblica udienza del 25.01.2017, allorché il Collegio ha chiesto alla Amministrazione di depositare una nota di chiarimenti, adempimento al quale il Comune ha provveduto: dalla nota risulta quanto sopra riferito nonché il fatto che con rogito dell’11.10.2011 la ricorrente ha venduto la restante parte del fondo interessato dall’esproprio, per una superficie di 1.117 mq.. La ricorrente, peraltro, ha prodotto in giudizio copia dell’atto di vendita, dal quale risulta che il corrispettivo pattuito per la vendita è pari ad Euro 4.500,00, corrispondente ad E. 4,02 al mq.
13. Il ricorso è quindi tornato per la discussione del merito alla pubblica udienza del 07.06.2017, allorché è stato introitato a decisione.
14. Il Collegio ritiene preliminarmente di dover precisare che, limitatamente alla domanda di annullamento, esso va dichiarato improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse, per quanto dichiarato da parte ricorrente nell’atto depositato il 07.04.2011.
15.
Resta da decidere la domanda risarcitoria, in relazione alla quale il Collegio deve pregiudizialmente verificare la propria giurisdizione, tenuto conto del fatto che viene in considerazione una ipotesi di occupazione di terreno privato non assistita da decreto di esproprio o decreto che ha disposto la occupazione d’urgenza, finalizzata però alla realizzazione di un’opera pubblica.
   15.1. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, già con sentenza n. 2688/2007, hanno affermato il principio, in seguito sempre ribadito (si veda ancora la pronuncia di Cassazione civile, sez. un., 23/03/2015, n. 5744), secondo cui “In materia espropriativa, sussiste la giurisdizione del Giudice Amministrativo nei casi in cui l’occupazione e la irreversibile trasformazione del fondo siano avvenute anche in assenza o a seguito dell’annullamento del decreto di esproprio ma in presenza di una dichiarazione di pubblica utilità, anche se questa sia poi stata annullata in via giurisdizionale o di autotutela (c.d. occupazione usurpativa spuria), mentre spetta al Giudice Ordinario la giurisdizione nei casi in cui l’occupazione e la irreversibile trasformazione del fondo siano avvenute in assenza della dichiarazione di pubblica utilità e nelle ipotesi di sopravvenuta inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità (fattispecie di c.d. occupazione usurpativa pura”.
Nel caso che occupa l’Amministrazione comunale ha approvato il progetto esecutivo di ampliamento e sistemazione della strada con delibera di Giunta Municipale del 28.08.2007, e tale progetto, ai sensi dell’art. 12, comma 1, lett. a), del D.P.R. n. 327/2001, equivale a dichiarazione di pubblica utilità dell’opera. Inoltre, ai sensi di quanto previsto dal combinato disposto dei comma 3 e 6 dell’art. 13 del D.P.R. 327/2001, la dichiarazione di pubblica utilità ha una efficacia di cinque anni, dal che consegue che le opere realizzate nel predetto periodo di tempo debbono ritenersi assistite da una valida dichiarazione di pubblica utilità.
   15.2. Nel caso di specie i lavori sono iniziati nel 2008 e portati a termine nel 2009: pertanto si versa certamente in una ipotesi di occupazione “appropriativa”, e non già “usurpativa”, con conseguente sussistenza della giurisdizione del Giudice Amministrativo sulla domanda risarcitoria formulata da parte ricorrente, la quale nella memoria depositata il 22.12.2016 ha precisato le conclusioni chiedendo il riconoscimento del danno:
      a) rapportato al periodo di illegittima occupazione del terreno e da quantificarsi in misura corrispondente agli interessi legali sul valore del bene;
      b) all’equivalente del valore della porzione di terreno illegittimamente occupata: sul punto parte ricorrente invoca espressamente l’insegnamento di cui alla pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 735/2015, secondo la quale la perdita della proprietà di un bene, a carico di un privato, può verificarsi anche in dipendenza della c.d. rinunzia abdicativa al diritto dominicale, rinunzia che può anche ravvisarsi mediante la richiesta di tutela risarcitoria.
16.
Prima di passare alla disamina del merito delle domande formulate dalla ricorrente, il Collegio ritiene opportuno ripercorrere, sia pure per sommi capi, la giurisprudenza venutasi a formare nel corso degli ultimi decenni con riferimento alla sorte della proprietà dei fondi privati occupati da una pubblica amministrazione per la realizzazione di opere di pubblica utilità, con riferimento ai casi in cui detta occupazione non sia stata seguita dalla emissione, nei termini di legge, del decreto di esproprio.
   16.1. Con la storica sentenza della Corte di Cassazione n. 1464/1983 si inaugurò l’orientamento giurisprudenziale che annetteva alla irreversibile e totale trasformazione di un fondo connessa alla realizzazione di un’opera di pubblica utilità la acquisizione della proprietà del sedime interessato in capo alla Pubblica Amministrazione committente tale opera. Detto istituto, di pura creazione pretoria, è stato denominato nel corso del tempo prima accessione invertita e poi occupazione acquisitiva o appropriativa o espropriativa; esso si fondava, secondo l’originario disegno di cui alla sentenza delle Sezioni Unite n. 1464/1983, poi confermato dalla sentenza, sempre delle Sezioni Unite, n. 12546 del 1992, sulla constatazione che laddove la realizzazione di un’opera pubblica implichi una irreversibile trasformazione del fondo privato, l’originario diritto di proprietà sullo stesso viene totalmente svuotato e dunque si estingue; contestualmente la azione manipolatrice-distruttrice della Amministrazione crea un quid novi di cui la Amministrazione medesima acquista la proprietà a titolo originario, con esclusione, dunque, di una fattispecie di tipo traslativo; al proprietario privato del suo diritto per effetto della azione manipolatrice-distruttrice della Amministrazione, è dovuto un risarcimento del danno.
   16.2. Nel contesto di questo orientamento il titolo in base al quale la Amministrazione acquisiva la proprietà del bene risultante dalla sua azione manipolatrice/distruttrice del fondo privato, non è sempre stato individuato in modo univoco: dall’originario richiamo all’istituto della accessione di cui all’art. 938 c.c., effettuato nella ricordata sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, la Giurisprudenza è poi passata attraverso il richiamo all’istituto della usucapione, alla tesi dell’attrazione dell’opera al regime dei beni pubblici per giungere a fondare l’acquisto della proprietà del fondo e dell’opera pubblica sullo stesso realizzata in virtù del collegamento tra l’opera e la dichiarazione di pubblica utilità. Allo stesso modo non era univocamente individuata la causa della perdita del diritto di proprietà in capo al privato, che infatti già la sentenza della Corte di cassazione, Sez. II, n. 3872 del 04.04.1987 affermava permanere, nonostante l’irreversibile trasformazione ed utilizzazione del bene, sino a che il privato non avesse chiesto a titolo risarcitorio il valore integrale dell’immobile, esprimendo in tal modo la volontà di abbandonare il diritto di proprietà del suolo in favore dell’occupante.
   16.3. Si deve ricordare, peraltro, che a partire dalla metà degli anni Novanta la Cassazione (Sez. I n. 12841 del 15.12.1995; SS.UU. n. 1907 del 4.3.1997; n. 148 del 10.01.1998), anche per il fatto che l’art. 5-bis della L. 359/1992 fissava l’indennizzo per le occupazioni illegittime “per causa di pubblica utilità”, ha cominciato a distinguere i casi in cui la attività manipolatrice del fondo privato, da parte della amministrazione, risultava assistita da una precedente dichiarazione di pubblica utilità dell’opera e quelli in cui una tale dichiarazione mancava ab origine o era venuta meno successivamente, stabilendo che in questa seconda fattispecie, poi denominata “occupazione usurpativa”, non sussistevano gli estremi per ritenere operante il meccanismo acquisitivo del bene realizzato dalla amministrazione, che non poteva dirsi rispondente a fini pubblici; conseguentemente e correlativamente neppure si verificava l’effetto estintivo del diritto di proprietà del privato, che poteva chiedere la restituzione del bene.
Con riferimento alle fattispecie in esame, allora, la perdita della proprietà in capo al privato si determinava non per effetto dello “svuotamento” del diritto bensì per effetto della (eventuale) domanda risarcitoria con la quale il privato chiedeva di essere risarcito del valore del terreno, stante che una simile domanda conteneva e comportava una implicita rinuncia al diritto dominicale con valenza meramente abdicativa e non traslativa del diritto, dovendosi conseguentemente escludere che effetto automatico di tale rinuncia fosse costituito dall’acquisto del fondo in capo all’ente pubblico occupante (Cass. Civ. Sez. I n. 9173 del 03.05.2005, che ha escluso -essendo la rinuncia alla proprietà atto abdicativo e non traslativo- che vi fosse contraddizione tra le statuizioni del giudice di merito di riconoscere, per un verso, al proprietario il risarcimento integrale per la perdita della proprietà e di negare, per altro verso, l'acquisizione della proprietà stessa in capo all'ente pubblico occupante; Cass. Civ. Sez. I n. 184 del 18.02.2000; n. 6515 del 16.07.1997).
Ed in tal caso il risarcimento, proprio perché non collegato alla necessità di realizzare una finalità pubblica, doveva essere liquidato secondo i criteri ordinari, e non secondo i criteri indicati dall’art. 5-bis della L. 359/1992, avuto riguardo alla circostanza che la avvenuta realizzazione dell’opera pubblica da parte della amministrazione occupante comportava una tale ed irreversibile trasformazione del fondo da far ritenere di fatto il bene originario irrecuperabile: si legge infatti nella storica sentenza della Suprema Corte n. 1907/1997 che “poiché la valenza restitutoria dell'azione del privato potrebbe trovare ostacolo o nell'eccessiva onerosità di essa per il debitore (art. 2058, comma 2, c.c.) o nel pregiudizio per l'economia nazionale (art. 2933, comma 2 c.c.) come espressamente rilevano le S.U. nella sentenza 3963/89, o essere irragionevolmente antieconomica a cagione della irreversibilità -anche soltanto materiale- della trasformazione del fondo, non si vede perché il privato non dovrebbe essere ammesso a formulare la sua pretesa in termini di risarcimento del danno per la perdita del bene”.
E’ dunque importante sottolineare e ricordare, ai fini di quanto infra si dirà, che storicamente la ragione per cui al privato è stata riconosciuta la possibilità di chiedere, in caso di occupazione non preceduta da valida dichiarazione di pubblica utilità, una tutela risarcitoria per equivalente commisurata al valore venale del bene, anziché la sola tutela restitutoria, riposa sul fatto che in allora la giurisprudenza riteneva che la manipolazione del bene connessa alla realizzazione dell’opera da parte della Amministrazione pubblica ne comportasse la inutilizzabilità, e quindi, in sostanza, la perdita.
   16.4. Il ricordato orientamento giurisprudenziale si è consolidato ed ha trovato costante applicazione per circa un ventennio, durante il quale il legislatore non è mai intervenuto riconoscendo esplicitamente ed in via generale, alla fattispecie in esame, valenza acquisitiva della proprietà del bene in favore della Amministrazione “occupante” e tanto meno valenza estintiva del diritto di proprietà del privato.
      16.4.1. Con l’art. 3 della legge n. 458/1988, il legislatore ha riconosciuto che “il proprietario del terreno utilizzato per finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata e convenzionata, ha diritto al risarcimento del danno causato da provvedimento espropriativo dichiarato illegittimo con sentenza passata in giudicato, con esclusione della retrocessione del bene”; l’art. 11, comma 5 e 7, della L. 413/1991 ha stabilito che il risarcimento conseguito dal privato in dipendenza di “occupazioni illegittime”, concorre alla formazione del reddito imponibile ai fini IRPEF; l’art. 10 del D.L. 444/1995 ha previsto per gli enti locali e loro consorzi la possibilità di chiedere mutui alla Cassa Depositi e Prestiti “a copertura dei maggiori oneri ricadenti sui bilanci………… in dipendenza dell'acquisizione di aree per la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria e di altre opere pubbliche dichiarate di pubblica utilità..”; l’art. 3, comma 6, della L. 662/1996 ha introdotto nel corpo dell’art. 5-bis del D.L. 333/1992, convertito nella L. 359/1992, il comma 7-bis, che per la prima volta ha legislativamente disciplinato in via generale il risarcimento del danno dovuto al privato proprietario in dipendenza da “occupazioni illegittime”, disponendo che esso dovesse computarsi in ragione della media tra il valore venale del bene ed il coacervo del reddito dominicale degli ultimi dieci anni, maggiorato del 10%.
      16.4.2. Ebbene: nessuna delle dianzi ricordate disposizioni menziona esplicitamente l’acquisizione della proprietà del sedime in capo alla Amministrazione “occupante” e l’estinzione del diritto di proprietà del privato quali effetti della fattispecie complessa risultante dalla occupazione del fondo privato, dalla illecita trasformazione dello stesso conseguente alla realizzazione di un’opera di pubblica utilità e dalla concorrente richiesta del privato di essere risarcito del valore del bene, da quegli non più utilizzabile; né, tampoco, le dianzi citate norme collegano il diritto del privato a conseguire il “risarcimento del danno” ad una manifestazione dello stesso di “abdicare” alla proprietà vantata sul fondo illegittimamente occupato per la realizzazione di un’opera di pubblica utilità.
Ancora va sottolineato che tutte le ricordate norme –le quali, se il Collegio non è in errore, esauriscono il panorama delle norme che in qualche modo alludono alle fattispecie in argomento- non danno una chiara definizione del concetto di “occupazione illegittima” e non contengono una organica disciplina dell’istituto: sul punto merita sottolineare che anche l’art. 3 della L. 458/1988, nel riconoscere il diritto del privato a conseguire il risarcimento del danno conseguente ad una procedura espropriativa illegittima, limita tale istituto alle sole espropriazioni finalizzate alla realizzazione di edilizia residenziale pubblica, ed alle ipotesi in cui sia già stato emanato un decreto di esproprio illegittimo; nelle ipotesi divisate da tale norma, dunque, l’acquisizione della proprietà del bene in capo alla amministrazione espropriante si collega ad un titolo ablativo tipico, e l’originalità della disciplina risiede piuttosto nel fatto che alla declaratoria di illegittimità del decreto di esproprio non ne consegue l’annullamento, spiegandosi così la mancata retrocessione del bene, espressamente vietata dalla norma.
La Corte di Cassazione, per il vero, con la sentenza n. 735 del 19.01.2015 -di cui si dirà infra–ha dato una diversa lettura della norma in esame, affermando che essa “presuppone evidentemente che alla trasformazione irreversibile dell'area consegua necessariamente l'acquisto della stessa da parte chi ha realizzato le opere”, ma come sopra precisato il Collegio non crede che questa possa essere l’unica lettura possibile, ritenendo invece che la mancata retrocessione –id est: restituzione– del bene nella specie consegue non già al fatto che esso è già stato, in precedenza, acquisito in proprietà in capo alla p.a., quanto piuttosto al fatto che è il legislatore a vietarlo.
         16.4.2.1. Si consideri, del resto, che la stessa Corte di Cassazione SS.UU., con la sentenza n. 12546 del 25.11.1992, ha escluso che la fattispecie disciplinata dall’art. 3 della L. 458/1988 possa riferirsi all’istituto della occupazione appropriativa, difettando alcuni requisiti fondamentali.
          16.4.2.2. Va inoltre sottolineato che sino a che è stato in vigore, l’art. 3 della L. 458/1988 ha sempre vietato la retrocessione delle aree illegittimamente espropriate per edilizia residenziale pubblica senza distinzione alcuna, e cioè sia nei casi di occupazione acquisitiva che usurpativa: si vuol dire, cioè, che ove fosse stato così chiaro il meccanismo estintivo/acquisitivo disegnato dalla ricordata giurisprudenza, il legislatore non avrebbe avuto necessità di tenere fermi gli effetti dei “provvedimenti espropriativi” indicati dalla norma, accertati illegittimi con sentenza passata in giudicato, stante che in tali casi avrebbe potuto agevolmente trovare applicazione il ricordato orientamento, implicante comunque l’acquisto della proprietà dell’opera pubblica e del sedime pertinenziale a favore della Amministrazione.
Il legislatore, tra l’altro, non ha ritenuto di dover modificare la norma neppure dopo che, a partire dal 1997, la Corte di Cassazione ha escluso l’operatività del meccanismo estintivo/acquisitivo alle occupazioni “usurpative”, non assistite da valida dichiarazione di pubblica utilità: il Collegio si domanda allora per quale ragione il legislatore, all’indomani della ricordata precisazione giurisprudenziale, non abbia pensato di modificare l’art. 3 della L. 458/1988 limitando la esclusione della retrocessione (e quindi il mantenimento in vita dei provvedimenti espropriativi illegittimi) alle sole occupazioni usurpative, giungendo alla conclusione che il legislatore stesso, per il quale l’edilizia residenziale pubblica costituiva evidentemente una assoluta priorità, ha ritenuto che gli interessi della amministrazione non potessero essere adeguatamente tutelati dall’istituto della “occupazione acquisitiva”, che di fatto non ha riconosciuto.
L’art. 3 della L. 458/1988 rappresenta dunque, ad avviso del Collegio, un indice della diffidenza e del non riconoscimento, da parte del legislatore, dell’istituto pretorio di cui si discorre: disconoscimento, dunque, sia della rilevanza della azione manipolatrice della amministrazione ai fini di determinare la estinzione del diritto di proprietà del privato, sia della eventuale volontà abdicativa del proprio diritto manifestata dal privato.
      16.4.3. Nella ricordata pronuncia n. 735/2015 la Suprema Corte analizza le ulteriori norme sopra ricordate, da taluni reputate quale indice del recepimento, da parte del legislatore, dell’istituto della occupazione appropriativa, giungendo a conclusioni simili a quelle testé enunciate: l’art. 11, comma 5 e 7, della L. 413/1991 è norma a valenza meramente fiscale; mentre l’art. 55 del D.P.R. 327/2001 -ma le medesime considerazioni valgono anche per l’art, 5-bis del D.L. 662/1996- è norma che “pur avendo storicamente presupposto una occupazione acquisitiva, non richiede necessariamente un contesto nel quale l'occupazione dia luogo all'acquisizione del terreno alla mano pubblica con esclusione (della) restituzione al proprietario. La norma, infatti, prende in considerazione il risarcimento del danno eventualmente spettante al proprietario in caso di illecita utilizzazione del suo terreno, ma non esclude affatto la possibilità di una restituzione del bene illecitamente utilizzato dall'Amministrazione. In altre parole, la disposizione in esame, sebbene vista in passato come copertura normativa dell'istituto creato dalla giurisprudenza, può e deve essere letta oggi come sganciata dall'occupazione acquisitiva e perciò come se in essa fosse presente l'inciso "ove non abbia luogo la restituzione non più, secondo la lettura data in precedenza, come se in essa fosse presente l'inciso "non essendo possibile la restituzione".
      16.4.4. Di guisa che l’impressione che si trae è quella che il legislatore, lungi dal recepire a livello di diritto positivo l’istituto di creazione pretoria in argomento, abbia semplicemente inteso prendere atto della esistenza dell’orientamento giurisprudenziale che l’ha elaborato ed abbia voluto dotare le amministrazioni pubbliche di strumenti idonei a fronteggiare i debiti derivanti dalle condanne risarcitorie già pronunciate relativamente a fattispecie di “occupazioni illegittime” nonché a contenere l’entità delle condanne future fondate sulla stessa causale, nella consapevolezza che simili provvedimenti giudiziali avrebbero potuto ancora intervenire: conferma della valenza sostanzialmente “emergenziale” delle su ricordate norme si trae, del resto, anche dalla constatazione che esse sono per lo più contenute in testi di legge di valenza finanziaria, con la sola eccezione della L. 458/1988, che però, come già precisato, ha un ambito di applicazione assolutamente limitato alla utilizzazione dei suoli per finalità di edilizia residenziale pubblica.
      16.4.5. E’ utile ancora ricordare che nella sentenza della Corte Costituzionale n. 369/1996 -che dichiarò la illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis, comma 6, del D.L. 333/1992, siccome da interpretarsi, secondo il diritto in allora vivente, nel senso che la misura della indennità di esproprio ivi contemplata (semisomma del valore di mercato e del reddito dominicale, con riduzione del 40%, evitabile solo con la cessione volontaria del bene) dovesse applicarsi sia alle espropriazioni rituali che al risarcimento del danno dovuto in conseguenza di occupazioni illegittime– è richiamata “la natura innegabilmente risarcitoria delle conseguenze patrimoniali ricollegate dall'ordinamento all'attuarsi della occupazione privativa-acquisitiva o c.d. "accessione invertita" (che, in dipendenza della irreversibile destinazione del suolo occupato all'opera pubblica, spiega all'un tempo l'effetto estintivo, dell'originario diritto di proprietà, e quello acquisitivo, dell'immobile così trasformato, alla pubblica amministrazione): qualificazione, che è, in tali termini, ormai consolidata da tempo nella giurisprudenza della Cassazione ed in quella conforme dei giudici di merito; ha superato anche il vaglio di costituzionalità con la recente sentenza n. 188 del 1995, ed ha trovato parallela ricezione, infine, sul piano normativo, negli artt. 11, commi 5 e 7, della legge 30.12.1991, n. 413, e 10, co. 3-bis, del decreto-legge 27.10.1995, n. 444 , convertito in legge 20.12.1995, n. 539.”.
E’ opinione del Collegio che con l’inciso in questione la Consulta ha inteso affermare che ciò che ha trovato esplicito riconoscimento nelle norme e precedenti giurisprudenziali citati non è l’istituto nel complesso, ossia la valenza estintiva/acquisitiva della azione manipolatrice della Amministrazione posta in essere su fondi privati non ritualmente espropriati, quanto piuttosto la sola qualificazione in termini di risarcimento delle conseguenze patrimoniali che si determinano a favore del privato, leso dalla trasformazione del fondo: ciò spiega come la Corte Costituzionale abbia potuto menzionare le norme esaminate nei paragrafi che precedono, le quali – come si è visto - nulla dicono in ordine alla valenza estintiva/acquisitiva delle occupazioni illegittime, tra quelle che avrebbero recepito la qualificazione risarcitoria delle conseguenze patrimoniali ridondanti a carico della amministrazione responsabile della occupazione illegittima e della successiva azione manipolatrice. Si vuol qui sottolineare che le norme citate se incontestabilmente alludono ad una responsabilità risarcitoria, che peraltro non avrebbe potuto essere disconosciuta dal legislatore in quanto per definizione generata da un comportamento connotato da illegittimità, a prescindere dalla estinzione del diritto di proprietà del privato, d’altro canto nulla provano in ordine al recepimento dell’istituto da parte del legislatore.
Quanto al richiamo alla sentenza n. 188/1995 della medesima Corte Costituzionale, osserva il Collegio che in quella sede la Consulta era chiamata a valutare la legittimità costituzionale dell’art. 2043 c.c. siccome interpretato dal diritto vivente, e cioè nella misura in cui accordava al privato proprietario, leso da una occupazione illegittima, un risarcimento conseguente ad un illecito istantaneo (e non permanente), soggetto pertanto ad una prescrizione quinquennale (e non decennale, non venendo in considerazione una obbligazione indennitaria), decorrente dal momento in cui si verificava la irreversibile trasformazione del fondo: la Corte Costituzionale in quella sede si è limitata a prendere atto –conformemente al proprio ruolo, che non è quello di interprete delle leggi– dell’orientamento giurisprudenziale in parola, costituente diritto vivente, dal quale ha tratto le debite conclusioni in ordine alle caratteristiche delle conseguenze di natura patrimoniale nascenti a favore del privato nonché in ordine alla conformità alla Costituzione di esse.
Va sottolineato, dunque, che anche nella sentenza n. 188/1995 la Corte Costituzionale ha esaminato solo i profili di natura patrimoniale che le occupazioni illegittime facevano sorgere a favore del privato proprietario, e che, ad ogni buon conto, Essa non ha espresso alcuna valutazione in ordine all’essere, l’indirizzo giurisprudenziale in parola, conforme, o meno, a Costituzione o ad altre norme dell’ordinamento giuridico.
      16.4.6. Il Collegio reputa conclusivamente che l’orientamento giurisprudenziale dianzi esaminato -che attribuisce alle occupazioni illegittime di fondi privati seguite dalla realizzazione dell’opera pubblica, valenza contestualmente estintiva del diritto di proprietà del privato e acquisitiva di un diverso diritto a favore della Amministrazione– ha costituito certamente diritto vivente sino alla prima metà degli anni 2000, ma non ha ricevuto alcun avallo diretto a livello normativo, essendo anzi contraddetto dall’art. 3 della L. 458/1988, come sopra interpretato.
17.
Nel contesto del ricordato orientamento giurisprudenziale si è inserito l’art. 43 del D.P.R. 327/2001, entrato in vigore il 30/06/2003, il quale sottendeva il principio per cui il diritto di proprietà, sul fondo illegittimamente occupato ed utilizzato per la realizzazione di un’opera di pubblica utilità, può estinguersi, in mancanza di decreto di esproprio o di cessione spontanea, solo per effetto del decreto di acquisizione contemplato dalla norma, la quale costituiva, a livello di diritto positivo, una risposta concreta del legislatore italiano all’orientamento assunto in materia dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
   17.1. Quest’ultima, pronunciatasi su molti casi di occupazione acquisitiva, ha affermato che la perdita della proprietà al di fuori di uno schema ablatorio-espropriativo legislativamente disciplinato, pur se finalizzata a scopi di pubblica utilità deve ritenersi illegittima in quanto non consente al cittadino di prevedere il risultato e così di aver contezza della vicenda, dal momento che gli effetti che derivano dalla occupazione diventano palesi solo con la sentenza che definisce il procedimento. Il meccanismo della occupazione acquisitiva (o appropriativa), quindi, secondo la Corte Europea dei Diritti Umani integra(va) una illegittima compromissione del diritto di proprietà nonché violazione dell’art. 1 del protocollo addizionale n. 1: in conseguenza di ciò lo Stato è tenuto a risarcire il cittadino leso per effetto di tale comportamento consumato ai suoi danni, preferibilmente mediante restituzione del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità (sentenza Carbonara e Ventura c. Stato Italiano), ovvero a mezzo di risarcimento per equivalente tale da eliminare totalmente le conseguenze subìte in esito alla occupazione illegittima.
   17.2. La fermezza con la quale la Corte di Strasburgo ha continuato a denunciare la contrarietà della occupazione acquisitiva alla Convenzione E.D.U. ha indotto il legislatore italiano a porre rimedio alla situazione venutasi a creare, e tanto mediante l’introduzione, nel T.U. Espropriazioni, dell’art. 43 sopra ricordato, il quale, sul presupposto che la perdita della proprietà in capo al privato non può, nelle ipotesi in esame, collegarsi se non ad un atto di natura consensuale o autoritativa ( fatti salvi gli effetti della usucapione ordinaria), introduceva un meccanismo finalizzato, per così dire, a mettere ordine in tutte quelle situazioni caratterizzate dalla sostanziale perdita della disponibilità del bene in capo ad un privato, a favore di una pubblica amministrazione che lo utilizzava per scopi di pubblica utilità senza averne acquisito la proprietà nei modi ordinari.
Così, nel sistema delineato dall’art. 43, in presenza di determinate condizioni la Pubblica Amministrazione “che utilizza(va) il bene” poteva emettere il decreto di acquisizione “sanante” previsto dal comma 1, dal quale soltanto derivava il trasferimento di proprietà del bene a favore della Pubblica Amministrazione procedente. E l’eventuale richiesta di restituzione del bene, formulata dal privato in sede giudiziale, secondo quanto esplicitamente previsto dall’art. 43 avrebbe potuto essere bloccata solo da una richiesta della Amministrazione, rivolta al giudice della causa, di disporre il risarcimento del danno con esclusione della restituzione senza limiti di tempo: in particolare, secondo quanto previsto dal comma 4 dell’art. 43, in tale eventualità “l’autorità che ha disposto l’occupazione dell’area emana l’atto di acquisizione, dando atto dell’avvenuto risarcimento del danno….”.
   17.3. L’art. 43 presupponeva, dunque, la perdurante sussistenza e sopravvivenza del diritto di proprietà privata; correlativamente l’acquisizione di esso a favore della Amministrazione interessata era collegata unicamente alla emissione del decreto di acquisizione sanante, al punto che in mancanza di esso ed in conseguenza della condanna risarcitoria il giudice della causa doveva escludere la restituzione senza limiti di tempo. Dunque, anche la domanda risarcitoria formulata dal privato doveva ritenersi inidonea a determinare l’estinzione del proprio diritto, segnatamente quale effetto di un atto di natura abdicativa.
   17.4. Tali principi, già enunciati nella relazione della Adunanza Generale del Consiglio di Stato 29/03/2001, sono poi stati ribaditi dalla sentenza della Adunanzia Plenaria n. 2/2005, e dipoi richiamati anche dalla sentenza della sezione IV n. 2582 del 21/05/2007.
   17.5. Come noto, la Corte Costituzionale, con sentenza n. 293 dell’08.10.2010 ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 43 del D.P.R. 327/2001. Tale pronuncia -che tra l’altro ha richiamato l’orientamento del Consiglio di Stato di cui alle pronunce della Sez. IV, 26.03.2010, n. 1762 e 08.06.2009, n. 3509, della Ad. Plen. 29.04.2005, n. 2 e della Sez. IV, 16.11.2007, n. 5830, da considerarsi “diritto vivente”, secondo il quale la norma in questione doveva ritenersi applicabile a tutte le occupazioni illegittime ed a tutte le procedure di acquisizione in sanatoria, ancorché relative ad occupazioni poste in essere prima della entrata in vigore del D.P.R. 327/2001- è pervenuta alla declaratoria di incostituzionalità dell’art. 43 citato per eccesso di delega, rilevando che nella legge delega, n. 59 del 1997, non era dato rinvenire alcuna disposizione che legittimasse il legislatore delegato ad introdurre nell’ordinamento interventi volti a sanare difetti delle procedure ablative già intraprese; che la “acquisizione sanante”, così come congegnata dalla norma censurata, in realtà non risultava affatto coerente con gli orientamenti di giurisprudenza che, elaborando gli istituti della occupazione “
acquisitiva” ed “usurpativa”, avevano cercato di porre rimedio alle gravi ed innumerevoli patologie riscontrate in un gran numero di procedimenti espropriativi; e che il legislatore delegato era dunque andato, con l’art. 43 del D.P.R. 327/2001, ben al di là del compito affidatogli e consistente nel mero “coordinamento formale relativo a disposizioni vigenti”.
Né l’istituto disegnato dalla nuova norma poteva -secondo la Corte Costituzionale- giustificarsi con la necessità di adeguare l’ordinamento ai rilievi provenienti dalla giurisprudenza della Corte EDU, giurisprudenza che non imponeva affatto la adozione della soluzione in concreto adottata e che, inoltre, aveva già lasciato intendere di ritenere illegittima qualsiasi “espropriazione indiretta” -ancorché fondata su una norma, come l’art. 43- “in quanto tale forma di espropriazione non può comunque costituire un'alternativa ad un'espropriazione adottata secondo «buona e debita forma» (Causa Sciarrotta ed altri c. Italia - Terza Sezione - sentenza 12.01.2006 - ricorso n. 14793/02).”; una simile procedura crea inoltre il rischio di un risultato arbitrario ed imprevedibile, in violazione del principio di certezza del diritto, e “tende a ratificare una situazione di fatto derivante dalle azioni illegali commesse dall’amministrazione, tende a risolverne le conseguenze a livello sia privato che amministrativo e permette all’amministrazione di trarre beneficio dal proprio comportamento illegale” (sentenza Dominici c/ Gov. Italiano n. 64111/00 del 15.11.2005).
   17.6. Con D.L. n. 98/2011 è stato introdotto, nel corpo del D.P.R. 327/2001, l’art. 42-bis, il quale prevede la possibilità per “l'autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità”, di “disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale…”: la norma precisa, inter alia, che “Il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche quando sia stato annullato l'atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all'esproprio, l'atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di un'opera o il decreto di esproprio. Il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche durante la pendenza di un giudizio per l'annullamento degli atti di cui al primo periodo del presente comma, se l'amministrazione che ha adottato l'atto impugnato lo ritira.”; l’art. 42-bis prevede inoltre che le relative disposizioni “...trovano altresì applicazione ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se vi è già stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato, ma deve essere comunque rinnovata la valutazione di attualità e prevalenza dell'interesse pubblico a disporre l'acquisizione; in tal caso, le somme già erogate al proprietario, maggiorate dell'interesse legale, sono detratte da quelle dovute ai sensi del presente articolo”.
   17.7. Il ricordato art. 42-bis, escludendo che l’acquisto della proprietà del sedime interessato possa verificarsi ex tunc, precisando che il ristoro economico dovuto al privato sia commisurato all’intero danno patrimoniale e non patrimoniale subìto dal privato, ed infine stabilendo che la relativa disciplina trova applicazione anche ai fatti anteriori alla entrata in vigore del D.L. 98/2011, ha inteso conformarsi alle indicazioni provenienti dalla Corte di Strasburgo, la quale, nella sentenza 06.03.2007 n. 43662/98 (Scordino c/ Italia), ha ribadito l’illegittimità della “espropriazione indiretta” ed ha indicato anche le misure idonee per conformarsi alle sue pronunce in materia e cioè:
   a) evitare occupazioni sino a che non siano stati approvati il progetto e gli atti espropriativi, verificando la copertura finanziaria per procedere ad un celere indennizzo;
   b) abolire gli ostacoli di carattere giuridico che impediscono la restituzione del bene trasformato, in assenza di decreto di esproprio;
   c) scoraggiare le pratiche non conformi, perseguendo anche i responsabili di tali procedure.
   17.8. Ciò nonostante anche l’art. 42-bis è stato fatto oggetto di rimessione alla Corte Costituzionale. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con ordinanza n. 442/2014, hanno sottolineato che il provvedimento che dispone l’acquisizione ai sensi della norma censurata ha comunque valenza “sanante”, nel senso che legittima ex post una occupazione d’urgenza che non avrebbe mai dovuto aver luogo, integrando così uno strumento che autorizza la Amministrazione a non restituire il fondo illegittimamente occupato e/o a non ridurlo nello stato originario, e ciò anche a dispetto di un giudicato che abbia ordinato alla Amministrazione la restituzione del bene al privato.
La Corte di Cassazione si è quindi interrogata sulla legittimità costituzionale di una norma che di fatto consente alla Amministrazione “di mutare, successivamente all'evento dannoso prodotto nella sfera giuridica altrui e per effetto di una propria unilaterale manifestazione di volontà, il titolo e l'ambito della responsabilità, nonché il tipo di sanzione/ristoro (da risarcimento ad in indennizzo), stabiliti in via generale dal precetto del neminem laedere per qualunque soggetto dell'ordinamento”, pervenendo così alla “legalizzazione dell’illegale”, legalizzazione che “non è conclusivamente consentita dalla giurisprudenza di Strasburgo neppure ad una norma di legge, né tanto meno ad un provvedimento amministrativo di essa attuativo, quale è quello che disponga l'acquisizione sanante (Ucci, 22.06.2006; Cerro sas, 23.05.2006; De Sciscio, 20.04.2006; Dominici, 15.02.2006; Serrao, 13.01.2006; Sciarrotta, 12.01.2006; Carletta, 15.07.2005; Scordino, 17.05.2005” .
      17.8.1. Ha osservato in particolare l’ordinanza in esame che il principio di legalità non potrebbe ritenersi recuperato in forza dei bilanciamenti e delle comparazioni tra interessi pubblici e privati devoluti dalla norma all'autorità amministrativa che dispone l'acquisizione, perché un tale bilanciamento di opposti interessi deve ritenersi ammissibile, alla luce della giurisprudenza della Corte EDU, solo allorché effettuati nel contesto di una procedura legittima e non arbitraria, ed inoltre perché l’art. 42-bis attribuisce il compito di effettuare siffatto bilanciamento di contrapposti interessi alla Amministrazione responsabile dell’illecito, chiamata ad effettuare una scelta unilaterale e fondamentalmente imprevedibile, con il risultato che anche il nuovo regime autorizza la compromissione della proprietà privata all’esito di un procedimento non caratterizzato da un sufficiente grado di certezza e prevedibilità.
Inoltre il regime introdotto dall’art. 42-bis, essendo applicabile anche a fatti anteriori alla entrata in vigore della norma, finisce per influire sull’andamento di processi iniziati ed impostati secondo diversi presupposti normativi “sì da incorrere anche nella violazione dell'art. 6, par. 1, della Convenzione per il mutamento "delle regole in corsa": risultando sotto tale profilo in contrasto anche con l'art. 111 Cost., commi 1 e 2, nella parte in cui, disponendo l'applicabilità ai giudizi in corso delle regole sull'acquisizione coattiva sanante in seguito ad occupazione illegittima, viola i principi del giusto processo, in particolare le condizioni di parità delle parti davanti al giudice, che risultano lese dall'intromissione del potere legislativo nell'amministrazione della giustizia allo scopo di influire sulla risoluzione di una circoscritta e determinata categoria di controversie; ed appare, quindi, anche sotto questo profilo, nuovamente in contrasto con i vincoli derivanti dagli obblighi internazionali (art. 117 Cost.).”.
Infine le Sezioni Unite hanno rilevato che il sistema disegnato dall’art. 42-bis determinerebbe un differente trattamento tra proprietari vittime di analoghi comportamenti illeciti posti in essere da una Amministrazione pubblica, tra i quali proprietari quelli destinatari di un decreto di acquisizione sanante non potrebbero aspirare alla tutela restitutoria congiunta al risarcimento del danno ex art. 2043 c.c. e sarebbero destinatari di un indennizzo di misura addirittura inferiore all’indennizzo spettante in caso di espropriazione legittima, non soggetto a rivalutazione monetaria (in quanto connesso ad una obbligazione indennitaria di valuta e non ad una obbligazione risarcitoria di valore), con impossibilità di valorizzare la perdita di valore del fondo residuo che permane in proprietà al privato.
   17.9. Con sentenza n. 71/2015, del 30.04.2015, la Corte Costituzionale ha dichiarato non fondate le varie questioni di legittimità costituzionale prospettate nei confronti dell’art. 42-bis, sottolineando: la differente disciplina di tale istituto rispetto a quello disegnato dall’art. 43; la necessità che il decreto che dispone l’acquisizione ex art. 42-bis sia motivato in modo stringente sia in ordine ai motivi imperativi di interesse generale che determinano la necessità di acquisire il bene, sia con riferimento alla impossibilità di ricorrere a soluzioni alternative; la decorrenza ex nunc della acquisizione, con conseguente impossibilità di adottare il provvedimento in esame quando la restituzione del fondo al privato sia già stata disposta con sentenza passata in giudicato.
Per quanto di interesse ai fini della presente decisione va sottolineato che l’art. 42-bis ha superato il vaglio di legittimità costituzionale anche nella parte in cui esso prevede che la norma debba trovare applicazione a tutti fatti precedenti alla sua entrata in vigore: tale previsione implica, in guisa di presupposto logico, che secondo il legislatore tutte le occupazioni illegittime consumate prima del 06.07.2011 (data di entrata in vigore della norma), ancorché tradottesi in “irreversibili trasformazioni” del fondo privato o ancorché precedute da richieste risarcitorie giudiziali formulate dal privato con chiaro intento abdicativo, non possono avere l’effetto di estinguere il diritto di proprietà del privato, e proprio per tale ragione all’occorrenza possono essere sanate mediante l’adozione di un decreto di acquisizione sanante.
   17.10. Si deve quindi riconoscere che allo stato attuale del diritto positivo la occupazione illegittima di un fondo per scopi di pubblica utilità, seguita dalla effettiva realizzazione di opere riconosciute di pubblica utilità, non solo non produce ex se, a favore della Amministrazione che ha occupato il fondo, l’acquisizione della proprietà dell’opera e del fondo sul quale l’opera insiste, ma neppure può essere all’origine della estinzione del diritto di proprietà vantato dal privato sul fondo oggetto di occupazione, ancorché nel frattempo questi abbia manifestato l’intenzione di volervi “abdicare”.
Tutta la disciplina dell’art. 42-bis D.P.R. 327/2001 sottende infatti che il decreto di acquisizione “sanante” viene sempre emesso nei confronti del privato proprietario, e tale aspetto si evince, in particolare, dal comma 4, il quale stabilisce che “Il provvedimento di acquisizione, recante l'indicazione delle circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell'area e se possibile la data dalla quale essa ha avuto inizio, è specificamente motivato in riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l'emanazione, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l'assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione; nell'atto è liquidato l'indennizzo di cui al comma 1 e ne è disposto il pagamento entro il termine di trenta giorni. L'atto è notificato al proprietario e comporta il passaggio del diritto di proprietà sotto condizione sospensiva del pagamento delle somme dovute ai sensi del comma 1, ovvero del loro deposito effettuato ai sensi dell'articolo 20, comma 14; è soggetto a trascrizione presso la conservatoria dei registri immobiliari a cura dell'amministrazione procedente ed è trasmesso in copia all'ufficio istituito ai sensi dell'articolo 14, comma 2.”: ebbene, non si comprende quale logica possa giustificare il fatto che al decreto di acquisizione sanante si attribuisca la capacità di trasferire la proprietà e che poi esso sia invariabilmente, e senza eccezione alcuna, notificato al proprietario, subordinato al pagamento al medesimo del risarcimento e dipoi trascritto nei di lui confronti, se non per la ragione che il privato proprietario non ne perde mai la proprietà.
Considerato poi che l’art. 42-bis non contiene una disciplina derogatoria o specifica con riferimento ai casi in cui il privato abbia precedentemente manifestato, in sede giudiziale o stragiudiziale, la volontà di rinunciare alla proprietà del bene, non si può che concludere che tutto l’art. 42-bis sottende che il proprietario il cui fondo sia utilizzato “per scopi di interesse pubblico” non perde la proprietà ancorché possa aver manifestato di non avervi più interesse.
18.
Nonostante tutto quanto sopra rilevato sopravvive tuttavia, in giurisprudenza, l’affermazione secondo cui la domanda del privato che chieda in giudizio il risarcimento del danno conseguente ad una occupazione illegittima, commisurando il danno medesimo al valore del fondo oggetto di tale occupazione, deve qualificarsi come manifestazione della volontà di rinunciare alla proprietà del fondo: tale affermazione si ritrova, in particolare, proprio nella sentenza della Corte di Cassazione n. 735/2015, la quale, pur dopo essere giunta alla conclusione che l’espunzione della occupazione appropriativa dall’ordinamento giuridico, voluta dalla Corte Europea dei Diritti Umani, non si poneva in contrasto con il diritto positivo (difettando, per le ragioni sopra dette, indici normativi del recepimento di esso da parte del legislatore), ha affermato: “In conclusione, alla luce della costante giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo, quando il decreto di esproprio non sia stato emesso o sia stato annullato, l'occupazione e la manipolazione del bene immobile di un privato da parte dell'Amministrazione si configurano, indipendentemente dalla sussistenza o meno di una dichiarazione di pubblica utilità, come un illecito di diritto comune, che determina non il trasferimento della proprietà in capo all'Amministrazione, ma la responsabilità di questa per i danni. In particolare, con riguardo alle fattispecie già ricondotte alla figura dell'occupazione acquisitiva, viene meno la configurabilità dell'illecito come illecito istantaneo con effetti permanenti e, conformemente a quanto sinora ritenuto per la c.d. occupazione usurpativa, se ne deve affermare la natura di illecito permanente, che viene a cessare solo per effetto della restituzione, di un accordo transattivo, della compiuta usucapione da parte dell'occupante che lo ha trasformato, ovvero della rinunzia del proprietario al suo diritto, implicita nella richiesta di risarcimento dei danni per equivalente. A tale ultimo riguardo, dissipando i dubbi espressi dall'ordinanza di rimessione, si deve escludere che il proprietario perda il diritto di ottenere il controvalore dell'immobile rimasto nella sua titolarità. Infatti, in alternativa alla restituzione, al proprietario è sempre concessa l'opzione per una tutela risarcitoria, con una implicita rinuncia al diritto dominicale sul fondo irreversibilmente trasformato (cfr. ex plurimis, in tema di occupazione c.d. usurpativa, Cass. 28.03.2001, n. 4451 e Cass. 12.12.2001, n. 15710); tale rinuncia ha carattere abdicativo e non traslativo: da essa, perciò, non consegue, quale effetto automatico, l'acquisto della proprietà del fondo da parte dell'Amministrazione (Cass. 03.05.2005, n. 9173; Cass. 18.02.2000 n. 1814). La cessazione dell'illecito può aversi, infine, per effetto di un provvedimento di acquisizione reso dall'Amministrazione, ai sensi dell'art. 42-bis del t.u. di cui al D.P.R. n. 327 del 2001, con l'avvertenza che per le occupazioni anteriori al 30.06.2003 l'applicabilità dell'acquisizione sanante richiede la soluzione positiva della questione, qui non rilevante, sopra indicata al punto n. 4 della motivazione.”
19.
Il Collegio non condivide l’affermazione, che si legge nella ricordata pronuncia, secondo cui “in alternativa alla restituzione, al proprietario è sempre concessa l'opzione per una tutela risarcitoria, con una implicita rinuncia al diritto dominicale sul fondo irreversibilmente trasformato (cfr. ex plurimis, in tema di occupazione c.d. usurpativa, Cass. 28.03.2001, n. 4451 e Cass. 12.12.2001, n. 15710); tale rinuncia ha carattere abdicativo e non traslativo: da essa, perciò, non consegue, quale effetto automatico, l'acquisto della proprietà del fondo da parte dell'Amministrazione (Cass. 03.05.2005, n. 9173; Cass. 18.02.2000 n. 1814)”.
20. Come sopra precisato
la possibilità che un privato possa, nelle fattispecie di che trattasi, unilateralmente e legittimamente rinunciare alla proprietà del bene, acquisendo il diritto ad ottenere un risarcimento commisurato al valore venale del bene anche a prescindere dalla adozione di un decreto di acquisizione sanante, deve escludersi alla luce della disciplina positiva contenuta nell’art. 42-bis, di cui sopra si è dato conto.
   20.1. Merita ricordare, a questo punto, che proprio con riferimento alla disciplina di cui all’art. 43 D.P.R. 327/2001 ed alla circostanza che essa –come l’art. 42-bis– risultava applicabile anche alle occupazioni pregresse, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 11096 del 11/06/2004, ha argomentato l’obbligo di “disapplicare” i principi giurisprudenziali formatisi in materia di occupazione appropriativa, a favore della sopravvenuta disciplina di cui all’art. 43 (in allora non ancora dichiarato incostituzionale), affermando che “La funzione giurisdizionale è necessariamente applicativa delle disposizioni vigenti (che il giudice interpreta con incondizionata autonomia, accertando e dichiarando la volontà della legge in relazione al caso concreto), per cui, se la legge muta o se, con un'ulteriore legge, viene attribuito a precedenti disposizioni un determinato significato, il giudice non può non essere vincolato dalla volontà del legislatore, anche perché le pronunce della Suprema Corte, se anche espressione della funzione nomofilattica, non possono assurgere a fonti di diritto, onde, con riguardo all'istituto dell'occupazione appropriativa, inizialmente affermatasi nell'applicazione giurisprudenziale, e successivamente regolata dalla legge, non è concettualmente configurabile un conflitto di attribuzione, per cui si debba investire la Corte costituzionale, fra potere giudiziario e potere legislativo, né è concepibile uno straripamento di quest'ultimo, per essere intervenuto a regolare un istituto di origine giurisprudenziale.” .
   20.2. Orbene, il Collegio non vede per quale ragione questo cristallino ragionamento, che è espressione del ben noto principio secondo cui il giudice è sottoposto (solo) alla legge, che è tenuto ad applicare, non sia predicabile anche nel caso in esame, dovendosi già per questa via pervenire alla affermazione secondo la quale nelle fattispecie di occupazione appropriativa ed usurpativa l’eventuale rinuncia del privato alla proprietà del fondo è priva di qualsiasi effetto abdicativo o traslativo: a tale conclusione –si ribadisce– è d’obbligo pervenire a fronte della constatazione che il decreto ex art. 42-bis:
      a) può essere emesso a fronte di qualsiasi tipologia di “occupazione per scopi di pubblico interesse”, non prevedendosi alcun trattamento specifico per l’ipotesi in cui il privato abbia manifestato di voler rinunciare alla proprietà del fondo;
      b) non è prevista la possibilità che esso abbia come destinatario un soggetto diverso dal proprietario del fondo occupato né che esso possa avere effetti diversi da quelli traslativi della proprietà;
      c) richiede una motivazione che giustifichi la preminenza del pubblico interesse rispetto alle esigenze del privato proprietario, esigenze -queste ultime– che non avrebbe senso tenere in considerazione ove il privato avesse perso/potesse perdere la proprietà del bene con una semplice manifestazione unilaterale;
      d) può essere emesso anche con riferimento a occupazioni poste in essere in epoca anteriore alla entrata in vigore del D.P.R. 327/2001 o dello stesso art. 42-bis.
   20.3. Non stupisce, del resto, che il legislatore possa aver consapevolmente inteso precludere al proprietario di rinunciare alla proprietà del fondo. Ove una tale rinuncia “abdicativa” fosse possibile e sortisse gli effetti preconizzati dalla giurisprudenza che qui si contesta, le amministrazioni pubbliche si troverebbero esposte al rischio di dover corrispondere un risarcimento commisurato al valore venale del bene occupato anche nei casi in cui il fondo stesso e l’opera che su di esso insiste non siano più rispondenti a “scopi di pubblico interesse”, poiché l’obbligo di corrispondere un tale risarcimento verrebbe in tal caso a dipendere unicamente dalla illegittima occupazione del fondo da parte della amministrazione e dalla unilaterale reazione del privato, prescindendo totalmente da valutazioni afferenti l’utilità pubblica del bene: orbene, pare evidente al Collegio che ove l’art. 42-bis dovesse essere letto nel senso che non include anche le situazioni in cui il privato abbia manifestato l’intenzione di rinunciare alla proprietà del bene esso si presterebbe a censure di incostituzionalità per manifesta irragionevolezza, stante l’evidente sottovalutazione dei danni alla finanza pubblica che un tale “vuoto normativo” potrebbe comportare, tanto più ove si consideri che la rinuncia “abdicativa” del diritto di proprietà manifestata dal privato non farebbe automaticamente acquisire la proprietà del fondo alla amministrazione occupante –particolare questo ben specificato nella pronuncia della Suprema Corte n. 735/2015– e che dunque essa amministrazione sarebbe paradossalmente tenuta a corrispondere al privato un risarcimento commisurato all’intero valore venale del terreno senza, tuttavia, poterne acquisire contestualmente la proprietà.
   20.4. Di contro, letto l’art. 42-bis nel senso che esso si applica, come già precisato, anche alle occupazioni che abbiano ad oggetto beni rispetto ai quali il proprietario abbia già manifestato una rinuncia “abdicativa”, esso risulta al riparo da censure di incostituzionalità: non solo perché le esigenze di finanza pubblica risultano salvaguardate dalla necessità che il decreto di acquisizione dia conto degli “scopi di pubblico interesse” ai quali l’acquisizione è funzionale, ma anche per la ragione che nel caso in cui l’amministrazione si risolva nel senso di non acquisire la proprietà del bene, questo va restituito ed al privato è dovuto il risarcimento riferito all’intero periodo di occupazione senza titolo, senza contare il fatto che in base al principio superficies solo cedit il privato si ritrova ad essere proprietario anche della opera pubblica che sul fondo insiste, la quale rappresenta un valore e che molte volte può essere sfruttata economicamente anche dallo stesso privato proprietario (l’attività di un ospedale o di una scuola, ad esempio, può anche essere esercitata da un soggetto privato, come anche privato può essere un parcheggio per auto aperto al pubblico; esistono persino casi di strade private, che attraversano proprietà interamente private, che collegano viabilità pubbliche e la cui percorribilità è consentita al pubblico previo pagamento di un pedaggio): l’opzione per la rimessione in pristino, spesso chiesta dai privati insieme alla restituzione, anche se riguardata solo dal punto di vista del privato –tralasciando cioè la valutazione dell’inevitabile spreco di risorse pubbliche che essa determina- non costituisce dunque una scelta necessitata né sempre avveduta.
   20.5. Va peraltro sottolineato che la sentenza n. 735/2015 della Corte di Cassazione, di cui sopra si è dato conto e che viene espressamente invocata dalla ricorrente a fondamento della domanda risarcitoria, è stata pubblicata prima della sentenza della Corte Costituzionale n. 71/2015, che ha dichiarato non fondate le censure di costituzionalità prospettate contro l’art. 42-bis, tra le quali v’era anche quella afferente la applicabilità della disciplina in esso contenuta anche alle occupazioni poste in essere in epoca anteriore alla entrata in vigore della norma nonché allo stesso D.P.R. 327/2001: tenuto conto del fatto che al punto 4 della motivazione la pronuncia citata sostiene che “l'art. 42-bis, non può essere individuato come la causa dell'espunzione dall'ordinamento dell'istituto dell'occupazione acquisitiva e si apre, invece, il diverso problema, non rilevante in questa sede, se per effetto dell'espunzione dell'istituto, determinata da una diversa causa, possa ipotizzarsi, alla stregua dei principi in tema di applicazione della legge ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed ai rapporti da tali fatti generati, un ampliamento temporale del campo di applicazione dell'art. 42-bis, che non troverebbe più il limite derivante da situazioni in cui è già avvenuta l'acquisizione alla mano pubblica, ma eventualmente il limite, da verificare, dell'irretroattività della nuova disciplina oltre la decorrenza da essa desumibile e come sopra individuata”, si deve credere che la pronuncia medesima, laddove ha affermato la possibilità che il privato può sempre rinunciare al diritto dominicale sul fondo irreversibilmente trasformato con un atto a carattere abdicativo e non traslativo, si sia fondata su una interpretazione dell’art. 42-bis che ne escludeva l’applicabilità alle occupazioni anteriori alla sua entrata in vigore e che, pertanto, consentiva di salvaguardare le “rinunce abdicative” manifestate dai privati relativamente alle occupazioni pregresse.
La possibilità di adottare il decreto di acquisizione sanante con riferimento a qualsiasi fattispecie di occupazione illegittima, futura o passata, connotata da una rinuncia abdicativa del privato o meno, consente invece di affermare che l’art. 42-bis ha definitivamente certificato l’impossibilità per il privato di rinunciare unilateralmente al diritto di proprietà di un fondo illegittimamente occupato per scopi di pubblica utilità, di guisa che la contraria opzione accreditata dalla sentenza n. 735/2015 potrebbe e dovrebbe, all’attualità, ritenersi superata.
   20.6. Del resto, ove così non fosse, e cioè ammettendo che in tali casi il privato possa ancora oggi sempre, ed efficacemente, rinunziare al proprio diritto di proprietà sull’immobile oggetto di occupazione –con le conseguenze gravissime di cui si dirà nei paragrafi 24, 25 e 26– si finisce per attribuirgli un abnorme potere di determinare in via unilaterale e, soprattutto, non necessariamente prevedibile l’andamento della procedura e le sorti del bene occupato, e si tratterebbe di un potere squilibrato: perché foriero di gravi danni per la amministrazione occupante, la quale ciò nonostante nulla di concreto potrebbe opporre per bloccarlo, stanti gli effetti automatici ex lege che la rinunzia abdicativa produrrebbe.
La situazione che si verrebbe/viene a creare, ammettendo la rinunzia abdicativa del privato alla proprietà del bene illegittimamente occupato, sarebbe quindi caratterizzata, questa volta a scapito della amministrazione, da quella stessa incertezza che ha indotto la Corte di Strasburgo a bocciare l’istituto della occupazione appropriativa e proprio tale constatazione induce il Collegio ad affermare che la rinunzia abdicativa alla proprietà su un bene immobile, quantomeno se riferita ad un bene illegittimamente occupato per scopi di pubblica utilità, non può essere consentita.
21.
Ferme restando le dianzi esposte considerazioni, di per sé sufficienti a sostenere l’affermazione secondo cui gli atti di rinuncia ad una proprietà immobiliare sono privi di effetti allorquando abbiano ad oggetto fondi occupati illegittimamente per scopi di pubblica utilità, il Collegio ritiene che la domanda risarcitoria formulata dalla attrice possa essere respinta anche sulla base di ulteriori argomenti, ed in particolare per la ragione che la rinuncia abdicativa della proprietà immobiliare deve ritenersi dall’ordinamento giuridico non consentita, e come tale priva di effetti, non solo se manifestata in occasione ed in conseguenza di una occupazione illegittima posta in essere per scopi di pubblica utilità, ma anche a prescindere da una simile cornice fattuale, sempre che non ricorra una delle fattispecie specificamente previste dal Codice civile.
   21.1. In particolare ritiene il Collegio che il contestato principio affermato da Cass. Civ. n. 735/2015 -che peraltro costituisce solo il precedente più recente, ma certamente non l’unico- non sia condivisibile perché, inesattamente ad avviso del Collegio, si fonda sull’esistenza, nel nostro ordinamento, della rinunzia abdicativa del diritto di proprietà su un immobile quale istituto di carattere generale.
   21.2. La rinunzia c.d. abdicativa, é generalmente qualificata dalla dottrina come un negozio consistente nella dismissione di un diritto dal patrimonio del rinunciante: è un negozio unilaterale, perché il titolare del diritto se ne priva limitandosi a dismetterlo senza trasferirlo ad altri; è un negozio non recettizio, perché non ha un destinatario immediato e qualora produca un accrescimento del patrimonio di altro soggetto tale accrescimento non costituisce un effetto conseguente in via diretta alla manifestazione di volontà e non può essere lo scopo del rinunciante; ha efficacia immediata (salvo la presenza di condizioni) e, per questo, è normalmente irrevocabile (tranne la rinuncia all’eredità); opera ex nunc, comportando la dismissione di un diritto già acquistato.
   21.3. Tali caratteri della rinunzia abdicativa sono stati ricavati dalla dottrina dallo studio delle figure tipiche di tale istituto, disciplinate dal codice civile: la rinuncia alla eredità, la rinuncia al credito, la rinuncia ad alcuni diritti reali minori espressamente contemplata dal codice civile, che invece non fa menzione della rinuncia al diritto di proprietà immobiliare.
   21.4. Dalla rinunzia abdicativa si distingue, pertanto, la rinunzia c.d. traslativa, che comporta il trasferimento del diritto e che suppone l’esistenza di un contratto in quanto in tal caso la rinunzia costituisce il mezzo per effettuare a favore di un determinato soggetto, scelto dal rinunziante e non dalla legge, la traslazione di un diritto, traslazione che costituisce pertanto un effetto preveduto e voluto dal rinunziante.
   21.5. Numerose sono le disposizioni del codice civile che fanno riferimento alla rinunzia: se ne parla con riguardo all'eredità e al legato (art. 478, 519 ss., 649, 650 c.c.), alle cause di estinzione dei diritti reali di godimento, specificamente in tema di enfiteusi (art. 963 c.c.) e di servitù (art. 1070 c.c.); la rinuncia è espressamente considerata dal legislatore in materia di garanzie dell'obbligazione (art. 1238, 1240 c.c.), di prescrizione e decadenza (art. 2937, 2968 c.c.), in materia di ipoteca (art. 2878, 2879 c.c.), di contratto di mandato (art. 1722, 1727 c.c.), e in materia di rapporto di lavoro (art. 2113 c.c. come novellato dall'art. 6 l. 11.08.1973, n. 533); la rinunzia “liberatoria” riferita alla proprietà immobiliare è poi ammessa dal codice civile nell’art. 1104, con riferimento ai diritti del comunista sulla cosa comune, nonché all’art. 882 c.c., con riferimento ai diritti di comproprietà sul muro comune; essa è invece espressamente esclusa dall’art. 1118, comma 2, con riferimento ai diritti del condomino sulle cose comuni.
   21.6. Argomentando dalle su ricordate norme, in dottrina si è formato un orientamento, anche abbastanza sostenuto, che ammette la possibilità, per un privato, di esercitare la rinunzia abdicativa ai diritti di proprietà immobiliare non solo nelle ipotesi specificamente menzionate dal codice civile ma in qualsiasi situazione, facendo assumere all’istituto un carattere generale anche con riferimento alla proprietà immobiliare.
      21.6.1. In particolare l’argomento principe utilizzato per ammettere la rinunzia abdicativa al diritto di proprietà immobiliare fa leva sull’art. 827 c.c., il quale afferma che “I beni immobili che non sono di proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello Stato”, e che pertanto –secondo tale dottrina- implicitamente ammette che possano esistere beni immobili acefali, cioè privi di un proprietario. Questa dottrina fa anche leva sull’art. 1350 n. 5 e sull’art. 2643 n. 5.
La prima norma contempla “gli atti di rinunzia ai diritti indicati ai numeri precedenti”, tra i quali figura anche il diritto oggetto di “contratti che trasferiscono la proprietà di beni immobili”. L’art. 2643 n. 5 contempla invece “gli atti tra vivi di rinunzia ai diritti menzionati nei numeri precedenti”, tra i quali figura, ancor qui, il diritto oggetto dei “contratti che trasferiscono la proprietà di beni immobili”.
Tali norme sarebbero, secondo la dottrina in esame, ricognitive della generale possibilità riconosciuta dall’ordinamento, di rinunziare unilateralmente, con atto non traslativo e non recettizio, al diritto di proprietà su beni immobili, e tale manifestazione di volontà dovrebbe comportare che il bene immobile oggetto della rinunzia diviene acefalo per poi entrare a far parte, un istante dopo, del patrimonio dello Stato quale effetto ex lege, in virtù di quanto stabilito dall’art. 827 c.c.
      21.6.2. Altra norma sulla quale fa leva la dottrina per ammettere, in via generale, la rinunzia abdicativa alla proprietà immobiliare sarebbe costituita dall’art. 1118, comma 2, il quale, escludendo che il condomino possa rinunziare ai suoi diritti sulle parti comuni, implicitamente sottenderebbe la possibilità di effettuare tale rinunzia, constatazione questa che spiegherebbe per quale ragione il codice avrebbe sentito la necessità di intervenire espressamente per escludere la rinunziabilità del diritto sulle parti comuni.
22.
Non si può negare che il richiamo, effettuato dalle dianzi ricordate norme del codice civile, agli atti di rinunzia che hanno ad oggetto il diritto di proprietà su beni immobili è molto suggestivo; tuttavia a parere del Collegio esse non forniscono argomenti risolutivi che consentano di affermare l’esistenza, nel nostro ordinamento, della rinunzia abdicativa quale istituto di carattere generale, specialmente con riferimento ai beni immobili.
   22.1. L’art. 1350 è la prima norma del capitolo che tratta specificamente “Della forma del contratto”, e quindi si riferisce ai contratti, cioè ad atti che per definizione intercorrono tra due o più persone: di conseguenza vi è motivo per credere che il n. 5 di tale disposizione si riferisca comunque ad accordi che abbiano ad oggetto atti di trasferimento di beni immobili, ai quali le parti rinunziano, con la conseguenza che alla rinunzia al diritto di proprietà su un immobile manifestata da una parte va a corrispondere il riacquisto, automatico, del diritto medesimo in capo al soggetto che prima l’aveva trasferito al rinunziante. Si tratterebbe dunque, più propriamente, di una rinunzia traslativa, alla quale le parti possono ricorrere sia in esecuzione della concordata risoluzione di un precedente contratto traslativo della proprietà su beni immobili –dalla quale consegue il venir meno delle obbligazioni contrattuali per entrambe le parti-, sia in esecuzione di una pattuizione che preveda il venir meno degli effetti del contratto precedentemente concluso per una sola delle parti, in questo caso del solo rinunziante
   22.2. Considerazioni analoghe valgono per l’art. 2643 n. 5: nei numeri da 1 a 4 l’art. 2643 contempla infatti i “contratti” che abbiano ad oggetto determinati diritti reali, tra i quali anche la proprietà immobiliare; sembra quindi ragionevole supporre che il n. 5, richiamando “i diritti menzionati ai numeri precedenti” non intenda semplicemente richiamare i diritti in sé, ma i diritti nascenti da determinati contratti: tale considerazione conferma, ad avviso del Collegio che “gli atti tra vivi di rinunzia” di cui al n. 5 sono finalizzati, semplicemente, a far venir meno l’efficacia, in tutto o in parte, di precedenti contratti che hanno costituito, modificato o trasferito diritti reali immobiliari, conseguendo in particolare da tali atti di rinunzia che la proprietà su un certo immobile torna nella disponibilità del dante causa del rinunziante.
   22.3. Gli articoli 1350 n. 5 e 2643 n. 5, insomma, contemplano, ad avviso del Collegio, degli atti di rinunzia traslativa nonché, al limite, gli atti di rinunzia a diritti reali immobiliari espressamente disciplinati dal codice civile.
   22.4. Tale lettura dell’art. 2643 n. 5 consente inoltre di superare le incongruenze che sono state rilevate, relativamente alla rinunzia a diritti immobiliari, rispetto a quelli che l’art. 2644 c.c. indica essere gli effetti conseguenti, e cioè: “Gli atti indicati nell’articolo precedente non hanno effetto riguardo ai terzi che a qualunque titolo hanno acquistato diritti sugli immobili in base ad un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione degli atti medesimi. Seguita la trascrizione, non può avere effetto contro colui che ha trascritto alcuna trascrizione o iscrizione di diritti acquistati verso il suo autore, quantunque l’acquisto risalga a data anteriore.”
      22.4.1. E’ stato infatti osservato che, non essendo la rinunzia abdicativa un atto recettizio e comportando essa un acquisto ex lege a titolo originario, e non derivativo -a favore del soggetto di volta in volta indicato dalla legge (nudo proprietario, concedente, comproprietari pro-indiviso, lo Stato ex art. 827)-, a rigore non sarebbe stato necessario prevedere che la rinunzia ai diritti immobiliari fosse inopponibile ai terzi acquirenti in buona fede di diritti sugli immobili oggetto di rinunzia, sulla base di atti trascritti in data anteriore alla trascrizione della rinunzia stessa: venendo in considerazione un acquisto ex lege che si verifica automaticamente in conseguenza della rinunzia abdicativa, nessun eventuale atto dispositivo posteriore alla rinunzia potrebbe mai risultare opponibile all’ “acquirente ex lege”. Così, al fine di risolvere l’indicata incongruenza, autorevole dottrina ha ritenuto che la pubblicità della rinunzia ai diritti immobiliari troverebbe ragion d’essere sostanzialmente nella necessità di notiziare il terzo “acquirente ex lege” della avvenuta rinunzia e, quindi, dell’acquisto in suo favore.
      22.4.2. A parere del Collegio, tuttavia, il tenore l’art. 2644 è chiaro nel sottendere un conflitto che possa essere generato e correlato all’atto di rinunzia; non può quindi trattarsi di norma “pensata”, semplicemente o anche, per pubblicizzare atti dai quali un simile conflitto non può conseguire. Si trae da ciò una ulteriore conferma del fatto che gli atti menzionati dall’art. 2643 n. 5 possono essere, in realtà:
         a) vuoi atti di rinunzia di natura traslativa e non abdicativa, previamente concordati tra le parti, costituenti in sé atti di disposizione rispetto ai quali è possibile concepire un possibile conflitto con eventuali terzi acquirenti;
         b) vuoi atti di rinunzia abdicativa ai diritti immobiliari specificamente indicati dal codice (diritti reali minori; comproprietà pro-indiviso), i quali non lasciano mai –come infra meglio si dirà– il diritto “acefalo”, determinando automaticamente l’accrescimento del patrimonio di terzi per effetto della c.d. elasticità della proprietà: è quindi possibile che tali atti di rinunzia possano generare un conflitto tra il rinunziante, e/o i creditori di costui, ed il terzo il cui diritto si espande automaticamente per effetto della rinuncia e/o i creditori di questo ultimo.
L’art. 2643 n. 5 non fa, inoltre, alcun riferimento a specifici effetti conseguenti ad atti di rinunzia abdicativa.
      22.4.3. Tutto ciò considerato il Collegio, anche in applicazione del canone interpretativo “in claris non fit interpretatio”, non crede che l’art. 2644 c.c. possa essere letto nel senso, che invero neppure é esplicitato, per cui la pubblicità degli atti di rinunzia abdicativa avrebbe valenza meramente informativa dell’acquisto a favore dell’acquirente ex lege. E del resto una simile interpretazione dell’art. 2644 c.c. rimane inevitabilmente frustrata dalla dottrina e dalla prassi notarile, che ritengono che la rinunzia abdicativa a diritti reali debba essere presa “contro” il rinunziante –il che appare cosa ovvia– ma “a favore” di nessuno, e ciò proprio sul presupposto che la rinunzia abdicativa di per sé stessa non determina l’accrescimento dell’altrui patrimonio, che eventualmente consegue quale effetto indiretto ex lege.
Tale essendo il meccanismo della pubblicità immobiliare, segue che essa giammai potrebbe consentire ad un soggetto di verificare se il proprio patrimonio si sia accresciuto per effetto della rinunzia abdicativa ad un diritto reale da parte di un terzo soggetto (ad esempio -seguendo la prospettiva che qui si contesta- lo Stato in relazione alla proprietà immobiliare; il nudo proprietario con riferimento all’immobile gravato da usufrutto, uso, abitazione, servitù; il proprietario del fondo dominante con riguardo alla rinunzia liberatoria che abbia ad oggetto il fondo servente; il proprietario pro-quota indivisa con riguardo alla rinunzia di altro comproprietario alla rispettiva quota), il che conferma che verosimilmente il legislatore, quando ha prefigurato la trascrizione degli atti di rinunzia ai sensi dell’art. 2643 n. 5 c.c. pensava piuttosto ad atti di rinunzia traslativa o comunque ad atti di rinunzia dai quali conseguano immediati effetti ampliativi del patrimonio altrui, che dunque giustifichino una contestuale trascrizione “a favore” di un soggetto determinato e che possano ingenerare conflitti che possano trovare definizione in applicazione del principio “prior in tempore potior in jure”.
   22.5. Dirimente non è, ad avviso del Collegio, neppure la previsione di cui all’art. 1118, comma 2, cod. civ.. Il fatto che la norma preveda espressamente che al condomino è vietato di poter rinunziare al suo diritto sulle cose comuni si spiega con il fatto che in materia di proprietà comune vige, in generale, il principio opposto, questo chiaramente enunciato all’art. 1104, comma 1: “Ciascun partecipante deve contribuire nelle spese necessarie per la conservazione ed il godimento della cosa comune e nelle spese deliberate dalla maggioranza, salva la facoltà di liberarsene con la rinunzia al suo diritto”, principio che si trova ribadito anche dall’art. 882, comma 2 c.c., in tema di rinuncia alla comproprietà del muro comune.
In giurisprudenza si è affermato (Cass. Civ. Sez. 2, Sentenza n. 3931 del 23/08/1978) che per effetto della c.d. “rinuncia liberatoria”, in esame, il bene immobile oggetto di rinunzia non rimarrebbe acefalo perché si determinerebbe l’automatico accrescimento del diritto dei comproprietari, sui quali, correlativamente aumenterebbe anche il carico delle spese relative alla manutenzione della cosa o del muro comune. Nel silenzio delle due norme si ritiene che tale forma di rinuncia sarebbe non recettizia e proprio per tale ragione l’accrescimento della proprietà dei comproprietari costituirebbe un effetto legale. Il Collegio nutre qualche perplessità in ordine al fatto che la rinuncia al diritto di comproprietà costituisca atto non recettizio.
E’ fuor di dubbio, comunque, che l’accrescimento del diritto degli altri comproprietari si collega alla natura stessa della proprietà comune, che è una proprietà pro indiviso, la quale si estende all’intero bene, consentendo di fatto a ciascun “comunista” il godimento del bene nella sua interezza, sia pure con i limiti che derivano dalla necessità di assicurare anche agli altri comproprietari un godimento della medesima natura. Ad avviso del Collegio, allora, l’accrescimento del diritto dei comproprietari pro-indiviso, a fronte della rinunzia al proprio diritto manifestata da uno di essi costituisce un effetto naturale che si collega alla c.d. “elasticità” del diritto di proprietà, e proprio per tale ragione si tratta di una rinunzia che non crea alcun tipo di scompenso: il bene immobile non rimane “acefalo”, continuando ad identificarsi uno o più soggetti responsabili della custodia e delle obbligazioni di vario tipo connesse alla proprietà di quel bene.
      22.5.1. Di conseguenza, il fatto che l’art. 1118 escluda, per il condomino, la possibilità di rinunciare al suo diritto sulle cose comuni nulla prova in ordine alla esistenza, nel nostro ordinamento, della rinunzia abdicativa della proprietà immobiliare anche al di fuori delle ipotesi espressamente disciplinate dal codice. Sembra chiaro, peraltro, che la disciplina di cui all’art. 1118, comma 2, si giustifica con il fatto che nel condominio di edifici i singoli proprietari neppure volendo possono sottrarsi all’uso di determinate cose comuni, tra le quali –come noto– rientrano le mura perimetrali, il tetto di copertura, il suolo sul quale sorge l’edificio, le scale ed i portoni di ingresso, e così via dicendo.
Sarebbe dunque manifestamente ingiusto, oltre che foriero di gravi problematiche, se i vari proprietari delle singole unità immobiliari potessero a piacimento sottrarsi, mediante rinunzia al proprio diritto di comproprietà, all’obbligo di pagare le spese per la manutenzione di parti comuni, delle quali essi comunque sono obbligati ad usufruire: e che la ratio della norma sia questa è confermato dal fatto che l’art. 1118 u.c. consente ai singoli proprietari di scollegarsi dai soli impianti di riscaldamento e condizionamento centralizzati, del cui utilizzo essi possono effettivamente fare a meno.
   22.6. Considerazioni simili possono svolgersi con riferimento a tutte le varie tipologie di rinunzia, che il codice civile ammette espressamente con riferimento ai diritti immobiliari, che in realtà esso non qualifica e che da molti sono ritenute di natura “abdicativa”, ma si tratta in realtà di una opzione non unanimemente condivisa.
      22.6.1. Ai sensi dell’art. 963 c.c., è possibile rinunziare alla enfiteusi, ma solo quando il fondo perisca parzialmente: in tal caso, l’enfiteuta “secondo le circostanze può chiedere una congrua riduzione del canone o rinunziare al suo diritto, restituendo il fondo al concedente, salvo il diritto al rimborso dei miglioramenti sulla parte residua”, e l’esercizio della facoltà di rinunzia non è più possibile decorso l’anno. Il legislatore ha dunque limitato in maniera assai precisa la possibilità di rinunziare al diritto di enfiteusi, e tale constatazione, unita alla considerazione che l’enfiteusi è un istituto che persegue non solo l’interesse dell’enfiteuta ma anche quello del proprietario al miglioramento del fondo, induce ad escludere che l’enfiteuta possa abdicare al proprio diritto, come sostengono coloro che, invece, valorizzano anche le previsioni di cui all’art. 1350 n. 5 e 2643 n. 5.
      22.6.2. La rinuncia all’usufrutto è specificamente menzionata dall’art. 2814 c.c., a mente del quale l’ipoteca costituita sul diritto di usufrutto perdura, nonostante la rinunzia, sino a che non si verifichi l’evento che avrebbe altrimenti prodotto l’estinzione dell’usufrutto: l’ammissibilità della rinunzia all’usufrutto, a prescindere da un atto di adesione del nudo proprietario, in questo caso poggia su una norma chiara, che sembra dare quasi per scontata tale eventualità; è dubbio tuttavia se si tratti di rinunzia abdicativa, poiché non vi è alcun indizio nel codice in tal senso; si può tuttavia rilevare che, anche se abdicativa la rinunzia, all’usufrutto non comporta per il nudo proprietario svantaggi assolutamente estranei alla di lui sfera giuridica o imprevedibili, e del resto, se per effetto della rinuncia all’usufrutto sul nudo proprietario tornano a gravare tutte le responsabilità ordinarie (per imposte, custodia, etc. etc.), tuttavia esse sono compensate dalla disponibilità dei frutti del bene. Dunque la rinunzia all’usufrutto, contrariamente alla rinunzia alla enfiteusi, non presenta particolari controindicazioni alla rinunzia, anche se abdicativa.
      22.6.3. Quanto ai diritti di uso ed abitazione, la dottrina ne ammette la rinunzia proprio sulla constatazione che il codice ammette la rinunzia al più ampio diritto di usufrutto.
      22.6.4. Discorso diverso va effettuato con riferimento alla servitù, dal momento che il –codice, mentre non menziona chiaramente la rinunzia alla servitù –se non indirettamente nei più volte citati articoli 1350 n. 5 e 2643 n. 5– stabilisce invece espressamente, all’art. 1070, che il proprietario del fondo servente si può sempre liberare dall’obbligo di pagare le spese necessarie per l’uso o per la conservazione della servitù “rinunziando alla proprietà del fondo servente a favore del proprietario del fondo dominante”. In giurisprudenza ed in dottrina si trovano sia l’orientamento che ammette la rinunzia alla sola servitù ma solo in via bilaterale, sia l’orientamento che ammette anche la rinunzia alla servitù di natura abdicativa: in entrambi i casi si perviene ad ammettere la rinunzia alla servitù facendo leva, sostanzialmente, sulla considerazione che si tratta pur sempre di un diritto disponibile.
Tuttavia a parere del Collegio, proprio il fatto che il legislatore ha disciplinato la diversa ipotesi di cui all’art. 1070 c.c. induce a dubitare della possibilità di rinunziare, quantomeno in via unilaterale, alla sola servitù: e la spiegazione potrebbe risiedere nel fatto che la servitù non è posta e non esiste solo a vantaggio di un soggetto, bensì di un fondo, il quale, venendo meno la servitù, potrebbe risultare non più adeguatamente sfruttabile o rimanerne comunque svalorizzato. In questa prospettiva il fatto che il fondo servente venga “abbandonato” specificamente a favore del proprietario del fondo dominante consente di raggiungere, al medesimo tempo, sia lo scopo di sollevare il proprietario del fondo servente da un peso di duplice natura, sia quello di mantenere in buono stato manutentivo le opere attraverso le quali la servitù può essere esercitata, e, con esse, la godibilità del fondo dominante.
   22.7. Il Collegio considera, a questo punto, che tutti i casi in cui il codice civile ha espressamente ammesso la rinunzia ad un diritto reale risultano accomunati dal fatto che a fronte della rinuncia la proprietà immobiliare non rimane “acefala”, perché in tali casi la rinunzia provoca l’estinzione del diritto reale minore e la correlativa riespansione della piena proprietà; ovvero, trattandosi di diritti reali minori in comunione, provoca l’accrescimento delle quote altrui sul diritto reale minore. In nessun caso, comunque, si viene ad avere un bene immobile privo di proprietario.
Tutte queste fattispecie inoltre, in ultima analisi sono accomunate anche dal fatto che consentono una migliore gestione del bene immobile in tutti i casi in cui il titolare del diritto oggetto di rinunzia sia, per qualsiasi ragione, riottoso al pagamento delle spese necessarie per mantenere il bene immobile nelle condizioni ottimali: tanto si apprezza nella disciplina della rinuncia alla quota in comproprietà indivisa, alla rinuncia liberatoria alla proprietà del fondo servente, ed alla rinuncia alla enfiteusi, che peraltro è rigidamente disciplinata all’evidente fine di evitare che colui che si è impegnato a produrre un determinato miglioramento del fondo, possa sottrarsi a tale obbligo a piacimento. Solo la rinunzia all’usufrutto sembra derogare da questa logica; ma la realtà è che la rinuncia all’usufrutto -come del resto la rinuncia al diritto di piena proprietà su un bene– assume un senso solo ipotizzando che il titolare non voglia o non sia in grado di sopportare i pesi connessi al fondo, che la legge pone a carico dell’usufruttuario.
E’ quindi ragionevole l’ipotesi secondo cui anche la rinunzia all’usufrutto è consentita dal legislatore per favorire la corretta gestione del bene immobile ogni qualvolta l’usufruttuario non voglia o non possa continuare a farsi carico del bene oggetto di usufrutto.
      22.7.1. Perciò, in definitiva, il fatto che la rinunzia ai diritti reali sia espressamente ammessa dal codice civile solo con riferimento a taluni diritti reali ed alla quota di comproprietà indivisa, non consente di presumere che la rinunzia abdicativa ai diritti reali costituisca un istituto generale, disciplinato in talune situazioni solo per esplicitarne gli effetti, essendo molto più logica la contraria opzione, secondo la quale il legislatore avrebbe ammesso la rinunzia a diritti reali solo nei casi in cui essa risulta funzionale alla corretta gestione ed alla valorizzazione del bene immobile.
   22.8. Le dianzi esposte considerazioni appaiono del resto coerenti con la funzione sociale che l’art. 42 della Costituzione assegna alla proprietà privata, la quale è riconosciuta a garantita a tutti i cittadini non solo per soddisfare bisogni egoistici ma anche per la soddisfazione di interessi generali: il mantenimento in buono stato di un bene immobile, dunque, costituisce non solo esplicazione delle facoltà inerenti alla proprietà, ma anche un dovere, la cui violazione, quando non ingeneri situazioni di per sé foriere di responsabilità, viene scoraggiata dal legislatore in vari modi: ad esempio con la possibilità di espropriare le relative aree per assicurarne la riconversione a nuovi utilizzi; oppure, più semplicemente, consentendo che altri acquisiscano la proprietà del bene per usucapione.
   22.9. La ammissione generalizzata della possibilità di abdicare alla proprietà esclusiva, anche solo di tipo superficiario, di un bene immobile, va invece in segno diametralmente opposto, poiché non incoraggia i proprietari ad interessarsi e ad occuparsi in maniera diligente ed attiva dei beni, sul presupposto che di essi sarebbe sempre possibile disfarsi mediante una rinunzia abdicativa.
   22.10 Ad avviso del Collegio neppure l’art. 827 c.c. offre validi e risolutivi argomenti a sostegno del recepimento generalizzato, nel nostro ordinamento, della rinunzia abdicativa alla proprietà immobiliare. Tale norma infatti, nella sua laconicità, sembra essere stata introdotta nel codice civile semplicemente quale disposizione di “chiusura”, ad evitare che possano esistere beni immobili acefali e come tali acquisibili per “occupazione” da parte di chiunque: del resto l’occupazione della res nullius è un modo di acquisto della proprietà valevole solo per i beni mobili (art. 923 c.c.) e tutta la disciplina codicistica riguardante i modi di acquisto della proprietà in realtà dimostra che il legislatore ha cercato di evitare le situazioni in cui beni immobili possano venire a trovarsi privi di un proprietario. In quest’ottica la previsione di cui all’art. 827 c.c. dovrebbe servire non già a far acquisire al patrimonio dello Stato la proprietà di una gran moltitudine di beni oggetto di rinunzia da parte dei rispettivi proprietari, bensì, unicamente a dare una proprietà a quei beni immobili rispetto ai quali non sia possibile risalire ai proprietari dai registri immobiliari e catastali ovvero a dare “copertura” a fattispecie imprevedibili ed estreme, non riconducibili ad alcuna delle ipotesi di acquisto della proprietà già previste dal codice: ad esempio il caso di emersione di una nuova isola in acque territoriali, che non è contemplata dagli articoli 922 e seguenti c.c., la cui proprietà è acquisita automaticamente al patrimonio dello Stato proprio in forza di quanto previsto dall’art. 827 c.c.
   22.11. Ma soprattutto, contro l’argomento secondo il quale lo Stato recupererebbe automaticamente la proprietà dei beni immobili la cui proprietà sia stata abdicata dal proprietario, milita la considerazione che un tale sistema mal si concilia con la nozione moderna della proprietà privata, come diritto che ab origine è attribuito a cittadini privati, ad enti o allo Stato, risultando piuttosto coerente con quella concezione del diritto di proprietà –ancor oggi vivente nei paesi di common law e che negli Stati europei caratterizzava invece il diritto feudale della proprietà– secondo cui esso fa capo unicamente allo Stato o al suo rappresentante, potendo soggetti diversi goderne, sia pure per periodi lunghissimi e con amplissime facoltà, solo in forza di una sorta di concessione.
   22.12. Del resto, salvo errore da parte del Collegio, l’unico caso in cui in giurisprudenza si è dato ingresso alla rinunzia abdicativa alla proprietà immobiliare è costituito proprio dalla rinunzia al bene illegittimamente occupato da una amministrazione per la realizzazione di un bene di pubblica utilità: tale orientamento, enunciato nella celebre sentenza della Corte di Cassazione n. 1907/1997, poggia sulla mera considerazione che il fatto che il privato non perda la proprietà del bene, laddove non risulti operante una valida dichiarazione di pubblica utilità, “non esclude peraltro la possibilità dell'interessato di avvalersi, come nella specie si è avvalso, di un'azione di risarcimento del danno per perdita definitiva del bene, ponendo in essere un meccanismo abdicatorio che non manca di riscontri nel nostro ordinamento positivo (artt. 1070, 1104, 550 c.c.).”, considerazione che al Collegio non pare frutto di una meditazione particolarmente approfondita.
23.
Il Collegio considera pertanto che dalle dianzi esaminate disposizioni non si trova alcun argomento “forte” che confermi, al di fuori delle ipotesi tipiche disciplinate dal codice civile, la possibilità di rinunciare al diritto di proprietà su di un bene immobile senza che contestualmente tale diritto non si trasferisca o non si consolidi in capo a terzi quale effetto voluto dal rinunziante (e non dalla legge). Al contrario si constata che né tali norme, né altre che disciplinano la forma e la pubblicità degli atti e negozi giuridici, prevedono espressamente la rinunzia unilaterale al diritto di proprietà su un bene immobile.
24. Il Collegio si chiede, allora, per quale ragione, ove la rinunzia abdicativa alla proprietà di un bene immobile, intesa come negozio unilaterale non recettizio, costituisse un istituto generalmente ammesso nel nostro ordinamento, il legislatore non ha ritenuto di ammetterla esplicitamente e di disciplinarla espressamente, tenuto conto del fatto che se ammissibile essa sarebbe, per lo Stato, causa di acquisto della proprietà di beni immobili di incidenza infinitamente maggiore rispetto ai casi disciplinati agli articoli 922 e seguenti, e considerato altresì il fatto che la proprietà di beni immobili, ed in special modo di fabbricati, comporta una responsabilità per custodia che il Collegio dubita fortemente il legislatore abbia inteso addossare allo Stato mediante la previsione di cui all’art. 827 c.c., senza ulteriori e più specifiche norme e senza che l’Amministrazione statale abbia la possibilità di esprimere il proprio consenso né di venirne a conoscenza: si pensi alla responsabilità legata alla proprietà di un terreno franoso che sia prospiciente una via pubblica o un centro abitato; o la responsabilità connessa alla proprietà di un edificio in stato fatiscente, che possa crollare sulla via pubblica o all’interno del quale chiunque possa penetrare; responsabilità che l’Amministrazione statale farebbe fatica a prevenire, avuto riguardo al fatto che -come già precisato– la trascrizione della rinunzia abdicativa sarebbe verosimilmente eseguita solo “contro” il rinunziante ma non anche “a favore” dello Stato, che pertanto non sarebbe neppure in grado di venire a conoscenza di eventuali nuovi “acquisti” verificando periodicamente le trascrizioni “a favore”. Salvo sostenere che, proprio per tale ragione, lo Stato è impossibilitato ad esercitarne la custodia in maniera diligente, con il risultato paradossale che tutto questo patrimonio immobiliare continuerebbe, lecitamente, a rimanere incustodito, improduttivo ed inutilizzato, fatiscente e fonte di pericolo per la incolumità pubblica.
25. Si consideri ancora che la rinunzia abdicativa alla proprietà immobiliare comporterebbe il venir meno, in capo al privato, dell’obbligo di pagare le varie imposte (fondiarie, imu, tari, etc. etc.) collegate alla proprietà del bene oggetto di rinunzia, evenienza, questa, che ugualmente si può dubitare fortemente costituisca una conseguenza preveduta ed accettata dal legislatore quale effetto dell’enunciato contenuto nell’art. 827.
26. Né si può trascurare di rilevare che gli effetti conseguenti alla dottrina di cui sopra si è dato conto risultano, se possibile, ancor più paradossali e dannosi proprio con riferimento alle occupazioni illegittime, per la già accennata ragione che, ammettendo in dette fattispecie che il privato abbia la possibilità di rinunziare alla proprietà vantata sul bene occupato divenendo contestualmente titolare del diritto ad essere risarcito del valore venale dell’immobile, si finisce per gravare l’amministrazione “occupante” di un obbligo risarcitorio al quale però non fa da contraltare l’acquisto della proprietà del bene, il quale, per effetto di questa rinunzia “atipica”, passerebbe invece a far parte del patrimonio dello Stato ex lege, ai sensi dell’art. 827 c.c..
Vale la pena precisare, sul punto, che non vi sono ragioni per pensare che tale norma alluda allo “Stato” inteso come insieme delle Amministrazioni pubbliche che ne sono espressione, derivazione o che comunque coesistono sul territorio nazionale. Infatti, anche in altri casi, e con riferimento a settori in cui non si dubita che la norma alluda allo Stato-persona, il codice civile lo indica semplicemente come “Stato” (ad es. all’art. 586) senza ulteriori specificazioni; in giurisprudenza, inoltre, la norma è stata interpretata nel senso che essa allude al patrimonio dello Stato (persona) e non di altre Amministrazioni pubbliche (cfr. Cass. Civ. n. 2862/1995).
Infine merita ricordare che con l’art. 1, comma 260, della L. 296/2006 il legislatore ha confermato la spettanza allo Stato (persona) dei beni “vacanti” e di quelli relativi alle eredità giacenti, stabilendo che con decreto interministeriale (peraltro ad oggi non ancora emanato) dovessero essere indicati i criteri utili ad individuare tali beni.
   26.1. Risulta quindi non condivisibile quanto afferma la pronuncia del Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 4636 del 07.11.2016, secondo la quale “Con riferimento alla specifica ipotesi in cui il proprietario formuli non già domanda di restituzione ovvero di riduzione in pristino del proprio bene illecitamente occupato dall'amministrazione, bensì di risarcimento del danno patito (con effetti abdicativi del diritto di proprietà), muovendo da tali principi, occorre ancora affermare che: a) stante la natura abdicativa e non traslativa dell'atto di rinuncia, il provvedimento con il quale l'amministrazione procede alla effettiva liquidazione del danno -rappresentando il mancato inveramento della condizione risolutiva implicitamente apposta dal proprietario al proprio atto abdicativo che di esso rappresenta il presupposto- costituisce atto da trascriversi ai sensi degli artt. 2643, primo comma, n. 5 e 2645 cod. civ., anche al fine di conseguire gli effetti della acquisizione del diritto di proprietà in capo all'amministrazione, a far data dal negozio unilaterale di rinuncia”: non è condivisibile, a tacer d’altro, per l’intrinseca contraddizione insita nell’affermazione secondo cui la rinunzia avrebbe carattere abdicativo e tuttavia l’acquisto del bene oggetto di rinunzia dovrebbe avvenire in capo alla amministrazione che liquida il danno, e cioè alla amministrazione occupante, e non già in capo allo Stato.
      26.1.1. Infatti -si ricorda- la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha sempre qualificato la rinunzia del privato alla proprietà del bene occupato come rinunzia abdicativa, ma da essa consegue –secondo la ricostruzione che qui si avversa- che il bene occupato a seguito della rinunzia rimane per un istante senza proprietario, res nullius per poi entrare nel patrimonio dello Stato, e non già nel patrimonio di altra amministrazione; e la stessa sentenza della Corte di Cassazione n. 735/2015 afferma espressamente che l’amministrazione occupante non acquista il bene occupato per effetto della rinunzia, trattandosi di rinunzia abdicativa e non traslativa.
      26.1.2. Quanto affermato dal Consiglio di Stato nella sopra ricordata pronuncia risulta dunque non condivisibile non solo perché, in conformità con l’orientamento in questo momento prevalente, ammette la possibilità di esercitare la rinunzia abdicativa della proprietà immobiliare anche al di fuori dei casi ammessi dal codice civile, ma prima ancora perché afferma, erroneamente ad avviso del Collegio, che la proprietà del bene rinunziato viene acquisita in capo alla amministrazione occupante.
   26.2. La giurisprudenza, sia della Corte di Cassazione che quella del Consiglio di Stato, non sembra essersi interrogata circa le incongruenze che derivano dall’ammettere che il privato possa rinunziare unilateralmente al proprio diritto di proprietà facendo conseguire da tale manifestazione di volontà l’obbligo della amministrazione occupante di risarcire il privato di un valore commisurato all’intero valore del bene.
      26.2.1. Dal momento che l’amministrazione occupante non diventa proprietaria del bene non si comprende, anzitutto, per quale ragione essa debba corrispondere un danno commisurato all’intero valore venale del bene, stante che il bene stesso non viene distrutto. Sul punto mette conto sottolineare che a seguito della evoluzione di cui sopra si è dato conto e che ha portato a riconoscere che il privato non perde la proprietà del bene per effetto della trasformazione impressa dalla attività manipolatrice della amministrazione occupante, in giurisprudenza –soprattutto quella amministrativa– si è progressivamente consolidato il principio secondo cui la restituzione del bene deve ritenersi sempre possibile, e doverosa, perché in realtà nulla, se non fattori di natura meramente economica, impedisce il ripristino del bene allo stato originario e la restituzione di esso (C.d.S. Sez. IV, n. 1466/2015, punto 2.1., con la giurisprudenza ivi richiamata; C.d.S., Sez. IV - sentenza 02.09.2011 n. 4970; C.d.S. Sez. IV - sentenza 15.09.2014, n. 4696; C.d.S. Sez. IV - sentenza 29.04.2014, n. 2232).
Né si deve trascurare di considerare che il privato, rimanendo proprietario del fondo occupato diventa automaticamente proprietario anche dell’opera che su di esso è stata realizzata, opera che il più delle volte può essere sfruttata economicamente anche da privati e che pertanto costituisce per il privato una fonte di arricchimento, più che di impoverimento. Dipoi si deve considerare che, anche ammessa la possibilità per il privato di abdicare unilateralmente al proprio diritto, il bene esce dal di lui patrimonio per effetto di una manifestazione di volontà unilaterale di quest’ultimo, manifestazione che, per definizione, non è qualificata da un vizio di volontà, ed in particolare da coartazione.
Quindi non si comprende proprio per quale motivo, a fronte della manifestazione di una volontà abdicativa del proprio diritto di proprietà, al proprietario dovrebbe sempre ed invariabilmente essere riconosciuto il diritto ad ottenere un risarcimento commisurato, sostanzialmente, al valore venale di un bene che non ha mai perso, che ha diritto a vedersi restituire allo stato originario (fatte salve eventuali valutazioni in senso contrario nelle situazioni rilevanti ai sensi dell’art. 2933 c.c.) e che molte volte vede il suo valore economico accresciuto rispetto al momento della occupazione. Né pare possibile che la domanda risarcitoria possa condizionare la rinunzia abdicativa manifestata dal privato, la quale reca in sé la non onerosità e la rinuncia del privato rinunziante a pretendere qualsivoglia corrispettivo, proprio perché si tratta di rinunzia che non ha un destinatario e che non vuole conseguire altro scopo se non quello di dismettere la proprietà del bene.
      26.2.2. In secondo luogo si deve sottolineare che non esiste una norma specifica che obblighi lo Stato a ritrasferire alla amministrazione occupante, gratuitamente o anche solo ad un prezzo simbolico, il bene occupato, alla cui proprietà il privato ha rinunziato e che per tale ragione sarebbe entrato a far parte del patrimonio dello Stato: le amministrazioni occupanti, quindi, a fronte della unilaterale rinunzia manifestata dal privato si trovano onerate dall’obbligo di sborsare una somma commisurata al valore del bene, corrisposta al privato, oltre all’obbligo di sborsare una ulteriore somma danaro necessaria per riacquistare il bene dallo Stato: il Collegio non ignora che esiste una normativa che ad alcune condizioni consente, tra amministrazioni pubbliche, di effettuare trasferimenti di proprietà a prezzi significativamente inferiori a quelli di mercato, ma anche così lo Stato potrebbe pretendere il pagamento di un prezzo, che si aggiungerebbe al risarcimento già corrisposto al privato, salvo che lo Stato e l’amministrazione occupante non si accordino, su base totalmente volontaria, per attuare il trasferimento dell’immobile ad un prezzo simbolico o a titolo di donazione o comunque ad un titolo che non comporti corresponsione di prezzo alcuno.
27.
Come si vede sono numerose e gravi le conseguenze insite nell’ammettere che il privato possa sempre rinunziare unilateralmente al proprio diritto di proprietà su un bene immobile, e tali conseguenze sono ancor più gravi ove oggetto di rinunzia sia un bene occupato e trasformato per realizzarvi un’opera di pubblica utilità: si tratta in tutti i casi di conseguenze che, sia pure in modi diversi, vanno a gravare sulla finanza pubblica.
  
27.1. Che si tratti di un problema molto sentito nella prassi e, quindi, possibilmente foriero di conseguenze incalcolabili, o quasi, è testimoniato dal fatto sono sempre più numerosi i casi in cui privati proprietari manifestano l’intenzione di voler abdicare, con atto notarile, al proprio diritto di proprietà su un immobile, esattamente allo scopo di sottrarsi agli obblighi fiscali nonché agli obblighi di custodia e manutenzione che la proprietà di un bene immobile comporta, al punto che la questione è stata fatta oggetto dello studio civilistico n. 216-2014/C dell’Ufficio Studi del Consiglio Nazionale del Notariato, il quale nella premessa spiega che “Il presente studio nasce a seguito di molteplici quesiti pervenuti all’Ufficio studi aventi ad oggetto la possibilità da parte del Notaio di ricevere atti di rinunzia ai diritti reali, nonché la disciplina e gli effetti dei medesimi. Il tema in esame risulta essere particolarmente interessante, sia da un punto di vista prettamente teorico e dogmatico, sia da un punto di vista pratico, tanto più in un contesto socio-economico, quale quello attuale, in cui atti del genere possono risultare frequenti, stante la crisi economica e la forte pressione fiscale. Spesso infatti le fattispecie in cui può emergere la volontà rinunziativa della parte hanno ad oggetto beni e diritti dei quali non si vuole più sostenere l’onere tributario, ovvero che non sono più di interesse, in quanto di scarso valore e praticamente ingestibili (si pensi ad un piccolo fabbricato fatiscente inservibile ovvero alla quota di comproprietà su un piccolo terreno infruttuoso sito in una località molto distante da quella di residenza). Le fattispecie più rilevanti, tra quelle esaminate, sembrano essere quella della rinunzia al diritto di proprietà nonché alla quota indivisa di comproprietà, forse anche perché ritenute le più inconsuete, tanto da dubitarsi –almeno nel sentire comune– persino della loro ammissibilità. La dottrina che se ne è occupata in passato, del resto, le ha quasi sempre considerate come ipotesi di scuola, oggetto di un interesse prettamente teorico, ma che oggi possono divenire concretamente praticabili.”.
L’indicato studio conclude nel senso della ammissibilità della rinunzia abdicativa alla proprietà esclusiva di un bene immobile, e quindi è prevedibile che nella prassi tali rinunzie cominceranno ad aumentare e a diventare numerose.
28.
Tali considerazioni convincono definitivamente il Collegio che occorre grande prudenza prima di affermare che nel nostro ordinamento la rinunzia abdicativa ai diritti reali, ed in particolare alla proprietà esclusiva su un bene immobile, sia un istituto generalmente ammesso dal legislatore: la considerazione delle gravi conseguenze, per la finanza pubblica, derivanti dall’ammettere senza limiti la rinunzia abdicativa ai diritti reali immobiliari, anche fuori dai casi contemplati dal codice, avrebbe dovuto spingere il legislatore ad esprimersi con norme chiare e specifiche, ciò che non é.
29. Per le ragioni esposte nei paragrafi che precedono
il Collegio non crede che il corredo normativo esistente, di cui sopra si è dato conto, giustifichi la affermazione secondo cui la rinunzia abdicativa è ammessa in via generale dal nostro ordinamento e che, conseguentemente, può essere esercitata anche fuori dalle ipotesi disciplinate dal codice civile, segnatamente con riferimento al diritto di proprietà su beni immobili.
Essa rinunzia non può essere desunta in via interpretativa da norme che disciplinano casi specifici di rinunzia abdicativa, dalle quali semmai si dovrebbe ricavare che il legislatore ha voluto ammettere solo casi tipici. Né essa rinunzia si può evincere, in maniera chiara, senza ricorso a forzature interpretative e senza pretendere di “riempire” vuoti normativi, dalle ulteriori norme codicistiche che sopra sono state esaminate: gli articoli 1350 n. 5 e 2643 n. 5, in particolare, facendo riferimento alla rinunzia ai diritti immobiliari possono e debbono interpretarsi, prima di tutto, nel senso che si riferiscono ai casi di rinunzia a diritti reali espressamente disciplinati dal codice (ad esempio: la rinunzia a diritti reali minori; la rinunzia alla quota di proprietà pro indiviso) ovvero, comunque, a casi di rinunzia traslativa, e non abdicativa; d’altro canto l’art. 827 c.c. non contiene alcun riferimento alla rinunzia abdicativa a diritti immobiliari e segnatamente alla rinunzia al diritto di proprietà, né, peraltro, tale norma contiene riferimento alcuno agli atti e fatti giuridici che possono aver dato luogo alla esistenza di beni immobili privi di proprietario.
Valga infine la considerazione che tutti i casi di rinunzia a diritti reali contemplati dal codice civile, che la dottrina per lo più qualifica come ipotesi di rinunzia non ricettizia, facendone discendere la natura abdicativa, non rendono mai il bene oggetto del diritto rinunziato privo di proprietario, a differenza di quanto accadrebbe ammettendo che il proprietario singolo di un bene possa unilateralmente abdicare alla proprietà di esso: è quindi lecito presumere che il legislatore abbia ammesso (solo) quelle fattispecie di rinunzia abdicativa a diritti immobiliari che non determinano una “vacatio” nella titolarità del bene, il che conferma, semmai ve ne fosse ancora bisogno, che la rinunzia abdicativa a diritti reali non può considerarsi ammessa in via generale, con conseguente nullità degli atti che ne costituiscono espressione.

30.
Il Collegio ritiene, conclusivamente, di doversi discostare dal pressoché unanime e costante orientamento della giurisprudenza civile ed amministrativa che ancora oggi ammette la possibilità, per il privato, il cui bene immobile sia stato illegittimamente occupato per la realizzazione di un’opera di pubblica utilità, di abdicare unilateralmente alla proprietà di esso: ciò in primo luogo perché deve ritenersi non consentita dal nostro ordinamento giuridico la rinunzia abdicativa alla proprietà esclusiva su beni immobili; in secondo luogo perché una tale rinunzia abdicativa all’attualità deve comunque ritenersi non consentita con riferimento a beni immobili illegittimamente occupati per scopi di pubblica utilità.
31.
La domanda risarcitoria formulata dalla ricorrente per vedersi indennizzare della perdita del valore dell’intero terreno deve pertanto essere respinta.
32.
La ricorrente resta però proprietaria della porzione di terreno che risulta occupata dalla strada, e di essa, conformemente alla giurisprudenza che si era ormai consolidata a partire dalla fine degli anni 2000 e che prevede che i beni non espropriati debbono essere restituiti ovvero acquisiti in proprietà nelle forme previste dall’ordinamento (compravendita; esproprio; acquisizione ex art. 42-bis), la ricorrente può chiedere ed ottenere la restituzione, ciò che non ha fatto nel presente giudizio.
Il Collegio non può quindi disporre la restituzione, a meno di incorrere nella violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato. La ricorrente potrà agire in separata sede per ottenere tale restituzione, fermo restando, tuttavia, che anche dopo la restituzione il Comune di Cherasco manterrà la facoltà di acquisire il bene nelle forme dianzi indicate.

33.
Relativamente al danno conseguente al periodo di occupazione, conformemente ai più recenti approdi giurisprudenziali va riconosciuto alla ricorrente il danno conseguente al non aver potuto disporre della porzione di sedime occupata: “posto che la proprietà è la facoltà di godere e disporre del bene, la privazione della facoltà di godimento lascia presumere la lesione del diritto reale, peraltro caratterizzato, a differenza dei diritti relativi, da una atipicità delle possibili forme d'uso. Il proprietario, pertanto, non deve dimostrare positivamente il danno; grava, viceversa, sull'occupante l'onere della prova circa il fatto che il dominus si sia consapevolmente disinteressato dell'immobile ed abbia omesso di esercitare su di esso ogni pur ridotta forma di utilizzazione (cfr., da ultimo, Cass., Sez. 3, 09.08.2016, n. 16670; Sez. 2, 15.10.2015, n. 20823; Sez. 2, 07.08.2012, n. 14222; Cons. Stato, Sez. IV, 27.02.2017, n. 897)”: così C.d.S. Sez. IV n. 5574 del 28/11/2017 (pronuncia dalla quale il Collegio evidentemente si discosta, invece, per le sopra esposte ragioni, in punto ammissibilità della rinunzia abdicativa della proprietà da parte del privato e della correlativa domanda risarcitoria da questi formula).
34.
Il Collegio ritiene di poter procedere equitativamente alla liquidazione del danno, dal momento che, in ragione della modesta superficie occupata, una verificazione sul punto sarebbe antieconomica. Tenuto conto del fatto che la ricorrente nel 2011 ha venduto la residua parte del terreno al prezzo di E. 4.02/mq, assumendo che tale prezzo sia frutto di una svalutazione dovuta alla occupazione, il Collegio ritiene che esso possa rappresentare il valore venale del bene nel 2008, al momento della apprensione. Alla ricorrente spetta dunque un danno “da sottrazione” del bene che va quantificato, per ogni anno di occupazione, in ragione del 5% del valore venale del bene occupato, ovvero il 5% annuo di Euro 361,80 (Euro 4,02/mq x 90 mq.) dal momento della occupazione (01.02.2008) al momento della notificazione della domanda giudiziale (16.02.2011). A detta somma devono aggiungersi la rivalutazione monetaria e gli interessi al tasso legale computati sulla somma anno per anno rivalutata sino al soddisfo.
35. La complessità dei temi trattati giustifica la compensazione delle spese.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, ogni diversa domanda rigettata così provvede:
   - dichiara improcedibile la domanda di annullamento del provvedimento in epigrafe indicato;
   - accoglie la domanda risarcitoria limitatamente al danno mancato godimento del sedime di terreno oggetto di illegittima occupazione, nei limiti indicati al paragrafo 33.1.;
   - per l’effetto condanna il Comune di Cherasco al pagamento, in favore della ricorrente, delle somme indicate al paragrafo 34.

ESPROPRIAZIONE: Interesse ad impugnare la revoca della procedura espropriativa.
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Espropriazione per pubblica utilità – Revoca – Impugnazione – Interesse all’annullamento – Individuazione.
L’effettivo interesse azionato dal soggetto che impugna la revoca della procedura di esproprio, chiedendo che il procedimento si svolga fino all’esito dell’espropriazione delle aree di proprietà, è relativo agli effetti patrimoniale della procedura, e cioè alla riscossione dell’intera indennità di esproprio e al risarcimento dei danni che l’interessato pretende gli siano fin qui derivati (1).
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   (1) Ha ricordato il Tar che i provvedimenti di revoca si configurano in generale come tipici atti di natura discrezionale, come tali sindacabili solo per vizi esterni e la discrezionalità in merito dell’Amministrazione risulta ancor più ampia quando la revoca va ad incidere su rapporti non ancora consolidati.
Ciò posto, se del tutto ragionevolmente e legittimamente è stata disposta la revoca, anche il recupero di quanto già liquidato, deciso dall’amministrazione con il provvedimento impugnato in principalità risulta coerente con il diritto di ripetere il pagamento eseguito a favore del privato a titolo di indennità di espropriazione A tale proposito valgono, infatti, le regole della ripetizione dell'indebito, essendo l'art. 2033 c.c., applicabile anche nel caso di sopravvenienza della causa che rende indebito il pagamento (Cass., s.u., nn. 5624 e 14886 del 2009).
Quanto, poi, alla doglianza relativa alla mancata previsione, nell’impugnato provvedimento di revoca, dell’indennizzo che l’art. 21-quinquies, comma 1, ultima parte, l. 07.08.1990, n.241 stabilisce quale obbligo a carico dell’amministrazione, vale innanzitutto premettere che la revoca che non prevede l’indennizzo non è illegittima, non avendo tale omissione effetto viziante o invalidante della revoca, ma semplicemente legittimando il privato ad azionare in giudizio la pretesa patrimoniale.
In disparte il fatto che l’indennizzo, quale rimedio a valenza latu sensu risarcitoria è per sua natura connesso alla revoca di provvedimenti favorevoli, mentre, come si è premesso, nella fattispecie viene revocato un atto di una procedura tipicamente sfavorevole, vale, tuttavia, fin d’ora anche puntualizzare che la revoca in esame incide, come si è detto, in una fase del procedimento di esproprio non ancora concluso con il provvedimento finale (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 02.03.2018 n. 50 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2017

ESPROPRIAZIONE: Come noto, la dichiarazione di pubblica utilità è correlata all’approvazione del progetto definitivo dell’opera pubblica (cfr. al riguardo il consolidato orientamento giurisprudenziale, formatosi sulla scorta della decisioni dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con le decisioni 15.09.1999, n. 14, 24.01.2000, n. 2, del 20.12.2002 n. 8, secondo il quale al privato proprietario di un'area destinata all'espropriazione, siccome interessata dalla realizzazione di un'opera pubblica, dev'essere garantita, mediante la formale comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento, la possibilità di interloquire con l'amministrazione procedente sulla sua localizzazione e, quindi, sull'apposizione del vincolo, prima della dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell'approvazione del progetto definitivo).
Ciò posto, il Collegio esprime l’avviso che, sebbene la giurisprudenza sul punto non sia unanime, il riconoscimento dell’assenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità o il suo annullamento in sede giurisdizionale abbia un effetto caducante e non meramente viziante sul decreto di esproprio che pertanto resta travolto, come del resto tutti gli altri atti della procedura espropriativa, senza necessità della loro impugnativa.
La rimozione delle determinazioni che ab origine hanno dato l'abbrivio alla procedura ablatoria oltre a comportare l’illegittimità dell'occupazione dei suoli avvenuta sine titulo produce un effetto "domino", con l'invalidazione dei successivi atti del procedimento espropriativo ivi compreso quello conclusivo, rappresentato dal decreto finale di esproprio che viene anch'esso travolto.
Pertanto non rileva la circostanza che parte ricorrente non abbia eventualmente impugnato tempestivamente il decreto di esproprio, in quanto il venire meno della dichiarazione di pubblica utilità –nell’ipotesi di specie a seguito della sentenza di questa Sezione, confermata dal Consiglio di Stato– determina un effetto automaticamente caducante, derivante dalla invalidità degli atti presupposti, senza che si possa configurare a carico della parte interessata un onere di impugnazione del decreto finale di esproprio.
Tra la dichiarazione di pubblica utilità e il decreto di esproprio infatti corre un rapporto di necessaria presupposizione, tale per cui l'annullamento del primo non ha sul secondo effetti meramente vizianti, bensì caducanti. Vero è, infatti, che il decreto di esproprio può essere adottato solo in presenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità. Conseguentemente, l'annullamento giurisdizionale della dichiarazione di p.u. comporta l'automatica caducazione degli effetti del decreto di esproprio nel frattempo emesso, anche laddove non tempestivamente e ritualmente impugnato.
Si è infatti osservato che l'atto dichiarativo della pubblica utilità, implicito nella delibera di approvazione del progetto di opera pubblica, determina l'affievolimento a interesse legittimo del diritto soggettivo del proprietario espropriando e la costituzione, in capo all'Amministrazione, del potere espropriativo, con conseguente onere per il primo, in ragione del carattere immediatamente lesivo dell'atto in questione, di tempestiva impugnazione dello stesso anche ai fini dell'eventuale annullamento, in virtù dell'effetto caducante determinato dalla sua eliminazione dal mondo della realtà giuridica, del decreto di espropriazione successivamente adottato, che deve risultare sorretto da valida ed efficace dichiarazione di pubblica utilità.
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14.1. Pertanto occorre rilevare che la citata sentenza di annullamento non ha riguardato soltanto, contrariamente a quanto osservato dalla difesa del Comune, gli atti relativi all’occupazione d’urgenza, ma gli stessi atti fondanti della procedura espropriativa di cui è causa ed in primis il decreto del commissario delegato dalla P.C.M., Prefetto di Napoli, n. P/15544/DIS del 30/09/1995 di approvazione del progetto esecutivo per la realizzazione di una discarica alla località “Masseria del Pozzo” del Comune di Giugliano.
Risulta pertanto evidente come la pronuncia di annullamento abbia riguardato anche la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera di cui è causa.
Infatti, come noto, la dichiarazione di pubblica utilità è correlata all’approvazione del progetto definitivo dell’opera pubblica (cfr. al riguardo il consolidato orientamento giurisprudenziale, formatosi sulla scorta della decisioni dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con le decisioni 15.09.1999, n. 14, 24.01.2000, n. 2, del 20.12.2002 n. 8, secondo il quale al privato proprietario di un'area destinata all'espropriazione, siccome interessata dalla realizzazione di un'opera pubblica, dev'essere garantita, mediante la formale comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento, la possibilità di interloquire con l'amministrazione procedente sulla sua localizzazione e, quindi, sull'apposizione del vincolo, prima della dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell'approvazione del progetto definitivo; per tutte Consiglio di Stato, IV, 11.11.2014, n. 5525).
14.2. Ciò posto, il Collegio esprime l’avviso che, sebbene la giurisprudenza sul punto non sia unanime, il riconoscimento dell’assenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità o il suo annullamento in sede giurisdizionale abbia un effetto caducante e non meramente viziante sul decreto di esproprio che pertanto resta travolto, come del resto tutti gli altri atti della procedura espropriativa, senza necessità della loro impugnativa (Cons. St., sez. IV, n. 4193 del 2015; Cons. Stato, sez. IV, 03/10/2012, n. 5189; Cons. Stato, Sez. IV, 29/01/2008, n. 258; TAR Sardegna, sez. II, 18/04/2005, n. 776; TAR Napoli, sez. IV n. 385/2014).
La rimozione delle determinazioni che ab origine hanno dato l'abbrivio alla procedura ablatoria oltre a comportare l’illegittimità dell'occupazione dei suoli avvenuta sine titulo produce un effetto "domino", con l'invalidazione dei successivi atti del procedimento espropriativo ivi compreso quello conclusivo, rappresentato dal decreto finale di esproprio che viene anch'esso travolto.
Pertanto non rileva la circostanza che parte ricorrente non abbia eventualmente impugnato tempestivamente il decreto di esproprio, in quanto il venire meno della dichiarazione di pubblica utilità –nell’ipotesi di specie a seguito della sentenza di questa Sezione, confermata dal Consiglio di Stato– determina un effetto automaticamente caducante, derivante dalla invalidità degli atti presupposti, senza che si possa configurare a carico della parte interessata un onere di impugnazione del decreto finale di esproprio (Cons. Stato, sez. IV, 03/10/2012, n. 5189; Cons. Stato Sez. IV, 29/01/2008 n. 258; Cons. Stato, Sez. IV, 30/12/2003 n. 9155; Cons. Stato Sez. IV, 30/06/2003 n. 3896).
Tra la dichiarazione di pubblica utilità e il decreto di esproprio infatti corre un rapporto di necessaria presupposizione, tale per cui l'annullamento del primo non ha sul secondo effetti meramente vizianti, bensì caducanti. Vero è, infatti, che il decreto di esproprio può essere adottato solo in presenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità. Conseguentemente, l'annullamento giurisdizionale della dichiarazione di p.u. comporta l'automatica caducazione degli effetti del decreto di esproprio nel frattempo emesso, anche laddove non tempestivamente e ritualmente impugnato (TAR Bolzano, (Trentino-Alto Adige), sez. I, 12/09/2016, n. 394; Cons. St., sez. IV, n. 4193 del 2015; id., n. 5189 del 2012).
Si è infatti osservato che l'atto dichiarativo della pubblica utilità, implicito nella delibera di approvazione del progetto di opera pubblica, determina l'affievolimento a interesse legittimo del diritto soggettivo del proprietario espropriando e la costituzione, in capo all'Amministrazione, del potere espropriativo, con conseguente onere per il primo, in ragione del carattere immediatamente lesivo dell'atto in questione, di tempestiva impugnazione dello stesso anche ai fini dell'eventuale annullamento, in virtù dell'effetto caducante determinato dalla sua eliminazione dal mondo della realtà giuridica, del decreto di espropriazione successivamente adottato, che deve risultare sorretto da valida ed efficace dichiarazione di pubblica utilità (Consiglio di Stato, sez. IV, 16/03/2010, n. 1540).
14.2.1. Pertanto il ricorso, nella sua parte impugnatoria è fondato, a prescindere dalla tempestività della notifica del ricorso e dalla delibazione delle censure articolate in ricorso, in quanto, come osservato del resto da parte ricorrente nelle memorie successivamente depositate nel corso del giudizio, l’intera procedura ablatoria, culminata poi nel decreto di esproprio oggetto di impugnativa nella presente sede, deve intendersi travolta, a seguito del giudicato formatosi sulla sentenza di questa Sezione n. 243/1997.
La domanda impugnatoria, in quanto volta ad evidenziare il vizio genetico, con effetto caducante, dell’intera procedura, va pertanto accolta e per l’effetto va annullato il Decreto prot. n. P/38455/DIS del 16/11/1998, con il quale il Prefetto di Napoli, Commissario delegato ex OPCM 07/10/1994 ha pronunciato l’espropriazione definitiva a favore del Comune di Giugliano in Campania dei beni immobili di proprietà della società EC. srl siti nel Comune di Giugliano in Campania in località Masseria del Pozzo, determinando le relative indennità (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 21.11.2017 n. 5479 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Le pronunce di incostituzionalità delle leggi -come noto- hanno effetto erga omnes, a nulla valendo la circostanza che parte ricorrente non sia stata parte del giudizio a quo, né rileva che la stessa non sia stata parte dei giudizi impugnatori avverso la procedura espropriativa, in quanto con la declaratoria di incostituzionalità della citata L.R. è venuta meno la dichiarazione di pubblica utilità che costituisce il fondamento di tutta l’unitaria procedura espropriativa, con effetto pertanto caducante della medesima.
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Sebbene la giurisprudenza sul punto non sia unanime, il riconoscimento dell’assenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità o il suo annullamento in sede giurisdizionale abbia un effetto caducante e non meramente viziante sul decreto di esproprio che pertanto resta travolto, come del resto tutti gli altri atti della procedura espropriativa, senza necessità della loro impugnativa.
La rimozione delle determinazioni che ab origine hanno dato l'abbrivio alla procedura ablatoria oltre a comportare l’illegittimità dell'occupazione dei suoli avvenuta sine titulo produce un effetto "domino", con l'invalidazione dei successivi atti del procedimento espropriativo ivi compreso quello conclusivo, rappresentato dal decreto finale di esproprio che viene anch'esso travolto, come ritenuto nell’ipotesi di specie, in relazione alla procedura de qua, dalla sentenza di questa Sezione, n. 8904/2008, con la quale si è annullato il decreto di esproprio a seguito della cennata pronuncia della Corte Costituzionale.
Peraltro non rileva la circostanza che parte ricorrente non sia stata parte dei giudizi impugnatori in quanto il venire meno della dichiarazione di pubblica utilità –nell’ipotesi di specie a seguito della pronuncia della Consulta– determina un effetto automaticamente caducante, derivante dalla invalidità degli atti presupposti, senza che si possa configurare a carico della parte interessata un onere di impugnazione del decreto finale di esproprio.
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11.1. Entrambi gli assunti non colgono nel segno.
Ed invero, le pronunce di incostituzionalità delle leggi -come noto- hanno effetto erga omnes, a nulla valendo la circostanza che parte ricorrente non sia stata parte del giudizio a quo, né rileva che la stessa non sia stata parte dei giudizi impugnatori avverso la procedura espropriativa, in quanto con la declaratoria di incostituzionalità della citata L.R. è venuta meno la dichiarazione di pubblica utilità che costituisce il fondamento di tutta l’unitaria procedura espropriativa, con effetto pertanto caducante della medesima.
Al riguardo Collegio esprime infatti l’avviso che, sebbene la giurisprudenza sul punto non sia unanime, il riconoscimento dell’assenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità o il suo annullamento in sede giurisdizionale abbia un effetto caducante e non meramente viziante sul decreto di esproprio che pertanto resta travolto, come del resto tutti gli altri atti della procedura espropriativa, senza necessità della loro impugnativa (Cons. Stato, sez. IV, 03/10/2012, n. 5189; Cons. Stato, Sez. IV, 29/01/2008, n. 258; TAR Sardegna, sez. II, 18/04/2005, n. 776; TAR Napoli, sez. IV n. 385/2014).
La rimozione delle determinazioni che ab origine hanno dato l'abbrivio alla procedura ablatoria oltre a comportare l’illegittimità dell'occupazione dei suoli avvenuta sine titulo produce un effetto "domino", con l'invalidazione dei successivi atti del procedimento espropriativo ivi compreso quello conclusivo, rappresentato dal decreto finale di esproprio che viene anch'esso travolto, come ritenuto nell’ipotesi di specie, in relazione alla procedura de qua, dalla sentenza di questa Sezione, n. 8904/2008, con la quale si è annullato il decreto di esproprio a seguito della cennata pronuncia della Corte Costituzionale.
Peraltro non rileva la circostanza che parte ricorrente non sia stata parte dei giudizi impugnatori in quanto il venire meno della dichiarazione di pubblica utilità –nell’ipotesi di specie a seguito della pronuncia della Consulta– determina un effetto automaticamente caducante, derivante dalla invalidità degli atti presupposti, senza che si possa configurare a carico della parte interessata un onere di impugnazione del decreto finale di esproprio (Cons. Stato, sez. IV, 03/10/2012, n. 5189; Cons. Stato Sez. IV, 29/01/2008 n. 258; Cons. Stato, Sez. IV, 30/12/2003 n. 9155; Cons. Stato Sez. IV, 30/6/2003 n. 3896) (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 02.11.2017 n. 5109 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Legittimato passivo della pretesa risarcitoria da occupazione illegittima nel caso di successione a titolo particolare tra enti.
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Espropriazione per pubblica utilità – Indennità di esproprio – Creazione nuovo ente locale per effetto di distacco di una parte del territorio di un altro preesistente – Transito debito indennitario – Esclusione.
Espropriazione per pubblica utilità – Occupazione illegittima – Risarcimento danni - Conseguente rinuncia alla proprietà del bene.
In tema di procedure ablative, nel caso di creazione di un ulteriore ente locale mediante distacco di una parte del territorio di un altro preesistente, non è possibile far transitare nel patrimonio del nuovo il debito indennitario già sorto a carico del vecchio per effetto di un decreto di esproprio emesso prima della sua istituzione; invece, il debito maturato successivamente alla creazione dell’ente grava su quest’ultimo, in quanto titolare dei relativi poteri, oltre che soggetto beneficiario dell’espropriazione, la quale non può che avvenire in suo favore, una volta che il bene è entrato a far parte del territorio del nuovo ente (1).
Il privato, che abbia subito un’occupazione illegittima, fermo restando il diritto alla restituzione del bene, può chiedere il solo risarcimento del danno subito, rinunciando in tal modo alla proprietà del bene ed alla sua restituzione (in quanto non interessato a quest’ultima) (2).

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   (1) Ha chiarito il Tar che occorre, al fine di accertare quale sia il soggetto legittimato passivo della pretesa risarcitoria da occupazione illegittima nel caso di successione a titolo particolare tra enti, indagare sul momento in cui è sorto il debito risarcitorio.
Quanto alla questione della decorrenza del termine prescrizionale a fronte dell’illecito da occupazione illegittima, specificando che: appare palese la natura permanente dell'illecito della P.A. finché dura l’illegittima occupazione del bene in assenza di un valido titolo che determini il trasferimento della proprietà in capo ad essa, onde non si configura alcuna prescrizione del relativo diritto al risarcimento; il termine quinquennale di detta prescrizione non decorre finché v’è tal illecito ed al più esso inizia a farlo solo dalla proposizione della domanda per quanto riguarda la reintegrazione per equivalente o dalle singole annualità relativamente alla domanda risarcitoria sul mancato godimento del bene (Cons. St., sez. IV, n. 4636 del 2016; id. n. 5364 del 2016); la domanda a cui si fa riferimento, ai fini della cessazione dell’illecito e quindi della decorrenza della detta prescrizione, non può certo essere una generica domanda di pagamento di indennità di esproprio, sulla quale, peraltro, l’amministrazione nega la propria legittimazione passiva, occorrendo, piuttosto, una rinuncia abdicativa (implicita alla richiesta di risarcimento dei danni per equivalente), capace di determinare la cessazione dell’illecito ed in cui la liquidazione del danno da parte dell’amministrazione rappresenta il mancato inveramento della condizione risolutiva implicitamente apposta al proprietario al proprio atto abdicativo, che di esso rappresenta il presupposto; il che comporta la sussistenza di elementi nel caso non riscontrati.
   (2) Cons. St., sez. IV, 30.06.2017, n. 3234.
Ha chiarito il Tar che la rinuncia alla proprietà del bene ha carattere meramente abdicativo e non traslativo, con la conseguenza che da essa non può conseguire, quale effetto automatico, l’acquisto della proprietà del fondo da parte dell’Amministrazione; in tale ipotesi il provvedimento con il quale l’amministrazione procede alla effettiva liquidazione del danno, rappresentando il mancato inveramento della condizione risolutiva implicitamente apposta dal proprietario al proprio atto abdicativo, che di esso rappresenta il presupposto, costituisce atto da trascriversi ai sensi degli artt. 2643, comma 1, n. 5 e 2645 cod. civ., anche al fine di conseguire gli effetti dell’acquisizione del diritto di proprietà in capo all’amministrazione, a far data dal negozio unilaterale di rinuncia (Cons. St., sez. IV, n. 4636 del 2016) (
TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 20.07.2017 n. 1170 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
1.1. Va premesso che, contrariamente a quanto ritenuto da parte ricorrente, l’eccezione sollevata dalla Provincia di Catanzaro non è tardiva, atteso che il difetto di legittimazione passiva può essere dedotto in ogni stato e grado del processo, senza limiti di decadenza; essa, però, parimenti a quella sollevata dalla Provincia di Vibo Valentia, è infondata.
1.2. A questo riguardo, conviene innanzitutto ricordare che,
proprio in tema di procedure ablative, la Suprema Corte ha in più occasioni affermato (v. C. Cass. 1999/398, 2001/7258 e 2002/11045) che, nel caso di creazione di un ulteriore ente locale mediante distacco di una parte del territorio di un altro preesistente, non è possibile far transitare nel patrimonio del nuovo il debito indennitario già sorto a carico del vecchio per effetto di un decreto di esproprio emesso prima della sua istituzione (v., negli stessi termini, anche C. Cass. 1983/6106, peraltro pronunciata in un'ipotesi di accessione invertita); nel caso, invece, di debito maturato successivamente alla creazione dell’ente, esso grava su quest’ultimo, in quanto titolare dei relativi poteri, oltre che soggetto beneficiario dell’espropriazione, la quale non può che avvenire in suo favore, una volta che il bene è entrato a far parte del territorio del nuovo ente.
Occorre, quindi, al fine di accertare quale sia il soggetto legittimato passivo della pretesa risarcitoria in questione (essendo quella indennitaria, giova ricordare, stata rimessa alla giurisdizione del giudice ordinario, per come esposto in fatto), indagare sul momento in cui è sorto il debito risarcitorio, ossia se in epoca anteriore o successiva alla costituzione della Provincia di Vibo Valentia.
...
2. Va rigettata, poi, l’eccezione di prescrizione sollevata dalla Provincia di Catanzaro nei propri confronti, a fronte di un illecito permanente, qual è quello in questione, con le dovute conseguenze sul piano della prescrizione, come meglio specificate al successivo punto 3.
Nel caso, comunque, innanzi ai detti decreti di occupazione (del 17/02/1986 e del 20/03/1990), come prorogati in forza dell’art. 14, comma 2, d.l. n. 534/1987 e art. 22 L. n. 158/1991, è incontestato che i ricorrenti hanno richiesto all’amministrazione provinciale (con note del 19.01.2000 e del 02.04.2001) il pagamento della somma dovuta e che, con atto di citazione, notificato il 15/12/2005, hanno intrapreso nei suoi confronti la causa innanzi al giudice ordinario, di modo che la relativa eccezione non appare in alcun modo fondata.
3. Anche la Provincia di Vibo Valentia solleva eccezione di prescrizione.
Sostiene la Provincia che, ai sensi della sentenza 09.02.2016, n. 2, dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, il termine di prescrizione quinquennale decorrerebbe dalla proposizione della domanda basata sull’occupazione contra ius ovvero dalle singole annualità per quella basata sul mancato godimento del bene, con la conseguenza che, avendo parte ricorrente presentato la domanda risarcitoria all’amministrazione provinciale di Vibo Valentia in data 19.01.2000 (come allegato nel fascicolo principale di parte ricorrente), sarebbero venuti meno gli effetti permanenti dell’illecito e, conseguentemente, l’atto di integrazione del contraddittorio sarebbe stato notificato (il 20.06.2017) quando oramai il relativo diritto si era prescritto.
3.1. Il Collegio ritiene che anche questa eccezione sia infondata.
La questione è quella di stabilire quando decorra il termine prescrizionale a fronte dell’illecito permanente in questione e se, nel caso, possa dirsi il diritto risarcitorio prescritto, potendo decorrere il termine quinquennale dalla nota indicata dalla Provincia di Vibo Valentia (del 19.01.2000), con la quale la parte ricorrente chiede alla stessa, per quanto di spettanza, il pagamento delle indennità di esproprio in questione.
3.1.1. Secondo la sentenza n. 2 del 2016 Ad, Pl. cit,.
in linea generale, quale che sia la sua forma di manifestazione (vie di fatto, occupazione usurpativa, occupazione acquisitiva), la condotta illecita della P.A. incidente sul diritto di proprietà non può comportare l’acquisizione del fondo e configura un illecito permanente ex art. 2043 c.c. –con la conseguente decorrenza del termine di prescrizione quinquennale dalla proposizione della domanda basata sull’occupazione contra ius, ovvero, dalle singole annualità per quella basata sul mancato godimento del bene– che viene a cessare solo in conseguenza:
   a) della restituzione del fondo;
   b) di un accordo transattivo;
   c) della rinunzia abdicativa (e non traslativa, secondo una certa prospettazione delle SS.UU.) da parte del proprietario implicita nella richiesta di risarcimento del danno per equivalente monetario a fronte della irreversibile trasformazione del fondo;
   d) di una compiuta usucapione, ma solo nei ristretti limiti perspicuamente individuati dal Consiglio di Stato allo scopo di evitare che sotto mentite spoglie (i.e. alleviare gli oneri finanziari altrimenti gravanti sull’Amministrazione responsabile), si reintroduca una forma surrettizia di espropriazione indiretta in violazione dell’art. 1 del Protocollo addizionale della Cedu;
   e) di un provvedimento emanato ex art. 42-bis del D.P.R. 08.06.2001, n. 327 (T.U. espropriazione per p.u.).

3.2. Orbene,
ritiene il Collegio che:
   -
appare palese la natura permanente dell'illecito della P.A. finché dura l’illegittima occupazione del bene in assenza di un valido titolo che determini il trasferimento della proprietà in capo ad essa, onde non si configura alcuna prescrizione del relativo diritto al risarcimento;
   -
il termine quinquennale di detta prescrizione non decorre finché v’è tal illecito ed al più esso inizia a farlo solo dalla proposizione della domanda per quanto riguarda la reintegrazione per equivalente o dalle singole annualità relativamente alla domanda risarcitoria sul mancato godimento del bene (cfr. Cons. St., IV, n. 4636 del 2016; IV, n. 5364 del 2016);
   -
la domanda a cui si fa riferimento, ai fini della cessazione dell’illecito e quindi della decorrenza della detta prescrizione, non può certo essere una generica domanda di pagamento di indennità di esproprio, sulla quale, peraltro, l’amministrazione nega la propria legittimazione passiva, occorrendo, piuttosto, una rinuncia abdicativa (implicita alla richiesta di risarcimento dei danni per equivalente), capace di determinare la cessazione dell’illecito ed in cui la liquidazione del danno da parte dell’amministrazione rappresenta il mancato inveramento della condizione risolutiva implicitamente apposta al proprietario al proprio atto abdicativo, che di esso rappresenta il presupposto; il che comporta la sussistenza di elementi nel caso non riscontrati.
Alla luce di tali principi, la domanda risarcitoria non può dirsi prescritta nemmeno nei confronti della Provincia di Vibo Valentia.
4. Nel merito il ricorso è fondato nei termini che seguono.
A fronte di un’occupazione illegittima e della mancanza di un legittimo atto di acquisizione (come nel caso ove a seguito della dichiarazione di p.u. non ha fatto seguito il decreto di espropriazione nei termini), il proprietario, fermo restando il diritto alla restituzione del bene occupato, può formulare una domanda di mero risarcimento del danno per equivalente a fronte dell’irreversibile trasformazione del fondo.
Ritiene, infatti, il Collegio, aderendo ai recenti e oramai consolidati approdi giurisprudenziali (confermati da ultimo con la sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, 30.06.2017 n. 3234), che il privato, che abbia subito un’occupazione illegittima, fermo restando il diritto alla restituzione del bene, non costituendo la realizzazione dell’opera pubblica un impedimento alla possibilità di restituire l’area illegittimamente appresa (cfr. C. Cost. 04.10.2010 n. 293; Cons. Stato, Sez. V, 02.11.2011 n. 5844), ben può chiedere il solo risarcimento del danno subito, rinunciando in tal modo alla proprietà del bene ed alla sua restituzione (in quanto non interessato a quest’ultima).
Va specificato che
la rinuncia abdicativa su suolo irreversibilmente trasformato, che muove la presente richiesta risarcitoria, ha carattere meramente abdicativo (Cass. S.U. 19.01.2015, n. 735, Cons. St. Ad. Pl. n. 2/2016) e non traslativo, donde da essa non può conseguire, quale effetto automatico, l’acquisto della proprietà del fondo da parte dell’Amministrazione; in tale ipotesi il provvedimento con il quale l’amministrazione procede alla effettiva liquidazione del danno, come sopra detto, rappresentando il mancato inveramento della condizione risolutiva implicitamente apposta dal proprietario al proprio atto abdicativo, che di esso rappresenta il presupposto, costituisce atto da trascriversi ai sensi degli artt. 2643, primo comma, n. 5 e 2645 cod. civ., anche al fine di conseguire gli effetti dell’acquisizione del diritto di proprietà in capo all’amministrazione, a far data dal negozio unilaterale di rinuncia (Cons. St. sez. IV, 4636 del 2016).
4.1.
Risulta agli atti che, permanendo l’occupazione anche in data successiva alla scadenza dell’efficacia dei provvedimenti legittimanti l’immissione in possesso, l’occupazione dei terreni di proprietà di parte ricorrente si sia protratta illegittimamente, con efficacia lesiva della situazione giuridica fatta valere in questa sede; deve pertanto riconoscersi alla parte ricorrente il risarcimento del danno per la mancata disponibilità del bene per tutto il periodo di occupazione sine titulo oltre che il danno per equivalente per la perdita del bene, cui parte ricorrente ha implicitamente rinunciato, da calcolarsi secondo i criteri che di seguito vengono indicati ex art. 34, co. 4, c.p.a. (condivisi dalla recente giurisprudenza in tema: cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 07.11.2016 n. 4636; TAR Lazio Roma, sez. II, 12.06.2017 n. 6894):
   a)
in ordine alla determinazione del quantum del risarcimento, questo va commisurato al valore venale del bene al momento in cui si perfeziona la rinuncia abdicativa del proprietario al proprio diritto reale, e, trattandosi di debito di valore, con rivalutazione ed interessi al tasso legale, da calcolarsi fino al momento dell’effettivo soddisfo, tenendo presente che in materia di occupazione acquisitiva di un terreno, il risarcimento del danno è calcolato esclusivamente sul suo valore al momento in cui si è verificata la perdita del diritto di proprietà e l’ammontare del danno deve poi essere rivalutato e devono essere corrisposti gli interessi legali semplici applicati al capitale progressivamente rivalutato, non potendo essere riconosciute ulteriori ragioni di danno (cfr. Corte europea diritti dell’uomo, 22.12.2009, Guiso–Gallisay c. Italia; successivamente Cass. civ., sez. I, 09.07.2014, n. 14604);
   b)
quanto alla determinazione del risarcimento del danno per mancato godimento del bene a cagione dell’occupazione illegittima (per il periodo antecedente al momento abdicativo del diritto di proprietà), questo può essere calcolato –ai sensi dell’art. 34, co. 4, c.p.a., in assenza di opposizione delle parti e in difetto della prova rigorosa di diversi ulteriori profili di danno– facendo applicazione, in via equitativa, dei criteri risarcitori dettati dall’art. 42-bisu. espr. (cfr. da ultimo sul punto Cons. Stato, sez. IV, 23.09.2016 n. 3929; 28.01.2016 n. 329; 02.11.2011 n. 5844), e dunque in una somma pari al 5% annuo del valore del terreno;
   c)
non spetta, invece, in difetto di prova specifica, alcuna liquidazione in misura forfettaria del danno non patrimoniale sia in quanto ciò è previsto, dall’art. 42-bis, co. 1 e 5, t.u. espr. solo per il caso di correlativa acquisizione del bene con decreto della pubblica amministrazione (e non già in presenza di un negozio abdicativo del privato), sia in quanto –con riferimento non già alla perdita del diritto di proprietà ma solo con riferimento alla compressione delle facoltà di godimento– la misura del risarcimento disposta in via equitativa è da ritenersi omnicomprensiva di ogni ulteriore posta, ivi compresi gli accessori (interessi legali e rivalutazione monetaria);
   d)
quanto alla prescrizione del diritto al risarcimento del danno da mancato godimento, occorre precisare che esso cessa, come è evidente, nel momento stesso in cui si verifichi la perdita del diritto di proprietà e dunque, nel caso di specie, nel momento in cui risulta perfezionata la rinuncia a tale diritto, implicita nella proposizione della domanda di risarcimento del danno in sede giudiziaria; pertanto, la prescrizione quinquennale ex art. 2947, co. 1, c.c. (trattandosi di illecito extracontrattuale), avuto riguardo al mancato godimento del bene (e cioè alla mancata percezione di un reddito annuo derivante dall’utilizzazione giuridicamente legittima del terreno occupato), decorre dalle singole annualità e fino al momento di perdita del diritto di proprietà.

ESPROPRIAZIONE: Giurisdizione giudice ordinario sull'accertamento tecnico preventivo finalizzato ad operazioni di occupazione d'urgenza non preordinate a decreto di esproprio.
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Giurisdizione – Espropriazione per pubblica utilità – Accertamento tecnico preventivo – Finalizzato ad operazioni di occupazione d'urgenza non preordinate a decreto di esproprio – Controversia – giurisdizione giudice ordinario.
Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia avente ad oggetto il ricorso volto all’accertamento tecnico preventivo in vista di operazioni di occupazione d'urgenza collegate, ma non finalizzate, ad un provvedimento di espropriazione; ed infatti, l’accertamento tecnico preventivo, attesa la sua valenza cautelare e conservativa, è intimamente connesso al giudizio di merito nel quale la prova avrebbe dovuto essere acquisita in via ordinaria, con la conseguenza che il Giudice adito è tenuto a verificare preliminarmente se la futura ed eventuale domanda di merito, cui accede la domanda di accertamento tecnico preventivo, rientri o meno nella propria giurisdizione (1).
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   (1) Il Tar ha richiamato il recente arresto delle Sezioni unite della cassazione (ord., 09.02.2011, n. 3167) secondo cui le controversie concernenti l’occupazione temporanea di aree funzionale alla corretta esecuzione dei lavori, disposte ai sensi dell’art. 49, d.P.R. 08.06.2001, n. 327, non avendo ad oggetto atti o provvedimenti in materia ablatoria e rimanendo estranee alla materia espropriativa vera e propria, rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario, purché la domanda sia limitata a far valere l’illecito protrarsi dell’occupazione temporanea, senza lamentare vizi di legittimità di provvedimenti amministrativi.
Nello stesso senso si è espresso il giudice amministrativo (Tar Umbria 16.01.2014, n. 49) con riferimento ad una controversia nella quale la parte ricorrente non si doleva della legittimità di provvedimenti o comportamenti in materia espropriativa, né dell’occupazione sine titulo preordinata all’espropriazione, bensì chiedeva la condanna dell’amministrazione al risarcimento dei danni subiti in occasione dell’occupazione temporanea del proprio fondo, asseritamente in carenza di potere (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 13.06.2017 n. 198 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
7. Ancor prima di procedere all’esame delle eccezioni processuali sollevate dall’amministrazione resistente con la memoria depositata in data 31.05.2017, giova rammentare che, secondo la giurisprudenza (TAR Lazio Roma, Sez. II, 29.03.2016, n. 3846), «l’esperibilità dell’accertamento tecnico preventivo nell’ambito del processo amministrativo -prima riconosciuta in via giurisprudenziale nel solco di una lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni concernenti i mezzi probatori sperimentabili nel processo amministrativo, alla stregua dei principi del giusto processo, del diritto di difesa e di conservazione dei valori giuridici- trova espresso riconoscimento nell’art. 53, comma 5, del c.p.a., laddove espande espressamente l’esperibilità dei mezzi di prova nel processo amministrativo a tutti quelli previsti dal codice del processo civile con formula che esclude soltanto l’interrogatorio formale ed il giuramento. La ratio dell’accertamento tecnico preventivo, regolato dall’art. 696 c.p.c., è quella di ovviare al pericolo della dispersione della prova prima che la parte interessata attivi un giudizio di merito ovvero definisca con un accordo un procedimento contenzioso già iniziato. Presupposto essenziale di tale strumento di acquisizione della prova è la sussistenza di un’urgenza concreta di far verificare, ante causam, lo stato dei luoghi, ovvero la qualità o la condizione di una cosa, in chiara correlazione con un’esigenza di tipo cautelare che è resa evidente dall’incipit della norma».
8. Si deve poi evidenziare che
l’accertamento tecnico preventivo, attesa la sua valenza cautelare e conservativa, è intimamente connesso al giudizio di merito nel quale la prova avrebbe dovuto essere acquisita in via ordinaria (Consiglio di Stato, Sez. IV, 27.10.2011, n. 5769), con l’ulteriore conseguenza che il Giudice adito è tenuto a verificare preliminarmente se la futura ed eventuale domanda di merito, cui accede la domanda di accertamento tecnico preventivo, rientri o meno nella propria giurisdizione.
9. Passando all’eccezione di difetto di giurisdizione di questo Tribunale, il Collegio ritiene che la stessa debba essere accolta.
Come ha puntualizzato il Giudice regolatore della giurisdizione (Cass. civ., Sez. Un., ord. 09.02.2011, n. 3167),
le controversie come quella per cui è causa, concernenti l’occupazione temporanea di aree funzionale alla corretta esecuzione dei lavori, disposte ai sensi dell’art. 49 del D.P.R. n. 327/2001, non avendo ad oggetto atti o provvedimenti in materia ablatoria e rimanendo estranee alla materia espropriativa vera e propria, rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario, purché la domanda sia limitata a far valere l’illecito protrarsi dell’occupazione temporanea, senza lamentare vizi di legittimità di provvedimenti amministrativi.
Nello stesso senso si è espresso il giudice amministrativo (TAR Umbria Perugia, Sez. I, 16.01.2014, n. 49) con riferimento ad una controversia nella quale la parte ricorrente non si doleva della legittimità di provvedimenti o comportamenti in materia espropriativa, né dell’occupazione sine titulo preordinata all’espropriazione, bensì chiedeva la condanna dell’amministrazione al risarcimento dei danni subiti in occasione dell’ occupazione temporanea del proprio fondo, asseritamente in carenza di potere.
Ciò posto, con riferimento alla fattispecie in esame è sufficiente evidenziare che:
   A) l’occupazione di cui trattasi -che avrebbe cagionato i danni lamentati, per il suo protrarsi oltre il termine previsto- è stata disposta con la determinazione dirigenziale n. 862 del 28.10.2008 ai sensi dell’art. 28 della legge provinciale n. 6/1993 (disposizione questa che, come quella dell’art. 49 del D.P.R. n. 327/2001, risponde alla sola finalità di disciplinare l’occupazione temporanea dell’area interessata);
   B) la società ricorrente non lamenta alcun vizio della predetta determinazione dirigenziale n. 862 del 28.10.2008, né della successiva determinazione dirigenziale n. 706 del 23.11.2016, limitandosi a richiedere il risarcimento dei danni derivanti dalla pretesa occupazione abusiva dell’area successivamente al 31.05.2009 e dall’allagamento dell’area di sua proprietà, con conseguente richiesta di ripristino dello stato dei luoghi.

anno 2016

ESPROPRIAZIONE: Le Sezioni unite civili attribuiscono al giudice ordinario tutte le controversie comunque concernenti la determinazione e la corresponsione delle indennità previste dall’art. 42-bis t.u. espropriazioni (Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, sentenza 25.07.2016 n. 15283).
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Espropriazione – Acquisizione ex art. 42-bis d.P.R. 08.06.2001, n. 327 – Indennizzo – Giurisdizione ordinaria – Competenza – Corte d’appello.
Le controversie aventi ad oggetto la determinazione e la corresponsione di tutte le indennità previste dall’art. 42-bis, d.P.R. 08.06.2001, n. 327 sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario ed alla competenza in unico grado della Corte di appello. (1)

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(1) Le Sezioni unite hanno formulato il principio di cui in massima portando a compimento, dal punto di vista logico e sistematico, il percorso esegetico intrapreso dalla Corte costituzionale (30.04.2015, n. 71, in Foro it., 2015, I, 2629, con ampia nota di richiami di R. Pardolesi) e dalle stesse Sezioni unite (29.10.2015, n. 22096, id., 2016, I, 593, con ampia nota di richiami di E. Barila’).
Anche il Consiglio di Stato è pervenuto alle medesime conclusioni in punto di giurisdizione (cfr. A.P., 09.02.2016, n. 2, ibidem, III, 185, con note di approfondimenti di E. Barilà e R. Pardolesi, sia pure con una affermazione incidentale rispetto all’oggetto principale di quel giudizio; sez. IV, 12.05.2016, n. 1910 che ha, invece, analizzato funditus l’intera tematica).
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Questi i passaggi logici essenziali della decisione in commento:
   a) il provvedimento di acquisizione previsto dall’art. 42-bis, t.u. espropriazione ha natura espropriativa;
   b) tutte le voci di danno menzionate nei commi 1, 3, 4 e 5, dell’art. 42-bis, sono oggetto di un’unica previsione indennitaria, ivi compresa quella relativa al periodo di occupazione senza titolo subita dal proprietario, espressamente contemplata dal comma 3, ultimo periodo;
   c) la locuzione <<a titolo risarcitorio>> contenuta nel menzionato comma 3, ultimo periodo, è una mera improprietà lessicale in cui è caduto il legislatore che, in quanto tale, non consente di superare gli obbiettivi (e principi esegetici ispiratori) di concentrazione ed effettività della tutela giurisdizionale che risulterebbero vulnerati da una interpretazione letterale che frazionasse la tutela affidando al G.A. la cognizione del danno da occupazione senza titolo ed al G.O. le altre poste di danno menzionate dal medesimo art. 42-bis;
   d) conseguentemente, trovano applicazione le norme enucleabili dal combinato disposto degli artt. 133, comma 1, lett. g), c.p.a., nonché 53 e 54 t.u. espropriazione, che assegnano alla giurisdizione esclusiva del G.A. le controversie, incluse quelle risarcitorie, aventi ad oggetto atti, accordi e comportamenti espressione di esercizio della funzione pubblica in materia espropriativa, riservando al G.O. –e per esso alla competenza generale in materia della Corte d’appello- le sole controversie riguardanti determinazione e corresponsione delle indennità (tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEVa dichiarato il difetto di giurisdizione sulla richiesta di condanna dell’amministrazione al pagamento di un indennizzo o al risarcimento del danno per il mancato godimento del bene conseguito al vincolo espropriativo rimasto ineseguito.
Ed infatti, secondo condivisa giurisprudenza, "i profili attinenti alla spettanza o meno di un indennizzo per la compromissione delle facoltà di godimento del proprietario, laddove non si contesti la legittimità dei provvedimenti impositivi o reiterativi di vincoli di contenuto espropriativo, esulano dalla cognizione del giudice adito, in quanto riguardano questioni di carattere patrimoniale devolute alla cognizione della giurisdizione civile (art. 39, I, D.P.R. n. 327 del 2001, T.U. Espropriazione per p.u.)".
I profili attinenti la spettanza o meno di un indennizzo o del risarcimento del danno non attengono, infatti, alla legittimità del procedimento, ma riguardano questioni di carattere patrimoniale devolute alla cognizione della giurisdizione civile.
Sulla base di quanto esposto, va, quindi, dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice adito, salva la possibilità di riassumere il ricorso innanzi al competente giudice ordinario nel termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della presente decisione, ai sensi e per gli effetti dell'articolo 11, comma 2, del codice del processo amministrativo.

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... per l'annullamento ex art. 116 c.p.a. del provvedimento di diniego formatosi a seguito del silenzio serbato sull'istanza volta a richiedere l'ostensione dei documenti di seguito precisati;
nonché:
- per l’accertamento ex art. 117 c.p.a. dell’illegittimità del silenzio serbato dall’amministrazione comunale sull’istanza trasmessa a mezzo pec in data 01.09.2015 per l’indennizzo e/o il risarcimento dell’importo quantificato in € 21.505,90 per il pregiudizio sofferto in ragione dell’ingiustificato peso protrattosi per anni in assenza di esecuzione del p.i.p.;
- per l’accertamento della fondatezza, ai sensi dell’art. 31, comma 3 c.p.a., delle pretese azionate e dell’ingiustificato peso subito dal diritto di proprietà in assenza di una pronta e tempestiva esecuzione del piano;
...
2. Preliminarmente, come da rilievo d’ufficio ai sensi dell’art. 73, comma 3 c.p.a., va dichiarato il difetto di giurisdizione sulla richiesta di condanna dell’amministrazione al pagamento di un indennizzo o al risarcimento del danno per il mancato godimento del bene conseguito al vincolo espropriativo rimasto ineseguito.
Ed infatti, secondo condivisa giurisprudenza, "i profili attinenti alla spettanza o meno di un indennizzo per la compromissione delle facoltà di godimento del proprietario, laddove non si contesti la legittimità dei provvedimenti impositivi o reiterativi di vincoli di contenuto espropriativo, esulano dalla cognizione del giudice adito, in quanto riguardano questioni di carattere patrimoniale devolute alla cognizione della giurisdizione civile (art. 39, I, D.P.R. n. 327 del 2001, T.U. Espropriazione per p.u.)" (Cons. di St., sez. IV, 14.04.2015, n. 1887).
I profili attinenti la spettanza o meno di un indennizzo o del risarcimento del danno non attengono, infatti, alla legittimità del procedimento, ma riguardano questioni di carattere patrimoniale devolute alla cognizione della giurisdizione civile.
Sulla base di quanto esposto, va, quindi, dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice adito, salva la possibilità di riassumere il ricorso innanzi al competente giudice ordinario nel termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della presente decisione, ai sensi e per gli effetti dell'articolo 11, comma 2, del codice del processo amministrativo (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 13.04.2016 n. 1793 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: L’art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001 configura un procedimento ablatorio sui generis, caratterizzato da una precisa base legale, semplificato nella struttura (uno actu perficitur), complesso negli effetti (che si producono sempre e comunque ex nunc), il cui scopo non è (e non può essere) quello di sanatoria di un precedente illecito perpetrato dall’Amministrazione (perché altrimenti integrerebbe una espropriazione indiretta per ciò solo vietata), bensì quello autonomo, rispetto alle ragioni che hanno ispirato la pregressa occupazione contra ius, consistente nella soddisfazione di imperiose esigenze pubbliche, redimibili esclusivamente attraverso il mantenimento e la gestione di qualsiasi opera dell’infrastruttura realizzata sine titulo.
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1. L’ OGGETTO DEL PRESENTE GIUDIZIO.
1.1. L’oggetto del presente giudizio è costituito dal provvedimento reso dal commissario ad acta -nominato in sede di esecuzione di un giudicato- recante, nella sostanza, l’emanazione di un decreto di acquisizione ex art. 42-bis d.P.R. 08.06.2011, n. 327 -Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità– (in prosieguo t.u. espr.), in danno della odierna ricorrente.

1.2. Più in dettaglio viene in rilievo la domanda di esecuzione del giudicato formatosi sulla sentenza irrevocabile del Tar per la Puglia - sede staccata di Lecce, Sezione I, n. 3342 del 19.11.2008 che, in accoglimento del ricorso proposto dalla Signora Ca.Ma.:
a) ha preso atto della irreversibile trasformazione di un appezzamento di terreno (di proprietà dell’istante) in giardino pubblico ad opera del comune di Villa Castelli che, sebbene avesse disposto l’occupazione d’urgenza dell’area, non aveva emanato il successivo decreto di esproprio;
b) ha condannato il comune a restituire l’area, ovvero a concludere un accordo transattivo, o, in alternativa, ad emanare un provvedimento di acquisizione ai sensi dell’allora vigente art. 43, t.u. espr.;
c) ha scandito dettagliatamente la tempistica di ciascuna fase ed i relativi adempimenti, formulando minute prescrizioni anche in ordine ai criteri di liquidazione, per equivalente monetario, del danno derivante dalla perdita della proprietà e del possesso sine titulo, oltre che degli accessori;
d) ha espressamente stabilito che, trascorsi i termini concessi per ciascuno degli alternativi adempimenti, la parte privata avrebbe potuto agire in giudizio per l’esecuzione della decisione;
e) ha condannato il comune alla refusione delle spese di lite.
...
4. L’ORDINANZA DI RIMESSIONE DELLA CAUSA ALL’ADUNANZA PLENARIA ED I SUCCESSIVI SVILUPPI PROCESSUALI.
4.1. Con ordinanza n. 3347 del 03.07.2014, la IV Sezione del Consiglio di Stato:
a) ha ricostruito, in chiave storica e sistematica, l’istituto dell’acquisizione disciplinato prima dall’art. 43 e poi dall’art. 42-bis, t.u. espr.;
b) ha dato atto del contrasto registratosi nella giurisprudenza del Consiglio di Stato circa la possibilità che in sede di esecuzione del giudicato il giudice amministrativo, direttamente o per il tramite dell’intervento del commissario ad acta, possa o meno ordinare alla P.A. di adottare un provvedimento ex art. 42-bis, ovvero limitarsi a sollecitare l’esercizio di tale potere, fissando all’uopo un termine, scaduto il quale non rimarrebbe che assicurare la sola tutela restitutoria;
c) ha rilevato la pendenza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 42-bis t.u. espr. sollevata dalle Sezioni unite della Corte di cassazione (cfr. ordinanze 13.01.2014, nn. 441 e 442);
d) all’esplicito scopo di meglio garantire l’armonico coordinamento (ed il rispetto) dei principi della effettività della tutela giurisdizionale, da un lato, e dell’autorità del giudicato, dall’altro, ha sottoposto all’Adunanza planaria la seguente questione ovvero <<se nella fase di ottemperanza –con giurisdizione, quindi, estesa al merito– ad una sentenza avente ad oggetto una domanda demolitoria di atti concernenti una procedura espropriativa, rientri o meno tra i poteri sostitutivi del giudice, e per esso, del commissario ad acta, l’adozione della procedura semplificata di cui all’art. 42-bis t.u. espr.>>.
4.2. Con ordinanza dell’Adunanza plenaria -n. 28 del 15.10.2014– è stato sospeso il presente giudizio in attesa della definizione delle sollevate questioni di legittimità costituzionale.
4.3. Con sentenza parzialmente interpretativa di rigetto n. 71 del 30.03.2015 -pubblicata nella G.U., 1° s.s., 06.05.2015 n. 18– la Corte costituzionale, in relazione ai vari parametri evocati, ha dichiarato in parte inammissibile, in parte infondata, ed in parte non fondata ai sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale del più volte menzionato art. 42-bis.
4.4. Il giudizio è stato ritualmente proseguito con l’istanza depositata in data 01.06.2015 dalla difesa della signora Ma. ed alla camera di consiglio dell’08.10.2015 la causa è stata trattenuta in decisione.
5. LA NATURA GIURIDICA, I PRESUPPOSTI APPLICATIVI E GLI EFFETTI DELLA ACQUISIZIONE EX ART. 42-BIS T.U. ESPR.
5.1. Si riporta per comodità di lettura il più volte menzionato art. 42-bis, t.u. espr. -Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico– come introdotto dall’art. 34, comma 1, d.l. n. 98 del 2011 convertito con modificazioni nella l. n. 111 del 2011: <<1. Valutati gli interessi in conflitto, l'autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, quest'ultimo forfetariamente liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene.
2. Il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche quando sia stato annullato l'atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all'esproprio, l'atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di un'opera o il decreto di esproprio. Il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche durante la pendenza di un giudizio per l'annullamento degli atti di cui al primo periodo del presente comma, se l'amministrazione che ha adottato l'atto impugnato lo ritira. In tali casi, le somme eventualmente già erogate al proprietario a titolo di indennizzo, maggiorate dell'interesse legale, sono detratte da quelle dovute ai sensi del presente articolo.
3. Salvi i casi in cui la legge disponga altrimenti, l'indennizzo per il pregiudizio patrimoniale di cui al comma 1 è determinato in misura corrispondente al valore venale del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e, se l'occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni dell'articolo 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7. Per il periodo di occupazione senza titolo è computato a titolo risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la prova di una diversa entità del danno, l'interesse del cinque per cento annuo sul valore determinato ai sensi del presente comma.
4. Il provvedimento di acquisizione, recante l'indicazione delle circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell'area e se possibile la data dalla quale essa ha avuto inizio, è specificamente motivato in riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l'emanazione, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l'assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione; nell'atto è liquidato l'indennizzo di cui al comma 1 e ne è disposto il pagamento entro il termine di trenta giorni. L'atto è notificato al proprietario e comporta il passaggio del diritto di proprietà sotto condizione sospensiva del pagamento delle somme dovute ai sensi del comma 1, ovvero del loro deposito effettuato ai sensi dell'articolo 20, comma 14; è soggetto a trascrizione presso la conservatoria dei registri immobiliari a cura dell'amministrazione procedente ed è trasmesso in copia all'ufficio istituito ai sensi dell'articolo 14, comma 2.
5. Se le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 4 sono applicate quando un terreno sia stato utilizzato per finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata o convenzionata, ovvero quando si tratta di terreno destinato a essere attribuito per finalità di interesse pubblico in uso speciale a soggetti privati, il provvedimento è di competenza dell'autorità che ha occupato il terreno e la liquidazione forfetaria dell'indennizzo per il pregiudizio non patrimoniale è pari al venti per cento del valore venale del bene.
6. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano, in quanto compatibili, anche quando è imposta una servitù e il bene continua a essere utilizzato dal proprietario o dal titolare di un altro diritto reale; in tal caso l'autorità amministrativa, con oneri a carico dei soggetti beneficiari, può procedere all'eventuale acquisizione del diritto di servitù al patrimonio dei soggetti, privati o pubblici, titolari di concessioni, autorizzazioni o licenze o che svolgono servizi di interesse pubblico nei settori dei trasporti, telecomunicazioni, acqua o energia.
7. L'autorità che emana il provvedimento di acquisizione di cui al presente articolo né dà comunicazione, entro trenta giorni, alla Corte dei conti mediante trasmissione di copia integrale.
8. Le disposizioni del presente articolo trovano altresì applicazione ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se vi è già stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato, ma deve essere comunque rinnovata la valutazione di attualità e prevalenza dell'interesse pubblico a disporre l'acquisizione; in tal caso, le somme già erogate al proprietario, maggiorate dell'interesse legale, sono detratte da quelle dovute ai sensi del presente articolo
.>>
5.2. Prima di procedere alla risoluzione del quesito sottoposto all’Adunanza plenaria, è indispensabile ricostruire (limitandosi a quanto di interesse) il quadro dei condivisibili principi che, successivamente all’ordinanza di rimessione della IV Sezione, sono stati elaborati dalla Corte costituzionale (cfr. sentenza n. 71 del 2015 cit.), dalle Sezioni unite della Corte di cassazione (cfr. decisioni n. 735 del 19.01.2015 e n. 22096 del 29.10.2015) e dal Consiglio di Stato (cfr. sentenze Sez. IV, n. 4777 del 19.10.2015; n. 4403 del 21.09.2015; n. 3988 del 26.08.2015; n. 2126 del 27.04.2015; n. 3346 del 03.07.2014), all’interno della consolidata cornice di tutele delineata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per contrastare il deprecato fenomeno delle <<espropriazioni indirette>> del diritto di proprietà o di altri diritti reali (cfr., ex plurimis e da ultimo, con riferimento all’ordinamento italiano, Corte europea dei diritti dell’uomo, Sez. II, 03.06.2014, Rossi e Variale; Sez. II, 14.01.2014, Pascucci; Sez. II, 05.06.2012, Immobiliare Cerro; Grande Camera, 22.12.2009, Guiso; Sez. II, 06.03.2007, Scordino; Sez. III, 12.01.2006, Sciarrotta; Sez. II, 17.05.2005, Scordino; Sez. II, 30.05.2000, Soc. Belvedere alberghiera; Sez. II, 30.05.2000, Carbonara e Ventura).
5.3.
In linea generale, quale che sia la sua forma di manifestazione (vie di fatto, occupazione usurpativa, occupazione acquisitiva), la condotta illecita dell’amministrazione incidente sul diritto di proprietà non può comportare l’acquisizione del fondo e configura un illecito permanente ex art. 2043 c.c. –con la conseguente decorrenza del termine di prescrizione quinquennale dalla proposizione della domanda basata sull’occupazione contra ius, ovvero, dalle singole annualità per quella basata sul mancato godimento del bene- che viene a cessare solo in conseguenza:
a) della restituzione del fondo;
b) di un accordo transattivo;
c) della rinunzia abdicativa (e non traslativa, secondo una certa prospettazione delle SS.UU.) da parte del proprietario implicita nella richiesta di risarcimento del danno per equivalente monetario a fronte della irreversibile trasformazione del fondo;
d) di una compiuta usucapione, ma solo nei ristretti limiti perspicuamente individuati dal Consiglio di Stato allo scopo di evitare che sotto mentite spoglie (i.e. alleviare gli oneri finanziari altrimenti gravanti sull’Amministrazione responsabile) si reintroduca una forma surrettizia di espropriazione indiretta in violazione dell’art. 1 del Protocollo addizionale della Cedu
(Sez. IV, n. 3988 del 2015 e n. 3346 del 2014); dunque a condizione che:
  
I) sia effettivamente configurabile il carattere non violento della condotta;
   II) si possa individuare il momento esatto della interversio possesionis;
   III) si faccia decorrere la prescrizione acquisitiva dalla data di entrata in vigore del t.u. espr. (30.06.2003) perché solo l’art. 43 del medesimo t.u. aveva sancito il superamento dell’istituto dell’occupazione acquisitiva e dunque solo da questo momento potrebbe ritenersi individuato, ex art. 2935 c.c., il <<….giorno in cui il diritto può essere fatto valere>>;
e) di un provvedimento emanato ex art. 42-bis t.u. espr.

5.4.
Chiarito che l’acquisizione ex art. 42-bis cit. costituisce una delle possibili cause legali di estinzione di un fatto illecito e che essa trova legittima applicazione anche alle situazioni prodottesi prima della sua entrata in vigore (§ 6.9.1. della sentenza della Corte cost. n. 71 del 2015 cit., che ha così definitivamente fugato i dubbi adombrati dalle Sezioni unite al § 4 della sentenza n. 735 del 2015 cit.), giova evidenziare che:
a) la disposizione introduce una norma di natura eccezionale; tale conclusione è coerente con l’impostazione tradizionale che considera a tale stregua le norme limitatrici della sfera giuridica dei destinatari, con particolare riguardo a quelle che attribuiscono alla P.A. un potere ablatorio.
Un atto definibile come espropriazione in sanatoria stricto sensu, e basato sulla illiceità dell’occupazione di un bene altrui, infatti, segnerebbe una interruzione della consequenzialità logica della disciplina generale (europea e nazionale) di riferimento in materia di acquisizione coattiva della proprietà privata, ponendosi in contrasto con essa attraverso una discriminazione –pure sancita dalla legge- del trattamento giuridico di situazioni soggettive che altrimenti sarebbero destinatarie della disciplina generale; da qui l’indefettibile necessità, ex art. 14, disp. prel. c.c., di una esegesi rigorosa della norma medesima che sia, ad un tempo, conforme al sistema di tutela della proprietà privata disegnato dalla CEDU ma rispettosa del valore costituzionale della funzione sociale della proprietà privata sancito dall’art. 42, co. 2, Cost. (che costituisce il fondamento del potere attribuito alla P.A.), secondo un approccio metodologico basato su una visione sistemica, multilivello e comparata della tutela dei diritti, a sua volta incentrata sulla considerazione dell’ordinamento nel suo complesso, quale risultante dalla interazione fra norme (interne e internazionali) e principi delle Corti (interne e sovranazionali);
b)
l’art. 42-bis, invece, configura un procedimento ablatorio sui generis, caratterizzato da una precisa base legale, semplificato nella struttura (uno actu perficitur), complesso negli effetti (che si producono sempre e comunque ex nunc), il cui scopo non è (e non può essere) quello di sanatoria di un precedente illecito perpetrato dall’Amministrazione (perché altrimenti integrerebbe una espropriazione indiretta per ciò solo vietata), bensì quello autonomo, rispetto alle ragioni che hanno ispirato la pregressa occupazione contra ius, consistente nella soddisfazione di imperiose esigenze pubbliche, redimibili esclusivamente attraverso il mantenimento e la gestione di qualsiasi opera dell’infrastruttura realizzata sine titulo;
c) un tale obbiettivo istituzionale, inoltre, deve emergere necessariamente da un percorso motivazionale -rafforzato, stringente e assistito da garanzie partecipativo rigorose– basato sull’emersione di ragioni attuali ed eccezionali che dimostrino in modo chiaro che l’apprensione coattiva si pone come extrema ratio (perché non sono ragionevolmente praticabili soluzioni alternative e che tale assenza di alternative non può mai consistere nella generica <<…eccessiva difficoltà ed onerosità dell’alternativa a disposizione dell’amministrazione..>>), per la tutela di siffatte imperiose esigenze pubbliche;
d) sono coerenti con questa impostazione:
   I) le importanti guarentigie previste per il destinatario dell’atto di acquisizione sotto il profilo della misura dell’indennizzo (avente natura indennitaria secondo Cass. civ., Sez. un., n. 2209 del 2015 cit.), valutato a valore venale (al momento del trasferimento, alla stregua del criterio della taxatio rei, senza che, dunque, ci siano somme da rivalutare ma, in ogni caso, tenuto conto degli ulteriori parametri individuati dagli artt. 33 e 40 t.u. espr.), maggiorato della componente non patrimoniale (dieci per cento senza onere probatorio per l’espropriato), e con salvezza della possibilità, per il proprietario, di provare autonome poste di danno;
   II) la previsione del coinvolgimento obbligatorio della Corte dei conti in una vicenda che produce oggettivamente (e indipendentemente dagli eventuali profili soggettivi di responsabilità da accertarsi nelle competenti sedi) un aggravio sensibile degli esborsi a carico della finanza pubblica;
e)
per evitare che l’eccezionale potere ablatorio previsto dall’art. 42-bis possa essere esercitato sine die in violazione dei valori costituzionali ed europei di certezza e stabilità del quadro regolatorio dell’assetto dei contrapposti interessi in gioco, la disciplina ivi dettata è inserita in (ed arricchita da) un più ampio contesto ordinamentale che -in ragione della sussistenza dell’obbligo della P.A. di valutare se emanare un atto tipico sull’adeguamento della situazione di fatto a quella di diritto- prevede per il proprietario strumenti adeguati di reazione all’inerzia della P.A., esercitabili davanti al giudice amministrativo, sia attraverso il c.d. “rito silenzio” (artt. 34 e 117 c.p.a.), sia in sede di ordinario giudizio di legittimità avente ad oggetto il procedimento ablatorio sospettato di illegittimità (o altro giudizio avente ad oggetto la tutela reipersecutoria, come verificatosi nel caso di specie), secondo le coordinate esegetiche esplicitamente stabilite dalla sentenza n. 71 del 2015 (in particolare § 6.6.3.);
f) assume un rilievo centrale (in particolare ai fini della risoluzione del quesito sottoposto all’Adunanza plenaria, come si vedrà meglio in prosieguo) un ulteriore elemento caratterizzante l’istituto in esame, ovvero l’impossibilità che l’Amministrazione emani il provvedimento di acquisizione in presenza di un giudicato che abbia disposto la restituzione del bene al proprietario; tale elemento –valorizzato dalla sentenza n. 71 del 2015 in coerenza coi principi elaborati dalla Corte di Strasburgo- si desume implicitamente dalla previsione del comma 2 dell’art. 42-bis nella parte in cui consente all’autorità di adottare il provvedimento durante la pendenza del giudizio avente ad oggetto l’annullamento della procedura ablatoria (ovvero nel corso del successivo eventuale giudizio di ottemperanza), ma non oltre, e quindi dopo che si sia formato un eventuale giudicato non soltanto cassatorio ma anche esplicitamente restitutorio (come meglio si dirà in prosieguo);
g) ne consegue che
la scelta che l’amministrazione è tenuta ad esprimere nell’ipotesi in cui si verifichi una delle situazioni contemplate dai primi due commi dell’art. 42-bis, non concerne l’alternativa fra l’acquisizione autoritativa e la concreta restituzione del bene, ma quella fra la sua acquisizione e la non acquisizione, in quanto la concreta restituzione rappresenta un semplice obbligo civilistico —cioè una mera conseguenza legale della decisione di non acquisire l’immobile assunta dall’amministrazione in sede procedimentale— ed essa non costituisce, né può costituire, espressione di una specifica volontà provvedimentale dell’autorità, atteso che, nell’adempiere gli obblighi di diritto comune, l’amministrazione opera alla stregua di qualsiasi altro soggetto dell’ordinamento e non agisce iure auctoritatis;
h) per concludere sul punto utilizzando un argomento esegetico caro all’analisi economica del diritto, può dirsi che la nuova disposizione, in buona sostanza, ha evitato che si riproducesse il vulnus arrecato dal superato art. 43 t.u. espr., ovvero la possibilità, accordata dalla norma all’epoca vigente, di far regredire la property rule (che dovrebbe assistere il privato titolare della risorsa), a liability rule (con facoltà della pubblica amministrazione di acquisire a propria discrezione l’altrui bene con il solo pagamento di una compensazione pecuniaria), introducendo pragmaticamente una regola di second best, da un lato, riducendo al minimo l’ambito applicativo dell’appropriazione coattiva, dall’altro, evitando che tale strumento divenga di uso routinario –causa maggiori costi, responsabilità erariale, impossibilità di far valere l’onerosità della restituzione quale giusta causa di acquisizione del bene, partecipazione rafforzata del proprietario alla scelta finale, motivazione esigente e rigorosa sulla impossibilità di configurare soluzioni diverse- configurandosi come una normale alternativa all’espropriazione ordinaria: in quest’ottica la procedura prevista dall’art. 42-bis non rappresenta più (per usare il linguaggio della Corte di Strasburgo) il punto di emersione di una defaillance structurelle dell’ordinamento italiano (rispetto a quello europeo) ma costituisce, essa stessa, espropriazione adottata secondo il canone della <<buona e debita forma>> predicato dal paradigma europeo (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 09.02.2016 n. 2 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: L'occupazione usurpativa.
DOMANDA:
Negli anni 70 il Comune realizzò una strada comunale su parte di terreno di proprietà privata, allargando l'esistente sedime stradale verso le adiacenti proprietà private. L'allora Sindaco con una semplice lettera al proprietario si impegnava all'esecuzione dei lavori stradali cercando di occupare il minor spazio possibile e promettendo, al fine di evitarne l'esproprio, un compenso di Lire 500/mq per il terreno occupato.
Ora l'erede chiede una definizione della pratica con la presa in carico da parte dell'Ente dell'area privata occupata dal sedime stradale ed il riconoscimento dell'indennità. Quanto sopra, posto che la citata "promessa" risulta essere alquanto anomala, vista la totale assenza di un atto di cessione bonaria dell'immobile, e l'assenza di un eventuale provvedimento deliberativo di Giunta o di Consiglio in merito, se non per l'affidamento dei lavori.
Rilevato che ai sensi della L. 448/1998 l'accorpamento gratuito al demanio non è da intendersi possibile in quanto non vi è la disponibilità del proprietario, si chiede in che modo possa essere eventualmente riconosciuto il diritto rivendicato dal richiedente, considerata anche la rivalutazione della somma "promessa" nell'eventualità, ad avviso dello scrivente alquanto remota, che tutto ciò sia possibile.
RISPOSTA:
Il caso prospettato può essere inquadrato all'interno della fattispecie dell’occupazione usurpativa in quanto avvenuta in assenza di un valido titolo espropriativo. Secondo quanto disposto dalla giurisprudenza prevalente, tale fenomeno realizza un’ipotesi di fatto illecito generatore di danno ex art. 2043 cod. civ. (Cass. SU 10962/2005, Cons. Stato 2285/2005). Per tali ragioni, l’erede dell’originario proprietario avrebbe effettivamente il diritto a veder risarcito il danno derivante dalla costruzione della strada comunale su parti di terreno di sua proprietà.
Tuttavia, l’azione per rivendicare tale diritto è sottoposta alla prescrizione quinquennale: l’art. 2947 cod. civ. rubricato "Prescrizioni del diritto al risarcimento del danno" afferma che tale diritto si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il fatto si è verificato. In tal caso, sarà necessario, dunque, accertare il momento di avvenuta conclusione dei lavori di costruzione della strada (momento conclusivo a partire dal quale è possibile stabilire l’intervenuta mutazione dei luoghi), e, inoltre, il compimento di eventuali atti interruttivi della prescrizione da parte del danneggiato (atti di diffida ecc).
Qualora questi non fossero rinvenuti e l’ultimazione dei lavori fosse avvenuta in un tempo superiore ai cinque anni da quando l’erede ha fatto valere il suo diritto, questo non potrebbe rivendicare alcuna pretesa nei confronti del comune a causa della maturazione del tempo della prescrizione.
Anche a voler superare le considerazioni relative alla prescrizione del risarcimento del danno, nel caso in cui l’ente comunale volesse sanare ex post tale e volesse, quindi, acquisire le parti di terreno occupate durante la costruzione della strada comunale, potrebbe ricorrere all'istituto della cessione volontaria ai sensi della normativa vigente.
È importante valutare con attenzione tale opzione in quanto –risultando ormai perfezionata l’occupazione acquisitiva– la corresponsione di un’indennità (qualunque sia la misura) potrebbe configurare fattispecie di responsabilità erariale ex art. 1, c. 4, della Legge n. 20/1994 (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA - ESPROPRIAZIONE - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA: Con l’accordo di programma decide il Tar. Sezioni Unite. La competenza delle cause del privato che vi aderisce è del giudice amministrativo.
Più agevole trovare il giudice cui rivolgersi nella gestione del territorio: con una prima pronuncia (sentenza 07.01.2016 n. 64) le Sezioni unite civili della Corte di Cassazione chiariscono cosa accada quando più enti pubblici (Comune, Provincia e Regione) stipulino un accordo di programma e un privato vi aderisca, lamentandosi poi dei danni subiti per ritardi ed inadempimenti dei soggetti pubblici.
Con altra sentenza 07.01.2016 n. 67, la stessa Corte chiarisce in dettaglio cosa capiti quando, nel determinare l’indennità di esproprio, il giudice venga tratto in errore da una consulenza tecnica imprecisa.
La pronuncia che riguarda gli accordi di programma si riferisce a un intervento di bonifica e recupero di una zona industriale: Comune, Provincia e Regione avevano previsto obblighi reciproci, dando il via ad una società privata cui spettava la realizzazione e gestione di un interporto.
Ritardi e inadempimenti hanno poi generato una richiesta di risarcimento danni che dapprima è stato deciso in sede arbitrale, per poi tornare, a distanza di 10 anni, dinanzi un diverso giudice. Il principio espresso dalla Cassazione è che la presenza di un “accordo” tra amministrazioni, condiviso da privati, ha l’effetto di spostare tutte le eventuali controversie dinanzi al giudice amministrativo.
Esiste infatti una norma specifica (articolo 11 legge 241/1990) che affida a Tar e Consiglio di Stato tutte le questioni che possano scaturire da accordi, indipendentemente dalla materia del contendere. Nel caso specifico, poiché la società privata aveva realizzato interventi di bonifica e recupero subendo notevoli ritardi causati da pubbliche amministrazioni, il relativo contenzioso comunque era riconducibile all’accordo di programma.
La società esecutrice danneggiata, pur essendosi limitata a «prendere formale conoscenza» del contenuto dell’accordo di programma tra gli enti pubblici, di tale accordo era parte determinante essendosi impegnata a progettare, eseguire, pagare indennizzi di esproprio, realizzare infrastrutture ed assumere personale. Anche se l’accordo era stato stipulato solo tra Pa per coordinare gli impegni assunti da tali enti pubblici, tutte le liti riconducibili alla esecuzione di detto accordo subiscono lo stesso regime, e cioè spettano al giudice amministrativo.
Stesso del ragionamento del, del resto, è stato applicato per obblighi di privati assunti con accordi con soggetti pubblici, per risanare aree inquinate (nella zona industriale di Trieste, Cassazione 18192/2013) o per una convenzione di lottizzazione (732/2005) o per contestazioni sull'esecuzione di parcheggi pubblici (15608/2001).
Con la stessa logica, di assoluta semplificazione, le Sezioni unite hanno deciso la sorte di un’indennità di esproprio, a valle di una procedura di pianificazione.
Nella sentenza n. 67 del 07.01.2016 è stata decisa la sorte di un indennizzo calcolato equivocando sulla collocazione di un’area: questo errore del consulente tecnico non riguarda il ragionamento del giudice, che ha pronunciato una sentenza correttamente argomentata.
In sintesi, sia le controversie che riguardano il momento iniziale dell’esecuzione di opere pubbliche (accordi) sia quelle sugli aspetti di dettaglio (stime dei suoli), esigono particolare attenzione al fine di evitare errori di giudici e di consulenti
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.01.2016).

anno 2015

ESPROPRIAZIONEEsproprio con permuta limitato. Strumento applicabile solo per interventi di riabilitazione urbana.
Tar Puglia. Bocciato lo scambio forzoso di un terreno nel caso di un Consorzio che voleva inglobare un’area.

Più difficile imporre permute di terreni per attuare progetti di interesse generale: lo sottolinea il TAR Puglia-Bari, Sez. III, con sentenza 03.12.2015 n. 1590, relativa al caso di un Consorzio che aveva necessità di inglobare una piccola area.
Il proprietario di un lotto (208 metri quadrati), era stato espropriato ricevendo come indennizzo un’area, in permuta, di 733 metri quadrati. Ciò perché il Comune, superando il meccanismo normale di indennizzo in moneta (articolo 36 Testo unico 327/2001, pagamento del valore venale), aveva applicato una norma speciale che consente permute di immobili.
L’ente locale, infatti, su richiesta di altri proprietari consorziati che intendevano realizzare un ampio piano urbanistico, aveva applicato l’articolo 27 della legge 166 del 2001, che consente alla maggioranza assoluta (catastalmente determinata) dei proprietari, di espropriare le aree dei consorziati in disaccordo, ricorrendo a permute per gli indennizzi.
La decisione del Tribunale
Su ricorso dell’espropriato, il Tar ha adottato un’interpretazione restrittiva della norma sulle permute, ritenendola applicabile solo nel caso dei piani di «riabilitazione urbana». Secondo i giudici, solo quando si tende alla riqualificazione di immobili ed attrezzature, al miglioramento dell’accessibilità e mobilità urbana, riordinando reti di trasporto e infrastrutture (Legge 166/2001) è possibile imporre le permute, mentre negli altri casi chi perde l’area ha diritto a un corrispettivo in denaro.
Nel caso esaminato in Puglia, si discuteva di un piano di lottizzazione e quindi si era al di fuori del regime della legge 166 sulla riabilitazione urbana. Esclusa la permuta, rimangono, tuttavia, strade diverse dal pagamento in danaro: ad esempio è possibile stipulare un accordo a norma della legge 241/1990, modificando destinazioni e volumetrie (articolo 5 Dpr 447/1998, per le iniziative produttive), oppure fruire di meccanismi di densificazione urbana (articolo 17, comma 4-bis, Testo unico Edilizia, introdotto dal decreto legge 133/2014) o contributi al Comune in cambio del maggior valore dovuto a varianti.
La perequazione
In sede di pianificazione generale, può operare poi il principio della perequazione, modificando gli indici di edificabilità per trovare spazio e risorse economiche utili all’esecuzione di interventi pubblici (Consiglio di Stato 4545/2010, sul Piano regolatore generale di Roma).
Prende piede quindi una “moneta parallela” per gli scambi in materia urbanistica, con accordi agevolati da una sorta di “proibizionismo” iniziato nel 2011, quando il legislatore ha fortemente scoraggiato gli acquisti immobiliari delle pubbliche amministrazioni (articolo 12, comma 1-quater, decreto legge 98/2011).
Permute consensuali
Se gli acquisti sono possibili solo in caso di “assoluta convenienza” (codificati nel decreto ministeriale 14.02.2014), è la stessa Corte dei conti (Sezione Toscana, delibera 125/2013; Liguria, delibera 9/2013) a suggerire il ricorso a figure parallele di scambio, comprese le permute. Figure, queste ultime, che il Tar Bari vuole sempre, tuttavia, consensuali, senza quindi la possibilità di imporre d’autorità uno scambio di beni
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.12.2015).

ESPROPRIAZIONE: Espropri, accessione invertita contraria alla Convenzione dei diritti dell'uomo.
L'occupazione acquisitiva è contraria alla convenzione europea dei diritti dell'uomo come tutte le forme di espropriazione indiretta elaborate nell'ordinamento italiano anche e soprattutto in sede giurisprudenziale: il fatto che sul terreno sia stata ormai realizzata l'opera pubblica non può fare acquisire il bene all'amministrazione laddove l'acquisizione del diritto di proprietà, ricorda Strasburgo, non può mai conseguire a un illecito.
Non conta che sia intervenuta la dichiarazione di pubblica utilità. Ecco allora che il proprietario del terreno deve ottenere la restituzione o il risarcimento del danno e il suo diritto non decorre dalla ormai risalente trasformazione irreversibile del fondo: il termine quinquennale scatta dalle singole annualità, quanto al danno per la perdita del godimento, e dalla data della domanda, quanto alla reintegrazione per equivalente.

Lo stabiliscono le Sezioni unite civili della Corte di Cassazione con la sentenza 19.01.2015 n. 735 che risolve un contrasto di giurisprudenza.
Illecito permanente
Accolto il ricorso degli eredi del de cuius: si riapre una controversia cominciata nel lontano 1953 con l'esproprio di un terreno da parte del Comune che ha realizzato soltanto nel '60 sul fondo espropriato la scuola di cui aveva tanto bisogno.
Trova ingresso la censura secondo cui l'accessione invertita non può essere applicata perché è contraria al principio di legalità affermato dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo: il diritto al risarcimento del proprietario, dunque, deriva da un illecito permanente com'è appunto l'occupazione illegittima del terreno da parte di un ente pubblico.
La giurisprudenza di Strasburgo sottolinea che «lo stato dovrebbe, prima di tutto, adottare misure tendenti a prevenire ogni occupazione fuori legge dei terreni, che si tratti d'occupazione senza titolo dall'inizio o di occupazione inizialmente autorizzata e divenuta senza titolo successivamente» (nella specie l'occupazione di urgenza dell'area diventa illegittima perché il decreto di esproprio non interviene entro il biennio successivo).
La contrarietà alla Cedu esclude che l'istituto sopravviva nel nostro ordinamento. Parola al giudice del rinvio (articolo ItaliaOggi del 20.01.2015).

ESPROPRIAZIONE: L’illecito spossessamento del privato da parte della p.a. e l’irreversibile trasformazione del suo terreno per la costruzione di un’opera pubblica non danno luogo, anche quando vi sia stata dichiarazione di pubblica utilità, all’acquisto dell’area da parte dell’Amministrazione ed il privato ha diritto a chiederne la restituzione salvo che non decida di abdicare al suo diritto e chiedere il risarcimento del danno.
Il privato, inoltre, ha diritto al risarcimento dei danni per il periodo, non coperto dall’eventuale occupazione legittima, durante il quale ha subito la perdita delle utilità ricavabili dal terreno e ciò sino al momento della restituzione ovvero sino al momento in cui ha chiesto il risarcimento del danno per equivalente, abdicando alla proprietà del terreno.
Ne consegue che la prescrizione quinquennale del diritto al risarcimento dei danni decorre dalle singole annualità, quanto al danno per la perdita del godimento, e dalla data della domanda, quanto alla reintegrazione per equivalente.

Il primo motivo è fondato con conseguente assorbimento del secondo motivo.
L’occupazione acquisitiva (o espropriativa o appropriativa) è, come è noto, istituto di creazione giurisprudenziale risalente nella prima compiuta formulazione alla sentenza Cass. s.u. 26.02.1983, n. 1464, ma con un significativo precedente in Cass. 08.06.1979, n. 3243.
Tale pronunzia -affrontando il caso, non disciplinato dalla legge, di una occupazione protrattasi oltre i previsti termini di occupazione legittima e contrassegnata dalla irreversibile trasformazione del fondo per la costruzione di un’opera dichiarata di pubblica utilità– è stata il frutto della dichiarata ricerca di un punto di equilibrio tra la tutela dell’azione amministrativa (assicurata dall’acquisto a titolo originario in capo alla pubblica amministrazione della proprietà del suolo illegittimamente occupato e trasformato) e la tutela della proprietà privata (assicurata dall’obbligo dell’amministrazione occupante di risarcire integralmente il danno arrecato, sulla base, almeno sino all’entrata in vigore del comma 7-bis dell’art. 5-bis del d.l. n. 333/1992, del valore venale del bene).
Tale pronunzia, inoltre, ha segnato il superamento del precedente orientamento in base al quale, nel caso in esame, il privato restava proprietario del bene occupato, aveva diritto soltanto al risarcimento del danno determinato dalla perdita di utilità ricavabili dalla cosa e restava soggetto alla tardiva sopravvenienza del decreto di espropriazione, ritenuto idoneo a ricollocare la fattispecie su un piano di legittimità con l’attribuzione al privato soltanto di un indennizzo (all’epoca non commisurato al valore venale del bene) (ex plurimis Cass. 02.06.1977, n. 2234; Cass. 26.09.1978, n. 4323).
La giurisprudenza successiva, dopo la composizione (ad opera di Cass. s.u. 25.11.1992, n. 12546) del contrasto insorto circa il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno, si è dovuta confrontare con il problema della compatibilità (o meglio del contrasto) dell’istituto dell’occupazione acquisitiva con l’art. 1 del protocollo addizionale alla Convenzione EDU, come interpretato dalla Corte EDU.
In particolare, la Corte di Strasburgo ha censurato le forme di ‘espropriazione indiretta’ elaborate nell’ordinamento italiano anche e soprattutto in sede giurisprudenziale (come nel caso dell’occupazione acquisitiva) e le ha configurate come illecito permanente perpetrato nei confronti di un diritto fondamentale dell’uomo, garantito dall’art. 1 citato, senza che alcuna rilevanza possa assumere in contrario il dato fattuale dell’intervenuta realizzazione di un’opera pubblica sul terreno interessato, affermando che l’acquisizione del diritto di proprietà non può mai conseguire a un illecito (v., tra le tante, le sentenze Carbonara& Ventura c. Italia, 30.05.2000; Scordino c. Italia, 15 e 29.07.2004; Acciardi c. Italia, 19.05.2005; De Angelis c. Italia, 21.12.2006; Pasculli c. Italia, 04.12.2007).
In un’altra sentenza (Scordino c. Italia n. 3, 06.03.2007) la Corte di Strasburgo ha affermato che “lo Stato dovrebbe, prima di tutto, adottare misure tendenti a prevenire ogni occupazione fuori legge dei terreni, che si tratti d’occupazione sine titulo dall’inizio o di occupazione inizialmente autorizzata e divenuta sine titulo successivamente… Inoltre lo Stato convenuto deve scoraggiare le pratiche non conformi alle norme delle espropriazioni lecite, adottando disposizioni dissuasive e ricercando le responsabilità degli autori di tali pratiche. In tutti i casi in cui un terreno è già stato oggetto d’occupazione senza titolo ed è stato trasformato in mancanza di decreto d’espropriazione, la Corte ritiene che lo Stato convenuto dovrebbe eliminare gli ostacoli giuridici che impediscono sistematicamente e per principio la restituzione del terreno” (il medesimo concetto è espresso nella sentenza Carletta c. Italia, 15.07.2005 “il meccanismo dell’espropriazione indiretta permette in generale all’amministrazione di passare oltre le regole fissate in materia di espropriazione, col rischio di un risultato imprevedibile o arbitrario per gli interessati, che si tratti di un’illegalità dall’inizio o di un’illegalità sopraggiunta in seguito”).
La Corte Europea (v. anche le sentenze Sciarrotta c. Italia, 12.01.2006; Serrao c. Italia, 13.01.2006; Dominici c. Italia, 15.02.2006; Sciselo c. Italia, 20.04.2006; Cerro s.a.s. c. Italia, 23.05.2006) si dice anche “convinta che l’esistenza in quanto tale di una base legale non basti a soddisfare il principio di legalità”, non potendo l’espropriazione indiretta comunque costituire un’alternativa ad un’espropriazione “in buona e dovuta forma”.
La giurisprudenza di questa Corte successiva alle citate pronunzie della Corte EDU si è in larga parte orientata non verso l’abbandono dell’istituto dell’occupazione acquisitiva, nel frattempo presupposta, come si vedrà meglio in seguito, da alcune disposizioni di legge, ma verso la ricerca del superamento dei punti di criticità della disciplina dell’istituto rispetto ai principi affermati dalla Convenzione EDU.
In questa prospettiva si collocano, anzitutto, le decisioni tese ad affermare la compatibilità dell’istituto dell’occupazione acquisitiva con il principio sancito dall’art. 1 del protocollo addizionale alla Convenzione EDU, come interpretato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo; a tal fine si sottolinea che l’istituto non solo ha una base legale nei principi generali dell’ordinamento, ma ha trovato previsione normativa espressa prima (settoriale) con l’art. 3 della legge n. 458/1988 e, successivamente, con il comma 7-bis dell’art. 5-bis del d.l. n. 333/1992 (introdotto dall’art. 3, comma 65, della legge n. 662/1996) e, quindi, risulta ormai basato su regole sufficientemente accessibili, precise e prevedibili, ancorate a norme giuridiche che hanno superato il vaglio di costituzionalità ed hanno recepito (confermandoli) principi enucleati dalla costante giurisprudenza (Cass. s.u. 14.04.2003, n. 5902; Cass. s.u. 06.05.2003, n. 6853).
Altre decisioni si sono preoccupate di fissare il dies a quo del termine di prescrizione nel momento dell’emersione certa a livello legislativo dell’istituto e cioè a partire dalla legge n. 458/1988, ritenendo in tal modo soddisfatto il necessario ossequio al principio di legalità affermato in materia dalla Corte EDU (Cass. 28.07.2008, n. 20543; Cass. 05.10.21203; Cass. 22.04.2010, n. 9620; Cass. 26.05.2010, n. 12863; Cass. 26.03.2013, n. 7583; Cass. 18.09.2013, n. 21333).
Nello stesso orientamento conservativo dell’istituto si collocano le decisioni che hanno attribuito rilievo, ai fini dell’interruzione della prescrizione del diritto al risarcimento del danno, all’offerta ed al deposito dell’indennità di espropriazione (Cass. 16.01.2013, n. 923) ovvero alla richiesta di versamento del prezzo di una progettata cessione volontaria del fondo e alla richiesta dell’indennità di occupazione (Cass. 14.02.2008, n. 3700).
Infine, sempre nell’ambito dell’orientamento conservativo, il problema della tutela del privato, rispetto alla incertezza del dies a quo di un termine di prescrizione collegato all’irreversibile trasformazione, è stato definitivamente superato affermando sia che detto termine inizia a decorrere dal momento in cui il trasferimento della proprietà venga o possa essere percepito dal proprietario come danno ingiusto ed irreversibile sia che la relativa prova incombe sull’Amministrazione (Cass. 17.04.2014, n. 8965).
Nel senso del superamento dell’istituto dell’occupazione acquisitiva si sono pronunciate Cass. 14.01.2013, n. 705 e Cass. 28.01.2013, n. 1804. Tali decisioni hanno fondato le loro conclusioni non solo sulle pronunzie della Corte di Strasburgo, ma anche sull’art. 42-bis del d.p.r. 08.06.2001, n. 327 (testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità), sostenendo che tale norma sia applicabile anche ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore e disciplini in modo esclusivo, e perciò incompatibile con l’occupazione acquisitiva, le modalità attraverso le quali, a fronte di un’utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di pubblico interesse, è possibile –con l’esercizio di un potere basato su una valutazione degli interessi in conflitto– pervenire ad un’acquisizione non retroattiva della titolarità del bene al patrimonio indisponibile della P.A., sotto condizione sospensiva del pagamento, al soggetto che perde il diritto di proprietà, di un importo a titolo di indennizzo.
Si deve escludere che la questione della sopravvivenza o meno dell’istituto dell’occupazione acquisitiva per le fattispecie anteriori all’entrata in vigore del testo unico di cui al d.p.r. n. 327/2001 possa essere decisa, come ritenuto dalle citate Cass. nn. 705/2013 e 1804/2013, l’argomento della retroattività dell’art. 42-bis dello stesso d.p.r.. Al riguardo, si deve rammentare che l’articolo in questione è stato aggiunto dall’articolo 34, comma 1, dei d.l. n. 98/2011, dopo che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 293/2010, aveva dichiarato l’illegittimità, per eccesso di delega, dell’art. 43 del tu., che aveva dettato una prima regolamentazione dell’acquisizione sanante.
In tale contesto deve essere letto il comma 8 dell’art. 42-bis, secondo cui “le disposizioni del presente articolo trovano altresì applicazione ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se vi è già stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato, ma deve essere comunque rinnovata la valutazione di attualità e prevalenza dell’interesse pubblico a disporre l’acquisizione; in tal caso, le somme già erogate al proprietario, maggiorate dell’interesse legale, sono detratte da quelle dovute ai sensi del presente articolo”.
È vero che la lettera della norma non pone limitazioni di sorta all’applicazione della stessa a fatti anteriori alla sua entrata in vigore. L’interpretazione logica suggerisce, tuttavia, un diverso approdo. Come si è detto, l’art. 42-bis ha sostituito l’art. 43 del testo unico di cui al d.p.r. n. 327/2001, che aveva introdotto nel nostro ordinamento l’istituto dell’acquisizione sanante e che era stato espunto per eccesso di delega dalla Corte costituzionale.
È evidente, pertanto, la preoccupazione del legislatore del 2011 di assicurare alla nuova disposizione la stessa applicazione temporale già prevista per quella dettata dall’art. 43, che si inseriva in un sistema organico di norme destinato a superare l’istituto dell’occupazione acquisitiva, ma soltanto dopo il 30.06.2003 (data di entrata in vigore dei testo unico), come confermato dall’assenza in quella norma della previsione di una applicabilità anche ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore. Tale preoccupazione emerge, in particolare, laddove nel comma ottavo dell’art. 42-bis è stata specificamente prevista e disciplinata l’ipotesi della avvenuta emissione di un provvedimento di acquisizione ai sensi del precedente art. 43.
Distinte considerazioni devono essere fatte per l’art. 55 del t.u. che, con riferimento al periodo anteriore al 30.09.1996 (per quello successivo l’esclusione dal campo di applicazione dell’art. 5-bis, comma 7-bis, del d.l. n. 333/1992 era già sufficiente ad assicurare il risarcimento del danno secondo il criterio venale e senza riduzioni), disciplina il risarcimento dei danni per il caso di utilizzazione di un suolo edificabile per scopi di pubblica utilità in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio.
L’art. 55, nell’intenzione del legislatore ed indipendentemente dalla diversa lettura che se ne dovrà dare (v. infra punto n. 6 della motivazione), presupponeva l’applicabilità dell’istituto dell’occupazione acquisitiva, che è evidentemente incompatibile con l’istituto dell’acquisizione sanante, poiché questa parte dalla premessa che una acquisizione alla mano pubblica non si sia già verificata. Pertanto, solo con il superamento dell’occupazione acquisitiva, e perciò solo per il periodo successivo all’entrata in vigore del testo unico, poteva trovare applicazione il nuovo istituto, disciplinato prima dall’art. 43 e, poi, dall’art. 42-bis.
È chiaro, tuttavia, che l’originaria incompatibilità, storicamente certa, tra la disciplina dettata dall’art. 42-bis e quella dettata dall’art. 55, è destinata a venire meno con una diversa lettura di quest’ultima disposizione suggerita, come si dirà tra breve, dal contrasto dell’occupazione acquisitiva con i principi affermati dall’art. 1 del protocollo addizionale alla Convenzione EDU.
Resta però il fatto che l’art. 42-bis non può essere individuato come la causa dell’espunzione dall’ordinamento dell’istituto dell’occupazione acquisitiva e si apre, invece, il diverso problema, non rilevante in questa sede, se per effetto dell’espunzione dell’istituto, determinata da una diversa causa, possa ipotizzarsi, alla stregua dei principi in tema di applicazione della legge ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed ai rapporti da tali fatti generati, un ampliamento temporale del campo di applicazione dell’art. 42-bis, che non troverebbe più il limite derivante da situazioni in cui è già avvenuta l’acquisizione alla mano pubblica, ma eventualmente il limite, da verificare, dell’irretroattività della nuova disciplina oltre la decorrenza da essa desumibile e come sopra individuata.
Il contrasto dell’istituto dell’occupazione acquisitiva con l’art. 1 del protocollo addizionale alla Convenzione EDU è sufficiente per escluderne la sopravvivenza nel nostro ordinamento.
La sussistenza di tale contrasto è stata già riconosciuta da queste Sezioni unite con le ordinanze nn. 441 e 442 del 13.01.2014 con cui è stata ritenuta rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del citato art. 42 bis in relazione agli artt. 3, 24, 42, 97, 111 e 117 Cost., anche alla luce dell’art. 6 e dell’art. 1 del protocollo addizionale della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. In tali ordinanze, infatti, questa Corte ha dato atto che la Corte EDU ha dichiarato più volte “in radicale contrasto con la Convenzione il principio dell1espropriazione indiretta, con la quale il trasferimento della proprietà del bene dal privato alla p.a. avviene in virtù della constatazione della situazione di illegalità o illiceità commessa dalla stessa Amministrazione, con l’effetto di convalidarla; di consentire a quest’ultima di trame vantaggio; nonché di passare oltre le regole fissate in materia di espropriazione, con il rischio di un risultato imprevedibile o arbitrario per gli interessati. E nella categoria suddetta la Corte ha sistematicamente inserito… l’ipotesi corrispondente alla c.d. occupazione espropriativa… ritenendo ininfluente che una tale vicenda sia giustificata soltanto dalla giurisprudenza, ovvero sia consentita mediante disposizioni legislative, come è avvenuto con la L. n. 458 del 1988”.
Tale contrasto deve essere qui ribadito, sottolineando che il contrario orientamento conservativo ha eliminato nel tempo i punti di criticità connessi alla prescrizione del diritto al risarcimento del danno, ma nulla poteva fare rispetto alla esclusione del diritto alla restituzione, portato intrinseco dell’istituto dell’occupazione acquisitiva, che la Corte di Strasburgo, come sopra riferito (v sopra n. 2), ha ritenuto incompatibile con l’art. 1 della Convenzione EDU, affermando che lo Stato “dovrebbe eliminare gli ostacoli giuridici che impediscono sistematicamente e per principio la restituzione del terreno” (Scordino c. Italia n. 3, 06.03.2007; Sciarrotta c. Italia, 12.01.2006; Carletta c. Italia, 15.07.2005).
Il contrasto, del resto, è stato affermato anche dalla Corte costituzionale con la sentenza 08.10.2010, n. 293, rilevando –anche se solo in un obiter dictum, considerato che l’illegittimità dell’art. 43 del d.p.r. n. 327/2001 è stata dichiarata per eccesso di delega– che la Corte di Strasburgo, “sia pure incidentalmente, ha precisato che l’espropriazione indiretta si pone in violazione del principio di legalità, perché non è in grado di assicurare un sufficiente grado di certezza e permette all’amministrazione di utilizzare a proprio vantaggio una situazione di fatto derivante da azioni illegali, e ciò sia allorché essa costituisca conseguenza di un’interpretazione giurisprudenziale, sia allorché derivi da una legge –con espresso riferimento all’articolo 43 del t.u. qui censurato-, in quanto tale forma di espropriazione non può comunque costituire un’alternativa ad un’espropriazione adottata secondo buona e debita forma (causa Sciarrotta ed altri c. Italia – Terza Sezione – sentenza 12.01.2006 – ricorso n. 14793/02)”.
Le conseguenze della contrarietà dell’istituto dell’occupazione acquisitiva con i principi affermati dall’art. 1 del protocollo addizionale alla Convenzione EDU devono essere individuate sulla base di quanto stabilito dalla Corte costituzionale con le sentenze nn. 348 e 349 del 2007 e 338 del 2011: le norme interne in contrasto gli obblighi internazionali sanciti dall’art. 1 del primo protocollo addizionale alla CEDU, che il legislatore è tenuto a rispettare in forza dell’art. 117, primo comma, Cost., non possono essere disapplicate dal giudice nazionale che deve verificare la possibilità di risolvere il problema in via interpretativa, rimettendo, in caso contrario, la questione alla Corte costituzionale.
Orbene, nella specie, come chiarito in precedenza, l’istituto dell’occupazione acquisitiva è stato elaborato dalla giurisprudenza e, successivamente, è stato presupposto da diverse disposizioni di legge. Pertanto, una volta accertata la contrarietà dell’istituto con i principi della Convenzione EDU, occorre stabilire, da un lato, se l’interpretazione della giurisprudenza sulle conseguenze dell’illecita utilizzazione sia o meno la sola consentita dal sistema e, dall’altro, se le norme che hanno dato ‘copertura’ all’istituto possano o meno essere ‘sganciate’ da questo ed essere oggetto di una diversa interpretazione.
Al primo interrogativo si deve dare certamente risposta positiva poiché la c.d. accessione invertita rappresenta una eccezione rispetto alla normale disciplina degli effetti di una occupazione illegittima cui consegue ordinariamente il diritto del soggetto spossessato di richiedere la restituzione. Tale eccezione si fondava sulla esistenza, affermata in via interpretativa, di un principio generale, del quale sarebbero stati espressione gli artt. 936 ss. cod. civ., in base al quale, nel caso di opere fatte da un terzo su un terreno altrui, la proprietà sia del suolo sia della costruzione viene attribuita al soggetto portatore dell’interesse ritenuto prevalente, con la precisazione che il principio opera anche in caso di attività illecita posta in essere dalla P.A. e che quest’ultima deve essere individuata come il soggetto portatore dell’interesse prevalente quando viene realizzata un’opera dichiarata di pubblica utilità.
La giurisprudenza della Corte EDU fa, tuttavia, cadere il presupposto della possibilità di affermare in via interpretativa che da una attività illecita della P.A. possa derivare la perdita del diritto di proprietà da parte del privato. Caduto tale presupposto, diviene applicabile lo schema generale degli artt. 2043 e 2058 c.c., il quale non solo non consente l’acquisizione autoritativa del bene alla mano pubblica, ma attribuisce al proprietario, rimasto tale, la tutela reale e cautelare apprestata nei confronti di qualsiasi soggetto dell’ordinamento (restituzione, riduzione in pristino stato dell’immobile, provvedimenti di urgenza per impedirne la trasformazione ecc), oltre al consueto risarcimento del danno, ancorato ai parametri dell’art. 2043 c.c.: esattamente come sinora ritenuto per la c.d. occupazione usurpativa (ex plurimis Cass. s.u. 19.05.1982; Cass. s.u. 04.03.1997, n. 1907; Cass. 12.12.2001, n. 15710; Cass. 03.05.2005, n. 9173; Cass. 15.09.2005, n. 18239; Cass. s.u. 25.06.2009, n. 14886; Cass. 25.01.2012, n. 1080).
Con riferimento al secondo interrogativo si devono prendere in considerazione le seguenti disposizioni:
- art. 3, comma 1, della legge n. 458/1988: “il proprietario del terreno utilizzato per finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata e convenzionata, ha diritto al risarcimento del danno causato da provvedimento espropriativo dichiarato illegittimo con sentenza passata in giudicato, con esclusione della retrocessione del bene” (disposizione che la Corte costituzionale, con la sentenza 27.12.1991, n. 486, ha esteso al proprietario del terreno utilizzato per finalità di edilizia residenziale pubblica senza che sia stato emesso alcun provvedimento di esproprio);
- art. 11, commi 5 e 7, della legge n. 413/1991 che, ai fini della determinazione della base imponibile per l’imposta sul reddito, prendono in considerazione, rispettivamente, “le plusvalenze conseguenti alla percezione, da parte di soggetti che non esercitano imprese commerciali, di somme comunque dovute per effetto di acquisizione coattiva conseguente ad occupazioni di urgenza divenute illegittime” e il “risarcimento danni da occupazione acquisitiva”;
- art. 5-bis, comma 7-bis, del d.l. n. 333/1992: “in caso di occupazioni illegittime di suoli per causa di pubblica utilità, intervenute anteriormente al 30.09.1996, si applicano, per la liquidazione del danno, i criteri di determinazione dell’indennità di cui al comma 1, con esclusione della riduzione del 40 per cento. In tal caso l’importo del risarcimento è altresì aumentato del 10 per cento. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche ai procedimenti in corso non definiti con sentenza passata in giudicato” (comma dichiarato costituzionalmente illegittimo da Corte cost. n. 349/2007);
- art. 55, comma 1, del d.p.r. n. 327/2001: “nel caso di utilizzazione di un suolo edificabile per scopi di pubblica utilità, in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio alla data del 30.09.1996, il risarcimento del danno è liquidato in misura pari al valore venale del bene” [comma introdotto dall’art.2, comma 89, lettera e), della legge n. 244/2007 dopo che la Corte costituzionale, con la citata decisione n. 349/2007, presupponendo implicitamente esistente e costituzionalmente legittima la c.d. occupazione acquisitiva, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis, comma 7-bis, del d.l. n. 333/1992, che determinava il risarcimento del danno in misura inferiore al valore venale del bene];
La prima delle menzionate disposizioni, escludendo la retrocessione (da intendersi nel senso di restituzione, come precisato da Cass. 03.04.1990, n. 2712), presuppone evidentemente che alla trasformazione irreversibile dell’area consegua necessariamente l’acquisto della stessa da parte chi ha realizzato le opere. La disposizione, tuttavia, non ha carattere generale, essendo limitata alla utilizzazione dei suoli per finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata e convenzionata.
La disposizione, inoltre, come chiarito da Cass. s.u. 25.11.1992, n. 12546, si riferisce ad una fattispecie che non può ricondursi all’istituto dell’occupazione acquisitiva, mancando due caratteri fondamentali di questa e cioè sia l’irreversibile destinazione del suolo privato a parte integrante di un’opera pubblica (bene demaniale o patrimoniale indisponibile) sia l’appartenenza a un soggetto pubblico. Ovviamente, non ci si può nascondere che tale disposizione è stata ritenuta, sinora, il punto di emersione a livello normativo del fenomeno dell’occupazione acquisitiva, del quale il legislatore avrebbe preso atto, estendendone il campo di applicazione.
Tuttavia, nel momento in cui deve essere verificata la possibilità di risolvere in via interpretativa il contrasto tra l’istituto dell’occupazione acquisitiva ed i principi dettati dall’art. 1 del protocollo addizionale alla Convenzione EDU, non si può non rilevare che la lettera della disposizione (abrogata dall’art. 58 del d.p.r. 327/2001 a decorrere dall’entrata in vigore dello stesso d.p.r. e, per questo, ancora applicabile alle espropriazioni la cui dichiarazione di pubblica utilità è anteriore al 30.06.2003) si riferisce soltanto alle utilizzazioni per finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata e convenzionata, ipotesi non solo nella specie non ricorrente, ma non rientrante neppure, come si è detto, nell’ambito della figura dell’occupazione acquisitiva elaborata dalla giurisprudenza.
Ne consegue, indipendentemente dalla configurabilità o meno in relazione a dette finalità di una funzione sociale della proprietà da valutare alla luce dell’art. 42 Cost., l’irrilevanza nel caso in esame di una questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, della legge n. 458/1988, in relazione al disposto dell’art. 117, comma 1, Cost..
Le sopra riportate disposizioni tributarie non disciplinano l’istituto dell’occupazione acquisitiva, ma le conseguenze sul piano fiscale della erogazione del risarcimento. Il che significa che il fisco prende in considerazione soltanto ‘dall’esterno’, come un dato di fatto, le erogazioni derivanti da una occupazione, che solo a fini descrittivi della fattispecie viene qualificata come acquisitiva, senza che le predette disposizioni ne disciplinino gli elementi costitutivi e l’effetto della c.d. accessione invertita. Ne consegue che l’espunzione dell’istituto dall’ordinamento non contrasta con dette disposizioni, che restano applicabili per il solo fatto che, su domanda del danneggiato e con implicita rinunzia al diritto di proprietà, via sia stata l’erogazione del risarcimento.
Per quanto concerne l’art. 55 del d.p.r. n. 327/2001 (non occorre invece considerare l’art. 5-bis, comma 7-bis, del d.l. n. 333/1992 in quanto, come si è detto, dichiarato costituzionalmente illegittimo, ma per il quale varrebbe lo stesso ragionamento), si deve osservare che tale disposizione, pur avendo storicamente presupposto una occupazione acquisitiva, non richiede necessariamente un contesto nel quale l’occupazione dia luogo all’acquisizione del terreno alla mano pubblica con esclusione restituzione al proprietario.
La norma, infatti, prende in considerazione il risarcimento del danno eventualmente spettante al proprietario in caso di illecita utilizzazione del suo terreno, ma non esclude affatto la possibilità di una restituzione del bene illecitamente utilizzato dall’Amministrazione. In altre parole, la disposizione in esame, sebbene vista in passato come copertura normativa dell’istituto creato dalla giurisprudenza, può e deve essere letta oggi come sganciata dall’occupazione acquisitiva e perciò come se in essa fosse presente l’inciso ‘ove non abbia luogo la restituzione’ e non più, secondo la lettura data in precedenza, come se in essa fosse presente l’inciso ‘non essendo possibile la restituzione’.
In conclusione, alla luce della costante giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, quando il decreto di esproprio non sia stato emesso o sia stato annullato, l’occupazione e la manipolazione del bene immobile di un privato da parte dell’Amministrazione si configurano, indipendentemente dalla sussistenza o meno di una dichiarazione di pubblica utilità, come un illecito di diritto comune, che determina non il trasferimento della proprietà in capo all’Amministrazione, ma la responsabilità di questa per i danni. In particolare, con riguardo alle fattispecie già ricondotte alla figura dell’occupazione acquisitiva, viene meno la configurabilità dell’illecito come illecito istantaneo con effetti permanenti e, conformemente a quanto sinora ritenuto per la c.d. occupazione usurpativa, se ne deve affermare la natura di illecito permanente, che viene a cessare solo per effetto della restituzione, di un accordo transattivo, della compiuta usucapione da parte dell’occupante che lo ha trasformato, ovvero della rinunzia del proprietario al suo diritto, implicita nella richiesta di risarcimento dei danni per equivalente.
A tale ultimo riguardo, dissipando i dubbi espressi dall’ordinanza di rimessione, si deve escludere che il proprietario perda il diritto di ottenere il controvalore dell’immobile rimasto nella sua titolarità. Infatti, in alternativa alla restituzione, al proprietario è sempre concessa l’opzione per una tutela risarcitoria, con una implicita rinuncia al diritto dominicale sul fondo irreversibilmente trasformato (cfr. ex plurimis, in tema di occupazione c.d. usurpativa, Cass. 28.03.2001, n. 4451 e Cass. 12.12.2001, n. 15710); tale rinuncia ha carattere abdicativo e non traslativo: da essa, perciò, non consegue, quale effetto automatico, l’acquisto della proprietà del fondo da parte dell’Amministrazione (Cass. 03.05.2005, n. 9173; Cass. 18.02.2000 n. 1814).
La cessazione dell’illecito può aversi, infine, per effetto di un provvedimento di acquisizione reso dall’Amministrazione, ai sensi dell’art. 42-bis del t.u. di cui al d.p.r. n. 327/2001, con l’avvertenza che per le occupazioni anteriori al 30.06.2003 l’applicabilità dell’acquisizione sanante richiede la soluzione positiva della questione, qui non rilevante, sopra indicata al punto n. 4 della motivazione.
Per quanto sinora detto, in accoglimento del primo motivo di ricorso, la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio alla Corte di appello di Reggio Calabria che dovrà attenersi al seguente principio di diritto: “l’illecito spossessamento del privato da parte della p.a. e l’irreversibile trasformazione del suo terreno per la costruzione di un’opera pubblica non danno luogo, anche quando vi sia stata dichiarazione di pubblica utilità, all’acquisto dell’area da parte dell’Amministrazione ed il privato ha diritto a chiederne la restituzione salvo che non decida di abdicare al suo diritto e chiedere il risarcimento del danno. Il privato, inoltre, ha diritto al risarcimento dei danni per il periodo, non coperto dall’eventuale occupazione legittima, durante il quale ha subito la perdita delle utilità ricavabili dal terreno e ciò sino al momento della restituzione ovvero sino al momento in cui ha chiesto il risarcimento del danno per equivalente, abdicando alla proprietà del terreno. Ne consegue che la prescrizione quinquennale del diritto al risarcimento dei danni decorre dalle singole annualità, quanto al danno per la perdita del godimento, e dalla data della domanda, quanto alla reintegrazione per equivalente” (Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, sentenza 19.01.2015 n. 735 -
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anno 2014

ESPROPRIAZIONE: Condannati Sindaco e responsabile ufficio tecnico che non concludono l'esproprio.
I giudici contabili fanno chiarezza sulla condotta omissiva dell'Amministrazione.

Una procedura espropriativa ha causato un danno consistente alla casse comunali. La giunta municipale aveva deciso di iniziare i lavori di una strada ma poi non aveva concluso l’iter con l’adozione del provvedimento di esproprio.
Il proprietario del terreno, vista la trasformazione irreversibile del suolo, adiva il Tribunale civile per essere risarcito. Il processo si concludeva con una sentenza di condanna per l’Amministrazione comunale pari a € 21.150,00.
Secondo quanto affermato dalla Procura presso la Corte dei Conti il pagamento di questa somma poteva essere evitato e, pertanto, si configura un danno erariale indiretto imputabile al Sindaco e al responsabile dell’ufficio tecnico.
A nulla sono valse le argomentazioni difensive dei convenuti. Infatti, affermano i giudici contabili, l’ipotesi di mancato espletamento della procedura espropriativa rende responsabile il Sindaco che ha la potestà provvedimentale in materia. Il capo dell’Amministrazione e, come tale, responsabile diretto degli affari del comune, è “titolare di un dovere di sovrintendenza sul funzionamento dei servizi e degli uffici”.
Così anche l’Ufficio tecnico ha “l’indubbio compito di curare tutti gli aspetti tecnico-amministrativi relativi alle procedure espropriative (redigere lo stato di consistenza, i decreti, le occupazioni definitive e le retrocessioni, i frazionamenti e gli accatastamenti). In particolare, è l’apparato cui è affidato l’espletamento di tutta l’attività strumenta e propedeutica all’adozione, da parte dell’organo politico, del provvedimento finale d’esproprio”.
Nella vicenda in esame quindi vi sono stati inadempimenti rispetto a doveri normativamente previsti.
La condotta omissiva del Sindaco –secondo i giudici contabili– è “manifestazione di grave trascuratezza e non curanza” ed ancora di un “disinteresse totale degli obblighi e dei doveri istituzionali”. Il primo cittadino, con questo comportamento, ha violato i doveri di attenzione sugli affari del Comune, trascurando in maniera grave “i principi normativi di buon andamento dell’azione amministrativa e, soprattutto una marcata inosservanza delle norme specifiche in materia di espropriazione”.
Pertanto, con la sentenza 15.10.2014 n. 238, la Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. per la Regione Calabria, ha condannato sia il Sindaco (nella quota del 60%) a risarcire il danno per una somma pari a € 1.800 che il responsabile tecnico per € 253, per quest’ultimo nella quantificazione del danno si è tenuto conto dei giorni (563) in cui svolse l’attività lavorativa (commento tratto da www.ilquotidianodellapa.it).

ESPROPRIAZIONEOccupazione di terreno al giudice ordinario. Una sentenza sulla liquidazione dell'indennità spettante.
Spetta al giudice ordinario decidere sulla domanda volta alla liquidazione dell'indennità spettante per il periodo di occupazione legittima del terreno, trovando applicazione l'art. 53, comma 2, del dlgs n. 325 del 2001, come modificato dal dlgs n. 104 del 2010.

Ad affermarlo sono stati i giudici della II Sez. del TAR Calabria-Catanzaro con sentenza 17.07.2014 n. 1190.
I giudici amministrativi calabresi, in ossequio anche con una consolidata giurisprudenza, hanno osservato che: «ricade pressoché interamente nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ex art. 133, lett. f), c.p.a., che devolve a quest'ultimo le controversie, anche risarcitorie, [le questioni] che abbiano a oggetto un'occupazione originariamente legittima, che sia poi divenuta sine titulo a causa del decorso dei termini di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità senza il sopravvenire di un valido decreto di esproprio, trattandosi non già di meri comportamenti materiali, ma di condotte costituenti espressione di un'azione originariamente riconducibile all'esercizio del potere autoritativo della p.a. e che solo per accidenti successivi hanno perso la propria connotazione eminentemente pubblicistica».
Esclude la possibilità di una condanna puramente risarcitoria a carico dell'amministrazione -hanno, poi, sostenuto i giudici del Tar- l'ordinamento sovranazionale recepito dalla Repubblica italiana, anche a fronte della sopravvenuta irreversibile trasformazione del suolo per effetto della realizzazione di un'opera pubblica astrattamente riconducibile al compendio demaniale necessario.
Né la realizzazione dell'opera pubblica rappresenta un impedimento alla possibilità di restituire l'area illegittimamente appresa, e ciò indipendentemente dalle modalità -occupazione acquisitiva od usurpativa- di acquisizione del terreno (si veda C. cost. 04.10.2010 n. 293; Cons. stato, Sez. V, 02.11.2011 n. 5844).
Pertanto è sempre necessario «un passaggio intermedio, finalizzato all'acquisto della proprietà del bene da parte dell'ente espropriante (cfr. Cons. stato, Sez. IV, 16.11.2007 n. 5830; Tar Campania, Salerno, Sez. II, 14.01.2011 n. 43)»
(articolo ItaliaOggi Sette del 18.08.2014).

ESPROPRIAZIONE: L'articolo 1158 del codice civile prevede che “La proprietà dei beni immobili e gli altri diritti reali di godimento sui beni medesimi si acquistano in virtù del possesso continuato per venti anni”.
Orbene, nelle vicende come quelle in esame, in cui sia avviato ma non concluso un procedimento espropriativo, l’inizio della situazione giuridica utile per l’usucapione, ossia la trasformazione della mera detenzione in possesso, si verifica subito dopo la scadenza del termine massimo di occupazione legittima del bene, atteso che l’apprensione e la detenzione dello stesso in virtù di provvedimento di occupazione di urgenza (che comporta la corresponsione di una indennità in favore del privato), implicando il riconoscimento del diritto dominicale di quest’ultimo, non integra l’elemento possessorio necessario per l’acquisto della proprietà.
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La giurisprudenza ha avuto modo di precisare che, in virtù del rinvio fatto dall’articolo 1165 cc all’art. 2943 cc, risultano tassativamente elencati gli atti interruttivi del possesso, onde non è consentito attribuire efficacia interruttiva ad atti diversi da quelli stabiliti dalla legge, con la conseguenza che tale efficacia può riconoscersi solo ad atti che comportino, per il possessore, la perdita materiale del potere di fatto sulla cosa, oppure ad atti giudiziali diretti ad ottenere ope iudicis la privazione del possesso nei confronti del possessore usucapente, come la notifica dell’atto di citazione con il quale venga richiesta la materiale consegna di tutti i beni immobili in ordine ai quali si vanti un diritto dominicale.
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Si è, poi, affermato:
- che gli atti di diffida e messa in mora sono idonei ad interrompere la prescrizione dei diritti di obbligazione, ma non anche il termine utile per usucapire, potendosi esercitare il relativo possesso anche in aperto e dichiarato contrasto con la volontà del titolare del diritto reale;
- che in tema di atti interruttivi del termine per usucapire, non è sufficiente un mero atto o fatto che evidenzi la consapevolezza del possessore circa la spettanza ad altri del diritto da lui esercitato come proprio, ma si richiede che il possessore, per il modo in cui questa conoscenza è rivelata o per fatti in cui essa è implicita, esprima la volontà non equivoca di attribuire il diritto reale al suo titolare;
- che gli atti interruttivi dell’usucapione, posti in essere nei confronti di uno dei compossessori, non hanno effetto interruttivo nei confronti degli altri, in quanto il principio di cui all’art. 1310 cc trova applicazione in materia di diritti di obbligazione e non di diritti reali, per i quali non sussiste vincolo di solidarietà, dovendosi invece farsi riferimento ai singoli comportamenti dei compossessori, che giovano o pregiudicano solo coloro che li hanno (o nei cui confronti sono stati) posti in essere.

Ciò posto, si osserva che l’articolo 1158 del codice civile prevede che “La proprietà dei beni immobili e gli altri diritti reali di godimento sui beni medesimi si acquistano in virtù del possesso continuato per venti anni”.
Orbene, nelle vicende come quelle in esame, in cui sia avviato ma non concluso un procedimento espropriativo, l’inizio della situazione giuridica utile per l’usucapione, ossia la trasformazione della mera detenzione in possesso, si verifica subito dopo la scadenza del termine massimo di occupazione legittima del bene, atteso che l’apprensione e la detenzione dello stesso in virtù di provvedimento di occupazione di urgenza (che comporta la corresponsione di una indennità in favore del privato), implicando il riconoscimento del diritto dominicale di quest’ultimo, non integra l’elemento possessorio necessario per l’acquisto della proprietà (cfr. TAR Puglia, Lecce, II, 02.11.2011, n. 1913; CGA Sicilia, 14.01.2013, n. 9).
Nella vicenda in esame la scadenza del termine di occupazione legittima si colloca alla data del 30.12.1989, come accertato sia dal Tribunale di Vallo della Lucania (con la sentenza n. 33 del 2003) sia dalla Corte di Appello di Salerno ( con la sentenza n. 761/2011) nel giudizio civile svoltosi tra il Torrusio ed il Comune di Vallo della Lucania, avente ad oggetto il risarcimento del danno da occupazione appropriativa e conclusosi con il rigetto della domanda attorea.
Di conseguenza, risultando il 31.12.1989 il dies a quo per il calcolo del possesso ventennale ad usucapionem, la maturazione del termine previsto dall’articolo 1958 c.c. si è verificata in data 01.01.2010, dunque in epoca ben anteriore alla proposizione del presente ricorso, notificato solo il 19.01.2012.
Né, d’altra parte, vengono dedotti in giudizio elementi utili a ritenere che, durante il suddetto arco temporale, la pubblica amministrazione non abbia avuto, in relazione al suolo per cui è causa, un possesso non interrotto, pacifico, pubblico e non equivoco.
Invero, nel ricorso introduttivo si precisa che, a seguito del decreto sindacale di occupazione del 25.11.1983, lo IACP prendeva possesso del fondo in data 30.12.1983 e che “i successivi lavori di realizzazione dell’intervento di edilizia popolare venivano appaltati alla CoGePa e collaudati in data 02.03.1989… e che pertanto alla scadenza del termine di fine lavori indicato nella delibera 1666 del 22.11.1983 dello IACP di Salerno ( 5 anni dalla presa di possesso delle aree, avvenuta il 30.12.1983) si era già verificata l’irreversibile trasformazione del bene”.
Ritiene, di poi, il Tribunale che dagli atti depositati in giudizio e dalle emergenze di causa non emerge l’esistenza di atti interruttivi del predetto termine ventennale utile all’acquisto della proprietà per usucapione.
Con riferimento a tale questione, invero, la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che, in virtù del rinvio fatto dall’articolo 1165 cc all’art. 2943 cc, risultano tassativamente elencati gli atti interruttivi del possesso, onde non è consentito attribuire efficacia interruttiva ad atti diversi da quelli stabiliti dalla legge (cfr. Cass. civ. II, 20.01.2014, n. 1071), con la conseguenza che tale efficacia può riconoscersi solo ad atti che comportino, per il possessore, la perdita materiale del potere di fatto sulla cosa, oppure ad atti giudiziali diretti ad ottenere ope iudicis la privazione del possesso nei confronti del possessore usucapente, come la notifica dell’atto di citazione con il quale venga richiesta la materiale consegna di tutti i beni immobili in ordine ai quali si vanti un diritto dominicale (cfr. Cass. civ., II, 06.05.2014, n. 9682).
Si è, poi, affermato:
- che gli atti di diffida e messa in mora sono idonei ad interrompere la prescrizione dei diritti di obbligazione, ma non anche il termine utile per usucapire, potendosi esercitare il relativo possesso anche in aperto e dichiarato contrasto con la volontà del titolare del diritto reale (Cass. II, n. 9682/2014);
- che in tema di atti interruttivi del termine per usucapire, non è sufficiente un mero atto o fatto che evidenzi la consapevolezza del possessore circa la spettanza ad altri del diritto da lui esercitato come proprio, ma si richiede che il possessore, per il modo in cui questa conoscenza è rivelata o per fatti in cui essa è implicita, esprima la volontà non equivoca di attribuire il diritto reale al suo titolare (cfr. Cass. civ., II, 28.11.2013, n. 26641);
- che gli atti interruttivi dell’usucapione, posti in essere nei confronti di uno dei compossessori, non hanno effetto interruttivo nei confronti degli altri, in quanto il principio di cui all’art. 1310 cc trova applicazione in materia di diritti di obbligazione e non di diritti reali, per i quali non sussiste vincolo di solidarietà, dovendosi invece farsi riferimento ai singoli comportamenti dei compossessori, che giovano o pregiudicano solo coloro che li hanno (o nei cui confronti sono stati) posti in essere (cfr. Cass. civ., II, 25.10.2013, n. 24165) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 10.07.2014 n. 1247 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICIL’evoluzione subita dall’istituto dell’occupazione acquisitiva e il suo superamento da parte dell’ordinamento portano al risultato che le occupazioni illegittimamente disposte dall’Amministrazione, seppure accompagnate dall’irreversibile trasformazione dei beni occupati, non comportano la perdita della proprietà in capo ai privati e la sua acquisizione alla mano pubblica.
Nell’attuale quadro normativo, l’Amministrazione ha l’obbligo giuridico di fare venire meno, in ogni caso, l’occupazione “sine titulo” e, quindi, di adeguare comunque la situazione di fatto a quella di diritto. In tal senso, la P.A. ha due sole alternative: o deve restituire i terreni ai titolari, demolendo quanto realizzato e disponendo la completa riduzione in pristino allo “status quo ante”, oppure deve attivarsi perché vi sia un titolo di acquisto dell’area da parte del soggetto attuale possessore.
Non è, pertanto, possibile per le Amministrazioni restare inerti a fronte di situazioni di illecito permanente connesso con le occupazioni usurpative. Ne consegue che, in assenza di legittimi provvedimenti ablatori o di contratti di acquisto delle relative aree o di provvedimenti di acquisizione ex art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, deve affermarsi il potere dovere di far luogo alla materiale rimozione delle opere che risultano senza titolo e alla restituzione ai proprietari.
Ciò posto, ferma la natura discrezionale del provvedimento di cui all’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, che ha previsto un meccanismo, postumo, di acquisizione coattiva del bene, per cui è prevista una valutazione degli “interessi in conflitto”, il privato può legittimamente domandare l’emissione del provvedimento di acquisizione o, in difetto, la restituzione del fondo con la sua riduzione in pristino e l’Amministrazione ha, a fronte dell’istanza del privato, l’obbligo di provvedere.
A prescindere dall'esistenza di una specifica disposizione normativa, l'obbligo di provvedere sussiste in tutte quelle fattispecie particolari nelle quali ragioni di giustizia ed equità impongano l'adozione di un provvedimento, cioè in tutte quelle ipotesi in cui, in relazione al dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni di quest'ultima.
Ora, essendo trascorsi i termini per la conclusione del procedimento, l’Amministrazione è venuta meno al proprio dovere di concludere il procedimento con atto espresso e motivato come disposto dall’art. 2 della l. n. 241/1990.

... per l'accertamento dell’illegittimità del silenzio serbato dal Comune di Avetrana avverso l'atto di diffida presentato dalla ricorrente in data 03.05.2013 per la restituzione delle particelle del foglio di mappa 26 di cui è proprietaria: ...
...
Il ricorso è fondato.
L'inerzia serbata dal Comune sulla richiesta della ricorrente non risulta giustificata.
L’evoluzione subita dall’istituto dell’occupazione acquisitiva e il suo superamento da parte dell’ordinamento portano al risultato che le occupazioni illegittimamente disposte dall’Amministrazione, seppure accompagnate dall’irreversibile trasformazione dei beni occupati, non comportano la perdita della proprietà in capo ai privati e la sua acquisizione alla mano pubblica (Cass. Civ., II, 14.01.2013, n. 705).
Nell’attuale quadro normativo, l’Amministrazione ha l’obbligo giuridico di fare venire meno, in ogni caso, l’occupazione “sine titulo” e, quindi, di adeguare comunque la situazione di fatto a quella di diritto. In tal senso, la P.A. ha due sole alternative: o deve restituire i terreni ai titolari, demolendo quanto realizzato e disponendo la completa riduzione in pristino allo “status quo ante”, oppure deve attivarsi perché vi sia un titolo di acquisto dell’area da parte del soggetto attuale possessore. Non è, pertanto, possibile per le Amministrazioni restare inerti a fronte di situazioni di illecito permanente connesso con le occupazioni usurpative. Ne consegue che, in assenza di legittimi provvedimenti ablatori o di contratti di acquisto delle relative aree o di provvedimenti di acquisizione ex art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, deve affermarsi il potere dovere di far luogo alla materiale rimozione delle opere che risultano senza titolo e alla restituzione ai proprietari (Cons. St., IV, 26.03.2013, n. 1713).
Ciò posto, ferma la natura discrezionale del provvedimento di cui all’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, che ha previsto un meccanismo, postumo, di acquisizione coattiva del bene, per cui è prevista una valutazione degli “interessi in conflitto”, il privato può legittimamente domandare l’emissione del provvedimento di acquisizione o, in difetto, la restituzione del fondo con la sua riduzione in pristino e l’Amministrazione ha, a fronte dell’istanza del privato, l’obbligo di provvedere.
A prescindere dall'esistenza di una specifica disposizione normativa, l'obbligo di provvedere sussiste in tutte quelle fattispecie particolari nelle quali ragioni di giustizia ed equità impongano l'adozione di un provvedimento, cioè in tutte quelle ipotesi in cui, in relazione al dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni di quest'ultima.
Ora, essendo trascorsi i termini per la conclusione del procedimento, l’Amministrazione è venuta meno al proprio dovere di concludere il procedimento con atto espresso e motivato come disposto dall’art. 2 della l. n. 241/1990.
Il ricorso va pertanto accolto e per l’effetto dichiarata l’illegittimità del silenzio serbato dall’Amministrazione comunale (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 26.02.2014 n. 669 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEDall'art. 3 DPR n. 327/2001 consegue che, in linea generale, non possono essere prospettate violazioni delle norme afferenti alla comunicazione degli atti espropriativi e, quindi, violazione del principio di partecipazione al procedimento amministrativo, una volta che l'amministrazione abbia effettivamente disposto le comunicazioni in favore dei proprietari risultanti dai registri catastali, salvo che l'amministrazione non abbia "notizia dell'eventuale diverso proprietario effettivo".
Quanto a tale "notizia" -che, ai sensi dell'art. 3, comma 2, DPR n. 327/2001, ove sussistente, impone all'amministrazione di procedere alla comunicazione non già al proprietario "catastale" (secondo la regola generale) ma a quello "effettivo", essendo quest'ultimo da essa conosciuto- occorre osservare che essa non può essere rappresentata, o essere comunque desunta, da un qualsivoglia atto che, in tempi ed in procedimenti diversi, sia comunque pervenuto alla pubblica amministrazione, ma deve essere correttamente intesa come una notizia recante l'emersione del "vero" proprietario, acquisita dalla pubblica amministrazione nell'ambito della medesima o in diversa procedura espropriativa, o nel corso delle attività a questa propedeutiche.
Occorre, quindi, una conoscenza dell'effettivo proprietario che sia certa (incombendo l'onere della prova della conoscenza su chi eccepisce l'illegittimità delle comunicazioni effettuate al proprietario "catastale"), e non solo astrattamente desumibile dalla presenza di un qualsivoglia atto, prodotto o acquisito in tempi e procedimenti diversi da quello espropriativo, cui l'obbligo di comunicazione degli atti afferisce.

Occorre innanzi tutto ricordare che l'art. 3 DPR n. 327/2001, prevede, per quel che interessa nella presente sede: (comma 2) "Tutti gli atti della procedura espropriativa, ivi incluse le comunicazioni ed il decreto di esproprio, sono disposti nei confronti del soggetto che risulti proprietario secondo i registri catastali, salvo che l'autorità espropriante non abbia tempestiva notizia dell'eventuale diverso proprietario effettivo. Nel caso in cui abbia avuto notizia della pendenza della procedura espropriativa dopo la comunicazione dell'indennità provvisoria al soggetto che risulti proprietario secondo i registri catastali, il proprietario effettivo può, nei trenta giorni successivi, concordare l'indennità ai sensi dell' articolo 45, comma 2." (comma 3) "Colui che risulta proprietario secondo i registri catastali e riceva la notificazione o comunicazione di atti del procedimento espropriativo, ove non sia più proprietario è tenuto di comunicarlo all'amministrazione procedente entro trenta giorni dalla prima notificazione, indicando altresì, ove ne sia a conoscenza, il nuovo proprietario, o comunque fornendo copia degli atti in suo possesso utili a ricostruire le vicende dell'immobile.".
In sensi analoghi (considerando, cioè, il proprietario risultante dai registri catastali) già disponeva anche l'art. 10 l. n. 865/1971.
Dall'art. 3 DPR n. 327/2001 cit., consegue che, in linea generale, non possono essere prospettate violazioni delle norme afferenti alla comunicazione degli atti espropriativi e, quindi, violazione del principio di partecipazione al procedimento amministrativo, una volta che l'amministrazione abbia effettivamente disposto le comunicazioni in favore dei proprietari risultanti dai registri catastali (Cons. Stato, sez. IV, 26.02.2008 n. 677), salvo che l'amministrazione non abbia "notizia dell'eventuale diverso proprietario effettivo".
Quanto a tale "notizia" -che, ai sensi dell'art. 3, comma 2, DPR n. 327/2001, ove sussistente, impone all'amministrazione di procedere alla comunicazione non già al proprietario "catastale" (secondo la regola generale) ma a quello "effettivo", essendo quest'ultimo da essa conosciuto- occorre osservare che essa non può essere rappresentata, o essere comunque desunta, da un qualsivoglia atto che, in tempi ed in procedimenti diversi, sia comunque pervenuto alla pubblica amministrazione, ma deve essere correttamente intesa come una notizia recante l'emersione del "vero" proprietario, acquisita dalla pubblica amministrazione nell'ambito della medesima o in diversa procedura espropriativa, o nel corso delle attività a questa propedeutiche. Occorre, quindi, una conoscenza dell'effettivo proprietario che sia certa (incombendo l'onere della prova della conoscenza su chi eccepisce l'illegittimità delle comunicazioni effettuate al proprietario "catastale"), e non solo astrattamente desumibile dalla presenza di un qualsivoglia atto, prodotto o acquisito in tempi e procedimenti diversi da quello espropriativo, cui l'obbligo di comunicazione degli atti afferisce.
Da quanto ora esposto, consegue che –in carenza di tale prova della conoscenza del proprietario effettivo– bene l’Amministrazione ebbe a comunicare gli avvisi agli intestatari catastali (in termini, ex aliis, Consiglio di Stato sez. IV 16.09.2011 n. 5233) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.02.2014 n. 505 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEIl termine previsto per la conclusione della procedura ablatoria, coincidente con la data di adozione del conclusivo provvedimento che pronuncia l’esproprio assume i connotati della perentorietà di guisa l’inutile decorso del termine de quo comporta la inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità e la illegittimità dell’intera procedura espropriativa per cattivo esercizio del potere ablatorio da parte della P.A..
Questo Consiglio di Stato ha più volte statuito il principio per cui il termine previsto per la conclusione della procedura ablatoria, coincidente con la data di adozione del conclusivo provvedimento che pronuncia l’esproprio assume i connotati della perentorietà di guisa l’inutile decorso del termine de quo comporta la inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità e la illegittimità dell’intera procedura espropriativa per cattivo esercizio del potere ablatorio da parte della P.A. (ex multis, Cons. Stato Sez. Sez. V 18.03.2002 n. 1562; Sez. VI 07/09/2006 n. 5190) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.02.2014 n. 495 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEIn tema di espropriazione per p.u., gli immobili costruiti abusivamente non sono suscettibili di indennizzo, a meno che alla data dell'evento ablativo non risulti già rilasciata la concessione in sanatoria.
Per essi, quindi, la liquidazione non può avvenire sulla scorta del valore venale complessivo dell'edificio e del suolo su cui il medesimo insiste ma sulla sola area, per evitare che l'abusività degli insediamenti possa concorrere (anche in via indiretta) ad accrescere il valore del fondo. La medesima regola vale anche per le ipotesi di cd. "espropriazione larvata" previste dall'art. 46 della L. n. 2359/1865, atteso il necessario raccordo tra indennizzo previsto da tale norma e indennità di espropriazione (anche se regolata da leggi speciali): questo, anche se il danno lamentato consiste proprio nella diminuzione di godimento dell'immobile abusivo, poiché è principio di carattere generale desumibile dalla normativa -sia urbanistica, che espropriativa (cfr. art. 16, comma 9, L. n. 865/1971)- quello per cui il proprietario non può trarre beneficio alcuno dalla sua attività illecita.
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Il manufatto edificato illegittimamente, per l’ordinamento giuridico, non può essere fonte alcuna di locupletazione, in nessun caso, almeno sino a quando non sia stato sanato, secondo il consolidato principio (questo sì obliato dal Tar) che qui in re illicita versatur tenetur etiam pro casu.
Il manufatto abusivo è nella sostanza incommerciabile ("la nullità prevista dalla legge 28.02.1985, n. 47, di cui all'art. 40, comma 2, per omessa dichiarazione degli estremi della concessione edilizia dell' immobile oggetto della compravendita, ovvero degli estremi della domanda di concessione in sanatoria, assolve la sua funzione di tutela dell'affidamento sanzionando specificamente la sola violazione di un obbligo formale, imposto al venditore al fine di porre l'acquirente di un immobile in condizione di conoscere lo stato del bene acquistato e di effettuare gli accertamenti sulla regolarità del bene attraverso il confronto tra la sua consistenza reale e quella risultante dalla concessione edilizia ovvero dalla domanda di concessione in sanatoria. Da ciò consegue che, in presenza della dichiarazione, nessuna invalidità deriva al contratto dalla concreta difformità della realizzazione edilizia dalla concessione o dalla sanatoria e, in generale, dal difetto di regolarità sostanziale del bene sotto il profilo del rispetto delle norme urbanistiche.”);
- la eventuale alienazione a terzi di esso non incide sulla oggettiva abusività del bene medesimo e sulla necessità che sia demolito;
- esso non dovrebbe esistere: ove vi sia, ciò significa che si versa in stato di irregolarità, posto che invece, il manufatto avrebbe già dovuto essere abbattuto.
Non è azzardato ritenere che, quanto alla possibilità che il proprietario del medesimo se ne avvantaggi in qualsiasi modo, essa è radicalmente esclusa dall’ordinamento, tanto da potere assimilare il manufatto abusivo, a tali limitati, fini, ad una res nullius (arg. ex art. 17 della legge n. 47/1985: oggi: art. 46 del dPR n. 380/2001).
Detta situazione di illecito (di natura permanente: "il carattere permanente degli abusi edilizi -d.P.R. n. 380 del 2001 - T.U. Edilizia- comporta che il decorso del tempo non spieghi alcuna efficacia sanante nei confronti degli abusi stessi”, ma si veda anche tutta la costante elaborazione giurisprudenziale penalistica) preesisteva al fatto occupativo/espropriativo illegittimo, e detta sopravvenienza non può integrare una inammissibile “interversione” tale da far considerare risarcibile ciò che certamente non lo era.

Ciò posto, il Collegio richiama, in proposito, il consolidato orientamento della Corte di Cassazione (Cass. civ. Sez. I Sent., 14.12.2007, n. 26260) di recente ribadito dal giudice di legittimità (Cass. civ. Sez. I, 18.07.2013, n. 17604) secondo il quale “in tema di espropriazione per p.u., gli immobili costruiti abusivamente non sono suscettibili di indennizzo, a meno che alla data dell'evento ablativo non risulti già rilasciata la concessione in sanatoria. Per essi, quindi, la liquidazione non può avvenire sulla scorta del valore venale complessivo dell'edificio e del suolo su cui il medesimo insiste ma sulla sola area, per evitare che l'abusività degli insediamenti possa concorrere (anche in via indiretta) ad accrescere il valore del fondo. La medesima regola vale anche per le ipotesi di cd. "espropriazione larvata" previste dall'art. 46 della L. n. 2359/1865, atteso il necessario raccordo tra indennizzo previsto da tale norma e indennità di espropriazione (anche se regolata da leggi speciali): questo, anche se il danno lamentato consiste proprio nella diminuzione di godimento dell'immobile abusivo, poiché è principio di carattere generale desumibile dalla normativa -sia urbanistica, che espropriativa (cfr. art. 16, comma 9, L. n. 865/1971)- quello per cui il proprietario non può trarre beneficio alcuno dalla sua attività illecita" (Cass. nn. 17881/2004; 26260/ 2009; 4206/2011; Sez. Un. n. 9341/2003).
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Il manufatto edificato illegittimamente, per l’ordinamento giuridico, non può essere fonte alcuna di locupletazione, in nessun caso, almeno sino a quando non sia stato sanato, secondo il consolidato principio (questo sì obliato dal Tar) che qui in re illicita versatur tenetur etiam pro casu.
Il manufatto abusivo è nella sostanza incommerciabile (ex aliis, arg. Cass. civ. Sez. II, 05.10.2012, n. 17028: “la nullità prevista dalla legge 28.02.1985, n. 47, di cui all'art. 40, comma 2, per omessa dichiarazione degli estremi della concessione edilizia dell' immobile oggetto della compravendita, ovvero degli estremi della domanda di concessione in sanatoria, assolve la sua funzione di tutela dell'affidamento sanzionando specificamente la sola violazione di un obbligo formale, imposto al venditore al fine di porre l'acquirente di un immobile in condizione di conoscere lo stato del bene acquistato e di effettuare gli accertamenti sulla regolarità del bene attraverso il confronto tra la sua consistenza reale e quella risultante dalla concessione edilizia ovvero dalla domanda di concessione in sanatoria. Da ciò consegue che, in presenza della dichiarazione, nessuna invalidità deriva al contratto dalla concreta difformità della realizzazione edilizia dalla concessione o dalla sanatoria e, in generale, dal difetto di regolarità sostanziale del bene sotto il profilo del rispetto delle norme urbanistiche.”);
- la eventuale alienazione a terzi di esso non incide sulla oggettiva abusività del bene medesimo e sulla necessità che sia demolito (ex aliis ancora di recente Cass. pen. Sez. III Sent., 29.03.2007, n. 22853);
- esso non dovrebbe esistere: ove vi sia, ciò significa che si versa in stato di irregolarità, posto che invece, il manufatto avrebbe già dovuto essere abbattuto.
Non è azzardato ritenere che, quanto alla possibilità che il proprietario del medesimo se ne avvantaggi in qualsiasi modo, essa è radicalmente esclusa dall’ordinamento, tanto da potere assimilare il manufatto abusivo, a tali limitati, fini, ad una res nullius (arg. ex art. 17 della legge n. 47/1985: oggi: art. 46 del dPR n. 380/2001).
Detta situazione di illecito (di natura permanente: si veda ex aliis Cons. Stato Sez. VI, 18.09.2013, n. 4651 “il carattere permanente degli abusi edilizi -d.P.R. n. 380 del 2001 - T.U. Edilizia- comporta che il decorso del tempo non spieghi alcuna efficacia sanante nei confronti degli abusi stessi”, ma si veda anche tutta la costante elaborazione giurisprudenziale penalistica) preesisteva al fatto occupativo/espropriativo illegittimo, e detta sopravvenienza non può integrare una inammissibile “interversione” tale da far considerare risarcibile ciò che certamente non lo era.
L’illecito sopravvenuto, in altre parole, non vale a trasformare in diritto necessitante riparazione ciò che tale non era; che tale non era sotto il profilo oggettivo; che non rilevava in nessun senso per l’ordinamento giuridico.
A maggiore chiarificazione, si ricorrerà ad un esempio: la eventualità di accordare il risarcimento del danno per la (illegittima, certamente, ciò non può negarsi) demolizione di immobili abusivamente edificati e non ancora sanati, equivarrebbe ad ipotizzare la possibilità che colui il quale si sia indebitamente impossessato di un portafogli altrui (art. 624 cp) ove a propria volta derubato, possa chiedere il risarcimento del danno al (secondo) ladro
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.01.2014 n. 46 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2013

ESPROPRIAZIONE: C. Benetazzo, Occupazione “espropriativa”, acquisizione “amministrativa” ed usucapione come rimedio “alternativo” all’applicazione dell’art. 42-bis del d.P.R. n. 327/2001: ambito e limiti dei poteri cognitori del giudice amministrativo (18.12.2013 - link a www.federalismi.it).

ESPROPRIAZIONE: L. M. Musso, Occupazione appropriativa, occupazione acquisitiva e accessione invertita: la fine di un'epoca (11.12.2013 - link a www.diritto.it).

ESPROPRIAZIONECassazione. Le Sezioni unite chiariscono che le date da rispettare devono essere definite prima dell'inizio della procedura
Termini più certi sugli espropri. Scatta il risarcimento se la scadenza non è rispettata, ma sarà possibile la proroga.
Si può espropriare un terreno per realizzare una strada, ma i termini per procedere devono esser definiti fin dall'inizio.

Questo è il principio espresso dalla Sezioni unite civili della Corte di Cassazione nella sentenza 29.11.2013 n. 26778, relativa a un intervento in un Comune lombardo. Alcuni privati lamentavano di aver perso un'area occupata abusivamente da una strada: l'opera, prevista da una convenzione di lottizzazione, non era stata infatti preceduta da una specifica indicazione di un progetto con termini per l'esecuzione degli espropri.
Questi termini, secondo il Comune chiamato in giudizio, erano desumibili dalla convenzione di lottizzazione e comunque erano coerenti all'insediamento urbanistico da realizzare. Ma questa tesi dell'ente locale non è stata condivisa dalle Sezioni unite, le quali hanno sottolineato che in materia di esecuzione di opere pubbliche la proprietà privata viene meno solo se il potere di esproprio ha termini certi, relativi all'inizio e compimento delle procedure.
Se tali termini vengono violati, decorrendo inutilmente senza che l'opera venga eseguita o l'espropriazione ultimata con il passaggio di proprietà, viene meno la pubblica utilità dell'opera e l'area va restituita al precedente proprietario.
Se i termini sono fissati e sono insufficienti, prima della loro scadenza possono essere motivatamente prorogati (ad esempio per difficoltà di esecuzione), ma con termini già scaduti non è più possibile ritenere legittima l'espropriazione e il privato ha diritto al risarcimento del danno.
Quando le opere pubbliche avevano uno specifico progetto approvato (una strada, un canale eccetera) i termini per l'esproprio e l'ultimazione dei lavori erano agevolmente individuabili negli atti progettuali. Quando invece le singole opere pubbliche sono inserite in disegni più ampi, che comprendono edifici, urbanizzazioni, parchi, parcheggi, diventa complesso individuare in quale provvedimento amministrativo inserire i termini per le espropriazioni.
La difficoltà sorge in quanto da un lato alcune opere (ad esempio una strada) sono indispensabili, ma dall'altro non vi è certezza sui tempi dei finanziamenti e quindi sull'effettiva eseguibilità dei lavori. Per opere pubbliche quindi inserite in più ampi contesti, i termini per le espropriazioni sono desumibili dall'atto di pianificazione generale (un tracciato ferroviario, un'opera idraulica, un parco tematico); ma quando il contesto generale è a sua volta indefinito, viene meno la certezza dei termini e quindi l'esproprio diventa un rischio per le pubbliche amministrazioni.
Appunto ciò è quanto avvenuto nel Comune lombardo, in cui alcuni privati avevano ottenuto l'approvazione di una convenzione, impegnandosi a eseguire anche una strada: i tempi per la realizzazione dell'intervento edilizio, comprensivo della viabilità, non erano tuttavia certi, perché il piano di lottizzazione era stato più volte variato.
Il privato proprietario dell'area diventata strada, ha quindi visto riconosciuto il proprio diritto ad ottenere il risarcimento del danno, facendo cadere il procedimento espropriativo per mancanza di termini certi di esproprio (articolo Il Sole 24 Ore del 30.11.2013).

ESPROPRIAZIONE: Di Giulio Veltri, LA TUTELA RESTITUTORIA IN MATERIA ESPROPRIATIVA: LO STATO DELLA GIURISPRUDENZA ED I NODI ANCORA IRRISOLTI (novembre 2013 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Quanto al fatto che a seguito della convalida il procedimento non sia stato rinnovato o quantomeno retrocesso alla fase delle osservazioni da parte dei privati, va detto che la rinnovazione integrale di un procedimento espropriativo si impone quando si renda necessaria la rinnovazione di una dichiarazione di pubblica utilità scaduta o comunque privata di efficacia ovvero quando sopravvengano modifiche tali da stravolgere la fisionomia e la natura dell’opera stessa, anche perché in tal caso l’opera non potrebbe più dirsi assistita da una valida dichiarazione di pubblica utilità.
Quanto al fatto che a seguito della convalida il procedimento non sia stato rinnovato o quantomeno retrocesso alla fase delle osservazioni da parte dei privati, va detto che la rinnovazione integrale di un procedimento espropriativo si impone quando si renda necessaria la rinnovazione di una dichiarazione di pubblica utilità scaduta o comunque privata di efficacia (C.d.S. Sez. IV n. 39 del 13.01.2010) ovvero quando sopravvengano modifiche tali da stravolgere la fisionomia e la natura dell’opera stessa, anche perché in tal caso l’opera non potrebbe più dirsi assistita da una valida dichiarazione di pubblica utilità (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 09.10.2013 n. 1065 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEIl combinato disposto dell'art. 5-bis, comma 4, del d.l. n. 333/1992, convertito con modificazioni nella legge n. 359/1992 e dell'art. 16, commi 5 e 6, della legge 22.10.1971 n. 865 sono ormai definitivamente espunte dall'ordinamento per effetto della declaratoria d'incostituzionalità di cui alla sentenza della Corte Costituzionale n. 181 del 10.06.2011.
La Consulta ha infatti considerato l'illegittimità costituzionale delle suddette disposizioni per contrasto con l'art. 117, comma 1, cost., in relazione all'art. 1 del primo protocollo addizionale della convenzione europea dei diritti dell'uomo, nell'interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, nonché con l'art. 42, comma 3, cost., perché il c.d. v.a.m. (valore agricolo medio) "...prescinde dall'area oggetto del procedimento espropriativo ed ignora ogni dato valutativo inerente ai requisiti specifici del bene. Restano così trascurate le caratteristiche di posizione del suolo, il valore intrinseco del terreno (che non si limita alle colture in esso praticate, ma consegue anche alla presenza di elementi come l'acqua, l'energia elettrica, l'esposizione), la maggiore o minore perizia nella conduzione del fondo e quant'altro può incidere sul valore venale di esso. Il criterio, dunque, ha un carattere inevitabilmente astratto che elude il ragionevole legame con il valore di mercato del bene ablato, prescritto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e coerente, del resto, con il serio ristoro richiesto dalla consolidata giurisprudenza costituzionale. Fermo restando che il legislatore non ha il dovere di commisurare integralmente l'indennità di espropriazione al valore di mercato e che non sempre é garantita dalla Cedu una riparazione integrale, l'esigenza di effettuare una valutazione di congruità dell'indennizzo espropriativo, determinato applicando eventuali meccanismi di correzione sul valore di mercato, impone che quest'ultimo sia assunto quale termine di riferimento dal legislatore, in guisa da garantire il giusto equilibrio tra l'interesse generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali degli individui".
Ne consegue che, sempre in tema d'indennità di esproprio, l'inapplicabilità del v.a.m. (valore agricolo medio), ovviamente nei rapporti non esauriti, implica il necessario riferimento "... al valore venale pieno, potendo l'interessato anche dimostrare che il fondo è suscettibile di uno sfruttamento ulteriore e diverso da quello agricolo, pur senza raggiungere il livello dell'edificatorietà e che, quindi, ha una valutazione di mercato che rispecchia possibilità di utilizzazione intermedie tra l'agricola e l'edificatoria".
Orbene, è evidente che se ai fini dell'indennità d'esproprio, che deve rappresentare comunque un serio ristoro, non può aversi riguardo al valore agricolo medio, a fortiori non può tenersi conto del medesimo a fini risarcitori, dovendosi invece far riferimento al valore venale in comune commercio, considerate tutte le caratteristiche del suolo, ivi compresa la sua ubicazione più o meno interna o esterna a centri abitati, la presenza di opere urbanizzative e di altre infrastrutture, senza naturalmente poterne considerare potenzialità edificatorie inesistenti e/o precluse dalla sua destinazione urbanistica.

E' fondato il primo motivo d'appello, relativo alla commisurazione del risarcimento del danno al criterio del valore agricolo medio.
Il giudice amministrativo pugliese ha osservato al riguardo che: "...trattandosi di terreno a destinazione puramente agricola (e di cui non risulta acquisita la prova della sussistenza di <<possibilità legali ed effettive di edificazione esistenti al momento dell'apposizione del vincolo preordinato all'esproprio>>), devono poi trovare applicazione, ai fini della quantificazione dell’obbligazione risarcitoria, <<le norme di cui al titolo II della legge 22.10.1971, n. 865, e successive modificazioni ed integrazioni>> richiamate dall’art. 5-bis, comma 4, del d.l. 11.07.1992, n. 333, conv. in l. 08.08.1992, n. 359 (il necessario riferimento al criterio dell’effettivo valore venale dell’area reintrodotto da Corte cost., 24.10.2007, n. 349 trova, infatti, applicazione con riferimento ai suoli forniti di suscettibilità edificatoria e non ai suoli a destinazione puramente agricola, come nel caso di specie)".
Sennonché, come esattamente evidenziato dagli appellanti nella memoria difensiva depositata il 09.10.2012, il combinato disposto dell'art. 5-bis, comma 4, del d.l. n. 333/1992, convertito con modificazioni nella legge n. 359/1992 e dell'art. 16, commi 5 e 6, della legge 22.10.1971 n. 865 (ossia delle norme di cui al titolo II della predetta legge cui il primo rinviava) sono ormai definitivamente espunte dall'ordinamento per effetto della declaratoria d'incostituzionalità di cui alla sentenza della Corte Costituzionale n. 181 del 10.06.2011.
La Consulta ha infatti considerato l'illegittimità costituzionale delle suddette disposizioni per contrasto con l'art. 117, comma 1, cost., in relazione all'art. 1 del primo protocollo addizionale della convenzione europea dei diritti dell'uomo, nell'interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, nonché con l'art. 42, comma 3, cost., perché il c.d. v.a.m. (valore agricolo medio) "...prescinde dall'area oggetto del procedimento espropriativo ed ignora ogni dato valutativo inerente ai requisiti specifici del bene. Restano così trascurate le caratteristiche di posizione del suolo, il valore intrinseco del terreno (che non si limita alle colture in esso praticate, ma consegue anche alla presenza di elementi come l'acqua, l'energia elettrica, l'esposizione), la maggiore o minore perizia nella conduzione del fondo e quant'altro può incidere sul valore venale di esso. Il criterio, dunque, ha un carattere inevitabilmente astratto che elude il ragionevole legame con il valore di mercato del bene ablato, prescritto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e coerente, del resto, con il serio ristoro richiesto dalla consolidata giurisprudenza costituzionale. Fermo restando che il legislatore non ha il dovere di commisurare integralmente l'indennità di espropriazione al valore di mercato e che non sempre é garantita dalla Cedu una riparazione integrale, l'esigenza di effettuare una valutazione di congruità dell'indennizzo espropriativo, determinato applicando eventuali meccanismi di correzione sul valore di mercato, impone che quest'ultimo sia assunto quale termine di riferimento dal legislatore, in guisa da garantire il giusto equilibrio tra l'interesse generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali degli individui".
Ne consegue che, sempre in tema d'indennità di esproprio, l'inapplicabilità del v.a.m., ovviamente nei rapporti non esauriti, implica il necessario riferimento "... al valore venale pieno, potendo l'interessato anche dimostrare che il fondo è suscettibile di uno sfruttamento ulteriore e diverso da quello agricolo , pur senza raggiungere il livello dell'edificatorietà e che, quindi, ha una valutazione di mercato che rispecchia possibilità di utilizzazione intermedie tra l'agricola e l'edificatoria" (Cass. Civ., Sez. I, 17.10.2011, n. 21386).
Orbene, è evidente che se ai fini dell'indennità d'esproprio, che deve rappresentare comunque un serio ristoro, non può aversi riguardo al valore agricolo medio, a fortiori non può tenersi conto del medesimo a fini risarcitori, dovendosi invece far riferimento al valore venale in comune commercio, considerate tutte le caratteristiche del suolo, ivi compresa la sua ubicazione più o meno interna o esterna a centri abitati, la presenza di opere urbanizzative e di altre infrastrutture, senza naturalmente poterne considerare potenzialità edificatorie inesistenti e/o precluse dalla sua destinazione urbanistica (tipizzata in gran parte come E1 fascia di rispetto stradale e per piccola porzione come E2 aree per attrezzature esistenti e di progetto) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.09.2013 n. 4871 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Per i terzi creditori difficile intervenire nell'espropriazione. Uno studio del Notariato con precisazioni in tema di diritto di abitazione.
Una serie di precisazioni in tema di diritto di abitazione sono state proposte dal Consiglio nazionale del notariato con lo studio 16.09.2013 n. 21-2013/E. In particolare ci si è soffermati su quello costituito per contratto e dei suoi rapporti con l'espropriazione forzata del bene che ne è oggetto.
Le considerazioni offerte dallo studio sono, come viene sottolineato dai notai stessi, l'esito anche di una riflessione che tiene conto delle esigenze sollevate dall'esperienza pratica.
Il Cnn osserva, innanzitutto, che il diritto di abitazione è insuscettibile di autonoma espropriazione, pertanto consequenziale alla sua insuscettibilità di ipoteca è l'opinione secondo cui il diritto di abitazione non può essere oggetto di sequestro o di pignoramento.
Si può, quindi, affermare, sottolinea il Consiglio, che il creditore del titolare del diritto di abitazione non può sottoporre ad espropriazione forzata il diritto di abitazione spettante al proprio debitore.
È stato inoltre osservato che il titolare del diritto di abitazione deve, in ogni caso, essere messo in condizione di partecipare al procedimento. Se non gli sia stato notificato un pignoramento dovrà, quanto meno, essere chiamato a partecipare all'espropriazione ai sensi dell'art. 498 c.p.c., per far valere le proprie ragioni sul ricavato della vendita.
Per quanto poi riguarda la pubblicità immobiliare, secondo il Cnn: «Se si esclude che sia il pignoramento a dover dar conto della libertà della proprietà dei beni sottoposti ad esecuzione forzata (ricollegando la vendita forzata all'ipoteca anteriore), risulta evidente che l'unico atto, destinato alla pubblicità nei Registri Immobiliari (ex art. 2643 n. 6 c.c.) in cui poter dar conto della richiesta da parte del creditore ipotecario anteriore di far vendere il bene come libero e ricollegare la vendita forzata all'ipoteca anteriore, è il decreto di trasferimento dei beni in esito al procedimento di vendita».
Circa il momento in cui possa intendersi verificata l'estinzione del diritto di abitazione, i notai hanno sottolineato che non può essere altro che l'emissione del decreto di trasferimento se si ritiene, con la giurisprudenza consolidata ed uniforme, che il trasferimento (appunto) dei diritti pignorati all'aggiudicatario si perfezioni con il provvedimento finale in esito al sub procedimento di vendita forzata e dell'estinzione è certamente opportuno dar conto nel decreto di trasferimento.
Interessante è la nota di chiusura dello studio, in cui si osserva che i terzi creditori del titolare del diritto di abitazione che non abbiano iscritto un'ipoteca in data anteriore alla trascrizione del trasferimento della proprietà o non abbiano ottenuto una revocatoria dell'atto traslativo della proprietà «non sembra (...) abbiano alcun titolo per intervenire nell'espropriazione forzata promossa contro un soggetto terzo nei cui confronti non siano dotati di un diverso titolo esecutivo» (articolo ItaliaOggi Sette del 30.09.2013).

ESPROPRIAZIONE: La necessità dell'avviso di avvio del procedimento amministrativo è affermazione pacifica e consolidata nella giurisprudenza amministrativa. La preventiva comunicazione di avvio del procedimento rappresenta un principio generale dell'agere amministrativo.
La materia relativa alle procedure di espropriazione per pubblica utilità non costituisce certo eccezione a detto approdo della giurisprudenza: ed anzi, come è noto, un indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato, dal quale non si ravvisano ragioni per discostarsi, ha affermato il principio, generale ed inderogabile, per cui al privato proprietario di un'area destinata all'espropriazione, siccome interessata dalla realizzazione di un'opera pubblica, deve essere garantita, mediante la formale comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento, la possibilità di interloquire con l'amministrazione procedente sulla sua localizzazione e, quindi, sull'apposizione del vincolo, prima della dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell'approvazione del progetto definitivo.
Con più stringente riferimento alla fattispecie per cui è causa, poi, di recente la giurisprudenza di questa Sezione del Consiglio di Stato ha avuto modo di ribadire il detto principio, essendosi affermato che costituisce principio generale ed inderogabile dell'ordinamento vigente che al privato, proprietario di un'area sottoposta a procedimento espropriativo per la realizzazione di un'opera pubblica, deve essere garantita, mediante la formale comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento, la possibilità di interloquire con l'amministrazione procedente sulla sua localizzazione e, quindi, sull'apposizione del vincolo, prima della dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell'approvazione del progetto definitivo, né sarebbe invocabile, come esimente dal dovere in questione, il disposto dell'art. 13, comma 1, l. 07.08.1990 n. 241, in quanto detta norma si riferisce ai soli atti a contenuto generale, mentre l'intesa tra lo Stato e la Regione sulla localizzazione di un'opera di interesse statale non consiste in un documento di pianificazione territoriale, ma produce l'effetto puntuale e specifico dell'individuazione dell'ubicazione dell'intervento (oltre a valere come dichiarazione di pubblica utilità) e si rivela, come tale, idonea ad incidere, in maniera immediata, sugli interessi dei soggetti proprietari del terreno interessato dalla sua realizzazione, con evidenti implicazioni sulla partecipazione di questi al relativo procedimento.
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Costituisce principio a più riprese affermato dalla giurisprudenza quello per cui sussiste la responsabilità solidale dell'ente espropriante-appaltante e dell'appaltatore ogni quale volta entrambi abbiano concorso a determinare l'evento dannoso".
Ed anche alla luce delle vigenti prescrizioni normative va ribadita la permanente vigenza del principio per cui, anche laddove ci si trovi al cospetto dell’utilizzo dell'istituto della delega, l’amministrazione è responsabile dell'operato del delegato (poiché la legge dispone che l'espropriazione si svolge non soltanto "in nome e per conto" del delegante, ma anche "d'intesa" con quest'ultimo, che conserva ogni potere di controllo e di stimolo, il cui mancato esercizio è fonte di corresponsabilità con il delegato per i danni da questi materialmente arrecati, senza che assuma rilievo -qualora sia, comunque, avvenuta la radicale trasformazione del fondo in difetto di tempestiva emanazione del decreto di esproprio- la natura del negozio intercorso tra delegante e delegato.

Contrariamente a quanto sostenutosi nell’appello, una imponente produzione giurisprudenziale amministrativa ha sempre costantemente affermato che la necessità dell'avviso di avvio del procedimento amministrativo (nel caso di specie si trattava dell’adozione di provvedimenti di annullamento) è affermazione pacifica e consolidata nella giurisprudenza amministrativa. La preventiva comunicazione di avvio del procedimento rappresenta un principio generale dell'agere amministrativo (TAR Campania Salerno Sez. I, 12.07.2011, n. 1276).
La materia relativa alle procedure di espropriazione per pubblica utilità non costituisce certo eccezione a detto approdo della giurisprudenza: ed anzi, come è noto, un indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato (cfr. Ad. Plen. 20.12.2002, n. 8; 24.01.2000, n. 2; 15.09.1999, n. 14), dal quale non si ravvisano ragioni per discostarsi, ha affermato il principio, generale ed inderogabile, per cui al privato proprietario di un'area destinata all'espropriazione, siccome interessata dalla realizzazione di un'opera pubblica, deve essere garantita, mediante la formale comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento, la possibilità di interloquire con l'amministrazione procedente sulla sua localizzazione e, quindi, sull'apposizione del vincolo, prima della dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell'approvazione del progetto definitivo.
Con più stringente riferimento alla fattispecie per cui è causa, poi, di recente la giurisprudenza di questa Sezione del Consiglio di Stato ha avuto modo di ribadire il detto principio, essendosi affermato che (Cons. Stato Sez. IV, 09.12.2010, n. 8688) costituisce principio generale ed inderogabile dell'ordinamento vigente che al privato, proprietario di un'area sottoposta a procedimento espropriativo per la realizzazione di un'opera pubblica, deve essere garantita, mediante la formale comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento, la possibilità di interloquire con l'amministrazione procedente sulla sua localizzazione e, quindi, sull'apposizione del vincolo, prima della dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell'approvazione del progetto definitivo, né sarebbe invocabile, come esimente dal dovere in questione, il disposto dell'art. 13, comma 1, l. 07.08.1990 n. 241, in quanto detta norma si riferisce ai soli atti a contenuto generale, mentre l'intesa tra lo Stato e la Regione sulla localizzazione di un'opera di interesse statale non consiste in un documento di pianificazione territoriale, ma produce l'effetto puntuale e specifico dell'individuazione dell'ubicazione dell'intervento (oltre a valere come dichiarazione di pubblica utilità) e si rivela, come tale, idonea ad incidere, in maniera immediata, sugli interessi dei soggetti proprietari del terreno interessato dalla sua realizzazione, con evidenti implicazioni sulla partecipazione di questi al relativo procedimento.
Analoghe conclusioni si traggono dalle disposizioni specifiche contenute nel TU espropriazioni.
Sotto il profilo strettamente letterale, infatti, le espresse disposizioni di cui agli artt. 11 (“1. Al proprietario del bene sul quale si intende apporre il vincolo preordinato all'esproprio, va inviato l'avviso dell'avvio del procedimento:
a) nel caso di adozione di una variante al piano regolatore per la realizzazione di una singola opera pubblica, almeno venti giorni prima della delibera del consiglio comunale;
b) nei casi previsti dall'articolo 10, comma 1, almeno venti giorni prima dell'emanazione dell'atto se ciò risulti compatibile con le esigenze di celerità del procedimento.
2. L'avviso di avvio del procedimento è comunicato personalmente agli interessati alle singole opere previste dal piano o dal progetto. Allorché il numero dei destinatari sia superiore a 50, la comunicazione è effettuata mediante pubblico avviso, da affiggere all'albo pretorio dei Comuni nel cui territorio ricadono gli immobili da assoggettare al vincolo, nonché su uno o più quotidiani a diffusione nazionale e locale e, ove istituito, sul sito informatico della Regione o Provincia autonoma nel cui territorio ricadono gli immobili da assoggettare al vincolo. L'avviso deve precisare dove e con quali modalità può essere consultato il piano o il progetto. Gli interessati possono formulare entro i successivi trenta giorni osservazioni che vengono valutate dall'autorità espropriante ai fini delle definitive determinazioni.
3. La disposizione di cui al comma 2 non si applica ai fini dell'approvazione del progetto preliminare delle infrastrutture e degli insediamenti produttivi ricompresi nei programmi attuativi dell'articolo 1, comma 1, della legge 21.12.2001, n. 443.
4. Ai fini dell'avviso dell'avvio del procedimento delle conferenze di servizi in materia di lavori pubblici, si osservano le forme previste dal decreto del Presidente della Repubblica 21.12.1999, n. 554.
5. Salvo quanto previsto dal comma 2, restano in vigore le disposizioni vigenti che regolano le modalità di partecipazione del proprietario dell'area e di altri interessati nelle fasi di adozione e di approvazione degli strumenti urbanistici.
”). e 16 comma 4 (“Al proprietario dell'area ove è prevista la realizzazione dell'opera è inviato l'avviso dell'avvio del procedimento e del deposito degli atti di cui al comma 1, con l'indicazione del nominativo del responsabile del procedimento”) del D.P.R. 08.06.2001 n. 327 congiurano nel fare ritenere il detto obbligo assolutamente cogente ed inderogabile, in armonia con i principi affermati dalla Cedu e ben recepiti a più riprese da questo Consiglio di Stato.
Non appare il caso di immorare vieppiù sul punto, se non per rimarcare, a fini di coerenza sistematica, che (d.lgs. 12.04.2006 n. 163, art. 166) il detto obbligo è prescritto anche nel caso di opere strategiche, per cui esso costituisce principio non dequotabile (comma 2 della in ultimo citata disposizione: “l’avvio del procedimento di dichiarazione di pubblica utilità è comunicato dal soggetto aggiudicatore, o per esso dal concessionario o contraente generale, ai privati interessati alle attività espropriative ai sensi della legge 07.08.1990, n. 241, e successive modificazioni; la comunicazione è effettuata con le stesse forme previste per la partecipazione alla procedura di valutazione di impatto ambientale dall'articolo 5 del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 10.08.1988, n. 377. Nel termine perentorio di sessanta giorni dalla comunicazione di avvio del procedimento, i privati interessati dalle attività espropriative possono presentare osservazioni al soggetto aggiudicatore, che dovrà valutarle per ogni conseguente determinazione. Le disposizioni del presente comma derogano alle disposizioni degli articoli 11 e 16 del decreto del Presidente della Repubblica 08.06.2001, n. 327.”).
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Neppure accoglimento meritano le ulteriori censure prospettate dall’amministrazione regionale: quanto alla tesi per cui l’avviso sarebbe stato validamente omesso in quanto gli espopriandi erano in numero superiore a 50, quest’ultima è stata soltanto labialmente affermata, non è stata né allegata né provata e, inoltre, non v’è traccia in atti delle supposte modalità alternative di pubblicità eventualmente esperite.
Né l’amministrazione ha fatto espresso riferimento alla notifica da effettuarsi “nelle forme degli atti processuali civili” e neppure ha mai dichiarato (né disposto) di procedere alla pubblicazione di alcun atto avvalendosi del disposto di cui all’art. 16, comma 5, ed 11, comma 2, del dPR n. 327/2001 (Consiglio di Stato Sez. IV, sent. n. 408 del 27.01.2012: ”in tema di espropriazione per pubblica utilità l'avviso di cui all'art. 11 D.P.R. n. 327/2001 -T.U. espropriazione per p.u.- deve contenere, per essere legittimo, l'indicazione delle particelle e dei nominativi, quali indefettibili elementi diretti ad individuare i soggetti espropriandi ed i beni oggetto del procedimento amministrativo, e ciò sia che la comunicazione avvenga personalmente, sia che essa avvenga in forma collettiva mediante avviso pubblico. E' evidente che le modalità di comunicazione, seppur semplificate nella forma e nel numero, devono in ogni caso essere idonee a raggiungere lo scopo della effettiva conoscenza, di guisa che il proprietario inciso sia posto in grado di optare o meno per la partecipazione procedimentale in chiave difensiva).
Essa tesi appare al Collegio unicamente un espediente processuale confusorio, e come tale va disattesa.
Quanto all’assunto secondo il quale l’unico responsabile avrebbe dovuto essere il concessionario, essa collide con il consolidato orientamento, secondo il quale “costituisce principio a più riprese affermato dalla giurisprudenza quello per cui sussiste la responsabilità solidale dell'ente espropriante-appaltante e dell'appaltatore ogni quale volta entrambi abbiano concorso a determinare l'evento dannoso" (Cass. civ. Sez. I, 17.10.2008, n. 25369); ed anche alla luce delle vigenti prescrizioni normative va ribadita la permanente vigenza del principio per cui, anche laddove ci si trovi al cospetto dell’utilizzo dell'istituto della delega, l’amministrazione è responsabile dell'operato del delegato (poiché la legge dispone che l'espropriazione si svolge non soltanto "in nome e per conto" del delegante, ma anche "d'intesa" con quest'ultimo, che conserva ogni potere di controllo e di stimolo, il cui mancato esercizio è fonte di corresponsabilità con il delegato per i danni da questi materialmente arrecati, senza che assuma rilievo -qualora sia, comunque, avvenuta la radicale trasformazione del fondo in difetto di tempestiva emanazione del decreto di esproprio- la natura del negozio intercorso tra delegante e delegato (si veda: Cass. civ. Sez. I, 27.05.2011, n. 11800)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.08.2013 n. 4230 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Espropri previa consultazione. Il proprietario deve poterne discutere con la p.a.. Il Consiglio di stato definisce i vincoli dell'azione dell'amministrazione pubblica.
Al privato proprietario di un'area destinata all'espropriazione, siccome interessata dalla realizzazione di un'opera pubblica, deve essere garantita, mediante la formale comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento, la possibilità di interloquire con l'amministrazione procedente sulla sua localizzazione e, quindi, sull'apposizione del vincolo, prima della dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza e, quindi, dell'approvazione del progetto definitivo.

Questo ha affermato la IV Sez. del Consiglio di Stato con sentenza 21.08.2013 n. 4229.
I giudici di palazzo Spada hanno sottolineato come una imponente produzione giurisprudenziale amministrativa abbia, in diversi momenti storici, costantemente affermato la necessità dell'avviso di avvio del procedimento amministrativo.
La preventiva comunicazione di avvio del procedimento rappresenta un principio generale dell'agire amministrativo (tra le altre Tar Campania Salerno Sez. I, 12/07/2011, n. 1276).
È pacifico che la materia relativa alle procedure di espropriazione per pubblica utilità non costituisce certo eccezione a detto approdo della giurisprudenza.
I giudici hanno poi ribadito come non sarebbe invocabile come esimente dal dovere in questione in capo alla p.a. il disposto dell'art. 13, comma 1, legge 07.08.1990 n. 241, in quanto detta norma si riferisce ai soli atti a contenuto generale, mentre l'intesa tra lo Stato e la Regione sulla localizzazione di un'opera di interesse statale non consiste in un documento di pianificazione territoriale, ma produce l'effetto puntuale e specifico dell'individuazione dell'ubicazione dell'intervento (oltre a valere come dichiarazione di pubblica utilità) e si rivela, come tale, idonea ad incidere, in maniera immediata, sugli interessi dei soggetti proprietari del terreno interessato dalla sua realizzazione, con evidenti implicazioni sulla partecipazione di questi al relativo procedimento.
L'avviso di avvio del procedimento è comunicato personalmente agli interessati alle singole opere previste dal piano o dal progetto. Allorché il numero dei destinatari sia superiore a 50, la comunicazione è effettuata mediante pubblico avviso, da affiggere all'albo pretorio dei comuni nel cui territorio ricadono gli immobili da assoggettare al vincolo, nonché su uno o più quotidiani a diffusione nazionale e locale e, ove istituito, sul sito informatico della regione o provincia autonoma nel cui territorio ricadono gli immobili da assoggettare al vincolo. L'avviso deve precisare dove e con quali modalità può essere consultato il piano o il progetto. Gli interessati possono formulare entro i successivi trenta giorni osservazioni che vengono valutate dall'autorità espropriante ai fini delle definitive determinazioni.
Il Consiglio di stato ha poi ribadito che costituisce principio a più riprese affermato dalla giurisprudenza quello per cui sussiste la responsabilità solidale dell'ente espropriante-appaltante e dell'appaltatore ogni quale volta entrambi abbiano concorso a determinare l'evento dannoso (si veda Cass. civ. Sez. I, 17/10/2008, n. 25369) e anche alla luce delle vigenti prescrizioni normative va ribadita la permanente vigenza del principio secondo il quale anche laddove ci si trovi al cospetto dell'utilizzo «dell'istituto della delega, l'amministrazione è responsabile dell'operato del delegato, poiché la legge dispone che l'espropriazione si svolge non soltanto “in nome e per conto” del delegante, ma anche “d'intesa” con quest'ultimo, che conserva ogni potere di controllo e di stimolo, il cui mancato esercizio è fonte di corresponsabilità con il delegato per i danni da questi materialmente arrecati, senza che assuma rilievo -qualora sia, comunque, avvenuta la radicale trasformazione del fondo in difetto di tempestiva emanazione del decreto di esproprio- la natura del negozio intercorso tra delegante e delegato (cfr. Cass. civ. Sez. I, 27/05/2011, n. 11800)» (articolo ItaliaOggi Sette del 09.09.2013).

ESPROPRIAZIONE: Anche a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 22-bis , d.P.R. 08.06.2001 n. 327, l'ordinanza di occupazione d'urgenza riguarda una fase puramente attuativa di quella riguardante la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza dei lavori, con la conseguenza che è sufficiente la motivazione dell'ordinanza di occupazione che si limiti a richiamare espressamente tale dichiarazione, costituente l'unico presupposto della stessa e che consenta di rilevare l'urgenza della realizzazione delle opere previste nella dichiarazione di p.u..
A sua volta, la dichiarazione di pubblica utilità, conseguendo "ex lege" all'approvazione del progetto definitivo, non abbisogna di una particolare motivazione.

La società ricorrente contesta la delibera impugnata perché non sussistevano le condizioni per procedere all’occupazione d’urgenza, ai sensi dell’art. 22 d.p.r. 327/2001.
Questo Tar ha già chiarito che anche a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 22-bis , d.P.R. 08.06.2001 n. 327, l'ordinanza di occupazione d'urgenza riguarda una fase puramente attuativa di quella riguardante la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza dei lavori, con la conseguenza che è sufficiente la motivazione dell'ordinanza di occupazione che si limiti a richiamare espressamente tale dichiarazione, costituente l'unico presupposto della stessa e che consenta di rilevare l'urgenza della realizzazione delle opere previste nella dichiarazione di p.u..
A sua volta, la dichiarazione di pubblica utilità, conseguendo "ex lege" all'approvazione del progetto definitivo, non abbisogna di una particolare motivazione (cfr., TAR Milano, Lombardia, sez. III, 02.07.2012, n. 1874)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 05.08.2013 n. 2061 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Acquisizione sanante di un immobile per pubblico interesse: chi deve decidere?
Il provvedimento con cui l’Ente locale ha disposto l’acquisizione al patrimonio indisponibile comunale di un bene utilizzato per scopi di interesse pubblico, importando l’acquisto della proprietà immobiliare che richiede una formale e specifica espressione di volontà, deve essere adottato necessariamente dal Consiglio comunale.

Il TAR Lecce ha stabilito che il dirigente comunale è incompetente ad adottare un provvedimento di acquisizione sanante di un bene immobile occupato d’urgenza dalla P.A., in assenza del relativo decreto di esproprio e che al proprietario del bene illegittimamente acquisito al patrimonio dell’Ente deve essere riconosciuto il diritto al risarcimento del danno subito.
Analisi del caso
Il proprietario di un terreno ha subìto il provvedimento di occupazione d’urgenza, per la durata quinquennale dalla data di immissione in possesso, relativamente a una porzione del medesimo terreno, per l’esecuzione di lavori di riqualificazione del sistema viario e dei parcheggi circostanti al centro abitato; l’Amministrazione ha preso possesso dell’immobile oggetto di occupazione, ma non ha mai provveduto a emettere il decreto di esproprio.
A distanza di molti anni dalla scadenza del termine dell’occupazione d’urgenza (5 anni), il proprietario ha chiesto al competente G.A. la restituzione del terreno oppure il risarcimento del danno. Nelle more, un dirigente del Comune ha disposto l’acquisizione del bene in questione; avverso tale atto, con motivi aggiunti, il ricorrente ha dedotto l’incompetenza dell’organo che ha adottato il provvedimento e la violazione e falsa applicazione degli artt. 42, 48 e 107 del D.Lgs. n. 267/2000.
Con controricorso, la civica P.A. ha rilevato che il progetto di opera pubblica in ragione di cui era stata disposta l’occupazione d’urgenza era stato approvato dall’organo consiliare e che, pertanto, il provvedimento dovesse considerarsi in mera attuazione di quell’approvazione.
La soluzione
Il Tribunale amministrativo ha ricordato che l’art. 42, comma 2, lett. l), D.Lgs. n. 267/2000 stabilisce testualmente che rientrano nella competenza del Consiglio gli “… acquisti e alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e concessioni che non siano previsti espressamente in atti fondamentali del Consiglio o che non ne costituiscano mera esecuzione…”: tra questi, ha desunto, rientra sicuramente anche l’acquisto mediante l’istituto della c.d. “acquisizione sanante” (Cons. Stato, Sez. V, 13.10.2010, n. 7472).
L’atto di acquisizione sanante, infatti, per i profili di discrezionalità che lo caratterizzano, esorbita dalla competenza dell’ufficio per le espropriazioni e rientra nelle attribuzioni del Consiglio comunale (Cons. Stato, Sez. III, 31.08.2010, n. 775).
Né poteva ritenersi, ha proseguito l’adito Collegio, che il dirigente avesse dato mera attuazione alla volontà comunale come espressa in precedenti provvedimenti deliberativi –in particolare quello di inizio della procedura espropriativa– stante la particolare natura di tale acquisizione (Cons. Stato n. 775/2010 cit.); parimenti non ha condiviso che tale atto potesse qualificarsi come previsto in atti fondamentali, ricordando la forte caratterizzazione discrezionale dell’acquisizione.
Il giudicante ha così escluso, richiamando anche la giurisprudenza comunitaria, che la mera trasformazione del suolo con la realizzazione di un’opera pubblica costituisca circostanza idonea a trasferire la proprietà del bene, in assenza di un regolare provvedimento espropriativo; il comportamento della P.A., dunque, costituisce un illecito “permanente” al quale deve conseguire l’obbligo di far cessare la indebita compromissione del diritto di proprietà del privato mediante la restituzione o il risarcimento del danno.
Con riferimento al risarcimento del danno, il T.A.R. pugliese ha precisato che esso opera in relazione all’illegittima occupazione a far data dalla scadenza del termine quinquennale dall’immissione in possesso d’urgenza e sino alla regolarizzazione, ossia la restituzione, il perfezionamento di un valido atto di acquisto della proprietà (anche l’usucapione, cfr. TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 19.06.2013, n. 1423), ovvero il ricorso, in via postuma allo strumento acquisitivo di cui all’art. 42-bis D.P.R. n. 327/2001.
Avuto riguardo a tale contesto temporale, il G.A. salentino ha condannato il Comune al pagamento in favore del ricorrente di una somma quantificata nel 5% annuo sul valore del bene illegittimamente occupato, oltre interessi legali, da calcolarsi sulla somma annualmente rivalutata, ai sensi del citato art. 42-bis, comma 3, D.P.R. n. 327/2001.
I precedenti e i possibili impatti pratico-operativi
Sono molteplici i precedenti giurisprudenziali in materia. Su tutti, e tra i più recenti, particolarmente connotanti risultano Cons. Stato, Sez. IV, 08.05.2013, n. 2481 e la pronuncia del TAR Puglia, Bari, Sez. I, 03.05.2013, n. 684 che ha qualificato il comportamento dell’Amministrazione come un vero e proprio illecito “permanente” con conseguente imprescrittibilità dell’azione per l’illegittimo impossessamento (cfr. TAR Sicilia, Catania, Sez. III, 26.04.2013, n. 1199 e anche lo stesso TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 19.06.2013, n. 1423 cit.) e l’obbligo per il Giudice di rivalutare le somme da liquidare, in quanto derivanti da debito di valore.
L’impatto pratico della decisione sembra nel senso di obbligare la P.A. comunale ad agire con maggior rigore nelle procedure ablatorie, rispettandone i termini e il riparto di competenza, senza abusare degli strumenti sananti (re)introdotti nell’ordinamento: è di tutta evidenza, invero, che l’intento del legislatore del 2011, che ha concepito l’art. 42-bis, D.P.R. n. 327/2001, non era quello di far rivivere l’istituto dichiarato costituzionalmente illegittimo di cui all’abrogato art. 43 del decreto citato, ma quello di regolare i possibili contrasti tra l’interesse privato del proprietario e quello pubblico di cui è portatrice la P.A., nel senso di contemperare il miglior esercizio del potere pubblico col minimo sacrificio del soggetto privato (tratto da www.ipsoa.it - TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 21.06.2013 n. 1500 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - ESPROPRIAZIONE: Competenze del consiglio comunale.
L’atto adottato ex art. 43, d.P.R. n. 327 del 2001 di acquisizione al patrimonio indisponibile comunale di beni utilizzati per scopi di interesse pubblico deve essere assunto dal Consiglio comunale, trattandosi dell’acquisto di un diritto immobiliare che richiede l’espressione formale di una specifica autonoma volontà.
L’art. 42, comma 2, lett. l), T.U. enti locali, stabilisce che rientrano nelle competenze consiliari gli “acquisti e alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e concessioni che non siano previsti espressamente in atti fondamentali del consiglio o che non ne costituiscano mera esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria amministrazione di funzioni e servizi di competenza della giunta, del segretario o di altri funzionari”. Tra questi rientra sicuramente anche l’acquisto di un bene tramite l’istituto della c.d. acquisizione sanante.
L’atto di acquisizione sanante ex art. 43 d.P.R. n. 327 del 2001, per i profili di discrezionalità che lo caratterizzano, esorbita dall'ambito della competenza dell’ufficio per le espropriazioni e, comunque, degli uffici comunali per rientrare nelle attribuzioni del Consiglio comunale in materia di acquisti ed alienazioni immobiliari, di cui all'art. 42 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267.
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La giurisprudenza ha precisato che “l’istituto della “acquisizione sanante” ex art. 43 T.U. n. 327/2001 è di competenza del Consiglio comunale, stante anche la particolare natura di tale acquisizione di cui l’A.P. di questo Consiglio ha fornito una puntuale illustrazione, chiarendo che non risulta possibile qualificare la scelta di farvi ricorso come meramente esecutiva di atti presupposti o rientrante tra le ordinarie funzioni della giunta, del segretario o di altri funzionari, onde tale scelta deve essere ricondotta all’esclusiva competenza dell’organo elettivo consiliare, ai sensi dell’art. 42, comma 2, lett. l, del T.U.E.L.”.
La natura discrezionale dell’atto di acquisizione sanante esclude, poi, che lo stesso possa qualificarsi come previsto in atti fondamentali del consiglio o mera esecuzione degli stessi, sicché si deve escludere anche per tal verso la riconduzione dell’atto alla competenza dei dirigenti.
Il ricorso è fondato.
In particolare, è fondata la dedotta incompetenza del dirigente comunale ad adottare un provvedimento di acquisizione sanante.
L’atto adottato ex art. 43, d.P.R. n. 327 del 2001 di acquisizione al patrimonio indisponibile comunale di beni utilizzati per scopi di interesse pubblico deve essere assunto dal Consiglio comunale, trattandosi dell’acquisto di un diritto immobiliare che richiede l’espressione formale di una specifica autonoma volontà.
L’art. 42, comma 2, lett. l), T.U. enti locali, stabilisce che rientrano nelle competenze consiliari gli “acquisti e alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e concessioni che non siano previsti espressamente in atti fondamentali del consiglio o che non ne costituiscano mera esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria amministrazione di funzioni e servizi di competenza della giunta, del segretario o di altri funzionari”. Tra questi rientra sicuramente anche l’acquisto di un bene tramite l’istituto della c.d. acquisizione sanante. (Cons. St., sez. V, 13.10.2010, n. 7472).
L’atto di acquisizione sanante ex art. 43 d.P.R. n. 327 del 2001, per i profili di discrezionalità che lo caratterizzano, esorbita dall'ambito della competenza dell’ufficio per le espropriazioni e, comunque, degli uffici comunali per rientrare nelle attribuzioni del Consiglio comunale in materia di acquisti ed alienazioni immobiliari, di cui all'art. 42 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267 (Cons. St., sez. III, 31.08.2010, n. 775).
Non può poi ritenersi, come sostiene la difesa del Comune, che il Dirigente ha semplicemente dato attuazione alla volontà comunale espressa in precedenti atti deliberativi, in particolare nella delibera che iniziava la procedura espropriativa.
A tale proposito, la giurisprudenza ha precisato che “l’istituto della “acquisizione sanante” ex art. 43 T.U. n. 327/2001 è di competenza del Consiglio comunale, stante anche la particolare natura di tale acquisizione di cui l’A.P. di questo Consiglio ha fornito una puntuale illustrazione, chiarendo che non risulta possibile qualificare la scelta di farvi ricorso come meramente esecutiva di atti presupposti o rientrante tra le ordinarie funzioni della giunta, del segretario o di altri funzionari, onde tale scelta deve essere ricondotta all’esclusiva competenza dell’organo elettivo consiliare, ai sensi dell’art. 42, comma 2, lett. l, del T.U.E.L.” (Cons. St., sez. III, 31.08.2010, n. 775).
La natura discrezionale dell’atto di acquisizione sanante esclude, poi, che lo stesso possa qualificarsi come previsto in atti fondamentali del consiglio o mera esecuzione degli stessi, sicché si deve escludere anche per tal verso la riconduzione dell’atto alla competenza dei dirigenti
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 21.06.2013 n. 1500 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - ESPROPRIAZIONE: E' fondata la dedotta incompetenza del dirigente comunale ad adottare un provvedimento di acquisizione sanante.
Invero, l’atto adottato ex art. 43, d.P.R. n. 327 del 2001 di acquisizione al patrimonio indisponibile comunale di beni utilizzati per scopi di interesse pubblico deve essere assunto dal Consiglio comunale, trattandosi dell’acquisto di un diritto immobiliare che richiede l’espressione formale di una specifica autonoma volontà.
L’art. 42, comma 2, lett. l), T.U. enti locali, stabilisce che rientrano nelle competenze consiliari gli “acquisti e alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e concessioni che non siano previsti espressamente in atti fondamentali del consiglio o che non ne costituiscano mera esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria amministrazione di funzioni e servizi di competenza della giunta, del segretario o di altri funzionari”. Tra questi rientra sicuramente anche l’acquisto di un bene tramite l’istituto della c.d. acquisizione sanante.
L’atto di acquisizione sanante ex art. 43 d.P.R. n. 327 del 2001, per i profili di discrezionalità che lo caratterizzano, esorbita dall'ambito della competenza dell’ufficio per le espropriazioni e, comunque, degli uffici comunali per rientrare nelle attribuzioni del Consiglio comunale in materia di acquisti ed alienazioni immobiliari, di cui all'art. 42 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267.
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L’istituto della “acquisizione sanante” ex art. 43 T.U. n. 327/2001 è di competenza del Consiglio comunale, stante anche la particolare natura di tale acquisizione di cui l’A.P. di questo Consiglio ha fornito una puntuale illustrazione, chiarendo che non risulta possibile qualificare la scelta di farvi ricorso come meramente esecutiva di atti presupposti o rientrante tra le ordinarie funzioni della giunta, del segretario o di altri funzionari, onde tale scelta deve essere ricondotta all’esclusiva competenza dell’organo elettivo consiliare, ai sensi dell’art. 42, comma 2, lett. l, del T.U.E.L..
La natura discrezionale dell’atto di acquisizione sanante esclude, poi, che lo stesso possa qualificarsi come previsto in atti fondamentali del consiglio o mera esecuzione degli stessi, sicché si deve escludere anche per tal verso la riconduzione dell’atto alla competenza dei dirigenti.

Il ricorso è fondato.
In particolare, è fondata la dedotta incompetenza del dirigente comunale ad adottare un provvedimento di acquisizione sanante.
L’atto adottato ex art. 43, d.P.R. n. 327 del 2001 di acquisizione al patrimonio indisponibile comunale di beni utilizzati per scopi di interesse pubblico deve essere assunto dal Consiglio comunale, trattandosi dell’acquisto di un diritto immobiliare che richiede l’espressione formale di una specifica autonoma volontà.
L’art. 42, comma 2, lett. l), T.U. enti locali, stabilisce che rientrano nelle competenze consiliari gli “acquisti e alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e concessioni che non siano previsti espressamente in atti fondamentali del consiglio o che non ne costituiscano mera esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria amministrazione di funzioni e servizi di competenza della giunta, del segretario o di altri funzionari”. Tra questi rientra sicuramente anche l’acquisto di un bene tramite l’istituto della c.d. acquisizione sanante (Cons. St., sez. V, 13.10.2010, n. 7472).
L’atto di acquisizione sanante ex art. 43 d.P.R. n. 327 del 2001, per i profili di discrezionalità che lo caratterizzano, esorbita dall'ambito della competenza dell’ufficio per le espropriazioni e, comunque, degli uffici comunali per rientrare nelle attribuzioni del Consiglio comunale in materia di acquisti ed alienazioni immobiliari, di cui all'art. 42 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267 (Cons. St., sez. III, 31.08.2010, n. 775).
Non può poi ritenersi, come sostiene la difesa del Comune, che il Dirigente ha semplicemente dato attuazione alla volontà comunale espressa in precedenti atti deliberativi, in particolare nella delibera che iniziava la procedura espropriativa.
A tale proposito, la giurisprudenza ha precisato che “l’istituto della “acquisizione sanante” ex art. 43 T.U. n. 327/2001 è di competenza del Consiglio comunale, stante anche la particolare natura di tale acquisizione di cui l’A.P. di questo Consiglio ha fornito una puntuale illustrazione, chiarendo che non risulta possibile qualificare la scelta di farvi ricorso come meramente esecutiva di atti presupposti o rientrante tra le ordinarie funzioni della giunta, del segretario o di altri funzionari, onde tale scelta deve essere ricondotta all’esclusiva competenza dell’organo elettivo consiliare, ai sensi dell’art. 42, comma 2, lett. l, del T.U.E.L.” (Cons. St., sez. III, 31.08.2010, n. 775).
La natura discrezionale dell’atto di acquisizione sanante esclude, poi, che lo stesso possa qualificarsi come previsto in atti fondamentali del consiglio o mera esecuzione degli stessi, sicché si deve escludere anche per tal verso la riconduzione dell’atto alla competenza dei dirigenti.
Stabilita l’illegittimità dell’atto di acquisizione sanante, è indubbio il comportamento illegittimo dell’amministrazione che, a seguito della scadenza dei termini di occupazione d’urgenza e stante il mancato perfezionamento del procedimento di esproprio, detiene sine titulo il terreno di parte ricorrente sul quale ha proceduto a realizzare l’opera pubblica, così com’è indubbia l’esistenza di un ingiusto pregiudizio in capo al privato che ha perso la disponibilità del terreno.
Dovendosi escludere che la mera trasformazione irreversibile di un suolo con la realizzazione di un'opera pubblica costituisca circostanza idonea a trasferire in capo all’Amministrazione la proprietà delle aree in assenza di un regolare provvedimento di esproprio, e ciò sia nel caso di occupazione del terreno ab origine sine titolo sia nel caso di un'occupazione iniziata in forza di un provvedimento legittimo poi scaduto (cfr. sentenze CEDU nei casi Scordino/Italia, Belvedere Alberghiera c/Italia, Prena c/Italia), il comportamento della Pubblica Amministrazione costituisce un illecito permanente, al quale consegue l’obbligo di far cessare la illegittima compromissione del diritto di proprietà mediante la restituzione del bene alla ricorrente, dato che questa non ha perduto la proprietà del bene ed ha titolo a riaverlo.
Con riferimento all’ulteriore domanda risarcitoria proposta dalla ricorrente, il risarcimento deve operare in relazione all’illegittima occupazione del bene, e deve pertanto coprire le voci di danno per il mancato godimento del bene, dal momento del perfezionamento della fattispecie illecita sino al giorno della sua giuridica regolarizzazione, ossia sino all’effettiva restituzione del bene; ciò salva la possibilità per l’amministrazione di perfezionare valido atto di acquisto del bene (con il consenso dei ricorrenti), ovvero di avvalersi in via postuma dello strumento acquisitivo della proprietà di cui all’art. 42-bis d.p.r. n. 327/2001.
In particolare, il termine iniziale va identificato in quello in cui l’occupazione dell’area è divenuta illegittima, mentre il termine finale va individuato in quello in cui il Comune resistente disporrà la restituzione dell’area, salva la sua legittima acquisizione, per contratto ovvero con lo strumento di cui all’art. 42-bis d.p.r. n. 327/2001.
Con riferimento a tale contesto temporale, il Comune va condannato a corrispondere ai ricorrenti, a titolo risarcitorio, una somma da quantificare sulla base del criterio normativo di cui all’art. 42-bis, co. 3, vale a dire il 5% annuo sul valore dell’area nel periodo considerato.
Trattandosi di debito di valore, la somma dovrà essere rivalutata alla data della presente sentenza e sono inoltre dovuti gli interessi al tasso legale, da calcolarsi sulla base della somma annualmente rivalutata, con applicazione degli indici di rivalutazione dei prezzi al consumo, e ciò sino all’effettivo soddisfo (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 21.06.2013 n. 1500 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: La realizzazione di un'opera pubblica su fondo illegittimamente occupato, ovvero legittimamente occupato ma non espropriato nei termini di legge, non è di per sé in grado di determinare il trasferimento della proprietà del bene a favore della Amministrazione: deve infatti ritenersi ormai superato l'orientamento che riconnetteva alla costruzione dell'opera pubblica e alla irreversibile trasformazione del fondo che a essa conseguiva effetti preclusivi o limitativi della tutela in forma specifica del privato, dovendo invece affermarsi che la suddetta trasformazione su fondo illegittimamente occupato integra un mero fatto non in grado di assurgere a titolo d'acquisto.
Il diritto di proprietà, d'altro canto, non può essere fatto oggetto di atti abdicativi, e quindi anche la richiesta di risarcimento formulata dal privato, finalizzata a ottenere il mero controvalore del fondo compromesso dalla realizzazione dell'opera pubblica, ancorché interpretata quale manifestazione della volontà di rinunciare alla proprietà del fondo, non può valere a determinare in capo al privato la perdita di proprietà del fondo illegittimamente occupato dall'opera pubblica.
Discende da quanto sopra che in tali casi solo un formale atto di acquisizione del fondo riconducibile a un negozio giuridico, ovvero al provvedimento ex art. 42-bis D.P.R. 327/2001 può precludere la restituzione del bene: di guisa che in assenza di un tale atto è obbligo primario della Amministrazione quello di restituire il fondo illegittimamente appreso.
Correlativamente, mantenendo il privato la proprietà di questo ultimo, egli non ha alcun titolo per chiedere un risarcimento commisurato alla perdita della proprietà del fondo, potendo invece agire per la restituzione di esso e per il risarcimento del danno conseguente al mancato godimento del bene durante il periodo di occupazione illegittima.

Secondo la meno recente giurisprudenza della Corte di Cassazione (tra le ultime di quell’orientamento: Sez. Un. Civili, 23.05.2008, n. 13358) "si ha occupazione acquisitiva o appropriativa quando il fondo occupato nell'ambito di una procedura espropriativa ha subito una irreversibile trasformazione in esecuzione di un'opera di pubblica utilità senza che sia intervenuto il decreto di esproprio o altro atto idoneo a produrre l'effetto traslativo della proprietà. In tale ipotesi il trasferimento del diritto di proprietà in capo alla mano pubblica si realizza con l'irreversibile trasformazione del fondo -con destinazione ad opera pubblica o di uso pubblico- ed il proprietario di esso può chiedere unicamente la tutela per equivalente, cioè il risarcimento del danno. Infatti è dal momento dell'irreversibile trasformazione del bene e della sua destinazione ad opera pubblica che si verifica l'estinzione del diritto di proprietà in capo al titolare ed il contestuale acquisto dello stesso diritto, a titolo originario, da parte dell'ente pubblico."
Tale orientamento è stato messo in discussione dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, che lo ha ritenuto non aderente alla Convenzione europea (sent. 30.05.2000, rich. n. 24638/94, Carbonara e Ventura, e 30.05.2000, rich. n. 31524/96, Società Belvedere Alberghiera) in quanto un comportamento illecito o illegittimo non può essere posto a base dell'acquisto di un diritto, per cui l'accessione invertita contrasta con il principio di legalità, inteso come preminenza del diritto sul fatto; ne consegue che la realizzazione dell'opera pubblica non costituisce di per se impedimento alla restituzione dell'area illegittimamente occupata.
Successivamente l'articolo 43 del d.p.r. n. 327 del 2001 ha stabilito al primo comma che: "valutati gli interessi in conflitto, l'autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso vada acquisito al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario vadano risarciti i danni."
Tale articolo è stato poi dichiarato incostituzionale con sentenza della Corte Costituzionale n. 293/2010 e successivamente è entrato in vigore l'art. 34, comma 1, del decreto legge 06.07.2011, n. 98, convertito nella legge 15.07.2011, n. 111, che ha colmato il vuoto normativo formatosi a seguito della richiamata sentenza della Corte Costituzionale, inserendo nel testo unico sugli espropri l'art. 42-bis, il quale ha previsto al comma 1 che, in caso di occupazione senza titolo del bene privato per scopi di pubblica utilità, l'Amministrazione "valutati gli interessi in conflitto" può disporre, con formale provvedimento, l'acquisizione del bene al suo patrimonio indisponibile, con la corresponsione al privato di un indennizzo per il pregiudizio subito, patrimoniale e non patrimoniale, e al comma 8 che le sue disposizioni "trovano altresì applicazione ai fatti anteriori".
Quanto all’orientamento giurisprudenziale formatosi di recente sul punto, è ormai consolidato in giurisprudenza il principio per cui la realizzazione di un'opera pubblica su fondo illegittimamente occupato, ovvero legittimamente occupato ma non espropriato nei termini di legge, non è di per sé in grado di determinare il trasferimento della proprietà del bene a favore della Amministrazione: deve infatti ritenersi ormai superato l'orientamento che riconnetteva alla costruzione dell'opera pubblica e alla irreversibile trasformazione del fondo che a essa conseguiva effetti preclusivi o limitativi della tutela in forma specifica del privato, dovendo invece affermarsi che la suddetta trasformazione su fondo illegittimamente occupato integra un mero fatto non in grado di assurgere a titolo d'acquisto (TAR Puglia-Bari sez. III n. 2131/2008; TAR Puglia-Bari sez. I n. 3402/2010, confermata da C.d.S. sez. IV n. 4590/2011; C.d.S. sez. IV n. 4970/2011; C.d.S. sez. IV n. 3331/2011).
Il diritto di proprietà, d'altro canto, non può essere fatto oggetto di atti abdicativi (TAR Puglia-Bari sez. III n. 2131/08, par. 6.1.2), e quindi anche la richiesta di risarcimento formulata dal privato, finalizzata a ottenere il mero controvalore del fondo compromesso dalla realizzazione dell'opera pubblica, ancorché interpretata quale manifestazione della volontà di rinunciare alla proprietà del fondo, non può valere a determinare in capo al privato la perdita di proprietà del fondo illegittimamente occupato dall'opera pubblica.
Discende da quanto sopra che in tali casi solo un formale atto di acquisizione del fondo riconducibile a un negozio giuridico, ovvero al provvedimento ex art. 42-bis D.P.R. 327/2001 può precludere la restituzione del bene: di guisa che in assenza di un tale atto è obbligo primario della Amministrazione quello di restituire il fondo illegittimamente appreso (C.d.S. n. 4970/2011).
Correlativamente, mantenendo il privato la proprietà di questo ultimo, egli non ha alcun titolo per chiedere un risarcimento commisurato alla perdita della proprietà del fondo, potendo invece agire per la restituzione di esso e per il risarcimento del danno conseguente al mancato godimento del bene durante il periodo di occupazione illegittima (TAR Puglia-Bari sez. II n. 2131/2008)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 22.05.2013 n. 1174 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: E. I. Blasco, La (non agevole) applicazione della normativa sulla trasparenza ai procedimenti espropriativi - Il problema della pubblicità delle indennità d'esproprio (L'ufficio tecnico n. 4/2013).

ESPROPRIAZIONE: Il procedimento ablatorio disciplinato dal d.p.r. n. 327/2001 può colpire non solo il diritto di proprietà ma anche, in modo autonomo, un diritto reale minore, come avviene nell’ipotesi dell’imposizione di servitù. Invero l’art. 1 del d.p.r. n. 327/2001, analogamente al previgente art. 1 della legge n. 2359/1865, assume ad oggetto dell’espropriazione sia la piena proprietà, sia singoli diritti relativi ad immobili.
Pertanto, le fasi del procedimento espropriativo, indicate nell’art. 8 del d.p.r. n. 327/2001 e articolate nell’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio, nella dichiarazione di pubblica utilità dell’opera e nella determinazione dell’indennità, riguardano i provvedimenti impugnati, preordinati alla imposizione di una servitù permanente e quindi all’espropriazione di un diritto reale minore, il cui procedimento è inderogabilmente sottoposto alla disciplina contenuta nelle norme evocate dalla ricorrente.

Il procedimento ablatorio disciplinato dal d.p.r. n. 327/2001 può colpire non solo il diritto di proprietà ma anche, in modo autonomo, un diritto reale minore, come avviene nell’ipotesi dell’imposizione di servitù. Invero l’art. 1 del d.p.r. n. 327/2001, analogamente al previgente art. 1 della legge n. 2359/1865, assume ad oggetto dell’espropriazione sia la piena proprietà, sia singoli diritti relativi ad immobili (Cons. Stato, A.P., 18.07.1983, n. 21; Cons. Stato, A.G., 29.03.2001, n. 4; TAR Campania, Napoli, II, 23.11.1998, n. 3562).
Pertanto, le fasi del procedimento espropriativo, indicate nell’art. 8 del d.p.r. n. 327/2001 e articolate nell’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio, nella dichiarazione di pubblica utilità dell’opera e nella determinazione dell’indennità, riguardano i provvedimenti impugnati, preordinati alla imposizione di una servitù permanente e quindi all’espropriazione di un diritto reale minore, il cui procedimento è inderogabilmente sottoposto alla disciplina contenuta nelle norme evocate dalla ricorrente.
Nel caso di specie, in violazione del citato art. 8, la dichiarazione di pubblica utilità non è stata preceduta dalla necessaria apposizione del vincolo espropriativo, il quale avrebbe dovuto essere introdotto mediante variante urbanistica, secondo quanto statuito dagli artt. 9 e 10 del d.p.r. n. 327 del 2001; tali norme precisano quali sono gli atti attraverso i quali può essere disposto il vincolo stesso, individuati nella approvazione di uno strumento urbanistico generale o sua variante (che preveda la realizzazione dell’opera pubblica), ovvero nella conferenza di servizi, accordo di programma o altra intesa che comporti la variante al piano urbanistico
(TAR Toscana, Sez. I, sentenza 21.03.2013 n. 433 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEL'omessa notifica degli atti espropriativi ai proprietari non risultanti dagli atti catastali non assume né carattere invalidante di detti atti espropriativi, né legittima una difesa tardiva in sede giurisdizionale, ovvero in sede amministrativa, essendo comunque onere del privato interessato curare l'esatta corrispondenza delle risultanze catastali alla reale situazione giuridica del bene oggetto della procedura ablatoria.
Ciò perché è da evitare che "...le negligenze dell'avente titolo possano andare a discapito del buon andamento dell'azione amministrativa, a tutela del quale può dirsi anche posto il principio della certezza delle situazioni giuridiche dell'attività della Pubblica Amministrazione...".

Come noto la giurisprudenza del Consiglio di Stato è costante nel ritenere che l'omessa notifica degli atti espropriativi ai proprietari non risultanti dagli atti catastali non assume né carattere invalidante di detti atti espropriativi, né legittima una difesa tardiva in sede giurisdizionale, ovvero in sede amministrativa, essendo comunque onere del privato interessato curare l'esatta corrispondenza delle risultanze catastali alla reale situazione giuridica del bene oggetto della procedura ablatoria.
Ciò perché è da evitare che "...le negligenze dell'avente titolo possano andare a discapito del buon andamento dell'azione amministrativa, a tutela del quale può dirsi anche posto il principio della certezza delle situazioni giuridiche dell'attività della Pubblica Amministrazione..." (Cfr. Consiglio di Stato, sentenza n. 3690 del 2010 e sentenza n. 7014 del 2006) (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 18.03.2013 n. 182 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Sulla vexata quaestio della tutela del privato in presenza di occupazioni che, per quanto in origine legittime, siano divenute sine titulo per mancata adozione, nei termini di legge, di rituale misura ablatoria.
Va ricordato il consolidato orientamento che attribuisce alla giurisdizione amministrativa le controversie, anche risarcitorie, che abbiano a oggetto un'occupazione originariamente legittima, e che sia poi divenuta sine titulo a causa del decorso dei termini di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità senza il sopravvenire di un valido decreto di esproprio, trattandosi non già di meri comportamenti materiali, ma di condotte costituenti espressione di un'azione originariamente riconducibile all'esercizio del potere autoritativo della p.a., e che solo per accidenti successivi -come avviene anche per l'ipotesi di successivo annullamento giurisdizionale degli atti ablatori- hanno perso la propria connotazione eminentemente pubblicistica.
Esula, peraltro, dalla giurisdizione amministrativa, per spettare a quella del giudice ordinario, la domanda tesa ad ottenere il riconoscimento degli indennizzi per il periodo di occupazione legittima in relazione alla quale continua a valere a tutti gli effetti la riserva disposta dall'art. 53, comma 2, d.P.R. n. 327 del 2001 (ora, art. 133 comma 1, lett. g, c.p.a.).
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Va, in proposito, osservato:
a) che, in caso occupazione originariamente valida non seguita, peraltro, da tempestiva adozione del decreto di esproprio, il decorso del termine ventennale utile ad usucapionem prende avvio solo dal momento in cui l’occupazione diventa contra legem, con il decorso del termine quinquennale;
b) che, ai fini interruttivi, appaiono idonee (in virtù del combinato disposto degli artt. 1965 e 2943 c.c.) esclusivamente iniziative giudiziali in funzione recuperatoria del possesso, e non già intese alla mera condanna al risarcimento del danno;
c) che, per comune intendimento, la maturata usucapione fa venir meno (non soltanto, come è ovvio, la facoltà di esperire le tutele reali e recuperatorie, stante la correlativa perdita della situazione dominicale, ma anche) l'elemento costitutivo della fattispecie risarcitoria (nonché, deve ritenersi, di quella indennitaria), consistente nell'illiceità della condotta lesiva della situazione giuridica soggettiva dedotta, non solo per il periodo successivo al decorso del termine, ma anche per quello anteriore, in virtù della retroattività degli effetti dell'acquisto, stabilita per garantire, alla scadenza del termine necessario, la piena realizzazione dell'interesse all'adeguamento della situazione di fatto a quella di diritto;
d) che neppure, del resto, risulta concretamente possibile, ad usucapione maturata, condanna alla adozione (ad esito alternativo discrezionalmente apprezzabile) di provvedimento ex art. 42-bis del T.U. n. 327/2001, per la preclusiva ragione che l’usucapione costituisce già autonomo titolo di acquisto della proprietà e non potrebbe, con ogni evidenza, procedersi all’acquisto di cosa propria.

Il ricorso è, nei sensi delle considerazioni che seguono, infondato e merita di essere correlativamente respinto.
Va, liminarmente, respinta l’articolata eccezione di difetto di giurisdizione alla luce del consolidato orientamento che attribuisce alla giurisdizione amministrativa le controversie, anche risarcitorie, che abbiano a oggetto un'occupazione originariamente legittima, e che sia poi divenuta sine titulo a causa del decorso dei termini di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità senza il sopravvenire di un valido decreto di esproprio, trattandosi non già di meri comportamenti materiali, ma di condotte costituenti espressione di un'azione originariamente riconducibile all'esercizio del potere autoritativo della p.a., e che solo per accidenti successivi -come avviene anche per l'ipotesi di successivo annullamento giurisdizionale degli atti ablatori- hanno perso la propria connotazione eminentemente pubblicistica (cfr., da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 28.11.2012, n. 6012 e già Cons. Stato, Ad. Pl., 22.10.2007, n. 12).
Esula, peraltro, dalla giurisdizione amministrativa, per spettare a quella del giudice ordinario, la domanda tesa ad ottenere il riconoscimento degli indennizzi per il periodo di occupazione legittima in relazione alla quale continua a valere a tutti gli effetti la riserva disposta dall'art. 53, comma 2, d.P.R. n. 327 del 2001 (ora, art. 133 comma 1, lett. g, c.p.a.): in termini, da ultimo TAR Campania Napoli, sez. V, 14.06.2012, n. 2831.
In termini generale, giova premettere che la controversia in esame attiene alla vexata quaestio della tutela del privato in presenza di occupazioni che, per quanto in origine legittime, siano divenute sine titulo per mancata adozione, nei termini di legge, di rituale misura ablatoria.
Va osservato, sul punto, che i percorsi di tutela della proprietà privata a fronte dell’illegittimo esercizio del potere espropriativo –oscillanti tra azione restitutoria, azione risarcitoria per equivalente e (attualmente) potere pubblicistico di acquisizione sanante ai sensi del vigente art. 42-bis del t.u. n. 327/2001– sono oggetto (anche, vale soggiungere, indipendentemente dai persistenti dubbi di compatibilità costituzionale e di conformità alla convenzione EDU del citato art. 42-bis, che Cons. Stato, sez. IV, 27.01.2012, n. 427 ha, peraltro, inteso senz’altro fugare) di perdurante dibattito dottrinale e di non sopiti contrasti giurisprudenziali.
I punti di partenza della questione sono, alquanto paradossalmente, del tutto perspicui:
a) la c.d. occupazione appropriativa per trasformazione irreversibile dell'immobile, come modo di acquisto della proprietà a titolo originario, fondato sul principio della accessione c.d. invertita mutuato per analogia dall’art. 938 c.c., dopo una (fin troppo nota e travagliata) vicenda segnata dal progressivo affinamento del formante giurisprudenziale, è stata ormai inesorabilmente espunta dal nostro ordinamento, in virtù delle reiterate e decisive pronunzie della Corte di Strasburgo (v., in termini perspicui, Cons. Stato, ad. plen., 29.04.2005, n. 2, cui giova complessivamente rinviare);
b) di conseguenza, ricondotta la vicenda della occupazione illegittima ad una “ordinaria” ipotesi di illecita ingerenza nella sfera dominicale altrui, al proprietario leso spetteranno (ove si prescinda, per un momento, dalla già ventilata possibilità che l’ente espropriante eserciti il distinto potere di cui all’attuale art. 42-bis, di cui si dirà) tutte le ordinarie azioni a difesa della proprietà e del possesso, non potendo godere la pubblica amministrazione di uno status privilegiato se non in presenza di poteri esercitati in conformità del paradigma legale di riferimento.
È, peraltro, evidente che –in mancanza di un idoneo titolo giuridico che valga a trasferire la proprietà in capo alla pubblica amministrazione– il privato resta, a fronte della illecita ingerenza, proprietario del bene, con la conseguenza che può, anzitutto, attivare (a parte, ovviamente, il risarcimento del danno per il periodo di occupazione) la tutela restitutoria, previa ripristino dello status quo ante: al che non può costituire impedimento (una volta venuta meno la “costruzione“ concettuale della occupazione acquisitiva) né la avvenuta trasformazione delle aree né la realizzazione dell’opera pubblica (quella che, in passato, si definiva sintomaticamente trasformazione “irreversibile”, che tale era peraltro, con evidente circuito logico, solo in quanto scattasse il postulato meccanismo acquisitivo a titolo originario), in quanto, per un verso, il limite della eccessiva onerosità è codificato, dal’art. 2058 c.c., in relazione alla tutela risarcitoria (in forma specifica) e non per quella restitutoria (che trova fondamento negli artt. 948 ss. ed è preordinata alla tutela reale della proprietà) e, per altro verso, l’ulteriore limite di cui all’art. 2933 c.c. (relativo alla riduzione in pristino di quanto sia stato realizzato in violazione dell’obbligo di non fare) si riferisce solo alla ricorrenza di pregiudizi per l’intera economia nazionale e non a quello “localizzato” (in termini, da ultimo, Cass. sez. I, 23.08.2012, n. 14609).
Per la stessa ragione, di conserva, al privato dovrebbe, in principio, ritenersi preclusa la tutela risarcitoria (naturalmente diversa da quella relativa alla mera occupazione, finché la stessa sia di fatto durata), difettando –ai fini del riconoscimento del diritto al rivendicato controvalore venale del bene– il presupposto della perdita della proprietà (non potendosi, incidentalmente, ritenere –secondo un ragionamento speciosamente formulato in passato, ma privo di basi ed oggi espressamente ripudiato non meno dal giudice ordinario che da quello amministrativo– che la formulazione della domanda risarcitoria implicasse di per sé l’implicita volontà dismissiva della proprietà, alla stregua di una sorta di “abbandono liberatorio”).
Una importante e paradossale conseguenza è, allora, che le domande risarcitorie (anche quelle proposte quando nessuno, né tantomeno gli odierni ricorrenti, aveva plausibile ragione di dubitare del regime della occupazione acquisitiva, magari giunte alla attuale cognizione del giudice amministrativo –oggi attributario, come è noto, della giurisdizione esclusiva in materia, giusta l’art. 34 del d.lgs. n. 80/1998, trasfuso nell’art. 133 c.p.a.– per via di translatio judicii in esito a declinatoria della giurisdizione, e salva la possibilità di formulare in proposito una auspicabile emendatio libelli: cfr., in tal senso, Cons. Stato, sez. IV, 01.06.2011, n. 3331) dovrebbero essere senz’altro respinte in quanto non fondate (per carenza del fatto costitutivo del diritto azionato).
Che è esito, va riconosciuto, nel complesso indubbiamente insoddisfacente non solo per l’Amministrazione espropriante (che vede, di fatto, in generale potenzialmente pregiudicato l’interesse pubblico dalla doverosità ed automaticità della reintegrazione della proprietà privata, anche in casi di trasformazione delle aree e di avvenuta realizzazione delle opere pubbliche, potendo solo riattivare ab ovo la procedura ablatoria), ma anche per lo stesso privato (che, più spesso di quanto non si possa immaginare, annette in concreto maggior interesse alla pronta liquidazione del bene secondo il suo valore venale che al ripristino dello status quo ante e che, in ogni caso, ha potuto ragionevolmente optare, diversamente da quanto occorso nella fattispecie in esame, per l’attivazione, in via esclusiva, della via risarcitoria di fatto preclusa da inopinati overruling pretori).
A fronte di ciò, può ritenersi in generale sostanzialmente appagante l’eventualità (non verificatasi, peraltro, nel caso di specie nonostante lo spatium deliberandi di fatto concesso dalla ordinanza collegiale evocata in narrativa) che l’Amministrazione adotti l’autonomo potere ablatorio codificato dall’art. 42-bis del t.u. n. 327/2001, in quanto:
a) per un verso, la legalità dell’azione amministrativa viene, in certo modo, “recuperata” dalla creazione di un (nuovo ed autonomo) titulus adquirendi di natura provvedimentale, munito di idonea base legale e frutto di doverosa e rigorosa ponderazione comparativa degli interessi in gioco, complessivamente intesa alla salvaguardia di quello pubblico concretamente preminente (così superando la logica, stigmatizzata in sede CEDU, dell’occupazione acquisitiva, che consentiva l’acquisto in virtù di un mero comportamento di fatto, per di più concretante fattispecie di illecito);
b) per altro verso, si garantisce al privato una tutela piena e satisfattiva (in prospettiva dichiaratamente “indennitaria” piuttosto che “risarcitoria”, non trattandosi, nell’auspicio “ricostruttivo”, per quanto valer possa l’intento qualificatorio trasfuso nella norma, dei conditores, di non più plausibile acquisto ex re illicita, come ancora autorizzava a ritenere la formulazione del previgente art. 43) al conseguimento dell’integrale valore del bene (per giunta maggiorato –a dire il vero, non senza una sottile contraddizione “sistematica”– del pregiudizio non patrimoniale forfetizzato, oltre che, naturalmente, del danno da occupazione), senza neppure precludergli (in tesi astratta) la possibilità di impugnare (se interessato soprattutto alla reintegra) il provvedimento.
Il problema si pone, allora, essenzialmente per l’ipotesi (peraltro praticamente più frequente) di inerzia (o addirittura di silenzio) dell’ente espropriante: inerzia e silenzio che, per quanto si è detto, appaiono in grado di condizionare lo spettro delle tutele a disposizione del privato, di fatto conservandone lo status non sempre gradito (e, nella specie, addirittura prospetticamente suscettibile di azzerare le forme di tutela azionate) di proprietario dei beni.
Un primo tentativo di soluzione del problema è stato offerto da quella giurisprudenza che –muovendosi sul piano schiettamente civilistico (l’unico, peraltro, possibile in difetto di esercizio di legittime potestà pubblicistiche):
a) o ha ritenuto (così TAR Lecce, sez. I, 24.11.2010, n. 2683) che l’irreversibile trasformazione del bene continui a rappresentare fatto idoneo a far acquistare la proprietà alla pubblica amministrazione (non già, peraltro, per il principio dell’accessione invertita, ma in virtù della c.d. specificazione ex art. 940 c.c., consistente nella utilizzazione della altrui “materia” per realizzare una “nuova cosa”): tesi rimasta, peraltro, del tutto isolata, se non altro per il rilievo che la specificazione, quale modo civilistico di acquisto della proprietà a titolo originario, si attaglia alle cose mobili e non a quelle immobili);
b) ovvero –con esito del tutto opposto– ha ventilato l’applicazione della regola (ordinaria e tradizionale) della accessione ex art. 934 c.c., in forza della quale non solo (come è pacifico) il proprietario delle aree occupate non perde il proprio diritto in conseguenza dell’altrui ingerenza, ma diventa anche il proprietario degli immobili realizzati sul proprio suolo: con il che peraltro –del tutto paradossalmente– il privato sarebbe esposto anche ad un arricchimento “imposto” ed una consequenziale obbligazione indennitaria a suo danno.
Si è anche formato un orientamento giurisprudenziale volto, per altra via, ad aggirare la difficoltà ed a raggiungere comunque l'obiettivo perseguito dal legislatore: già nella vigenza dell'art. 43 si era, invero, statuito che, a fronte della domanda risarcitoria, la P.A. avrebbe potuto (alternativamente ma doverosamente) pervenire ad un accordo transattivo ovvero emettere un formale e motivato decreto, con cui disporre o la restituzione dell'area a suo tempo occupata, previa ripristino dello status quo ante, ovvero l'acquisizione coattiva: con il che, in caso di inerzia conseguente al giudicato “ad esito alternativo”, l'interessato avrebbe potuto chiedere, in sede di ottemperanza, l'esecuzione della decisione, per la adozione delle misure consequenziali (rientrando nei poteri del giudice, in tal caso estesi come è noto al merito, la nomina di un commissario ad acta per l’adozione della scelta più opportuna): così Cons. Stato, sez. IV, 21.05.2007, n. 2582, seguito, tra le altre, da TAR Campania Napoli, sez. V, 28.05.2009).
È evidente che, in tale prospettiva, il processo azionato dal privato diventa indirettamente strumento per imporre alla P.A. di attivarsi per comporre la vicenda, senza ancora pregiudicare le diverse opzioni, ma sull'implicito presupposto pratico che l'ipotesi della restituzione rimanga puramente teorica. Perciò, con l’introduzione dell'art. 42-bis, questo orientamento ha ripreso vigore, specie nella giurisprudenza di prime cure (ed è stato accolto, per esempio, da questo Tribunale: cfr, in tal senso, TAR Campania Salerno, sez. II, 11.01.2012, n. 28), puntando, da fatto, più seccamente sulla ineludibile alternativa tra restituzione e acquisizione sanante, mentre passano in secondo piano altre soluzioni che erano emerse, come l'accordo transattivo o la rinnovazione del procedimento espropriativo (la prima, ovviamente, sempre possibile ma non certo in forza di una statuizione giudiziaria impositiva di un obbligo, sia pure alternativo, a contrarre, privo, come tale, di idonea base positiva; la seconda anch’essa, beninteso, sempre possibile, ma chiaramente disfunzionale ed onerosa, in presenza di una facoltà acquisitiva autonoma ex art. 42-bis).
Va, peraltro, rammentato come altra impostazione abbia inteso andare oltre il prospettato esito decisionale, escludendo ogni alternativa, anche quella della restituzione, e rendendo non più nascosto ma esplicito e vincolante l'obiettivo di addivenire all'acquisizione: se il provvedimento di acquisizione è (o si vuole che sia) l'unico modo per sistemare la vicenda e la P.A. rimane inerte, vorrà dire che a tale provvedimento si dovrà ineludibilmente pervenire per ordine del giudice, con eventuale esercizio di poteri sostitutivi in sede di esecuzione: in tal caso l'accoglimento del ricorso si risolve, direttamente, in una condanna specifica ad adottare il provvedimento di acquisizione ai sensi dell'art. 42-bis.
Con questa sorta di mutatio officiosa della domanda (peraltro, di dubbia compatibilità con il canone della corrispondenza tra chiesto e pronunziato ex art. 112 c.p.c.), la ''sostanza'' cui, iussu proprie iudicis, si perviene è che, da un lato, si è trasferita la proprietà e si è evitata la restituzione, d'altro lato, si è concesso indirettamente il risarcimento del danno per equivalente al privato: il provvedimento di acquisizione contiene infatti ex lege l'indennizzo per la perdita della proprietà (in tali sensi, tra le altre, TAR Campania Napoli, Sez. V, 13.01.2012, n. 176, la quale, peraltro, ha “differito” l’esame della domanda risarcitoria all’esito della adozione del provvedimento acquisitivo, laddove altro modulo decisionale, seguito inter alia da TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 23.02.2012, n. 428, da TAR Lombardia Brescia, Sez. II, 26.01.2012, n. 115 e  da TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 17.02.2012, n. 195, ritiene “assorbita” la domanda risarcitoria, sull’assunto che, adottato il provvedimento ex art. 42-bis, la disputa sul quantum della riconosciuta indennità spetterebbe ad altra sede e, plausibilmente, ad altra giurisdizione).
L'orientamento in questione e la prospettiva della condanna a provvedere ex art. 42-bis consentono in realtà, a favore del privato, di superare in radice ogni problematico rilievo del distinguo tra domanda restitutoria e domanda di risarcimento per equivalente, poiché, quale che sia l'esatto contenuto della domanda, soltanto nella suddetta condanna può risolversi il processo. Non a caso, possono ravvisarsi pronunce che hanno statuito la condanna a provvedere ex art. 42-bis non perché mosse dalla necessità di aggirare la domanda restitutoria (concretamente non inclusa nel petitum immediato), ma a partire dalla mera azione risarcitoria, pervenuta, magari tramite translatio judicii, al giudice amministrativo.
Il descritto escamotage giurisprudenziale (va, invero, onestamente riconosciuto che di questo si tratta) consente, quindi, di raggiungere l'obiettivo dell'art. 42-bis, con indubbi vantaggi anche per la tutela effettiva del privato, ma, specialmente nella versione della condanna specifica e non alternativa all'acquisizione sanante, al costo di un'interpretazione che porta a dissolvere anche un'apparenza di conformità ai principi europei: e ciò perché si finisce pregiudizialmente per escludere sempre e comunque la concessione della (primaria ed indefettibile) tutela restitutoria.
In tale contesto, una più recente (e, sia pure solo in parte, alternativa) pronunzia del Consiglio di Stato (la n. 1514 del 16.03.2012, resa dalla sez. IV) ha piuttosto (e, c’è da riconoscere, con maggior “franchezza”) argomentato nel senso:
a) che al privato è preclusa (in assenza di adozione del provvedimento acquisitivo) la tutela risarcitoria, in quanto anche l’irreversibile trasformazione delle aree non determina, come ampiamente chiarito, la perdita del diritto di proprietà;
b) nondimeno –e qui sta la novità della pronuncia– neppure può darsi luogo (quando, ovviamente, richiesta) alla tutela restitutoria: la quale, in thesi, eliderebbe di per sé ed automaticamente il potere (discrezionale e non conculcabile) di acquisizione sanante ex art. 42-bis (non esistendo più la c.d. acquisizione giudiziale consentita dal previgente art. 43, che autorizzava l’Amministrazione ad invocare ope exceptionis la limitazione della domanda alla erogazione del risarcimento del danno, nella prospettiva della futura e “preannunziata” determinazione acquisitiva);
c) di conseguenza la domanda (comunque formulata) è ritenuta accoglibile (avuto riguardo al c.d. principio di atipicità scolpito dall’art. 34 c.p.a.) nei (soli) sensi dalla condanna all’obbligo generico di provvedere ex art. 42-bis, restando impregiudicata la scelta discrezionale tra acquisizione sanante (unita al ristoro per la perdita della proprietà e per il periodo di occupazione illegittima) e restituzione (preceduta dalla restitutio in integrum e dal ristoro del solo periodo di occupazione illegittima).
Insomma: da un lato, l'accoglimento della mera azione risarcitoria si scontra con il mancato trasferimento della proprietà, d'altro lato, l'art. 42-bis avrebbe inequivocabilmente attribuito alla P.A. il potere discrezionale, valutati gli interessi in conflitto, di pervenire o meno al provvedimento di acquisizione, e siffatto potere (peraltro non già facoltativo, nella consueta guisa del procedimenti di secondo grado orientati alla sanatoria, sebbene doveroso nell’an giusta il principio generale scolpito all’art. 2 della l. n. 241/1990, in quanto preordinato alla salvaguardia, in prospettiva comparativa, di rilevanti interessi delle controparti private) non potrebbe essere preventivamente intaccato e vanificato (stante l’attuale impossibilità, a differenza del previgente art. 43, di attivazione post litem judicatam) da un vincolo giurisdizionale conseguente all’accoglimento della domanda restitutoria (né –è da precisare– da una condanna a provvedere tout court all’adozione del provvedimento acquisitivo, che lederebbe e pregiudicherebbe in altra direzione la discrezionalità della P.A. di scegliere, valutati gli interessi in conflitto, tra acquisizione e restituzione del bene).
La soluzione de qua (per quanto non esente da perplessità, di fatto disconoscendosi la tutela restitutoria nella immediatezza della sua sede naturale, id est nel giudizio di cognizione, di fatto condizionato dal successivo ed eventuale esercizio del potere amministrativo di acquisizione) ha trovato nondimeno apprezzamento in dottrina, poiché attenua, in qualche misura, il conflitto con i principi della CEDU, lasciando quantomeno ''astrattamente'' aperta la porta alla possibilità della restituzione. Anche se –si è criticamente osservato non senza qualche ragione– non deve dimenticarsi che nel nuovo art. 42-bis non è stata, come si ripete, riprodotta la facoltà processuale della P.A. di paralizzare la restituzione (di cui all'originario art. 43), proprio per ragioni di compatibilità con i principi europei, risultando così alquanto paradossale che si evochi proprio l'art. 42-bis per pervenire ad un opposto e ancor più estremo risultato, cioè di un'azione restitutoria che ex lege viene paralizzata d'ufficio dal giudice. Perplessità, come è ovvio, che non può sorgere quando la domanda sia formulata in termini risarcitori.
Va da sé, sulle esposte coordinate dogmatiche, che (una volta ritenuta, nei chiariti sensi, la “doverosità” di attivazione del procedimento di acquisizione sanante ex art. 42-bis) sarebbe preferibile strutturare recta via la tutela del privato nei sensi della condanna (pura) a provvedere, nelle forme del rito avverso il silenzio (in tal senso, per esempio, TAR Campania Napoli, sez. V, 11.01.2012, n. 86, confermata da Cons. Stato, sez. IV, 08.10.2012, n. 5207): il risultato —condanna generica a provvedere— è ovviamente del tutto identico a quello scaturente dall’orientamento precedente, ma con ulteriori apprezzabili conseguenze sia per il privato, sia per la stessa P.A:
a) dal punto di vista del privato, vi sono palesi vantaggi sui “'tempi” di definizione della vicenda (non essendo anzitutto da escludere che la P.A., sollecitata dall'istanza, decida senz’altro di provvedere, ed in ogni caso, di fronte all'inerzia, si potrà ottenere quel risultato della condanna generica a provvedere attraverso il rito “acceleratorio” del silenzio, in luogo delle lungaggini di un'azione risarcitoria);
b) per la stessa P.A., non è certo trascurabile che l'indotto accorciamento dei “tempi” eviterà un aggravamento degli oneri risarcitori per l'occupazione illegittima, interrotta dalla restituzione, che fa venir meno l'occupazione stessa, o dal provvedimento di acquisizione, che ne fa venir meno l'illegittimità;
c) in ogni caso, nell'ottica europea, si toglierebbe la giurisprudenza dall'imbarazzo di non poter direttamente accogliere le azioni restitutorie o di dover affermare, come l’orientamento illustrato precedentemente, che il giudice non può elidere il potere amministrativo di decidere o meno l'acquisizione del bene (e ciò in quanto la questione dell'esercizio di siffatto potere non costituirebbe più un impedimento paralizzante nel momento della tutela processuale dell'azione del proprietario, ma si consumerebbe a monte e in un percorso prima amministrativo e poi processuale, quello del silenzio, dall'oggetto limitato, che rimane estraneo formalmente all'esperimento in via principale della tutela dominicale, per quanto nella ''sostanza'' indirettamente già idoneo a soddisfare la pretesa risarcitoria o restitutoria).
La dottrina si è addirittura spinta a prospettare (ed auspicare) de jure condendo (pur nella consapevolezza della sua problematicità anche in termini costituzionali, trattandosi in tesi di strutturare tutele c.d. condizionate) l’introduzione del previo esperimento dell'istanza a provvedere ex art. 42-bis e dell'eventuale tutela giurisdizionale avverso il silenzio quali condizioni di procedi-bilità delle domande risarcitorie e/o restitutorie.
Tutto ciò premesso, va peraltro esaminata –sia in quanto espressamente formulata da parte resistente al preordinato fine di argomentare l’infondatezza della domanda risarcitoria formulata ex adverso, sia in quanto prospetticamente idonea ad evocare, ove fondata, ragione pregiudizialmente preclusiva, in presenza di idoneo titulus adquirendi originario a favore dell’Amministrazione, dell’esercizio del potere acquisitivo ex art. 42-bis T.U. n. 327/2001, stante la correlata carenza del relativo presupposto dell’alienità del bene ad acquisirsi (cfr., da ultimo, Cass., sez. I, 04.07.2012, n. 11147, riferita ad un caso di occupazione usurpativa ma con argomento generalizzabile)– l’eccezione intesa a valorizzare l’intervenuta usucapione delle aree oggetto del contestato intervento, che sarebbe maturata a favore dell’Amministrazione espropriante in virtù del possesso ultraventennale, non idoneamente interrotto da opportune e tempestive iniziative giudiziali in funzione recuperatoria.
L’eccezione di intervenuta usucapione (che questo giudice può accertare in via incidentale ex art. 8 c.p.a,. in quanto logicamente concretante questione pregiudiziale) è fondata.
Va, in proposito, osservato:
a) che, in caso occupazione originariamente valida non seguita, peraltro, da tempestiva adozione del decreto di esproprio, il decorso del termine ventennale utile ad usucapionem prende avvio solo dal momento in cui l’occupazione diventa contra legem, con il decorso del termine quinquennale (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. V, 08.10.2012, n. 4030 e TAR Salerno, sez. II, 09.07.2012, n. 1374): nella specie, a far data dal 15.03.1988 (con maturazione al 15.03.2008);
b) che, ai fini interruttivi, appaiono idonee (in virtù del combinato disposto degli artt. 1965 e 2943 c.c.) esclusivamente iniziative giudiziali in funzione recuperatoria del possesso, e non già intese alla mera condanna al risarcimento del danno: cfr., in termini, Cass. SS.UU. 19.10.2011, n. 21575, proprio argomentando dalla possibilità, per il privato, di attivarsi nel senso della reintegrazione del possesso indipendentemente dalla (non rilevante) trasformazione del bene ablato: con il che, nel caso di specie, non può dirsi giovevole alla ricorrente l’azione risarcitoria in concreto attivata dinanzi al giudice ordinario, con citazione notificata il 23.11.1999, conclusasi con statuizione declinatoria della giurisdizione depositata in data 16.09.2002, versata in atti;
c) che, per comune intendimento, la maturata usucapione (della quale ricorrono, in concreto, tutti i presupposti, avuto segnatamente riguardo al possesso ultraventennale non interrotto) fa venir meno (non soltanto, come è ovvio, la facoltà di esperire le tutele reali e recuperatorie, stante la correlativa perdita della situazione dominicale, ma anche) l'elemento costitutivo della fattispecie risarcitoria (nonché, deve ritenersi, di quella indennitaria), consistente nell'illiceità della condotta lesiva della situazione giuridica soggettiva dedotta, non solo per il periodo successivo al decorso del termine, ma anche per quello anteriore, in virtù della retroattività degli effetti dell'acquisto, stabilita per garantire, alla scadenza del termine necessario, la piena realizzazione dell'interesse all'adeguamento della situazione di fatto a quella di diritto (cfr. Cass., 19.10.2011, n. 21575; Cass.. sez. III. 26.06.2008, n. 17570; Cass. 08.09.2006, n. 19294; merita, peraltro, soggiungere che la soluzione sul punto non potrebbe essere diversa anche ad accogliere il minoritario orientamento, essenzialmente dottrinario, inteso ad argomentare l’irretroattività dell’effetto acquisitivo conseguente alla maturata usucapione);
d) che neppure, del resto, risulta concretamente possibile, ad usucapione maturata, condanna alla adozione (ad esito alternativo discrezionalmente apprezzabile) di provvedimento ex art. 42-bis del T.U. n. 327/2001 (giusta la regola decisoria prospettata in subiecta materia da Cons. Stato, sez. IV, 16.03.2012, n. 1514 sull’assunto della doverosità nell’an della attivazione del relativo procedimento), per la preclusiva ragione che l’usucapione costituisce già autonomo titolo di acquisto della proprietà e non potrebbe, con ogni evidenza, procedersi all’acquisto di cosa propria (Cass., sez. I, 04.07.2012, n. 11147) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 31.01.2013 n. 298 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Presupposto legittimante la domanda di risarcimento del danno da c.d. occupazione espropriativa è che il bene irreversibilmente trasformato nell’ambito di una procedura ablativa non abbia mai costituito oggetto di un decreto di esproprio.
Infatti, l’esistenza di un decreto di esproprio preclude al proprietario ogni pretesa di carattere risarcitorio e gli consente di ristorarsi solo mediante l’indennizzo determinato nelle forme di legge, sindacabile tramite giudizio di opposizione alla stima, da proporsi dinanzi alla Corte d’appello competente per territorio.

Presupposto legittimante la domanda di risarcimento del danno da c.d. occupazione espropriativa è che il bene irreversibilmente trasformato nell’ambito di una procedura ablativa non abbia mai costituito oggetto di un decreto di esproprio.
Infatti, l’esistenza di un decreto di esproprio preclude al proprietario ogni pretesa di carattere risarcitorio e gli consente di ristorarsi solo mediante l’indennizzo determinato nelle forme di legge, sindacabile tramite giudizio di opposizione alla stima, da proporsi dinanzi alla Corte d’appello competente per territorio.
Per contro, nella fattispecie in esame risulta che, in relazione al fondo della ricorrente, il comune di Vallata ha adottato il decreto di esproprio 14.05.2009 n. 18, formalmente comunicato il 12.06.2009.
Ciò rende inammissibile il ricorso per risarcimento del danno.
Né può valere in senso contrario la richiesta, tuzioristicamente effettuata nelle sole conclusioni del ricorso, di “previo annullamento del decreto di espropriazione innanzi analiticamente indicato”.
Tale domanda, infatti, va ritenuta tamquam non esset, in mancanza dei requisiti essenziali della stessa, in primis la prospettazione delle specifiche censure di legittimità da cui l’atto sarebbe affetto (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 11.01.2013 n. 59 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: L’ordinamento sovranazionale recepito dalla Repubblica, anche a fronte della sopravvenuta irreversibile trasformazione del suolo per effetto della realizzazione di un’opera pubblica astrattamente riconducibile al compendio demaniale necessario e nonostante l’espressa domanda in tal senso di parte ricorrente, esclude la possibilità di una condanna puramente risarcitoria a carico dell’amministrazione, poiché una tale pronuncia postula l’avvenuto trasferimento della proprietà del bene, per fatto illecito, dalla sfera giuridica del ricorrente, originario proprietario, a quella della P.A. che se ne è illecitamente impossessata; esito, questo (comunque sia ricostruito in diritto: rinuncia abdicativa implicita nella domanda solo risarcitoria, ovvero accessione invertita), vietato dal primo protocollo addizionale della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Né la realizzazione dell’opera pubblica può costituire impedimento alla restituzione dell’area illegittimamente appresa e ciò indipendentemente dalle modalità -occupazione acquisitiva od usurpativa- di acquisizione del terreno.
Donde la necessità in ogni caso di un passaggio intermedio finalizzato all’acquisto della proprietà del bene da parte dell’ente espropriante.

Nel merito della controversia, occorre muovere dal mancato perfezionamento della procedura espropriativa nel termine dato e dall’irreversibile trasformazione dei beni occupati, denunciata sin dal momento introduttivo del giudizio dinanzi al giudice ordinario.
Orbene, osserva il collegio che l’ordinamento sovranazionale recepito dalla Repubblica, anche a fronte della sopravvenuta irreversibile trasformazione del suolo per effetto della realizzazione di un’opera pubblica astrattamente riconducibile al compendio demaniale necessario e nonostante l’espressa domanda in tal senso di parte ricorrente, esclude la possibilità di una condanna puramente risarcitoria a carico dell’amministrazione, poiché una tale pronuncia postula l’avvenuto trasferimento della proprietà del bene, per fatto illecito, dalla sfera giuridica del ricorrente, originario proprietario, a quella della P.A. che se ne è illecitamente impossessata; esito, questo (comunque sia ricostruito in diritto: rinuncia abdicativa implicita nella domanda solo risarcitoria, ovvero accessione invertita), vietato dal primo protocollo addizionale della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 03.10.2012 n. 5189).
Né la realizzazione dell’opera pubblica può costituire impedimento alla restituzione dell’area illegittimamente appresa e ciò indipendentemente dalle modalità -occupazione acquisitiva od usurpativa- di acquisizione del terreno (cfr. C. cost. 04.10.2010 n. 293; Cons. Stato, Sez. V, 02.11.2011 n. 5844).
Donde la necessità in ogni caso di un passaggio intermedio finalizzato all’acquisto della proprietà del bene da parte dell’ente espropriante (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 16.11.2007 n. 5830; TAR Campania, Salerno, Sez. II, 14.01.2011 n. 43).
Tale passaggio, allo stato della legislazione vigente, è costituito dall’art. 42-bis del T.U. 08.06.2001 n. 327 (rubricato: “utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico”), introdotto dall’art. 34 del decreto-legge 06.07.2011 n. 98, che così recita: “1. Valutati gli interessi in conflitto, l’autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, quest’ultimo forfetariamente liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene.
2. Il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche quando sia stato annullato l’atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all’esproprio, l’atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di un’opera o il decreto di esproprio. Il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche durante la pendenza di un giudizio per l’annullamento degli atti di cui al primo periodo del presente comma, se l’amministrazione che ha adottato l’atto impugnato lo ritira. In tali casi, le somme eventualmente già erogate al proprietario a titolo di indennizzo, maggiorate dell’interesse legale, sono detratte da quelle dovute ai sensi del presente articolo.
3. Salvi i casi in cui la legge disponga altrimenti, l’indennizzo per il pregiudizio patrimoniale di cui al comma 1 è determinato in misura corrispondente al valore venale del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e, se l’occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni dell’articolo 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7. Per il periodo di occupazione senza titolo è computato a titolo risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la prova di una diversa entità del danno, l’interesse del cinque per cento annuo sul valore determinato ai sensi del presente comma.
4. Il provvedimento di acquisizione, recante l’indicazione delle circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell’area e se possibile la data dalla quale essa ha avuto inizio, è specificamente motivato in riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l’emanazione, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l’assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione; nell’atto è liquidato l’indennizzo di cui al comma 1 e ne è disposto il pagamento entro il termine di trenta giorni. L’atto è notificato al proprietario e comporta il passaggio del diritto di proprietà sotto condizione sospensiva del pagamento delle somme dovute ai sensi del comma 1, ovvero del loro deposito effettuato ai sensi dell’articolo 20, comma 14; è soggetto a trascrizione presso la conservatoria dei registri immobiliari a cura dell’amministrazione procedente ed è trasmesso in copia all’ufficio istituito ai sensi dell’articolo 14, comma 2.
5 Se le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 4 sono applicate quando un terreno sia stato utilizzato per finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata o convenzionata, ovvero quando si tratta di terreno destinato a essere attribuito per finalità di interesse pubblico in uso speciale a soggetti privati, il provvedimento è di competenza dell’autorità che ha occupato il terreno e la liquidazione forfetaria dell’indennizzo per il pregiudizio non patrimoniale è pari al venti per cento del valore venale del bene.
6. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano, in quanto compatibili, anche quando è imposta una servitù e il bene continua a essere utilizzato dal proprietario o dal titolare di un altro diritto reale; in tal caso l’autorità amministrativa, con oneri a carico dei soggetti beneficiari, può procedere all’eventuale acquisizione del diritto di servitù al patrimonio dei soggetti, privati o pubblici, titolari di concessioni, autorizzazioni o licenze o che svolgono servizi di interesse pubblico nei settori dei trasporti, telecomunicazioni, acqua o energia.
7. L’autorità che emana il provvedimento di acquisizione di cui al presente articolo né dà comunicazione, entro trenta giorni, alla Corte dei conti mediante trasmissione di copia integrale.
8. Le disposizioni del presente articolo trovano altresì applicazione ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se vi è già stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato, ma deve essere comunque rinnovata la valutazione di attualità e prevalenza dell’interesse pubblico a disporre l’acquisizione; in tal caso, le somme già erogate al proprietario, maggiorate dell’interesse legale, sono detratte da quelle dovute ai sensi del presente articolo
”.
Ed allora, affinché l’interesse primario della parte lesa possa essere soddisfatto, deve imporsi all’amministrazione di rinnovare, entro trenta giorni dalla notificazione della presente sentenza, la valutazione di attualità e prevalenza dell’interesse pubblico all’eventuale acquisizione dei fondi per cui è causa, adottando, all’esito di essa, un provvedimento col quale gli stessi, in tutto od in parte, siano alternativamente:
a) acquisiti non retroattivamente al patrimonio indisponibile comunale;
b) restituiti in tutto od in parte al legittimo proprietario entro novanta giorni, previo ripristino dello stato di fatto esistente al momento dell’apprensione.
Nel primo caso, il provvedimento di acquisizione:
- dovrà specificare se interessa l’intero compendio occupato o solo parte di esso, disponendo la restituzione del fondo rimanente entro novanta giorni, previo ripristino dello stato di fatto esistente al momento dell’apprensione;
- dovrà prevedere che, entro il termine di trenta giorni, ai proprietari in solido sia corrisposto il valore venale del bene, nonché un indennizzo per il pregiudizio non patrimoniale, forfetariamente liquidato nella misura del dieci per cento del medesimo valore venale;
- dovrà recare l’indicazione delle circostanze che hanno condotto all’indebita utilizzazione dell’area e la data dalla quale essa ha avuto inizio e dovrà specificamente motivare sulle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l’emanazione, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l’assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione;
- dovrà essere notificato ai proprietari e comporterà il passaggio del diritto di proprietà sotto condizione sospensiva del pagamento delle somme dovute, ovvero del loro deposito effettuato ai sensi dell’art. 20, comma 14, D.P.R. 08.06.2001 n. 327;
- sarà soggetto a trascrizione presso la conservatoria dei registri immobiliari a cura dell’amministrazione procedente e sarà trasmesso in copia all’ufficio istituito ai sensi dell’art. 14, comma 2, D.P.R. 08.06.2001 n. 327, nonché comunicato, entro trenta giorni, alla Corte dei conti, mediante trasmissione di copia integrale.
Resta inteso che i predetti termini, disposti nell’esclusivo interesse del ricorrente, potranno essere aumentati su autorizzazione scritta da parte di questi ed inoltre che tutte le questioni che dovessero insorgere nella fase di conformazione alla presente decisione potranno formare oggetto di incidente di esecuzione e risolte, se del caso, tramite commissario ad acta.
Sia nel caso a) che nel caso b), il provvedimento da emanarsi dovrà contenere la liquidazione, in favore dei ricorrenti ed a titolo risarcitorio, di una somma in denaro pari all’applicazione del saggio di interesse del cinque per cento annuo sul valore venale dell’intero bene occupato per tutto il periodo di occupazione senza titolo, che decorre dalla scadenza del termine finale per l’espropriazione (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 11.01.2013 n. 58 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2012

ESPROPRIAZIONE: In seno al procedimento espropriativo, che la mancata impugnazione dell’atto impositivo del vincolo, come della dichiarazione di pubblica utilità, preclude la possibilità di farne valere l’illegittimità derivata in sede di impugnativa del provvedimento finale o dei successivi atti della sequenza procedimentale, trattandosi di atti direttamente lesivi.
Nell’ambito del procedimento ablatorio, l’ordinamento riconosce e valorizza le garanzie partecipative dei proprietari espropriandi sia in riferimento alla fase iniziale di apposizione del vincolo, sia a quella di dichiarazione della pubblica utilità (sia essa esplicita od implicita) in considerazione dell’ampia discrezionalità di cui dispone l’Amministrazione nella localizzazione, oltre che della lesività dell’effetto finale, consistente nella definitiva privazione del diritto di proprietà.
L’art. 11 del vigente t.u. in materia di espropriazioni per pubblica utilità, approvato con d.p.r. 08.06.2001 n. 327, coerentemente del resto con il fondamentale arresto dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 19.06.1986 n. 6, richiede sia garantita mediante la formale comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento, la possibilità di interloquire con l'amministrazione procedente sulla localizzazione dell’opera e, quindi, sull'apposizione del vincolo, prima della dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell'approvazione del progetto definitivo.
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E’ innegabile che parte della giurisprudenza, partendo dall’espresso riferimento contenuto nel citato art. 22-bis a “decreto motivato”, opina nel senso della necessità della sussistenza di una urgenza qualificata, da indicare adeguatamente in motivazione .
Diversamente, l’orientamento dominante, seppur non pacifico, invalso presso il Consiglio di Stato, ritiene che in presenza della preventiva apposizione del vincolo, unitamente all’approvazione della dichiarazione di pubblica utilità, l’autorità espropriante ben può immettersi senz'altro nel possesso dell'area in esecuzione della suddetta ordinanza, per realizzare le opere per le quali vi è stata l'approvazione del progetto e lo stanziamento delle relative risorse, “atteso che nel sistema del testo unico è divenuta irrilevante una specifica dichiarazione di indifferibilità ed urgenza, rilevante nel precedente sistema per ragioni storiche, ma di per sé già sussistente "in re ipsa”.
Tali considerazioni interpretative sono state più volte ribadite, confermando che l'ordinanza di occupazione d'urgenza riguarda una fase puramente attuativa di quella riguardante la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza dei lavori, “con la conseguenza che è sufficiente che la motivazione dell'ordinanza di occupazione si limiti a richiamare espressamente tale dichiarazione, che ne costituisce l'unico presupposto e che consenta di rilevare l'urgenza della realizzazione delle opere previste nella dichiarazione di pubblica utilità”.

Costituisce principio pacifico, in seno al procedimento espropriativo, che la mancata impugnazione dell’atto impositivo del vincolo, come della dichiarazione di pubblica utilità, preclude la possibilità di farne valere l’illegittimità derivata in sede di impugnativa del provvedimento finale o dei successivi atti della sequenza procedimentale, trattandosi di atti direttamente lesivi (ex multis TAR Piemonte 21.05.2010, n. 2438; Consiglio di Stato sez. IV 15.05.2008, n. 2246).
La mancata rituale impugnazione del suddetto provvedimento di vincolo rende pertanto inammissibile il gravame per difetto di interesse, poiché la ricorrente si duole, sotto il profilo sostanziale, della illegittimità degli atti impugnati proprio in relazione alla irragionevolezza e al difetto di proporzionalità della scelta localizzativa -che a suo dire avrebbero potuto condurre l’autorità espropriante ad una diversa scelta del tracciato viario- scelta tuttavia già espressa stante la perdurante efficacia dell’inoppugnata deliberazione C.C. n. 112/2002, resa intangibile dalla mancata tempestiva impugnazione.
Invero, è innegabile che, nell’ambito del procedimento ablatorio, l’ordinamento riconosce e valorizza le garanzie partecipative dei proprietari espropriandi sia in riferimento alla fase iniziale di apposizione del vincolo, sia a quella di dichiarazione della pubblica utilità (sia essa esplicita od implicita) in considerazione dell’ampia discrezionalità di cui dispone l’Amministrazione nella localizzazione, oltre che della lesività dell’effetto finale, consistente nella definitiva privazione del diritto di proprietà (ex multis Consiglio di Stato sez. VI 11.02.2003, n. 736; id. IV 30.07.2002, n. 4077; id. IV 26.09.2001 n. 5070; id. IV 15.04.2008 n. 2249; id. IV 29.07.2008 n. 3760; TAR Puglia-Bari sez. III 24.06.2010, n. 2665).
L’art. 11 del vigente t.u. in materia di espropriazioni per pubblica utilità, approvato con d.p.r. 08.06.2001 n. 327, coerentemente del resto con il fondamentale arresto dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 19.06.1986 n. 6, richiede sia garantita mediante la formale comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento, la possibilità di interloquire con l'amministrazione procedente sulla localizzazione dell’opera e, quindi, sull'apposizione del vincolo, prima della dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell'approvazione del progetto definitivo (ex multis Consiglio Stato, sez. IV, 29.07.2008, n. 3760).
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Ad avviso della ricorrente il procedimento di occupazione d’urgenza -speciale e del tutto autonomo rispetto all’ordinario modello procedimentale ablatorio (Consiglio di Stato sez IV, 08.07.2011, n. 3500; id. IV 30.01.2006 n. 293; TAR Sicilia Palermo sez. III 08.05.2008, n. 609; TAR Campania Napoli sez. V 24.01.2008, n. 384)- necessita, ai sensi del disposto di cui all’art. 22-bis del t.u., di congrua motivazione circa le specifiche ragioni d’urgenza qualificata.
E’ innegabile che parte della giurisprudenza, partendo dall’espresso riferimento contenuto nel citato art. 22-bis a “decreto motivato” (così come del resto lo stesso art. 15, c. 1-bis, L.R. Puglia 22.02.2005 n. 3), opina nel senso della necessità della sussistenza di una urgenza qualificata, da indicare adeguatamente in motivazione (ex plurimis TAR Campania Salerno, sez. II, 07.05.2009, n. 1829).
Diversamente, l’orientamento dominante, seppur non pacifico, invalso presso il Consiglio di Stato, ritiene che in presenza della preventiva apposizione del vincolo, unitamente all’approvazione della dichiarazione di pubblica utilità, l’autorità espropriante ben può immettersi senz'altro nel possesso dell'area in esecuzione della suddetta ordinanza, per realizzare le opere per le quali vi è stata l'approvazione del progetto e lo stanziamento delle relative risorse, “atteso che nel sistema del testo unico è divenuta irrilevante una specifica dichiarazione di indifferibilità ed urgenza, rilevante nel precedente sistema per ragioni storiche, ma di per sé già sussistente "in re ipsa” (Consiglio Stato sez. IV, 29.05.2009, n. 3350; id. sez IV, 24.12.2009, n. 8756; id. sez. IV, 27.06.2007 n. 3696; così anche TAR Campania Salerno, sez. I, 30.01.2006, n. 23).
Tali considerazioni interpretative sono state più volte ribadite, confermando che l'ordinanza di occupazione d'urgenza riguarda una fase puramente attuativa di quella riguardante la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza dei lavori, “con la conseguenza che è sufficiente che la motivazione dell'ordinanza di occupazione si limiti a richiamare espressamente tale dichiarazione, che ne costituisce l'unico presupposto e che consenta di rilevare l'urgenza della realizzazione delle opere previste nella dichiarazione di pubblica utilità” (Consiglio di Stato sez IV, 24.12.2009 n. 8756)
(TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 06.12.2012 n. 2064 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: L’A.N.A.S. non è soltanto società concessionaria del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, ma soggetto espressamente individuato dal legislatore a svolgere i compiti e le funzioni di interesse pubblico di cui all’art. 2, lett. da a) a g), nonché 1), del d.lgs. 26.02.1994, n. 143, ivi compreso il potere di procedere alle espropriazioni che si rendano necessarie, di tal che la stessa è pienamente legittimata a delegare, ai sensi dell’art. 6, comma 8, DPR 327/2001, le funzioni espropriative a soggetti terzi.
Valga, in proposito, osservare:
a) che l’A.N.A.S. non è soltanto società concessionaria del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, ma soggetto espressamente individuato dal legislatore a svolgere i compiti e le funzioni di interesse pubblico di cui all’art. 2, lett. da a) a g), nonché 1), del d.lgs. 26.02.1994, n. 143, ivi compreso il potere di procedere alle espropriazioni che si rendano necessarie, di tal che la stessa è pienamente legittimata a delegare, ai sensi dell’art. 6, comma 8, DPR 327/2001, le funzioni espropriative a soggetti terzi, cosi come è avvenuto con la convenzione stipulata con Autostrade Meridionali spa (cfr., in proposito, TAR Piemonte, Sez. I, 03.05.2010 n. 2286): con il che non hanno ragion d’essere le ventilate perplessità in ordine alla competenza ad adottare i provvedimenti impugnati (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 01.10.2012 n. 1764 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: G. G.A. Dato, Le garanzie nel procedimento di reiterazione dei vincoli espropriativi - L’amministrazione nel reiterare i vincoli scaduti deve accertare che l’interesse pubblico sia ancora attuale (Diritto e Pratica Amministrativa n. 9/2012).

ESPROPRIAZIONEINDENNITA' DI ESPROPRIO.
Nei giudizi aventi ad oggetto la determinazione dell’indennità di espropriazione, relativi a procedimenti in cui la dichiarazione di pubblica utilità sia stata emessa prima del 30.06.2003, data di entrata in vigore del D.P.R. 08.06.2001 n. 327, una volta venuto meno -a seguito della sentenza n. 348 del 2007 della Corte costituzionale- il criterio di indennizzo di cui all’art. 5-bis D.L. 11.07.1992 n. 333, conv., con modif., nella L. 08.08.1992 n. 359, trova applicazione il criterio del valore venale del bene previsto dall’art. 39 L. 25.06.1865 n. 2359, e non si applica l’art. 2, comma 89, lett. a), L. 24.12.2007 n. 244 che, avendo introdotto modifiche all’art. 37, commi 1 e 2, D.P.R. 08.06.2001 n. 327, segue la disciplina transitoria prevista dall’art. 57 D.P.R. cit., ed è quindi inapplicabile nei procedimenti espropriativi in cui la dichiarazione di pubblica utilità sia stata emessa prima del 30.06.2003, mentre la norma intertemporale di cui all’art. 2, comma 90, L. n. 244 cit. prevede la retroattività della nuova disciplina di determinazione dell’indennità espropriativa solo per i procedimenti espropriativi in corso, e non anche per i giudizi.
La sentenza in rassegna, occupandosi della controversia insorta in ordine alla determinazione dell’indennità d’esproprio di un fondo, avente in parte destinazione edificabile e in parte destinazione non edificabile, si è collocata, con riferimento alla prima, nel solco dell’orientamento espresso da Cass. n. 11480 del 2008, n. 28341 del 2008 e n. 13479 del 2012, a mente del quale nei giudizi aventi ad oggetto la determinazione dell’indennità di espropriazione, relativi a procedimenti in cui la dichiarazione di pubblica utilità sia stata emessa prima del 30.06.2003, data di entrata in vigore del D.P.R. 08.06.2001 n. 327, una volta venuto meno -a seguito della sentenza n. 348 del 2007 della Corte costituzionale- il criterio di indennizzo di cui all’art. 5-bis D.L. 11.07.1992 n. 333, conv., con modif., nella L. 08.08.1992 n. 359, trova applicazione il criterio del valore venale del bene previsto dall’art. 39 L. 25.06.1865 n. 2359, e non si applica l’art. 2, comma 89, lett. a), L. 24.12.2007 n. 244 che, avendo introdotto modifiche all’art. 37, commi 1 e 2, D.P.R. 08.06.2001 n. 327, segue la disciplina transitoria prevista dall’art. 57 D.P.R. cit., ed è quindi inapplicabile nei procedimenti espropriativi in cui la dichiarazione di pubblica utilità sia stata emessa prima del 30.06.2003, mentre la norma intertemporale di cui all’art. 2, comma 90, L. n. 244 cit. prevede la retroattività della nuova disciplina di determinazione dell’indennità espropriativa solo per i procedimenti espropriativi in corso, e non anche per i giudizi.
Con riferimento alla parte di suolo non edificabile, la Corte è giunta alla stessa conclusione, valorizzando l’orientamento confermato da Cass. n. 2998 del 2012, secondo il quale, qualora l’espropriato contesti, seppur limitatamente al presupposto della natura agricola o non edificatoria del terreno, la stima operata dalla corte di appello con il criterio del VAM (valore agricolo medio) previsto dagli artt. 16 della L. n. 865 del 1971 e 5-bis, comma 4, della L. n. 359 del 1992 e dichiarato incostituzionale dalla sopravvenuta sentenza della Corte costituzionale n. 181 del 2011, la stima dell’indennità dev’essere effettuata applicando il criterio generale del valore venale pieno, potendo l’interessato anche dimostrare che il fondo è suscettibile di uno sfruttamento ulteriore e diverso da quello agricolo, pur senza raggiungere il livello dell’edificatorietà e che, quindi, ha una valutazione di mercato che rispecchia possibilità di utilizzazione intermedie tra l’agricola e l’edificatoria (ad esempio, parcheggi, depositi, attività sportive e ricreative, chioschi per la vendita di prodotti) (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 21.09.2012 n. 16103 - tratto da Urbanistica e appalti n. 12/2012).

ESPROPRIAZIONE: La dichiarazione di pubblica utilità priva di termini iniziali e finali per l'avvio e compimento dei lavori e delle occupazioni è da ritenere radicalmente nulla, onde l'occupazione costituisce mero comportamento materiale in nessun modo ricollegabile ad un esercizio abusivo dei poteri della Pubblica amministrazione; di conseguenza spetta al giudice ordinario la giurisdizione sulla domanda risarcitoria proposta dal privato perché in tal caso essa è da ritenere emessa in carenza ovvero in difetto assoluto di attribuzione del potere stesso, che comporta nullità del provvedimento dichiarativo della pubblica utilità e degli atti conseguenti della procedura ablatoria.
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Prima dell’entrata in vigore del T.U. sulle espropriazioni non esisteva alcuna norma che consentisse alla PA, in caso di illegittimità della procedura espropriativa e di realizzazione dell’opera pubblica, di evitare la restituzione dell’area.
L’istituto giurisprudenziale dell’accessione avvertita, creato dalla Cassazione per colmare tale lacuna nell’ordinamento giuridico allora vigente, non può più essere condiviso, per contrasto con il principio di legalità, come ripetutamente affermato anche dalla Corte CEDU in numerose sentenze, tra le quali la n. 36813/1597 del 2006 (Scordino c. Italia) non potendo la giurisprudenza consentire l’acquisto della proprietà sulla base di un fatto illecito.
In ogni caso, l’accertamento dell’irreversibile trasformazione del suolo e della perdita del diritto di proprietà privata in favore della PA, dovrebbe essere riservato al Giudice e non certo alla pubblica amministrazione, alla quale non è mai stato attribuito né dalla legge, né tanto meno dalla giurisprudenza, tale, inesistente, potere.
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L'intervenuta realizzazione dell'opera pubblica non fa venire meno l'obbligo dell'amministrazione di restituire al privato il bene illegittimamente appreso. Ciò sulla base di un superamento dell'interpretazione, prima richiamata, che riconnetteva alla costruzione dell'opera pubblica e all'irreversibile trasformazione del suolo effetti preclusivi o limitativi della tutela in forma specifica del privato.
Partendo dall'esame della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo, il Consiglio di Stato ha ritenuto che il quadro normativo e giurisprudenziale nazionale previgente non fosse aderente alla Convenzione europea e, in particolare, al Protocollo addizionale n. 1. La Corte aveva ritenuto che la realizzazione dell'opera pubblica non fosse di impedimento alla restituzione dell'area illegittimamente espropriata, e ciò indipendentemente dalle modalità -occupazione acquisitiva o usurpativa- di acquisizione del terreno. Per tali ragioni, il proprietario del fondo illegittimamente occupato dall'amministrazione, ottenuta la declaratoria di illegittimità dell'occupazione e l'annullamento dei relativi provvedimenti, può legittimamente domandare sia il risarcimento, sia la restituzione del fondo e la sua riduzione in pristino.
La realizzazione dell'opera pubblica sul fondo illegittimamente occupato è, dunque, in sé un mero fatto, non in grado di assurgere a titolo dell'acquisto, come tale inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà, per cui solo il formale atto di acquisizione dell'amministrazione può essere in grado di limitare il diritto alla restituzione, non potendo rinvenirsi atti estintivi (rinunziativi o abdicativi, che dir si voglia) della proprietà in altri comportamenti, fatti o contegni.
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Nessun risarcimento è dovuto per il periodo di occupazione legittima del suolo, in quanto, sebbene il procedimento espropriativo non sia stato definito nel termine previsto, la fase relativa all'occupazione risulta legittima ed efficace sino alla scadenza del termine previsto nei singoli decreti di occupazione; infatti l'iniziale occupazione, qualora non siano stati annullati tutti gli atti a decorrere dalla dichiarazione di pubblica utilità, diviene illegittima solo dopo la scadenza del proprio termine di efficacia ed in ragione di ulteriori vizi del procedimento, normalmente collegati alla mancata tempestiva emanazione del decreto di esproprio; ne consegue che per il periodo di occupazione legittima spetta al ricorrente, non il risarcimento del danno, ma l'ordinaria tutela indennitaria, su cui, peraltro, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario, confermata dall'art. 53, comma 2, t.u. 08.06.2001 n. 327.

Come ritenuto da recente e condivisibile giurisprudenza, la dichiarazione di pubblica utilità priva di termini iniziali e finali per l'avvio e compimento dei lavori e delle occupazioni è da ritenere radicalmente nulla, onde l'occupazione costituisce mero comportamento materiale in nessun modo ricollegabile ad un esercizio abusivo dei poteri della Pubblica amministrazione; di conseguenza spetta al giudice ordinario la giurisdizione sulla domanda risarcitoria proposta dal privato perché in tal caso essa è da ritenere emessa in carenza ovvero in difetto assoluto di attribuzione del potere stesso, che comporta nullità del provvedimento dichiarativo della pubblica utilità e degli atti conseguenti della procedura ablatoria (Consiglio di Stato sez. IV, 28.02.2012, n. 1133).
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Prima dell’entrata in vigore del T.U. sulle espropriazioni (DPR 327 del 2001, il cui termine di entrata in vigore è stato prorogato prima al 30.06.2002, dall'art. 5, D.L. 23.11.2001, n. 411, poi al 31.12.2002 dall'art. 5, comma 3, L. 01.08.2002, n. 166 e successivamente ulteriormente prorogato al 30.06.2003 dall'art. 3, D.L. 20.06.2002, n. 122, nel testo modificato dalla relativa legge di conversione) non esisteva alcuna norma che consentisse alla PA, in caso di illegittimità della procedura espropriativa e di realizzazione dell’opera pubblica, di evitare la restituzione dell’area (Consiglio di Stato, Ad. Plen. N. 2 del 2005).
L’istituto giurisprudenziale dell’accessione avvertita, creato dalla Cassazione per colmare tale lacuna nell’ordinamento giuridico allora vigente, non può più essere condiviso, per contrasto con il principio di legalità, come ripetutamente affermato anche dalla Corte CEDU in numerose sentenze, tra le quali la n. 36813/1597 del 2006 (Scordino c. Italia) non potendo la giurisprudenza consentire l’acquisto della proprietà sulla base di un fatto illecito.
In ogni caso, anche secondo l’orientamento giurisprudenziale richiamato, l’accertamento dell’irreversibile trasformazione del suolo e della perdita del diritto di proprietà privata in favore della PA, dovrebbe essere riservato al Giudice e non certo alla pubblica amministrazione, alla quale non è mai stato attribuito né dalla legge, né tanto meno dalla giurisprudenza, tale, inesistente, potere.
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Deve premettersi che la giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, sez. IV, 02.09.2011, n. 4970) ha più volte chiarito che l'intervenuta realizzazione dell'opera pubblica non fa venire meno l'obbligo dell'amministrazione di restituire al privato il bene illegittimamente appreso. Ciò sulla base di un superamento dell'interpretazione, prima richiamata, che riconnetteva alla costruzione dell'opera pubblica e all'irreversibile trasformazione del suolo effetti preclusivi o limitativi della tutela in forma specifica del privato.
Partendo dall'esame della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo, il Consiglio di Stato ha ritenuto che il quadro normativo e giurisprudenziale nazionale previgente non fosse aderente alla Convenzione europea e, in particolare, al Protocollo addizionale n. 1 (sentenza 30.05.2000, ric. 31524/96, Società Belvedere Alberghiera). Nella sentenza citata, la Corte aveva ritenuto che la realizzazione dell'opera pubblica non fosse di impedimento alla restituzione dell'area illegittimamente espropriata, e ciò indipendentemente dalle modalità -occupazione acquisitiva o usurpativa- di acquisizione del terreno. Per tali ragioni, il proprietario del fondo illegittimamente occupato dall'amministrazione, ottenuta la declaratoria di illegittimità dell'occupazione e l'annullamento dei relativi provvedimenti, può legittimamente domandare sia il risarcimento, sia la restituzione del fondo e la sua riduzione in pristino.
La realizzazione dell'opera pubblica sul fondo illegittimamente occupato è, dunque, in sé un mero fatto, non in grado di assurgere a titolo dell'acquisto, come tale inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà, per cui solo il formale atto di acquisizione dell'amministrazione può essere in grado di limitare il diritto alla restituzione, non potendo rinvenirsi atti estintivi (rinunziativi o abdicativi, che dir si voglia) della proprietà in altri comportamenti, fatti o contegni.
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Nessun risarcimento, infatti, è dovuto per il periodo di occupazione legittima del suolo, in quanto, sebbene il procedimento espropriativo non sia stato definito nel termine previsto, la fase relativa all'occupazione risulta legittima ed efficace sino alla scadenza del termine previsto nei singoli decreti di occupazione; infatti l'iniziale occupazione, qualora non siano stati annullati tutti gli atti a decorrere dalla dichiarazione di pubblica utilità, diviene illegittima solo dopo la scadenza del proprio termine di efficacia ed in ragione di ulteriori vizi del procedimento, normalmente collegati alla mancata tempestiva emanazione del decreto di esproprio (TAR Catania Sicilia sez. II, 28.05.2012, n. 1350); ne consegue che per il periodo di occupazione legittima spetta al ricorrente, non il risarcimento del danno, ma l'ordinaria tutela indennitaria, su cui, peraltro, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario, confermata dall'art. 53, comma 2, t.u. 08.06.2001 n. 327 (TAR Catanzaro , sez. II, 01.02.2012, n. 132)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 10.09.2012 n. 923 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Ai fini delle procedure espropriative, l'Amministrazione non è tenuta ad alcuna indagine ulteriore finalizzata ad accertare l'identità di coloro che sono effettivamente proprietari dei terreni, ma deve limitarsi a prendere in considerazione quanto viene indicato nei registri catastali, senza che per ciò risulti compromessa la legittimità della procedura.
Il principio, invero pacifico, trova oggi conferma nell'art. 3 del D.P.R. n. 327 del 2001. Il soggetto passivo della procedura è sempre l'intestatario catastale del bene, in quanto la necessità di provvedere celermente all'approvazione del progetto ed all'acquisizione dell'area mal si concilia con le indagini sulla proprietà effettiva, e ciò tanto più vale quando si rendano necessari complessi accertamenti sulla successione ereditaria, come nella fattispecie.

Dispone in proposito l’art. 3, comma 2, del TU espropriazioni, che «Tutti gli atti della procedura espropriativa, ivi incluse le comunicazioni ed il decreto di esproprio, sono disposti nei confronti del soggetto che risulti proprietario secondo i registri catastali, salvo che l'autorità espropriante non abbia tempestiva notizia dell'eventuale diverso proprietario effettivo…»; l’art. 25, comma 2, dello stesso TU dispone poi che «Le azioni reali e personali esperibili sul bene espropriando non incidono sul procedimento espropriativo e sugli effetti del decreto di esproprio…».
Sul punto, condivisibilmente, la giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di affermare che «…L'Amministrazione non è infatti tenuta ad alcuna indagine ulteriore finalizzata ad accertare l'identità di coloro che sono effettivamente proprietari dei terreni, ma deve limitarsi a prendere in considerazione quanto viene indicato nei registri catastali, senza che per ciò risulti compromessa la legittimità della procedura (si veda, tra molte, Cons. Stato, sez. V, 10.07.2000, n. 3850; Id., sez. IV, 28.02.2002, n. 1200; Id., sez. IV, 30.11.2006, n. 7014). Il principio, invero pacifico, trova oggi conferma nell'art. 3 del D.P.R. n. 327 del 2001. Il soggetto passivo della procedura è sempre l'intestatario catastale del bene, in quanto la necessità di provvedere celermente all'approvazione del progetto ed all'acquisizione dell'area mal si concilia con le indagini sulla proprietà effettiva, e ciò tanto più vale quando si rendano necessari complessi accertamenti sulla successione ereditaria, come nella fattispecie…» (TAR Puglia–Bari, Sez. I, 05.04.2011, n. 548; sul punto, anche Cass. civ. Sez. I, 06.07.2012, n. 11407) (TAR Sicilia-Catania, Sez. II, sentenza 05.09.2012 n. 2099 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Occupazione usurpativa e azione restitutoria.
In tema di occupazione usurpativa, qualora il proprietario del bene illecitamente occupato domandi la restituzione, ancorché accompagnata dalla richiesta di riduzione in pristino, non sono predicabili i limiti intrinseci alla disciplina risarcitoria, come l’eccessiva onerosità prevista dall’art. 2058, comma 2, c.c.; né può farsi ricorso alla previsione del comma 2 dell’art. 2933 c.c., ove non risulti che la distruzione della res indebitamente edificata sia di pregiudizio all’intera economia del Paese, ma abbia, al contrario, riflessi di natura individuale o locale.
La proprietaria di un immobile aveva convenuto in giudizio dinanzi al tribunale l’Amministrazione comunale e, premesso:
- che era stata disposta e realizzata l’occupazione di un bene di sua proprietà, costituito da un terreno con sovrastante fabbricato, successivamente sottoposto ad irreversibile trasformazione, mediante demolizione della costruzione per la realizzazione di una strada di accesso alla piazza destinata allo svolgimento del mercato settimanale;
- che il procedimento era illegittimo per assenza, nella relativa delibera, dei termini iniziali e finali dell’espropriazione e di inizio e fine dei lavori, chiedeva, in via principale, la rimessione in pristino dei luoghi di sua proprietà e, in via subordinata, il risarcimento dei danni.
Il tribunale adito, dato atto dell’illegittimità dell’occupazione, posta in essere in carenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità, nonché dell’intervenuta manipolazione irreversibile del fondo dell’attrice, aveva ritenuto che all’accoglimento della domanda di riduzione in pristino era ostativo il pregiudizio che dal suo accoglimento sarebbe derivato all’economia nazionale, con conseguente applicabilità della disposizione contenuta nell’art. 2933, comma, 2, c.c. Esso aveva accolto la domanda di risarcimento per equivalente, determinandosi in euro 20.508,50 l’importo a tale titolo dovuto all’attrice al cui pagamento, oltre alle spese di lite nella misura di due terzi veniva condannato, in favore della stessa, il Comune convenuto.
La Corte di appello, pronunciando sugli appelli proposti in via principale dall’attrice, la quale si doleva principalmente del mancato accoglimento della domanda di riduzione in pristino dei luoghi, nonché dal Comune, che contestava l’entità della somma attribuita a titolo di risarcimento del danno, ritenuta incongrua per eccesso, aveva dichiarati non dovuti gli interessi anatocistici attribuiti con la sentenza di primo grado, rilevando la riferibilità dell’art. 1283 c.c. alle sole obbligazioni pecuniarie.
La S.C. ha accolto il ricorso proposto dalla proprietaria, iniziando col ricordare che, con la prima decisione che ha definito in maniera chiara i contorni della figura dell’occupazione usurpativa (Cass. 18.02.2000, n. 1814), la stessa Corte, ripercorrendo le tappe del percorso giurisprudenziale inerente alla cd. occupazione espropriativa, ha posto in evidenza l’esigenza di approfondire i meccanismi di tutela del proprietario nell’ipotesi in cui non sussista, come avviene nella fattispecie testé richiamata, una valida dichiarazione di pubblica utilità.
Movendo da precedenti arresti (fra i quali Cass., Sez. Un., 04.03.1997, n. 1907), nei quali si era affermata la possibilità per il proprietario di optare, anziché per la tutela restitutoria, per quella risarcitoria, si è pervenuti alla conclusione, che «nell’occupazione che, per convenzione, potremmo definire usurpativa, il giudice si occupa della domanda risarcitoria del proprietario sotto l’aspetto delle non consentite trasformazioni che l’occupante abusivo abbia apportato al fondo. Ma l’acquisizione del bene alla mano pubblica resta estranea alla fattispecie, e dipendendo da una scelta del proprietario usurpato, è inquadrabile in una vicenda logicamente e temporalmente successiva alla definitiva trasformazione del fondo, e se può ipotizzarsi un modo di acquisto della proprietà a titolo originario, esso non ha carattere accessivo (artt. 934 c.c.), ma semmai occupatorio in relazione ad un bene che è un novum nella realtà giuridica (in analogia all’art. 942 c.c.), ove non rileva la destinazione a soddisfare una pubblica utilità giacché qui neppure può porsi questione di bilanciamento di interessi».
L’occupazione sine titulo del fondo, in altri termini, non può comportare, soprattutto in assenza di una scelta abdicativa del proprietario (sulla cui conformità ai principi della CEDU cfr. la recente Cass. 19.10.2011, n. 21639), la perdita della proprietà del fondo da parte del soggetto che subisce l’occupazione, con la conseguenza che «l’assenza dell’indefettibile presupposto del riconoscimento, da parte degli organi competenti, della pubblica utilità dell’opera comporta che il privato, durante l’illegittima occupazione, possa fruire dei rimedi reipersecutori a tutela della non perduta proprietà» (Cass. n. 1814/2000 cit.).
La Corte ha, pertanto, sottolineato, anche sulla base dei criteri testé richiamati (per altro costantemente ribaditi ed applicati con sempre maggiore rigore, anche nell’occupazione cd. espropriativa: cfr. Cass., Sez. Un., 31.05.2011, n. 11963, in merito alla possibilità di chiedere la restituzione della porzione del bene originariamente occupata e non oggetto di irreversibile trasformazione), che il principio di effettività della tutela del diritto del proprietario, essendo insussistente la dichiarazione di pubblica utilità, non possa soffrire di alcuna limitazione. In particolare, non può escludersi la tutela reale, soprattutto quando manchi, da parte del titolare del diritto, qualsiasi atto abdicativo, ancorché implicito, mentre al contrario, come nella fattispecie in esame, venga espressamente esercitata l’azione restitutoria.
Tale conclusione, del resto, è conforme ai principi affermati, in più occasioni, dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la quale (a partire dalla nota decisione Belvedere Alberghiera c/Stato It. del 30.05.2000, proprio in tema di occupazione usurpativa) ha escluso che l’autorità pubblica possa acquisire la proprietà di beni privati nel disprezzo delle regole formali previste per l’espropriazione, e senza che assuma immediata rilevanza il fine di pubblica utilità (cfr. anche Cass. 11.06.2006, n. 11096, nella cui motivazione si esamina la compatibilità dell’occupazione espropriativa e, per quanto qui interessa, di quella usurpativa, con i principi affermati dalla Cedu con le note decisioni Belvedere Alberghiera e Carbonara e Ventura).
Nell’ambito dell’invocata tutela di natura reale non possono trovare applicazione le disposizioni contenute negli artt. 2933, comma 2, e 2058, comma 2, c.c. Quanto al primo articolo, la sentenza impugnata aveva affermato l’applicabilità della disposizione contenuta nell’art. 2933, comma 2, c.c., già ritenuta operante in primo grado ai fini della verifica della fondatezza della domanda di riduzione in pristino, ritenendo, senza altro aggiungere, che il suo accoglimento «risulterebbe di pregiudizio all’economia nazionale»; a prescindere dalla riferibilità della norma in questione agli obblighi di non fare (e quindi, ai soli aspetti che riguardano la manipolazione del bene e non l’azione restitutoria), la S.C. ha rilevato che non era dato di comprendere quale legame possa sussistere fra la celebrazione del mercatino settimanale del Comune e le sorti dell’economia di un intero Paese: la giurisprudenza formatasi in relazione alla norma teste richiamata è costantemente orientata nel ritenere che la stessa debba essere interpretata in senso restrittivo, riferendosi alle cose insostituibili ovvero di eccezionale importanza per l’economia nazionale, con conseguente inapplicablità qualora il pregiudizio riguardi interessi individuali e locali (Cass. 17.02.2004, n. 3004; Cass. 25.05.2012, n. 8358).
Quanto al secondo riferimento normativo, la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di affermare che la tutela riservata ai diritti reali non consente l’applicabilità dell’art. 2058 c.c. nel caso di azioni volte, appunto, a far valere uno di tali diritti, atteso il carattere assoluto degli stessi (Cass., Sez. Un., 10.05.1995, n. 5113; Cass. 29.10.1997, n. 10694; Cass. 18.08.2003, n. 11744; Cass. 16.01.2007, n. 866), salvo che sia la stessa parte danneggiata a chiedere la condanna per equivalente. Non potendosi omettere di rilevare che non possono ritenersi applicabili i limiti inerenti alla regolamentazione del risarcimento del danno alla tutela reale, che, oltre a trovare la propria disciplina specifica negli artt. 948 e 949 c.c., «esige la rimozione del fatto lesivo» (Cass. 04.11.1993, n. 10932), la Corte di Cassazione ha richiamato il dibattito culturale che la dottrina negli ultimi tempi ha dedicato al tema della collocazione o meno della reintegrazione in forma specifica nell’area come modalità del risarcimento del danno, ovvero come tutela del tutto autonoma e da esso distinta.
La prima soluzione, maggiormente condivisa, appare preferibile, anche sulla scorta degli argomenti fondati sulla collocazione della norma, sulla sua portata letterale e su una nozione di danno ampia, ossia non riferibile al solo nocumento di natura patrimoniale, ma anche all’alterazione, sul piano fenomenico, come conseguenza dell’atto illecito, dell’integrità e della consistenza del bene.
Se dunque, la disciplina complessivamente dettata dall’art. 2058 c.c. appartiene alla materia del risarcimento del danno, erroneamente essa è applicata quando venga esercitata, come nel caso, la tutela restitutoria (cfr., in tal senso, anche, in motivazione, Cons. Stato, Ad. Plen., 29.04.2005, n. 2) (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 23.08.2012 n. 14609 - tratto da Urbanistica e appalti n. 10/2012).

ESPROPRIAZIONESecondo una giurisprudenza risalente, nel caso di irreversibile utilizzazione del suolo per finalità pubbliche avvenuta, come pacificamente nella specie, in pendenza della occupazione legittima (non seguita da rituale e tempestiva espropriazione) il dato temporale di riferimento, per la collocazione dell'effetto appropriativo e per la conseguente determinazione del valore del bene ai fini risarcitori della correlativa perdita da parte del proprietario, è non già legato al momento della irreversibile trasformazione dell'immobile sebbene a quello successivo di scadenza del termine di occupazione legittima.
L’altro orientamento, di più recente emersione, sostiene che la permanenza della situazione di abusiva occupazione impedisce di determinare puntualmente il dies a quo di un’eventuale prescrizione. Tale termine inizierà a decorrere a seguito dell’adozione di un formale provvedimento espropriativo o di specifico accordo traslativo o di apposita acquisizione sanante. Nel caso di specie, non essendo intervenuto nessuno di questi tre atti, il termine di prescrizione non è iniziato a decorrere.
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La realizzazione dell'opera pubblica sul fondo illegittimamente occupato è in sé un mero fatto, non in grado di assurgere a titolo dell'acquisto, come tale inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà, per cui solo il formale atto di acquisizione dell'amministrazione può essere in grado di limitare il diritto alla restituzione, non potendo rinvenirsi atti estintivi (rinunziativi o abdicativi, che dir si voglia) della proprietà in altri comportamenti, fatti o contegni.
A tale riguardo la giurisprudenza ha affermato che il proprietario del fondo illegittimamente occupato, ottenuta la declaratoria di illegittimità dell'occupazione e l'annullamento dei relativi provvedimenti, può legittimamente domandare sia il risarcimento, sia la restituzione, previa riduzione in pristino, e che solo il formale atto di acquisizione dell'amministrazione, ora ai sensi dell'art. 42-bis D.P.R. 327/2001, può limitarne il diritto alla restituzione, non potendo rinvenirsi atti estintivi della proprietà in altri comportamenti, fatti o contegni.
Detta disposizione, sul presupposto che la perdita della proprietà non possa collegarsi se non ad un atto di natura contrattuale o autoritativa, attribuisce all'Amministrazione, qualora si sia verificata una sostanziale perdita della disponibilità del bene in capo al privato, il potere di acquisire la proprietà dell'area con un atto formale di natura ablatoria e discrezionale (in sostanziale sanatoria), al termine del procedimento legale nel corso del quale vanno motivatamente valutati gli interessi in conflitto.
Nel caso in esame, il Comune non ha ritenuto di acquisire la proprietà dell’area illegittimamente trasformata mediante formale atto di acquisizione sanante a mente del citato art. 42-bis D.P.R. 327/2001.
In conclusione, affinché possa perfezionarsi il trasferimento della proprietà del fondo occupato sine titulo, su cui è stata realizzata un'opera pubblica, e che costituisce la sola condizione legittimante la mancata restituzione, è necessario che l'Amministrazione si avvalga dell'art. 42-bis del T.U.E., fatto sempre salvo il ricorso alternativo ai possibili strumenti di natura privatistica, come la stipula di un contratto di acquisto avente anche funzione transattiva, ovvero con la riattivazione del procedimento espropriativo in sanatoria con le relative garanzie

Sulla decorrenza del termine prescrizionale del diritto al risarcimento del danno da occupazione sine titulo, si registrano sostanzialmente due orientamenti assunti dalla giurisprudenza amministrativa, la cui applicazione, nel caso di specie, esclude la prescrizione dell’azione risarcitoria.
Secondo una giurisprudenza risalente “-nel caso di irreversibile utilizzazione del suolo per finalità pubbliche avvenuta, come pacificamente nella specie, in pendenza della occupazione legittima (non seguita da rituale e tempestiva espropriazione)- il dato temporale di riferimento, per la collocazione dell'effetto appropriativo e per la conseguente determinazione del valore del bene ai fini risarcitori della correlativa perdita da parte del proprietario, è non già legato al momento della irreversibile trasformazione dell'immobile sebbene a quello successivo di scadenza del termine di occupazione legittima” (Cons. stato sez. IV 26.09.2008 n. 4660; Cons. Stato 10.11.2003 n. 7135; Cass. n. 6825/1994).
Nel caso di specie l’irreversibile trasformazione del fondo deve presumersi avvenuta in data 24.06.1997, per quanto emerge dal certificato di ultimazione dei lavori dell’impresa Spizzirri con cui si attestava la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria stradale e dell’impianto sportivo in via Sicilia e via Montevideo. Orbene tale ultimazione si colloca durante il periodo di occupazione legittima del bene, avvenuta con decreto di urgenza del 15.04.1996 e avente durata di cinque anni. Il dies a quo del termine di prescrizione, dunque, ha inizio con la scadenza del termine di occupazione legittima ovvero il 15.04.2001, mentre l’atto di citazione è stato notificato in data 26.11.2004, quindi, entro il termine quinquennale di prescrizione.
L’altro orientamento, di più recente emersione, sostiene che la permanenza della situazione di abusiva occupazione impedisce di determinare puntualmente il dies a quo di un’eventuale prescrizione. Tale termine inizierà a decorrere a seguito dell’adozione di un formale provvedimento espropriativo o di specifico accordo traslativo o di apposita acquisizione sanante (C.G.A. 20.11.2008 n. 946; Cons. Stato sez IV n. 258272007). Nel caso di specie, non essendo intervenuto nessuno di questi tre atti, il termine di prescrizione non è iniziato a decorrere.
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Occorre innanzitutto premettere che la realizzazione dell'opera pubblica sul fondo illegittimamente occupato è in sé un mero fatto, non in grado di assurgere a titolo dell'acquisto, come tale inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà, per cui solo il formale atto di acquisizione dell'amministrazione può essere in grado di limitare il diritto alla restituzione, non potendo rinvenirsi atti estintivi (rinunziativi o abdicativi, che dir si voglia) della proprietà in altri comportamenti, fatti o contegni.
A tale riguardo la giurisprudenza, dalla quale il Collegio non ha ragione di discostarsi, ha affermato che il proprietario del fondo illegittimamente occupato, ottenuta la declaratoria di illegittimità dell'occupazione e l'annullamento dei relativi provvedimenti, può legittimamente domandare sia il risarcimento, sia la restituzione, previa riduzione in pristino, e che solo il formale atto di acquisizione dell'amministrazione, ora ai sensi dell'art. 42-bis D.P.R. 327/2001, può limitarne il diritto alla restituzione, non potendo rinvenirsi atti estintivi della proprietà in altri comportamenti, fatti o contegni (Cons. Stato sez. IV 4833/2011).
Detta disposizione, sul presupposto che la perdita della proprietà non possa collegarsi se non ad un atto di natura contrattuale o autoritativa, attribuisce all'Amministrazione, qualora si sia verificata una sostanziale perdita della disponibilità del bene in capo al privato, il potere di acquisire la proprietà dell'area con un atto formale di natura ablatoria e discrezionale (in sostanziale sanatoria), al termine del procedimento legale nel corso del quale vanno motivatamente valutati gli interessi in conflitto.
Nel caso in esame, il Comune di Cosenza non ha ritenuto di acquisire la proprietà dell’area illegittimamente trasformata mediante formale atto di acquisizione sanante a mente del citato art. 42-bis D.P.R. 327/2001.
In conclusione, affinché possa perfezionarsi il trasferimento della proprietà del fondo occupato sine titulo, su cui è stata realizzata un'opera pubblica, e che costituisce la sola condizione legittimante la mancata restituzione, è necessario che l'Amministrazione si avvalga dell'art. 42-bis del T.U.E., fatto sempre salvo il ricorso alternativo ai possibili strumenti di natura privatistica, come la stipula di un contratto di acquisto avente anche funzione transattiva, ovvero con la riattivazione del procedimento espropriativo in sanatoria con le relative garanzie (Cons. Stato, sez. V 31.10.2011 n. 5813)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 03.08.2012 n. 857 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONELa proroga dei termini previsti dall'art. 13 l. n. 2359 del 1865 è considerata istituto di carattere eccezionale finalizzato ad evitare di mantenere i beni espropriabili in stato di soggezione a tempo indeterminato e a tutelare l'interesse pubblico a che l'opera venga eseguita in un congruo arco di tempo, tale da giustificare le ragioni di serietà dell'azione amministrativa.
Da tale pacifica affermazione discende primariamente la conseguenza della necessaria individuazione di cause di forza maggiore indipendenti dalla volontà dei concessionari che giustifichino la proroga ed in assenza delle quali deve ritenersi vulnerato il principio di legalità che informa l'attività dell'amministrazione nella materia dell'espropriazione per pubblica utilità.
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L'obbligo di motivazione del provvedimento di proroga del termine per la conclusione della procedura espropriativa risulta adeguatamente assolto con il richiamo al ritardo degli organi pubblici preposti nella definizione delle procedure di esproprio, che costituisce fatto estraneo alla sfera di disponibilità dell'ente concessionario dei lavori e, quindi, riconducibile nei presupposti per l'adozione dell'atto di proroga del termine quali identificati dall'art. 13 l. n. 2359 del 1865.

La normativa di riferimento, costituita dall’evocato art. 13 della legge sull’espropriazione del 1865, oggi abrogata dal testo unico sulle procedure espropriative, ma rilevante ratione temporis per il presente appello, prevedeva, al comma 1, che nell’atto che dichiara la pubblica utilità di un’opera fossero indicati i termini “entro i quali dovranno cominciarsi e compiersi le espropriazioni e i lavori”, mentre al successivo comma 2 prevedeva che “l’autorità che stabilì i suddetti termini li può prorogare per casi di forza maggiore o per altre cagioni indipendenti dalla volontà dei concessionari, ma sempre con determinata prefissione di tempo”.
Dalla lettura giurisprudenziale data al complesso normativo, emerge come la proroga dei termini previsti dall'art. 13 l. n. 2359 del 1865 sia considerata istituto di carattere eccezionale finalizzato ad evitare di mantenere i beni espropriabili in stato di soggezione a tempo indeterminato e a tutelare l'interesse pubblico a che l'opera venga eseguita in un congruo arco di tempo, tale da giustificare le ragioni di serietà dell'azione amministrativa (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. VI, 10.10.2002 n. 5443).
Da tale pacifica affermazione discende primariamente la conseguenza della necessaria individuazione di cause di forza maggiore indipendenti dalla volontà dei concessionari che giustifichino la proroga ed in assenza delle quali deve ritenersi vulnerato il principio di legalità che informa l'attività dell'amministrazione nella materia dell'espropriazione per pubblica utilità.
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Quindi, anche nel procedimento civile, è emersa l’oggettiva complessità della vicenda catastale della particella, elemento questo a fondare la ragione giustificativa della proroga, atteso che l'obbligo di motivazione del provvedimento di proroga del termine per la conclusione della procedura espropriativa risulta adeguatamente assolto con il richiamo al ritardo degli organi pubblici preposti nella definizione delle procedure di esproprio, che costituisce fatto estraneo alla sfera di disponibilità dell'ente concessionario dei lavori e, quindi, riconducibile nei presupposti per l'adozione dell'atto di proroga del termine quali identificati dall'art. 13 l. n. 2359 del 1865 (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. VI, 22.06.2005 n. 3298) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.07.2012 n. 4301 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONENella materia dei procedimenti di espropriazione per pubblica utilità, ad eccezione delle ipotesi in cui l’Amministrazione espropriante abbia agito nell’assoluto difetto di una potestà ablativa come mancanza di qualunque facultas agendi vincolata o discrezionale di elidere o comprimere detto diritto –devolute come tali alla giurisdizione ordinaria- sono devolute alla giurisdizione amministrativa esclusiva le controversie nelle quali si faccia questione -anche ai fini complementari della tutela risarcitoria- di attività di occupazione e trasformazione di un bene conseguenti ad una dichiarazione di pubblica utilità e con essa congruenti, anche se il procedimento all'interno del quale sono state espletate non sia sfociato in un tempestivo e formale atto traslativo della proprietà ovvero sia caratterizzato dalla presenza di atti poi dichiarati illegittimi, purché vi sia un collegamento all’esercizio della pubblica funzione.
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Già a partire nella legge fondamentale sulle espropriazioni n. 2359 del 1865, così come nella successiva legislazione in materia di lavori pubblici, si rinviene il principio cardine secondo cui l’attività espropriativa deve articolarsi in una pluralità di fasi, le quali devono garantire la partecipazione degli interessati ed il contraddittorio con i soggetti coinvolti dall’azione amministrativa.
Detti principi, di pubblicità e partecipazione, -diretti non solo a scopo difensivo, bensì in stretta correlazione con i canoni di rango costituzionale dell’imparzialità e del buon andamento dell’azione amministrativa– sono stati cristallizzati dalla legge n. 241 del 1990 per tutti i procedimenti amministrativi; essi peraltro giocano un ruolo particolarmente significativo nei procedimenti espropriativi, essendo questi ultimi, per definizione, quelli più gravemente invasivi della sfera dei privati.
Questa premessa fa da sfondo all’affermazione dell’indirizzo secondo cui la dichiarazione di pubblica utilità, anche ove implicita nell’approvazione di un progetto di opera pubblica deve essere preceduta da comunicazione di avvio del procedimento rivolta ai soggetti interessati.

In punto di giurisdizione, la Sezione ritiene di non aver motivo per discostarsi, nella circostanza, dall’ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo il quale, nella materia dei procedimenti di espropriazione per pubblica utilità, ad eccezione delle ipotesi in cui l’Amministrazione espropriante abbia agito nell’assoluto difetto di una potestà ablativa come mancanza di qualunque facultas agendi vincolata o discrezionale di elidere o comprimere detto diritto –devolute come tali alla giurisdizione ordinaria- sono devolute alla giurisdizione amministrativa esclusiva le controversie nelle quali si faccia questione -anche ai fini complementari della tutela risarcitoria- di attività di occupazione e trasformazione di un bene conseguenti ad una dichiarazione di pubblica utilità e con essa congruenti, anche se il procedimento all'interno del quale sono state espletate non sia sfociato in un tempestivo e formale atto traslativo della proprietà ovvero sia caratterizzato dalla presenza di atti poi dichiarati illegittimi, purché vi sia un collegamento all’esercizio della pubblica funzione (C.D.S., sez. IV, del 04.04.2011, n.2113; C.D.S., Ad.Pl. del 30.07.2007, n. 9 e 22.10.2007, n. 12; Tar Lombardia, Brescia, sez. I, del 18.12.2008, n.1796; 01.06.2007, n. 466; Tar Basilicata, 22.02.2007, n. 75; Tar. Puglia, Bari, sez. III, del 09.02.2007, n. 404; Tar Lombardia, Milano, sez. II, del 18.12.2007, n. 6676; Tar Lazio, Roma, sez. II, del 03.07.2007, n. 5985; Tar Toscana, I, del 14.09.2006, n. 3976; Cass., SS.UU., 20.12.2006, nn. 27190, 27191 e 27193).
Inoltre, mentre le domande risarcitorie e restitutorie relative a fattispecie di occupazione usurpativa rientrano nella giurisdizione ordinaria, viceversa sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in caso di danni conseguenti all’annullamento della dichiarazione di pubblica utilità e, in generale, di un provvedimento amministrativo in tema di espropriazione per pubblica utilità.
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Nel merito, occorre evidenziare come, già a partire nella legge fondamentale sulle espropriazioni n. 2359 del 1865, così come nella successiva legislazione in materia di lavori pubblici, si rinviene il principio cardine secondo cui l’attività espropriativa deve articolarsi in una pluralità di fasi, le quali devono garantire la partecipazione degli interessati ed il contraddittorio con i soggetti coinvolti dall’azione amministrativa.
Detti principi, di pubblicità e partecipazione, -diretti non solo a scopo difensivo, bensì in stretta correlazione con i canoni di rango costituzionale dell’imparzialità e del buon andamento dell’azione amministrativa– sono stati cristallizzati dalla legge n. 241 del 1990 per tutti i procedimenti amministrativi; essi peraltro giocano un ruolo particolarmente significativo nei procedimenti espropriativi, essendo questi ultimi, per definizione, quelli più gravemente invasivi della sfera dei privati.
Questa premessa fa da sfondo all’affermazione dell’indirizzo secondo cui la dichiarazione di pubblica utilità, anche ove implicita nell’approvazione di un progetto di opera pubblica deve essere preceduta da comunicazione di avvio del procedimento rivolta ai soggetti interessati (C.D.S., Ad.Pl. 14/1999; C.D.S., sez. IV, n. 1668/2007; C.D.S. n. 8259/2006; C.D.S. n. 5352/2005; C.D.S., sez. VI, n. 736/2003)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 26.07.2012 n. 2096 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Risarcimento danni per occupazione abusiva: dipende dalla colpa della PA.
L'azione di risarcimento conseguente all'annullamento in sede giurisdizionale di un provvedimento illegittimo implica la valutazione dell'elemento psicologico della colpa, alla luce dei vizi che inficiavano il provvedimento stesso e della gravità delle violazioni imputabili all'Amministrazione.
Con sentenza 10.07.2012 n. 4089, la IV Sez. del Consiglio di Stato ha affermato i seguenti principi.
L'azione di risarcimento conseguente all'annullamento in sede giurisdizionale di un provvedimento illegittimo implica la valutazione dell'elemento psicologico della colpa, alla luce dei vizi che inficiavano il provvedimento stesso e della gravità delle violazioni imputabili all'Amministrazione, secondo l'ampiezza delle valutazioni discrezionali rimesse all' organo amministrativo, nonché delle condizioni concrete in cui ha operato la P.A, non essendo il risarcimento una conseguenza automatica della pronuncia del giudice della legittimità.
Affinché possa configurarsi la responsabilità della pubblica amministrazione è sufficiente la colpa, anche lieve, dell'apparato amministrativo.
Ai fini della responsabilità risarcitoria dell'Amministrazione a seguito di annullamento di un provvedimento amministrativo illegittimo, il privato danneggiato può invocare l'illegittimità del provvedimento quale indice presuntivo della colpa o anche allegare circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che si è trattato di un errore non scusabile, spettando poi all'Amministrazione dimostrare che si è invece trattato di errore scusabile.
Il giudice investito della domanda per il conseguimento del risarcimento del danno da fatto illecito non può condannare il convenuto al pagamento di un indennizzo per atto legittimo, in quanto in tal modo non si opera una mera qualificazione della domanda, ma si pronuncia su domanda diversa per "causa petendi" e "petitum", tenendo presente che il potere-dovere del giudice di qualificare correttamente la domanda non consente di sostituire la domanda proposta con una diversa, fondata su altra "causa petendi", e dunque di introdurre nel tema controverso nuovi elementi di fatto, trattandosi di passare da una fattispecie incentrata sul fatto colposo o doloso a una riguardante un fatto esente da colpa.
In caso di danno illegittimo per spossessamento di un bene, rileva l’elemento soggettivo della condotta, tenendo presente che nella materia non vige un sistema indifferenziato di responsabilità, tale per cui si può giungere alla qualificazione del fatto generatore del danno quale illecito prescindendosi, al contempo dall’accertamento del requisito della colpa ai fini della risarcibilità del medesimo, dovendosi precisare che il principio contenuto nell'art. 1147 Cod. civ., in forza del quale la buona fede è presunta, vige in tema di responsabilità contrattuale ma non nell'ipotesi di danno da occupazione appropriativa, con conseguente trasformazione del bene del privato, che costituisce fatto illecito e conseguente operatività delle regole della responsabilità extracontrattuale le quali implicano che:
a) provata l’illegittimità della condotta, debba, tuttavia, sussistere anche la prova dell’elemento soggettivo;
b) la prova è “facilitata” dalla oggettiva circostanza dell’avvenuto illegittimo spossessamento, ed al privato danneggiato non pertiene l’onere di dimostrare che l’amministrazione abbia agito con negligenza, imprudenza imperizia;
c) tuttavia, in ossequio ai principi generale espresso dall'art. 2043 Cod. civ. la stessa Amministrazione può non soggiacere a conseguenze risarcitorie laddove dimostri che nessuna ipotesi di condotta colposa può esserle ascritta (commento tratto da www.ipsoa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - ESPROPRIAZIONE: L'adozione del decreto di occupazione temporanea e d'urgenza, emanato dopo l'entrata in vigore dell'art. 45, D.Lgs. 31.03.1998 n. 80, è di competenza del funzionario dirigente dell'Ufficio tecnico dell'amministrazione procedente, atteso che detta norma attribuisce alla dirigenza la competenza ad adottare tutti gli atti di gestione, inclusi quelli che impegnano l'amministrazione verso l'esterno.
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La mancata determinazione della indennità di esproprio (così come la mancata corresponsione effettiva) non costituisce requisito di validità o di legittimità del decreto di esproprio e non può costituire in alcun modo vizio invalidante la procedura espropriativa.

Il provvedimento è stato legittimamente adottato dal Dirigente, con conseguente infondatezza della censura di incompetenza: difatti, l'adozione del decreto di occupazione temporanea e d'urgenza, emanato dopo l'entrata in vigore dell'art. 45, D.Lgs. 31.03.1998 n. 80, è di competenza del funzionario dirigente dell'Ufficio tecnico dell'amministrazione procedente, atteso che detta norma attribuisce alla dirigenza la competenza ad adottare tutti gli atti di gestione, inclusi quelli che impegnano l'amministrazione verso l'esterno (Consiglio di Stato, Sez. IV, 09.11.2005 n. 6259; TAR Campania, Salerno, 30.06.2006 n. 897).
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Infine, la mancata determinazione della indennità di esproprio (così come la mancata corresponsione effettiva) non costituisce requisito di validità o di legittimità del decreto di esproprio e non può costituire in alcun modo vizio invalidante la procedura espropriativa (Consiglio di Stato, Sez. IV, 30.06.2010 n. 4176).
Peraltro, dalla documentazione versata agli atti di causa dalla intimata amministrazione emerge che la contestazione è infondata in fatto in quanto, con nota prot. 13938 del 23.10.2007 (indirizzata anche al ricorrente) il Comune ha determinato tale indennità
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 03.07.2012 n. 3156 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Nella materia dei procedimenti di espropriazione per pubblica utilità, ad eccezione delle ipotesi in cui manchi del tutto una dichiarazione di pubblica utilità dell’opera e l’Amministrazione espropriante abbia agito nell’assoluto difetto di una potestà ablativa come mancanza di qualunque facultas agendi vincolata o discrezionale di elidere o comprimere detto diritto –devolute come tali alla giurisdizione ordinaria, sono devolute alla giurisdizione amministrativa esclusiva le controversie nelle quali si faccia questione -anche ai fini complementari della tutela risarcitoria- di attività di occupazione e trasformazione di un bene conseguenti ad una dichiarazione di pubblica utilità e con essa congruenti, anche se il procedimento all'interno del quale sono state espletate non sia sfociato in un tempestivo e formale atto traslativo della proprietà ovvero sia caratterizzato dalla presenza di atti poi dichiarati illegittimi, purché vi sia un collegamento all’esercizio della pubblica funzione.
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L’art. 53 del DPR n. 327/2001, per come ispirato al principio di concentrazione dei giudizi, ha attribuito rilevanza decisiva ai provvedimenti che impongono il vincolo preordinato all’esproprio e a quelli che dispongono la dichiarazione di pubblica utilità: una volta attivato il procedimento caratterizzato dall’esercizio del pubblico potere, sussiste la giurisdizione amministrativa esclusiva in relazione a tutti i conseguenti atti e comportamenti e ad ogni controversia che sorga su di essi, anche quando trattasi di procedimenti espropriativi diretti alla esecuzione dei lavori per la realizzazione o la modificazione di un’opera pubblica e di atti strumentali alla realizzazione di detta finalità pubblica.
Si è dunque in presenza di una fattispecie riconducibile alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, per come derivante da esercizio di un pubblico potere, anche nel caso in cui si lamenti formalmente l’occupazione di aree non comprese nell’ambito della procedura espropriativa, ma in realtà si abbia riguardo al decreto di esproprio, cioè alla determinazione del suo effettivo contenuto, per la dedotta occupazione di una superficie superiore a quella presa in considerazione da una precedente ordinanza di occupazione d’urgenza, poiché ai fini della liceità o meno va verificato lo specifico contenuto degli atti e degli accordi posti in essere nel corso del procedimento ablatorio.
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Il comportamento tenuto dalla Amministrazione, la quale abbia emanato una valida dichiarazione di pubblica utilità ed un legittimo decreto di occupazione d'urgenza senza tuttavia emanare il provvedimento definitivo di esproprio nei termini previsti dalla legge, deve essere, poi, qualificato come "illecito permanente", nella cui vigenza non decorre la prescrizione, ciò perché in questo caso manca un effetto traslativo della proprietà, stante la mancanza del provvedimento di esproprio, connesso alla mera irrevocabile modifica dei luoghi.
Per questo motivo, salva restando la possibilità di optare per le differenti forme "risarcitorie" che l'ordinamento appresta (restituzione del bene ovvero risarcimento del danno per equivalente), il soggetto privato del possesso può agire nei confronti dell'ente pubblico senza dover sottostare al termine prescrizionale quinquennale decorrente dalla trasformazione irreversibile del bene, con l’unico limite temporale rinvenibile nell’acquisto della proprietà, per usucapione ventennale del bene, eventualmente maturata dall’ente pubblico.
Tali principi sono stati peraltro codificati in termini di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ex art. 133, comma 1, lett. f), del Codice del processo amministrativo (allegato 1 del D.Lgs. 02.07.2010 n. 104) nell’ipotesi di comportamento dell’Amministrazione riconducibile all’esercizio del pubblico potere che si sia manifestato per il tramite della dichiarazione di pubblica utilità della quale non risulta dimostrata la perdita d'efficacia, nonché nelle controversie aventi ad oggetto atti, provvedimenti e comportamenti della P.A. in materia di espropriazioni per pubblica utilità di cui alla successiva lett. g) del citato art. 133 ove si è espressamente contemplata la giurisdizione esclusiva di questo giudice, ferma la giurisdizione del giudice ordinario per le ipotesi di determinazione e corresponsione delle indennità in conseguenza dell’adozione di atti di natura espropriativa o ablativa.
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Quanto ai “principi-cardine” che regolano la materia dell’espropriazione:
a) i termini per l’inizio e la conclusione delle procedure espropriative devono essere fissati fin dall’atto con cui si dichiara la pubblica utilità dell’opera (o con cui si approva il progetto che dà avvio alla procedura stessa). In mancanza di ciò l’espropriazione è illegittima;
b) l’inutile decorso dei termini fissati dall’Amministrazione per l’avvio e per la conclusione delle procedure espropriative determina l’inefficacia della originaria dichiarazione di pubblica utilità, con conseguente illegittimità del decreto di espropriazione (che si ritiene adottato, anch’esso, fuori termine);
c) se l’Amministrazione intende prorogare il termine (per l’avvio o per la conclusione della procedura espropriativi) può farlo, purché prima che il termine sia ormai scaduto, “motivando” in ordine alle ragioni che rendono necessaria la proroga e sempre che il ritardo non sia dipeso da cause ad essa imputabili, ma da fatti dipendenti da forza maggiore o, comunque, di altre ragioni non dipendenti dalla sua volontà;
d) la proroga non può che essere accordata dallo stesso Organo che ha fissato il termine originario;
e) la proroga va notificata o comunque comunicata ai soggetti espropriandi, i quali devono essere coinvolti nel sub-procedimento che si innesta su quello principale e posto nelle condizioni di interloquire;
f) se il termine per l’avvio o per la conclusione della procedura espropriativa è inesorabilmente scaduto e non appare prorogabile (per mancanza dei presupposti sopra indicati), l’Amministrazione ben può rinnovare l’intera procedura, ma per farlo deve ricominciare (ex novo) dalla “dichiarazione di pubblica utilità”, non potendo ritenere ancora efficace quella concernente il procedimento estintosi per inutile decorso dei termini.
Quanto sopra è peraltro condiviso dalla giurisprudenza, la quale ha ritenuto:
quanto al principio enunciato sub a):
- che “la mancata indicazione dei termini per la conclusione dei lavori e della procedura espropriativa, di cui all'art. 13 della Legge n. 2359 del 1865 determina l'illegittimità ab origine dell'occupazione di urgenza e l'illiceità permanente dell'opera pubblica, dovendosi escludere che vi possano essere successive indicazioni di detti termini ovvero atti di sanatoria della dichiarazione di pubblica utilità in cui essi siano omessi";
- che “la mancata indicazione dei termini per l'inizio e la conclusione della procedura espropriativa e dei lavori nella delibera consiliare di avvio della procedura espropriativa, vizia "in radice" il provvedimento ablatorio";
- che “dall'annullamento giurisdizionale della delibera di proroga dei termini per il compimento delle operazioni espropriative deriva in via immediata e diretta l'illegittimità del decreto di espropriazione per caducazione dell'atto presupposto, ovvero dell'atto di proroga dell'efficacia della dichiarazione di pubblica utilità”;
- che “nella dichiarazione di pubblica utilità dell'opera devono essere espressamente indicati, oltre ai termini di inizio e di conclusione della procedura espropriativa, anche quelli concernenti l'avvio ed il compimento dei lavori”;
- che “la necessità di prefissione di termini delle procedure di espropriazione risponde alla necessità di carattere costituzionale di limitare il potere discrezionale delle p.a. al fine di evitare che i beni dei privati siano sottoposti ad uno stato di soggezione per un tempo indeterminato”);
- che “l'indicazione dei termini entro i quali dovranno cominciarsi e concludersi le espropriazioni ed i lavori, ai sensi dell'art. 13 l. n. 2359 del 1865, deve figurare nell'atto con il quale si dichiara un'opera di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza, all'evidente fine di far sì che la P.A., che decida di disporre della proprietà privata con l'espropriazione, ponga essa stessa dei limiti temporali per l'inizio e la conclusione dell'opera che poi dovrà rispettare”;
quanto al principio enunciato sub b):
- che “l'art. 13 l. n. 2359 del 1865 dispone che il decreto dichiarativo della pubblica utilità deve contenere anche i termini entro i quali devono iniziarsi e completarsi le espropriazioni ed i lavori; scaduti tali termini, la dichiarazione di pubblica utilità diviene inefficace e non può procedersi all'espropriazione se non in base ad una nuova dichiarazione di pubblica utilità";
- che “qualora siano scaduti i termini fissati per il compimento dell'espropriazione, nel provvedimento che ha dichiarato la pubblica utilità dell'opera e debba escludersi una valida proroga degli stessi (…) cessa la legittima occupazione dell'area destinata all'espropriazione e diviene irrilevante qualunque proroga del periodo d'occupazione successivamente disposta per legge";
quanto al principio enunciato sub c):
- che “il prolungamento dell'efficacia di un termine presuppone necessariamente che il termine da prorogare non sia ancora scaduto, per cui i termini fissati nella dichiarazione di pubblica utilità dall'art. 13 della Legge n. 2359 del 1865 possono essere prorogati dall'amministrazione al fine di prolungare l'efficacia della dichiarazione di pubblica utilità stessa, a condizione che la proroga si perfezioni prima della scadenza del termine che si intende prorogare”;
- che “l'istituto della proroga del termine, che per il suo carattere generale deve trovare applicazione anche ai termini stabiliti nelle ipotesi di pubblica utilità "ex lege", potrà operare solo se la proroga venga disposta prima della scadenza del triennio per l'inizio dei lavori, senza che possa attribuirsi alcun rilievo all'eventuale maggior termine ancora in corso fissato per l'ultimazione dell'opera, che comporta a sua volta l'inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità se i lavori, iniziati tempestivamente, non vengono ultimati nel maggiore termine fissato all'atto dell'approvazione del progetto”;
- che “… il provvedimento di proroga deve essere motivato e non è sufficiente l'indicazione che il protrarsi delle procedure non consente il rispetto dei termini originariamente fissati circostanza quest'ultima che potrebbe essere imputabile all'amministrazione”;
- che “(…) … l'istituto della proroga riveste caratteri eccezionali e la sua operatività deve essere giustificata dalla reale sussistenza di oggettive difficoltà al compimento di atti espropriativi, e comunque non dipendenti dalla volontà dell’Ente espropriante”;
- che “in base all'art. 13 della Legge n. 2359 del 1865 (…) non costituisce valida ragione giustificativa la generica motivazione relativa al protrarsi delle procedure espropriative, che non abbia consentito il rispetto dei termini originariamente fissati”;
- che “è illegittimo il provvedimento con cui l'amministrazione dispone la proroga dei predetti termini, limitandosi a dare atto dell'impossibilità di concludere le procedure per l'esistenza di un contenzioso (non meglio specificato nel contesto del provvedimento), trattandosi di circostanza non riconducibile al concetto di forza maggiore o di impedimento obiettivo ed insuperabile”;
quanto al principio enunciato sub d):
- che “qualora siano scaduti i termini fissati per il compimento dell'espropriazione”, la proroga -ove possa essere disposta- “… deve provenire dalla stessa autorità che ha dichiarato la pubblica utilità ed ha fissato i termini originari …”;
- che "è illegittima la proroga dei termini per la conclusione delle espropriazione che non sia stabilita dalla medesima autorità che ha dichiarato di pubblica utilità";
quanto al principio enunciato sub e):
- che “quando un sub-procedimento non fa parte dell'ordinaria sequenza procedimentale, come nel caso in cui riguardi la proroga dei termini per il completamento dei lavori di un'opera pubblica e della dichiarazione di pubblica utilità, l'amministrazione deve inviare ai diretti interessati un apposito avviso di inizio del procedimento ex art. 7 l. n. 241 del 1990”;
- che “la comunicazione di avvio del procedimento è stata ritenuta necessaria anche nel procedimento finalizzato a prorogare i termini del provvedimento di dichiarazione di pubblica utilità, stante la sua natura di sub procedimento autonomo all'interno di quello più generale volto alla dichiarazione di pubblica utilità, anche se implicito, nell'approvazione del progetto di opera pubblica. (…) Del resto la proroga è un provvedimento discrezionale, rispetto al quale la partecipazione del privato non è inutile e può servire ad evidenziare la sussistenza degli eccezionali presupposti per l'adozione del provvedimento";
- che “è illegittima la proroga dei termini della dichiarazione di pubblica utilità non preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento”;
- che “nell'ambito di un procedimento espropriativo il provvedimento che proroga i termini per l'intervento ablativo costituisce il frutto di un autonomo sub procedimento eventuale e straordinario rispetto al procedimento tipico; pertanto, in tal caso, l'amministrazione ha l'obbligo di comunicare l'avvio del sub procedimento col quale si proroga il termine di assoggettamento del bene privato all'intervento ablativo”;
- che “anche in relazione al procedimento di proroga dei termini per l'espropriazione deve essere consentita la partecipazione degli eventuali interessati, potendo l'atto di proroga influire su diversi aspetti, tra cui quello del momento del pagamento dell'indennità”;
quanto al principio enunciato sub f):
- che “è illegittimo il provvedimento che, in luogo di rimuovere l'intera procedura, disponga la proroga dei termini per l'inizio della procedura espropriativa stabiliti nel decreto di dichiarazione di pubblica utilità in sanatoria dell'avvenuta scadenza di termini stessi”;
- che “la rinnovazione della procedura espropriativa a differenza dell'istituto della proroga dei termini - opera sempre in soluzione di continuità rispetto alla pregressa fase, alla quale non ha la possibilità di raccordarsi con effetti "ex tunc"; conseguentemente è necessario che alla data di adozione del provvedimento di riapprovazione sussistano le condizioni di attualità e concretezza dell'interesse pubblico che si intendono conseguire con la realizzazione dell'opera”;
- che “l'art. 13 l. n. 2359 del 1865 dispone che il decreto dichiarativo della pubblica utilità deve contenere anche i termini entro i quali devono iniziarsi e completarsi le espropriazioni ed i lavori; scaduti tali termini, la dichiarazione di pubblica utilità diviene inefficace e non può procedersi all'espropriazione se non in base ad una nuova dichiarazione di pubblica utilità”;
- che “seppure è in facoltà dell'espropriante condurre a realizzazione un progetto di opera pubblica, di cui siano scaduti i termini obbligatoriamente indicati per il compimento dei lavori, è necessario che la riapprovazione dia luogo ad una nuova dichiarazione di pubblica utilità, con un nuovo avvio del procedimento finalizzato a tale dichiarazione e con una nuova fissazione dei termini, essendo insufficiente la mera proroga dei termini originariamente fissati”.

In punto di giurisdizione la Sezione ritiene di non aver motivo per discostarsi nella circostanza dall’ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo il quale, nella materia dei procedimenti di espropriazione per pubblica utilità, ad eccezione delle ipotesi in cui manchi del tutto una dichiarazione di pubblica utilità dell’opera e l’Amministrazione espropriante abbia agito nell’assoluto difetto di una potestà ablativa come mancanza di qualunque facultas agendi vincolata o discrezionale di elidere o comprimere detto diritto –devolute come tali alla giurisdizione ordinaria, sono devolute alla giurisdizione amministrativa esclusiva le controversie nelle quali si faccia questione -anche ai fini complementari della tutela risarcitoria- di attività di occupazione e trasformazione di un bene conseguenti ad una dichiarazione di pubblica utilità e con essa congruenti, anche se il procedimento all'interno del quale sono state espletate non sia sfociato in un tempestivo e formale atto traslativo della proprietà ovvero sia caratterizzato dalla presenza di atti poi dichiarati illegittimi, purché vi sia un collegamento all’esercizio della pubblica funzione (Cons. Stato, IV, 04.04.2011, n. 2113; TAR Lombardia, Brescia, I, 18.12.2008, n. 1796; 01.06.2007, n. 466; Cons. Stato, A.P. 30.07.2007, n. 9 e 22.10.2007, n. 12; TAR Basilicata, 22.02.2007, n. 75; TAR Puglia, Bari, III, 9.02.2007, n. 404; TAR Lombardia, Milano, II, 18.12.2007, n. 6676; TAR Lazio, Roma, II, 03.07.2007, n. 5985; TAR Toscana, I, 14.09.2006, n. 3976; Cass. Civ., SS.UU., 20.12.2006, nn. 27190, 27191 e 27193).
Mentre le domande risarcitorie e restitutorie relative a fattispecie di occupazione usurpativa rientrano nella giurisdizione ordinaria, così come il giudice amministrativo -nello stabilire l’importo del danno da ablazione illegittima- non può includervi anche quanto dovuto per il periodo di occupazione legittima, la cui valutazione pure è di spettanza del giudice ordinario a norma degli artt. 53, comma 3 e 54 T.U. 08.06.2001, n. 327, viceversa sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in caso di danni conseguenti all’annullamento della dichiarazione di pubblica utilità e, in generale, di un provvedimento amministrativo in tema di espropriazione per pubblica utilità.
Peraltro di recente si è affermato (Cons. Stato, IV, 02.03.2010, n. 1222) che l’art. 53 del DPR n. 327/2001, per come ispirato al principio di concentrazione dei giudizi, ha attribuito rilevanza decisiva ai provvedimenti che impongono il vincolo preordinato all’esproprio e a quelli che dispongono la dichiarazione di pubblica utilità: una volta attivato il procedimento caratterizzato dall’esercizio del pubblico potere, sussiste la giurisdizione amministrativa esclusiva in relazione a tutti i conseguenti atti e comportamenti e ad ogni controversia che sorga su di essi, anche quando trattasi di procedimenti espropriativi diretti alla esecuzione dei lavori per la realizzazione o la modificazione di un’opera pubblica e di atti strumentali alla realizzazione di detta finalità pubblica (Cass. Civ., SS. UU., ord.za 16.12.2010, n. 25393).
Si è dunque in presenza di una fattispecie riconducibile alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, per come derivante da esercizio di un pubblico potere, anche nel caso in cui si lamenti formalmente l’occupazione di aree non comprese nell’ambito della procedura espropriativa, ma in realtà si abbia riguardo al decreto di esproprio, cioè alla determinazione del suo effettivo contenuto, per la dedotta occupazione di una superficie superiore a quella presa in considerazione da una precedente ordinanza di occupazione d’urgenza, poiché ai fini della liceità o meno va verificato lo specifico contenuto degli atti e degli accordi posti in essere nel corso del procedimento ablatorio.
Ritenuta dunque la giurisdizione sulla domanda di reintegra nel possesso proposta da parte ricorrente, resta da stabilire se le forme di tutela siano quelle previste dall’art 703 c.p.c., che rinvia agli art. 669 bis e ss. c.p.c., oppure quelle proprie del processo amministrativo. Ritiene il Collegio di seguire la seconda impostazione, poiché, come ha rilevato la Corte Costituzionale –investita di una questione di legittimità con riferimento all’inesistenza di un tutela cautelare ante causam avanti al g.a.– l’applicazione di istituti processual-civilistici non è giustificabile qualora le esigenze ad essi sottese vengano effettivamente tutelate da istituti propri del processo amministrativo (idem TAR Umbria, 04.09.2002, n. 652). Nel caso in esame l’esigenza di tutela immediata, soddisfatta dagli artt. 703 - 669-bis e ss. c.p.c., è efficacemente garantita mediante il procedimento di cui all’art 23-bis della Legge n. 1034/1971 (ora art. 119 del Decr. Legisl. 02/07/2010, n. 104 di riordino del processo amministrativo), di cui sussistono tutti i presupposti applicativi (essendo, in particolare, la controversia oggetto del presente giudizio contemplata dalla lettera b) del medesimo articolo).
Il comportamento tenuto dalla Amministrazione, la quale abbia emanato una valida dichiarazione di pubblica utilità ed un legittimo decreto di occupazione d'urgenza senza tuttavia emanare il provvedimento definitivo di esproprio nei termini previsti dalla legge, deve essere, poi, qualificato come "illecito permanente", nella cui vigenza non decorre la prescrizione, ciò perché in questo caso manca un effetto traslativo della proprietà, stante la mancanza del provvedimento di esproprio, connesso alla mera irrevocabile modifica dei luoghi. Per questo motivo, salva restando la possibilità di optare per le differenti forme "risarcitorie" che l'ordinamento appresta (restituzione del bene ovvero risarcimento del danno per equivalente), il soggetto privato del possesso può agire nei confronti dell'ente pubblico senza dover sottostare al termine prescrizionale quinquennale decorrente dalla trasformazione irreversibile del bene, con l’unico limite temporale rinvenibile nell’acquisto della proprietà, per usucapione ventennale del bene, eventualmente maturata dall’ente pubblico (cfr. TAR Sicilia, Palermo, 01.02.2011, n. 175).
Tali principi sono stati peraltro codificati in termini di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ex art. 133, comma 1, lett. f), del Codice del processo amministrativo (allegato 1 del D.Lgs. 02.07.2010 n. 104) nell’ipotesi di comportamento dell’Amministrazione riconducibile all’esercizio del pubblico potere che si sia manifestato per il tramite della dichiarazione di pubblica utilità della quale non risulta dimostrata la perdita d'efficacia, nonché nelle controversie aventi ad oggetto atti, provvedimenti e comportamenti della P.A. in materia di espropriazioni per pubblica utilità di cui alla successiva lett. g) del citato art. 133 ove si è espressamente contemplata la giurisdizione esclusiva di questo giudice, ferma la giurisdizione del giudice ordinario per le ipotesi di determinazione e corresponsione delle indennità in conseguenza dell’adozione di atti di natura espropriativa o ablativa.
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La Sezione come in recente precedente (07.02.2012, n. 613) osserva quanto ai “principi-cardine” che regolano la materia dell’espropriazione che:
a) i termini per l’inizio e la conclusione delle procedure espropriative devono essere fissati fin dall’atto con cui si dichiara la pubblica utilità dell’opera (o con cui si approva il progetto che dà avvio alla procedura stessa). In mancanza di ciò l’espropriazione è illegittima;
b) l’inutile decorso dei termini fissati dall’Amministrazione per l’avvio e per la conclusione delle procedure espropriative determina l’inefficacia della originaria dichiarazione di pubblica utilità, con conseguente illegittimità del decreto di espropriazione (che si ritiene adottato, anch’esso, fuori termine);
c) se l’Amministrazione intende prorogare il termine (per l’avvio o per la conclusione della procedura espropriativi) può farlo, purché prima che il termine sia ormai scaduto, “motivando” in ordine alle ragioni che rendono necessaria la proroga e sempre che il ritardo non sia dipeso da cause ad essa imputabili, ma da fatti dipendenti da forza maggiore o, comunque, di altre ragioni non dipendenti dalla sua volontà;
d) la proroga non può che essere accordata dallo stesso Organo che ha fissato il termine originario;
e) la proroga va notificata o comunque comunicata ai soggetti espropriandi, i quali devono essere coinvolti nel sub-procedimento che si innesta su quello principale e posto nelle condizioni di interloquire;
f) se il termine per l’avvio o per la conclusione della procedura espropriativa è inesorabilmente scaduto e non appare prorogabile (per mancanza dei presupposti sopra indicati), l’Amministrazione ben può rinnovare l’intera procedura, ma per farlo deve ricominciare (ex novo) dalla “dichiarazione di pubblica utilità”, non potendo ritenere ancora efficace quella concernente il procedimento estintosi per inutile decorso dei termini.
Quanto sopra è peraltro condiviso dalla giurisprudenza, la quale ha ritenuto:
quanto al principio enunciato sub a):
   - che “la mancata indicazione dei termini per la conclusione dei lavori e della procedura espropriativa, di cui all'art. 13 della Legge n. 2359 del 1865 determina l'illegittimità ab origine dell'occupazione di urgenza e l'illiceità permanente dell'opera pubblica, dovendosi escludere che vi possano essere successive indicazioni di detti termini ovvero atti di sanatoria della dichiarazione di pubblica utilità in cui essi siano omessi” (Cass. Civ., SS. UU., 30.03.2007, n. 7881);
   - che “la mancata indicazione dei termini per l'inizio e la conclusione della procedura espropriativa e dei lavori nella delibera consiliare di avvio della procedura espropriativa, vizia "in radice" il provvedimento ablatorio" (Cons. Stato, IV, 20.03.2000, n. 1498);
   - che “dall'annullamento giurisdizionale della delibera di proroga dei termini per il compimento delle operazioni espropriative deriva in via immediata e diretta l'illegittimità del decreto di espropriazione per caducazione dell'atto presupposto, ovvero dell'atto di proroga dell'efficacia della dichiarazione di pubblica utilità” (Cons. Stato, IV, 31.07.2000, n.4215”;
   - che “nella dichiarazione di pubblica utilità dell'opera devono essere espressamente indicati, oltre ai termini di inizio e di conclusione della procedura espropriativa, anche quelli concernenti l'avvio ed il compimento dei lavori” (Cons. Stato, V, 18.3.2002, n.1561);
   - che “la necessità di prefissione di termini delle procedure di espropriazione risponde alla necessità di carattere costituzionale di limitare il potere discrezionale delle p.a. al fine di evitare che i beni dei privati siano sottoposti ad uno stato di soggezione per un tempo indeterminato” (Cons. Stato, VI, 04.04.2003, n. 1768);
   - che “l'indicazione dei termini entro i quali dovranno cominciarsi e concludersi le espropriazioni ed i lavori, ai sensi dell'art. 13 l. n. 2359 del 1865, deve figurare nell'atto con il quale si dichiara un'opera di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza, all'evidente fine di far sì che la P.A., che decida di disporre della proprietà privata con l'espropriazione, ponga essa stessa dei limiti temporali per l'inizio e la conclusione dell'opera che poi dovrà rispettare” (TAR Lazio, Roma, II, 10.05.2005, n. 3484; 21.06.2007, n. 5656; TAR Campania, Salerno, I, 08.09.2006, n. 1330; 11.06.2002, n. 457; TAR Abruzzo L’Aquila, 20.05.2002, n. 302; Cons. Stato, V, 25.01.2002, n. 399; IV, 17.04.2000, n. 2283; V, 11.01.1999, n. 1758; TAR Veneto, I, 25.06.1998, n. 1206; Cons. Stato, IV, 27.11.1997, n. 1326);
quanto al principio enunciato sub b):
   - che “l'art. 13 l. n. 2359 del 1865 dispone che il decreto dichiarativo della pubblica utilità deve contenere anche i termini entro i quali devono iniziarsi e completarsi le espropriazioni ed i lavori; scaduti tali termini, la dichiarazione di pubblica utilità diviene inefficace e non può procedersi all'espropriazione se non in base ad una nuova dichiarazione di pubblica utilità" (TAR Lazio, Roma, II, 10.05.2005, n. 3484; Cons. Stato, VI, 10.10.2002, n. 5443);
   - che “qualora siano scaduti i termini fissati per il compimento dell'espropriazione, nel provvedimento che ha dichiarato la pubblica utilità dell'opera e debba escludersi una valida proroga degli stessi (…) cessa la legittima occupazione dell'area destinata all'espropriazione e diviene irrilevante qualunque proroga del periodo d'occupazione successivamente disposta per legge" (Cass. Civ., I, 17.07.2001, n. 9700);
- quanto al principio enunciato sub c):
   - che “il prolungamento dell'efficacia di un termine presuppone necessariamente che il termine da prorogare non sia ancora scaduto, per cui i termini fissati nella dichiarazione di pubblica utilità dall'art. 13 della Legge n. 2359 del 1865 possono essere prorogati dall'amministrazione al fine di prolungare l'efficacia della dichiarazione di pubblica utilità stessa, a condizione che la proroga si perfezioni prima della scadenza del termine che si intende prorogare” (Cons. Stato, VI, 23.12.2008, n. 6516; IV, 22.05.2006, n. 3025; TAR Lazio, Roma, II, 10.05.2005, n. 3484; TAR, Sardegna, II, 13.07.2007, n. 1618; TAR Lazio, Roma, II, 13.10.2006, n. 10374; TAR Toscana, III, 05.03.2003, n. 857; Cons. Stato, IV, 22.12.2003, n. 8462);
   - che “l'istituto della proroga del termine, che per il suo carattere generale deve trovare applicazione anche ai termini stabiliti nelle ipotesi di pubblica utilità "ex lege", potrà operare solo se la proroga venga disposta prima della scadenza del triennio per l'inizio dei lavori, senza che possa attribuirsi alcun rilievo all'eventuale maggior termine ancora in corso fissato per l'ultimazione dell'opera, che comporta a sua volta l'inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità se i lavori, iniziati tempestivamente, non vengono ultimati nel maggiore termine fissato all'atto dell'approvazione del progetto” (Cass. Civ., I, 08.05.2003, n. 6979);
   - che “… il provvedimento di proroga deve essere motivato e non è sufficiente l'indicazione che il protrarsi delle procedure non consente il rispetto dei termini originariamente fissati circostanza quest'ultima che potrebbe essere imputabile all'amministrazione” (Cons. Stato, VI, 10.10.2002, n. 5443; TAR Lazio, Roma, II, 10.05.2005, n. 3484);
   - che “(…) … l'istituto della proroga riveste caratteri eccezionali e la sua operatività deve essere giustificata dalla reale sussistenza di oggettive difficoltà al compimento di atti espropriativi, e comunque non dipendenti dalla volontà dell’Ente espropriante” (Cons. Stato, VI, 04.04.2003, n. 1768; 10.10.2002, n. 5443; IV, 28.12.2000, n. 6997; 23.11.2000, n. 6221; TAR Calabria, Reggio Calabria, 08.03.2001, n. 213);
   - che “in base all'art. 13 della Legge n. 2359 del 1865 (…) non costituisce valida ragione giustificativa la generica motivazione relativa al protrarsi delle procedure espropriative, che non abbia consentito il rispetto dei termini originariamente fissati” (TAR Toscana, III, 05.03.2003, n. 857; Cons. Stato, VI, 04.04.2003, n. 1768; IV, 28.12.2000, n. 6997);
   - che “è illegittimo il provvedimento con cui l'amministrazione dispone la proroga dei predetti termini, limitandosi a dare atto dell'impossibilità di concludere le procedure per l'esistenza di un contenzioso (non meglio specificato nel contesto del provvedimento), trattandosi di circostanza non riconducibile al concetto di forza maggiore o di impedimento obiettivo ed insuperabile” (TAR Calabria, Reggio Calabria, 08.03.2001, n. 213);
quanto al principio enunciato sub d):
   - che “qualora siano scaduti i termini fissati per il compimento dell'espropriazione”, la proroga -ove possa essere disposta- “… deve provenire dalla stessa autorità che ha dichiarato la pubblica utilità ed ha fissato i termini originari …” (Cass. Civ., I, 17.07.2001, n. 9700);
   - che "è illegittima la proroga dei termini per la conclusione delle espropriazione che non sia stabilita dalla medesima autorità che ha dichiarato di pubblica utilità" (Cons. Stato, VI, 02.05.2006, n. 2423);
quanto al principio enunciato sub e):
   - che “quando un sub-procedimento non fa parte dell'ordinaria sequenza procedimentale, come nel caso in cui riguardi la proroga dei termini per il completamento dei lavori di un'opera pubblica e della dichiarazione di pubblica utilità, l'amministrazione deve inviare ai diretti interessati un apposito avviso di inizio del procedimento ex art. 7 l. n. 241 del 1990” (Cons. Stato, IV, 16.03.2001, n. 1578);
   - che “la comunicazione di avvio del procedimento è stata ritenuta necessaria anche nel procedimento finalizzato a prorogare i termini del provvedimento di dichiarazione di pubblica utilità, stante la sua natura di sub procedimento autonomo all'interno di quello più generale volto alla dichiarazione di pubblica utilità, anche se implicito, nell'approvazione del progetto di opera pubblica. (…) Del resto la proroga è un provvedimento discrezionale, rispetto al quale la partecipazione del privato non è inutile e può servire ad evidenziare la sussistenza degli eccezionali presupposti per l'adozione del provvedimento" (Cons. Stato, VI, 10.10.2002, n. 5443);
   - che “è illegittima la proroga dei termini della dichiarazione di pubblica utilità non preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento” (Cons. Stato, VI, 10.10.2002, n. 5443);
   - che “nell'ambito di un procedimento espropriativo il provvedimento che proroga i termini per l'intervento ablativo costituisce il frutto di un autonomo sub procedimento eventuale e straordinario rispetto al procedimento tipico; pertanto, in tal caso, l'amministrazione ha l'obbligo di comunicare l'avvio del sub procedimento col quale si proroga il termine di assoggettamento del bene privato all'intervento ablativo” (TAR Lazio, Roma, II, 13.10.2006, n. 10374);
   - che “anche in relazione al procedimento di proroga dei termini per l'espropriazione deve essere consentita la partecipazione degli eventuali interessati, potendo l'atto di proroga influire su diversi aspetti, tra cui quello del momento del pagamento dell'indennità” (Cons. Stato, VI, 05.12.2007, n. 6183);
quanto al principio enunciato sub f):
   - che “è illegittimo il provvedimento che, in luogo di rimuovere l'intera procedura, disponga la proroga dei termini per l'inizio della procedura espropriativa stabiliti nel decreto di dichiarazione di pubblica utilità in sanatoria dell'avvenuta scadenza di termini stessi” (Cons. Stato, IV, 23.11.2000, n. 6221);
   - che “la rinnovazione della procedura espropriativa a differenza dell'istituto della proroga dei termini - opera sempre in soluzione di continuità rispetto alla pregressa fase, alla quale non ha la possibilità di raccordarsi con effetti "ex tunc"; conseguentemente è necessario che alla data di adozione del provvedimento di riapprovazione sussistano le condizioni di attualità e concretezza dell'interesse pubblico che si intendono conseguire con la realizzazione dell'opera” (Cons. Stato, IV, 24.07.2003, n. 4239);
   - che “l'art. 13 l. n. 2359 del 1865 dispone che il decreto dichiarativo della pubblica utilità deve contenere anche i termini entro i quali devono iniziarsi e completarsi le espropriazioni ed i lavori; scaduti tali termini, la dichiarazione di pubblica utilità diviene inefficace e non può procedersi all'espropriazione se non in base ad una nuova dichiarazione di pubblica utilità” (Cons. Stato, VI, 02.05.2006, n. 2423; 10.10.2002 n. 5443; TAR Lazio, Roma, II, 10.05.2005, n. 3484; Cons. Stato, IV, 23.11.2000, n. 6221; 24.07.2003, n. 4239; TAR Toscana, III, 13.11.2002, n. 2699; Cons. Stato, VI, 10.10.2002, n. 5443);
   - che “seppure è in facoltà dell'espropriante condurre a realizzazione un progetto di opera pubblica, di cui siano scaduti i termini obbligatoriamente indicati per il compimento dei lavori, è necessario che la riapprovazione dia luogo ad una nuova dichiarazione di pubblica utilità, con un nuovo avvio del procedimento finalizzato a tale dichiarazione e con una nuova fissazione dei termini, essendo insufficiente la mera proroga dei termini originariamente fissati” (Cass. Civ., SS. UU., 26.04.2007, n. 10024)
(TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 02.07.2012 n. 3127 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Sulla cosiddetta “espropriazione indiretta” o “sostanziale” in assenza di un idoneo titolo previsto dalla legge.
Ai fini dell’annullamento dell’atto oggetto di impugnazione, occorre poi tener conto dell’orientamento comunitario (Corte Europea Diritti Uomo, 06.03.2007, n. 43662) che preclude di ravvisare una “espropriazione indiretta” o “sostanziale” in assenza di un idoneo titolo previsto dalla legge.
Il T.U. n. 327/2001, attraverso la disciplina contenuta nell’art. 43, aveva originariamente introdotto un meccanismo che attribuiva all’Amministrazione il potere di acquisire la proprietà dell’area con un atto formale di natura ablatoria e discrezionale al termine del procedimento nel corso del quale vanno motivatamente valutati gli interessi in conflitto; il citato art. 43 era stato in definitiva emesso dal Legislatore delegato per consentire all'Amministrazione di adeguare la situazione di fatto a quella di diritto quando il bene fosse stato <modificato per scopi di interesse pubblico> (fermo restando il diritto del proprietario di ottenere il risarcimento del danno).
La Corte Costituzionale, però, con sentenza n. 293 dell’08.10.2010, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del cennato art. 43: muovendo dalla contrapposizione tra la Corte di Cassazione, che esclude l’ammissibilità dell’adozione di un provvedimento di acquisizione sanante ex art. 43 con riguardo alle occupazioni appropriative verificatesi prima dell’entrata in vigore del D.P.R. n. 327 del 2001, e il Consiglio di Stato, secondo il quale «la procedura di acquisizione in sanatoria di un’area occupata sine titulo, descritta dal citato articolo 43, trova una generale applicazione anche con riguardo alle occupazioni attuate prima dell’entrata in vigore della norma», la Consulta ha affrontato la possibilità di acquisire alla mano pubblica un bene privato, in precedenza occupato e modificato per la realizzazione di un’opera di interesse pubblico, anche nel caso in cui l’efficacia della dichiarazione di pubblica utilità sia venuta meno, con effetto retroattivo, in conseguenza del suo annullamento o per altra causa, o anche in difetto assoluto di siffatta dichiarazione.
Preso atto che la delega riguardava il «riordino» delle norme elencate nell’allegato I alla legge n. 59 del 1997 ed, in particolare, il «procedimento di espropriazione per causa di pubblica utilità e altre procedure connesse: legge 25.06.1865, n. 2359; legge 22.10.1971, n. 865», il giudice delle leggi ha affermato la necessità che, in ogni caso, si faccia riferimento alla ratio della delega, si tenga conto della possibilità di introdurre norme che siano un coerente sviluppo dei principi fissati dal legislatore delegato e detta discrezionalità venga esercitata nell’ambito dei limiti stabiliti dai principi e criteri direttivi.
In definitiva l’istituto previsto e disciplinato dall’art. 43 era connotato da numerosi aspetti di novità, rispetto sia alla disciplina espropriativa oggetto delle disposizioni espressamente contemplate dalla legge-delega, sia agli istituti di matrice prevalentemente giurisprudenziale, specie nel momento in cui si era introdotta la possibilità per l’Amministrazione e per chi utilizza il bene di chiedere al giudice amministrativo, in ogni caso e senza limiti di tempo, la condanna al risarcimento in luogo della restituzione; nel regime risultante dalla norma impugnata, inoltre, si era previsto un generalizzato potere di sanatoria, attribuito alla stessa Amministrazione che aveva commesso l'illecito, a dispetto di un giudicato che disponeva il ristoro in forma specifica del diritto di proprietà violato. Il Legislatore delegato, in definitiva, non poteva innovare del tutto e derogare ad ogni vincolo alla propria discrezionalità esplicitamente individuato dalla legge-delega, dovendo piuttosto limitarsi a disciplinare in modi diversi la materia e ad espungere del tutto la possibilità di acquisto connesso esclusivamente a fatti occupatori, garantendo la restituzione del bene al privato in analogia con altri ordinamenti europei.
A seguito dell’eliminazione dal mondo giuridico dell'istituto della cd. “acquisizione sanante” di cui all'art. 43 D.P.R. n. 327 del 2001, la Sezione (a partire dalle pronunce nn. 261 e 262 del 18.01.2011) ha ritenuto che in siffatte ipotesi il comportamento tenuto dall’Amministrazione dovesse essere qualificato non già come illecito, bensì come illegittimo; si trattava di un’illegittimità a cui non poteva porsi rimedio neppure riesumando l'istituto di origine giurisprudenziale della cosiddetta “espropriazione sostanziale” -nelle due ipotesi alternative della occupazione acquisitiva o usurpativa- perché tale istituto era stato ritenuto in contrasto con l'ordinamento comunitario (cfr.: TAR Sicilia Palermo I, 01.02.2011 n. 175; idem III, 21.01.2011 n. 115).
Del resto in nessun caso -neppure a fronte della sopravvenuta irreversibile trasformazione del suolo per effetto della realizzazione dell’opera pubblica- era possibile giungere ad una condanna puramente risarcitoria a carico dell’Amministrazione, poiché una tale pronuncia presupponeva in ogni caso l’avvenuto trasferimento della proprietà del bene per fatto illecito dalla sfera giuridica di parte ricorrente, originaria proprietaria, a quella della P.A. che se ne è illecitamente impossessata, esito, questo, non consentito dal primo protocollo addizionale della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo (cfr. TAR Calabria, Catanzaro, I, 01.07.2010, n. 1418).
Pertanto, ricorrendone i presupposti le Amministrazioni sono state condannate alla restituzione a parte ricorrente degli immobili in ragione dell’accertato utilizzo degli stessi per come materialmente appresi sia pure per fini pubblicistici, atteso l’irrilevanza, nell’ottica di una eventuale traslazione della proprietà della res, che fosse stata realizzata l’opera pubblica nella misura in cui questa aveva modificato la destinazione originaria del cespite e recato un pregiudizio patrimoniale e non a carico di parte ricorrente. Tale statuizione era peraltro compatibile con la restituzione dei cespiti e facoltà dello ius tollendi concessa al proprietario dei manufatti alle condizioni previste dall'art. 935 c.c., comma 1 e art. 937 c.c., laddove il diritto al risarcimento e l’applicabilità dell’art.2058 c.c. sarebbero entrati in discussione ove si fosse rientrati nella materia risarcitoria.
In costanza di vuoto normativo, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (31.05.2011, n. 11963) hanno affermato che l’irreversibile trasformazione, anche parziale, del fondo determina l’acquisto della proprietà del bene, nei limiti della parte trasformata, da parte dell’Amministrazione che aveva dato corso al processo espropriativo, mentre l’eventuale domanda di risarcimento in forma specifica sarebbe ordinariamente destinata ad avere esito negativo, dovendo trovare prioritario soddisfacimento l’interesse posto a base della realizzazione dell’opera pubblica.
Dal canto suo, a titolo esemplificativo, la giurisprudenza amministrativa (TAR Emilia-Romagna, Parma, I, 12.07.2011, n 245) ha ritenuto che, proprio a seguito del citato vuoto normativo, ove il privato avesse chiesto unicamente il risarcimento del danno per equivalente in ragione dell’irreversibile trasformazione del bene, detta richiesta andava considerata come rinuncia alla restituito in integrum; comunque la richiesta del solo risarcimento per equivalente non determinerebbe un effetto abdicativo della proprietà all’Amministrazione occorrendo piuttosto un accordo transattivo tra le parti (Cons. Stato, IV, 13.06.2011, n. 3561; 01.06.2011, n. 3331; 28.01.2011, n. 676), mentre se il privato dovesse insistere per la tutela restitutoria la stessa andrebbe disposta eccezion fatta per la ricorrenza dei presupposti per l’applicazione degli artt. 2933, comma 2, o 2058 c.c. Di recente si è poi affermato (Cons. Stato, IV, 29.08.2011, n. 4833) che, essendo venuto meno il procedimento espropriativo accelerato di cui al citato art. 43, la P.A. avrebbe potuto apprendere il bene facendo uso unicamente del contratto tramite l’acquisizione del consenso della controparte, ovvero del provvedimento anche in assenza del consenso ma con riedizione del procedimento espropriativo con le sue garanzie.
Ad oltre nove mesi dalla sentenza di incostituzionalità dell’originario art. 43, con l’art. 34 del Decreto-Legge 06.07.2011, n. 98 convertito in Legge 15.07.2011, n. 111 (in materia di misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria) è stato reintrodotto attraverso l’art. 42-bis l’istituto dell’acquisizione coattiva dell’immobile del privato utilizzato dall’Amministrazione per fini di interesse pubblico, potendosi acquisire al suo patrimonio indisponibile il bene del privato allorché la sua utilizzazione risponde a “scopi di interesse pubblico” nonostante difetti un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità.
Dunque anche nell’attuale quadro normativo l’Amministrazione ha l’obbligo giuridico di far venire meno l’occupazione sine titulo e deve adeguare la situazione di fatto a quella di diritto, o attraverso la restituzione dei terreni ai titolari con demolizione di quanto realizzato e relativa riduzione in pristino (affrontando le relative spese), ovvero attivandosi perché vi sia un titolo d’acquisto dell’area da parte del soggetto attuale possessore e che sia demolito, paradossalmente, quanto altrimenti risulterebbe meritevole di essere ricostruito (Cons. Stato, VI, 01.12.2011, n. 6351).
A seguito di un siffatto provvedimento autoritativo sopravvenuto la domanda di restituzione dell’area diventa improcedibile, mentre l’obbligo motivazionale ai sensi del nuovo comma 4 impone di dare conto dell’assenza di ragionevoli alternative alla adozione del nuovo provvedimento, che entro trenta giorni va anche comunicato alla Corte dei Conti (comma 7); ancora nella nuova versione (commi 1, 2, 3 e 4) si fa riferimento all’indennizzo, piuttosto che al risarcimento del danno, quale corrispettivo dell’attività posta in essere dall’Amministrazione, ciò forse per la liceità dell’attività, non retroattiva, posta in essere dall’Autorità agente.
Laddove prima, anche in sede di contenziosi diretti alla restituzione di un bene utilizzato per scopi di interesse pubblico, la P.A. poteva chiedere che il giudice amministrativo disponesse la condanna al risarcimento del danno, con esclusione della restituzione, e successiva adozione del provvedimento sanante dall’Amministrazione interessata, ora (comma 2) il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche in corso di giudizio di annullamento previo ritiro dell’atto impugnato; il potere acquisitivo dell’Amministrazione è esercitabile anche in presenza di una pronunzia giurisdizionale passata in giudicato che abbia annullato il provvedimento che costituiva titolo per l’utilizzazione dell’immobile da parte della stessa Amministrazione, atteso che il giudicato è intervenuto sull’atto annullato e non sul rapporto tra privato ed Amministrazione.
Il nuovo atto, che l’Amministrazione è legittimata ad adottare finché perdura lo stato di utilizzazione pur se illegittima del bene del privato, è distinto da quello annullato, tant’è che non opera con efficacia retroattiva e non ha una funzione sanante del provvedimento annullato; in ogni caso la P.A. deve porre in essere tutte le iniziative necessarie per porre fine alla perdurante situazione di illiceità, restituendo il bene al privato solo quando siano cessate le ragioni di pubblico interesse che avevano comportato l’utilizzazione del suolo, dovendo in caso contrario acquisire al suo patrimonio indisponibile il bene su cui insiste o dovrà essere realizzata l’opera pubblica o di pubblico interesse.
Va poi preso atto che la Corte di Strasburgo non si è pronunciata più in senso critico nei confronti dell’istituto originariamente disciplinato dal citato art. 43, mentre la previsione di una “legale via d’uscita” con l’esercizio di un potere basato sull’accertamento dei fatti e sulla valutazione degli interessi in conflitto appare immune da questioni di costituzionalità (Cons. Stato, VI, 15.03.2012, n. 1438) in quanto conforme alle disposizioni della CEDU ed alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo che in passato ha condannato la Repubblica italiana proprio perché i giudici nazionali avevano riscontrato la perdita della proprietà in assenza di un valido provvedimento motivato.
Premesso che in ogni caso non sarà possibile la restituzione della nuda proprietà superficiaria al privato, atteso che ciò che rileva è appunto l’idoneità del bene del privato a soddisfare, attraverso la sua trasformazione fisica, l’interesse pubblico perseguito dall’Amministrazione, la prima giurisprudenza (TAR Sicilia, Catania, III, 19.08.2001, n. 2102) successiva all’entrata in vigore del nuovo art. 42-bis ha ritenuto che il giudice amministrativo, anche nell’esercizio dei propri poteri equitativi e nella logica di valorizzare la ratio della novella legislativa di far sì che l’espropriazione della proprietà privata per scopi di pubblica utilità non si trasformi in un danno ingiusto a carico del cittadino e che gli effetti indennitari e/o risarcitori conseguano necessariamente ad un formale provvedimento della PA, possa accogliere la domanda risarcitoria derivante dall’occupazione senza titolo di un bene privato per scopi di interesse pubblico, se irreversibilmente trasformato, differendone però gli effetti all’emissione di un formale provvedimento acquisitivo ai sensi dello stesso art. 42-bis
(TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 02.07.2012 n. 3127 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Espropriazione parziale.
In sede di opposizione alla stima per l’espropriazione parziale di un terreno, va esclusa la risarcibilità del danno alle particelle rese inagibili o inutilizzabili a seguito dell’opera pubblica, poiché trattasi di voce ricompresa nell’indennità di espropriazione, che per definizione riguarda l’intera diminuzione patrimoniale subita dal soggetto passivo.
Decidendo sull’impugnazione proposta avverso una decisione del Tribunale superiore delle acque pubbliche, le Sezioni Unite hanno, in primo luogo, rigettato il motivo di censura con il quale i ricorrenti avevano censurato l’impugnata sentenza nella parte in cui aveva ritenuto che l’indennità di esproprio copre anche il danno subito dall’espropriato alle zone attigue.
La Corte ha ritenuto che correttamente il TSAP aveva escluso la risarcibilità del danno alle particelle rese inagibili o inutilizzabili a seguito dell’opera pubblica, poiché trattasi di voce ricompresa nell’indennità di espropriazione, che per definizione riguarda l’intera diminuzione patrimoniale subita dal soggetto passivo.
Il deprezzamento, che abbiano subito le parti residue del bene espropriato, è da considerare voce ricompresa nell’indennità di espropriazione, che per definizione riguarda l’intera diminuzione patrimoniale subita dal soggetto passivo del provvedimento ablativo, ivi compresa la perdita di valore della porzione residua derivata dalla parziale ablazione del fondo (Cass. 21.11.2001, n. 14640; 06.06.2003, n. 9096), sia essa agricola o edificabile (Cass. 05.06.2001, n. 7590), non essendo concepibili, in presenza di un’unica vicenda espropriativa, due distinte somme, imputate l’una a titolo di indennità di espropriazione e l’altra a titolo di risarcimento del danno per il deprezzamento subito dai residui terreni (Cass. 10.03.2000, n. 2737).
Ne consegue che qualora il giudice accerti, anche d’ufficio, che la parte residua del fondo sia intimamente collegata con quella espropriata da un vincolo strumentale ed oggettivo (tale, cioè, da conferire all’intero immobile unità economica e funzionale), e che il distacco di parte di esso influisca oggettivamente (con esclusione, dunque, di ogni valutazione soggettiva) in modo negativo sulla parte residua -e tale indagine resta nell’ambito della determinazione dell’indennità, venendo in considerazione il pregiudizio di quella porzione residua non a fini risarcitori, ma come parametro indennitario, e dunque non soggetto a particolare onere di allegazione- deve, per l’effetto, riconoscere al proprietario il diritto ad un’unica indennità, consistente nella differenza tra il giusto prezzo dell’immobile prima dell’occupazione ed il giusto prezzo (potenziale) della parte residua dopo l’occupazione dell’espropriante (Cass. 27.09.2002, n. 14007).
Di nessun rilievo, ai fini dell’affermazione di un diverso principio, è la circostanza che detti effetti negativi si siano realizzati su zone comunque estranee alla dichiarazione di pubblica utilità, una volta ritenuto che le opere accessorie eseguite, che determinarono il fatto dell’interclusione dei terreni residui degli attori, erano previste e conformi al progetto dell’opera pubblica.
Come hanno rilevato le stesse Sezioni Unite (08.04.2008, n. 9041), nell’espropriazione parziale regolata dalla L. 25.06.1865, n. 2359, art. 40 va compresa ogni ipotesi di diminuzione di valore (nella specie interclusione) della parte non interessata dall’espropriazione, con necessario riferimento al concetto unitario di proprietà ed al nesso di funzionalità tra ciò che è stato oggetto del provvedimento ablativo e ciò che è rimasto nella disponibilità dell’espropriato, tanto più ove si tratti di suoli a destinazione agricola, in cui rileva l’unitarietà costituita dalla destinazione a servizio dell’azienda agricola.
I profili irreversibili di danno subiti dalla parte residua della proprietà, a causa dell’interclusione della medesima dopo l’espropriazione, non possono che trovare riconoscimento nei concetti di espropriazione ed occupazione parziale. Nella fattispecie regolata dall’art. 40, va ricompresa ogni ipotesi di diminuzione di valore della parte non interessata dall’espropriazione, per cui, contrariamente a quanto rilevato dai ricorrenti, è ininfluente che la parte residua danneggiata non sia compresa nella dichiarazione di pubblica utilità, ai fini dell’espropriazione.
Infatti nella valutazione del danno da espropriazione parziale ex art. 40 cit. si prescinde dal dato catastale della particella, essendo necessario riferirsi al concetto di proprietà e al nesso funzionale tra ciò che è stato oggetto del provvedimento ablativo e ciò che è rimasto nella disponibilità dell’espropriato (Cass. 24.09.2007, n. 19570), tanto più ove si tratti di suoli a destinazione agricola, in cui rileva l’unitarietà costituita dalla destinazione a servizio dell’azienda agricola (Cass. 14.05.1998, n. 4848; 15.07.1977, n. 4404).
E' stato invece accolto il motivo con il quale i ricorrenti censuravano l’impugnata sentenza per aver ritenuto che fosse giuridicamente corretto l’operato del TRAP, che aveva determinato l’indennità annuale da occupazione provvisoria legittima in un dodicesimo dell’indennità di esproprio, senza tener conto della maggiorazione per il consenso alla determinazione di tale indennità.
La sentenza in rassegna ha ricordato che le stesse Sezioni Unite (18.12.2010, n. 24303) hanno statuito che l’indennità di occupazione legittima, che, in base alla L. 22.10.1971, n. 865, art. 20, comma 3 è pari, per ciascun anno di occupazione, ad un dodicesimo dell’indennità che sarebbe dovuta per l’espropriazione dell’area da occupare, «calcolata a norma dell’art. 16» della stessa legge, va commisurata alla definitiva indennità di espropriazione effettivamente dovuta, dovendo ad essa attribuirsi quella stessa qualificazione di indennità provvisoria che si rinviene nella cit. L. n. 865, art. 12, comma 1, il quale rinvia, per la relativa determinazione, proprio all’art. 16 anzidetto. Siffatta determinazione non trova deroga nell’ambito della disciplina indennitaria posta dalla L. 14.05.1981, n. 219, art. 80 il cui carattere speciale non è elemento sufficiente a spezzare il nesso logico ed economico che, per legge, lega tutte le indennità, sia di espropriazione che di occupazione legittima, posto che la anzidetta normativa di riferimento, fissa l’entità delle indennità di occupazione in misura strettamente percentuale all’indennità di espropriazione parimenti dovuta.
Il suddetto principio e` stato affermato tanto per l’indennità di occupazione legittima del suolo destinato all’esproprio quanto per quello utilizzato per le fasce laterali occupate per le necessità del ‘‘cantiere’’ e transito. La Corte lo ha ribadito, sottolineando che esso si fonda sulla considerazione che -in presenza di legittimo procedimento di occupazione e di esproprio- il sistema prevede un nesso (logico e, soprattutto, economico) che, per la legge, lega, sempre e comunque, tutte le indennità (sia di espropriazione che di occupazione legittima), con la conseguenza che le disposizioni attinenti alle indennità da occupazione provvisoria legittima, perché tendono al ristoro del reddito perduto durante l’occupazione del bene, non possono che fissare l’entità delle indennità di occupazione in misura strettamente percentuale all’indennità di espropriazione parimenti dovuta: quella annuale di ‘‘un dodicesimo’’ corrisponde, infatti e comunque, ad una redditività predeterminata in misura percentuale fissa (8,33% all’anno) dallo stesso legislatore, a cui va aggiunto l’aumento del 50% per il concordamento bonario di cui alla L. n. 865 del 1971, art. 12.
La Corte ha aggiunto che non rileva se il decreto di esproprio sia stato tempestivamente emesso (rilevante -invece- in relazione alla tematica affrontata da Corte cost. n. 24/2009), ma solo se l’indennità di espropriazione sia stata effettivamente accettata e quindi sia dovuta con l’aumento nella misura corrisposta per il concordamento bonario.
Rimane, invece, fuori da questa regolamentazione il caso di imposizione di fatto di servitù pubblica di acquedotto, a seguito di realizzazione dell’opera idraulica senza una procedura ablatoria, in cui, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, trova applicazione analogica l’art. 1038 c.c., che distingue, ai fini della determinazione dell’indennità, tra le parti fisicamente occupate; dall’opera idraulica e quelle costituenti le cosiddette fasce di rispetto necessarie per lo spurgo e per la manutenzione delle condotte, stabilendo che per le prime sia corrisposto al proprietario l’intero valore e per le altre soltanto la metà di tale valore (Cass., Sez. Un., 13.02.2001, n. 51) (Corte di Cassazione, Sezz. Un. civili, sentenza 25.06.2012 n. 10502 - tratto da Urbanistica e appalti n. 10/2012).

ESPROPRIAZIONE: Nomina di due tecnici per la determinazione definitiva dell’indennità di espropriazione: cosa si fa se l'autorità espropriante non provvede?
La risposta alla domanda è fornita dalla sentenza 11.06.2012 n. 802 del TAR Veneto, Sez. II.
Scrive il TAR: "l’articolo 21 del DPR n. 327/2001 dispone, al comma 2, che, se manca l’accordo sulla determinazione dell’indennità di espropriazione, l’autorità espropriante invita il proprietario interessato a comunicare entro i successivi venti giorni se intenda avvalersi del procedimento di determinazione dell’indennità previsto dai commi successivi. In particolare, il comma 3 dispone che, in caso di comunicazione positiva del proprietario, l’autorità espropriante nomina due tecnici, tra cui quello eventualmente già designato dal proprietario e fissa il termine entro il quale va presentata la relazione da cui si evinca la stima del bene, mentre la nomina di un terzo tecnico spetta al Presidente del tribunale civile nella cui circoscrizione si trovi il bene da espropriare.
Nel caso oggetto del presente giudizio, i ricorrenti non hanno condiviso la misura della indennità provvisoria, onde hanno prodotto istanza (in data 08-10-2011) nella quale, indicato il tecnico di propria fiducia, hanno richiesto all’autorità espropriante la nomina di due tecnici, a mente del richiamato articolo 21 del T.U. Espropriazioni. Non avendo avuto riscontro alla loro richiesta, in data 09.02.2012 e 03.02.2012, hanno notificato al Ministero dello Sviluppo Economico e alla Snam s.p.a. diffida stragiudiziale, intimando l’effettuazione dell’adempimento di cui alla citata norma.
Il Ministero dello Sviluppo Economico, peraltro, non ha dato corso al procedimento avviato dai privati, onde si è certamente formato il silenzio-rifiuto censurato nel presente giudizio, considerato che dall’articolo 2 della legge n. 241/199021 e dell’articolo 21 del dpr n. 327/2001 deriva indiscutibilmente l’obbligo per l’autorità espropriante di concludere il procedimento di determinazione definitiva dell’indennità con un provvedimento espresso e motivato.
Va, per l’effetto, dichiarata l’illegittimità del silenzio-rifiuto serbato sulla richiesta del privato ed impartito l’ordine giurisdizionale di conclusione del procedimento per la determinazione definitiva dell’indennità
" (commento tratto da e link a http://venetoius.myblog.it).

ESPROPRIAZIONEL’art. 42-bis d.p.r. n. 327/2001 disciplina uno speciale procedimento ablatorio “ex post” a fronte del quale, come espressamente stabilito dal legislatore, al proprietario spetta un indennizzo (non un risarcimento) per la perdita del diritto di proprietà, con la conseguenza che l’adozione del provvedimento di acquisizione ai sensi del citato art. 42-bis muta da risarcitoria ad indennitaria la pretesa del soggetto spogliato del bene.
Da ciò conseguirebbe che il sindacato sui provvedimenti assunti ai sensi del citato art. 42-bis è, per quanto attiene all’indennizzo corrisposto per la perdita del diritto di proprietà, sottoposto alla cognizione del giudice ordinario, in quanto l’art. 133, primo comma, lettera f), cod. proc. amm. dispone che non sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo quando si tratti della determinazione e della corresponsione “delle indennità in conseguenza dell’adozione di atti di natura espropriativa o ablativa” (nel cui novero rientra senz’altro quello emesso ai sensi dell’art. 42-bis).
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L’iniziale occupazione, qualora non siano stati annullati tutti gli atti a decorrere dalla dichiarazione di pubblica utilità, diviene illegittima solo dopo la scadenza del proprio termine di efficacia ed in ragione di ulteriori vizi del procedimento, normalmente collegati alla mancata tempestiva emanazione del decreto di esproprio.
Ne consegue che per il periodo di occupazione legittima spetta al ricorrente, non il risarcimento del danno, ma l’ordinaria tutela indennitaria, su cui, peraltro, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario.
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La scadenza di un provvedimento di occupazione d’urgenza di un’area non fa venir meno l’occupazione di fatto della stessa da parte della Pubblica Amministrazione, essendo necessario, per far cessare l’occupazione, un atto di riconsegna del bene al proprietario, in mancanza del quale l’occupazione permane e, in quanto illegittima, costituisce fonte di responsabilità per l’Amministrazione occupante.
La detenzione qualificata dell’area da parte della Pubblica Amministrazione a seguito di provvedimento di occupazione d’urgenza si trasforma, infatti, a seguito della scadenza del termine di efficacia del provvedimento, in detenzione “sine titulo” e ciò determina il sorgere in capo all’Amministrazione di un obbligo di restituzione dell’immobile al legittimo proprietario.
Per la riconsegna dell’area non si richiedono le formalità previste per l’occupazione (redazione di apposito verbale di immissione in possesso redatto in contraddittorio con il proprietario o, in sua assenza, con l’intervento di due testimoni), atteso che esse sono contemplate avuto riguardo agli specifici effetti che il legislatore collega all’immissione nel possesso dell'immobile (mantenimento dell’efficacia del decreto, decorrenza dell’indennità di occupazione, etc.), ma deve comunque trovare applicazione la normativa contenuta negli art. 1140 e segg. cod. civ., secondo la quale, per la perdita del possesso materiale dell’immobile nel caso di detenzione qualificata, occorre quanto meno che venga esteriorizzato, da chiari ed inequivoci segni, l’“animus derelinquendi”.
Incombe, peraltro, sull’Amministrazione l’onere delle prova in ordine all’intervenuta restituzione del bene locato, in armonia con quanto ritenuto dalla Suprema Corte in materia di prova dell’inadempimento.
In base al principio della persistenza del diritto desumibile dall’art. 2697 (“chi eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda”), grava sul debitore l’onere di dimostrare il fatto estintivo dell’obbligazione, in quanto, come sinteticamente espresso dal brocardo “negativa non sunt probanda”, pretendere che sia provato un fatto negativo mediante fatti positivi contrari significa introdurre un’irrazionale e non agevole tecnica probatoria e rendere eccessivamente difficile l’esercizio del diritto del creditore, per cui si rende necessario far riferimento all’opposto principio della riferibilità o della vicinanza della prova, con la conseguenza che il creditore può limitarsi ad allegare l’inadempimento, restando a carico del debitore l’onere di dimostrare il contrario.
Poiché nel caso di specie l’Amministrazione non ha dato prova della restituzione dell’area allo spirare dei tre decreti di occupazione, deve ritenersi, sulla scorta delle considerazioni che precedono, che la detenzione degli immobili si sia protratta “sine titulo” oltre i termini contemplati nei decreti stessi.
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Ai fini del risarcimento derivante da occupazione divenuta “sine titulo”, il valore venale di riferimento deve essere quello del bene al tempo della cessazione dell’occupazione legittima, poiché la previsione, nel citato art. 43, sesto comma, lett. b), degli interessi moratori a decorrere dal giorno in cui il terreno sia stato occupato (anche tramite imposizione di servitù senza titolo), dimostra che la sorte capitale deve essere riferita a quel momento pregresso per essere poi attualizzata al tempo della condanna.
In base ai principi generali sulla liquidazione dell’obbligazione risarcitoria, alle somme dovute a tale titolo, con esclusione di quella dovuta a titolo di indennità di asservimento (già calcolata sul valore attuale della servitù), vanno aggiunti la rivalutazione monetaria e gli interessi legali e che, in particolare, gli interessi devono essere computati sulle somme anno per anno rivalutate.
Per quanto attiene il computo degli interessi, non risulta applicabile né l’art. 5 d.lgs. n. 231/2002, in quanto la norma si riferisce espressamente al “saggio degli interessi ai fini del presente decreto” e il decreto concerne le transazioni commerciali (non le obbligazioni risarcitorie), né l’art. 50 d.p.r. n. 327/2003, in quanto la norma disciplina il calcolo dell’indennità di occupazione.

Il Consiglio di Stato (Sez. VI, n. 1438/2012) ha recentemente affermato che l’art. 42-bis d.p.r. n. 327/2001 disciplina uno speciale procedimento ablatorio “ex post” a fronte del quale, come espressamente stabilito dal legislatore, al proprietario spetta un indennizzo (non un risarcimento) per la perdita del diritto di proprietà, con la conseguenza che l’adozione del provvedimento di acquisizione ai sensi del citato art. 42-bis muta da risarcitoria ad indennitaria la pretesa del soggetto spogliato del bene.
Da ciò conseguirebbe che il sindacato sui provvedimenti assunti ai sensi del citato art. 42-bis è, per quanto attiene all’indennizzo corrisposto per la perdita del diritto di proprietà, sottoposto alla cognizione del giudice ordinario, in quanto l’art. 133, primo comma, lettera f), cod. proc. amm. dispone che non sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo quando si tratti della determinazione e della corresponsione “delle indennità in conseguenza dell’adozione di atti di natura espropriativa o ablativa” (nel cui novero rientra senz’altro quello emesso ai sensi dell’art. 42-bis).
Nel caso in esame si radica, invece, la giurisdizione del giudice amministrativo sia in quanto viene in rilievo un provvedimento adottato, in forza di giudicato, ai sensi dell’art. 43 d.p.r. n. 327/2001 (il quale, per quanto attiene alla perdita del diritto di proprietà, parla espressamente -non di indennizzo, ma- di risarcimento del danno), sia perché, come sopra indicato, il gravame deve qualificarsi come ricorso per ottenere l’esecuzione di una decisione del giudice amministrativo, con la conseguenza che la sussistenza della giurisdizione dipende anche dal disposto dell’art. 113, primo comma, cod. proc. amm..
Per le considerazioni che precedono risulta, quindi, infondata, ad eccezione della richiesta relativa alle spese di cui al ricorso n. 15/2004, l’istanza con cui il ricorrente ha riformulato la propria domanda ai sensi dell’art. 42-bis d.p.r. n. 327/2001, atteso che il Comune di Siracusa ha l’obbligo di dare esecuzione al giudicato formatosi sulla citata sentenza n. 1278 del 07.06.2007, la quale fa riferimento alla -parzialmente- diversa disciplina di cui all’art. 43.
Anche se per ragioni in larga misura diverse da quelle prospettate dal ricorrente, deve, invece, condividersi la tesi del Gurrieri secondo cui l’Amministrazione non ha dato corretta esecuzione alla sentenza di questo Tribunale n. 1278 in data 07.06.2007.
Al riguardo va, innanzitutto, precisato che, a differenza di quanto ritenuto dal ricorrente, nessun risarcimento è dovuto per il periodo di occupazione legittima del suolo, in quanto, sebbene il procedimento espropriativo non sia stato definito nel termine previsto, la fase relativa all’occupazione, in difetto di qualsiasi impugnativa, risulta legittima ed efficace sino alla scadenza del termine previsto nei singoli decreti di occupazione.
Come, infatti, affermato dalla giurisprudenza (cfr. Cons. St., IV, n. 4408/2011), l’iniziale occupazione, qualora non siano stati annullati tutti gli atti a decorrere dalla dichiarazione di pubblica utilità, diviene illegittima solo dopo la scadenza del proprio termine di efficacia ed in ragione di ulteriori vizi del procedimento, normalmente collegati alla mancata tempestiva emanazione del decreto di esproprio.
Ne consegue che per il periodo di occupazione legittima spetta al ricorrente, non il risarcimento del danno, ma l’ordinaria tutela indennitaria, su cui, peraltro, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario.
Ciò premesso, deve ribadirsi che, come accertato dal verificatore, l’area effettivamente interessata dal collettore fognante si estende per metri quadri 410.
In proposito occorre chiarire l’esatto significato del pronuncia del Tribunale n. 1278 del 07.06.2007.
Il Tribunale ha ordinato al Comune di Siracusa di provvedere ai sensi del citato art. 43 d.p.r. n. 327/2001, cioè, in primo luogo, di emanare “ex post” un provvedimento di imposizione della servitù.
Il quinto comma dell’art. 43 stabilisce, infatti, che le disposizioni di cui ai precedenti commi si applicano, in quanto compatibili, anche quando sia imposta una servitù di diritto privato o di diritto pubblico.
Il successivo sesto comma dispone che, salvi i casi in cui la legge disponga altrimenti, nelle ipotesi previste nei precedenti commi il risarcimento del danno è determinato:
a) nella misura corrispondente al valore del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e, se l’occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni dell’articolo 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7;
b) col computo degli interessi moratori, a decorrere dal giorno in cui il terreno sia stato occupato senza titolo.
Nell’ipotesi di imposizione di servitù, pertanto, l’Amministrazione deve in primo luogo corrispondere il valore del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità.
Ma, poiché in questo caso ad essere acquisito per scopi di pubblica utilità non è il bene nella sua interezza, ma la sola servitù, il risarcimento del danno va calcolato con riferimento al valore della servitù imposta sul fondo, essendo questo il senso dell’espressione di cui all’art. 43, quinto comma, secondo cui le disposizioni di cui ai precedenti commi si applicano, “in quanto compatibili”, anche quando sia imposta una servitù di diritto privato o di diritto pubblico.
Per la determinazione del valore della servitù occorre, quindi, fare riferimento alla disciplina di cui all’art. 1038 c.c. sull’indennità per l’imposizione dell’acquedotto o dello scarico coattivo.
Come precisato dalla giurisprudenza (per tutte, cfr. Cass. Civ. Sez. Un., n. 84/2001), il primo comma della norma prevede che l’indennità sia dovuta in misura corrispondente all’intero valore del fondo per il terreno occupato dall’opera idraulica vera e propria, mentre per le cosiddette fasce di rispetto si applica il secondo comma della disposizione indicata (che prevede un’indennità pari alla metà del valore del suolo), atteso che tali fasce possono essere comunque sfruttate economicamente da parte del proprietario del fondo servente.
Nel caso in esame, come evidenziato dal verificatore, deve tuttavia farsi applicazione del criterio di cui all’art. 1038, secondo comma, c.c. per tutta l’area interessata dal collettore fognante, in quanto l’area risulta edificabile e la volumetria edilizia rimane, quindi, nella piena disponibilità del proprietario (che può sfruttarla su altre proprietà o cederla a terzi).
Ne consegue che, in relazione ai 410 metri effettivamente interessati dalla presenza del collettore fognante, il decreto di asservimento deve prevedere un’indennità pari al 50% del valore del terreno.
Il valore del terreno, tenendo conto delle conclusioni del verificatore, dalle quali il Collegio non ravvisa motivi per discostarsi, deve essere stabilito con riferimento al momento di emanazione del decreto di asservimento, in quanto il risarcimento dovuto, ai sensi dell’art. 43, sesto comma, lett. a), per il valore del bene, ovvero della servitù, non può che riferirsi al valore del bene, o della servitù, nel momento in cui il proprietario perde interamente o parzialmente il proprio diritto sulla cosa e tale momento non coincide con quello di ultimazione dell’opera pubblica, ma con quello in cui l’Amministrazione adotta il provvedimento di acquisizione (sul punto cfr. Con. Giust. Amm. Reg. Sic., n. 52/2009).
Il Comune dovrà, tuttavia, verificare se l’area di metri quadri 410 interessata dalla presenza del collettore fognante coincida, anche in parte, con la superficie di metri quadri 2693,75 irreversibilmente trasformata in strade urbane (cioè nelle odierne Vie Asbesta e Don Puglisi).
Nell’ipotesi di coincidenza con la superficie irreversibilmente trasformata, infatti, l’Amministrazione non deve corrispondere, per la sola parte coincidente, alcuna indennità a titolo di servitù, in quanto l’occupazione dell’area determina la privazione totale del godimento del bene da parte del proprietario ed è , quindi, incompatibile con un provvedimento di mera limitazione del suo godimento.
Oltre a tale importo, l’Amministrazione, in esecuzione della sentenza di questo Tribunale n. 1278 del 07.06.2007, è tenuta a corrispondere al ricorrente il risarcimento del danno per l’occupazione illegittima dell’area di metri quadri 3718,75 occupata per la realizzazione del collettore fognante.
In realtà, a prescindere dall’insistenza su un’area di metri quadri 410 delle opere relative al collettore fognante (e a prescindere, altresì, come sarà meglio specificato nel seguito, dalla sopravvenuta realizzazione della Via Asbesta e della Via Don Puglisi), non vi è prova che sull’area in questione l’occupazione del suolo si sia effettivamente protratta oltre il termine previsto nei tre decreti di occupazione.
Non vi è prova, cioè, che l’Amministrazione, una volta scaduti i decreti di occupazione e a prescindere dall’intervenuta realizzazione del collettore fognante, abbia continuato ad occupare l’area con opere e manufatti, ovvero abbia in qualche modo impedito al proprietario di rientrare nella legittima disponibilità degli immobili.
Al riguardo deve, tuttavia, osservarsi che la scadenza di un provvedimento di occupazione d’urgenza di un’area non fa venir meno l’occupazione di fatto della stessa da parte della Pubblica Amministrazione, essendo necessario, per far cessare l’occupazione, un atto di riconsegna del bene al proprietario, in mancanza del quale l’occupazione permane e, in quanto illegittima, costituisce fonte di responsabilità per l’Amministrazione occupante (sul punto, cfr. Cass. Civ., Sez. I, n. 10866/1999).
La detenzione qualificata dell’area (sul punto, cfr. Cass. Civ., Sez. II, n. 132/1992; Cass. Civ. Sez. I, n. 10686/2005, Cass. Civ., Sez. I, n. 2952/2003) da parte della Pubblica Amministrazione a seguito di provvedimento di occupazione d’urgenza si trasforma, infatti, a seguito della scadenza del termine di efficacia del provvedimento, in detenzione “sine titulo” e ciò determina il sorgere in capo all’Amministrazione di un obbligo di restituzione dell’immobile al legittimo proprietario.
Come chiarito dalla Suprema Corte (Cass. Civ., Sez. I, n. 2952/2003), per la riconsegna dell’area non si richiedono le formalità previste per l’occupazione (redazione di apposito verbale di immissione in possesso redatto in contraddittorio con il proprietario o, in sua assenza, con l’intervento di due testimoni), atteso che esse sono contemplate avuto riguardo agli specifici effetti che il legislatore collega all’immissione nel possesso dell'immobile (mantenimento dell’efficacia del decreto, decorrenza dell’indennità di occupazione, etc.), ma deve comunque trovare applicazione la normativa contenuta negli art. 1140 e segg. cod. civ., secondo la quale, per la perdita del possesso materiale dell’immobile nel caso di detenzione qualificata, occorre quanto meno che venga esteriorizzato, da chiari ed inequivoci segni, l’“animus derelinquendi”.
Incombe, peraltro, sull’Amministrazione (come incombe sul conduttore nell’ipotesi di rilascio per finita locazione: sul punto cfr. Cass. Civ., Sez. III, n. 7776/2004) l’onere delle prova in ordine all’intervenuta restituzione del bene locato, in armonia con quanto ritenuto dalla Suprema Corte (Sez. Un., n. 13533/2001) in materia di prova dell’inadempimento.
In tale ultima pronuncia, la Cassazione ha, infatti, affermato che, in base al principio della persistenza del diritto desumibile dall’art. 2697 (“chi eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda”), grava sul debitore l’onere di dimostrare il fatto estintivo dell’obbligazione, in quanto, come sinteticamente espresso dal brocardo “negativa non sunt probanda”, pretendere che sia provato un fatto negativo mediante fatti positivi contrari significa introdurre un’irrazionale e non agevole tecnica probatoria e rendere eccessivamente difficile l’esercizio del diritto del creditore, per cui si rende necessario far riferimento all’opposto principio della riferibilità o della vicinanza della prova, con la conseguenza che il creditore può limitarsi ad allegare l’inadempimento, restando a carico del debitore l’onere di dimostrare il contrario.
Poiché nel caso di specie l’Amministrazione non ha dato prova della restituzione dell’area allo spirare dei tre decreti di occupazione, deve ritenersi, sulla scorta delle considerazioni che precedono, che la detenzione degli immobili si sia protratta “sine titulo” oltre i termini contemplati nei decreti stessi.
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Come affermato dalla giurisprudenza (Tar Campania, Salerno II, n. 1539/2001), ai fini del risarcimento derivante da occupazione divenuta “sine titulo”, il valore venale di riferimento deve essere quello del bene al tempo della cessazione dell’occupazione legittima, poiché la previsione, nel citato art. 43, sesto comma, lett. b), degli interessi moratori a decorrere dal giorno in cui il terreno sia stato occupato (anche tramite imposizione di servitù senza titolo), dimostra che la sorte capitale deve essere riferita a quel momento pregresso per essere poi attualizzata al tempo della condanna.
...
Va, infine precisato che, in base ai principi generali sulla liquidazione dell’obbligazione risarcitoria, alle somme dovute a tale titolo, con esclusione di quella dovuta a titolo di indennità di asservimento (già calcolata sul valore attuale della servitù), vanno aggiunti la rivalutazione monetaria e gli interessi legali e che, in particolare, gli interessi devono essere computati sulle somme anno per anno rivalutate (cfr., per tutte, Cass. Civ., I, n. 19510/2005).
Al riguardo va precisato che, per quanto attiene il computo degli interessi, non risulta applicabile né l’art. 5 d.lgs. n. 231/2002, in quanto la norma si riferisce espressamente al “saggio degli interessi ai fini del presente decreto” e il decreto concerne le transazioni commerciali (non le obbligazioni risarcitorie), né l’art. 50 d.p.r. n. 327/2003, in quanto la norma disciplina il calcolo dell’indennità di occupazione (TAR Sicilia-Catania, Sez. II, sentenza 28.05.2012 n. 1350 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: E' illegittimo il decreto di esproprio adottato dopo la scadenza del termine di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità ovvero dopo la scadenza del termine dell’occupazione d’urgenza.
Secondo la giurisprudenza amministrativa (cfr. TAR Campania, Napoli, 31.10.1983, n. 1164; TAR Abruzzo, L’Aquila, 27.01.2003, n. 12) cui questo Collegio ritiene di aderire è illegittimo il decreto di esproprio adottato dopo la scadenza del termine di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità ovvero dopo la scadenza del termine dell’occupazione d’urgenza (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 24.05.2012 n. 1015 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: L’accettazione dell'indennità di esproprio non esclude l'interesse a far riscontrare le eventuali illegittimità del procedimento di espropriazione ed occupazione d'urgenza, in vista anche del maggior ristoro che il privato può ottenere a titolo risarcitorio dell'accertata illiceità conseguente all'annullamento degli atti di sottrazione del bene.
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In tema di espropriazione per pubblica utilità, la decorrenza del periodo di occupazione legittima inizia non già dal giorno della dichiarazione di p.u. dell'eseguenda opera pubblica (che non comporta, di per sé, la necessità dell'occupazione d'urgenza del fondo ad essa asservito), ma dal giorno dell'emanazione, ex art. 71 della legge n. 2359 del 1865, del decreto autorizzativo, se immediatamente operativo nei confronti dell'occupante, con conseguente, contestuale compressione della facoltà dell'occupato.

Innanzi tutto la Sezione ritiene incondivisibile la eccezione di improcedibilità dell’appello formulata dalla difesa del resistente Comune nell’assunto che la accettazione della indennità di esproprio da parte degli appellanti ha comportato rinuncia alla pretesa dedotta in giudizio.
Invero l’accettazione dell'indennità di esproprio non esclude l'interesse a far riscontrare le eventuali illegittimità del procedimento di espropriazione ed occupazione d'urgenza, in vista anche del maggior ristoro che il privato può ottenere a titolo risarcitorio dell'accertata illiceità conseguente all'annullamento degli atti di sottrazione del bene (Consiglio Stato, sez. IV, 02.10.2006, n. 5774).
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Osserva la Sezione che in tema di espropriazione per pubblica utilità, la decorrenza del periodo di occupazione legittima inizia non già dal giorno della dichiarazione di p.u. dell'eseguenda opera pubblica (che non comporta, di per sé, la necessità dell'occupazione d'urgenza del fondo ad essa asservito), ma dal giorno dell'emanazione, ex art. 71 della legge n. 2359 del 1865, del decreto autorizzativo, se immediatamente operativo nei confronti dell'occupante, con conseguente, contestuale compressione della facoltà dell'occupato (Cassazione civile, sez. I, 25.03.2003, n. 4358) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.05.2012 n. 2743 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEInterpretando la previgente normativa contenuta nell’art. 43 del T.U. sulle espropriazioni, la giurisprudenza amministrativa ha già costantemente precisato che il Consiglio comunale è competente a deliberare tale acquisizione, in quanto tale atto è emesso ab externo al procedimento espropriativo, quindi non è disciplinato dalle relative norme; inoltre, i provvedimenti di acquisizione rientrano a pieno titolo nelle competenze consiliari di cui alla lett. l) dell’art. 42, comma 2, D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, la quale elenca “acquisti e alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e concessioni che non siano previsti espressamente in atti fondamentali del Consiglio o che non ne costituiscano mera esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria amministrazione di funzioni e servizi di competenza della Giunta, del segretario o di altri funzionari”, così ricomprendendo anche l’ipotesi di acquisto di immobili mediante lo strumento di diritto pubblico in parola.
Tale principio è applicabile anche alla acquisizioni disposte ai sensi dell’art. 42-bis, che ha nella sostanza reintrodotto un meccanismo di acquisizione sanante delle occupazioni illegittime parzialmente analogo a quello disciplinato dal predetto art. 43.

... per l'annullamento del decreto 05.03.2012, n. 1, con il quale il Responsabile del Settore Tecnico del Comune di Moscufo ha disposto, ai sensi dell’art. 42-bis del D.P.R. 08.06.2001, n. 327, l’acquisizione al patrimonio indisponibile del Comune di un fondo di proprietà del ricorrente utilizzato per scopi di pubblico interesse; nonché degli atti presupposti e connessi.
Va, invero, al riguardo, ricordato che, interpretando la previgente normativa contenuta nell’art. 43 del T.U. sulle espropriazioni, la giurisprudenza amministrativa ha già costantemente precisato che il Consiglio comunale è competente a deliberare tale acquisizione, in quanto tale atto è emesso ab externo al procedimento espropriativo, quindi non è disciplinato dalle relative norme; inoltre, i provvedimenti di acquisizione rientrano a pieno titolo nelle competenze consiliari di cui alla lett. l) dell’art. 42, comma 2, D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, la quale elenca “acquisti e alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e concessioni che non siano previsti espressamente in atti fondamentali del Consiglio o che non ne costituiscano mera esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria amministrazione di funzioni e servizi di competenza della Giunta, del segretario o di altri funzionari”, così ricomprendendo anche l’ipotesi di acquisto di immobili mediante lo strumento di diritto pubblico in parola (così, da ultimo, Cons. St., sez. V, 13.10.2010, n. 7472, e sez. III, 31.08.2010, n. 775). Nello stesso senso si è, inoltre, già pronunciato anche questo stesso Tribunale con sentenza 12.01.2010, n. 15, in conformità, peraltro, ad un costante orientamento seguito dagli organi di giustizia amministrativa di primo grado (cfr. TAR Toscana, sez. I, 12.05.2009, n. 817, TAR Emilia Romagna, sez. Parma, 11.06.2008, n. 307, TAR Campania, sede Napoli, 09.01.2008, n. 74, e TAR Calabria, sez. Reggio Calabria, 22.02.2006, n. 322).
Ritiene il Collegio che tale principio sia applicabile anche alla acquisizioni disposte ai sensi dell’art. 42-bis, che ha nella sostanza reintrodotto un meccanismo di acquisizione sanante delle occupazioni illegittime parzialmente analogo a quello disciplinato dal predetto art. 43 (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 07.05.2012 n. 189 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEIn base ai principi generali, la mancata notifica al proprietario del decreto di esproprio non costituisce motivo di carenza del potere espropriativo che legittimi il proprietario stesso ad invocare l'illiceità dell'occupazione del fondo, ma comporta soltanto che quest'ultimo non sia soggetto al termine di decadenza per l'opposizione alla stima (impedendone il decorso).
Infatti, l'effetto traslativo della proprietà alla mano pubblica si verifica alla data della pronuncia del decreto anzidetto, indipendentemente dalla sua successiva notificazione. Il decreto medesimo ha natura di atto non recettizio, per cui la sua comunicazione non è né elemento integrativo, né requisito di validità, né condizione di efficacia, avendo solo la funzione di far appunto decorrere il termine di opposizione alla stima.

Condivisibile giurisprudenza, dalla quale il Collegio non ravvisa motivo di discostarsi, ha affermato, in fattispecie analoga, che «...In base ai principi generali, la mancata notifica al proprietario del decreto di esproprio non costituisce motivo di carenza del potere espropriativo che legittimi il proprietario stesso ad invocare l'illiceità dell'occupazione del fondo, ma comporta soltanto che quest'ultimo non sia soggetto al termine di decadenza per l'opposizione alla stima (impedendone il decorso).
Infatti, l'effetto traslativo della proprietà alla mano pubblica si verifica alla data della pronuncia del decreto anzidetto, indipendentemente dalla sua successiva notificazione. Il decreto medesimo ha natura di atto non recettizio, per cui la sua comunicazione non è né elemento integrativo, né requisito di validità, né condizione di efficacia, avendo solo la funzione di far appunto decorrere il termine di opposizione alla stima (cfr. Cassazione civile, sez. I, 15.11.2004, n. 21622)…
» (Cons. Stato, Sez. IV, 14.02.2012, n. 702; analogamente, ex plurimis, CGARS, 04.11.2005, n. 730) (TAR Sicilia-Catania, Sez. II, sentenza 23.04.2012 n. 1076 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEConseguenze a carico del Comune dell'avvio delle procedure espropriative e conclusione dei lavori in assenza del decreto d’esproprio.
In data 06/07/2011 è entrato in vigore il d.l. n. 6/7/2011, n. 98 (conv. in l. 15/7/2011, n. 111) il cui art. 34 introduce il nuovo art. 42-bis d.p.r. n. 327/2001, contenente la disciplina relativa al c.d. “provvedimento di acquisizione sanante” a seguito della declaratoria di incostituzionalità dell’art. 43 d.p.r. n. 327/2001 da parte della Corte Cost. (v. sentenza n. 293/2010). Il nuovo art. 42-bis t.u. espropri, per come introdotto dalla l. n. 111/2011, è applicabile al caso di specie stante l’espressa previsione ivi contenuta, nel c. 8, a norma del quale: “Le disposizioni del presente articolo trovano altresì applicazione ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore …".
La condotta serbata dall’Amministrazione intimata, la quale ha omesso di adottate nei termini il decreto di esproprio, è illecita nel senso che ha determinato un pregiudizio in capo ai proprietari delle aree di cui trattasi, in ragione della perdita subita dei beni utilizzati dalla p.a. per scopi di interesse pubblico, in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio, nonché in ragione del periodo di occupazione illegittimamente subita.
Ai sensi della norma citata spetta esclusivamente alla p.a. la valutazione in ordine agli interessi in conflitto (attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che giustificano, in luogo della restituzione del bene, l'emanazione del provvedimento di acquisizione, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati, evidenziando l'assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione, v. cc. 1-4 dell’art. 42-bis d.p.r. n. 327/2001), interessi della cui esistenza dovrà darsi atto nella motivazione del provvedimento di acquisizione sanante, per come previsto dal c. 4, primo periodo, della norma citata.
Nell’eventualità che la p.a. si determini ad adottare il provvedimento di acquisizione, l’effetto traslativo della proprietà opererà dalla data dell’adozione del provvedimento stesso, sotto condizione sospensiva del pagamento del prezzo o del suo versamento presso la Cassa Depositi e Prestiti.
Laddove il Comune si determini ad adottare il provvedimento di acquisizione, esso dovrà altresì contenere la liquidazione delle somme dovute ai ricorrenti, da pagarsi nel termine di giorni trenta e da quantificarsi secondo i seguenti criteri fissati, ai sensi all'art. 34, c. 4, c.p.a., applicabile in assenza di alcuna espressa opposizione delle parti:
1) per il pregiudizio patrimoniale (perdita della proprietà del bene), la somma dovuta dovrà determinarsi in misura corrispondente al valore venale dei beni utilizzati per scopi di pubblica utilità e, riguardando l'occupazione un terreno edificabile (v. certificato di destinazione urbanistica in atti), sulla base delle disposizioni dell'articolo 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7 (v. combinato disposto di cui al c. 1, ult. periodo, e c. 3, primo periodo, art. 42-bis, d.p.r. 327/2001);
2) per il pregiudizio non patrimoniale cagionato anch’esso per perdita del diritto di proprietà, la somma dovuta dovrà essere forfettariamente liquidata nella misura del dieci per cento del valore venale del bene così come calcolato ai fini dell’indennizzo per il pregiudizio patrimoniale (c. 1, ult. periodo, art. 42-bis, d.p.r. 327/2001);
3) per il danno derivante dal periodo di occupazione illegittima, la somma dovuta dovrà essere calcolata nella misura del cinque per cento annuo sul valore venale del bene così come calcolato ai fini dell’indennizzo per il pregiudizio patrimoniale, salvo che dagli atti del procedimento amministrativo non risulti la prova di una diversa entità di tale danno (c. 3, ult. periodo, art. 42-bis, d.p.r. 327/2001);
4) le somme così quantificate, se non saranno accettate dagli interessati, dovranno essere depositate presso la Cassa depositi e prestiti S.p.a. (v. c. 4, ult. periodo, art. 42-bis, d.p.r. 327/2001), e l'Autorità comunale potrà comunque adottare il provvedimento di acquisizione, da trascriversi presso la conservatoria dei registri immobiliari e trasmettersi alla Corte dei Conti (v. c. 7, art. 42-bis, d.p.r. 327/2001).
Il Collegio pertanto, alla luce delle considerazioni che precedono, ha accolto il ricorso e, per l’effetto, ha disposto che il Comune si attivi, ai sensi e per gli effetti di cui 42-bis d.p.r. n. 327/2001 e dell’art. 34, c. 4, c.p.a., ponendo in essere le attività procedimentali ivi previste (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 04.04.2012 n. 737 
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ESPROPRIAZIONEIn mancanza della dichiarazione di pubblica utilità sui danni del privato per l'occupazione usurpativa della P.A. decide il giudice ordinario.
Spetta al giudice amministrativo la controversia per il risarcimento dei danni conseguenti all'annullamento giurisdizionale di un provvedimento amministrativo in tema di espropriazione per pubblica utilità. E infatti, mentre le domande risarcitorie e restitutorie relative a fattispecie di occupazione usurpativa, intese come manipolazione del fondo di proprietà privata avvenuta in assenza della dichiarazione di pubblica utilità ovvero a seguito della sua sopravvenuta inefficacia, rientrano nella giurisdizione ordinaria, sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in caso di danni conseguenti all’annullamento della dichiarazione di pubblica utilità (così, da ultimo, Consiglio Stato , sez. IV, 04.04.2011, n. 2113).
Dopo l'annullamento della dichiarazione di pubblica utilità dell'opera e degli altri provvedimenti preordinati all'esproprio caso per caso, vengono meno i titoli autoritativi che erano alla base delle condotte materiali con le quali si è data esecuzione alla dichiarazione di pubblica utilità, mentre rimangono invece integri, nella realtà effettuale, i comportamenti materiali dell'Amministrazione che, proprio perché non più sorretti da atti autoritativi, vanno ricondotti sotto il regime dell'illecito aquiliano; tuttavia, in forza della disposizione dell'art. 34, d.lgs. 31.03.1998, n. 80, così come interpretato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 204 del 06.07.2004, la controversia relativa al risarcimento del danno subìto dal privato appartiene alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, dal momento che i "comportamenti" ai quali faceva riferimento l'art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998, prima dell'intervento demolitorio operato dalla Corte Costituzionale con la citata sentenza, hanno ad oggetto non già attività materiali sorrette dall'esplicazione del potere, ma condotte poste in essere dalla pubblica amministrazione anche in vista del perseguimento di interessi pubblici, ma comunque fuori dell'esplicazione del potere pubblico (Consiglio Stato, sez. IV, 12.02.2010, n. 801).
Nel caso di specie l’azione esaminata dal Consiglio di Stato venga attiene ad un'occupazione illecita a seguito di annullamento giurisdizionale del piano di localizzazione, contenente la dichiarazione di pubblica utilità con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.03.2012 n. 1750 -
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ESPROPRIAZIONE: Ad una srl agricola - Indennità corrisposta a titolo di esproprio: quale il trattamento ai fini delle imposte dirette?
Domanda
Si chiede di conoscere il trattamento ai fini delle imposte dirette di un'indennità corrisposta a titolo di esproprio (per realizzazione di opere di pubblica utilità) di terreni agricoli (zona omogenea "E", area destinata ad esclusivo uso agricolo) ad una società agricola (S.r.l.) con requisiti I.A.P., precisando che detta S.r.l. agricola non ha sinora optato per la tassazione del reddito a valori catastali, rimanendo soggetta a normale tassazione sul reddito di impresa.
A prescindere dall'indicazione della plusvalenza nel bilancio di esercizio, si richiede se, come succede per i soggetti che non esercitano un'impresa commerciale, vi siano requisiti di non imponibilità dell'indennità di esproprio nel caso in esame.
Risposta
Non si ritiene corretto quanto precisato nell'ultima parte dal gentile lettore; premesso che l'argomento è piuttosto complesso si è dell'avviso che per i soggetti che non esercitano impresa commerciali siano imponibili le indennità in commento. Si ritiene, fermo restando che bisognerebbe avere un quadro completo di informazioni, che l'indennità nel caso specifico possa concorrere a tassazione ai fini delle imposte dirette.
In base al disposto dell'art. 11, comma 5, della l. 30.12.1991, n. 413, le plusvalenze realizzate da soggetti non imprenditori derivanti da indennità di esproprio o di somme percepite a seguito di cessioni volontarie nel corso di procedimenti espropriativi nonché delle altre somme ivi indicate -relativamente a terreni destinati ad opere pubbliche o ad infrastrutture urbane all'interno delle zone omogenee di tipo A, B, C, D di cui al D.M. 02.04.1968, definite dagli strumenti urbanistici ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica ed economica e popolare di cui alla L. n. 167 del 1998 e successive modificazioni- sono soggette ad imposizione diretta (redditi diversi) a norma dell'art. 67, comma 1, lettera b), del D.P.R. n. 917 del 22.12.1986.
In merito, con la circolare n. 194/E del 24.07.1998 è stato precisato che le indennità e le altre somme sopra menzionate devono essere assoggettate a tassazione a condizione che siano state corrisposte relativamente ad aree destinate alla realizzazione di opere pubbliche o di infrastrutture urbane all'interno delle anzidette zone omogenee di tipo A, B, C e D.
Ne deriva, al contrario, che qualora l'esproprio venga disposto per destinare l'area ad interventi di edilizia residenziale pubblica ed economica e popolare di cui alla citata legge, la relativa indennità di esproprio è sempre assoggettata a tassazione, non assumendo alcun rilievo la collocazione dell'area in questione nelle diverse zone omogenee in cui è ripartito il territorio. Infatti, le zone omogenee vengono prese in considerazione, ai fini della tassazione delle indennità di esproprio, solo quando si riferiscono a procedimenti espropriativi relativi ad aree destinate alla realizzazione di opere pubbliche o di infrastrutture urbane. Le istruzioni impartite con la richiamata circolare n. 194/E del 1998 sono da ritenersi tuttora operanti anche a seguito dell'entrata in vigore del D.P.R. 08.06.2001, n. 327 (art. 35, comma 1).
Di conseguenza è ininfluente il fatto che il terreno espropriato sia ubicato in zona "E", considerato che la tipologia della zona, di tipo "A", "B", "C" e "D", di cui al comma 5 dell'art. 11 della L. n. 413/1991, rileva solo qualora l'esproprio sia finalizzato alla realizzazione di "opere pubbliche o di infrastrutture urbane"; mentre tale collocazione non assume alcun rilievo quando la procedura di esproprio sia disposta per destinare l'area ad interventi di edilizia economica e popolare ai sensi della L. n. 167 del 1962 (19.03.2012 - tratto da www.ipsoa.it).

ESPROPRIAZIONE: R. G. Vaccari, L’espropriazione indiretta (link a http://venetoius.myblog.it).

ESPROPRIAZIONELa dichiarazione di pubblica utilità priva di termini iniziali e finali per l’avvio e compimento dei lavori e delle occupazioni è da ritenere radicalmente nulla.
E' noto che, secondo la giurisprudenza anche più recente della Corte regolatrice, la dichiarazione di pubblica utilità priva di termini iniziali e finali per l’avvio e compimento dei lavori e delle occupazioni è da ritenere radicalmente nulla, onde l’occupazione costituisce mero comportamento materiale “...in nessun modo ricollegabile ad un esercizio abusivo dei poteri della p.a., sicché spetta al g.o. la giurisdizione sulla domanda risarcitoria proposta dal privato” perché in tal caso essa è “da ritenere emessa in carenza ovvero in difetto assoluto di attribuzione del potere stesso, che comporta nullità del provvedimento dichiarativo della pubblica utilità e degli atti conseguenti della procedura ablatoria” (Cass. Civ., SS.UU., 14.02.2011, n. 3569) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.02.2012 n. 1133 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEIn caso di nullità del provvedimento dichiarativo della pubblica utilità e degli atti conseguenti della procedura ablatoria la domanda risarcitoria del privato va proposta al giudice ordinario.
Secondo la giurisprudenza anche più recente della Suprema Corte di Cassazione, la dichiarazione di pubblica utilità priva di termini iniziali e finali per l’avvio e compimento dei lavori e delle occupazioni è da ritenere radicalmente nulla, onde l’occupazione costituisce mero comportamento materiale “...in nessun modo ricollegabile ad un esercizio abusivo dei poteri della p.a., sicché spetta al g.o. la giurisdizione sulla domanda risarcitoria proposta dal privato” perché in tal caso essa è “da ritenere emessa in carenza ovvero in difetto assoluto di attribuzione del potere stesso, che comporta nullità del provvedimento dichiarativo della pubblica utilità e degli atti conseguenti della procedura ablatoria” (Cass. Civ., SS.UU., 14.02.2011, n. 3569) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.02.2012 n. 1133
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEQuantificazione del danno da illegittima occupazione dei suoli nel periodo compreso tra l'immissione in possesso e l'emanazione del decreto di esproprio.
In caso di accoglimento della domanda risarcitoria per l’illegittima occupazione dei suoli, il danno riferibile all’arco temporale compreso tra l’immissione nel possesso dei medesimi e l’emanazione del decreto di esproprio, secondo l’orientamento giurisprudenziale consolidato, deve essere liquidato in misura pari agli interessi moratori sul valore di mercato del bene in ciascun anno del periodo di occupazione, con rivalutazione e interessi dalla data di proposizione del ricorso di primo grado fino alla data di deposito della presente sentenza (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 01.06.2011, n. 3331) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.02.2012 n. 1130 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONENon comporta inefficacia del decreto di occupazione la prassi diffusa tra le amministrazioni esproprianti di non apprendere subito il suolo espropriato purché nel verbale di immissione in possesso si dia atto che il suolo occupato è soggetto alla giuridica disponibilità dell'espropriante.
Ad avviso del Consiglio di Stato si deve escludere che la prassi –largamente diffusa tra le amministrazioni esproprianti– di tollerare una prolungata detenzione dei suoli occupati da parte dei proprietari ablati, anche dopo la redazione del verbale di immissione in possesso e di redazione dello stato di consistenza e fino all’effettivo avvio dei lavori, comporti la sopravvenuta inefficacia del decreto di occupazione, atteso che per l’esecuzione di quest’ultima è sufficiente la redazione di un verbale nel quale si dia atto che il suolo occupato, specificamente e puntualmente individuato, è soggetto alla giuridica disponibilità dell’espropriante, il quale potrà iniziare i lavori in qualsiasi momento successivo (fermo restando, come è ovvio, il rispetto dei termini fissati nella dichiarazione di pubblica utilità) e non è necessariamente tenuto ad apprendere materialmente fin da subito il suolo occupato (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 23.02.2012 n. 981 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEModalità di comunicazione dell'avvio del procedimento nelle procedure espropriative coinvolgenti un rilevante numero di proprietari di aree.
Il coinvolgimento nella procedura espropriativa di un rilevante numero di proprietari consente all'Amministrazione espropriante di sostituire la comunicazione personale di avvio del procedimento con le forme di pubblicità alternative consentite dall'art. 8, comma 3, l. 07.08.1990 n. 241, purché i destinatari di tale comunicazione siano effettivamente messi in grado di percepire la portata per essi lesiva del provvedimento, con la puntuale indicazione delle particelle espropriate (Consiglio Stato , sez. IV, 15.01.2009, n. 151).
L'amministrazione, trovandosi in presenza di un procedimento che non riguardava più soltanto pochi destinatari, ma oltre cinquanta soggetti intestatari di particelle interessate dai lavori, ha utilizzato il modello di pubblicità alternativa del procedimento di massa previsto dalla legge ("allorché il numero dei destinatari sia superiore a 50"): il che è rispettoso dell'indirizzo giurisprudenziale secondo il quale l'atto con il quale viene dichiarata, anche implicitamente, la pubblica utilità, l'indifferibilità e l'urgenza di un'opera deve necessariamente essere preceduto dalla comunicazione dell'avvio del procedimento, ai sensi dell'art. 7 l. 07.08.1990 n. 241, indirizzato individualmente ai proprietari delle aree incise dall'opera, ma è fatta salva la pubblicità "di massa" ove il numero dei destinatari sia tale da non rendere possibile la comunicazione "ad personam" (Consiglio Stato , sez. IV, 22.06.2006, n. 3885) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16.02.2012 n. 819 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: D. Tomassetti, LA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE N. 293/2010: CONSEGUENZE DELLA DECLARATORIA DI ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE DELLA NORMA SULLA C.D. ACQUISIZIONE SANANTE (link a www.gazzettaamministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: V. Pavone, L’ACQUISIZIONE SANANTE EX ART. 43 T.U. IN TEMA DI ESPROPRIAZIONE: IERI “VIA D’USCITA LEGALE” PER LE OCCUPAZIONI SINE TITULO, OGGI MONSTRUM GIURIDICO, BANDITO DALL’ORDINAMENTO GIURIDICO NAZIONALE (link a www.gazzettaamministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Individuazione degli elementi indispensabili per la legittimità della comunicazione di avvio del procedimento di occupazione d'urgenza ai fini espropriativi.
L’avviso di cui all’art. 11 DPR n. 327/2001 deve contenere, per essere legittimo e coerente con il citato articolato normativo oltre che con gli artt. 7 e 8 l. n. 241/1990, l’indicazione delle particelle e dei nominativi, quali indefettibili elementi diretti ad individuare i soggetti espropriandi ed i beni oggetto del procedimento amministrativo, e ciò sia che la comunicazione avvenga personalmente, sia che essa avvenga in forma collettiva mediante avviso pubblico (Cfr. Cons. di Stato, IV, 08/06/2011, n. 3500).
E’ evidente infatti che le modalità di comunicazione, seppur semplificate nella forma e nel numero, devono in ogni caso essere idonee a raggiungere lo scopo della effettiva conoscenza, di guisa che il proprietario inciso sia posto in grado di optare o meno per la partecipazione procedimentale in chiave difensiva (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 09.02.2012 n. 691 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONENella stima dei terreni espropriati ai fini della determinazione dell'indennità, non si può tener conto del vincolo espropriativo, né di vincoli d'inedificabilità previsti da strumenti generali preordinati all'espropriazione, ma deve tenersi conto soltanto dei vincoli previsti da strumenti urbanistici di ordine generale non preordinati all'esproprio, esistenti al momento del verificarsi della vicenda ablativa, nonché delle concrete ed intrinseche caratteristiche dei terreni che incidono sull'edificabilità di fatto degli stessi.
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Per quanto attiene al terreno occupato assoggettato ai limiti propri delle fasce di rispetto stradale, la giurisprudenza è concorde nel ritenere che il vincolo di inedificabilità ad esso connesso non abbia natura espropriativa, ma unicamente conformativa, in quanto riguarda una generalità di beni e di soggetti ed abbia, quindi, una funzione di salvaguardia della circolazione, indipendentemente dalla eventuale instaurazione di procedure espropriative. Anche in questo caso, quindi, il valore delle aree dovrà essere quantificato prescindendo dalla presenza della fascia di rispetto e considerando, quindi, le stesse come edificabili.
Le aree con “destinazione a impianti sportivi all’interno del perimetro di Piano attuativo residenziale”, infine, non possono nemmeno esse essere sottratte alla qualificazione come edificabili, proprio in ragione della loro inclusione nel perimetro del piano attuativo stesso. Ciononostante, nella determinazione del loro valore di mercato, che, si ribadisce, deve essere effettuata con riferimento al momento attuale (o meglio al momento in cui avverrà l’adozione dell’atto di acquisizione), non si potrà trascurare che lo stesso è sicuramente influenzato dalla circostanza per cui il piano attuativo approvato alcuni mesi dopo l’occupazione risulta aver traslato la potenzialità edificatoria collegata a tale area su altra di proprietà delle odierne ricorrenti.
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Nessun risarcimento è dovuto per l’imposizione di fasce di rispetto stradale. Come chiarito dalla giurisprudenza, da tempo costante, non sono indennizzabili “i vincoli posti a carico di intere categorie di beni (tra questi, i vincoli urbanistici di tipo conformativo, e i vincoli relativi ai beni culturali e paesaggistici). In altri termini, in tema di imposizione di vincoli urbanistici, non vi è il presupposto per un indennizzo quando i modi di godimento e i limiti imposti (direttamente dalla legge ovvero mediante un particolare procedimento amministrativo) riguardino intere categorie di beni secondo caratteristiche loro intrinseche, con carattere di generalità ed in modo obiettivo; in questi casi, le limitazioni delle facoltà del proprietario ricadono nella previsione non del comma terzo, bensì del comma secondo, dell'art. 42, Cost. Pertanto, i limiti non ablatori normalmente posti nei regolamenti urbanistici o nella pianificazione urbanistica e relative norme tecniche, riguardanti altezza, cubatura, superficie coperta, distanze, zone di rispetto, indici di fabbricabilità, limiti e rapporti per zone territoriali omogenee e simili, sono vincoli conformativi, connaturali alla proprietà, e non comportano indennizzo.”

Invero il provvedimento impugnato trova origine nella sentenza del Consiglio di Stato n. 2420 del 2009, nella quale si legge che, non avendo il Comune adottato il provvedimento ex art. 43, esso ha procrastinato nel tempo l’illecito da cui sorge, in capo allo stesso, l’obbligo della restituzione del terreno e del risarcimento del danno medio tempore prodotto, considerato che, contrariamente a quanto affermato nella sentenza di primo grado, il relativo diritto non può più, dopo il superamento della teoria dell’accessione invertita, ritenersi prescritto.
La sentenza ha, quindi, riconosciuto, come possibili strade alternative alla restituzione del bene, l’adozione di tale atto (e la conseguente corresponsione del risarcimento del danno), oppure il raggiungimento di un accordo per definire il trasferimento della proprietà.
Il Consiglio di Stato ha, inoltre, precisato che, in entrambe i casi, l’acquisto della proprietà non avrebbe comunque potuto che essere subordinato alla corresponsione del risarcimento del danno, quantificabile tenuto conto della “destinazione urbanistica delle aree al momento dell’inizio della procedura espropriativa, tenendo conto della sentenza della Corte Costituzionale n. 349 del 2007, che ha dichiarato incostituzionale l’art. 5-bis, comma 7-bis, del d.l. n. 333 del 1992”.
Il giudicato così formatosi deve, però, essere coordinato con le conseguenze della sopravvenuta dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 43 del DPR 327/2001 e il successivo intervento del legislatore mediante l’introduzione dell’art. 42-bis nel medesimo testo unico.
L’avvenuta censura della legittimità del provvedimento ex art. 43 del DPR 327/2001 adottato dal Comune nel caso di specie, infatti, ha impedito il consolidamento degli effetti del provvedimento, con la conseguenza che l’avvenuta dichiarazione di incostituzionalità della norma fondante non può che estendere la sua efficacia caducatoria anche nei confronti del medesimo.
È pur vero che l’art. 42-bis espressamente prevede che: “Le disposizioni del presente articolo trovano altresì applicazione ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se vi è già stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato”, ma, continua ancora la norma in parola, “deve essere comunque rinnovata la valutazione di attualità e prevalenza dell'interesse pubblico a disporre l'acquisizione; in tal caso, le somme già erogate al proprietario, maggiorate dell'interesse legale, sono detratte da quelle dovute ai sensi del presente articolo”.
Ciò vale a dire che il Collegio, annullato il provvedimento impugnato in ragione della dichiarazione di incostituzionalità della norma che ne ha legittimato l’adozione, non può che, ancora una volta, rimettere all’Amministrazione di adottare la soluzione ritenuta maggiormente idonea per addivenire al ripristino della corrispondenza tra situazione di fatto e situazione di diritto (restituendo i terreni o acquisendo la proprietà), non senza precisare che ciò rappresenta un dovere per l’Amministrazione, come recentemente affermato in modo esplicito dalla pronuncia del Consiglio di Stato, che si ritiene pienamente condivisibile, n. 6351 dell'01.12.2011.
In nessun caso, infatti, si può giungere ad una condanna puramente risarcitoria a carico dell’Amministrazione, poiché una tale pronuncia presuppone un avvenuto trasferimento della proprietà del bene o per fatto illecito coincidente con l’irreversibile destinazione ad uso pubblico del terreno di proprietà privata (precluso dal primo protocollo addizionale della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, come si legge nelle sentenze TAR Lazio, Roma, II-quater, 14.04.2011, n. 3260, TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, 01.07.2010, n. 1418) o mediante la stipula di un contratto o l’adozione di un provvedimento traslativo della proprietà (in entrambe i casi attività rimesse all’Amministrazione e che non possono essere sostituite dall’intervento del giudice).
Da qui la necessità di un passaggio intermedio, finalizzato all’acquisto della proprietà del bene da parte dell’ente espropriante (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 16.11.2007, n. 5830; TAR Campania-Napoli, Sez. V, 05.06.2009, n. 3124).
Entro quarantacinque giorni dalla comunicazione della presente sentenza, dunque, il Comune dovrà optare per una delle due soluzioni rappresentate, provvedendo a stipulare un contratto (laddove sia possibile ottenere la disponibilità delle controparti), a notificare l’avviso di avvio del procedimento preordinato all’acquisizione ex art. 42-bis (assegnando alle proprietarie un tempo non inferiore a dieci giorni per la formulazione delle proprie osservazioni, anche con riferimento alla quantificazione del risarcimento del danno offerta in tale occasione) ovvero ad adottare un atto formale attestante la scelta della restituzione del terreno.
Da tutto ciò discende, però, la necessità di procedere anche all’adeguamento dei criteri e dei parametri di cui l’Amministrazione dovrà tenere conto nella quantificazione del risarcimento del danno da offrire alle proprietarie, che dovrà avvenire alla luce delle novità introdotte dal legislatore.
A tale proposito deve essere preliminarmente chiarito, però, che, annullato il decreto ex art. 43 del D.P.R. 327/2001, qualora il Comune dovesse optare per la restituzione dei terreni, lo stesso sarà comunque tenuto a risarcire il danno per l’illegittima occupazione, calcolandone l’ammontare secondo il criterio di cui si darà conto nel prosieguo.
Qualora, invece, si dovesse optare per l’acquisto dei terreni occupati, si rende necessario puntualizzare che l’art. 42-bis del DPR 327/01, in modo del tutto innovativo, ha espressamente previsto che l’acquisto al patrimonio indisponibile dell’ente utilizzatore degli immobili trasformati, ma non espropriati, debba avvenire in modo non retroattivo.
Una tale precisazione (connessa al perseguimento dell’obiettivo di evitare possibili censure di incompatibilità del modo di acquisto della proprietà così disciplinato con i principi che regolano la materia, discendenti dall’art. 42 della Costituzione e dall’art. 1 del primo protocollo allegato alla CEDU) implica che, al contrario di quanto asserito da parte ricorrente, per la quantificazione del risarcimento del danno, il valore di mercato dei terreni occupati debba essere quello rilevabile al momento della traslazione della proprietà, ovvero quello proprio del momento in cui sarà adottato il provvedimento che dispone l’acquisizione ex art. 42-bis citato (in tal senso Cons. Stato, IV, 02.12.2011, n. 6375).
In tal modo viene meno ogni necessità di attualizzare i valori.
Specificato il momento di riferimento, il valore di mercato dovrà, quindi, essere ricercato tenendo conto della destinazione urbanistica delle aree alla data dell’immissione in possesso (rimanendo ininfluenti, come da sempre affermato dalla giurisprudenza, le successive vicende urbanistiche dell’area).
A tale data la destinazione urbanistica delle aree interessate dalla realizzazione dell’opera pubblica è descritta (nella perizia di stima del Comune, ma anche negli atti delle ricorrenti) in parte quale sede stradale (1400 mq), in parte quale fascia di rispetto stradale (555 mq) e per 578 mq quale area a standard urbanistici per attrezzature di interesse collettivo, con specifica destinazione a impianti sportivi all’interno del perimetro di Piano attuativo residenziale.
Il Collegio ritiene, però, che tale descrizione incorra in un errore di fondo, che prende le mosse dalla convinzione che la presenza dei vincoli determini anche la destinazione urbanistica delle aree. Invero solo la “destinazione a impianti sportivi all’interno del perimetro di Piano attuativo residenziale” è una vera e propria destinazione urbanistica. La “retinatura” che individuava la sede stradale aveva, invece, l’effetto di imporre un vincolo preordinato all’esproprio, ma non ha conferito all’area una nuova destinazione urbanistica, tanto più che la viabilità in questione risulta essere strumentale a garantire un’adeguata circolazione a favore di un’area edificabile.
E, peraltro, è principio ormai consolidato in giurisprudenza quello per cui, nella stima dei terreni espropriati ai fini della determinazione dell'indennità, non si può tener conto del vincolo espropriativo, né di vincoli d'inedificabilità previsti da strumenti generali preordinati all'espropriazione, ma deve tenersi conto soltanto dei vincoli previsti da strumenti urbanistici di ordine generale non preordinati all'esproprio, esistenti al momento del verificarsi della vicenda ablativa, nonché delle concrete ed intrinseche caratteristiche dei terreni che incidono sull'edificabilità di fatto degli stessi (cfr., ex multis e tra le più recenti, Cass. 15.01.2000, n. 425; 10.02.1999, n. 1113; 09.02.1999, n. 1090).
Dovendosi prescindere dal vincolo espropriativo ricadente specificamente sui suoli de quibus, quindi, la possibilità legale di edificazione deve essere desunta proprio dalla zona in cui essi erano collocati, per cui, se essa è classificata come edificabile dal P. di F. da assumersi come riferimento nel caso di specie, anche le superfici acquisite per la realizzazione della strada inserita nell’ambito di tale zona debbono essere qualificate come edificabili.
Nel caso in esame, quindi, dovendosi prescindere dal vincolo preordinato all’esproprio discendente dalla previsione urbanistica relativa alla realizzazione della strada (o meglio, del raccordo tra via Dosie e via Marchesi), non può trascurarsi come l’area espropriata confini sui due lati di via Dosie e sul lato in cui quest’ultima via si innesta nella via Marchesi, lungo il confine con questa, con aree a destinazione edificabile. In ragione di ciò e del fatto che il terreno espropriato risulta essere inserito in una zona conformata come edificabile dalla variante del Piano regolatore approvata il 29.02.1984, la destinazione a strada deve essere ritenuta quale vincolo espropriativo, da cui prescindere ai fini della quantificazione del risarcimento del danno (così come di quella che avrebbe dovuto essere l’indennità di espropriazione), dovendosi qualificare il terreno come a vocazione edificatoria (in termini del tutto analoghi si confronti la sentenza della Cassazione n. 434/2002).
Per quanto attiene al terreno occupato assoggettato ai limiti propri delle fasce di rispetto stradale, la giurisprudenza è concorde nel ritenere che il vincolo di inedificabilità ad esso connesso non abbia natura espropriativa, ma unicamente conformativa, in quanto riguarda una generalità di beni e di soggetti ed abbia, quindi, una funzione di salvaguardia della circolazione, indipendentemente dalla eventuale instaurazione di procedure espropriative (v. TAR Milano, 21.04.2011, n. 1019, TAR Puglia Lecce Sez. I, Sent., 19.10.2011, n. 1798). Anche in questo caso, quindi, il valore delle aree dovrà essere quantificato prescindendo dalla presenza della fascia di rispetto e considerando, quindi, le stesse come edificabili.
Le aree con “destinazione a impianti sportivi all’interno del perimetro di Piano attuativo residenziale”, infine, non possono nemmeno esse essere sottratte alla qualificazione come edificabili, proprio in ragione della loro inclusione nel perimetro del piano attuativo stesso. Ciononostante, nella determinazione del loro valore di mercato, che, si ribadisce, deve essere effettuata con riferimento al momento attuale (o meglio al momento in cui avverrà l’adozione dell’atto di acquisizione), non si potrà trascurare che lo stesso è sicuramente influenzato dalla circostanza per cui il piano attuativo approvato alcuni mesi dopo l’occupazione risulta (e non è stato fornito alcun principio di prova contrario) aver traslato la potenzialità edificatoria collegata a tale area su altra di proprietà delle odierne ricorrenti.
Nella quantificazione del risarcimento del danno, quindi, per la porzione di proprietà occupata allora soggetta a tale destinazione, il Comune dovrà verificare se, al momento dell’occupazione, al terreno fosse collegata una potenzialità edificatoria (per cui, anche se utilizzabile su altro terreno, ciò incideva sul valore incrementandolo) e la realizzazione dell’opera abbia comportato la perdita della volumetria connessa: in tal caso il valore di tale terreno deve essere considerato pari a quello delle aree edificabili. Se, invece, la potenzialità edificatoria risultasse essere stata sfruttata, anche in conseguenza della sua traslazione su altro terreno, allora tale circostanza non può che diminuire il valore di mercato del terreno, fino a parificarlo, sostanzialmente, a quello delle aree agricole.
Lo stesso valore, sostanzialmente pari al prezzo di mercato delle aree agricole, dovrà essere riconosciuto per le fasce vincolate a verde di rispetto, trattandosi in questo caso di un vincolo conformativo della proprietà conseguente alla inclusione delle aree nel Piano attuativo ed in alcun modo connesso (per quanto riguarda l’incidenza sul loro valore) con la realizzazione della strada.
Nessuna contestazione è mossa alla quantificazione dei frutti pendenti, con la conseguenza che rimane fermo l’ammontare del risarcimento fissato dal Comune in misura pari al controvalore in euro di 1.000.000 di Lire.
Nessun risarcimento è dovuto per l’imposizione di fasce di rispetto stradale. Come chiarito dalla, da tempo costante, giurisprudenza, non sono indennizzabili “i vincoli posti a carico di intere categorie di beni (tra questi, i vincoli urbanistici di tipo conformativo, e i vincoli relativi ai beni culturali e paesaggistici). In altri termini, in tema di imposizione di vincoli urbanistici, non vi è il presupposto per un indennizzo quando i modi di godimento e i limiti imposti (direttamente dalla legge ovvero mediante un particolare procedimento amministrativo) riguardino intere categorie di beni secondo caratteristiche loro intrinseche, con carattere di generalità ed in modo obiettivo; in questi casi, le limitazioni delle facoltà del proprietario ricadono nella previsione non del comma terzo, bensì del comma secondo, dell'art. 42, Cost. Pertanto, i limiti non ablatori normalmente posti nei regolamenti urbanistici o nella pianificazione urbanistica e relative norme tecniche, riguardanti altezza, cubatura, superficie coperta, distanze, zone di rispetto, indici di fabbricabilità, limiti e rapporti per zone territoriali omogenee e simili, sono vincoli conformativi, connaturali alla proprietà, e non comportano indennizzo.” (così TAR Umbria, 12.07.2007, n. 554, ma anche, da ultimo, Cons. Stato, VI, 04.04.2011, n. 2083).
In modo del tutto analogo e coerente, non sono suscettibili di indennizzo nemmeno i limiti derivanti dall’imposizione di una fascia di rispetto conseguente direttamente all’avvenuta realizzazione dell’opera (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 08.02.2012 n. 200 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEDichiarazione di pubblica utilità - Decreto di Espropriazione - Annullamento della dichiarazione di pubblica utilità - Caducazione del decreto di espropriazione.
La dichiarazione di pubblica utilità, esplicita o implicita deve essere valutata quale presupposto indefettibile del decreto di espropriazione, tanto che l'art. 8 del d.p.r. 2001 n. 327 considera la d.p.u. un presupposto di emanazione del decreto di espropriazione.
Del resto, l'art. 23 del d.p.r. n. 327 consente l'adozione del decreto di espropriazione solo entro il termine di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità.
In tal senso, un consistente orientamento giurisprudenziale giunge a qualificare in termini di presupposizione necessaria la relazione che intercorre tra la dichiarazione di pubblica utilità e il decreto di espropriazione, sicché l'annullamento con efficacia retroattiva della prima determina la caducazione automatica del secondo, comunque emanato (cfr. Consiglio di stato, sez. IV, 30.06.2003, n. 3896; Consiglio di stato, sez. IV, 29.01.2008, n. 258; Consiglio di stato, sez. IV, 19.03.2009, n. 1651.
Va, però, dato atto dell'esistenza di un diverso orientamento che esclude l'automatica caducazione in ragione dell'autonomia dell'effetto ablatorio riconducibile al solo decreto di espropriazione, così Consiglio di stato, sez. IV, 27.03.2009, n. 1869; TAR Puglia Lecce, sez. I, 07.07.2010, n. 1694) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 01.02.2012 n. 353 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONELa dichiarazione di pubblica utilità, esplicita o implicita, è presupposto indefettibile del decreto di espropriazione, tanto che l’art. 8 del d.p.r. 2001 n. 327 considera la d.p.u. un presupposto di emanazione del decreto di espropriazione.
Del resto, l’art. 23 del d.p.r. n. 327/2011 consente l’adozione del decreto di espropriazione solo entro il termine di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità.
In tal senso, un consistente orientamento giurisprudenziale giunge a qualificare in termini di presupposizione necessaria la relazione che intercorre tra la dichiarazione di pubblica utilità e il decreto di espropriazione, sicché l’annullamento con efficacia retroattiva della prima determina la caducazione automatica del secondo, comunque emanato.

Invero, è del tutto pacifico l’orientamento giurisprudenziale che considera la dichiarazione di pubblica utilità, esplicita o implicita, come nel caso di specie, quale presupposto indefettibile del decreto di espropriazione, tanto che l’art. 8 del d.p.r. 2001 n. 327 considera la d.p.u. un presupposto di emanazione del decreto di espropriazione.
Del resto, l’art. 23 del d.p.r. n. 327 consente l’adozione del decreto di espropriazione solo entro il termine di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità.
In tal senso, un consistente orientamento giurisprudenziale giunge a qualificare in termini di presupposizione necessaria la relazione che intercorre tra la dichiarazione di pubblica utilità e il decreto di espropriazione, sicché l’annullamento con efficacia retroattiva della prima determina la caducazione automatica del secondo, comunque emanato (cfr. Consiglio di stato, sez. IV, 30.06.2003, n. 3896; Consiglio di stato, sez. IV, 29.01.2008, n. 258; Consiglio di stato, sez. IV, 19.03.2009, n. 1651. Va, però, dato atto dell’esistenza di un diverso orientamento che esclude l’automatica caducazione in ragione dell’autonomia dell’effetto ablatorio riconducibile al solo decreto di espropriazione, così Consiglio di stato, sez. IV, 27.03.2009, n. 1869; TAR Puglia Lecce, sez. I, 07.07.2010, n. 1694) (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 01.02.2012 n. 353 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - ESPROPRIAZIONEL’art. 42-bis, VIII comma, del DPR n. 327/2001 prevede che l’istituto dell’acquisizione sanante ivi disciplinato trova applicazione anche ai fatti anteriori all’entrata in vigore della norma ed anche se vi è già stato un provvedimento di acquisizione successivamente annullato, previa, comunque, rinnovazione della valutazione di attualità e prevalenza dell'interesse pubblico a disporre l'acquisizione (da effettuarsi da parte dell’organo competente ex lege) e condizionatamente, altresì, alla corresponsione al proprietario di un indennizzo per i pregiudizi patrimoniale e non patrimoniale determinati, il primo “in misura corrispondente al valore venale del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità”, ed il secondo in misura forfetaria pari al dieci per cento del valore venale del bene; oltre al risarcimento del danno per l’occupazione abusiva da liquidarsi nella misura del cinque per cento sempre in relazione al valore venale del bene.
Ai fini del computo del “valore venale del bene” deve aversi riguardo ai criteri indicati dal medesimo DPR n. 327/2001, il quale stabilisce che nell'ipotesi di espropriazione di un’area non edificabile coltivata (come quella di specie) l’indennità è determinata in relazione al valore agricolo del terreno tenendo conto delle colture effettivamente praticate (art. 40, I comma), a cui va aggiunta un’indennità per il fittavolo pari a quella spettante al proprietario (art. 42).
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E' illegittima, per violazione dell’art. 42, II comma, lett. l), del DLgs n. 267/2000, la delibera di Giunta Comunale con cui è stata rinnovata la valutazione di attualità e prevalenza dell'interesse pubblico a disporre l'acquisizione delle aree di cui è causa: il Consiglio comunale, infatti, è chiamato ad esprimere gli indirizzi politici ed amministrativi di rilievo generale che si traducono in atti fondamentali di natura programmatoria o aventi elevato contenuto di indirizzo politico, tassativamente elencati, mentre la Giunta ha una competenza residuale in quanto compie tutti gli atti non riservati dalla legge al Consiglio o non ricadenti nelle competenze, previste dalle leggi o dallo statuto, del Sindaco o di altri organi.
In quest'ottica, pertanto, va affermata la competenza del Consiglio comunale, e non della Giunta, in materia di alienazioni ed acquisiti immobiliari, giusta, altresì, la puntuale determinazione contenuta nel richiamato art. 42, II comma, lett. l), del DLgs n. 267/2000.

... considerato:
- che, pregiudizialmente, il collegio non ritiene di condividere l’eccezione di incostituzionalità dell’art. 42-bis del DPR n. 327/2001, atteso che i principi comunitari impongono che i modi di acquisto della proprietà siano previsti –e nel nostro ordinamento sono previsti– dalla legge e che il proprietario espropriato sia congruamente risarcito;
- che, in punto di diritto, va premesso che l’art. 42-bis, VIII comma, del DPR n. 327/2001 prevede che l’istituto dell’acquisizione sanante ivi disciplinato trova applicazione anche ai fatti anteriori all’entrata in vigore della norma ed anche se vi è già stato un provvedimento di acquisizione successivamente annullato, previa, comunque, rinnovazione della valutazione di attualità e prevalenza dell'interesse pubblico a disporre l'acquisizione (da effettuarsi da parte dell’organo competente ex lege) e condizionatamente, altresì, alla corresponsione al proprietario di un indennizzo per i pregiudizi patrimoniale e non patrimoniale determinati, il primo “in misura corrispondente al valore venale del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità”, ed il secondo in misura forfetaria pari al dieci per cento del valore venale del bene; oltre al risarcimento del danno per l’occupazione abusiva da liquidarsi nella misura del cinque per cento sempre in relazione al valore venale del bene;
- che ai fini del computo del “valore venale del bene” deve aversi riguardo ai criteri indicati dal medesimo DPR n. 327/2001, il quale stabilisce che nell'ipotesi di espropriazione di un’area non edificabile coltivata (come quella di specie) l’indennità è determinata in relazione al valore agricolo del terreno tenendo conto delle colture effettivamente praticate (art. 40, I comma), a cui va aggiunta un’indennità per il fittavolo pari a quella spettante al proprietario (art. 42);
- che nel determinare gli importi dovuti a titolo indennitario e risarcitorio per la disposta acquisizione l’impugnato provvedimento appare rispettoso delle prescrizioni commisuratorie individuate dal predetto art. 42-bis del DPR n. 327/2001 con riguardo al valore dei beni abusivamente utilizzati dal Comune di Colognola ai Colli, fatta eccezione per l’indennità aggiuntiva dovuta al fittavolo, di cui non pare essersi tenuto conto;
- che, nel merito, è fondato il motivo di censura con cui i ricorrenti denunciano l’illegittimità, per violazione dell’art. 42, II comma, lett. l), del DLgs n. 267/2000, della delibera giuntale n. 113/2011 con cui è stata rinnovata la valutazione di attualità e prevalenza dell'interesse pubblico a disporre l'acquisizione delle aree di cui è causa: il Consiglio comunale, infatti, è chiamato ad esprimere gli indirizzi politici ed amministrativi di rilievo generale che si traducono in atti fondamentali di natura programmatoria o aventi elevato contenuto di indirizzo politico, tassativamente elencati, mentre la Giunta ha una competenza residuale in quanto compie tutti gli atti non riservati dalla legge al Consiglio o non ricadenti nelle competenze, previste dalle leggi o dallo statuto, del Sindaco o di altri organi.
In quest'ottica, pertanto, va affermata la competenza del Consiglio comunale, e non della Giunta, in materia di alienazioni ed acquisiti immobiliari, giusta, altresì, la puntuale determinazione contenuta nel richiamato art. 42, II comma, lett. l), del DLgs n. 267/2000: con correlata illegittimità derivata del consequenziale provvedimento dirigenziale, analogamente impugnato (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 31.01.2012 n. 96 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONERientrano nella materia espropriativa non solo le controversie che abbiano per oggetto i provvedimenti emanati nel corso di un ordinario procedimento espropriativo, tra i quali in particolare quelli recanti la dichiarazione di pubblica utilità, ma anche quelle che hanno per oggetto i provvedimenti di acquisizione sanante (in precedenza previsti e disciplinati dall’art. 43 del d.P.R. n. 327/2001, ed oggi previsti e disciplinati, dopo la dichiarazione di incostituzionalità della predetta norma, dall’art. 42-bis dello stesso d.P.R.) ai quali non può essere negata valenza espropriativa.
Invero, secondo la prevalente giurisprudenza, rientrano in tale materia non solo le controversie che abbiano per oggetto i provvedimenti emanati nel corso di un ordinario procedimento espropriativo, tra i quali in particolare quelli recanti la dichiarazione di pubblica utilità, ma anche quelle che hanno per oggetto i provvedimenti di acquisizione sanante (in precedenza previsti e disciplinati dall’art. 43 del d.P.R. n. 327/2001, ed oggi previsti e disciplinati, dopo la dichiarazione di incostituzionalità della predetta norma, dall’art. 42-bis dello stesso d.P.R.) ai quali non può essere negata valenza espropriativa (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 26.11.2009 n. 7446; TAR Sicilia Palermo, sez. III, 07.06.2010, n. 7237) (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 30.01.2012 n. 322 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: R. Greco, IL RISARCIMENTO DEL DANNO DA OCCUPAZIONE ILLEGITTIMA: PROFILI SOSTANZIALI E PROCESSUALI (link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: E' illegittimo il decreto di esproprio adottato dopo la scadenza del termine finale della procedura espropriativa.
La giurisprudenza civile ed amministrativa, dal canto suo, ha sempre considerato illegittimo il decreto di esproprio adottato dopo la scadenza del termine finale della procedura espropriativa (cfr., fra le tante, Cassazione civile, sez. I, 27.04.2011, n. 9370; TAR Sicilia, Catania, sez. II, 23.12.2011, n. 3184 e TAR Campania, Napoli, sez. V, 04.05.2010, n. 2509, con la giurisprudenza ivi richiamata) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.01.2012 n. 257 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONIL. 2359/1865, art. 13 - Termine iniziale e finale della procedura e per il completamento dei lavori - Non applicabilità ai Piani di zona di edilizia popolare - L. 167/1962, art. 9 - Durata del Piano di zona - 18 anni - Vincolo espropriativo di durata pari a quella del Piano.
Secondo un condivisibile orientamento giurisprudenziale, la disciplina dettata dall'art. 13 della legge 25.06.1865 n. 2359, in materia di apposizione dei termini, iniziale e finale, per l'espletamento delle procedure espropriative e per l'inizio ed il completamento dei relativi lavori, non è applicabile alle espropriazioni attinenti ai piani di zona per l'edilizia economica e popolare, essendo sostituito ed assorbito dalle disposizioni che delimitano nel tempo ope legis l'efficacia dei piani stessi (Consiglio Stato, sez. IV, 26.04.2006, n. 2339).
Si tratta dell'art. 9 L. 167/1962 che fissa la durata del Piano in diciotto anni, stabilendo altresì che durante l'efficacia del Piano le aree in esso ricomprese rimangono soggette ad espropriazione, offrendo così quelle garanzie di certezza di durata della procedura espropriativa che costituisce la ratio dell'art. 13 L. 2359/1865 (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 17.01.2012 n. 157 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE - URBANISTICAIl dies a quo per la determinazione dell'indennità in caso di pubblica utilità implicita decorre inderogabilmente dalla pianificazione attuativa.
Secondo il Consiglio di Stato il chiaro disposto dell’ultimo comma dell'art. 20 del d.P.R. nr. 327 del 2001, a mente del quale, qualora la dichiarazione di pubblica utilità sia implicita nell’approvazione di un piano esecutivo, il dies a quo del procedimento di determinazione dell’indennità corrisponde al momento dell’approvazione del piano di attuazione di questo, non vale a superare le doglianze ritenute pur comprensibili sul piano umano avanzate nel caso di specie dai ricorrenti che lamentano come in tal caso, dovendosi il piano esecutivo predisporsi entro 25 anni dall’approvazione del P.E.E.P., vi sia una indefinita deminutio di valore dei suoli in loro proprietà a fronte di una contropartita economica che, in considerazione della non verde età degli interessati, potrebbe intervenire in un momento in cui sarà inidonea a costituire seria e concreta utilità (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.01.2012 n. 23 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEE’ sufficiente che la notifica degli atti espropriativi sia stata fatta ai proprietari risultanti dai registri catastali, non essendo tenuta l’Amministrazione, alla stregua delle disposizioni contenute nell’art. 10 L. 22.10.1971 n. 865, ad effettuare specifiche indagini sull’attualità del titolo emergente da tali registri, salvo che da data certa anteriore all’avvio del procedimento espropriativo risulti notificato all’ente procedente, a cura dell’effettivo proprietario del bene fatto oggetto di ablazione, la sua nuova ed effettiva qualità.
Il principio di che trattasi non può subire deroghe neppure quando l’intestatario catastale sia un soggetto terzo, il quale non abbia mai avuto la proprietà del bene oggetto di espropriazione, ma al quale il bene sia stato “volturato” per mero errore. Infatti, ammettere che in simili casi la comunicazione degli atti espropriativi possa essere considerata invalida significherebbe onerare la Amministrazione -al fine di evitare l’insorgere di controversie- di effettuare verifiche di tipo esplorativo, che contraddicono alla presunzione di legittimità degli atti catastali e che, comunque, il legislatore ha inteso evitare al fine di garantire la speditezza dalla azione amministrativa. D’altro canto significherebbe far scontare alla Amministrazione procedente errori che non le sono minimamente addebitabili e che essa a buon diritto é tenuta a prendere in considerazione, nel suo agire, solo allorquando tali errori constino da atti non contestati, o non contestabili, dei quali la Amministrazione medesima abbia ricevuto una comunicazione ufficiale.
Una volta che l’Amministrazione procedente abbia ritualmente effettuato le notifiche agli intestatari catastali, la mancata notifica ai proprietari effettivi non può assumere carattere invalidante degli atti stessi o di quelli successivi, né legittima gli effettivi proprietari ad impugnare tardivamente gli atti espropriativi: tale decadenza consegue, a guisa di corollario, al principio per cui la notifica agli intestatari catastali integra conoscenza legale degli atti della procedura espropriativa anche in capo ai proprietari effettivi.

Il principio della sufficienza della notifica degli atti della procedura espropriativa ai soggetti proprietari in base alle risultanze catastali si era già consolidato in Giurisprudenza in costanza della L. 865/1971, nel vigore della quale sono stati approvati tutti gli atti impugnati nell’ambito del presente giudizio.
Ancora di recente il Consiglio di Stato, sez. IV, con sentenza n. 212 del 14.04.2010 ha avuto modo di ricordare che “E’ sufficiente che la notifica degli atti espropriativi sia stata fatta ai proprietari risultanti dai registri catastali, non essendo tenuta l’Amministrazione, alla stregua delle disposizioni contenute nell’art. 10 L. 22.10.1971 n. 865, ad effettuare specifiche indagini sull’attualità del titolo emergente da tali registri, salvo che da data certa anteriore all’avvio del procedimento espropriativo risulti notificato all’ente procedente, a cura dell’effettivo proprietario del bene fatto oggetto di ablazione, la sua nuova ed effettiva qualità.”.
Il Collegio é dell’opinione che il principio di che trattasi non possa subire deroghe neppure quando –come pare sia avvenuto nel caso di specie– l’intestatario catastale sia un soggetto terzo, il quale non abbia mai avuto la proprietà del bene oggetto di espropriazione, ma al quale il bene sia stato “volturato” per mero errore. Infatti, ammettere che in simili casi la comunicazione degli atti espropriativi possa essere considerata invalida significherebbe onerare la Amministrazione -al fine di evitare l’insorgere di controversie- di effettuare verifiche di tipo esplorativo, che contraddicono alla presunzione di legittimità degli atti catastali e che, comunque, il legislatore ha inteso evitare al fine di garantire la speditezza dalla azione amministrativa. D’altro canto significherebbe far scontare alla Amministrazione procedente errori che non le sono minimamente addebitabili e che essa a buon diritto é tenuta a prendere in considerazione, nel suo agire, solo allorquando tali errori constino da atti non contestati, o non contestabili, dei quali la Amministrazione medesima abbia ricevuto una comunicazione ufficiale.
Non é insomma sufficiente che la Amministrazione sia a conoscenza di fatti che siano in grado di insinuare il dubbio sulla effettiva titolarità del bene assoggettato ad espropriazione, poiché non é l’Amministrazione a dover effettuare gli accertamenti. Sono gli interessati a doversi attivare per rendere la Amministrazione edotta, in maniera compiuta, della effettiva realtà.
Va ancora rilevato che, una volta che l’Amministrazione procedente abbia ritualmente effettuato le notifiche agli intestatari catastali, la mancata notifica ai proprietari effettivi non può assumere carattere invalidante degli atti stessi o di quelli successivi, né legittima gli effettivi proprietari ad impugnare tardivamente gli atti espropriativi: tale decadenza consegue, a guisa di corollario, al principio per cui la notifica agli intestatari catastali integra conoscenza legale degli atti della procedura espropriativa anche in capo ai proprietari effettivi. Per tale ragione il Collegio ritiene condivisibile la pronuncia del Consiglio di Stato n. 7014 del 30.11.2006, richiamata dalla difesa del Comune, che ha affermato il dianzi ricordato principio di diritto (TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 02.01.2012 n. 4 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2011

ESPROPRIAZIONEAree fabbricabili: una sentenza della Corte costituzionale tutela il diritto alla proprietà. Indennità di esproprio al sicuro. Garantito un ragionevole rapporto con il valore del suolo.
Per la Consulta, l'indennità di esproprio di un'aera fabbricabile non può essere totalmente azzerata (confiscata) per effetto dell'assenza di un valore minimo di riferimento, in caso di omissione della presentazione della dichiarazione Ici.
Questo, in estrema sintesi, il principio sancito dalla Corte costituzionale che,
con la sentenza 22.12.2011 n. 338, è intervenuta sull'illegittimità costituzionale del comma 1, dell'art. 16, del dlgs n. 504/1992, come trasfuso, con decorrenza dal 30/06/2003, nel comma 7, dell'art. 37, del dpr 327/2001.
La questione di illegittimità parte dall'assunto, indicato nelle disposizioni richiamate, che «l'indennità è ridotta a un importo pari al valore indicato nell'ultima dichiarazione o denuncia presentata dall'espropriato ai fini dell'imposta comunale sugli immobili prima della determinazione formale dell'indennità (_), qualora il valore dichiarato risulti contrastante con la normativa vigente e inferiore all'indennità di espropriazione come determinata in base ai commi precedenti».
Di conseguenza, in assenza di una dichiarazione ai fini del tributo locale o per indicazione di un valore irrisorio, l'indennità si sarebbe potuta azzerare per carenza del valore di riferimento, stante il fatto che le disposizioni richiamate condizionano la quantificazione dell'indennità all'originario comportamento tenuto ai fini tributari dall'espropriato.
Sul punto, con la recente sentenza 21/07/2000 n. 351, la stessa Corte costituzionale aveva dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate, con riferimento a taluni articoli della carta costituzionale per irragionevole disparità di trattamento tra espropriato e proprietario privato dell'immobile (art. 3), per disparità di trattamento tra evasori totali ed evasori parziali (articoli 3 e 24), per inadeguatezza della sanzione o indennizzo (art. 42, terzo comma), per la natura extrafiscale della sanzione per mancato rispetto di un dovere tributario (art. 53) e per l'arbitrario e indiretto recupero di un tributo non più dovuto a soggetto espropriato (art. 97); l'infondatezza delle questioni sollevate, per la Consulta, non modificava i criteri stabiliti per il calcolo dell'indennizzo, di cui all'art. 5-bis, dl 333/1992, come modificato dal comma 65, dell'art. 3, legge 662/1996.
Per la Consulta, la sanzione relativa alla riduzione dell'indennità di esproprio, in caso di omessa o dichiarazione infedele (ai fini Ici) trova applicazione con riferimento all'ultima dichiarazione o denuncia presentata, a prescindere da eventuali ravvedimenti o presentazioni spontanee successive alla determinazione formale dell'indennità, resta esclusa ogni possibilità di garantire un valore minimo garantito, ma la vanificazione totale del ristoro resta costituzionalmente illegittima, a prescindere che la misura sanzionatoria sia dipendente o meno dalla volontà dell'espropriato o da un mero errore.
Di conseguenza, ancorché le disposizioni possano essere ritenute applicabili per effetto del comportamento omissivo del contribuente, non si può non tenere conto del principio della tutela del diritto della proprietà, di cui al terzo comma, dell'art. 42 della carta costituzionale e di quanto sancito dall'art. 1 per primo protocollo addizionale della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (Cedu).
Pertanto, la Corte costituzionale ha concluso che la norma censurata (art. 16, dlgs n. 504/1992), nell'interpretazione fornita dalle sezioni unite, viola gli articoli 42, terzo comma e 117, primo comma, della carta, con riferimento a quanto indicato dal citato art. 1 del protocollo addizionale Cedu, poiché «non contempla alcun meccanismo che, in caso di omessa dichiarazione/denuncia Ici, consenta di porre un limite alla totale elisione di tale indennità, garantendo comunque un ragionevole rapporto tra il valore venale del suolo espropriato e l'ammontare dell'indennità», anche in presenza di una denuncia a valori irrisori; di fatto, via libera alla possibile applicazione di sanzioni, anche deterrenti, a cura del legislatore, ma da escludere la «reale» confisca del bene (articolo ItaliaOggi del 27.12.2011 - tratto da www.corteconti.it).

ESPROPRIAZIONEESPROPRI/ Indennità non azzerabile. Anche in mancanza della dichiarazione Ici. Sentenza della Consulta sul decreto legislativo 504 del 1992.
L'indennità di esproprio di un'area fabbricabile non può essere totalmente azzerata (confiscata) per effetto dell'assenza di un valore minimo di riferimento, in caso di omissione della presentazione della dichiarazione Ici.
Questo, in estrema sintesi, il principio sancito dalla Consulta che, con la sentenza 22.12.2011 n. 338 di ieri è intervenuta sull'illegittimità costituzionale del comma 1, dell'art. 16, del dlgs n. 504/1992, come trasfuso, con decorrenza dal 30/06/2003, nel comma 7, dell'art. 37, del dpr 327/2001.
La questione di illegittimità parte dall'assunto, indicato nelle disposizioni richiamate, che «_ l'indennità è ridotta a un importo pari al valore indicato nell'ultima dichiarazione o denuncia presentata dall'espropriato ai fini dell'imposta comunale sugli immobili prima della determinazione formale dell'indennità (_), qualora il valore dichiarato risulti contrastante con la normativa vigente e inferiore all'indennità di espropriazione come determinata in base ai commi precedenti_».
Di conseguenza, in assenza di una dichiarazione ai fini del tributo locale o per indicazione di un valore irrisorio, l'indennità si sarebbe potuta azzerare per carenza del valore di riferimento, stante il fatto che le disposizioni richiamate condizionano la quantificazione dell'indennità all'originario comportamento tenuto ai fini tributari dall'espropriato.
Sul punto, con la recente sentenza 21/07/2000 n. 351, la stessa Corte costituzionale aveva dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate, con riferimento a taluni articoli della carta costituzionale per irragionevole disparità di trattamento tra espropriato e proprietario privato dell'immobile (art. 3), per disparità di trattamento tra evasori totali ed evasori parziali (artt. 3 e 24), per inadeguatezza della sanzione o indennizzo (art. 42, terzo comma), per la natura extrafiscale della sanzione per mancato rispetto di un dovere tributario (art. 53) e per l'arbitrario e indiretto recupero di un tributo non più dovuto a soggetto espropriato (art. 97); l'infondatezza delle questioni sollevate, per la Consulta, non modificava i criteri stabiliti per il calcolo dell'indennizzo, di cui all'art. 5-bis, dl 333/1992, come modificato dal comma 65, dell'art. 3, legge 662/1996.
Per la Consulta, la sanzione relativa alla riduzione dell'indennità di esproprio, in caso di omessa o dichiarazione infedele (ai fini Ici) trova applicazione con riferimento all'ultima dichiarazione o denuncia presentata, a prescindere da eventuali ravvedimenti o presentazioni spontanee successive alla determinazione formale dell'indennità, resta esclusa ogni possibilità di garantire un valore minimo garantito, ma la vanificazione totale del ristoro resta costituzionalmente illegittima, a prescindere che la misura sanzionatoria sia dipendente o meno dalla volontà dell'espropriato o da un mero errore.
Di conseguenza, ancorché le disposizioni possano essere ritenute applicabili per effetto del comportamento omissivo del contribuente, non si può non tenere conto del principio della tutela del diritto della proprietà, di cui al terzo comma, dell'art. 42 della Carta costituzionale e di quanto sancito dall'art. 1 per primo protocollo addizionale della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (Cedu).
Pertanto, conclude la Corte costituzionale, la norma censurata (art. 16, dlgs n. 504/1992), nell'interpretazione fornita dalle sezioni unite, viola gli articoli 42, terzo comma e 117, primo comma, della carta, con riferimento a quanto indicato dal citato art. 1 del protocollo addizionale Cedu, poiché «_ non contempla alcun meccanismo che, in caso di omessa dichiarazione/denuncia Ici, consenta di porre un limite alla totale elisione di tale indennità, garantendo comunque un ragionevole rapporto tra il valore venale del suolo espropriato e l'ammontare dell'indennità_», anche in presenza di una denuncia a valori irrisori; di fatto, via libera alla possibile applicazione di sanzioni, anche deterrenti, a cura del legislatore, ma da escludere la «reale» confisca del bene (articolo ItaliaOggi del 23.12.2011).

ESPROPRIAZIONEDifferenza tra l'istituto dell'accessione invertita e della retrocessione.
L’istituto dell’accessione invertita, di creazione giurisprudenziale (Cass. Sez. Un., 26.02.1983 n. 1264; 10.06.1988 n. 3940) presuppone una occupazione di un bene da parte della P.A. (quantomeno) in assenza di legittima conclusione del procedimento espropriativo entro i termini previsti dalla dichiarazione di pubblica utilità. Proprio per questo, la giurisprudenza ha collegato l’effetto acquisitivo del diritto di proprietà alla irreversibile destinazione del suolo all’opera pubblica, con diritto al risarcimento del danno conseguente all’illecito commesso dalla pubblica amministrazione.
Da ciò consegue l’incompatibilità, sul piano logico–giuridico, dell'istituto dell'accessione invertita e della retrocessione: ed infatti, se si ritiene configurarsi accessione invertita non vi è stata espropriazione e, quindi, non può esservi retrocessione (l’area non può non essere stata dichiarata come “irreversibilmente trasformata”); se invece si richiede la retrocessione, non si può che essere in presenza di un bene in precedenza espropriato e, in tutto o in parte, non utilizzato per le finalità di interesse pubblico legittimanti la precedente espropriazione.
Occorre, infine, notare che il legislatore, anche quando ha inteso estendere l’istituto della retrocessione alla ben più semplice ipotesi di procedimenti espropriativi non conclusisi con il decreto di esproprio (ma per il tramite di cessione volontaria), lo ha espressamente affermato (v. art. 45, co. 4, DPR n. 327/2001) (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15.12.2011 n. 6619 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEOccupazione sine titulo della P.A.: il Consiglio di Stato fa il punto in ordine alla vecchia e all'attuale normativa.
Il Consiglio di Stato procede nell'excursus della normativa in materia di occupazione sine titolo evidenziando in primis come l'abrogato art. 43 del Testo Unico sugli espropri era stato emanato dal legislatore delegato per consentire una ‘legale via di uscita’ per i moltissimi casi in cui una P.A. avesse occupato senza titolo un’area di proprietà altrui, in assenza di un valido ed efficace decreto di esproprio.
In precedenza, la prassi giudiziaria nazionale –innovando dal 1983 rispetto alla precedente ultrasecondare giurisprudenza della Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato che avevano costantemente ammesso la immanente titolarità di un potere di esproprio in sanatoria- si era consolidata nel senso dell’acquisto dell’area da parte dell’amministrazione nel caso di irreversibile destinazione di un’area, per la quale fosse stata dichiarata la pubblica utilità dell’opera da realizzare.
Poiché tale prassi era stata qualificata dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo come ‘sistematica violazione’ delle disposizioni della Convenzione del 1950, sulla tutela del diritto di proprietà, l’art. 43 aveva dunque consentito che –in presenza di un effettivo interesse pubblico, rilevato nell’atto ablatorio– l’amministrazione avrebbe potuto adeguare la situazione di fatto a quella di diritto, risarcendo integralmente il danno cagionato al proprietario ed esercitando il potere di acquisizione dell’area detenuta senza titolo. Con la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 43 del testo unico operato dalla Corte Costituzione (sentenza n. 293/2010) non era però divenuto applicabile l’istituto della accessione.
Tale istituto era stato sempre escluso dalla pacifica giurisprudenza sin dalla seconda metà dell’Ottocento. Infatti, la realizzazione di un’opera pubblica o di interesse pubblico, quando avvenga legittimamente, in esecuzione di atti di natura ablatoria solo successivamente annullati in sede di giustizia amministrativa, ha la propria peculiarità nella avvenuta realizzazione di opere nell’interesse della collettività(e in esecuzione di provvedimenti) e comporta il verificarsi di situazioni irriducibili a quelle disciplinate dal codice civile, le cui disposizioni dunque non si applicano.
Secondo il Collegio, la sentenza della Corte n. 293 del 2010 aveva comportato il ritorno alla attualità del sistema normativo, risalente al 1865, sulla sussistenza del potere di esproprio in sanatoria, sistema sul quale si era consolidata la giurisprudenza della Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato (superata a partire dal 1983 dalla prassi nazionale postasi in contrasto con la CEDU). Infatti, in assenza di un valido ed efficace provvedimento di natura ablatoria, la richiamata plurisecolare giurisprudenza riconosceva il proprietario dell’area ancora come tale: ciò che il Supremo Consesso ribadisce, alla luce della pacifica giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
Mentre però la giurisprudenza civile (allora avente giurisdizione) riteneva che la tutela restitutoria spettante al proprietario fosse preclusa da un atto tacito di destinazione dell’area al pubblico servizio e dunque dall’art. 4 dell’allegato E della legge del 1865 (sulla abolizione del contenzioso amministrativo), tale preclusione si è posta in contrasto con i principi dello Stato di diritto, in quanto “l’atto di destinazione” non era preso in considerazione dalla legge.
In occasione della redazione del testo unico, il Consiglio di Stato aveva redatto l’art. 43, poi trasfuso nel testo unico sugli espropri, proprio per prevedere una legale via d’uscita, per dare una soluzione legislativa –con l’attribuzione di un potere discrezionale all’Amministrazione- ai casi che oramai stavano comportando la sistematica condanna della Repubblica Italiana innanzi alla CEDU, nei giudizi posti in essere dai proprietari che lamentavano di aver perso il loro diritto di proprietà, sulla base di sentenze pronunciate ex post e senza fondamento normativo, e non sulla base di atti amministrativi la cui emanazione fosse consentita dalla legge.
La sentenza della Corte Costituzionale –nel rilevare un eccesso di delega e nel dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 43– ha dunque fatto tornare l’ordinamento ad una peculiare situazione, in cui di certo da un lato non poteva disconoscersi il perdurante diritto di proprietà del titolare, malgrado la avvenuta costruzione dell’opera pubblica o di interesse pubblico, e dall’altro non poteva negarsi l’immanente potere di disporre l’esproprio in sanatoria, per evitare la demolizione di quanto costruito a spese della collettività e che, se del caso, ancora risultava conforme alle esigenze di questa.
L’art. 42-bis del decreto legge n. 98 del 2011, convertito nella legge n. 2011, ha reintrodotto il potere discrezionale già disciplinato dall’art. 43: l’amministrazione -valutate le circostanze e comparati gli interessi in conflitto– può decidere se demolire in tutto o in parte l’opera (affrontando le relative spese) e restituire l’area al proprietario, oppure se disporre l’acquisizione (evitando che sia demolito, paradossalmente, quanto altrimenti risulterebbe meritevole di essere ricostruito). L’art. 42-bis prevede, al comma 1, che l’Amministrazione, valutati gli interessi in conflitto, possa disporre, con formale provvedimento, l’acquisizione del bene, con la corresponsione al privato di un indennizzo per il pregiudizio subito, patrimoniale e non patrimoniale; al comma 8 prevede poi che le sue disposizioni “trovano altresì applicazione ai fatti anteriori”, sicché esso si applica senza alcun dubbio anche nella fattispecie in esame.
Anche nell’attuale quadro normativo, l’Amministrazione ha dunque l’obbligo giuridico di far venir meno la occupazione sine titulo e cioè deve adeguare la situazione di fatto a quella di diritto. Essa o deve restituire i terreni ai titolari, demolendo quanto realizzato e disponendo la riduzione in pristino, oppure deve attivarsi perché vi sia un titolo di acquisto dell’area da parte del soggetto attuale possessore (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 01.12.2011 n. 6351 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEDecreto di occupazione d'urgenza a seguito di dichiarazione di urgenza ed indifferibilità dell'opera - Motivazione - Non necessita.
In caso di intervenuta dichiarazione di urgenza ed indifferibilità dell'opera, il decreto di occupazione d'urgenza dei fondi oggetto della procedura espropriativa si pone quale ordinaria conseguenza, non necessitando quindi di specifica ed analitica motivazione, avendo la P.A., in un precedente atto della procedura espropriativa, già individuato le ragioni di urgenza (cfr. TAR Catanzaro, sent. n. 312/2011; TAR Milano, sent. n. 101/2011) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.11.2011 n. 2821 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEIl Consiglio di stato sulla manovra economica 2011. Espropri con scia. Illegittimità? C'è danno morale.
Se c'è espropriazione illegittima, c'è anche danno morale. Il cittadino che viene espropriato del proprio terreno ha diritto a che l'amministrazione, se sbaglia, paghi non solo il valore del bene. L'ente deve pagare anche i danni non patrimoniali. Può costare, dunque, molto caro non seguire le procedure. La manovra 2011 (decreto legge 98) appesantisce il conto delle espropriazioni (prevedendo appunto il ristoro del danno morale). E questo anche per vecchi espropri, iniziati prima dell'entrata in vigore del decreto 98 citato.
È quanto ha stabilito il Consiglio di stato, con la
sentenza 02.11.2011 n. 5844, chiamato a pronunciarsi su una lite insorta tra il comune di Nuoro e una serie di cittadini rimasti senza terreni.
L'amministrazione, infatti, decide di realizzare alcune opere di urbanizzazione del territorio. Ma il luogo prescelto coinvolge le proprietà di alcuni privati. Così, vengono approvati i progetti e si procede con un'occupazione d'urgenza, con valenza di dichiarazione di pubblica utilità. I terreni vengono progressivamente trasformati fino a ottenere una quadro irreversibile. Tuttavia, i decreti di espropriazione, necessari per completare la procedura di espropriazione, arrivano in ritardo. L'occupazione dell'amministrazione, nata come legittima, diviene illegittima. Si tratta, infatti, di un'occupazione appropriativa, non ammessa dalla legge.
Il tribunale amministrativo per la regione Sardegna, adito dai cittadini lesi dal comportamento dell'amministrazione, annulla l'espropriazione e quantifica i danni. I ricorrenti ritengono il risarcimento non appagante e si rivolgono in appello al Consiglio di stato, che rimescola le carte. La sentenza richiamata, oltre a ribadire che al cittadino dev'essere corrisposto un risarcimento del danno che sia rapportato al reale pregiudizio arrecato per la perdita della proprietà, ossia al valore venale del bene, fa un ulteriore passo in avanti. Ai danni patrimoniali, dice la Corte, si sommano quelli non patrimoniali. Con la «Manovra economica 2011», dl n. 98 del 06.07.2011, infatti, è stato introdotta una nuova norma nel Testo Unico in materia di espropriazioni, finalizzata a riconoscere al proprietario illecitamente espropriato un indennizzo comprensivo sia del pregiudizio patrimoniale sia di quello non patrimoniale.
Nel caso specifico quest'ultimo, visto come «danno morale», viene quantificato, in via equitativa, in 50 mila euro, da rivalutare sulla base degli indici Istat. Una bella somma, quindi, che va ad aggiungersi al valore venale del bene espropriato. E, soprattutto, un prezzo salato per l'amministrazione caduta in errore. Si noti come il riconoscimento del danno morale spetti anche ai cittadini espropriati prima dell'entrata in vigore della nuova legge che lo ha introdotto, fatti salvi i processi esauriti. Il che potrebbe incoraggiare i cittadini, oggi più di ieri, a ricorrere al giudice amministrativo, aumentando la mole del contenzioso in materia di espropriazioni illegittime (articolo ItaliaOggi del 28.03.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ESPROPRIAZIONEL'esproprio non è in regola? Scatta anche il danno morale.
Scatta anche il danno morale, oltre che quello patrimoniale, in favore del proprietario del terreno quando l'esproprio non è in regola. E ciò grazie alla manovra economica 2011 che ha reintrodotto l'istituto dell'acquisizione sanante.
Lo chiarisce la sentenza 02.11.2011 n. 5844 della V Sez. del Consiglio di Stato.
Il decreto legge 98/2011, che contiene la cosiddetta «manovra di luglio», all'articolo 34 aggiunge una nuova disposizione al Testo unico dell'espropriazione di cui al dpr 327/01 (introducendo l'articolo 42-bis). La novella prevede che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale patito dall'illegittima attività posta in essere dalla pubblica amministrazione, anche con riferimento ai fatti antecedenti (comma 8 della norma). Il riferimento al pregiudizio non patrimoniale contenuto nella disposizione, osservano i giudici di Palazzo Spada, costituisce una disposizione innovativa, che impone la necessità di opportuna considerazione anche in sede di risarcimento del danno per illecita occupazione.
La controversia, nella specie, nasce per l'illecita occupazione (temporanea e definitiva) delle aree impiegate nella realizzazione delle opere di urbanizzazione del rione di un comune sardo. E su questo punto, spiega il collegio, ci troviamo di fronte a un'obbligazione che deriva da un illecito extracontrattuale: si tratta, quindi, di un debito di valore e le relative somme, determinate con riferimento alla data della trasformazione irreversibile del bene, devono essere rivalutate secondo equità all'attualità sulla base degli indici Istat (nel caso concreto questa voce di danno è stimata in 50 mila euro, tenuto conto del valore complessivo del risarcimento che non è esiguo).
Risulta poi necessario il riconoscimento del danno da lucro cessante, costituito dalla perdita della possibilità di far fruttare la somma in questione: il danno, considerato il tempo trascorso e il graduale mutamento del potere di acquisto della moneta, è liquidato in via equitativa nella misura degli interessi legali sulle somme rivalutate anno per anno a decorrere dalla data dell'illecito, salvo detrarre quanto già eventualmente versato dal comune ai singoli proprietari interessati dalla procedura ablativa.
Per dirimere la controversia, infine, è rilevante anche la giurisprudenza costituzionale: dopo la sentenza 349/07 della Consulta, infatti, il meccanismo indennitario risulta inapplicabile anche per le occupazioni illegittime anteriori al 30.09.2006 e al proprietario deve essere corrisposto il risarcimento del danno, rapportato al pregiudizio arrecato per la perdita di proprietà del bene (articolo ItaliaOggi dell'08.11.2011 - link a www.ecostampa.it).

ESPROPRIAZIONE: Indennizzi espropriativi in Corte d'appello.
Per contestare un indennizzo espropriativo si va in Corte d'appello. L'articolo 29 del decreto legislativo 150/2011 elenca tra i procedimenti sottoposti al rito sommario di cognizione le controversie aventi ad oggetto l'opposizione alla stima di cui all'articolo 54 del decreto legislativo 327/2001 (Testo unico espropri), ma mantiene la competenza della Corte d'appello nel cui distretto si trova il bene espropriato.
L'opposizione va proposta, a pena di inammissibilità, entro il termine di trenta giorni dalla notifica del decreto di esproprio o dalla notifica della stima peritale, se quest'ultima sia successiva al decreto di esproprio. Il termine è raddoppiato (sessanta giorni) se il ricorrente risiede all'estero.
Il ricorso è notificato all'autorità espropriante, al promotore dell'espropriazione e, se del caso, al beneficiario dell'espropriazione, se attore è il proprietario del bene, o all'autorità espropriante e al proprietario del bene, se attore è il promotore dell'espropriazione. Il ricorso è notificato anche al concessionario dell'opera pubblica, se tenuto al pagamento dell'indennità.
La relazione illustrativa precisa che le controversie sono state ricondotte al rito sommario di cognizione, in considerazione del fatto che esse, nel loro pratico svolgimento, sono caratterizzate da una relativa semplicità quanto all'oggetto della controversia semplice, cui consegue ordinariamente un'attività istruttoria breve, a prescindere dalla natura delle situazioni giuridiche soggettive coinvolte o delle questioni giuridiche da trattare e decidere.
Di solito l'istruttoria è concentrata su una consulenza tecnica sul valore del bene espropriato.
Sono state mantenute ferme l'individuazione e la composizione dell'organo giudicante (la Corte d'appello, in grado unico di merito e la competenza territoriale, correlata al luogo in cui si trova il bene espropriato.
Sempre la relazione illustrativa spiega che sono state mantenute anche le seguenti peculiarità: il termine per la proposizione del ricorso, a pena di inammissibilità, di 30 giorni decorrente dalla notifica del decreto di esproprio o dalla notifica della stima peritale, se successiva al decreto di esproprio, aumentati a 60 giorni se il ricorrente risiede all'estero; i termini sono uniformati a quelli previsti nel decreto legislativo 150, e sono dichiarati termini posti a pena d'inammissibilità; l'obbligo di notifica del ricorso all'autorità espropriante, al promotore dell'espropriazione e, se del caso, al beneficiario dell'espropriazione, se attore è il proprietario del bene, ovvero all'autorità espropriante e al proprietario del bene, se attore è il promotore dell'espropriazione.
È stato ritenuto di mantenere la previgente dizione letterale della norma, che, secondo la giurisprudenza costante integra una ipotesi di mero avviso sulla pendenza del giudizio, rimanendo fermi i criteri elaborati dalla giurisprudenza per la individuazione del soggetto legittimato passivo rispetto alla pretesa fatta valere in giudizio (articolo ItaliaOggi del 13.10.2011).

ESPROPRIAZIONE: Esproprio aree agricole.
La Corte di Cassazione indica i criteri per l'applicazione alle aree agricole dell'indennizzo pari al valore venale del bene, a seguito della pronuncia della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittimo l'indennizzo parametrico.

La I Sez. civile della Corte di Cassazione, con la sentenza 29.09.2011 n. 19936, individua i casi in cui, a seguito della sentenza 181/2011 della Corte Costituzionale, per l'esproprio di suoli agricoli non edificabili, in luogo di un indennizzo parametrico definito dal valore agricolo medio, è dovuto un indennizzo pari al valore venale del bene, fissato dall'art. 39 della legge 25.06.1865 n. 2359.
Al riguardo la Suprema Corte ha dichiarato che il criterio del valore venale non si applica ai soli rapporti ormai esauriti in modo definitivo (per avvenuta formazione del giudicato o per essersi verificato altro evento cui l'ordinamento collega il consolidamento del rapporto medesimo) ovvero per essersi verificate preclusioni processuali (o decadenze e prescrizioni non direttamente investite, nei loro presupposti normativi, dalla pronuncia d'incostituzionalità); viceversa si applica nel caso in cui l'interessato, mediante apposita azione non ancora conclusa, abbia impedito la definitiva ed immodificabile determinazione dell'indennità.
Con l'occasione la Suprema Corte ha avuto modo di dichiarare che, per la determinazione del valore venale del bene, è consentito dimostrare, in base ad una documentata valutazione di mercato (determinata sempre all'interno della categoria suoli inedificabili e anche attraverso rigorose indagini tecniche), che il valore agricolo sia mutato e/o aumentato in conseguenza di una diversa destinazione del bene, egualmente compatibile con la sua ormai accertata non edificabilità tramite una autorizzabile utilizzazione intermedia tra l'agricola e l'edificatoria (parcheggi, impianti sportivi, ecc.) (commento tratto da www.legislazionetecnica.it).

ESPROPRIAZIONEEsproprio. Variante al Prg non basta.
Cittadino batte amministrazione. Bocciata la delibera del Comune, che paga pure le spese di giudizio ai privati. Stop al provvedimento che destina la strada privata, precedentemente al servizio di un fondo, alla viabilità pubblica dopo la decisione di costruire nuove case in zona. L'atto approvato dall'ente locale infatti non indica il titolo in base al quale si può procedere all'esproprio. Mentre sarebbe servito il piano di lottizzazione.

È quanto emerge dalla sentenza 29.09.2011 n. 5416 della IV Sez. del Consiglio di stato.
L'amministrazione è sconfitta su tutti i fronti. I privati proprietari del terreno dove passa la strada oggetto del procedimento ablativo hanno interesse a ricorrere contro la delibera del Comune, nonostante un mezzo passo indietro dell'ente. In linea di principio la scelta di programmazione non può essere ostacolata dai cittadini perché gli amministratori hanno tutto il diritto di dare al territorio l'assetto più confacente all'interesse pubblico per lo sviluppo delle aree: l'ente è quindi libero di dare il via a una nuova zona di espansione edificatoria e ai relativi collegamenti con il preesistente tessuto urbanistico.
Il fatto è che nella decisione l'esproprio non risulta giustificato: non si spiega quale concreto interesse generale legittimi l'ablazione, se ad esempio l'uso della strada privata si protragga da tempo immemorabile da parte di persone appartenenti alla comunità locale. Insomma: senza darne adeguatamente conto alla cittadinanza, il Comune non può assumere decisioni che investono posizioni di diritto già consolidate, come quella del proprietario di viabilità a servizio dell'azienda agricola da destinare invece al transito di tutti.
Non mostra, il Comune, l'analisi eventualmente effettuata dei rapporti e dei limiti del nuovo dimensionamento urbanistico del territorio. Né indica lo stato di attuazione delle prescrizioni del piano regolatore vigente. Diversamente da quanto impone la normativa regionale, l'ente non mette in relazione le nuove costruzioni all'andamento demografico sul territorio, che è poi la ragione per la quale la strada privata dovrebbe essere asservita alla viabilità.
Infine, di fronte alla nuova zonizzazione, la sede programmatoria urbanistica generale risulta inadeguata a individuare i collegamenti stradali resi necessari dalle nuove costruzioni: l'operazione compete di solito agli strumenti attuativi e, infatti, nella specie è la stessa variante a indicare ad hoc il piano di lottizzazione (articolo ItaliaOggi del 07.10.2011).

ESPROPRIAZIONE: Espropri: restituzione del fondo e riduzione in pristino
Il Consiglio di Stato conferma che il proprietario di un’area, occupata senza titolo per la realizzazione di un’opera pubblica, può legittimamente domandare nel giudizio di ottemperanza sia il risarcimento, sia la restituzione del fondo che la sua riduzione in pristino.

Il Consiglio di Stato, Sez. IV, con la sentenza 02.09.2011 n. 4970, prendendo in esame il ricorso di ottemperanza per l’esecuzione di una precedente sentenza che ha dichiarato illegittimi (e quindi decaduti) gli atti per l’acquisizione di un’area per la realizzazione di un’opera pubblica, ha dichiarato che, in caso di inerzia dell’Amministrazione nell’acquisire legittimamente il bene, è suo obbligo primario procedere alla restituzione della proprietà illegittimamente detenuta.
Con l’occasione viene evidenziato come, a seguito della sentenza 293/2010 della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittima la cd acquisizione sanante (articolo 43 del TU sulle espropriazioni), l’Amministrazione possa acquisire legittimamente il bene facendo uso dei due strumenti tipici, ossia il contratto (tramite l’acquisizione del consenso della controparte) o il provvedimento (e quindi anche in assenza di consenso ma tramite la riedizione del procedimento espropriativo con le sue garanzie), ai quali va aggiunto il possibile ricorso al procedimento espropriativo semplificato (articolo 42-bis del TU sulle espropriazioni, come introdotto dall’articolo 34, comma 1, del D.L. 98/2011 in materia di disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria, convertito in L. 15.07.2011 n. 111).
Pertanto, in assenza -da parte dell’Amministrazione- della concreta manifestazione che intenda acquisire legittimamente il bene, il proprietario può legittimamente domandare nel giudizio di ottemperanza sia il risarcimento, sia la restituzione del fondo che la sua riduzione in pristino.
Nel caso in esame, emergendo dagli atti come l’Amministrazione comunale non abbia fatto uso di nessuno dei mezzi giuridici a sua disposizione, rimanendo così integra la situazione di illegittimità nell’uso del bene, il Consiglio di Stato ne ha intimato la restituzione nel termine di 120 giorni; disponendo che, in caso di ulteriore inadempimento, a tale attività provveda il commissario ad acta nominato contestualmente (commento tratto da www.legislazionetecnica.it).

ESPROPRIAZIONE1. Occupazione temporanea di terreno limitrofo alle aree di realizzazione dell'opera pubblica - Finalità - Decorrenza del periodo autorizzato - Restituzione del terreno previo ripristino status quo ante - Necessità.
2. Occupazione temporanea di terreno limitrofo alle aree di realizzazione dell'opera pubblica - Indipendenza del procedimento di occupazione temporanea rispetto alla procedura espropriativa - Sussiste - Conseguenze.
3. Occupazione temporanea di terreno limitrofo alle aree di realizzazione dell'opera pubblica - Proroga dei termini per il completamento delle opere - Proroga dei termini dell'occupazione - Art. 20, Legge n. 865/1971 - Legittimità.

1. L'occupazione temporanea è un procedimento destinato a consentire l'uso di terreni di proprietà privata per scopi connessi all'esecuzione di un'opera dichiarata di pubblica utilità realizzata su altra proprietà e quindi limitato nel tempo: pertanto, decorso il periodo di tempo autorizzato (ovvero, se ciò avviene in un momento anteriore, venuta meno l'esigenza per effetto dell'avvenuta esecuzione dell'opera) il terreno così occupato e destinato agli specifici usi espressamente previsti nel provvedimento autorizzatorio deve essere restituito nella disponibilità del proprietario, previo ripristino dello status quo ante, ovvero indennizzo degli eventuali danni cagionati.
2. Per sua stessa natura il procedimento di occupazione temporanea è pienamente autonomo ed indipendente da un'eventuale procedura espropriativa: può verificarsi, infatti, come è avvenuto nel caso in esame, che l'occupazione temporanea si sia resa necessaria pur in assenza di qualsiasi procedura espropriativa, essendo prevista, la realizzazione dell'opera, interamente su altre proprietà: pertanto, il proprietario dei terreni occupati temporaneamente è legittimato a censurare i correlati provvedimenti solo con riferimento a profili di illegittimità propri degli stessi e limitati al loro specifico oggetto.
3. L'art. 20, Legge n. 865/1971, nel prevedere che l'occupazione può essere protratta fino a cinque anni dalla data di immissione in possesso, non esclude la prorogabilità del termine quando siano contestualmente prorogati i termini per il completamento delle opere e delle espropriazioni: pertanto, in caso di occupazione d'urgenza strumentale al completamento dei lavori e delle espropriazione relativi ad altre proprietà, la proroga dei termini relativi ai lavori ed agli espropri è atta a legittimare anche la proroga dell'occupazione d'urgenza, giacché non avrebbe senso differire il termine finale di completamento dei lavori se non si potesse prolungare l'occupazione (cfr. TAR Milano, sent. n. 4406/2009) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 02.09.2011 n. 2135 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEIndennizzi pieni sugli espropri illegittimi.
Lo Stato mette fine alle contestazioni sugli espropri per pubblica utilità che presentano errori od omissioni.
Dal 06.07.2011, l'articolo 34 del decreto legge 98/2011 (convertito dalla legge 111/2011) consente ai privati di ottenere il valore venale del bene, oltre a un indennizzo per danni morali e materiali subiti. Nello stesso tempo, le amministrazioni possono acquisire i beni che realmente loro servono. Le incertezze sanate coprono un arco di 20 anni, poiché i diritti su immobili (terreni e costruzioni) potrebbero essere cancellati solo dal decorso di 20 anni, cioè da un congruo periodo durante il quale si è subito un abuso senza contestarlo.
L'articolo 34 della legge 111/2011 pone termine a procedure remote, rimediando a incertezze sorte già all'indomani dei primi interventi per opere ed edilizia pubblica (legge 865/1971). La complessità delle procedure si è cumulata all'incertezza sugli indennizzi, la cui entità è rimasta per decenni affidata ad aggettivi ("serio", "non irrisorio") più che a formule di quantificazione. Anche quando (negli anni '80) si è riusciti a varare un indennizzo sulla base di formule precise, rispolverando la legge che nel 1885 autorizzava espropri per eliminare il dilagare del colera a Napoli, si è generato disordine, causando un atteggiamento intransigente della Corte dei diritti dell'uomo di Strasburgo.
Da un giudice sopranazionale sono quindi giunti segnali precisi (in centinaia di sentenze, dalla 36813/2006, Scordino, in poi), che hanno prevalso sulle opinioni delle più alte autorità giudiziarie nazionali, riuscendo a prevalere perfino sulle ragioni del fisco nazionale, che avrebbe voluto prelevare, sul l'importo dovuto ai proprietari privati del suolo, un cospicuo 25 per cento.
Oggi l'articolo 32 della legge 111/2011, inserendo un articolo 42-bis nel Testo unico espropri 327/2001, rimedia a una serie di incertezze e sposta l'equilibrio tra privati e pubbliche amministrazioni in senso favorevole ai primi. Non basta più che l'opera pubblica sia stata comunque eseguita, semmai solo attrezzando con qualche scivolo o "percorso vita" un'area verde in zona edificabile: occorre, per rimediare a errori su espropri, un serio giudizio di prevalenza della destinazione pubblica, sulla base di attuali ed eccezionali ragioni di interesse generale.
In tutti i casi in cui la procedura è stata sbagliata e il bene immobile non ha ricevuto da parte della pubblica amministrazione una destinazione irreversibile, cioè insuscettibile di utilizzazione da parte di un privato, occorre seriamente pensare a una restituzione. In conseguenza, mentre gli errori nei tracciati di strade, elettrodotti e servitù aeree (interventi privi di alternative), sono sanati con un congruo indennizzo (valore venale oltre ai danni), molte opere realizzate a metà dalle amministrazioni locali o rivelatesi incongrue potrebbero tornare ai loro vecchi proprietari.
Non basta più, in termini tecnici, l'immutatio loci, cioè l'alterazione delle caratteristiche iniziali (un'asfaltatura, una recinzione, poche attrezzature, la messa a dimora di un parco, un dislivello eliminabile) per rendere l'opera pubblica irreversibile. Occorre invece che emergano attuali ed eccezionali ragioni di pubblico interesse a mantenere pubblica la destinazione dell'area. E il pubblico interesse andrà valutato anche sulla base dell'esistenza di aree alternative, a suo tempo non considerate o non correttamente comparate. L'unico limite all'applicazione della norma del 2011 consiste nel consolidarsi delle procedure, poiché occorre che i privati abbiano contestazioni in corso, sulle quali poi poter innestare la procedura di acquisizione (o di restituzione).
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La procedura
01 | IL CENSIMENTO
L'ente che utilizza il bene deve censire gli immobili acquisiti senza un valido titolo, verificando il contenzioso pendente e le richieste nei limiti del termine di prescrizione (20 anni). Se il bene è stato assegnato a un terzo, occorre coinvolgere il soggetto che lo utilizza. Occorre poi delimitare gli interessi in conflitto, cioè verificare l'esistenza di un perdurante interesse pubblico a utilizzare il bene.
Occorre infine specificare l'attualità ed eccezionalità delle ragioni a favore del mantenimento del bene in mano pubblica, cioè l'effettiva utilizzazione e la mancanza di alternative valide. Il bene deve essere stato modificato in modo economicamente irreversibile (con spese di ripristino oggettivamente irragionevoli) o comunque essere indispensabile al raggiungimento dell'utilità generale
02 | LA DELIBERA
Occorre quindi una stima del valore venale del bene, del pregiudizio patrimoniale (interessi moratori, se il danneggiato è un imprenditore; interessi legali negli altri casi) e del pregiudizio non patrimoniale. A questo punto serve una delibera dell'Autorità che cura gli interessi cui è destinato il bene immobile, con motivazione e stima.
Quindi occorre reperire le risorse per il pagamento (debito fuori bilancio) e la notifica al proprietario con offerta di pagamento. Il pagamento va fatto entro 30 giorni dall'acquisizione con segnalazione dell'acquisizione alla Corte dei conti.
I fac simile
I casi del privato che vuole lasciare il bene e chiede l'indennizzo e di chi non vuole lasciarlo e ne chiede la restituzione All'amministrazione di ......................................... (ente che utilizza il bene immobile: Comune, Regione, Consorzio, Prefettura per le opere statali).

Il sottoscritto .......................................................... (dati anagrafici, codice fiscale) permesso di essere proprietario del bene immobile sito in ..................................................... (dati catastali: foglio, particella) attualmente utilizzato per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento,
chiede
che l'Autorità che utilizza il bene immobile provveda all'acquisizione del bene stesso corrispondendo al richiedente l'indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale.
In particolare, si precisa che il bene immobile è stato oggetto di ...................................................... (descrivere l'intervento pubblico che  ha coinvolto il bene oggi da acquisire), e che la procedura non è stata correttamente conclusa.
Per l'acquisizione del bene, si chiede il versamento dell'importo corrispondente al pregiudizio patrimoniale, pari al valore venale del bene in libero commercio, cui vanno aggiunti gli interessi annui e l'importo del pregiudizio non patrimoniale nella misura del 10% del valore venale del bene (20% nel caso di immobile destinato ad essere attribuito per finalità di interesse pubblico in uso speciale a soggetti privati).
Si chiede pertanto che l'amministrazione provveda ad adottare l'atto di acquisizione e a liquidare l'indennizzo disponendo il pagamento entro il termine di 30 giorni.
L'indirizzo cui andranno comunicati gli sviluppi della vicenda è ................................... Si chiede di essere informati di ogni fase del procedimento a norma della legge 241/1990.
La presente comunicazione viene inviata a norma dell'articolo 42-bis del Dpr 327 / 2001 e dell'articolo 34 della legge 111/2011 (data) .................
(firma) ..............................

All'amministrazione di .............................................................. (ente che utilizza il bene immobile: Comune, Regione, Consorzio, Prefettura per le opere statali).

Il sottoscritto .............................................................. (dati anagrafici, codice fiscale) permesso di essere proprietario del bene immobile sito in ................................................ (dati catastali: foglio, particella ) attualmente detenuto per asseriti scopi di interesse pubblico.
Premesso che tale bene è stato oggetto di un provvedimento non valido a sottrarne la proprietà ed è attualmente indebitamente utilizzato;
- che in particolare il bene non è stato irreversibilmente modificato;
- che non sussistono attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico, in quanto il risultato conseguibile attraverso l'immobile di proprietà è ottenibile anche in altro modo legittimo;
chiede
che l'Autorità che utilizza il bene immobile provveda alla restituzione del bene stesso, restituendovi le caratteristiche iniziali e quindi asportando a propria cura e spese ogni accessorio o pertinenza collocatovi, non essendo interesse del richiedente mantenerne la collocazione.
Si chiede il pagamento dei danni corrispondenti al pregiudizio patrimoniale subito e cioè pari all'interesse del cinque per cento annuo sul valore venale, oltre alla perdita di occasioni di utilizzo del bene in libero mercato.
Si chiede il pagamento dei danni corrispondenti al pregiudizio non patrimoniale subito e cioè pari al 10 per cento (20% in caso di terreni destinati a essere attribuiti a soggetti privati) del predetto valore venale (in analogia all'articolo 42-bis, Dpr 327/2001).
In particolare, si precisa che il bene immobile è stato oggetto di ....................................... (descrivere l'intervento pubblico che ha coinvolto il bene oggi da restituire), e che la procedura non è stata correttamente conclusa.
Si chiede pertanto che l'amministrazione provveda ad adottare l'atto di retrocessione e a liquidare l'indennizzo dovuto disponendo il pagamento entro il termine di 30 giorni.
L'indirizzo cui andranno comunicati gli sviluppi della vicenda è ....................................... Si chiede di essere informati di ogni fase del procedimento a norma della legge 241/1990.
La presente comunicazione viene inviata a norma dell'articolo 42-bis del Dpr 327/2001 e dell'articolo 34 della legge 111/2011
(data) .................
(firma) ..............................
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ESPROPRI
Soggetti interessati sono tutti coloro i quali risultano coinvolti in procedure di esproprio mai iniziate o mai portate correttamente a termine. La norma è anche retroattiva, rimediando a situazioni arretrate fino a un ventennio, risolvendo tutti i conflitti scaturiti in sede giudiziaria o in casi di occupazione di fatto.
L'entrata in vigore della norma il 06.07.2011 va coordinata con la retroattività prevista per le acquisizioni che rimedino a fatti anteriori, cioè a tutte le situazioni in cui privato e pubblica amministrazione si sono contrapposti in aule giudiziarie per procedure iniziate e non ultimate o addirittura per comportamenti di fatto e occupazioni prive di adeguato titolo.
Gli effetti finanziari della norma ricadranno sulle amministrazioni che si giovano di beni immobili che diventeranno di loro proprietà a un costo superiore a quello previsto sia per il valore venale da pagare sia per i pregiudizi patrimoniali (interessi) e non patrimoniali (ulteriore 10 o 20% del valore venale).
Potrebbero riguardare le procedure contabili necessarie per reperire le risorse e generare un coinvolgimento dei soggetti fruitori finali dei beni immobili, in particolare quando si tratta di aree industriali o zone di edilizia pubblica assegnate a cooperative.
I riferimenti normativi della norma sono il Testo unico sugli espropri 327 dell'08.06.2001, in cui l'articolo 42-bis introdotto nel 2011 sostituisce l'articolo 43 che la Corte costituzionale ha giudicato illegittimo nel 2010 con la sentenza numero 293, per eccesso di delega (articolo Il Sole 24 Ore del 03.08.2011).

ESPROPRIOpere pubbliche in difetto. Si paga il valore venale e il danno. Sanabili vent'anni di espropri.
Cambia dal 6 luglio, con l'articolo 34 del Dl 98 (legge 111/2011) il regime dei suoli soggetti a procedure di esproprio per pubblica utilità, qualora manchi l'atto iniziale (dichiarazione di pubblica utilità) o quello finale (il decreto di esproprio). Se l'amministrazione ha acquisito immobili con procedure errate, odi fatto, spetta oggi il valore venale con l'incremento di importi per l'occupazione abusiva (5% annuo) e per danno non patrimoniale (10%, che raddoppia in caso di perdita del bene destinato a edilizia pubblica).
La novità interessa i proprietari che abbiano perso la disponibilità dell'area nell'arco degli ultimi 20 anni (termine di usucapione a favore della Pa) qualora sia mancato qualsiasi atto di procedura. Se invece vi è un contenzioso, innanzi il giudice ordinario (in materia di danni) o innanzi il giudice amministrativo (in tema di retrocessione o acquisizione) la norma può sanare anche questioni ultraventennali. Pagherà l'amministrazione che fruisce dell'area, salvo rivalsa (se prevista) su terzi quali i concessionari di un'area sportiva, o i proprietari di unità di edilizia pubblica su aree non correttamente espropriate.
I presupposti per la sanatoria sono rigidi e dettagliati, perché occorrono: 1) attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico; 2) ragioni che devono prevalere sui contrapposti interessi privati dei proprietari; 3) carenti alternative alla sanatoria (articolo 42-bis, comma 4).
Ciò significa che un'area destinata a strada, detenuta senza titolo dall'amministrazione, sarà agevolmente sanata con la nuova procedura: basta sottolineare la destinazione collettiva, priva di alternative; ma nel caso di un'area attrezzata a parco pubblico, a campi da tennis, o anche solo a scuola o caserma dei vigili del fuoco (considerate utilizzazioni reversibili), l'ente espropriante dovrà valutare con attenzione gli interessi in conflitto.
La scuola realizzata su un'area detenuta senza titolo da un Comune potrebbe, per esempio, tornare al privato proprietario dell'area, che a sua volta potrebbe poi darla in locazione ... (articolo Il Sole 24 Ore del 22.07.2011 - link a www.corteconti.it).

ESPROPRIAZIONE:  MANOVRA CORRETTIVA/ Espropri senza titolo, arriva il super-indennizzo.
Super-indennizzo per gli espropri senza titolo. Chi subisce da parte della p.a. un'occupazione espropriativa senza titolo, oltre ad avere l'usuale indennizzo riceverà anche un risarcimento a forfait del 10%, calcolato sul valore venale. La manovra Tremonti disciplina l'utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico. E da un lato assicura l'opera alla p.a., ma dall'altro compensa economicamente il sacrificio del privato. La regola è fatta valere retroattivamente anche ai fatti anteriori alla entrata in vigore del decreto legge, purché l'ente espropriante dichiari la prevalenza dell'interesse pubblico.
Si interviene sul Testo unico degli espropri (dlgs 327/2001), inserendo l'articolo 42-bis. Il problema è rappresentato dai casi in cui l'amministrazione usa un immobile di un privato per realizzare un'opera pubblica, ma non ha un valido titolo espropriativo o una valida dichiarazione di pubblica utilità. Da un lato sorge l'interesse a conservare l'opera, dall'altro lato vi è l'interesse del privato a vedersi riconosciuto un ristoro per l'illegittimità subita.
L'articolo 42-bis prevede un bilanciamento tra gli interessi in conflitto, a seguito del quale la p.a. può disporre che il bene sia acquisito, ma non retroattivamente, al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un doppio indennizzo: sia per il pregiudizio patrimoniale sia per quello non patrimoniale. L'indennizzo del danno non patrimoniale è forfettariamente liquidato dalla legge nella misura del 10% del valore venale del bene. La stessa regola vale non solo quando manchi l'atto espropriativo, ma anche quando è stato annullato l'atto costitutivo del vincolo preordinato all'esproprio, oppure la dichiarazione di pubblica utilità o il decreto di esproprio.
L'amministrazione può anche acquisire il bene in pendenza del giudizio per l'annullamento degli atti.
In tali casi si computano a conguaglio le somme eventualmente già erogate al proprietario a titolo di indennizzo. Il danno non patrimoniale è calcolato, come si è visto, con la regola del 10%. L'indennizzo patrimoniale, invece, è determinato, di regola, in misura corrispondente al valore venale del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità, con le specifiche del Testo unico espropri per il calcolo del valore dei terreni edificabili (articolo 37). Oltre al capitale è dovuto l'interesse del 5% annuo per il periodo di occupazione senza titolo, salvo che non risulti dagli atti la prova di una diversa entità del danno.
Insomma a chi ha subito una occupazione espropriativa spetta il valore venale del bene espropriato, gli interessi e il 10% sul valore venale. Trattandosi di un esborso a carico della p.a. a fronte di una attività omessa o di una attività illegittima, la manovra Tremonti prevede alcuni sbarramenti. Innanzi tutto l'atto di acquisizione deve spiegare chiaramente quali attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico giustificano l'uso di denaro pubblico e deve spiegare che non ci sono alternative ragionevoli.
Nell'atto si deve indicare l'ammontare dell'indennizzo, che deve essere pagato entro 30 giorni. In ogni caso fino a che non è avvenuto il saldo o il deposito delle somme dovute, l'immobile rimane in proprietà del privato.
L'atto di acquisizione è notificato al proprietario e comporta il passaggio del diritto di proprietà. Inoltre il medesimo atto è soggetto a trascrizione presso la conservatoria dei registri immobiliari a cura dell'amministrazione procedente.
Se l'occupazione riguarda un terreno utilizzato per finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata o convenzionata, o un terreno destinato a essere attribuito per finalità di interesse pubblico in uso speciale a soggetti privati, il provvedimento è di competenza dell'autorità che ha occupato il terreno e la liquidazione forfetaria dell'indennizzo per il pregiudizio non patrimoniale aumenta: è pari al venti per cento del valore venale del bene.
Il decreto fissa una norma transitoria: le nuove disposizioni si applicano anche ai fatti anteriori e anche se vi è già stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato; tuttavia deve essere comunque rinnovata la valutazione dell'interesse pubblico e si deve fare il conguaglio con le indennità eventualmente già pagate. Una forma di vigilanza sul procedimento è rappresentata dall'obbligo di trasmettere l'atto di acquisizione, entro trenta giorni, alla Corte dei conti: il giudice contabile potrà così verificare la regolarità e congruità dell'operazione.
L'obbligo di indennizzo patrimoniale e non patrimoniale si applica anche per l'acquisizione del diritto di servitù. La p.a., a questo proposito, può procedere all'eventuale acquisizione del diritto di servitù al patrimonio dei soggetti, privati o pubblici, titolari di concessioni, autorizzazioni o licenze o che svolgono servizi di interesse pubblico nei settori dei trasporti, telecomunicazioni, acqua o energia (articolo ItaliaOggi del 02.07.2011).

ESPROPRIAZIONEIndennità da esproprio e plusvalenze, nessun contrasto con la Cedu.
In tema di imposte sui redditi, la S.C. ha affermato che non contrasta con l'art. 1 del Protocollo Addizionale n. 1 alla Convenzione Europea per la Salvaguardia dei diritto dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali, l'assoggettamento a tassazione delle plusvalenze conseguenti alla percezione di indennità di esproprio.
In tema di imposte sui redditi, la S.C. ha affermato che non contrasta con l'art. 1 del Protocollo Addizionale n. 1 alla Convenzione Europea per la Salvaguardia dei diritto dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali, l'assoggettamento a tassazione delle plusvalenze conseguenti alla percezione di indennità di esproprio, ai sensi dell'art. 11, comma 5, L. 30.12.1991, n. 413, atteso che il "giusto equilibrio" tra le esigenze dell'interesse generale della comunità e il requisito della salvaguardia del diritto fondamentale di proprietà, enunciato dall'art. 1 cit., riguarda la disciplina delle ipotesi di ingerenza dell'Ente Pubblico sulla proprietà privata e del "quantum" da corrispondere in tali casi al privato spogliato del suo diritto di proprietà, mentre l'art. 11 cit. attiene al momento successivo dell'esercizio del potere impositivo dello Stato sui propri contribuenti, cioè ad un ambito, quello fiscale, del tutto distinto dagli aspetti sostanziali-indennitari della vicenda espropriativa.
Va ricordato che l'art. 1 del Protocollo n. 1 dispone: "Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali di diritto internazionale. Le precedenti disposizioni non portano pregiudizio al diritto degli Stati di mettere in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l'uso dei beni in modo conforme all'interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi oppure di ammende".
Ricorda la S.C. che la Corte Europea ha più volte affermato che l'art. 1 del Protocollo n. 1 contiene tre norme distinte: "la prima norma, esposta nella prima frase del primo paragrafo, è di natura generale ed enuncia il principio del diritto al rispetto dei beni; la seconda norma, contenuta nella seconda frase del primo paragrafo, riguarda la privazione dei beni a certe condizioni; la terza norma, nel secondo paragrafo, riconosce che gli Stati Contraenti hanno il diritto, tra l'altro, di controllare l'uso dei beni in modo conforme all'interesse generale.... Tali norme non sono "distinte" nel senso che non hanno un legame tra loro: la seconda e la terza norma, relative a particolari casi di ingerenza nel diritto al rispetto dei beni, devono essere interpretate alla luce del principio contenuto nella prima norma" (cfr. James e altri a Regno Unito, 21.02.1986, Serie A n. 98, che in parte ripete i termini della tesi della Corte in Sporrong e Lonnroth c. Svezia, 23.09.1982, Serie A n.52, p 24; cfr. anche The Holy Monasteries c. Grecia, sentenza del 9 dicembre 1994, Serie A n. 301-A; Iatridis c. Grecia GC, n. 31107/1996,CEDU 1999-11; e Beyeler c. Italia GC, n, 33202/1996, CEDU 2000-1)".
Tra le varie decisioni viene ricordata, in particolare, il noto Provvedimento del 29.03.2006 Grande Camera, caso: Scordino contro Italia, Ricorso n. 36813/1997, secondo cui "l'ingerenza nel diritto al rispetto dei beni deve contemperare un "giusto equilibrio" tra le esigenze dell'interesse generale della comunità e il requisito della salvaguardia dei diritti fondamentali dell'individuo (cfr, tra altre autorità Sporrong e Ldnnroth, cit. supra). La preoccupazione di conseguire tale equilibrio si riflette nella struttura dell'art. 1, visto nella sua interezza, e che comprende quindi la seconda frase che deve essere letta alla luce del principio generale enunciato nella prima frase. In particolare, deve sussistere un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati ed il fine che si cerca di realizzare con qualsiasivoglia misura applicata dallo Stato, comprese le misure che privano una persona dei suoi beni (cfr. Pressos Campania Naviera S. A. e altri e. Belgio, sentenza 20.11.1995, Serie A n. 332; L'ex re di Grecia e altri c. Grecia GC, n. 25701/1994; e Sporrong e Lonnroth, city supra)".
In definitiva, quindi, la misura nazionale (rispetto alla quale "lo Stato gode di un ampio margine di discrezionalità sia nello scegliere i mezzi di attuazione che nell'accertare se le conseguenze derivanti dall'attuazione siano giustificate nell'interesse generale per il conseguimento delle finalità della legge" - cfr. Chassagnou e altri c. Francia GC, n. 25088/94, 28331/95 e 28443/95) deve rispettare il giusto equilibrio richiesto e non deve imporre un onere sproporzionato sui ricorrenti (cfr. Jahn e altri c. Germania GC, n. 46720/1999,72203/2001 e 72552/2001).
Sulla base di questi principi la Corte esclude che la disciplina dell'art. 11 cit. non può in alcun modo incidere sul "giusto equilibrio", attenendo non certo ai fondamentali momenti sopra enunciati, ma solo al momento successivo dell'esercizio del potere impositivo delle Stato sui propri contribuenti. La norma stabilisce che le somme costituenti plusvalenze (costituite dai corrispettivi pagati al proprietario -non imprenditore- di terreni aventi determinate destinazioni urbanistiche sotto forma di indennità di esproprio per cessione volontaria in sede espropriativa o di indennizzo per acquisizione coattiva, conseguente ad occupazione d'urgenza divenuta illegittima) siano (ovviamente e regolarmente) tassate attraverso due modalità, la cui scelta è rimessa al contribuente: o quest'ultimo opterà per la tassazione ordinaria, oppure l'ente erogante opererà su dette plusvalenze una ritenuta del venti per cento, a titolo d'imposta.
Ad avviso della S.C. appare chiaro che, in entrambi i casi, è in discussione non il principio di un risarcimento commisurato alla restituito in integrum o quello di un'indenità ragionevolmente rapportata al valore dei beni, bensì la scelta operata discrezionalmente e legittimamente dal legislatore italiano sulle modalità attraverso le quali tassare una plusvalenza realizzata da un contribuente.
Cioè ad un ambito, quello fiscale, del tutto distinto L'attinenza del "giusto equilibrio" ai soli aspetti sostanziali-indennitari della vicenda espropriativa e la distinzione tra questi e quello strettamente fiscale viene riscontrata dalla S.C. alla luce delle pronunce della Corte Costituzionale sulla legittimità costituzionale dell'art. 11 cit. (Sent. n. 283 del 1993 e n. 148 del 1999).
La sentenza ha poi precisato che il regime fiscale in tema di plusvalenze realizzate mediante percezione della indennità di esproprio a seguito di una procedura di espropriazione per pubblica utilità o di cessione di terreni fabbricabili, opera "quale che sia la finalità concreta -realizzazione di un'opera pubblica o di un'opera di pubblica utilità, categoria quest'ultima nella quale rientrano gli insediamenti produttivi e gli impianti industriali, pur se realizzati da privati, previsti dagli strumenti urbanistici- a cui la medesima procedura sia preordinata.
Pertanto, attesa la irrilevanza sia del titolo sia della finalità dell'opera che realizza il trasferimento, la plusvalenza è soggetta a tassazione tanto se il trasferimento avviene a seguito di cessione a titolo oneroso, riconducibile ad una scelta libera ed autonoma del cedente, quanto se il trasferimento avviene forzosamente a seguito di espropriazione, di cessione volontaria o di occupazione appropriativa per la realizzazione di un'opera pubblica o di pubblica utilità
".
Nella specie la S.C. ha ritenuto applicabile l'art. 11 cit. con riferimento alle plusvalenze realizzate a seguito di procedura espropriativa finalizzata alla realizzazione di un P.I.P., in cui solo una parte delle aree occupate era stata destinata a infrastrutture urbane, mentre la restante parte era stata destinata alla successiva assegnazione in lotti ad imprese private (commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione, Sez. civile, sentenza 30.06.2011 n. 14362).

ESPROPRIAZIONE - URBANISTICA: Per le ''aree di rispetto'' indennizzo scontato.
Non possono essere annoverati tra i vincoli “sostanzialmente espropriativi” quelli derivanti da destinazioni realizzabili anche attraverso l'iniziativa privata in regime di economia di mercato.

I limiti non ablatori normalmente posti nei regolamenti urbanistici o nella pianificazione urbanistica e relative norme tecniche, riguardanti altezza, cubatura, superficie coperta, distanze, zone di rispetto, indici di fabbricabilità, limiti e rapporti per zone territoriali omogenee e simili, sono vincoli conformativi, connaturali alla proprietà, e non comportano indennizzo.
Riveste rilievo decisivo nella presente controversia stabilire se le prescrizioni che riguardano il fondo dell’appellante hanno carattere espropriativo, come essa ritiene o soltanto conformativo, come invece ritiene il Comune; in questo secondo caso occorre stabilire anche se gli standards eccedenti quelli minimi realizzabili previa convenzione, sono effettivamente realizzabili in base alle prescrizione del Piano che li riguarda.
Appare allora opportuno premettere alcune considerazioni in ordine alla differenza fra vincolo “espropriativo” e vincolo “conformativo”, ai fini della corretta qualificazione giuridica della fattispecie dedotta in giudizio, per poter poi stabilire se, nel caso che occupa, sussista o meno l’illegittimità del diniego impugnato del permesso di costruire adottato dal Comune.
I criteri di individuazione dei vincoli espropriativi o di inedificabilità assoluta, rispetto ai vincoli conformativi, sono stati elaborati con le sentenze della Corte Costituzionale 20.05.1999, n. 179 e 18.12.2001, n. 411, ma anche con la più recente sentenza 09.05.2003 n. 148, nella parte in cui si riferiscono a vincoli scaduti, preordinati all'espropriazione o sostanzialmente espropriativi, senza previsione di durata e di indennizzo. In base ai suddetti criteri nonché a quelli elaborati dalla giurisprudenza amministrativa formatasi in relazione all'art. 2 della legge n. 1187 del 1968, i vincoli di piano regolatore, ai quali si applica il principio della decadenza quinquennale, sono soltanto quelli che incidono su beni determinati, che sono preordinati all'espropriazione ovvero che hanno carattere sostanzialmente espropriativo, tali da determinare l'inedificabilità dei beni colpiti e, dunque, lo svuotamento del contenuto del diritto di proprietà, incidendo sul godimento del bene, tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale, ovvero da diminuirne in modo significativo il valore di scambio (ex plurimis: Cons. Stato, Sez.V, n. 3 del 03.01.2001 e n. 745 del 24.02.2004), con conseguente violazione sostanziale del III comma dell'art. 42 Cost.
Tali indicazioni possono valere anche con riferimento all’attuale sistema, che, con l'art. 9, commi 3 e 4, del D.P.R. 08.06.2001 n. 327, entrato in vigore il 30 giugno 2003, ha soltanto esplicitato con una diversa terminologia la regola della durata quinquennale, disciplinando espressamente gli istituti della decadenza e della reiterazione.
Invece, la previsione di una determinata tipologia urbanistica non configurante né un vincolo preordinato all'espropriazione né l'inedificabilità assoluta, essendo una prescrizione diretta a regolare concretamente l'attività edilizia, inerisce alla potestà conformativa propria dello strumento urbanistico generale, la cui validità è a tempo indeterminato, come espressamente stabilito dall'art. 11 della legge 17.08.1942 n. 1150. Si parla, in tal caso, di vincoli urbanistici di tipo “conformativo”, per indicare i vincoli relativi ai beni culturali e paesaggistici, posti direttamente dalla legge ovvero mediante un particolare procedimento amministrativo a carico di intere categorie di beni, in base a caratteristiche loro intrinseche, con carattere di generalità ed in modo obiettivo: tali limitazioni delle facoltà del proprietario ricadono nella previsione non del comma terzo, bensì del comma secondo, dell’art. 42, Cost. e non sono indennizzabili.
In proposito, la precitata sentenza della Corte Costituzionale n. 179 del 1999, al punto 5 della parte in diritto, ha precisato che “sono al di fuori dello schema ablatorio-espropriativo con le connesse garanzie costituzionali (e quindi non necessariamente con l'alternativa di indennizzo o di durata predefinita) i vincoli che importano una destinazione (anche di contenuto specifico) realizzabile ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, che non comportino necessariamente espropriazione o interventi ad esclusiva iniziativa pubblica e quindi siano attuabili anche dal soggetto privato e senza necessità di previa ablazione del bene.
Ciò può essere il risultato di una scelta di politica programmatoria tutte le volte che gli obiettivi di interesse generale, di dotare il territorio di attrezzature e servizi, siano ritenuti realizzabili (e come tali specificatamente compresi nelle previsioni pianificatorie) anche attraverso l'iniziativa economica privata - pur se accompagnati da strumenti di convenzionamento
”.
Pertanto, i limiti non ablatori normalmente posti nei regolamenti urbanistici o nella pianificazione urbanistica e relative norme tecniche, riguardanti altezza, cubatura, superficie coperta, distanze, zone di rispetto, indici di fabbricabilità, limiti e rapporti per zone territoriali omogenee e simili, sono vincoli conformativi, connaturali alla proprietà, e non comportano indennizzo.
Inoltre, se pure hanno carattere particolare, i vincoli di destinazione imposti dal piano regolatore per attrezzature e servizi realizzabili anche ad iniziativa privata o promiscua, in regime di economia di mercato, anche se accompagnati da strumenti di convenzionamento (ad es. parcheggi, impianti sportivi, mercati e strutture commerciali, edifici sanitari, zone artigianali, industriali o residenziali), sfuggono allo schema ablatorio, con le connesse garanzie costituzionali in termini di alternatività fra indennizzo e durata predefinita.
Se è vero, infatti, che la previsione dell'indennizzo è doverosa non soltanto per i vincoli preordinati all'ablazione del suolo, ma anche per quelli "sostanzialmente espropriativi" (secondo la definizione di cui all'art. 39, comma 1, del precitato D.P.R. 327/2001), è anche vero che non possono essere annoverati in quest'ultima categoria, quei vincoli derivanti da destinazioni realizzabili anche attraverso l'iniziativa privata in regime di economia di mercato (cfr., ex multis, Cons. St., IV, 28.02.2005, n. 693; VI, 14.05.2000, n. 2934; Cass. Civ., I, 26.01.2006, n. 1626 e 27.05.2005, n. 11322).
Ciò, in quanto la disciplina urbanistica che ammette la realizzazione di interventi edilizi da parte di privati, seppur conformati dal perseguimento del peculiare interesse pubblico che ha determinato il vincolo, non si risolve in una sostanziale espropriazione, ma solo in una limitazione, conforme ai principi che presiedono al corretto ed ordinario esercizio del potere pianificatorio, dell'attività edilizia realizzabile sul terreno.
Pertanto, siffatta categoria di vincoli, non avendo un contenuto sostanzialmente espropriativo, ma derivando dal riconoscimento delle caratteristiche intrinseche del bene, nell’ambito delle scelte di pianificazione generale, risulta determinata nell’esercizio della potestà conformativa propria dello strumento urbanistico generale, per cui ha validità a tempo indeterminato, come espressamente stabilito dall'articolo 11 della legge 1150/1942.
Quanto all’obbligo dell’indennizzo, occorre precisare che il problema della temporaneità e della conseguente indennizzabilità della protrazione dei vincoli urbanistici si può porre solo nei confronti dei vincoli preordinati all'espropriazione o sostanzialmente ablativi: restano, di conseguenza, fuori dai problemi enunciati tutti gli altri vincoli attinenti a destinazioni non coinvolgenti l’esecuzione di opere pubbliche, ma rimessi alla iniziativa (anche concorrente) dei singoli proprietari (come il verde condominiale e gli accessi privati pedonali), trattandosi di vincoli meramente conformativi.
In effetti, in linea generale, le opere di interesse generale costituiscono una categoria logico-giuridica nettamente differenziata rispetto a quella delle "opere pubbliche", poiché si riferiscono a quegli impianti ed attrezzature che, sebbene non destinate a scopi di stretta cura della pubblica Amministrazione, sono idonei a soddisfare bisogni della collettività, ancorché vengano realizzate e gestite da soggetti privati: in tale ambito, ci si riferisce a supermercati, strutture alberghiere, stazioni di servizio, banche, discoteche, etc. (cfr. Cons. di Stato sez. V, n° 405 del 23.03.1993; Cons. di Stato sez. V, n. 268 del 27.04.1988; Cons. di Stato sez. V, n. 1000 dell'11.07.1975; TAR Campania-Napoli n. 6604 del 23.10.2002; TAR Puglia-Bari n. 4632 del 21.10.2002; TAR Puglia-Bari n. 1157 del 28.02.2002; TAR Basilicata n. 288 del 21.10.1996; TAR Campania-Napoli n. 180 del 22.05.1990; TAR Lombardia-Brescia n. 693 dell'08.09.1987; TAR Piemonte n. 321 del 29.10.1984).
Applicando i già ricordati principi al caso di specie, discende che le destinazioni a zona pubblica per attrezzature di pubblico interesse ne discende, avuto particolare riguardo alla realizzabilità anche ad iniziativa privata o promiscua, in regime di economia di mercato, la sua non sussumibilità nello schema ablatorio, ma, piuttosto, nella tipologia dei vincoli urbanistici di tipo “conformativo”, che non pongono particolari limitazioni alle facoltà del proprietario, riconducibili, come tali, alle previsione non del comma terzo, bensì del secondo comma, dell’art. 42, Cost..
Conseguentemente, tale normazione di zona non può che avere validità a tempo indeterminato, come espressamente stabilito dall'art. 11 della legge 17.08.1942 n. 1150. Conclusivamente, nella specie, si deve ritenere che, il fondo di proprietà del ricorrente, non risulta gravato da vincolo preordinato all’espropriazione (commento tratto da www.ipsoa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.06.2011 n. 3797 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEEspropriazione per pubblica utilità ed avviso pubblico.
Una forma di pubblicità, priva dell’indicazione delle particelle catastali interessate dall’approvazione del progetto dell'opera e dell’elenco delle ditte espropriande, non è idonea a far conoscere ai proprietari quali terreni di loro proprietà siano interessati alla realizzazione dell’opera e di poter conseguentemente partecipare al procedimento amministrativo.

E’ fondata la censura di violazione dell’art. 16, d.P.R. n. 327/2001, sotto il profilo dell’inosservanza delle formalità da rispettare in caso di pubblicità di massa in luogo dell’avviso individuale di avvio del procedimento.
Dispone, infatti, l’art. 16, co. 2, d.P.R. n. 327/2001, che lo schema dell'atto di approvazione del progetto deve richiamare gli elaborati contenenti la descrizione dei terreni e degli edifici di cui è prevista l'espropriazione, con l'indicazione dell'estensione e dei confini, nonché, possibilmente, dei dati identificativi catastali e con il nome ed il cognome dei proprietari iscritti nei registri catastali.
Aggiunge il co. 4 del medesimo articolo che al proprietario dell'area ove è prevista la realizzazione dell'opera è inviato l'avviso dell'avvio del procedimento, mentre il co. 5 dispone che allorché il numero dei destinatari sia superiore a 50 si osservano le forme di cui all'art. 11, co. 2.
A sua volta l’art. 11, co. 2, d.P.R. n. 327/2001 dispone che l'avviso di avvio del procedimento è comunicato personalmente agli interessati alle singole opere previste dal piano o dal progetto. Allorché il numero dei destinatari sia superiore a 50, la comunicazione è effettuata mediante pubblico avviso da affiggere all'albo pretorio dei Comuni nel cui territorio ricadono gli immobili da assoggettare al vincolo, nonché su uno o più quotidiani a diffusione nazionale e locale e, ove istituito, sul sito informatico della Regione o Provincia autonoma nel cui territorio ricadono gli immobili da assoggettare al vincolo. L'avviso deve precisare dove e con quali modalità può essere consultato il piano o il progetto.
Vero è che tali previsioni non erano applicabili, ratione temporis, al procedimento espropriativo per cui è processo, atteso che il d.P.R. n. 327/2001 è entrato in vigore il 30.06.2003, laddove l’avviso di massa nel caso di specie è stato pubblicato il 28.04.2003, in applicazione dell’art. 8, l. n. 241/1990.
Ma anche in applicazione dell’art. 8, l. n. 241/1990, l’avviso pubblico sostitutivo dell’avviso individuale non può limitarsi alla generica descrizione dell’opera pubblica e alle generica indicazione del Comune in cui ricade, ma deve anche descrivere i terreni o edifici espropriandi, e ove possibile indicare i dati catastali degli immobili e i nomi dei proprietari catastali.
Se si può consentire che nella pubblicità di massa siano omessi i dati catastali degli immobili e i nomi dei proprietari catastali, non può invece acconsentirsi all’omissione della descrizione delle immobili, quanto meno con indicazione del relativo indirizzo o zona.
Diversamente infatti, gli interessati non sono posti in condizione di comprendere, dalla pubblicità di massa contenuta nell’albo pretorio e sulla stampa quotidiana, che sono proprio le loro proprietà ad essere oggetto del procedimento espropriativo.
La giurisprudenza di questo Consesso ha già affermato, con principi che il Collegio condivide, che le richiamate disposizioni facoltizzano l’amministrazione ad avvalersi di forme di pubblicità diverse dalla comunicazione personale, ma tale scelta non può incidere sull’onere dell’individuazione del soggetto destinatario della comunicazione, né sul contenuto della stessa comunicazione, come definito dalla normativa richiamata.
Diversamente opinando, non si tratterebbe più di scegliere una forma di comunicazione, individuale o collettiva, bensì di consentire o meno l’effettiva partecipazione dell’interessato al procedimento.
Pertanto, anche la forma di pubblicità, prescelta in luogo della comunicazione personale, deve essere idonea allo scopo di assicurare l’effettiva partecipazione del privato al procedimento amministrativo, in primo luogo, mediante l’identificazione dei soggetti incisi dalla procedura ablativa, in quanto proprietari del terreno, secondo le risultanze catastali.
Per converso, una forma di pubblicità, priva dell’indicazione delle particelle catastali interessate dall’approvazione del progetto dell'opera e dell’elenco delle ditte espropriande, non è idonea a far conoscere ai proprietari quali terreni di loro proprietà siano interessati alla realizzazione dell’opera e di poter conseguentemente partecipare al procedimento amministrativo (Cons. giust. sic. 04.11.2008 n. 902; Cons. St., sez. IV, 22.06.2006 n. 3885; Cons. St., sez. VI, 08.03.2004 n. 1077; Cons. giust. sic., 20.01.2003 n. 25) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 13.06.2011 n. 3561 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Determinazione dell’indennità di esproprio. Necessità che l’indennizzo non sia previsto in misura irrisoria o meramente simbolica, ma costituisca un serio ristoro.
- L’indennizzo assicurato all’espropriato dall’art. 42, terzo comma, Cost., se non deve costituire una integrale riparazione per la perdita subita -in quanto occorre coordinare il diritto del privato con l’interesse generale che l’espropriazione mira a realizzare- non può essere, tuttavia, fissato in una misura irrisoria o meramente simbolica, ma deve rappresentare un serio ristoro (1).
Per raggiungere tale finalità, occorre fare riferimento, per la determinazione dell’indennizzo, al valore del bene in relazione alle sue caratteristiche essenziali, fatte palesi dalla potenziale utilizzazione economica di esso, secondo legge. Solo in tal modo può assicurarsi la congruità del ristoro spettante all’espropriato ed evitare che esso sia meramente apparente o irrisorio rispetto al valore del bene.
- In relazione all’art. 117, primo comma, Cost., all’art. 1 del primo protocollo addizionale della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nell’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo ed all’art. 42, terzo comma, Cost., va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis, comma 4, del decreto-legge 11.07.1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 08.08.1992, n. 359, che, per la determinazione dell’indennità di espropriazione relativa alle aree agricole ed a quelle non suscettibili di classificazione edificatoria, rinvia alle norme di cui al titolo secondo della legge n. 865 del 1971, successive modificazioni e integrazioni, stabilendo che l’indennità di espropriazione, per le aree esterne ai centri edificati, è commisurata al valore agricolo medio annualmente calcolato da apposite commissioni provinciali, valore corrispondente al tipo di coltura in atto nell’area da espropriare (comma quinto); ed aggiunge che, nelle aree comprese nei centri edificati, l’indennità è commisurata al valore agricolo medio della coltura più redditizia tra quelle che, nella regione agraria in cui ricade l’area da espropriare, coprono una superficie superiore al 5 per cento di quella coltivata della regione agraria stessa (comma sesto) (2).
- Ai sensi dell’art. 27 della legge 11.03.1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale, in via consequenziale, dell’art. 40, commi 2 e 3, del d.P.R. n. 327 del 2001, recante la nuova normativa in materia di espropriazione.
Detta norma, che apre la sezione dedicata alla determinazione dell’indennità nel caso di esproprio di un’area non edificabile, adotta per tale determinazione, con riguardo ai commi indicati, il criterio del valore agricolo medio corrispondente al tipo di coltura prevalente nella zona o in atto nell’area da espropriare e, quindi, contiene una disciplina che riproduce quella dichiarata in contrasto con la Costituzione dalla presente sentenza (3).
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(1) Cfr. Corte Cost., sentenze n. 173 del 1991; sentenza n. 1022 del 1988; sentenza n. 355 del 1985; sentenza n. 223 del 1983; sentenza n. 5 del 1980.
V. anche Corte cost., sentenza n. 348 del 2007, la quale ha ribadito che «deve essere esclusa una valutazione del tutto astratta, in quanto sganciata dalle caratteristiche essenziali del bene ablato» (principio già affermato dalla sentenza n. 355 del 1985).
(2) Ha osservato in particolare la Corte che non è ravvisabile alcun motivo idoneo a giustificare un trattamento differenziato, in presenza di un evento espropriativo, tra i suoli di cui si tratta (edificabili, da un lato, agricoli o non suscettibili di classificazione edificatoria, dall’altro).
Infatti, come la stessa Corte cost. in precedenza -con la sentenza n. 348 del 2007- ha posto in luce, «sia la giurisprudenza della Corte costituzionale italiana sia quella della Corte europea concordano nel ritenere che il punto di riferimento per determinare l’indennità di espropriazione deve essere il valore di mercato (o venale) del bene ablato». E tale punto di riferimento non può variare secondo la natura del bene, perché in tal modo verrebbe meno l’ancoraggio al dato della realtà postulato come necessario per pervenire alla determinazione di una giusta indennità.
E’ vero che il legislatore non ha il dovere di commisurare integralmente l’indennità di espropriazione al valore di mercato del bene ablato e che non sempre è garantita dalla CEDU una riparazione integrale, come la stessa Corte di Strasburgo ha affermato, sia pure aggiungendo che in caso di "espropriazione isolata", pur se a fini di pubblica utilità, soltanto una riparazione integrale può essere considerata in rapporto ragionevole con il valore del bene. Tuttavia, proprio l’esigenza di effettuare una valutazione di congruità dell’indennizzo espropriativo, determinato applicando eventuali meccanismi di correzione sul valore di mercato, impone che quest’ultimo sia assunto quale termine di riferimento dal legislatore (Corte cost., sentenza n. 1165 del 1988), in guisa da garantire il "giusto equilibrio" tra l’interesse generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali degli individui.
(3) La Corte non ha ritenuto espressamente di estendere la declaratoria di illegittimità costituzionale anche al comma 1 del citato art. 40. Detto comma concerne l’esproprio di un’area non edificabile ma coltivata (il caso di area non coltivata è previsto dal comma 2), e stabilisce che l’indennità definitiva è determinata in base al criterio del valore agricolo, tenendo conto delle colture effettivamente praticate sul fondo e del valore dei manufatti edilizi legittimamente realizzati, anche in relazione all’esercizio dell’azienda agricola.
La mancata previsione del valore agricolo medio e il riferimento alle colture effettivamente praticate sul fondo consentono una interpretazione della norma costituzionalmente orientata, peraltro demandata ai giudici ordinari
(massima tratta www.regione.piemonte.it  - Corte Costituzionale, sentenza 10.06.2011 n. 181).

ESPROPRIAZIONE: Esproprio di terreni agricoli non coltivati e di fondi inedificabili: é illegittimo il valore agrario.
Con sentenza 10.06.2011 n. 181, la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo l'articolo 5-bis, comma 4, del d.l. 11.07.1992 n. 333, convertito con legge 08.08.1992, n. 359, nonché, in via conseguenziale, l'articolo 40, commi 2 e 3, del D.P.R. 08.06.2001, n. 327 (Testo Unico in materia di espropriazione per pubblica utilità).
La Corte ha affermato che -per le aree agricole non coltivate e per quelle inedificabili- "il valore agrario, previsto di fatto in via automatica, potrebbe non rivelarsi un ^serio ristoro^", con conseguente violazione dell'articolo 117 della Costituzione.
E’ vero, afferma la Corte, che il legislatore "non ha il dovere di commisurare integralmente l’indennità di espropriazione al valore di mercato del bene ablato e che non sempre è garantita dalla CEDU una riparazione integrale". Tuttavia, "proprio l’esigenza di effettuare una valutazione di congruità dell’indennizzo espropriativo, determinato applicando eventuali meccanismi di correzione sul valore di mercato, impone che quest’ultimo sia assunto quale termine di riferimento dal legislatore (sentenza n. 1165 del 1988), in guisa da garantire il “giusto equilibrio” tra l’interesse generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali degli individui".
Diverso é il caso delle aree non edificabili ma coltivate, trattate nel comma 1 del D.P.R. 327/2001, per le quali la mancanza del riferimento al ^valore agricolo medio^ e il riferimento alle colture effettivamente praticate sul fondo consentono, ad avviso della Corte, una interpretazione della norma costituzionalmente orientata, peraltro demandata ai giudici ordinari.
Per le prime, dunque, é atteso l'intervento del legislatore, che non potrà non muovere, sia pure con gli opportuni correttivi, dal valore venale, ossia di mercato, fissato dall'articolo 37 del T.U. (tratto e link a http://studiospallino.blogspot.com).

ESPROPRIAZIONE: Occupazione d’urgenza immobili a fini espropriativi.
L’avviso di cui all’art. 11 DPR n. 327/2001 deve contenere, per essere legittimo e coerente con il predetto articolo, oltre che con gli artt. 7 e 8 l. n. 241/1990, gli elementi volti a determinare i soggetti espropriandi ed i beni oggetto del procedimento amministrativo; e ciò sia che la comunicazione avvenga personalmente, sia che essa avvenga in forma collettiva mediante avviso pubblico.
Anche la giurisprudenza, che ammette equipollenti, ritiene tuttavia indispensabile una chiara individuazione dei soggetti e dei beni espropriandi; in tal senso, da ultimo, è stato ritenuto che è idoneo il riferimento, nell’avviso pubblico, ad un determinato foglio della mappa catastale, senza elencazione delle singole particelle, quando i destinatari dell’avviso, debitamente elencati, sono tutti proprietari di fondi che sono rappresentati in quel foglio.
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Il ricorso alla speciale procedura ex art. 22-bis DPR 327/2001 postula una motivazione specifica dell’amministrazione in ordine alle obiettive ragioni di urgenza, avverso la quale il privato può ricorrere, richiedendo il sindacato giurisdizionale.
Con riferimento specifico al procedimento espropriativo, l’avviso di cui all’art. 11 DPR n. 327/2001 deve contenere gli elementi idonei a rendere edotto il destinatario del procedimento ablatorio del sacrificio che gli si intende imporre e dei beni oggetto di tale sacrificio.
D’altra parte, lo stesso art. 11, nel prevedere che l’avviso di avvio del procedimento deve essere inviato “al proprietario del bene sul quale si intende apporre il vincolo preordinato all’esproprio”, presuppone che l’amministrazione abbia identificato il proprietario, e ciò può avvenire solo per il tramite dei beni (e dei loro dati catastali) da assoggettare a procedimento ablatorio.
Tale contenuto dell’avviso –che, come si è già detto, l’art. 11 non esclude né semplifica in caso di comunicazione non personale, ma per avviso pubblico– proprio per le finalità cui lo stesso è preordinato, deve essere a maggior ragione completo ed idoneo a rendere compiutamente edotto il proprietario espropriando, proprio con riferimento al caso di comunicazione non personale.
Ed infatti –ribadito che l’art. 11 non distingue il contenuto dell’avviso in dipendenza delle modalità della sua comunicazione, così come, in via generale., non opera alcuna distinzione l’art. 8 l. n. 241/1990– mentre nel caso di comunicazione personale il proprietario effettivamente riceve notizia dell’esistenza di un procedimento riguardante beni di sua proprietà, al contrario, laddove vi siano forme di comunicazione pubblica collettiva, il proprietario subisce un primo vulnus consistente nell’onere, postogli a carico dell’ordinamento, di acquisire una conoscenza attraverso strumenti che non necessariamente rientrano, con certezza ed immediatezza, nella sua sfera di cognizione, ritenendo altresì l’ordinamento realizzata “iuris et de iure” tale conoscenza con il rispetto delle modalità di comunicazione previste.
Orbene, se tale “onere di assumere informazione” e “presunzione di conoscenza” da parte del proprietario espropriando possono giustificarsi in considerazione dell’interesse pubblico alla celerità del procedimento espropriativo, resta fermo che l’avviso pubblico e collettivo costituisce modalità eccezionale di comunicazione (ragionevole, giustificabile, ma eccezionale), non a caso prevista dal legislatore solo in presenza di un numero elevato di espropriandi; numero che il legislatore stesso, con previsione tassativa, indica come superiore a 50, sottraendo opportunamente la determinazione della eccessività del numero dei proprietari alla valutazione discrezionale dell’amministrazione.
Atteso il sacrificio (non irrilevante) imposto al proprietario espropriando, in termini di “effettiva” conoscenza (che, alle condizioni predette, è presunta come tale), non è affatto ragionevole che lo stesso proprietario, oltre che seguire quotidianamente gli avvisi pubblicati nelle forme previste dall’art. 11, debba per di più verificare presso l’amministrazione (una volta avuta contezza dell’avviso), se il procedimento possa (o meno) riguardare beni di sua proprietà.
Se tale fosse l’interpretazione, l’art. 11 sarebbe irragionevole (ed in sospetto di illegittimità costituzionale per violazione degli articoli 3, 24, 42 e 97 Cost.), in quanto esso imporrebbe ai privati sacrifici non ragionevoli e/o giustificabili in riferimento ad interessi pubblici..
Alla luce di quanto esposto, questo Consiglio di Stato ritiene che l’avviso di cui all’art. 11 DPR n. 327/2001 debba contenere, per essere legittimo e coerente con il predetto articolo, oltre che con gli artt. 7 e 8 l. n. 241/1990, gli elementi volti a determinare i soggetti espropriandi ed i beni oggetto del procedimento amministrativo; e ciò sia che la comunicazione avvenga personalmente, sia che essa avvenga in forma collettiva mediante avviso pubblico (e, per le ragioni esposte, l’onere di completezza è richiesto a maggior ragione in quest’ultimo caso).
Giova osservare che, anche la giurisprudenza che ammette equipollenti, ritiene tuttavia indispensabile una chiara individuazione dei soggetti e dei beni espropriandi; in tal senso, da ultimo, è stato ritenuto che è idoneo il riferimento, nell’avviso pubblico, ad un determinato foglio della mappa catastale, senza elencazione delle singole particelle, quando i destinatari dell’avviso, debitamente elencati, sono tutti proprietari di fondi che sono rappresentati in quel foglio (Cass. civ., Sez. Un. 02.12.2009 n. 25345; in senso conforme, Cons. Stato, sez. IV, 27.06.2008 n. 3245).
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La giurisprudenza non appare univoca in ordine alla necessità per l’amministrazione di motivare sulle ragioni di “particolare urgenza” che consentono il ricorso allo speciale procedimento di cui all’art. 22-bis.
Per un verso, si è escluso ogni obbligo di particolare motivazione, in presenza dei presupposti previsti dalla disposizione medesima, ed in particolare del numero degli espropriandi superiore a 50 (Cons. Stato, sez. IV, 12.07.2007 n. 3968 e 27.06.2007 n. 3696; sez. III, 29.09.2009 n. 2215).
Altra giurisprudenza ha invece ritenuto che il ricorso alla speciale procedura ex art. 22-bis postuli una motivazione specifica dell’amministrazione in ordine alle obiettive ragioni di urgenza, avverso la quale il privato può ricorrere, richiedendo il sindacato giurisdizionale (Cass. civ., Sez. Un., 06.05.2009 n. 10362; Cons. Stato, sez. IV, 22.05.2008 nn. 2459 e 2460).
Il Collegio ritiene di aderire a quest’ultimo orientamento interpretativo, affermando, di conseguenza, la necessità di motivazione in ordine alle ragioni di particolare urgenza che legittimano il ricorso al procedimento ex art. 22-bis DPR n. 327/2001.
Occorre, infatti, osservare che il procedimento previsto dall’art. 22-bis citato (occupazione di urgenza preordinata all’espropriazione) non costituisce –come pure si è sostenuto– un ordinario subprocedimento nell’ambito del procedimento espropriativo, in tal modo facendosi rivivere un istituto (l’occupazione di urgenza) conosciuto dal previgente ordinamento.
Occorre, infatti, osservare che tale procedimento, o meglio l’art. 22-bis che lo prevede, non costituisce parte della disciplina originaria del Testo Unico espropriazioni, essendo stato, infatti, introdotto solo con il d.lgs. n. 302/2002.
La disciplina originaria prevede (e tuttora si prevede):
- una fase di “determinazione provvisoria dell’indennità di espropriazione” (art. 20), cui può seguire l’immissione in possesso (nel caso in cui si concordi sulla misura dell’indennità), ovvero l’emanazione del decreto di esproprio, una volta effettuato il deposito dell’indennità, anche se non condivisa, presso la Cassa depositi e prestiti. A questa fase, segue quella di “determinazione definitiva dell’indennità di espropriazione” (art. 21);
- una fase di “determinazione urgente dell’indennità di esproprio” (art. 22), di modo che “quando l’avvio dei lavori rivesta carattere di urgenza, tale da non consentire l’applicazione delle disposizioni dell’art. 20, il decreto di esproprio può essere emanato ed eseguito in base alla determinazione urgente della indennità di espropriazione, senza particolari indagini o formalità”. In base al comma 2, “il decreto di esproprio può altresì essere emanato ed eseguito in base alla determinazione urgente dell’indennità di espropriazione senza particolari indagini o formalità . . . b) allorché il numero dei destinatari della procedura espropriativa sia superiore a 50”.
In definitiva, nel disegno originario del Testo Unico espropriazioni, a fronte di un procedimento ordinario di determinazione (dapprima provvisoria., poi definitiva dell’indennità di espropriazione), quale presupposto dell’emanazione del decreto di esproprio, si giustappone un “procedimento urgente”, che, pur non escludendo la previa determinazione dell’indennità, si caratterizza per celerità, consentendosi la possibilità di emanazione del decreto di esproprio sulla base della sola “determinazione urgente” dell’indennità.
La finalità evidente, perseguita dal legislatore, era quella di evitare che si potesse conseguire l’occupazione del bene espropriando senza che intervenisse, in seguito, l’emanazione del decreto di esproprio, con le ben note conseguenze in tema di occupazione (divenuta) sine titulo.
A questo disegno, il d.lgs. n. 302/2002 ha aggiunto, con l’art. 22-bis, l’occupazione di urgenza.
L’emanazione di tale decreto richiede ai sensi del comma 1, che “l’avvio dei lavori rivesta carattere di particolare urgenza”, laddove la determinazione urgente dell’indennità, di cui all’art. 22, richiede che “l’avvio dei lavori rivesta carattere di urgenza” (la differenza è data dall’aggettivo “particolare”, premesso al sostantivo “urgenza”).
Inoltre, il comma 2 dell’art. 22-bis prevede che possa farsi luogo a decreto di occupazione di urgenza anche nel caso in cui vi sia stata determinazione urgente dell’indennità ed il numero dei proprietari espropriandi sia superiore a 50.
In definitiva, l’art. 22-bis prevede che il decreto di occupazione di urgenza possa essere emanato:
- in casi di “particolare urgenza”, previa determinazione provvisoria dell’indennità di espropriazione (comma 1);
- in casi in cui è intervenuta la determinazione urgente dell’indennità e qualora gli espropriandi siano superiori a 50 (comma 2, lett. b).
Il legislatore ha, dunque, previsto due distinti subprocedimenti in deroga al procedimento ordinario (ex art. 20), in parte sovrapposti, dei quali quello ex art. 22-bis si fonda (non ricorrendo i caso di cui al comma 2) su una “particolare urgenza”, da tenere distinta dalla mera “urgenza” su cui si fonda il procedimento in deroga, di cui all’art. 22.
Appare, dunque, evidente che il subprocedimento volto alla emanazione di un decreto di occupazione di urgenza, ai sensi dell’art. 22-bis, lungi dal poter essere considerato come un subprocedimento ordinario nell’ambito del procedimento amministrativo, costituisce, invece, un subprocedimento in deroga, speciale rispetto allo stesso subprocedimento in deroga di cui all’art. 22 del Testo Unico.
Da ciò consegue che l’organo emanante il decreto di occupazione di urgenza è tenuto a motivare in ordine alle ragioni di particolare urgenza, relative ai lavori da effettuarsi, e che sorreggono la determinazione assunta.
Ciò a maggio ragione laddove si rifletta sulle possibili conseguenze (in termini di occupazione sine titulo, anche per mancata emanazione del decreto di esproprio entro i termini della dichiarazione di pubblica utilità) cui l’istituto della previa occupazione di urgenza può condurre ed ha condotto, nella vigenza della precedente disciplina
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.06.2011 n. 3500 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEOccupazione appropriativa, la P.A. restituisca!
Nel caso in cui le condizioni di fatto riscontrate deponessero nel senso di un sopraggiunto difetto di interesse della PA a perseguire l’obiettivo originariamente considerato meritevole di soddisfacimento, non vi sarebbe alcun motivo ostativo all’accoglimento della domanda di restituzione del terreno occupato a seguito di dichiarazione di pubblica utilità, domanda basata sulla richiesta di applicazione delle disposizioni vigenti in tema di risarcimento del danno.

Il Tribunale Superiore delle Acque, pur senza entrare in specifici dettagli circa la cronologia degli eventi, ha affermato, come dato certo, che le opere in questione non erano ancora terminate, né erano all’epoca della decisione destinate al pubblico interesse per cui furono predisposte e progettate ma ha tuttavia ritenuto del tutto irrilevante tale aspetto, e ciò in ragione dell’avvenuta irreversibile trasformazione di parte delle aree legittimamente occupate, attestata sia dal consulente tecnico di ufficio che dal consulente di parte.
Orbene non è dubbio che, alla luce dei consolidati principi vigenti in materia, l’affermata irreversibile (parziale) trasformazione del fondo abbia determinato l’acquisto della proprietà del bene nei limiti della parte trasformata) da parte della Pubblica Amministrazione che aveva dato corso al processo espropriativo.
Peraltro da detta premessa non discende automaticamente (come ha viceversa ritenuto il Tribunale Superiore delle Acque) il rigetto della domanda restitutoria a suo tempo formulata dalla ricorrente.
Ed infatti la ricorrente, invocando la restituzione del bene oggetto del procedimento espropriativo, ha sostanzialmente esercitato, nella sua qualità di danneggiato, la richiesta di reintegrazione in forma specifica del pregiudizio subito, con ciò esercitando il diritto riconosciuto dall’art. 2058, primo comma, c.c.
E’ ben vero che in tali ipotesi (quelle cioè in cui, a seguito di dichiarazione di pubblica utilità, sia intervenuta l’irreversibile trasformazione del fonda) l’eventuale domanda di risarcimento in forma specifica formulata dal proprietario del terreno interessato è ordinariamente destinata ad un esito negativo, dovendo trovare prioritario soddisfacimento l’interesse posto a base della realizzazione dell’opera pubblica.
Tuttavia nel caso in cui (come viene rappresentato in quello oggetto di esame) le condizioni di fatto riscontrate deponessero nel senso di un sopraggiunto difetto di interesse della Pubblica Amministrazione a perseguire l’obiettivo originariamente considerato meritevole di soddisfacimento, non vi sarebbe alcun motivo ostativo all’accoglimento della domanda di restituzione del terreno occupato a seguito di dichiarazione di pubblica utilità, domanda come detto basata sulla richiesta di applicazione delle disposizioni vigenti in tema di risarcimento del danno.
D’altra parte tale conclusione (quella cioè della necessità di una verifica in ordine al collegamento effettivo fra i lavori di trasformazione compiuti e la realizzazione dell’opera programmata) risulta in sintonia con principi già affermati dal legislatore in tema di espropriazione e dalla giurisprudenza di questa Corte.
In tema di retrocessione, infatti, è stato previsto che, una volta trascorso il termine per l’esecuzione dell’opera pubblica, gli espropriati possono richiedere la decadenza della dichiarazione di pubblica utilità e la condanna dell’espropriante alla restituzione dei beni precedentemente acquisiti (art. 63 l. 2359/1865 è stato analogamente previsto identico diritto dell’espropriato nel caso in cui il fondo non abbia dell’espropriato nei caso in cui il fondo non abbia ricevuto (sia pure in parte) la destinazione impressa nel progetto originario (artt. 60 e 61 l. 2359/1865); anche con più recente normativa è stato riconosciuto all’espropriato il diritto di chiedere la decadenza dalla dichiarazione di pubblica utilità e la restituzione del fondo nel caso di mancata realizzazione dell’opera nel termine di dieci anni dall’esecuzione dell’espropriazione (art. 46 D.P.R. 08.06.2001, n. 327).
E pure la giurisprudenza di questa Corte, come detto, si è costantemente espressa nel senso ora indicato, ribadendo inoltre, con recente decisione in tema di elementi ostativi alla restituzione dei terreni oggetto di espropriazione al proprietario, ove non risultante la loro conformazione alla programmazione originaria dell’opera.
Conclusivamente, devono essere accolti il quarto ed il quinto motivo dì ricorso con assorbimento degli altri, la sentenza impugnata va conseguentemente cassata, con rinvio al Tribunale Superiore delle Acque pubbliche diversa composizione, per una nuova delibazione in ordine all’istanza di restituzione del terreno oggetto di giudizio proposta dalla ricorrente, sulla base del principio secondo cui il sollecitato riconoscimento del relativo diritto può essere negato quando, oltre all’accertata irreversibilità della trasformazione delle aree occupate, risulti la permanenza e l’attualità dell’interesse della Pubblica Amministrazione alla realizzazione e alla utilizzazione delle opere programmate (commento tratto da www.ipsoa.it - Sentenza Corte di Cassazione, civile, sentenza 31.05.2011 n. 11963).

ESPROPRIAZIONE: Occupazione illegittima di aree private - Somme dovute e titolo di risarcimento del danno - Corresponsione di interessi anatocistici - Esclusione.
Il valore del ristoro spettante per l’ipotesi di occupazione illegittima di aree private deve essere integrale e, pertanto, sulla somma spettante a titolo di risarcimento danni, costituente la sorte capitale di un debito di valore, vanno corrisposti la rivalutazione monetaria, secondo gli indici ISTAT dei prezzi al consumo, e gli interessi legali (di natura compensativa) sulle somme anno per anno rivalutate fino alla data di deposito della sentenza con cui viene riconosciuto il diritto, e soltanto gli interessi legali da tale data fino a quella di effettivo soddisfo, con esclusione degli interessi anatocistici in quanto non espressamente previsti dalle legge (fattispecie in tema di richiesta di risarcimento dei danni prodotti dalla trasformazione di fondi e dall’illegittima perdita della proprietà, a seguito di occupazione in via temporanea ed urgente di terreni per la durata di cinque anni, allo scadere dei quali non veniva adottato il decreto di esproprio) (C.G.A.R.S., sentenza 02.05.2011 n. 352 - link a www.ambientediritto.it).

ESPROPRIAZIONE: L’acquisizione senza titolo di suoli privati per pubblica utilità comporta sempre la necessità di risarcire anche il danno da occupazione illegittima.
ESPROPRIAZIONE PER P.U. – INVALIDITA’ PROCEDURA – UTILIZZAZIONE E TRASFORMAZIONE SENZA TITOLO – DIRITTO DEL PROPRIETARIO DEL SUOLO AL RISARCIMENTO DEI DANNI SUBITI – COMPRENDE L’AUTONOMA SORTE DI DANNO DA OCCUPAZIONE ILLEGITTIMA.

L’utilizzazione senza titolo di un bene di proprietà privata comporta, normalmente, due distinti danni, i quali vanno entrambi risarciti, anche alla luce dei principi espressi dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU), relativi alla necessaria integrità del ristori del pregiudizio derivante da attività illecita dell’amministrazione
Il primo attiene alla perdita (definitiva) della proprietà, che avviene nel momento in cui è adottato il provvedimento di cui all’articolo 43 del testo unico (norma dichiarata costituzionalmente illegittima con sentenza C. Cost. 293/2010) o quando, come nella specie, il privato “rinuncia” alla proprietà.
Il secondo danno riguarda la mancata utilizzazione del bene (o del suo corrispondente valore monetario) per il periodo compreso tra l’inizio della occupazione senza titolo e la perdita della proprietà.
Tale seconda voce di danno deve essere risarcita in modo pieno e completo, ma, ovviamente, senza determinare duplicazioni o sovrapposizioni con il ristoro già insito nel risarcimento calcolato sulla perdita del bene, opportunamente rivalutato (massima tratta atto da www.amministrazioneincammino.luiss.it - C.G.A.R.S., sentenza 02.05.2011 n. 351 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Espropriazione per pubblica utilità - Occupazione senza titolo - Danni conseguenti - Risarcibilità.
L’utilizzazione senza titolo di un bene di proprietà privata comporta, normalmente, due distinti danni, i quali vanno entrambi risarciti, avuto riguardo, altresì, ai principi espressi dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU), relativi alla necessaria integrità del ristoro del pregiudizio derivante da attività illecita dell’amministrazione.
Il primo attiene alla perdita (definitiva) della proprietà, che avviene nel momento in cui è adottato il provvedimento di cui all’articolo 43 del D.P.R. 08.06.2001, n. 327 (norma dichiarata costituzionalmente illegittima con sentenza C. Cost. 293/2010) o quando il privato “rinuncia” alla proprietà.
Il secondo danno riguarda la mancata utilizzazione del bene (o del suo corrispondente valore monetario) per il periodo compreso tra l’inizio della occupazione senza titolo e la perdita della proprietà (CGA per la regione Siciliana, 18.02.2009, n. 49) (C.G.A.R.S., sentenza 02.05.2011 n. 351 - link a www.ambientediritto.it).

ESPROPRIAZIONE: Fine dell'accessione invertita, si applica il C.C.. Espropriazione per P.U., il diritto romano salva la P.A..
Nel caso di esecuzione di un'opera pubblica con una procedura espropriativa illegittima, la specificazione ex art. 940 c.c. consente alla P.A. di acquisire, a titolo originario, la proprietà della medesima al proprio patrimonio indisponibile.
Molto interessante la decisione qui segnalata del TAR di Lecce circa il regime dell’espropriazioni per p.u. illegittime a seguito dell’abrogazione costituzionale dell’art. 43 del T.U. sulle espropriazioni.
Ha infatti osservato il G.A. pugliese che, venuto meno l’istituto dell’accessione invertita e quello dell'acquisizione sanante (a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 293 del 2010, che ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 43 del T.U. espropriazione), deve ritenersi che, nel caso sia stata realizzata un’opera pubblica in assenza del compimento nei termini della procedura espropriativa o in assenza di una valida procedura, debba trovare applicazione l’istituto della "specificazione" di cui all’art. 940 c.c..
Per effetto della specificazione del fondo la proprietà dell’opera pubblica viene acquistata, a titolo originario, dall’ente specificatore nel momento in cui l’opera di specificazione è completata, cioè si è avuta la specificazione.
Questo non in conseguenza di un illecito, ma di un istituto che affonda le sue radici nel diritto romano e costituisce un fatto che dà diritto a un indennizzo (e non un illecito che dà diritto al risarcimento del danno).
Indennizzo che va necessariamente commisurato al valore venale del bene che per effetto della specificazione non esiste più, cioè il fondo: che costituisce il prezzo della materia (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 29.04.2011 n. 785 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Per il Giudice salentino la “specificazione” ex art. 940 c.c. è una ragionevole via d’uscita dopo la declaratoria d’illegittimità costituzionale della c.d. “acquisizione sanante”.
ESPROPRIAZIONE PER P.U. – INVALIDITA’ DELLA PROCEDURA – SORTE DELL’OPERA PUBBLICA REALIZZATA SUL SUOLO NON LEGITTIMAMENTE ACQUISITO – RICOSTRUZIONE DISCIPLINA APPLICABILE DOPO DECLARATORIA ILLEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE ART. 43 D.P.R. 327/2001 – ACQUISIZIONE A TITOLO ORIGINARIO DEL SUOLO PER SUA “SPECIFICAZIONE” NELL’OPERA PUBBLICA AI SENSI DELL’ART. 940 C.C. – CONSEGUENZE.

Dopo la declaratoria d’illegittimità costituzionale dell’istituto della c.d. “acquisizione sanante”, di cui all’art. 43 D.P.R. n. 327/2001, per consolidare l’effetto acquisitivo del suolo alla mano pubblica, indotto dalla sua ormai irreversibile trasformazione, può utilizzarsi un’applicazione estensiva del principio codificato dall’art. 940 c.c., che riconnette l’acquisto a titolo originario della cosa mobile, quale risultante dalla “specificazione” di un diverso bene.
Per effetto della specificazione del fondo la proprietà dell’opera pubblica viene acquistata, a titolo originario, dall’ente specificatore nel momento in cui l’opera di specificazione è completata, cioè si è avuta la specificazione; questo non in conseguenza di un illecito ma di un istituto che affonda le sue radici nel diritto romano e costituisce un fatto che dà diritto ad un indennizzo non un illecito che dà diritto al risarcimento del danno. Sull’acquisto non influisce quanto può essere ritenuto o meno dal giudice, sicché le norme che disciplinano il fenomeno sono “precise e prevedibili”, rispettano le indicazioni del giudice di Strasburgo.
Le stesse sono anche “accessibili“: quando l’opera è stata realizzata in violazione dei termini fissati, la richiesta indennitaria può essere avanzata nel termine di dieci anni dalla verificazione del fatto; se invece l’opera è stata realizzata a seguito di una procedura successivamente annullata il termine prescrizionale decorre, ex art. 2935 c.c., dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere, cioè da quando è passata in giudicato la pronuncia che ha annullato gli atti della procedura (commento tratto da www.amministrazioneincammino.luiss.it - TAR Puglia–Lecce, Sez. I, sentenza 27.04.2011 n. 743 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Palla alla Consulta su mancata dichiarazione Ici.
Sarà la Corte costituzionale a decidere se il contribuente che non ha presentato la dichiarazione Ici dev'essere privato, in caso di espropriazione per pubblica utilità, della relativa indennità.
A rimettere gli atti a Palazzo della Consulta sono state le Sezioni unite civili della Corte di Cassazione che, con l'ordinanza 14.04.2011 n. 8489, non hanno ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità dell'articolo 16 del dlgs 504 del '92 e in particolare della sua interpretazione che ha ritenuto finora non dovuta al contribuente l'indennità di esproprio in caso di mancata dichiarazione Ici.
Insomma, ha sancito il Collegio esteso, «ritenuta la rilevanza nel giudizio in corso e la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 16, comma 1, del dlgs 30.12.1992, n. 504, oggi art. 37, comma 7, dpr 08.06.2001, n. 327, nella parte in cui, in caso dì omessa dichiarazione/denuncia Ici o di dichiarazione/denuncia di valori assolutamente irrisori, non stabilisce un limite alla riduzione dell'indennità di esproprio, idoneo a impedire la totale elisione di qualsiasi ragionevole rapporto tra il valore venale del suolo espropriato e l'ammontare della indennità, pregiudicando in tal modo anche il diritto a un serio ristoro, spettante all'espropriato, con riferimento agli artt. 117, primo comma, e 42, terzo comma, Cost., anche in considerazione del disposto dell'art. 6 e dell'art. 1, del primo protocollo addizionale della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali».
Ora la parola passa ai giudici delle leggi che, nei prossimi mesi, dovranno stabilire se è conforme alla Carta fondamentale l'interpretazione obbligata delle norme sull'Ici per cui l'indennità di espropriazione va esclusa in caso di mancata dichiarazione.
L'iter giudiziario del contribuente si allungherà ancora. Infatti, oltre al passaggio al Collegio esteso di Piazza Cavour deciso dalla prima sezione civile, ora si dovrà attendere il verdetto della Corte costituzionale (articolo ItaliaOggi del 15.04.2011).

ESPROPRIAZIONE: 1. Annullamento degli atti della procedura espropriativa - Obbligo per la P.A. di assicurare la restitutio in integrum dei suoli espropriati - Sussiste.
2. Annullamento degli atti della procedura espropriativa - Risarcimento del danno - Colpa della P.A. - Sussiste in caso di negligente gestione della procedura espropriativa.
3. Annullamento degli atti della procedura espropriativa - Mancato godimento di un immobile - Risarcimento del danno - Necessità di specifica prova del danno - Non sussiste - Criterio di quantificazione - Valore locativo del cespite.
4. Annullamento degli atti della procedura espropriativa - Mancato godimento di un immobile - Risarcimento del danno non patrimoniale - Necessità di allegare elementi concreti e specifici - Sussiste - Danno non patrimonale in re ipsa - Non sussiste - Liquidazione equitativa - Non è ammessa.

1. Laddove l'Amministrazione subisca l'annullamento degli atti della procedura espropriativa, la stessa, in adempimento della norma agendi ricavabile dalla sentenza annullatoria, dovrà attivarsi per restituire ai proprietari i suoli espropriati, nello stesso stato in cui essi si trovavano al momento dell'apprensione, essendo tenuta a porre in essere tutti gli adempimenti necessari ad assicurare l'effettiva ed integrale restitutio in integrum del possesso in capo ai proprietari del suolo.
2. Sussiste l'estremo della colpa rilevante ai fini risarcitori, per l'ingiustificato scostamento dagli standard di buona amministrazione imposti al soggetto pubblico dal suo stesso ruolo, ove si verifichi uno spossessamento del fondo di proprietà di privati causalmente riconducibile alla illegittima attività provvedimentale della P.A. che abbia negligentemente gestito la procedura ablatoria, incidendo inevitabilmente sul diritto dominicale, a maggior ragione qualora l'amministrazione si sia disinteressata dello stato dei terreni occupati.
3. Nei casi di mancato godimento di un immobile, il danno non necessita di specifica prova, essendo esso in re ipsa e consistendo nell'impossibilità di ritrarre le utilità normalmente derivanti dalla fruizione del bene, in relazione alla natura fruttifera di esso.
Tale danno può essere quantificato facendo riferimento al c.d. danno figurativo e, quindi, al valore locativo del cespite.
4. La pretesa risarcitoria avente ad oggetto il danno non patrimoniale -ove non si sia verificato un mero disagio o fastidio, inidoneo, ex se, a fondare una domanda di risarcimento del danno- esige una allegazione di elementi concreti e specifici da cui desumere, secondo un criterio di valutazione oggettiva, l'esistenza e l'entità del pregiudizio subito, il quale non può essere ritenuto sussistente in re ipsa, né è consentito l'automatico ricorso alla liquidazione equitativa (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 31.03.2011 n. 854 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno da occupazione sine titulo non inizia a decorrere fino alla restituzione dell'immobile ovvero al sopravvenire dell'atto di acquisizione.
In conformità con gli insegnamenti della Corte Costituzionale discendenti dalla sent. 191/2006, va affermata la giurisdizione del giudice amministrativo nel caso di specie in cui si fa questione di una pretesa risarcitoria connessa ad una occupazione del bene, già legittima (poiché sorretta da idonea dichiarazione di pubblica utilità, circostanza non contestata) che è poi tuttavia divenuta illecita per mancata emanazione nei termini di legge di un decreto definitivo di esproprio.
Detto “comportamento” illecito della P.A. è senz’altro riconducibile (mediatamente) alla titolarità e all’esercizio di poteri autoritativi tipici in materia espropriativa (cfr. Cons. Stato, ad. pl., 22.10.2007, n. 12; C.G.A., 25.05.2009, n. 486).
Tale arresto giurisprudenziale trova oggi riscontro anche sul piano normativo in ragione della lett. g), comma 1, art. 133 del Cod. Proc. Amm. ai sensi del quale sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi ad oggetto gli atti, i provvedimenti, gli accordi e i comportamenti riconducibili, anche mediatamente, all’esercizio di un pubblico potere delle pubbliche amministrazioni in materia di espropriazione per pubblica utilità.
Malgrado l’eliminazione dal mondo giuridico dell’istituto della cd. acquisizione sanante di cui all’art. 43 del D.P.R. n. 327 del 2001, a seguito della dichiarazione di incostituzionalità di quest’ultima norma (Cort. Cost. sentenza 08.10.2010 n. 293), il Collegio ritiene di non poter abdicare alla consolidata giurisprudenza pregressa che qualifica il comportamento in specie tenuto dalla pubblica amministrazione (comunque riconducibile, ripetesi, alla estrinsecazione di un potere pubblico in ragione di una valida dichiarazione di pubblica utilità e di un legittimo decreto occupazione d’urgenza, cui tuttavia non ha fatto seguito nei termini previsti dalla legge il provvedimento definitivo di esproprio) quale illecito permanente nella cui vigenza non decorre la prescrizione (cfr. TAR Palermo sez. III, 13.01.2009, n. 39) in mancanza di un effetto traslativo della proprietà, stante la mancanza del provvedimento di esproprio, connesso alla mera irrevocabile modifica dei luoghi (conformi: Tar Palermo Sez. II, sentenza n. 187 del 01.02.2011; Tar Palermo Sez. I, sentenza n. 204 del 04.02.2011) (massima tratta da www.dirittodegliappaltipubblici.it - TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 01.02.2011 n. 175 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Occupazione acquisitiva o appropriativa - Caratteristiche - Espropriazione per pubblica utilità - Diritto all'indennità - Assenza di formale decreto di esproprio - Risarcimento del danno - Limite al diritto dominicale sul bene.
Il fenomeno della cosiddetta occupazione acquisitiva o appropriativa presenta, in sintesi, i seguenti caratteri:
a) la trasformazione irreversibile del fondo, con destinazione ad opera pubblica o ad uso pubblico, determina l'acquisizione della proprietà alla mano pubblica;
b) il fenomeno, in assenza di formale decreto di esproprio, ha il carattere dell'illiceità, che si consuma alla scadenza del periodo di occupazione autorizzata (e, quindi, legittima) se nel frattempo l'opera pubblica è stata realizzata;
c) l'acquisto a favore della p.a. si determina soltanto qualora l'opera sia funzionale ad una destinazione pubblicistica e ciò avviene solo per effetto di una dichiarazione di pubblica utilità formale (Cass. 2003/6853).
Ove la fattispecie estintiva - acquisitiva della proprietà dell'area occupata si perfezioni alla scadenza del termine di occupazione legittima, il proprietario del bene occupato, oltre al diritto all'indennità per il periodo di occupazione autorizzata, consegue il diritto al risarcimento del danno da occupazione appropriativa ma non anche al risarcimento del danno da occupazione illegittima per il periodo successivo a tale evento, in cui è ormai venuto meno il suo diritto dominicale sul bene.
Procedimenti espropriativi - Occupazioni d'urgenza - Proroga i termini - Limiti - Fatto (illecito) acquisitivo - Indennità - L. n. 219/1981 - Art. 9 d.lgs. n. 354/1999.
In tema di attuazione dei procedimenti espropriativi per la realizzazione degli interventi di cui al titolo ottavo della legge 14.05.1981, n. 219, l'art. 9 d.lgs. 20.09.1999, n. 354 che proroga i termini relativi alle occupazioni d'urgenza, se prescinde dalla legittimità o illegittimità dell'occupazione al tempo della sua entrata in vigore, riguarda comunque solo i procedimenti espropriativi che siano in corso alla stessa data; ne deriva che la norma può valere a restituire legittimità ad occupazioni divenute inefficaci o illegittime solo se l'obiettivo di recupero della procedura espropriativa -costituente la "ratio" dichiarata della norma- sia conseguibile per non essersi già perfezionato il fatto (illecito) acquisitivo per effetto del concorrere dell'illegittimità dell'occupazione e dell'irreversibile trasformazione del fondo (Cass. Sez. Unite sentenza n. 6769 del 2009; Cass. 2004/3966; 2005/7544; sezioni unite 2008/3358; 2009/3225; 2009/28332).
Opere pubbliche - Concessione cd. Traslativa - Esercizio delle funzioni oggettivamente pubbliche - Trasferimento al concessionario.
In tema di opere pubbliche, la concessione cd. traslativa, comporta il trasferimento al concessionario, in tutto o in parte, dell'esercizio delle funzioni oggettivamente pubbliche proprie del concedente e necessarie per la realizzazione delle opere ed in particolare il compimento in nome proprio di tutte le operazioni materiali, tecniche e giuridiche occorrenti per la realizzazione del programma edilizio, ancorché comportanti l'esercizio di poteri di carattere pubblicistico.
Ne consegue che il concessionario, acquistando poteri e facoltà trasferitigli dall'amministrazione concedente, si sostituisce a quest'ultima nello svolgimento dell'attività organizzativa e direttiva necessaria per realizzare l'opera pubblica e diviene, in veste di soggetto attivo del rapporto attuativo della concessione, l'unico titolare di tutte le obbligazioni che ad esso si ricollegano.
Popolazioni colpite dagli eventi sismici - Concessione di cui all'art. 81 L. n. 219/1981 - Natura c.d. traslativa.
Per gli interventi in favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici del novembre 1980 e del febbraio 1981, la concessione di cui all'art. 81 della legge n. 219 del 1981, stante l'ampiezza dei poteri che la norma prevede per il concessionario, ha natura c.d. traslativa (Cass. 2007/26261).
Occupazione acquisitiva - Espropriazione per pubblica utilità - Strumento della concessione traslativa - Disciplina speciale - Attribuzione al concessionario affidatario dell'opera della titolarità di poteri espropriativi - Limiti - Principio di legalità dell'azione amministrativa - Obblighi indennitari e risarcitori - Legittimazione passiva e risarcimento del danno - Artt. 80, 81 e 84, L. n. 219/1981.
In tema di espropriazione per pubblica utilità, il mero ricorso allo strumento della concessione traslativa, con l'attribuzione al concessionario affidatario dell'opera della titolarità di poteri espropriativi, non può comportare indiscriminatamente l'esclusione di ogni responsabilità al riguardo del concedente, essendo necessario a tal fine che, in osservanza al principio di legalità dell'azione amministrativa, l'attribuzione all'affidatario di detti poteri e l'accollo da parte sua degli obblighi indennitari e risarcitori siano previsti da una legge che espressamente li autorizzi.
Ne consegue che -avendo gli artt. 80, 81 e 84 (e, segnatamente, l'art. 81) della legge 14.05.1981, n. 219 (relativa al programma straordinario di urbanizzazione nell'area metropolitana del Comune di Napoli) autorizzato, in forza di una disciplina speciale e in parte derogatoria rispetto a quella sulle espropriazioni, il ricorso alla concessione traslativa- la fonte della responsabilità esclusiva del concessionario e della sua legittimazione passiva, sia in relazione al risarcimento del danno per l'occupazione acquisitiva, che in relazione al pagamento delle indennità dovute in conseguenza di espropriazioni rituali, deve essere individuata proprio nelle menzionate norme di legge (cfr Cass. SU 2009/6769) (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 20.01.2011 n. 1362 - link a www.ambientediritto.it).

anno 2010

ESPROPRIAZIONE: M. Spagnuolo, La reviviscenza dell'occupazione appropriativa (nota a commento di Corte Costituzionale, sentenza 04-08.10.2010 n. 293) (Ufficio Tecnico n. 11-12/2010).

ESPROPRIAZIONE: C. Cannizzo, Previsione urbanistica e procedimento espropriativo (link a www.diritto.it).

ESPROPRIAZIONE: Espropriazione per pubblica utilità - Reiterazione del vincolo preordinato all'esproprio - Indennizzo - Spettanza del pagamento - Non rileva ai fini della legittimità del procedimento.
Il principio della spettanza di un indennizzo al proprietario nel caso di reiterazione del vincolo preordinato all'esproprio non rileva per la verifica della legittimità dei provvedimenti che hanno disposto l'approvazione dello strumento urbanistico con la conseguente reiterazione o proroga del vincolo, atteso che i profili attinenti alla spettanza o meno dell'indennizzo e al suo pagamento non attengono alla legittimità del procedimento, ma riguardano questioni di carattere patrimoniale, che presuppongono la conclusione del procedimento di pianificazione e sono devolute alla cognizione della giurisdizione ordinaria (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 20.12.2010 n. 7661 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Cd. “occupazione acquisitiva” o “accessione invertita” - Procedura espropriativa - Conferimento ad una cooperativa edilizia - Decreto di esproprio - Scadenza del termine dell’occupazione legittima - Effetti - Corresponsabilità dell’Ente delegante per lesione patrimoniale - Presupposti - Risarcimento ex artt. 2043 e 2055 c.c..
In tema di espropriazione per pubblica utilità, qualora una cooperativa edilizia, cui sia stato conferito dal Comune espropriante l’incarico di compiere la procedura espropriativa e non soltanto di curare la realizzazione dell’opera, non abbia ottenuto la pronuncia del decreto di esproprio prima della scadenza del termine dell’occupazione legittima, ma, consapevole dell’illegittimità del persistere di questa, abbia provveduto all’esecuzione dell’opera stessa e reso irreversibile la destinazione pubblica dell’area, permanendo nel possesso dell’immobile pur dopo la scadenza di siffatto termine, è a detta cooperativa che, in veste di autrice materiale della radicale trasformazione del bene e, quindi, di responsabile per la lesione patrimoniale subita dal proprietario a seguito del maturarsi, in difetto di tempestiva emanazione del richiamato decreto, dei presupposti della figura della cosiddetta “occupazione acquisitiva” o “accessione invertita”, deve imputarsi l’illecito aquiliano risultante dal concorso di tale trasformazione e dall’illegittimità dell’occupazione in ragione del perdurare senza titolo di questa, ricadendo sul delegato, ancorché superficiario ovvero indipendentemente dalla circostanza che l’opera eseguita non entri nel patrimonio dell’autore della condotta, l’onere di attivarsi affinché il decreto di esproprio intervenga tem-pestivamente e la fattispecie venga mantenuta entro la sua fisiologica cornice di legittimità.
In tal caso, sussiste una corresponsabilità dell’Ente delegante il quale avrebbe dovuto promuovere la procedura espropriativa, atteso che siffatta procedura si svolge non solo “in nome e per conto” del Comune, ma “d’intesa” con esso (art. 60 della legge 22.10.1971, n. 865), sicché è da ritenere che detto Ente non si spogli, con la delega, della responsabilità relativa allo svolgimento della procedura stessa, ma conservi un potere di controllo e di stimolo dei comportamenti del delegato, il cui mancato o insufficiente esercizio, sotto il profilo della negligenza o dell’inerzia, è ragione di corresponsabilità con il medesimo delegato per i danni da quest’ultimo materialmente arrecati, restando pur sempre l’Ente, anche nell’ipotesi in cui ricorra all’istituto della delega, dominus della procedura e, quindi, responsabile della condotta del delegato, in applicazione del principio in forza del quale la delega ad un altro soggetto della cura della procedura espropriativa non fa venir meno, in chi tale delega abbia conferito, la qualità di espropriante e, quindi, il dovere di cooperare al controllo del razionale e tempestivo svolgimento della procedura stessa, cui si accompagna, quindi, come accennato, nell’ipotesi di mancata, tempestiva emanazione del decreto di esproprio, una posizione di corresponsabilità che obbliga lo stesso delegante, ove ne ricorrano tutti i presupposti (condotta attiva od omissiva; elemento psicologico della colpa; danno, nesso di causalità tra condotta e pregiudizio), al relativo risarcimento ai sensi del combinato disposto degli artt. 2043 e 2055 c.c.). (Cass. Civ., sez. I, 12/07/2001, n. 9424, Cass. Civ. sez. I, 19/10/2007, n. 21096) (C.G.A.R.S., sentenza 26.10.2010 n. 1334 - link a www.ambientediritto.it).

ESPROPRIAZIONE: Espropriazione per pubblica utilità - Competenze del comune - Art. 3, comma 101, L.R. 1/2000 - Portata.
Il riferimento alla "edilizia residenziale pubblica" operato dall'art. 3, comma 101, L.R. 1/2000, che delega ai comuni, per i lavori di rispettiva competenza, le funzioni amministrative regionali concernenti l'espropriazione per pubblica utilità di cui al titolo II, Legge n. 865/1971, è una sintetica descrizione dell'epigrafe di detta legge e non può intendersi come un limite alla competenza devoluta ai comuni in materia di espropriazione: con la conseguenza che per i lavori di propria pertinenza i comuni sono titolari di funzioni trasferite (dichiarazione di pubblica utilità e occupazione d'urgenza) e di funzioni delegate (espropriazione per pubblica utilità) (cfr. TAR Milano, sent. n. 4/2010; TAR Brescia, sent. n. 1142/2004) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 14.10.2010 n. 6931 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Il provvedimento di sanatoria ex art. 43 t.u. espropriazioni annulla l’eventuale precedente condanna giudiziale alla restituzione del fondo occupato sine titulo.
La Sezione ha già avuto modo di affermare che la natura del provvedimento di sanatoria previsto dal cit. art. 43 è tale da porre nel nulla l’eventuale precedente condanna giudiziale (passata o meno in giudicato) alla restituzione del fondo occupato sine titulo, in quanto l’ordine di restituzione non incide sulla struttura dell’istituto in parola, il quale presuppone appunto l’assodata lesione del diritto di proprietà altrui dal momento che la restituzione è conseguenza dell’accertamento della proprietà dei beni e non implica effetti costitutivi (unici effettivamente incompatibili con il provvedimento reso ex art. 43 cit.); il giudice che la dispone non modifica, infatti, la situazione giuridica precedente l’abusiva detenzione del bene ma semplicemente l’accerta, sicché il suo ordine non è idoneo a paralizzare un atto di autorità che, consapevolmente, viola il diritto di proprietà senza contestarne la titolarità secondo uno schema reso possibile dall'art. 42, co. 3, Cost..
Invero, una volta adottato il provvedimento di sanatoria, tutte le aspettative di tutela del privato, restitutorie e risarcitorie, si canalizzano nell’eventuale contenzioso avente ad oggetto il provvedimento in questione e ben possono essere integralmente soddisfatte a conclusione del relativo giudizio (cfr. Cons. St., questa Sez. V, 11.05.2009 n. 2877, menzionata dall’appellante, nonché Cons. giust. amm., 29.05.2008 n. 490, ivi richiamata).
E' agevole opporre l’indirizzo già espresso dalla giurisprudenza amministrativa, seguito dalla Sezione e dal quale il Collegio non intende discostarsi, col quale, pur nella consapevolezza della contraria tesi sostenuta dalla Corte di cassazione sul punto (cfr. Sez. I, 22.09.2008 n. 23943; Sez. un. 04.05.2006 n. 10222), è stato affermato che l’art. 43 si riferisce a tutti i casi di occupazioni sine titulo, anche già verificatisi alla data di entrata in vigore del t.u., giacché l’art. 57 del medesimo t.u. disciplina in via transitoria l’ambito di applicazione della riforma in relazione alle diverse fasi fisiologiche del procedimento espropriativo, mentre l’atto di acquisizione ex art. 43 è emesso ab externo al medesimo procedimento e non rientra, pertanto, nel predetto ambito (cfr. Cons. St., Ad. plen., 29.04.2005 n. 2; Sez. IV, 21.05.2007 n. 2582 e 04.02.2008 n. 303; Sez. V, cit. n. 2877 del 2009) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.10.2010 n. 7472 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEEspropriazione per pubblica utilità: no alla utilizzazione, senza titolo, di un bene per scopi di interesse pubblico.
La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’intero articolo 43 del decreto del Presidente della Repubblica 08.06.2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità) che concedeva alla Pubblica Amministrazione la possibilità di utilizzazione sine titulo di un bene per scopi di interesse pubblico.
La disposizione censurata prevedeva un ampio potere discrezionale circa la possibilità, da parte dell’Autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, di disporre l’acquisizione del bene al suo patrimonio indisponibile – la c.d. «acquisizione sanante».
Inoltre, il bene poteva essere modificato nella sua consistenza anche in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, salvo il risarcimento del danno da corrispondere in favore del proprietario.
Dopo aver delineato il quadro normativo entro cui fu inserito l’articolo 43 censurato, La Corte sottolinea che la norma in esame non solo è marcatamente innovativa rispetto al contesto di leggi regolatrici della materia, di cui era consentito un mero riordino dalla legge delega, ma neppure è coerente con quegli orientamenti di giurisprudenza che, in via interpretativa, erano riusciti a porre un certo rimedio ad alcune gravi patologie emerse nel corso dei procedimenti espropriativi.
Siffatto carattere della norma impugnata, affermano i giudici, trova conferma significativa nella circostanza che, secondo la giurisprudenza di legittimità, in materia di occupazione di urgenza, la sopravvenienza di un provvedimento amministrativo non poteva avere un’efficacia sanante retroattiva, determinata da scelte discrezionali dell’ente pubblico o dai suoi poteri autoritativi.
Nel regime risultante dalla norma impugnata, invece, si prevede un generalizzato potere di sanatoria, attribuito alla stessa amministrazione che ha commesso l’illecito, a dispetto anche di un eventuale giudicato che disponga il ristoro in forma specifica del diritto di proprietà violato (Corte Costituzionale, sentenza 08.10.2010 n. 293 - link a www.litis.it).

ESPROPRIAZIONE: Risarcimento danni per illegittima occupazione e trasformazione aree - Decreto di esproprio nullo e privo di giuridica efficacia - Giudizio di ottemperanza - Limiti di procedibilità - Fondi occupati illegittimamente - Proprietà - Fattispecie - Artt. 37 L. n. 1034/1971 e 27 R.D. n. 1054/1924.
Il giudizio di ottemperanza previsto dagli artt. 37 della legge n. 1034 del 1971 e 27 del R.D. n. 1054 del 1924 è diretto a far dichiarare il dovere dell’Amministrazione a conformarsi alle decisioni coperte da giudicato per far conseguire agli interessati l’utilitas o il bene della vita già loro riconosciuta in sede di cognizione nell’ambito del quadro processuale che ha costituito il substrato fattuale e giuridico della sentenza di cui si chiede l’esecuzione sulla base del petitum, causa petendi e motivi del decisum (Cons. Stato Sez. IV 16/11/2007 n. 5883).
Nella specie, il TAR disponeva il rigetto dei ricorsi “dovuto da una parte al fatto che i fondi occupati sono ancora di proprietà dei ricorrenti i quali possono pretenderne la immediata restituzione e dall’altro lato ad una incompletezza delle domande, non essendo stata formulata né richiesta di restituzione né di risarcimento di danni diversi da quelli conseguenti alla perdita della proprietà”.
Lo stesso Tribunale nel dispositivo accertava e dichiarava che il decreto di esproprio, “emesso dal Comune di è nullo e privo di giuridica efficacia” (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 03.08.2010 n. 5175 - link a www.ambientediritto.it).

ESPROPRIAZIONE: Progetto di pubblica utilità - Ordinanza di occupazione - Motivazione che rilevi l’urgenza - “Legge obiettivo” n.443/2001 - Occupazione anticipata finalizzata all'esproprio di terreni - Art. 22-bis, testo unico sugli espropri n. 327/2001 - Fattispecie.
A seguito dell’entrata in vigore dell‘art. 22-bis, testo unico sugli espropri n. 327 del 2001, deve ritenersi sufficiente la motivazione dell’ordinanza di occupazione che rilevi l’urgenza di consentire la realizzazione previste dal progetto di pubblica utilità.
Nella specie, l’immissione in possesso riguardava la realizzazione di lavori aventi una specifica qualificazione legale di urgenza, in quanto volti al raddoppio della strada statale Aurelia bis, rientrante nell’ambito di applicazione della “legge obiettivo” n.443/2001 (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 03.08.2010 n. 5174 - link a www.ambientediritto.it).

ESPROPRIAZIONEEsproprio comunale anche per i beni tutelati. Indispensabile per il nulla-osta da parte del ministero. Il vincolo non fa venire meno il potere dell'ente locale.
Anche un bene tutelato può essere espropriato dall'amministrazione comunale, dopo aver acquisito il nulla osta da parte della soprintendenza competente.
E' questo l'innovativo principio affermato dalla VI Sezione del Consiglio di Stato, sentenza 27.07.2010 n. 4890, nel respingere l'appello proposto dai proprietari di un palazzo storico, che -in primo grado- avevano impugnato un decreto di occupazione d'urgenza del giardino antistante l'edificio, anch'esso vincolato.
Il provvedimento era stato emesso da un comune per la realizzazione sul giardino di una pubblica piazza e a sostegno dell'impugnativa gli interessati avevano contestato, tra l'altro, l'incompetenza del comune a procedere all'esproprio, stante la presenza di un vincolo storico-artistico sull'intero complesso immobiliare.
I giudici di Palazzo Spada, nel confermare la sentenza di primo grado (Tar Campania-Salerno, I sezione n. 258/2005), hanno evidenziato come i poteri espropriativi attribuiti al ministero per i Beni e le attività culturali, prima dal Testo unico dlg. 490/1999 (articoli 91 e seguenti) e oggi dal Dlgs /2004 (articoli 95 seguenti), perseguono una finalità ben specifica: il miglioramento delle condizioni del bene tutelato e la sua pi ampia fruibilità da parte della collettività. Il che corrisponde, quindi a una causa di pubblica utilità tipica e del tutto differente rispetto a quella della realizzazione dell'opera pubblica che l'amministrazione comunale voleva eseguire, rispetto alla quale l'amministrazione centrale risultava del tutto estranea.
Di conseguenza, l'assoggettamento di un bene privato a un vincolo storico artistico non fa di per sé venire meno gli ordinari poteri ablatori di un comune, che potranno essere esercitati nel rispetto delle finalità di tutela -finalità che, è bene sottolinearlo, costituiscono soltanto dei parametri in relazione ai quali va valutato l'impatto dell'intervento costruttivo che si intende attuare a seguito dell'esproprio.
Giunta competente.
Nel caso esaminato dalla sentenza, il Consiglio di Stato, richiamando precedenti orientamenti (sentenza II 3067/2001) coglie anche l'occasione per affermare la competenza della giunta municipale nell'approvazione del progetto preliminare dell'opera pubblica, rilevando come questo non avesse comportato alcuna variante allo strumento urbanistico generale, per cui doveva escludersi che la materia rientrasse nelle attribuzioni del consiglio comunale, così come delineate dall'articolo 42 del Dlgs n. 267/2000, bensì in quelle di tipo generale e residuale spettanti all'organo esecutivo, secondo quanto previsto dall'articolo 4 del medesimo decreto.
Tre ipotesi di «ablazione».
È utile ricostruire, a questo punto, la disciplina dell'esproprio di beni culturali appartenenti privati, introdotta nel nostro ordinamento già dalla legge n 2359/1865 (articolo 83) e poi dalla legge n. 1089/1939 (articolo 54) ed è finalizzata ad evitare il deperimento del bene tutelato per scarsa o inadeguata conservazione da parte dei proprietari. La successiva evoluzione legislativa, largamente trasfusa nel Testo unico n. 490/1999, ha ampliato l'ambito dei beni espropriabili, introducendo anche quelli mobili, e i casi in cui era possibile ricorrere alla procedura ablatoria.
Attualmente il Codice dei beni culturali, approvato col Dlgs n. 42/2004, contempla tre ipotesi di esproprio per pubblica utilità da parte del Ministero. La prima, delineata dall'articolo 95, consénte l'espropriazione di beni culturali, sia immobili che mobili, quando ci risulti indispensabile per «migliorare le condizioni di tutela ai fin! della fruizione pubblica dei béni medesimi».
In questa eventualità il Ministero può procedere direttamente all'esproprio, oppure autorizzare regioni e altri enti pubblici territoriali o altri enti ed istituti pubblici che ne abbiano fatto richiesta, ovvero disporre l'espropriazione in favore di persone giuridiche private senza fini di lucro.
Il secondo caso, disciplinato dall'articolo 96, quello dell'espropriazione per fini strumentali di edifici e aree non vincolate, ma poste in ambito contiguo al bene tutelato, e si giustifica con la necessità di «isolare o restaurare beni culturali immobili, assicurarne la luce o la prospettiva, garantirne o accrescerne il decoro o il godimento da parte del pubblico, facilitarne l'accesso».
Infine l'articolo 97 ammette il ricorso all'espropriazione di immobili al fine di eseguire ricerche e scavi, o interventi di interesse archeologico (articolo ItaliaOggi del 06.09.2010, pag. 10 - link a www.corteconti.it).

ESPROPRIAZIONESull’onere di motivazione in caso di occupazione di urgenza.
Considerato che l'art. 22-bis T.U. espropriazioni richiede una particolare urgenza per far luogo all'occupazione d'urgenza anteriore all'espropriazione, è illegittimo il decreto di autorizzazione all'occupazione che non qualifichi in modo circostanziato ed in relazione alla situazione concreta tale situazione di urgenza, ma si limiti genericamente a far riferimento ad opere da eseguirsi per la sicurezza e la viabilità pubblica che devono essere realizzate nel più breve tempo possibile (massima tratta da http://doc.sspal.it - TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 23.07.2009 n. 4163 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE - URBANISTICASono indennizzabili soltanto i vincoli urbanistici preordinati all'espropriazione o di carattere sostanzialmente espropriativo, in quanto implicanti uno svuotamento incisivo della proprietà; mentre non lo sono i vincoli di destinazione imposti dal piano regolatore per attrezzature e servizi realizzabili anche ad iniziativa privata o promiscua, in regime di economia di mercato, anche se accompagnati da strumenti di convenzionamento (ad. es. parcheggi, impianti sportivi, mercati e strutture commerciali, edifici sanitari, zone artigianali, industriali o residenziali).
Secondo la giurisprudenza -costituzionale e di legittimità- in materia, sono indennizzabili soltanto i vincoli urbanistici preordinati all'espropriazione o di carattere sostanzialmente espropriativo, in quanto implicanti uno svuotamento incisivo della proprietà; mentre non lo sono i vincoli di destinazione imposti dal piano regolatore per attrezzature e servizi realizzabili anche ad iniziativa privata o promiscua, in regime di economia di mercato, anche se accompagnati da strumenti di convenzionamento (ad. es. parcheggi, impianti sportivi, mercati e strutture commerciali, edifici sanitari, zone artigianali, industriali o residenziali) (cfr. Corte cost. 20.05.1999 n. 179; Cons. Stato IV, 29.08.2002 n. 4340, 30.06.2005 n. 3524) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 19.07.2010 n. 3123 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Dichiarazione di pubblica utilità, nonché di urgenza ed indifferibilità - Decreto di occupazione scaduto - Decreto prefettizio di proroga dell’occupazione - Piano particellare espropriativo - Verbale di consistenza degli immobili - Necessità - Operazioni di immissione in possesso - Casi di illegittimità sopravvenuta del procedimento - Giurisprudenza - Fattispecie - Art. 20 L. n. 865/1971 - Art. 3 L.n. 1/1978.
In tema di espropriazione, nei procedimenti non governati, ratione temporis, dalle norme sostanziali del T.U. n. 327 del 2001, la dichiarazione di pubblica utilità è l'atto autoritativo che fa emergere il potere pubblicistico in rapporto al bene privato e costituisce, al tempo stesso, origine funzionale della successiva attività. (C.d.S. in Adunanza plenaria decisioni nn. 9 e 12 del 2007).
Inoltre, rispetto ai casi di illegittimità sopravvenuta del procedimento si ravvisano “evidenti punti di contatto“ con quelle che si determinano a seguito dell'annullamento in s.g. della dichiarazione di pubblica utilità, in quanto in entrambi i casi gli effetti retroattivi naturalmente conseguenti alla pronuncia demolitoria o quelli derivanti dalla mancata conclusione del procedimento non sembrano poter travolgere a posteriori il nesso funzionale che ha comunque legato l'attività dell'Amministrazione alla realizzazione del fine di interesse collettivo individuato all'origine (Cons. Stato, IV Sez., n. 7744 del 10/12/2009).
Sicché, le vicende patologiche del procedimento, quali la mancata adozione del provvedimento espropriativo entro il termine fissato a monte dalla predetta dichiarazione (ovvero, la protrazione dell’occupazione oltre il termine biennale di efficacia previsto dall’art. 73 della legge n. 2359 del 1865) non sembra poter dequalificare la valenza giuridica di un'attività appunto espletata nel corso e in virtù di un procedimento, che la dichiarazione ha ab origine funzionalizzato a scopi specifici e concreti di pubblica utilità.
Nella specie, l'appellante avrebbe comunque dovuto impugnare il cd. atto di proroga. Non avendolo fatto, l’atto conserva la sua legittimità e i suoi effetti conseguenti mantengono la loro efficacia.
Infine, è ininfluente la censura riguardante la mancata redazione del verbale di immissione in possesso, non avendo l'appellante dimostrato che l’attività di occupazione, svolta in base ad un titolo giuridico esecutivo, non impugnato, avesse comportato mutamento dello stato dei luoghi oggetto di esproprio, rimanendo con ciò confermato lo stato dei luoghi precedentemente accertato (conferma sentenza del TAR Basilicata n. 994/2003) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16.07.2010 sentenza n. 4599 - link a ww
w.ambientediritto.it).

ESPROPRIAZIONE: La motivazione sottesa all'urgenza di entrare in possesso del bene oggetto di (futura) espropriazione può essere desunta per relationem dagli atti pregressi del procedimento.
Ad evidenziare l’infondatezza dell’ultima censura, proposta avverso il decreto di occupazione d’urgenza con la quale si assume che non sarebbe stata indicata alcuna ragione d’urgenza idonea a giustificare l'immediata occupazione dell'immobile, vale il richiamo alla più recente giurisprudenza amministrativa, per la quale in tema di occupazione d'urgenza preordinata all'espropriazione ai sensi dell'art. 22-bis, d.P.R. 08.06.2001 n. 327, la motivazione sottesa all'urgenza di entrare in possesso del bene oggetto di (futura) espropriazione non deve necessariamente essere contenuta nel decreto di occupazione, ma può essere desunta per relationem dagli atti pregressi del procedimento, dai quali ben può evincersi l'urgenza ed indifferibilità della immediata apprensione del bene del privato (cfr. TAR L’Aquila, 24.03.2010 n. 289).
Ebbene, nella specie il decreto di occupazione n. 1/2009 richiama espressamente la delibera della G.C. n. 90/2009 dalla quale si ricava l’urgenza dell’avvio dei lavori da eseguirsi con ogni possibile sollecitudine per non perdere la provvista finanziaria (fondi POR 2000/2006 Mis. 2.3) (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 15.07.2010 n. 1898 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEApprovazione progetto - Osservazioni - Tardivo invio - Termine ordinatorio - Esame da parte della P.A. - Necessità.
E' illegittima l'intervenuta approvazione di un progetto nell'ambito di una procedura espropriativa senza aver previamente provveduto a dare conto delle osservazioni presentate seppure tardivamente, ma semplicemente omettendone l'esame (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 01.07.2010 n. 2424 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEOCCUPAZIONE ILLEGITTIMA: I COMPORTAMENTI POSSIBILI DELL'AMMINISTRAZIONE.
1.- Giurisdizione amministrativa - Esclusiva - Risarcimento danni - Occupazione sine tituolo - Sussiste.
2.- Occupazione senza titolo - Art. 43, T.U. n. 327/2001 - Presupposti.

1.- legittimo dipendente dall'illegittimità di un provvedimento dell'Autorità (ipotesi in cui, la pregiudiziale di annullamento potrebbe ostare alla sola domanda risarcitoria), bensì il danno al diritto di proprietà inferto da un comportamento (non già "mero", bensì "amministrativo") dell'Autorità che, pur avendo avviato un complesso procedimento ablatorio volto alla realizzazione di un'opera pubblica, e pur avendo tale opera realizzata, ha poi omesso di completare la serie procedimentale lasciando decorrere il termine di legittimità della disposta occupazione d'urgenza.
Non si contesti la legittimità illo tempore della disposta occupazione, ma se ne contesti la sopravvenuta abusività, secondo il noto meccanismo della cd. "occupazione appropriativa".
2.- dell'Amministrazione che utilizza il fondo altrui, in assenza del decreto di esproprio, anche se è stata realizzata l'opera pubblica. Il testo e la ratio dell'art. 43 non consentono neppure di ritenere sussistente un termine quinquennale, decorrente dalla trasformazione irreversibile dell'area o dalla realizzazione dell'opera, decorso il quale si verificherebbe la prescrizione della pretesa risarcitoria.
Al contrario, l'art. 43 ribadisce il principio per il quale, nel caso di occupazione sine titulo, vi è un illecito il cui autore ha l'obbligo di restituire il bene immobile e di risarcire il danno cagionato, salvo il potere dell'Amministrazione di fare venire meno l'obbligo di restituzione ab extra, con l'atto di acquisizione del bene al proprio patrimonio.
In altri termini, a parte l'applicabilità della disciplina civile sull'usucapione (per la quale il possesso ultraventennale fa acquistare all'Amministrazione il diritto di proprietà pur in assenza dell'atto di natura ablatoria), l'art. 43 testualmente preclude che l'Amministrazione diventi proprietaria di un bene in assenza di un titolo previsto dalla legge (massima tratta da http://mondolegale.it - TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 24.06.2010 n. 16019 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEAPPOSIZIONE DEL VINCOLO ESPROPRIATIVO: COME E QUANDO.
1- Procedimento - D.P.R. n. 327/2000 - Vincolo preordinato all'esproprio - Costituisce presupposto della dichiarazione di pubblica utilità - Art. 12 co. 3, T.U. Espropriazioni - Inversione procedimentale - Costituisce una eccezione - Casi in cui si applica - Ratio - Conseguenze.
2- Procedimento - D.P.R. n. 327/2000 - Onere informativo da parte dell'Amministrazione - Necessità - Sussiste - Ratio - Fattispecie.

1- Il vincolo preordinato all'esproprio, nell'ambito del procedimento unico delineato dal D.P.R. n. 327/2000 -applicabile ratione temporis ex art. 57 del medesimo D.P.R.- costituisce la fase iniziale del procedimento espropriativo (Consiglio di Stato Adunanza Generale, parere 29.03.2001 n. 4) per evidenti ragioni di raccordo con la pianificazione urbanistica, ed è presupposto di legittimità della dichiarazione di pubblica utilità, la quale deve intervenire in corso di efficacia del vincolo (art. 13, co. 1, D.P.R. n. 327/2001).
Coerentemente, qualora la dichiarazione di pubblica utilità derivi in via implicita dall'approvazione del progetto definitivo, l'art. 17, co. 1, D.P.R. n. 327/2000 ne richiede "l'indicazione degli estremi da cui è sorto il vincolo".
Il comma 3 dell'articolo 12 del T.U. Espropriazioni introduce invero una ulteriore opzione procedimentale, contemplando il differimento dell'efficacia della dichiarazione di pubblica utilità al momento dell'apposizione del vincolo, ove il vincolo stesso non preceda ma segua la dichiarazione di pubblica utilità.
Tale inversione procedimentale, pur tramutando la forza del vincolo da atto presupposto di legittimità a condizione di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità (1) costituisce comunque conferma che l'esistenza di un valido ed efficace vincolo preordinato all'esproprio condiziona la possibilità per l'autorità espropriante di dar legittimo corso al procedimento ablatorio, e dovendo in tal caso la dichiarazione di pubblica utilità farsi carico di indicare che il vincolo sorgerà successivamente e con quali procedure tra quelle previste dagli artt. 9 e 10 del T.U. (3).
Al di fuori quindi di tale particolare ipotesi, è' pertanto pacificamente illegittima la dichiarazione di pubblica utilità e in via derivata l'attività provvedimentale successiva assunta in mancanza di valido ed efficace vincolo ablatorio (2).
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(1) TAR Sicilia Catania, sez I, 20-06-2006 n. 1045 o secondo altra tesi a fattispecie sanante Cons. Stato, sez. IV, 10-12-2009 n. 7755.
(2) Cons. Stato, sez. IV, 12-08-2005 n. 4308; TAR Veneto, sez. I, 09-12-2004 n. 4280.

2- In materia espropriativa il vigente T.U. approvato con D.P.R. n. 327/2000 impone un preventivo duplice onere informativo (3) in riferimento al vincolo (art. 11) e alla dichiarazione di pubblica utilità (art. 16) in considerazione del grave sacrificio imposto al privato e della stessa intrinseca utilità del contraddittorio istruttorio, al fine di ottimizzare la scelta discrezionale di localizzazione e di evitare inutili e sproporzionati sacrifici del diritto di proprietà, oltre che maggiori esborsi di denaro pubblico.
Mette conto evidenziare che parte ricorrente poi, a supporto della fondatezza della censura, ha indicato con il ricorso in epigrafe le argomentazioni che avrebbe potuto presentare in sede partecipativa al fine di una diversa e più razionale localizzazione, secondo la tesi giurisprudenziale, peraltro non pacifica, che onera parte ricorrente di tale prova per i vizi "formali" di violazione delle norme sulla partecipazione anche in seno al procedimento espropriativo (4).
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(3) TAR Calabria Catanzaro, sez I, 05-10-2009 n. 1016.
(4) TAR Lazio Roma, sez I, 14-04-2009 n. 3789
(massima tratta da http://mondolegale.it - TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 24.06.2010 n. 2665 - - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Ove il proprietario espropriato non abbia accettato l’indennità offerta o non sia addivenuto ad un accordo amichevole, il pagamento di essa va sempre effettuato alla Cassa depositi e prestiti.
Ove il proprietario espropriato non abbia accettato l’indennità offerta o non sia addivenuto ad un accordo amichevole, il pagamento di essa va sempre effettuato alla Cassa depositi e prestiti, con deposito che ha valore liberatorio per l’ente espropriante e che costituisce un mezzo di tutela per gli eventuali terzi lesi dalla espropriazione: é proprio per tale ragione che la Corte di Cassazione, con la pronuncia della cui ottemperanza si tratta, non ha condannato il Comune di Acquaviva delle Fonti ad effettuare il pagamento di quanto da essa determinato direttamente a favore della signora Musci, ma ne ha ordinato il deposito (TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 18.06.2010 n. 2477 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONESulle modalità di notifica degli atti espropriativi.
L’omessa notifica degli atti espropriativi ai comproprietari non risultanti dai dati catastali (invece notificati al comproprietario risultante dai citati dati) non assume né carattere invalidante di detti atti, né legittima una difesa tardiva in sede giurisdizionale, ovvero in sede amministrativa, in ordine alle scelte operate dall’Amministrazione, essendo comunque onere del privato interessato curare l’esatta corrispondenza delle risultanze catastali alla reale situazione giuridica del bene oggetto della procedura ablatoria.
Ciò perché è da evitare che le negligenze dell’avente titolo possano andare a discapito del buon andamento dell’azione amministrativa, a tutela del quale può dirsi anche posto il principio della certezza delle situazioni giuridiche dell’attività della P.A. (massima tratta da http://doc.sspal.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.06.2010 n. 3690 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE In assenza di provvedimento di acquisizione sanante il soggetto interessato potrà sempre agire per la restituzione del bene.
La vicenda, che ha ad oggetto le conseguenze dell’incontestato mancato completamento di una procedura espropriativa nei termini fissati, non può essere correttamente analizzata se non si tiene in debito conto che lo stesso procedimento espropriativo origina, almeno in parte, da una precedente vicenda di lottizzazione conclusasi anch’essa con un ricorso al giudice amministrativo.
A seguito dell'introduzione dell'art. 43 del D.P.R. n. 327/2001, deve ritenersi escluso che possa operare il meccanismo dell'occupazione acquisitiva, di talché, in assenza di provvedimento di acquisizione, il soggetto interessato potrà sempre agire per la restituzione del bene (in materia, Cons. St., Ad. Plen., 29.04.2005 n. 2, Cons. St., sez. IV, 21.05.2007 n. 2582, Cons. St., sez. IV, 04.02.2008 n. 303).
Ne discende che, dal momento che il proprietario deve ritenersi ancora tale sino all’intervento di un atto traslativo della proprietà (e cioè il decreto di cui all’art. 43), impregiudicata la facoltà per il medesimo di chiedere il risarcimento del danno patito per effetto dell’illegittima occupazione, esso non potrà comprendere anche il valore del bene che, invece, risulta essere nella sua disponibilità, quantomeno giuridica (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza  10.06.2010 n. 2300 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONESui presupposti per l’acquisizione sanante.
In ordine ai presupposti di fatto e di diritto per la possibile applicazione da parte della P.A. dell'innovativo strumento della c.d. acquisizione coattiva "sanante" introdotto dall'art. 43 primo comma del D.P.R. n. 327/2001, va ribadito che esso è utilizzabile unicamente nell’ipotesi in cui il bene immobile, utilizzato per scopi di interesse pubblico, sia stato concretamente e apprezzabilmente modificato dalla Pubblica Amministrazione (in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della p.u.).
Tale esigenza, secondo la giurisprudenza più recente (che sposta il fulcro della verifica giudiziale sul concetto di "assoluta necessità dell'utilizzo pubblico del bene" e sul grado di approfondimento motivazionale della comparazione degli interessi in conflitto), assume portata recessiva, essendosi di recente affermato che nell'art. 43 d.P.R. n. 327 del 2001 l'espressione “valutati gli interessi in conflitto” comporta la necessità di una valutazione comparativa tra l'interesse pubblico e quello privato, quest'ultimo inteso come interesse alla tutela di un diritto costituzionalmente garantito.
Sotto questo profilo, quindi, la motivazione deve porre in luce esattamente i motivi d'interesse alla realizzazione dell'opera, indicando anche la non percorribilità di soluzioni alternative; deve dare preciso conto delle contingenze che hanno interrotto, sospeso, annullato o comunque non hanno condotto a buon fine il giusto procedimento espropriativo; della assoluta necessità, e non mera utilità, che l'immobile sia acquisito nello stato in cui si trova; infine, della natura della trasformazione subita e dunque del fatto che la mancata acquisizione costituirebbe uno spreco di risorse pubbliche.
E ciò, quindi, prescindendo da un'irreversibile trasformazione del suolo, la quale, in teoria, invero, è sempre possibile, e che quindi si risolve in una questione di fatto, senza alcuna rilevanza sul diritto assoluto del proprietario alla restituzione del bene; lo stato dell'opera pubblica, e quindi il grado di trasformazione che il fondo ha subito, sono questioni, invero, di fatto, che rilevano solo sul grado e sulla profondità della motivazione.
Nella fattispecie, al momento dell’emissione del provvedimento ex art. 43 citato, l'amministrazione non deteneva materialmente il bene; manca, pertanto, uno dei presupposti fondamentali per l'esercizio del potere in questione, vale a dire l'utilizzazione in atto del bene, che era rientrato nel pieno possesso del proprietario.
Ciò perché, secondo la costante giurisprudenza amministrativa, il provvedimento di acquisizione sanante ex art. 43 del t.u. espropriazione per p.u. deve trovare la sua giustificazione nella particolare rilevanza dell'interesse pubblico posto a raffronto con l'interesse privato, con la conseguenza che la motivazione dell'atto o della richiesta di acquisizione deve necessariamente dare atto della sussistenza del predetto interesse pubblico specifico alla acquisizione e della comparazione di tale interesse con gli interessi dei soggetti privati coinvolti.
In sostanza, ciò che l'ordinamento richiede è una valutazione "rafforzata" dell'interesse pubblico, in ossequio al principio per cui "l'art. 43 t.u. n. 327 del 2001 attribuisce alla p.a. un ampio potere discrezionale da esercitare previa apposita e puntuale valutazione degli interessi in conflitto, in quanto l'atto di acquisizione, che assorbe dichiarazione di pubblica utilità e decreto di esproprio, deve, non solo valutare la pubblica utilità dell'opera, secondo i parametri consueti, ma deve altresì tenere conto che il potere acquisitivo in parola -avente, in qualche misura, valore sanante dell'illegittimità della procedura espropriativa, ma solo "ex nunc"- ha natura eccezionale e non può risolversi in una mera alternativa alla procedura ordinaria" (Consiglio Stato, sez. IV, 26.02.2009, n. 1136).
Condivisibile è il principio secondo il quale il provvedimento di acquisizione sanante di aree di proprietà private illegittimamente occupate, introdotto dall'art. 43, t.u. 08.06.2001 n. 327, che assorbe la dichiarazione di pubblica utilità ed il decreto di esproprio, costituisce espressione di potere discrezionale che deve peraltro essere esercitato dopo aver acquisito, ponderato e valutato gli interessi in conflitto, nel senso che l'amministrazione procedente non deve considerare soltanto l'astratta idoneità dell'opera a soddisfare esigenze di carattere generale ma, in ragione della natura eccezionale della procedura, deve compiere una esaustiva ponderazione degli interessi in conflitto dando conto con una congrua motivazione della sussistenza attuale di un interesse pubblico specifico e concreto.
Il parametro di verifica della ricorrenza dei presupposti deve considerarsi quello della "assoluta necessità dell'acquisizione del bene", come ritenuto dalla giurisprudenza più recente.
La disposizione in esame non configura un diritto assolutamente potestativo dell'amministrazione, esercitabile senza alcun limite, ma deve necessariamente inquadrarsi, quanto ai presupposti legittimanti, nell'alveo di quanto i primi due commi dell'art. 43 prescrivono per l'esercizio di tale forma straordinaria ed eccezionale di acquisizione di beni privati da parte dell'amministrazione (massima tratta da http://doc.sspal.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 09.06.2010 n. 3655 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: 1. Comunicazione avvio procedimento - Comunicazione al soggetto non proprietario catastale - Illegittimità.
2. Espropriazione illegittima - Determinazione del risarcimento danno - Criteri.

1. Lo svolgimento della procedura espropriativa nei confronti di un soggetto che, alla data dell'espropriazione, non era proprietario catastale, integra una violazione di legge: non possono, pertanto, trovare applicazione i principi elaborati dalla giurisprudenza con riferimento alle differenti fattispecie in cui la P.A., pur non avendo notificato il decreto di esproprio al proprietario effettivo, abbia però svolto la procedura espropriativa nei confronti del soggetto che figura in catasto quale proprietario (cfr. Cassaz. Civile , sent. n. 21622/2004; Cons. di Stato, sent. n. 2423/2006).
2. In materia di espropriazione illegittima, il risarcimento del danno va quantificato tenendo conto del valore di mercato dell'area, nonché del deprezzamento del valore residuo dei beni di proprietà del ricorrente, mentre per la determinazione di tali valori occorre fare riferimento alla data dell'esproprio: infatti, dal momento che il pregiudizio da risarcire consiste nella perdita del valore patrimoniale in cui si sostanzia il diritto di proprietà, il danno deve essere necessariamente correlato all'entità economica del bene nel momento in cui è definitivamente sottratto alla titolarità del privato ed è acquisito al patrimonio dell'amministrazione (cfr. Cons. Giust. Amm. Reg. Sicilia, 25.05.2009, n. 483) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.06.2010 n. 1754 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 22 del 31.05.2010, "Valori agricoli medi validi per l’anno 2010 dei terreni, considerati liberi da vincoli di contratti agrari, secondo i tipi di coltura effettivamente praticati, determinati nell’ambito delle singole regioni agrarie lombarde a norma dell’art. 41 –comma 4– del d.P.R. 08.06.2001, n. 327 e successive modifiche ed integrazioni – Integrazione al comunicato 08.04.2010 n. 45 per le province di Brescia e Lecco" (comunicato regionale 24.05.2010 n. 65 - link a www.infopoint.it).

ESPROPRIAZIONESull’onere di motivazione in caso di occupazione di urgenza.
In materia di espropriazione per pubblica utilità, per la motivazione dell'ordinanza di occupazione d'urgenza, ex art. 22-bis del D.P.R. n. 327/2001, è sufficiente il richiamo alla necessità di realizzare le opere descritte nella dichiarazione di pubblica utilità, essendo irrilevante, in quanto sussistente "in re ipsa", una specifica dichiarazione di indifferibilità ed urgenza (massima tratta da http://doc.sspal.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 29.05.2009 n. 3350 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Infrastrutture e insediamenti produttivi strategici e di interesse nazionale - Approvazione progetto preliminare - Presupposti - Comunicazione agli interessati - Non è presupposto necessario.
Ai sensi della L. 443/2001 e del relativo D.Lgs. 190/2002 di attuazione, per la realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti produttivi strategici e di interesse nazionale, ai fini dell'approvazione del progetto preliminare, non è richiesta la comunicazione agli interessati alle attività espropriative prevista ex art. 11, D.P.R. 327/2001: pertanto, anche nel caso in cui il progetto comporti l'avvio del procedimento espropriativo, non è prevista alcuna forma di partecipazione dei soggetti privati portatori di interessi contrapposti a quello pubblico né é necessaria la comunicazione individuale, con la conseguenza che il termine per l'impugnazione degli atti, anche quelli relativi al progetto, deve essere fatto decorrere dalla pubblicazione della delibera sulla G.U., essendo questa l'unica forma di pubblicità da rispettare (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenze 24.05.2010 nn. 1660, 1669 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Immobili costruiti abusivamente - Espropriazione per pubblica utilità - Concessione in sanatoria - Indennizzo - Disciplina applicabile - Limiti - Prova della legittimità della costruzione - Giurisprudenza.
In tema di espropriazione per pubblica utilità, gli immobili costruiti abusivamente non sono suscettibili di indennizzo, a meno che alla data dell'evento ablativo non risulti già rilasciata la concessione in sanatoria, - per cui non si applica nella liquidazione il criterio del valere venale complessivo dell'edificio e del suolo su cui il medesimo insiste, ma si valuta la sola area, si da evitare che l'abusività degli insediamenti possa concorrere anche indirettamente ad accrescere il valore del fondo (Cass., sez. 1^, 14/12/2007, n. 26260).
Per questa ragione si è precisato che, nel quadro della disciplina delle espropriazioni per la realizzazione del programma straordinario per le zone terremotate, la subordinazione dell'indennizzo per i manufatti sorgenti sui terreni espropriati, alla prova della legittimità della costruzione, stabilita dall'ordinanza del Commissario straordinario di governo per le zone terremotate, non contravviene alla legge, dalla quale, viceversa, è desumibile il principio per cui è necessario che l'immobile per il quale si reclama l'indennizzo in caso di esproprio, deve esser stato legittimamente realizzato, onde impedire che il proprietario possa trarre beneficio dalla sua illecita attività (Cass., sez. 1^, 9/04/2002, n. 5046, Cass., sez. 1^, 30/11/2006, n. 25523) (riforma sentenza n. 30/2008 della Giunta speciale per le espropriazioni presso la Corte d'appello di Napoli, depositata il 12/06/2003).
Procedura espropriativa - Risultanze dei registri catastali - Soggetto in contrasto con tali risultanze - Onere di dimostrare di essere l'effettivo proprietario.
La procedura espropriativa si svolge relativamente alle aree, e nei confronti dei soggetti che risultano proprietari, secondo le risultanze dei registri catastali, ma potendo la titolarità e la consistenza dei beni subire modifiche nel corso del tempo, il soggetto che, in contrasto con tali risultanze, chieda la determinazione dell'indennità, ha l'onere di dimostrare di essere l'effettivo proprietario (Cass., sez. 1^, 22/03/2007, n. 6980) (riforma sentenza n. 30/2008 della Giunta speciale per le espropriazioni presso la Corte d'appello di Napoli, depositata il 12/06/2003) (Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, sentenza 14.05.2010 n. 11730 - link a www.ambientediritto.it).

ESPROPRIAZIONESull’acquisizione sanante.
Nel caso di irreversibile trasformazione del fondo a seguito di procedura espropriativa divenuta illegittima per mancata emissione del decreto di espropriazione definitiva nei termini, il G.A. deve assegnare alla P.A. un termine perché definisca (in via negoziale o autoritativa, ex art. 43 d.P.R. n. 327 del 2001) la sorte della titolarità del bene illecitamente appreso, cui segue, ma in posizione subordinata e condizionata, la condanna risarcitoria, secondo il criterio previsto dallo stesso art. 43 (valore venale del bene al tempo dell’occupazione illegittima, maggiorato degli interessi moratori o dalla transazione e dal prezzo della compravendita, in caso di esito negoziale) (massima tratta da http://doc.sspal.it - TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 12.05.2010 n. 4250 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE - ICI: Determinazione del valore di un'area fabbricabile. Ai fini della determinazione del valore di mercato occorre valutare l'area nel suo complesso.
La Sezione Tributaria della Corte di Cassazione, con l'importante sentenza 07.05.2010 n. 11176, ha chiarito le modalità per la determinazione del valore di un'area fabbricabile.
In particolare la Corte ha richiamato l'art. 5, comma 8, del D. Leg.vo 504/1992, il quale, nel prevedere che il valore dell'area edificabile è costituito da quello venale in comune commercio, fa riferimento all'intera area nel suo complesso.
Ne deriva che l'area edificabile deve essere considerata unitariamente, prescindendo dalla destinazione che ciascuna porzione di essa potrà avere in esito alla realizzazione del processo edificatorio.
D'altro canto non si può trascurare che l'esercizio concreto diritto ad edificare richiede che l'area sia urbanizzata, e quindi debbono esservi spazi riservati (secondo le prescrizioni dello strumento urbanistico attuativo) ad infrastrutture e servizi di interesse generale, quali parcheggi, strade, aiuole. Ne consegue ulteriormente che, ai fini della determinazione del valore dell'area nel suo complesso, deve tenersi in debito conto il differente livello di edificabilità delle parti che compongono l'area (commento tratto da www.legislazionetecnica.it).

ESPROPRIAZIONESulla natura dell’occupazione d’urgenza.
L'occupazione temporanea preordinata all'espropriazione, prevista dall'art. 22-bis del D.P.R. 08.06.2001, n. 327 (aggiunto dall'art. 1 del D.Lgs. 27.12.2002, n. 302), è finalizzata a consentire all'Amministrazione di conseguire l'anticipata immissione in possesso dell'area sulla quale dev'essere realizzata l'opera pubblica dichiarata urgente ed indifferibile, per dare inizio ai lavori ed evitare di dover attendere che il procedimento espropriativo giunga alla sua naturale conclusione con il provvedimento ablativo; tale funzione, fa sì che l'occupazione temporanea non sia più correlata alla restituzione (non prevista né prevedibile) dell'immobile al proprietario e che, quindi, sussista un collegamento funzionale tra le figure ablatorie dell'occupazione preliminare e della espropriazione, nonché tra di esse e la dichiarazione di pubblica utilità che ne costituisce il necessario presupposto, ferma la possibilità di sindacare unicamente per la mancanza del presupposto dell'urgenza la scelta dell'Amministrazione di ricorrere a tale istituto (massima tratta da http://doc.sspal.it - Corte di Cassazione, Sez. Unite civili, sentenza 06.05.2009 n. 10362).

ESPROPRIAZIONE: 1. Espropriazione per Pubblica Utilità - P.I.I. - Art. 34 D.Lgs. n. 267/2000 - Rito accelerato ex art. 23-bis L. n. 1034/1971 - Deposito ricorso oltre termine dimidiato - Inammissibilità.
2. Decreto d'occupazione d'urgenza - Mancata indicazione ragioni d'urgenza - Art. 22 bis D.P.R. n. 327/2001 - Legittimità.

1. Essendo oggetto dell'impugnazione gli atti della procedura espropriativa e l'approvazione di un P.I.I che, in base all'art. 34 d.lgs. n. 267/2000 comporta dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza delle opere ivi previste, si applica il c.d. rito accelerato di cui all'art. 23-bis L. n. 1034/1971, introdotto dalla L. n. 205/2000, risultando inammissibile il ricorso principale in quanto depositato oltre il termine dimidiato.
2. In presenza dei presupposti procedimentali prescritti dall'art. 22-bis D.P.R. 08.06.2001 n. 327 per l'emanazione dell'ordinanza di occupazione d'urgenza, e cioè il vincolo preordinato all'esproprio e la dichiarazione di pubblica utilità, l'Amministrazione può immettersi senz'altro nel possesso dell'area in esecuzione della suddetta ordinanza, per realizzare le opere per le quali vi è stata l'approvazione del progetto e lo stanziamento delle relative risorse, essendo sufficiente che l'ordinanza si limiti a richiamare espressamente la dichiarazione di pubblica utilità, che costituisce l'unico presupposto e che consente di rilevare l'urgenza della realizzazione delle opere, essendo irrilevante una specifica dichiarazione di indifferibilità ed urgenza in presenza di tali presupposti (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 05.05.2010 n. 1236 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Decreto di occupazione anticipata dei beni - Art. 22-bis d.P.R. n. 327/2001 - Destinatari della procedura espropriativa - Numero superiore a 50 - Vincolo preordinato all’esproprio - Dichiarazione di pubblica utilità - Immissione in possesso.
L’art. 22-bis DPR 327/2001 prevede testualmente che il decreto di occupazione anticipata dei beni immobili necessari possa essere emanato senza particolari indagini o formalità, allorché il numero dei destinatari della procedura espropriativa sia superiore a 50.
Secondo l’interpretazione prevalente, in presenza dei presupposti procedimentali prescritti dalla norma per l'emanazione dell'ordinanza di occupazione d'urgenza (vincolo preordinato all'esproprio e dichiarazione di pubblica utilità, l'Amministrazione può immettersi senz'altro nel possesso dell'area in esecuzione della suddetta ordinanza, per realizzare le opere per le quali vi è stata l'approvazione del progetto e lo stanziamento delle relative risorse, essendo sufficiente che l'ordinanza di occupazione si limiti a richiamare espressamente la dichiarazione di pubblica utilità, che costituisce l'unico presupposto e che consenta di rilevare l'urgenza della realizzazione delle opere (Consiglio Stato, sez. IV, 29.05.2009, n. 3353) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza  05.05.2010 n. 1236 - link a www.ambientediritto.it).

ESPROPRIAZIONE: 1. Retrocessione totale del bene espropriato - Domanda di retrocessione- Giurisdizione del G.A. - Non sussiste - Giurisdizione del G.O. - Sussiste.
2. Espropriazione per p.u. - Art. 53, d.P.R. n. 327/2001 - Cessione volontaria - Integrazione o riliquidazione dell'indennità - Giurisdizione del G.O. - Sussiste.

1. Nelle ipotesi di retrocessione totale del bene espropriato, l'Amministrazione -la quale è autorizzata a sottrarre il bene al legittimo proprietario solo ed esclusivamente nella misura in cui effettivamente il bene stesso sia utilizzato per il conseguimento dello specifico interesse pubblico fissato con la dichiarazione di pubblica utilità- pone in essere un comportamento che non è riconducibile all'esercizio di un pubblico potere proprio perché il bene non è stato utilizzato per la realizzazione dell'opera pubblica prevista nella dichiarazione di pubblica utilità, o è stato utilizzato per realizzare un'opera totalmente differente da quella programmata.
La giurisdizione sulla domanda di retrocessione totale appartiene, dunque, al giudice ordinario.
2. Alla luce dell'art. 53, d.P.R. n. 327/2001, in caso di cessione volontaria sono devolute alla giurisdizione del g.o., vertendosi in materia di diritti soggettivi, le controversie promosse dal cedente non soltanto per il pagamento dell'indennità ma anche per l'integrazione o la sua totale riliquidazione (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 28.04.2010 n. 1167 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: BENI CULTURALI E AMBIENTALI - Potere espropriativo ex art. 95, cc. 1 e 2, d.lgs. n. 42/2004 - Presupposti differenti rispetto al potere espropriativo ex artt. 96 e 97 - Delega del potere agli enti locali.
L’attribuzione del potere espropriativo di cui all’art. 95, cc. 1 e 2 del d.lgs. n. 42/2004 (nel caso di beni culturali mobili e immobili, nei confronti dei quali l’espropriazione risponda ad un importante interesse a migliorare le condizioni di tutela ai fini della fruizione pubblica) è caratterizzata da presupposti evidentemente differenti rispetto alle successive previsioni degli artt. 96; in particolare, una differenza sostanziale è indubbiamente costituita dalla possibilità di delegare il potere espropriativo agli enti locali o ad altri enti pubblici che è prevista dall’art. 95 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, ma non dalle successive previsioni degli artt. 96 e 97 (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 28.04.2010 n. 1037 - link a www.ambientediritto.it).

ESPROPRIAZIONE: 1. Impugnazione decreto di esproprio - Art. 23-bis L. n. 1034/1971 - Rito abbreviato - Termine per ricorrere - Termine per deposito ricorso - Dimezzamento - Inammissibilità.
2. Precedente contenzioso civile - Art. 126 disp. att. c.p.c. - C.T.U. - Utilizzabilità.
3. Occupazione illegittima - Illecito aquiliano - Individuazione responsabile - Società mandataria della procedura ablativa - Risarcimento del danno ex art. 2043 c.c. - Sussiste.

1. Nell'impugnazione di un decreto di esproprio in cui i termini processuali sono ridotti alla metà, salvo quello per la proposizione del ricorso ex art. 23-bis, c. 2, L. n. 1034/1971 (introdotto dalla L. n. 205/2000), si deve ritenere che il dimezzamento non riguarda il termine di 60 giorni per la notificazione dell'atto introduttivo del giudizio, ma quello di 30 giorni per il suo successivo deposito. Sicché, essendo quest'ultimo pari a 15 giorni, deve reputarsi inammissibile, per tardività del deposito, il ricorso notificato.
2. I mezzi di prova o le consulenze tecniche d'ufficio svolte, in una causa tra le stesse parti, davanti al giudice ordinario, dichiaratosi incompetente, ed acquisite agli atti del contenzioso amministrativo in applicazione analogica dell'art. 126 disposizioni attuative c.p.c., sono utilizzabili nel processo amministrativo, salvo il principio della loro libera valutazione da parte del magistrato amministrativo.
3. In merito all'occupazione illegittima di aree prima dell'adozione dei provvedimenti di esproprio e all'occupazione illegittima di altro mappale, mai ritualmente espropriato, è responsabile, non la società a cui è stato conferito il mandato per le fasi della procedura ablatoria, ma la Pubblica Amministrazione espropriante a cui devono ascriversi le condotte -anche omissive- illecite.
Sussistendo tutte le condizioni di cui all'art. 2043 c.c., ovvero il pregiudizio patrimoniale cagionato dalla lunga occupazione illegittima, il nesso causale tra il danno e la condotta dell'Amministrazione e la colpa di quest'ultima, desumibile dalla palese ed inescusabile violazione delle norme che, nel caso di specie, presiedevano all'esercizio dell'azione amministrativa, attesa la tardività dell'adozione dei decreti di esproprio e l'occupazione senza titolo di altro mappale, l'Amministrazione è tenuta al risarcimento del danno ingiusto da liquidare con le modalità di cui all'art. 35 D.Lgs. n. 80/1998 dalla cessazione della occupazione legittima sino al momento dell'adozione dei decreti di esproprio (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.04.2010 n. 1143 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONESull’articolazione del procedimento espropriativo.
Il procedimento espropriativo viene disciplinato come unitario ed in esso si articolano tre fasi, costituenti altrettanti subprocedimenti, di cui il primo è proprio costituito dall'apposizione del vincolo preordinato all'esproprio (mentre gli altri sono da individuarsi nella dichiarazione di pubblica utilità e nel decreto di esproprio), con il quale viene localizzata l'opera pubblica o di pubblica utilità da realizzare, con la correlata individuazione del bene da espropriare.
Dovendosi assicurare la conformità dell'opera alla normativa urbanistica di riferimento, il vincolo espropriativo si può legittimamente apporre unicamente quando diventa efficace l'atto di approvazione del piano urbanistico generale o, in mancanza, in caso di approvazione di una variante del piano urbanistico generale.
L'ordinamento ritiene doveroso riservare, in precisi momenti del procedimento espropriativo e dei vari atti in cui esso si articola, determinate garanzie ai soggetti destinatari delle procedure espropriative, facendo in modo, non solo che i loro beni vengano a trovarsi in uno stato di soggezione entro termini certi e predeterminati, ma garantendo loro non una qualsiasi fattispecie di partecipazione, sia pure meramente formale, ma una partecipazione qualificata, in grado, cioè, di consentire al proprietario espropriando nelle principali fasi in cui si articola la procedura, una difesa a ragion veduta delle proprie ragioni, al tempo stesso assecondando (per la ulteriore funzione collaborativa che la partecipazione può offrire) le esigenze funzionali di cura dell'interesse pubblico che, in concreto, intendono perseguirsi; perché ciò avvenga, necessita, anzitutto, il rigoroso rispetto della normativa in tema di comunicazione di avvio del procedimento che, in materia espropriativa, pur ricollegandosi alla generale previsione di cui all'art. 7 della L. n. 241 del 1990, trova una specifica e dettagliata disciplina negli artt. 11, 16, 17 e 23 del D.P.R. n. 327/2001.
La giurisprudenza amministrativa ha ribadito che, nel caso di adozione di una variante al Piano Regolatore per la realizzazione di una singola opera pubblica, ai sensi dell'art. 11 del D.P.R. n. 327/2001, al proprietario del bene immobile medesimo sul quale si intende apporre il vincolo preordinato all'esproprio va inviato l'avviso dell'avvio del relativo procedimento almeno venti giorni prima della delibera del Consiglio Comunale e deve, altresì, contenere le modalità di consultazione del progetto ed il riconoscimento espresso della possibilità per gli interessati di formulare osservazioni al progetto medesimo nei successivi trenta giorni (massima tratta da http://doc.sspal.it - TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 21.04.2010 n. 2070 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: L'acquisizione sanante si applica anche ai beni culturali.
Non vi è dubbio che l’acquisizione sanante sia un istituto di carattere generale avente la specifica finalità di far conseguire all’amministrazione pubblica un bene anche nel caso del mancato esito fruttuoso di procedure espropriative in precedenza svolte. Il Collegio non ravvisa, pertanto, alcun ostacolo all’applicabilità dell’istituto nelle ipotesi in cui la medesima esigenza acquisitiva venga in rilievo in rapporto a beni culturali.
Sarebbe del resto illogico e non costituzionalmente orientato un diverso opinare giacché -come condivisibilmente osservato dal TAR- i beni culturali (per di più, nella specie, già vincolati) sono maggiormente bisognosi di una tutela pubblica, soprattutto se compromessi sul piano strutturale o funzionale (C.G.A.R.S., sentenza 21.04.2010 n. 558 - link a www.altalex.com).

ESPROPRIAZIONE - LAVORI PUBBLICI: B.U.R. Lombardia, 1° suppl. straord. al n. 16 del 20.04.2010, "Valori agricoli medi validi per l'anno 2010 dei terreni, considerati liberi da vincoli di contratti agrari, secondo i tipi di coltura effettivamente praticati, determinati nell'ambito delle singole regioni agrarie lombarde a norma dell'art. 41, comma 4, del dPR 08.06.2001, n. 327 e successive modifiche e integrazioni" (comunicato regionale 08.04.2010 n. 45 - link a www.infopoint.it).

ESPROPRIAZIONESull’idoneità di un’ordinanza extra ordinem per l’occupazione di urgenza.
L'ordinanza sindacale, contingibile ed urgente ex art. 54, d.lgs. n. 267/2000, difetta dei requisiti richiesti dall'art. 22-bis del D.P.R. 08.06.2001, n. 327 per l'esercizio in via di urgenza del potere di disporre l'occupazione a fini espropriativi (massima tratta da http://doc.sspal.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16.04.2010 n. 2168 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE - URBANISTICA: V. Salamone, I vincoli urbanistici preordinati all'espropriazione per pubblica utilità (link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONESui presupposti dell’occupazione d‘urgenza.
In presenza dei presupposti procedimentali prescritti dall'art. 22-bis del t.u. n. 327/2001 per l'emanazione dell'ordinanza di occupazione d'urgenza, e cioè il vincolo preordinato all'esproprio e la dichiarazione di pubblica utilità, l'Amministrazione ben può immettersi nel possesso dell'area in esecuzione della suddetta ordinanza, per realizzare le opere per le quali vi è stata l'approvazione del progetto e lo stanziamento delle relative risorse, atteso che nel sistema del testo unico citato è divenuta irrilevante una specifica dichiarazione di indifferibilità ed urgenza, rilevante nel precedente sistema per ragioni storiche, ma di per sé già sussistente in re ipsa (massima tratta da http://doc.sspal.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 24.03.2010 n. 1720 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONELa retrocessione parziale è disciplinata dall’art. 47 del d.p.r. 08.06.2001, n. 327, il quale prevede che “quando è stata realizzata l’opera pubblica o di pubblica utilità l’espropriato può chiedere la restituzione della parte del bene già di sua proprietà, che non sia stata utilizzata”. Essa determina la separazione delle aree effettivamente destinate all'opera pubblica da quelle che invece non sono state investite da alcuna destinazione pubblica, le quali possono pertanto rientrare nel patrimonio dei proprietari originari. La retrocessione parziale si verifica, quindi, quando l'opera pubblica, in relazione alla quale sia stata preordinata l'espropriazione dell'area privata, sia stata sì realizzata, ma in termini quantitativamente diversi da quelli originariamente previsti, con conseguente utilizzazione solo parziale dell'area espropriata.
La retrocessione totale, invece, è disciplinata dall’art. 46 del d.p.r. 08.06.2001, n. 327, il quale prevede che “Se l’opera pubblica non è stata realizzata o cominciata entro il termine di dieci anni, decorrente dalla data in cui è stato eseguito il decreto di esproprio, ovvero se risulta anche in epoca anteriore l’impossibilità della sua esecuzione, l’espropriato può chiedere che sia accertata la decadenza della dichiarazione di pubblica utilità e che siano disposti la restituzione del bene espropriato e il pagamento di una somma a tiolo di indennità”. In quest’ultimo caso è stato rilevato che il presupposto che fonda il diritto alla retrocessione si realizza se l’area espropriata è rimasta completamente inutilizzata a seguito della mancata totale esecuzione dell’opera pubblica originariamente prevista oppure se quest’ultima è stata sostituita con un’opera del tutto diversa e incompatibile, tale da stravolgere l’assetto del territorio in origine programmato.
L’istituto della retrocessione è coerente con i principi costituzionali alla base dell'espropriazione, in virtù dei quali il bene sottratto al proprietario per il conseguimento di un determinato interesse pubblico non può essere arbitrariamente utilizzato per un fine diverso da quello per il quale fu espropriato e per il quale ha ricevuto la formale e specifica destinazione pubblica per effetto della dichiarazione di pubblica utilità.
Allorquando la domanda di retrocessione totale sia proposta congiuntamente ed alternativamente a quella di retrocessione parziale, su cui è pacifica la giurisdizione del giudice amministrativo (rilevando poteri discrezionali autoritativi dell’autorità espropriante), la giurisdizione non trasla al giudice ordinario, ma resta al giudice amministrativo, trovando applicazione i principi di logica processuale per cui, nelle materie di giurisdizione esclusiva, la decisione su più cause unite e/o strettamente connesse aventi od oggetto, in astratto, diritti ed interessi, spetta al giudice amministrativo, il quale, avendo cognizione su interessi e diritti, ha competenze più ampie rispetto a quelle del giudice ordinario, limitate ai diritti soggettivi.

I ricorrenti lamentano la violazione e l’errata interpretazione degli artt. 46 e ss. del d.p.r 08.06.2001, n. 327, nonché il travisamento dei fatti da parte del Comune nel ritenere che l’opera pubblica sia stata regolarmente eseguita sui terreni espropriati, così come da programma progettuale approvato con deliberazione della Giunta comunale n. 117 del 16.12.2003.
Secondo la prospettazione dei ricorrenti l’opera pubblica sarebbe stata realizzata solo su una parte del terreno espropriato e non nella sua interezza, sicché il Comune avrebbe dovuto accertare la inservibilità dei terreni e accogliere le istanze di retrocessione parziale. In particolare i ricorrenti precisano, con memoria depositata in data 11.03.2009, che solo su una parte dell’area in questione sarebbero state realizzate opere murarie di scarsa considerazione, tese ad operare uno sbancamento per l’insediamento di lavori ulteriori mai effettuati e che su larga parte dell’appezzamento di terreno (in specie quello esposto fronte strada) non sarebbero state eseguite opere di alcun genere.
In alternativa i ricorrenti affermano il loro diritto alla retrocessione totale. A tal riguardo, sostengono che le opere che avrebbero dovuto essere realizzate sui terreni loro espropriati secondo quanto pianificato e approvato con delibera della Giunta comunale n. 117 del 16.12.2003 non sarebbero state mai iniziate e a conferma di ciò starebbe l’avvio di una nuova e diversa procedura espropriativa per la localizzazione di impianti sportivi sulla stessa area. Da qui i ricorrenti affermano il loro diritto alla retrocessione totale dei terreni da essi ceduti, per la intervenuta impossibilità di esecuzione sugli stessi delle opere programmate nel 2003, che sarebbero state conglobate nella pianificazione della seconda procedura espropriativa, la quale, peraltro, come si legge nella memoria depositata in data 11.03.2009, avrebbe spostato la realizzazione degli impianti sportivi su fondi limitrofi.
Nel merito, la controversia involge la legittimità di atti di diniego di richieste di retrocessione sia parziale che totale avanzate dai ricorrenti con riferimento a beni oggetto di cessione volontaria, contratto ad oggetto pubblico che, inserito nell'ambito di un procedimento espropriativo, lo conclude eliminando la necessità di un provvedimento amministrativo di acquisizione coatta della proprietà privata.
Prima di passare all’esame del merito, giova premettere una breve disamina del quadro normativo di riferimento. La retrocessione parziale è disciplinata dall’art. 47 del d.p.r. 08.06.2001, n. 327, il quale prevede che “quando è stata realizzata l’opera pubblica o di pubblica utilità l’espropriato può chiedere la restituzione della parte del bene già di sua proprietà, che non sia stata utilizzata”. Essa determina la separazione delle aree effettivamente destinate all'opera pubblica da quelle che invece non sono state investite da alcuna destinazione pubblica, le quali possono pertanto rientrare nel patrimonio dei proprietari originari. La retrocessione parziale si verifica, quindi, quando l'opera pubblica, in relazione alla quale sia stata preordinata l'espropriazione dell'area privata, sia stata sì realizzata, ma in termini quantitativamente diversi da quelli originariamente previsti (cfr., Cons. St., sez. IV, n. 370 del 29.05.1995), con conseguente utilizzazione solo parziale dell'area espropriata.
La retrocessione totale, invece, è disciplinata dall’art. 46 del d.p.r. 08.06.2001, n. 327, il quale prevede che “Se l’opera pubblica non è stata realizzata o cominciata entro il termine di dieci anni, decorrente dalla data in cui è stato eseguito il decreto di esproprio, ovvero se risulta anche in epoca anteriore l’impossibilità della sua esecuzione, l’espropriato può chiedere che sia accertata la decadenza della dichiarazione di pubblica utilità e che siano disposti la restituzione del bene espropriato e il pagamento di una somma a tiolo di indennità”. In quest’ultimo caso è stato rilevato che il presupposto che fonda il diritto alla retrocessione si realizza se l’area espropriata è rimasta completamente inutilizzata a seguito della mancata totale esecuzione dell’opera pubblica originariamente prevista oppure se quest’ultima è stata sostituita con un’opera del tutto diversa e incompatibile, tale da stravolgere l’assetto del territorio in origine programmato (cfr. in tal senso Cass., sez. un., 13.04.2000, n. 134).
L’istituto della retrocessione è coerente con i principi costituzionali alla base dell'espropriazione, in virtù dei quali il bene sottratto al proprietario per il conseguimento di un determinato interesse pubblico non può essere arbitrariamente utilizzato per un fine diverso da quello per il quale fu espropriato e per il quale ha ricevuto la formale e specifica destinazione pubblica per effetto della dichiarazione di pubblica utilità.
Ciò premesso in ordine al quadro normativo di riferimento, il ricorso, così come articolato, contiene due domande congiunte: una di tutela dell'interesse legittimo ad ottenere, qualora si accerti che parte delle aree siano rimaste inutilizzate, la retrocessione parziale della porzione inutilizzata degli immobili, l’altra di tutela del diritto alla retrocessione totale, qualora, invece, si accerti la mancata realizzazione dell’opera pubblica così come originariamente programmata.
Su quest’ultima domanda, sebbene di regola la giurisdizione sia del giudice ordinario (non rilevando alcun potere autoritativo dell'ente espropriante), occorre precisare che allorquando la domanda di retrocessione totale sia proposta, come nella fattispecie in esame, congiuntamente ed alternativamente a quella di retrocessione parziale, su cui è pacifica la giurisdizione del giudice amministrativo (rilevando poteri discrezionali autoritativi dell’autorità espropriante), la giurisdizione non trasla al giudice ordinario, ma resta al giudice amministrativo, trovando applicazione i principi di logica processuale per cui, nelle materie di giurisdizione esclusiva, la decisione su più cause unite e/o strettamente connesse aventi od oggetto, in astratto, diritti ed interessi, spetta al giudice amministrativo, il quale, avendo cognizione su interessi e diritti, ha competenze più ampie rispetto a quelle del giudice ordinario, limitate ai diritti soggettivi (Cassazione civil., sez. un., 24.06.2009, n. 14805) (TAR Basilicata, sentenza 11.03.2010 n. 128 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Occupazione titulo - Risarcimento danno Inquinamento - Inquinamento.
Nell'ipotesi di cui all'art. 43 del DPR n. 327/2001 poiché la somma di denaro che spetta all'interessato a titolo di risarcimento deve sostituire il valore del bene che l'Amministrazione non restituisce all'interessato occorre fare riferimento a tale momento (della mancata restituzione, ovvero della opzione del privato per il risarcimento, anziché per la restituzione) per stabilire il valore di mercato del bene e computare il risarcimento del danno.
Il valore monetario del bene viene poi rivalutato secondo i principi generali in materia risarcitoria, al momento della pronuncia della decisione (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 10.03.2010 n. 1150 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONESulla determinazione dei termini espropriativi.
La fissazione dei termini di inizio e compimento dei lavori e delle espropriazioni di p.u. non deve necessariamente coincidere con l'approvazione del progetto preliminare o definitivo, ma può intervenire anche in sede di approvazione del progetto esecutivo (massima tratta da http://doc.sspal.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.02.2010 n. 663 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE Notifica atti della procedura espropriativa -Destinatari - Soli proprietari catastali - Sufficienza.
In materia di esproprio, la notifica agli intestatari catastali anziché ai proprietari effettivi è del tutto legittima: infatti, ex art. 3, secondo comma, D.P.R. 327/2001, tutti gli atti della procedura espropriativa -ivi incluse le comunicazioni ed il decreto di esproprio- sono disposti nei confronti del soggetto che risulti proprietario secondo i registri catastali, salvo che l'autorità espropriante non abbia tempestiva notizia dell'eventuale diverso proprietario effettivo (cfr. TAR Milano, sent. n. 6408/2004) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 02.02.2010 n. 254 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: 1. Retrocessione parziale ex art. 47, D.P.R. 327/2001 - Presupposti - Istanza dell'espropriato per la restituzione della parte del bene non utilizzata - Necessità.
2. Retrocessione parziale ex art. 47, D.P.R. 327/2001 - Istanza dell'espropriato per la restituzione della parte del bene non utilizzata - Conseguenze - Oneri procedimentali in capo al beneficiario e all'autorità espropriante.
3. Retrocessione parziale ex art. 47, D.P.R. 327/2001 - Sindacabilità del G.A. - Sussiste - Istanza dell'espropriato per la restituzione della parte del bene non utilizzata - Necessità.
4. Occupazione di mappali per opere diverse da quelle previste dal progetto approvato - Occupazione usurpativa - Sussiste.
5. Occupazione usurpativa - Domanda risarcitoria - Giurisdizione G.A. - Non sussiste - Ratio - Conseguenze - Riassumibiltà del processo avanti al G.O..

1. In materia di espropriazione per pubblica utilità, la retrocessione parziale ex art. 47, D.P.R. 327/2001 postula necessariamente un'istanza dell'espropriato volta alla restituzione della parte del bene non utilizzata per l'opera pubblica o di pubblica utilità.
2. A seguito dell'istanza dell'espropriato volta alla restituzione della parte del bene non utilizzata per l'opera pubblica o di pubblica utilità si instaura un procedimento in cui sono coinvolti l'espropriato, il beneficiario dell'espropriazione, che deve indicare i beni inservibili che possono essere ritrasferiti e l'autorità espropriante, che deve determinare, in mancanza di tale indicazione, quale parte del bene espropriato non serva più alla realizzazione dell'opera.
3. L'esito del procedimento inerente la retrocessione parziale ex art. 47, D.P.R. 327/2001 è sindacabile dal giudice amministrativo: tuttavia ad esso non può chiedersi direttamente -senza cioè un'iniziativa dell'espropriato che abbia attivato il relativo procedimento- la condanna della P.A. alla restituzione del bene non utilizzato.
4. L'occupazione di una parte, ancorché limitata, di mappali dell'espropriato per opere diverse da quelle previste dal progetto di espropriazione per pubblica utilità approvato e "coperte", cioè legittimate, dalla connessa dichiarazione di pubblica utilità, integra gli estremi dell'occupazione usurpativa, caratterizzata dall'apprensione del fondo altrui in totale carenza di titolo.
5. In caso di occupazione usurpativa, trattandosi di un comportamento "senza potere", la relativa domanda risarcitoria è sottratta al giudice amministrativo, la cui giurisdizione presuppone l'annullamento di un atto e il sindacato sull'esercizio effettivo del potere amministrativo (cfr. Corte Cost., sent. n. 191/2006, Cass. SS.UU., sent. nn. 5925/2008, 26732/2007, 2688/2007): pertanto, tale domanda risarcitoria -fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali della stessa- appartiene alla cognizione del giudice ordinario, dinanzi al quale il processo potrà essere riassunto ex art. 50 del codice di procedura civile (cfr. Corte Cost., sent. n. 77/2007; Cass. SS.UU., sent. n. 4109/2007; Cons. Stato, sent. nn. 1059/2008, 4741/2008) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 01.02.2010 n. 216 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Nella comunicazione di avvio del procedimento espropriativo l’amministrazione non è tenuta a svolgere alcuna indagine sulla corrispondenza tra le risultanze catastali e la proprietà reale.
Nella pronuncia in rassegna si controverte della procedura espropriativa condotta su suoli siti nel territorio di un Comune toscano per la realizzazione di una discarica di rifiuti solidi urbani.
La Cooperativa appellata, nella propria qualità di acquirente con patto di riservato dominio dei suoli in questione, ha impugnato con un primo ricorso il decreto di occupazione d’urgenza dei suoli medesimi e il retrostante provvedimento dichiarativo della pubblica utilità dell’intervento; con successivo ricorso, la stessa Cooperativa ha censurato un nuovo decreto di occupazione, sempre unitamente ai presupposti atti della procedura de qua.
Il giudice di primo grado ha accolto i ricorsi ed ha conseguentemente annullato gli atti della procedura in oggetto sull’assorbente rilievo della violazione dell’art. 7 della legge 07.08.1990, nr. 241, non risultando mai notificata alla Cooperativa ricorrente la comunicazione di avvio del procedimento conclusosi con la dichiarazione della pubblica utilità dell’opera.
A fronte di tale statuizione si contesta che la Cooperativa, attesa la sua peculiare posizione giuridica (acquirente con patto di riservato dominio dei terreni espropriandi, che pertanto restavano in formale proprietà di altro soggetto), per un verso fosse legittimata a impugnare gli atti della procedura espropriativa –in tal senso reiterando un’eccezione espressamente respinta dal primo giudice– e per altro verso dovesse essere destinataria dell’avviso ex art. 7 della legge nr. 241 del 1990.
Ad avviso dei giudici del Consiglio di Stato è opportuno sgombrare il campo preliminarmente da una possibile confusione che è possibile cogliere tra il profilo preliminare di rito afferente alla legittimazione all’impugnazione e quello sostanziale inerente all’ipotizzata violazione dell’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento dichiarativo della pubblica utilità dell’opera.
Rimandando alla lettura del testo integrale della sentenza (in allegato al commento) per quanto riguarda il primo aspetto, concentriamo la nostra attenzione sulle considerazioni svolte, invece, dai giudici di Palazzo Spada per rispondere all’interrogativo se alla Cooperativa appellata spettasse, ai sensi dell’art. 7 della legge nr. 241 del 1990, la comunicazione di avvio del procedimento dichiarativo della pubblica utilità dell’intervento: infatti, a tale fine non è più sufficiente la mera sussistenza di un interesse giuridicamente qualificato, ma occorre che il soggetto interessato rivesta –come è noto– la qualità di destinatario dell’emanando provvedimento amministrativo.
Ciò premesso, in materia espropriativa il dominante indirizzo giurisprudenziale, dal quale questa la V Sezione non ravvisa motivo per discostarsi, è alquanto rigoroso nell’individuazione di siffatta qualità: in particolare, si è costantemente ritenuto che la comunicazione di avvio del procedimento espropriativo –la quale, come è noto, deve precedere l’atto dichiarativo della pubblica utilità– debba essere notificata al solo proprietario catastale dell’area interessata, e che l’Amministrazione non sia tenuta a svolgere alcuna indagine per identificare l’eventuale diverso proprietario effettivo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 06.06.2008, nr. 2695).
Se ciò è vero per l’ipotesi di non corrispondenza tra le risultanze catastali e la proprietà reale, a fortiori deve concludersi che non può pretendersi dall’Amministrazione procedente alcuna indagine ulteriore tesa all’identificazione di eventuali soggetti –pur astrattamente pregiudicati dall’esproprio in itinere– i quali vantino sull’area diritti di natura personale (commento tratto da www.doumentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.01.2010 n. 209 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: P. Pantuliano, L’espropriazione per pubblica utilità: fasi e presupposti. I nuovi criteri di quantificazione dell’indennità di esproprio. La problematica dell’accessione invertita e gli atti di acquisizione sanante. Il regime speciale dell’occupazione di urgenza. Appropriazione acquisitiva (20.01.2010 e 03.02.2010 - link a http://doc.sspal.it).

ESPROPRIAZIONENon è ammissibile l’autonoma impugnabilità dell’atto con il quale è autorizzato l'accesso ai fondi per le operazioni di misurazione preliminari al procedimento espropriativo, trattandosi di atto non direttamente lesivo, avente carattere puramente preparatorio e strumentale nell’ambito del procedimento volto all’apposizione del vincolo espropriativo.
Nell'ambito della serie procedimentale degli atti e provvedimenti di approvazione di un progetto di opera pubblica devono considerarsi impugnabili solo quegli atti effettivamente dotati di lesività nei confronti dei cittadini incisi dall'attività amministrativa, tra i quali in via generale rientrano l'approvazione del progetto definitivo (che, contenendo la dichiarazione di pubblica utilità, come disposto dall'art. 17 del d.p.r. 08.06.2001, n. 327, imprime al bene privato quella particolare qualità od utilità pubblica che lo rende assoggettabile alla procedura espropriativa), il decreto di occupazione temporanea e d'urgenza (che realizza lo spossessamento del bene in capo al privato) ed il decreto di espropriazione (che attua il trasferimento coattivo del bene dal privato alla p.a.), mentre gli altri atti non possono considerarsi ex se immediatamente lesivi e quindi non sono immediatamente impugnabili.
Ne consegue che non è atto immediatamente lesivo e come tale non è impugnabile, l’atto di approvazione del piano triennale dei lavori pubblici, il quale, peraltro, è privo di alcun riferimento in ordine alla localizzazione dell’opera pubblica sull’area di proprietà della parte ricorrente.
Né l’impugnata autorizzazione ad introdursi nell’area di proprietà dell’istante, per l’effettuazione delle operazioni planimetriche, è considerabile un atto immediatamente lesivo, suscettibile di pregiudicare in via diretta la situazione giuridica soggettiva della ricorrente. L’art. 15 del d.p.r. 08.06.2001, n. 327, nell’ambito delle disposizioni particolari disciplinanti il procedimento per l’approvazione dei progetti definitivi di opere pubbliche, prevede la possibilità che i tecnici incaricati dall’amministrazione, anche privati, possano essere autorizzati ad introdursi nell'area interessata, per le operazioni planimetriche e le altre operazioni preparatorie necessarie “per la redazione dello strumento urbanistico generale, di una sua variante o di un atto avente efficacia equivalente nonché per l'attuazione delle previsioni urbanistiche e per la progettazione di opere pubbliche e di pubblica utilità”.
Al riguardo il Collegio, ritiene, che l’autorizzazione in questione, in quanto atto indubitabilmente preparatorio e strumentale rispetto alla formazione del progetto di massima per la realizzazione dell’opera pubblica, non possa avere carattere immediatamente e direttamente lesivo dell'interesse del proprietario dell'area interessata, interesse che, come già anticipato, viene ad essere pregiudicato solo al momento dell’approvazione del progetto definitivo di localizzazione dell’opera pubblica sull’area interessata, atto quest’ultimo che, al momento del rilascio dell’autorizzazione ad effettuare sul fondo privato le operazioni di misurazione preliminare, si rivela come futuro e incerto, in quanto condizionato sia all’esito positivo delle operazioni tecniche preliminari in ordine all’idoneità del terreno alla realizzazione dell’opera pubblica, sia alla conclusione del procedimento con l’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio.
Per tali ragioni, il Collegio non ritiene di doversi discostare da quella giurisprudenza amministrativa che non ammette l’autonoma impugnabilità dell’atto con il quale è autorizzato l'accesso ai fondi per le operazioni di misurazione preliminari al procedimento espropriativo, trattandosi di atto non direttamente lesivo, avente carattere puramente preparatorio e strumentale nell’ambito del procedimento volto all’apposizione del vincolo espropriativo (Tar Latina, 27.03.1990, n. 353; Consiglio Stato , sez. IV, 03.07.1986, n. 458; Consiglio Stato, sez. IV, 03.07.1979, n. 558) (TAR Basilicata, sentenza 19.01.2010 n. 15 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Il possibile, e non provato, rispetto del termine finale dei lavori non può, inficiare ex sé la legittimità del decreto di esproprio emesso prima della scadenza sia del termine per la conclusione della procedura espropriativa, sia del termine finale dei lavori.
La lettura combinata delle norme che regolano il potere di acquisizione coattiva della proprietà privata per soddisfare interessi pubblici –oggi raccolte nel T.U. rappresentato dal D.P.R. 327/2001– induce a ritenere che il mancato rispetto del termine finale dei lavori, nel caso in cui risulti rispettato quello di fine espropriazioni con la tempestiva adozione del decreto di esproprio, abbia quale conseguenza la sola possibilità per il proprietario-espropriato di chiedere la retrocessione, totale, dei beni.
Il possibile, e non provato, rispetto del termine finale dei lavori non può, quindi, inficiare ex sé la legittimità del decreto di esproprio emesso prima della scadenza sia del termine per la conclusione della procedura espropriativa, sia del termine finale dei lavori (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 15.01.2010 n. 51 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONESull’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento di reiterazione del vincolo.
La reiterazione della dichiarazione di pubblica utilità scaduta, deve sempre avvenire mediante lo svolgimento di un nuovo procedimento amministrativo strumentale a detta dichiarazione, al quale possano partecipare tutti i soggetti pubblici e privati direttamente interessati, previa notifica agli stessi di idonea comunicazione di rito (massima tratta da http://doc.sspal.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 13.01.2010 n. 39 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: 1. Note recanti l'avviso di avvio del procedimento e l'avviso di deposito atti - Natura - Comunicazioni prive di efficacia lesiva - Impugnabilità - Non sussiste.
2. Decreto d'esproprio - Competenza del dirigente comunale - Sussiste - Presupposti: art. 3. L.R. n. 1/2000.

1. E' inammissibile l'impugnativa avente ad oggetto le note della P.A. recanti l'avviso di avvio del procedimento e l'avviso di deposito atti di una procedura ablativa, essendo atti di comunicazione della P.A., privi ex se di efficacia lesiva.
2. Non sussiste incompetenza del dirigente comunale a decretare l'esproprio, in quanto l'art. 50 della L.R. n. 70/1983 deve ritenersi superato dalla L.R. n. 1/2000: infatti, l'art. 3 di detta legge regionale trasferisce ai comuni, alle comunità montane, alle province, ai consorzi tra comuni o tra comuni e province, per i lavori di rispettiva competenza, le funzioni amministrative concernenti:
a) la dichiarazione di pubblica utilità nonché di urgenza ed indifferibilità dei lavori;
b) l'occupazione temporanea d'urgenza e le relative attività previste dagli articoli 7 e 8 L. 2359/1865 (comma 100); mentre per altro verso (comma 101) delega agli stessi enti, per i lavori di rispettiva competenza, le funzioni amministrative regionali concernenti l'espropriazione per pubblica utilità di cui al titolo secondo della legge n. 865/1971, riguardante programmi e coordinamento dell'edilizia residenziale pubblica.
Pertanto, per i lavori di propria pertinenza i comuni sono titolari di funzioni trasferite (dichiarazione di pubblica utilità e occupazione d'urgenza) e di funzioni delegate (espropriazione per pubblica utilità) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.01.2010 n. 4 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2009

ESPROPRIAZIONE: Quesito 6 - Sul criterio di determinazione dell'indennità di esproprio in base all'edificabilità di fatto in seguito alla decadenza del vincolo urbanistico ablativo (Geometra Orobico n. 6/2009).

ESPROPRIAZIONE: Espropriazione - Ex art. 43 del D.P.R. 327/2001 - Intervenuta illegittimità costituzionale - Rileva.
E' accolto il ricorso avverso il decreto con il quale il Dirigente del Servizio Valutazioni Immobiliari ed Espropri del Comune di Milano ha disposto l'acquisizione, ai sensi dell'art. 43 del D.P.R. 08.06.2001 n. 327, al patrimonio del Comune di Milano dell'immobile di proprietà dei ricorrenti. Si tratta in particolare dell'acquisizione al patrimonio indisponibile dell'Ente di un'area di proprietà delle ricorrenti ex art. 43 che la Corte Costituzionale ha successivamente dichiarato l'illegittimità costituzionale del citato art. 43 in quanto ritenuto in contrasto con l'art. 76 della Costituzione.
Per giurisprudenza costante del giudice amministrativo -inaugurata con la fondamentale pronuncia dell'adunanza plenaria del Consiglio di Stato 08.04.1963 n. 8- la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma che disciplina il potere esercitato dall'amministrazione rende il provvedimento adottato in applicazione di quella norma non già nullo o inesistente ma illegittimo.
La giurisprudenza -al fine di confutare una tesi autorevolmente sostenuta, secondo la quale l'atto emanato sulla base di una norma dichiarata incostituzionale va considerato nullo perlomeno quando la norma stessa è quella che non si limita a disciplinare le modalità di esercizio, ma fonda il potere amministrativo,- ha affermato, da un lato, che il potere esercitato dall'amministrazione si radica pur sempre su una disposizione legislativa vigente al momento dell'adozione del provvedimento, e quindi efficace in quel momento (ancorché illegittima per contrasto a Costituzione); e, da altro lato, che fra provvedimento amministrativo e norma che ne costituisce il presupposto legislativo non intercorre un legame di stretta interdipendenza paragonabile a quello che si instaura fra atto endoprocedimentale e provvedimento finale, ma che al contrario i due atti godono di un certo grado di autonomia che permette al provvedimento di continuare ad esistere nonostante l'intervenuta inefficacia della legge contraria a Costituzione.
Per conseguenza l'atto amministrativo, una volta intervenuta la pronuncia della Corte Costituzionale, continua a produrre i propri effetti sino a che non venga rimosso dall'ordinamento attraverso l'esercizio del potere amministrativo di autotutela ovvero attraverso una sentenza di annullamento emessa dal giudice amministrativo (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 29.12.2010 n. 7741 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE Decreto di esproprio - Art 21-bis, L. n. 241/1990 - Applicabilità - Non sussiste.
Deve escludersi l'applicabilità dell'art 21-bis, L. n. 241/1990 al decreto di esproprio, in quanto soggetto alla disciplina speciale del testo unico espropriazioni (D.P.R. n. 327 del 2001), in base alla quale è necessario, al fine di non determinare l'inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità, che il decreto d'esproprio sia emanato o adottato, ma non anche comunicato al destinatario (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 23.12.2009 n. 6188 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: T.u. 327/2001 - Specialità della disciplina - Applicabilità della regola di cui all’art. 21-bis L. n. 241/1990 - Esclusione.
Stante la specialità della disciplina del T.U. 327/2001, nei confronti del decreto di esproprio non trova applicazione la regola generale di cui all’ art 21-bis L. 241/1990: è quindi necessario, al fine di non determinare l'inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità, che il decreto d’esproprio sia emanato o adottato, ma non anche comunicato al destinatario (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 23.12.2009 n. 6188 - link a www.ambientediritto.it).

ESPROPRIAZIONE: 1. Occupazione appropriativa - art. 43 D.P.R. 327/2001 - Accertamento presupposti - Consiglio comunale - Competenza.
2. Occupazione appropriativa - art. 43 D.P.R. 327/2001 - Diritto di partecipazione del proprietario - Sussiste.
3. Occupazione appropriativa - art.43 D.P.R. 327/2001 - Tutela risarcitoria.

1. L'accertamento della sussistenza dei presupposti per l'acquisizione al patrimonio indisponibile dei beni occupati per la realizzazione di un'opera pubblica si pone come fonte di una vicenda traslativa del diritto di proprietà relativa a beni immobili che, in quanto tale, rientra nella competenza del Consiglio comunale.
Se l'occupazione è avvenuta senza la preordinata dichiarazione della pubblica utilità non può ritenersi sussistere un potere ablatorio e la fattispecie deve essere ricondotta ad un ipotesi di illecito sanabile mediante un acquisto della proprietà nei modi previsti dall'art. 43 del D.P.R. 327/2001.
L'opzione per il ricorso alla procedura sanante non può essere qualificata come atto meramente esecutivo di indirizzi già espressi e deve, perciò, configurarsi a pieno come manifestazione della volontà di addivenire all'acquisizione del bene, in quanto tale riconducibile alla competenza del Consiglio comunale.
2. Atteso l'alto tasso di discrezionalità che caratterizza l'esercizio della funzione amministrativa correlata all'acquisizione di cui all'art. 43 D.P.R. 327/2001 e considerata la particolare rilevanza che ha assunto nel nostro ordinamento il garantire la partecipazione al procedimento, a prescindere dalla mancata espressa previsione della norma, l'avvio del procedimento in esame deve essere preceduto da un'idonea comunicazione, che assicuri al proprietario tempi e modi per instaurare il contradditorio con l'Amministrazione.
La partecipazione del proprietario deve, quindi, essere garantita già nella fase dell'adozione dell'atto in cui si valuta la sussistenza dell'interesse pubblico, sia perché è in tale fase che il contributo partecipativo del proprietario (tanto più rilevante quanto si consideri l'elevato grado di discrezionalità riconosciuto all'Amministrazione) risulta essere maggiormente utile, sia perché è l'accertamento della sussistenza dell'interesse pubblico al mantenimento dell'opera ad essere lesivo della posizione giuridica del proprietario, ponendosi lo stesso come fondamento dell'esercizio del potere di adozione del provvedimento.
3. La pendenza del giudizio petitorio non esclude l'ammissibilità dell'adozione, in linea di principio, del provvedimento ex art. 43 D.P.R. n.327/2001, tant'è che la stessa norma prevede il ricorso all'istituto disciplinato anche nel caso di assenza originaria di dichiarazione di pubblica utilità.
Deve, quindi, ritenersi fondata la domanda risarcitoria del privato, tesa all'integrale soddisfo dei danni subiti per la perdita del bene a fronte dell'illegittimità dell'occupazione e dell'utilizzazione del suolo da parte della P.A.: gli effetti di tale tutela risarcitoria devono comunque essere differiti all'emissione da parte della P.A. di un formale provvedimento acquisitivo, da emanarsi ai sensi del combinato disposto dei commi 1 e 3 dell'art. 43 del D.P.R. n. 327/2001, fatta salva l'eventuale scelta di restituire la disponibilità dei fondi, non escludibile a priori, atteso che l'acquisto della proprietà deve essere adeguatamente motivato dalla permanenza di un interesse pubblico prevalente in tal senso (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 23.12.2009 n. 2607 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Occupazione temporanea e d'urgenza - Non corretta quantificazione dell'indennità di espropriazione - Irrilevanza.
L'eventuale non corretta quantificazione dell'indennità di espropriazione, da farsi valere esclusivamente mediante il procedimento per la determinazione definitiva e l'eventuale opposizione avanti alla Corte d'Appello territorialmente competente, non può inficiare la legittimità del provvedimento di occupazione d'urgenza (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 23.12.2009 n. 2603 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Art. 20 del D.P.R. n. 327/2001 - Cessione volontaria - Accettazione dell'indennità provvisoria di esproprio - Sussiste.
Nella disciplina di cui all'art. 20 del D.P.R.327/2001 (Testi Unico Espropri) la cessione volontaria postula l'accettazione dell'indennità provvisoria di esproprio e il deposito della documentazione attestante la titolarità dell'area (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 14.12.2009 n. 5329 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: 1. Violazione di legge - Contrasto dell'opera con il P.R.G. vigente - Opera di interesse statale - D.P.R. n. 383/1994 - Conferenza di servizi - Variante P.R.G. - Non sussiste.
2. Decadenza dichiarazione di pubblica utilità e scadenza del termine di occupazione legittima - Restituzione del bene e riduzione in pristino - Risarcimento del danno - Accoglimento parziale.

1. Non sussiste una violazione di legge per contrasto del progetto dell'opera di cui alla procedura di espropriazione impugnata con le previsioni del P.R.G. vigente in quanto, trattandosi di un'opera di interesse statale, secondo il procedimento previsto dell'art. 3, comma 4, D.P.R. n. 383/1994, l'approvazione del progetto con una decisione adottata dalla conferenza di servizi all'unanimità, sostituisce ad ogni effetto gli atti di intesa, le concessioni, autorizzazioni, approvazioni e nulla osta previsti da leggi statali e regionali e vale quindi come variante al P.R.G.
2. Essendo scaduti i termini per la conclusione dei lavori e delle espropriazioni fissati nel decreto di occupazione d'urgenza e non essendo stato prodotto alcun provvedimento di proroga l'ingerenza dell'Amministrazione nella proprietà della ricorrente è contra ius e determina l'accoglimento della domanda di restituzione delle aree occupate, previa loro riduzione in pristino, in quanto non risulta adottato il decreto ex art. 43 T.U. 327/2001.
Risulta al contrario non accoglibile la domanda risarcitoria per i danni subiti medio tempore, cioè nel periodo di utilizzazione senza titolo (dalla data di scadenza del termine di efficacia del decreto di occupazione legittimo, sino alla data della effettiva restituzione), in quanto inammissibile perché introdotta in giudizio solo con la memoria depositata ai fini della discussione e non notificata alle parti intimate (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 16.11.2009 n. 5060 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Art. 13 d.lgs. n. 327/2001 - Scadenza del termine entro cui emanare il decreto di esproprio - Inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità - Termine perentorio.
L'articolo 13 della legge 25.06.1865, n. 2359, sostanzialmente riprodotto nell’articolo 13 del Testo Unico in materia di espropriazioni per pubblica utilità (approvato con decreto legislativo 08.06.2001, n. 327) stabilisce il principio secondo cui –in caso di mancata proroga- la scadenza del termine entro il quale può essere emanato il decreto di esproprio determina l'inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità. Non si può ritenere che il termine abbia natura meramente ordinatoria: l’orientamento della giurisprudenza è infatti consolidato nel senso che -a differenza dei termini iniziali, per loro natura dilatori e acceleratori- i termini finali delle procedure ablatorie e dei lavori assumono il connotato della perentorietà (Cons. Stato, Sez. V, 18.03.2002, n. 1562; Sez. IV, 22.05.2000, n. 2936 e 08.06.2000, n. 3246; v. anche Cass., SS.UU., 04.03.1997, n. 907; 08.02.2006, n. 2630) (TAR Valle d'Aosta, sentenza 13.11.2009 n. 93 - link a
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URBANISTICA: VINCOLI ED INDENNIZZO.
1.- Espropriazione ed occupazione - Indennità - Corresponsione - Per i vincoli urbanistici preordinati all'espropriazione - Sussiste.
2.- Espropriazione ed occupazione - Indennità - Corresponsione - Per i vincoli di destinazione imposti dal piano regolatore o per attrezzature e servizi - Non sussiste.

1.- Sono indennizzabili soltanto i vincoli urbanistici preordinati all'espropriazione o di carattere sostanzialmente espropriativo, in quanto implicanti uno svuotamento incisivo della proprietà; mentre non lo sono i vincoli di destinazione imposti dal piano regolatore per attrezzature e servizi realizzabili anche ad iniziativa privata o promiscua, in regime di economia di mercato, anche se accompagnati da strumenti di convenzionamento (ad. es. parcheggi, impianti sportivi, mercati e strutture commerciali, edifici sanitari, zone artigianali, industriali o residenziali).
2.- Le destinazioni a parco urbano, a verde urbano, a verde pubblico, verde pubblico attrezzato, parco giochi, e simili si pongono al di fuori dello schema ablatorio-espropriativo -con le connesse garanzie costituzionali (indennizzo o durata predefinita)- e costituiscono espressione di potestà conformativa (avente validità a tempo indeterminato) quando lo strumento urbanistico consente di realizzare tali previsioni, non già ad esclusiva iniziativa pubblica, ma ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, senza necessità di ablazione del bene (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 11.11.2009 n. 4997 - link a
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URBANISTICA: REITERA DEI VINCOLI ESPROPRIATIVI E AUMENTO DEGLI STANDARD URBANISTICI.
1.- Piani urbanistici - Introduzione standard urbanistici - Motivazione - Obbligo - Sussiste.
2.- Giudizio amministrativo - Risarcimento danno - Annullamento dell'atto lesivo - Interessi pretensivi - Nuova valutazione della p.A. - Apprezzamento discrezionale.
3.- Espropriazione ed occupazione - Realizzazione di opere pubbliche - Reitera vincolo - Ammissibilità - Aumento degli standards - Analisi sulla necessità dei servizi - Obbligo - Sussiste - Fattispecie.

1.- L'Amministrazione ben può introdurre un maggior rapporto di standard, ma con l'obbligo di una incisiva motivazione.
2.- Il diritto al risarcimento del danno in materia di interessi pretesivi non può riconoscersi nell'ipotesi di attività amministrativa rinnovatoria successiva al Giudizio Amministrativo se residua un margine di apprezzamento discrezionale in capo all'Amministrazione sulla modalità con cui ottemperare alla statuizione, tale da configurare come mera evenienza l'emanazione di un provvedimento ampliativo.
3.- La prospettazione di future opere pubbliche può costituire una giustificazione per l'imposizione o la reiterazione di un vincolo espropriativo, ma non ha alcuno specifico rilievo rispetto alla scelta di aumento degli standards, che invece presupporrebbe un'analisi sulla necessità dei servizi, rapportata alla situazione demografica e socio economica della popolazione, come richiesto dai criteri regionali di cui all'art. 7, co. 3, L.R. Lombardia n. 1/2001 (nel caso di specie, il sovradimensionamento degli standards non risulta motivato, né con riferimento alla globalità del territorio comunale, né in correlazione all'area di proprietà del ricorrente) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 15.10.2009 n. 4787 - link a
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URBANISTICA: I vincoli espropriativi imposti sulla proprietà privata decadono dopo cinque anni se non interviene una dichiarazione di pubblica utilità.
I vincoli espropriativi imposti su beni determinati dallo strumento urbanistico hanno per legge durata limitata: in linea generale, cinque anni, alla scadenza dei quali, se non è intervenuta dichiarazione di pubblica utilità dell’opera prevista, il vincolo preordinato all’esproprio decade (art. 9 del T.U. delle norme in materia di espropriazione per pubblica utilità, approvato con D.P.R. 08.06.2001, n. 327).
Secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza anche di questo Tribunale –dal quale non si ravvisano ragioni per discostarsi- la decadenza dei vincoli urbanistici espropriativi o che, comunque, privano la proprietà del suo valore economico, comporta l’obbligo per il Comune di “reintegrare” la disciplina urbanistica dell’area interessata dal vincolo decaduto con una nuova pianificazione. Ne consegue che il proprietario dell’area interessata può presentare un’istanza, volta a ottenere l’attribuzione di una nuova destinazione urbanistica -così come è avvenuto nel caso in esame- e l’amministrazione è tenuta a esaminarla, anche nel caso in cui la richiesta medesima non sia suscettibile di accoglimento, con l’obbligo di motivare congruamente tale decisione (Consiglio di Stato, sez. IV, 22.06.2004, n. 4426; TAR Campania, Salerno, sez. I, 03.06.2009, n. 2825; TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 25.06.2009, n. 1167; Catania, sez. I, 13.03.2008, n. 467; 18.07.2006, n. 1183; 21.06.2004, n. 1733); fermo restando, naturalmente, il potere discrezionale dell’Amministrazione comunale in ordine alla verifica e alla scelta della destinazione, in coerenza con la più generale disciplina del territorio, meglio idonea e adeguata in relazione all’interesse pubblico al corretto e armonico suo utilizzo (Consiglio di Stato, sez. IV, 08.06.2007, n. 3025).
In ordine ai termini di durata dei vincoli espropriativi urbanistici, va, peraltro, richiamato il parere del Consiglio di Giustizia Amministrativa n. 461/2005 dell'01.09.2005 –dalla cui condivisibile interpretazione non si ravvisano ragioni per discostarsi– secondo cui deve ritenersi applicabile nel territorio della Regione Siciliana il termine di durata quinquennale dei vincoli espropriativi urbanistici di cui all’art. 9 del D.P.R. 327/2001, con decorrenza dalla data di approvazione degli strumenti urbanistici (cfr. sul punto, anche TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 09.07.2008, n. 905).
In ordine all’obbligo di provvedere, è stato evidenziato che l’obbligo gravante sul Comune in caso di decadenza di vincolo preordinato all’esproprio, va assolto mediante l’adozione di una variante specifica o di variante generale, gli unici strumenti che consentono alle amministrazioni comunali di verificare la persistente compatibilità delle destinazioni già impresse ad aree situate nelle zone più diverse del territorio comunale, rispetto ai principi informatori della vigente disciplina di piano regolatore e alle nuove esigenze di pubblico interesse (in termini: Consiglio di Stato, sez. IV, 31.05.2007, n. 2885). Il potere di conformazione urbanistica, peraltro, è attribuito dalla legge all’organo consiliare, di talché il semplice avvio del procedimento di revisione del piano regolatore generale comunale non costituisce adempimento da parte del comune dell’obbligo di attribuire la riqualificazione urbanistica alla zona rimasta priva di specifica disciplina a seguito di decadenza del vincolo di destinazione su di essa gravante (cfr.: Consiglio di Stato, sez. IV, 05.12.2006, n. 7131; sez. V, 01.10.2003, n. 5675).
L’adempimento non elusivo di tale obbligo può essere dato, infatti, soltanto dallo specifico ed effettivo completamento del Piano regolatore generale per quella zona, mediante adozione di un provvedimento espresso (e cioè di una variante) da parte del competente Organo consiliare.
La decadenza dei vincoli urbanistici per l'inutile decorso del termine quinquennale dall'approvazione del piano regolatore generale obbliga il comune a procedere alla nuova qualificazione dell'area rimasta priva di disciplina, per cui è illegittima l'inerzia serbata al riguardo dalla p.a. ed è possibile la formazione del silenzio rifiuto a seguito dell'intimazione da parte dei proprietari dell'area stessa. Laddove, però, l'amministrazione, a giustificazione del silenzio, pronunci asserzioni generiche e non indichi con precisione i tempi procedimentali necessari, il provvedimento silenzioso va dichiarato illegittimo, con la consequenziale declaratoria dell'obbligo di provvedere in capo all'organo competente ad effettuare discrezionalmente la scelta della nuova destinazione da imprimere all'area, mediante adeguata motivazione (TAR Puglia Bari, sez. II, 22.11.2001, n. 5129; in senso conforme: TAR Campania, Salerno, sez. II, 16.06.2008, n. 1944; TAR Lazio, Latina, sez. I, 04.12.2007, n. 1485) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 06.10.2009 n. 1565 - link a
www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE 1. Comunicazione della P.A. recante impegno ad occupare terreni strettamente necessari alla realizzazione dell'opera pubblica - Natura provvedimentale - Non sussiste.
2. Pubblicazione del decreto di occupazione e urgenza sul Bollettino Ufficiale Regione Lombardia - Mancata notifica del decreto - Vizio del procedimento espropriativo - Non sussiste.
3. Immediata applicazione della L.R. n. 6/2005 e s.m.i. - Legittimazione dei concessionari ad adottare gli atti della procedura espropriativa - Sussiste.

1. In tema di espropriazione per pubblica utilità, la comunicazione con la quale il soggetto espropriante si impegna ad occupare i terreni strettamente necessari alla realizzazione dell'opera pubblica non ha un contenuto provvedimentale, tale da vincolare l'Amministrazione ad una revisione del progetto esecutivo già approvato.
2. La mancata notifica del decreto di occupazione e urgenza non costituisce vizio del procedimento, quando inserito in un provvedimento regionale pubblicato sul Bollettino Ufficiale Regione Lombardia (BURL).
3. La L.R. n. 6/2005 e s.m.i. è di immediata applicazione e pertanto legittima i concessionari ad adottare gli atti della procedura espropriativa (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 01.10.2009 n. 4752 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: DELIMITAZIONE DI UN'AREA (PER COSI' DIRE) "PUBBLICA".
1.- Espropriazione ed occupazione - Accordo amichevole sull'ammontare dell'indennità di esproprio - Passaggio proprietà dal privato alla p.A. - Non sussiste - Caducazione in caso di mancata conclusione della procedura - Ammissibilità.
2.- Espropriazione ed occupazione - Indennità - Determinazione - Con accordo bonario - Ammissibilità - Futura contestazione sull'ammontare - Inammissibilità.
3.- Espropriazione ed occupazione - Procedimento - Decreto espropriazione - Mancata adozione entro i termini - Caducazione intera procedura - Ex tunc - Ammissibilità.

1.- In tema di espropriazione per pubblica utilità l'accordo amichevole sull'ammontare dell'indennità di esproprio non comporta la cessione volontaria del bene, sicché è sempre necessario il completamento del procedimento al fine del passaggio della proprietà del bene dall'espropriato all'espropriante: pertanto, detto accordo non ha valenza sostitutiva degli atti conclusivi, ma viene invece a caducarsi ed a perdere efficacia qualora il procedimento non si concluda con il negozio di cessione o con il decreto di esproprio.
2.- L'unico effetto derivante dalla sottoscrizione di un accordo bonario è quello di precludere ogni futura contestazione sull'importo dell'indennità di espropriazione ove, ultimato il procedimento, si addivenga al trasferimento del bene all'espropriante.
3.- La decorrenza dei termini prefissati senza che sia stato emanato il decreto di esproprio comporta l'inefficacia, ex art. 13, co. 3, L. n. 2359/1865, della dichiarazione di pubblica utilità, con conseguente venir meno, ex tunc, dell'intero procedimento. Ciò si evince dalla lettera e dalla ratio dello stesso art. 13, co. 3, il quale dispone che in questo caso l'amministrazione avrebbe dovuto procedere all'adozione di una nuova dichiarazione di pubblica utilità (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 30.09.2009 n. 2464 - link a http://mondolegale.it).

ESPROPRIAZIONE: PRESUPPOSTI PER OTTENERE LA RETROCESSIONE PARZIALE DEL BENE.
1- Procedimento – Retrocessione – Diritto alla retrocessione parziale - Presupposti.
2- Pubblica utilità – Atto dichiarativo – Inefficacia per scadenza del termine per il compimento dei lavori – Comporta la facoltà del proprietario di ottenere la retrocessione – Presupposti - Termine finale per l’espropriazione e termine finale per l’esecuzione dei lavori – Distinzione - Finalità.
1-
Il diritto alla retrocessione parziale nasce solo se ed in quanto l’amministrazione, con valutazione discrezionale (al cospetto della quale la posizione del privato è di interesse legittimo) abbia emesso un provvedimento dichiarativo della inservibilità del bene espropriato di cui si chiede la restituzione. E tale dichiarazione di inservibilità presuppone, da un lato, che, stante la non completa utilizzazione dell’area espropriata per la realizzazione dell’opera pubblica, il terreno o la porzione di esso del quale si chiede la retrocessione non sia mai stato destinato all’opera pubblica cui era preordinata l’espropriazione, e, dall’altro, che non serva più all’opera in questione (cfr., TAR Toscana, sez. I, 13.05.2008 n. 1414).
2- L’inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità, che consegue all’inutile scadenza del termine per il compimento dei lavori, non risolve la precedente espropriazione, ma può comportare, semmai, solo la facoltà del proprietario, nel ricorso dei presupposti di legge, di promuovere azione, dinanzi al giudice competente, per ottenere la retrocessione dei beni espropriati (cfr., Cons. Stato, sez. VI, 25.03.1993 n. 261 cit.; Cass. Civ. Sez. I, 06.03.1992 n. 2715; 21.08.1998 n. 8301; 11.11.2003 n. 16904; TAR Friuli Venezia Giulia, Trieste, 03.06.2005 n. 550).
Ciò in quanto il termine finale per l’espropriazione e il termine finale per l’esecuzione dei lavori rispondono a due diverse finalità:
1) il termine del compimento delle procedure espropriative, in attuazione dell’art. 42, comma 3, della Costituzione, ha lo scopo di evitare che i beni di proprietà privata rimangano soggetti alla possibilità di essere espropriati per un tempo indeterminato;
2) il termine per il compimento dei lavori ha la funzione di tutelare l’interesse pubblico alla concreta realizzazione dell’opera pubblica, cioè a dimostrare l’effettiva serietà dell’azione amministrativa.
Perciò, solo il termine finale per il completamento del procedimento espropriativo deve ritenersi di natura perentoria, in quanto la fattispecie della mancata ultimazione dell’opera pubblica entro il termine prestabilito, dopo che il decreto di espropriazione è già stato emanato, risulta appositamente disciplinata dall’ordinamento giuridico, in quanto consente al soggetto espropriato di chiedere una pronuncia costitutiva della retrocessione del bene (TAR Basilicata, 14.02.2006 n. 83; Cons. Stato, sez. II, 01.12.1993 n. 177).
Pertanto, la mancata osservanza del termine per la fine dei lavori produce l’unico effetto di consentire agli ex proprietari di esercitare un’azione per la retrocessione parziale del bene; retrocessione che tuttavia presuppone, come si è detto, la previa adozione, da parte dell’amministrazione, di un provvedimento dichiarativo della inservibilità del bene espropriato di cui si chiede la restituzione, espressione di un potere discrezionale dell’amministrazione tutelabile davanti al giudice amministrativo (Cons. Stato, sez. IV, 04.07.2008 n. 3342) (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 23.09.2009 n. 1471 - link a
http://mondolegale.it).

ESPROPRIAZIONE: 1. Occupazione anticipata - Presupposti - Oggettive esigenze di celerità - Sufficienza - Motivazione specifica - Non necessaria.
2. Occupazione anticipata - Art. 14 l.r. 3/2009 - Elenco non tassativo.

1. L'art. 22-bis, comma 1, del DPR 327/2001 non implica il carattere eccezionale della procedura accelerata e neppure un aggravio nella motivazione, né è necessaria una specifica dichiarazione che attesti la necessità dell'immediata immissione nel possesso.
Perché sia possibile l'occupazione anticipata è sufficiente che in concreto vi siano oggettive esigenze di celerità connesse alla natura delle opere o al meccanismo dei finanziamenti e sia percepibile l'interesse collettivo sotteso alla sicurezza della circolazione.
2. La normativa regionale individua direttamente (anche se non in modo tassativo) la tipologia di opere che richiedono l'occupazione anticipata tra le quali quelle di urbanizzazione primaria e le infrastrutture a rete di interesse pubblico in materia di trasporti (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 22.09.2010 n. 3557 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONELE RAGIONI "IMPLICITE" DELL'ESPROPRIAZIONE.
Espropriazione ed occupazione - Procedimento - Avvio espropriazione - Comunicazione dell'approvazione del progetto di opera pubblica - Necessarietà - Ragioni.
L'approvazione del progetto di opera pubblica che valga come dichiarazione implicita di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza, a mente dell'art. 1, L. n. 1/1978, deve essere preceduta dalla comunicazione dell'avvio del procedimento (Cons. Stato, sez. IV, 22-03-2005 n. 1236; Cons. Stato, sez. VI, 11-05-2005 n. 2381; TAR Basilicata 02-02-2007 n. 3).
Il progetto dell'opera pubblica infatti non scaturisce automaticamente dalle previsioni degli strumenti urbanistici generali (o attuativi), ma dipende da scelte progettuali discrezionali rispetto alle quali non può concepirsi che il proprietario espropriando rimanga totalmente estraneo (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 09.09.2009 n. 550 - link a
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ESPROPRIAZIONE: Occupazione d'urgenza - Proroga del termine - Annullamento della gara per l'affidamento dei lavori - Necessità di varianti - Rappresentano valide motivazioni per la proroga - Obbligo di particolare motivazione - Non sussiste.
L'annullamento della gara per l'affidamento dei lavori e la necessità di varianti rappresentano valide motivazioni, oggettive, per la proroga dei termini dell'occupazione d'urgenza, non richiedendosi in ogni caso una particolare motivazione per la proroga dell'occupazione, essendo sufficiente la prospettazione di avere a disposizione un maggior periodo di tempo per il perfezionamento del procedimento in corso (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 23.07.2009 n. 4457 -  link a
www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Annullamento del decreto di esproprio - Giudizio di ottemperanza - Liquidazione del risarcimento del danno - Abusiva occupazione - Criteri.
Il risarcimento del danno per l'abusiva occupazione di un'area oggetto di decreto d'esproprio (già) annullato dal G.A., non può essere commisurato all'indennità di esproprio calcolato in base ai criteri di cui all'art. 5-bis L. 08.08.1992 n. 359 -espunto dall'ordinamento a seguito della sentenza Corte Cost. n. 348/07-, ma deve essere calcolato con riferimento al valore venale dell'area (nella specie commisurandolo a un dodicesimo del valore di mercato), anno per anno, con rivalutazione monetaria ed interessi (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 21.07.2009 n. 4407 -  link a
www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: 1. Opere di interramento ferroviario - Impugnazione decreto d'approvazione del progetto - Dichiarazione di pubblica utilità dell'opera - Tardività del ricorso - Non sussiste.
2. Opere di interramento ferroviario - Impugnazione decreto d'approvazione del progetto - Omessa comunicazione di avvio del procedimento - Procedura ablatoria - Comunicazione di avvio del procedimento ad opera della concessionaria - Legittimità.
3. Opere di interramento ferroviario - Impugnazione dichiarazione di pubblica utilità dell'opera - Dimensione ultra Regionale del Servizio - Non sussiste - Competenza della Regione - Sussiste.
4. Opere di interramento ferroviario - Procedura ablativa - Proroga dei termini per il completamento delle opere - Proroga dei termini dell'occupazione - Art. 20 L. 22.10.1971 n. 865 - Legittimità.

1. Sebbene la ricorrente sia stata avvisata dell'approvazione del progetto di opere di interramento ferroviario interessanti terreni di sua proprietà, l'interesse ad impugnare tale decreto, che approva il progetto sul piano (meramente) tecnico, è tuttavia sorto nel momento in cui è sopraggiunta la dichiarazione di pubblica utilità dell'opera, che ha apposto sulle aree della ricorrente il vincolo preordinato all'esproprio, arrecando la lesione che la legittima all'impugnativa, pertanto il ricorso interposo nei sessanta giorni successici all'avviso di immissione in possesso non risulta tardivo.
2. L'approvazione di un progetto sotto il profilo meramente tecnico, che non abbia valenza di dichiarazione di pubblica utilità, non richiede comunicazione di avvio del procedimento.
Tale comunicazione, risulta al contrario necessaria ai fini dell'avvio del procedimento finalizzato alla dichiarazione di pubblica utilità dell'opera, ma considerato la natura dell'avviso (non provvedimentale) e la sua funzione (rendere edotto il destinatario dell'avvio di un procedimento potenzialmente lesivo), risulta legittimo l'avviso proveniente dal beneficiario dell'espropriazione (nella specie il concessionario dell'esercizio ferroviario) ancorché diverso dall'Ente espropriante.
3. L'art. 8 d.lgs. 19.11.1997 n. 422 ha delegato alla Regione funzioni e compiti di programmazione e di amministrazione inerenti, tra l'altro, alle ferrovie in concessione a soggetti diversi dalle Ferrovie dello Stato disponendo altresì il subingresso delle Regioni allo Stato, quali concedenti di dette ferrovie, sulla base di accordi di programma.
Di conseguenza, in presenza di un accordo di programma che ha assegnato alla Regione Lombardia le funzioni inerenti il trasporto ferroviario attualmente in concessione a Ferrovie Nord Milano s.p.a., la Regione risulta pienamente legittimata ad assumere il decreto di pubblica utilità impugnato, tanto più che l'opera di cui trattasi è localizzata nel territorio lombardo e non è affatto dimostrato che il servizio ferroviario in questione superi il livello di interesse regionale.
4. L'art. 20 Legge 22.10.1971 n. 865 (applicabile ratione temporis alla procedura ablativa de quo) nel prevedere che l'occupazione può essere protratta fino a cinque anni dalla data di immissione in possesso, non esclude la prorogabilità del termine quando siano contestualmente prorogati i termini per il completamento delle opere e delle espropriazioni.
Pertanto, considerato che la ricorrente non contesta le ragioni di pubblico interesse a sostegno della proroga, essendo l'occupazione d'urgenza strumentale al completamento dei lavori e delle espropriazione, la proroga dei termini relativi ai lavori ed agli espropri è atta a legittimare anche la proroga dell'occupazione d'urgenza, giacché non avrebbe senso differire il termine finale di completamento dei lavori se non si potesse prolungare l'occupazione (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 21.07.2009 n. 4406 -  link a
www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: 1. Condizioni di legittimità - Deve essere utilizzato per il conseguimento dell'interesse pubblico fissato con la dichiarazione di pubblica utilità.
2. Retrocessione totale - Diritto soggettivo alla restituzione del bene espropriato - Sussiste - Giurisdizione del giudice ordinario - Sussiste per carenza di potere autoritativo della P.A. inteso a evitare la restituzione del bene.

1. Il provvedimento espropriativo è autorizzato a sottrarre il bene al legittimo proprietario, esclusivamente nella misura in cui effettivamente il bene stesso sia utilizzato per il conseguimento di quell'interesse pubblico fissato con la dichiarazione di pubblica utilità: al fuori di tale schema il provvedimento è viziato, non rispondendo ai principi ed ai valori costituzionali della funzione sociale della proprietà, nonché dell'uguaglianza sostanziale e della solidarietà sociale.
2. Nell'ipotesi di retrocessione totale, quando cioè il bene espropriato non sia stato affatto utilizzato per l'opera pubblica prevista nella dichiarazione di pubblica utilità, o per la sostituzione di quest'ultima con un'opera totalmente differente da quella programmata, sussiste un diritto soggettivo perfetto del proprietario ad ottenere la restituzione del bene (inutilmente) espropriato, tutelabile come tale innanzi al giudice ordinario.
Né tale orientamento giurisprudenziale sarebbe superato per effetto delle pronunce della Corte Costituzionale, n. 204/2004 e n. 191/2006: nelle ipotesi di retrocessione totale del bene espropriato -a differenza di quanto accade in quelle di retrocessione parziale- non sussiste alcun potere autoritativo che l'amministrazione pubblica possa esercitare per evitare la restituzione del bene (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 16.07.2009 n. 4372 -  link a
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ESPROPRIAZIONE: L’edificabilità di un’area, ai fini dell’applicazione del criterio di determinazione della base imponibile fondato sul valore venale, dev’essere desunta dalla qualificazione ad essa attribuita nel piano regolatore generale adottato dal comune.
L’edificabilità di un’area, ai fini dell’applicazione del criterio di determinazione della base imponibile fondato sul valore venale, dev’essere desunta dalla qualificazione ad essa attribuita nel piano regolatore generale adottato dal comune, indipendentemente dall’approvazione dello stesso da parte della regione e dall’adozione di strumenti urbanistici attuativi (Cass., Sez. Trib., 23.12.2008 n. 30129).
Il principio affermato trova puntuale conferma sia in tema di definizione dell’indennità di espropriazione, per la quale l’edificabilità dell’area va desunta dalle norme di p.r.g., anche in assenza di piani attuativi (cfr. Cass., Sez. I, 22.01.2009 n. 1605), sia in campo strettamente civilistico, nel quale è stato riconosciuto l’errore essenziale sulla qualità del bene ove l’adozione del piano regolatore preveda per un’area una destinazione di maggior pregio rispetto a quella erroneamente supposta esistente al momento della contrattazione (cfr. Cass., SS.UU., 01.07.1997 n. 5900) (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 16.07.2009 n. 1289 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Occupazione temporanea e d'urgenza - Inesatta o inesistente liquidazione indennità - Legittimità dell'occupazione - Permane.
La legittimità dell'occupazione di urgenza, e in generale dei provvedimenti espropriativi, non è inficiata dall'inesatta o inesistente liquidazione della giusta indennità, essendo l'emanazione dei predetti atti ablatori completamente indipendente da quest'ultima (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 2797/2007) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 25.06.2009 n. 4149 -  link a
www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: 1. Procedimento - Avvio espropriazione - Dichiarazione di pubblica utilità - Conclusione - Pronuncia di esproprio - Annullamento in sede giurisdizionale della dichiarazione di pubblica utilità - Conseguenze.
2. Pubblica utilità - Funzione - Nella logica del contemperamento dell'interesse pubblico e privato.
3. Occupazione senza titolo - Acquisitiva - Posizione di diritto soggettivo - In capo al privato - Non sussiste - Declaratoria in sede di giurisdizione esclusiva - Non è ammissibile.
4. Occupazione senza titolo - Acquisitiva - Art. 43, D.P.R. n. 327/2001 - Valutazione degli interessi in conflitto - Interpretazione - Conseguenze.
1.
Il procedimento di espropriazione trova origine nella dichiarazione di pubblica utilità e si perpetua fino alla pronuncia di esproprio, tanto che l'annullamento in sede giurisdizionale della dichiarazione di pubblica utilità (o degli atti nei quali essa deve ritenersi contemplata in modo implicito, quali le approvazioni di Piani) comporti la automatica caducazione degli effetti del decreto di esproprio nel frattempo emesso, senza alcuna necessità o onere di autonoma ed ulteriore impugnazione (1).
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(1) Cons. Stato, sez. IV, 19-03-2009 n. 1651; Cons. Stato, sez. IV, 29-01-2008 n. 258
2. Nel contemperamento dei valori in gioco sotteso alla procedura espropriativa (quello pubblico al perseguimento degli interessi collettivi e generali, quello della solidarietà sociale e quello del proprietario a non vedersi sottrarre un bene da cui ha diritto di trarre ogni possibile e lecita utilità), il ruolo rivestito dal provvedimento di dichiarazione di pubblica utilità -nella logica della legge fondamentale 25.06.1865 n. 2359, rimasta pressoché inalterata nel vigente Testo Unico n. 327/2001- è quello di individuare il concreto interesse pubblico da perseguire (attraverso l'approvazione del progetto dell'opera da realizzare) e destinare definitivamente il bene del privato, necessario per la realizzazione di quell'opera, al soddisfacimento dei relativi interessi generali, riconoscendo la sussistenza di un nesso logico, oltreché giuridico e teleologico, tra il bene dichiarato di pubblica utilità ed il provvedimento espropriativo, nel senso che quest'ultimo è autorizzato a sottrarre il bene al legittimo proprietario solo ed esclusivamente nella misura in cui effettivamente il bene stesso sia utilizzato poi per il conseguimento dello specifico interesse pubblico fissato con la dichiarazione di pubblica utilità.
3. L'istituto dell'"acquisizione sanante" di cui all' art. 43, D.P.R. n. 327/2001, non vede corrispondere al privato posizioni giuridiche soggettive di diritto pieno, tali da legittimare una corrispondente pronuncia declaratoria in sede di giurisdizione esclusiva da parte del G.A., ma solo posizioni di interesse legittimo per le quali non è consentita nella presente sede un'azione di accertamento e conseguente declaratoria (2).
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(2) TAR Piemonte, sez. II, 24-03-2004 n. 483; Il Tribunale precisa, richiamando precedenti giurisprudenziali, che nell'attuale sistema processuale amministrativo, non trova ingresso l'azione di accertamento (e condanna) nelle ipotesi in cui il soggetto ricorrente si trovi in una posizione giuridica soggettiva di interesse legittimo, poiché le aspettative qualificate che in questo caso sono azionate non derivano direttamente dalla legge, come in presenza di un diritto soggettivo, ma trovano la mediazione della valutazione discrezionale della p.A. nell'esercizio di un pubblico potere e dell'adozione del conseguente provvedimento amministrativo che -solo questo- può costituire oggetto del sindacato giurisdizionale. Il Tribunale inoltre, prosegue precisando che la differenza tra posizioni soggettive di diritto e di interesse legittimo sussiste anche nell'ambito della giurisdizione esclusiva, con conseguente applicabilità in tale seconda ipotesi degli istituti processuali relativi, tra cui quello della esclusione della previsione dell'azione diretta di accertamento e condanna. Nel caso di specie, trattandosi di una domanda fondata su una situazione di interesse legittimo e non di diritto soggettivo, la ricorrente non poteva proporre direttamente una domanda di accertamento e condanna.
4. La norma di cui all'art. 43, D.P.R. n. 327/2001, (laddove è detto che "valutati gli interessi in conflitto, l'autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso vada acquisito al patrimonio indisponibile e che al proprietario vadano risarciti i danni richiede una valutazione discrezionale della p.a."). L'obbligo di valutazione degli interessi in conflitto, con primaria ponderazione di quello pubblico a continuare l'utilizzo del bene, e la mera possibilità di dare luogo all'acquisizione -laddove la norma usa l'espressione "può" e non altre indicanti un vincolo all'adozione quali, a mero titolo esemplificativo, "deve", "dispone che venga acquisito"- costituiscono indici per i quali la corrispondente posizione del privato non si configura come di diritto soggettivo ma di mero interesse legittimo, con conseguente inammissibilità di azioni di accertamento e declaratorie (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 18.06.2009 n. 1063 - link a http://mondolegale.it).

ESPROPRIAZIONE: Art. 17. c. 2, d.P.R. n. 327/2001 - Approvazione del progetto definitivo - Comunicazione al proprietario - Decorrenza del termine per l’impugnazione.
L’art. 17, comma 2, d.P.R. n. 327/2001, con riferimento al procedimento espropriativo, così statuisce: “Mediante raccomandata con avviso di ricevimento o altra forma di comunicazione equipollente al proprietario è data notizia della data in cui è diventato efficace l'atto che ha approvato il progetto definitivo e della facoltà di prendere visione della relativa documentazione”.
Tale disposizione, nell’imporre all’Amministrazione di notiziare il soggetto espropriato in maniera da renderlo edotto di quanto sopra esattamente indicato, assume autonomo rilievo a fini processuali, in quanto consente di individuare in maniera oggettiva il dies a quo da cui decorre il termine d'impugnazione per i soggetti espropriati (v. TAR Liguria Genova, sez. I, 12.12.2008, n. 2101) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 15.05.2009 n. 2279 - link a www.ambientediritto.it).

ESPROPRIAZIONE: Retrocessione totale - Diritto soggettivo perfetto - Tutelabilità innanzi al G.O.
L’istituto della retrocessione, assicura la facoltà di reclamare la restituzione dei beni quando l’opera pubblica, alla cui realizzazione il bene era destinato, non è stata realizzata ovvero non è più realizzabile.
In caso di retrocessione totale il proprietario è quindi titolare di un diritto soggettivo perfetto, uno ius ad rem di carattere potestativo di contenuto patrimoniale, che gli consente di agire dinanzi al giudice ordinario per chiedere la pronunzia di decadenza della dichiarazione di pubblica utilità e la restituzione dei beni espropriati (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 24.04.2009 n. 1254 - link a www.
ambientediritto.it).

ESPROPRIAZIONE1. Procedimento - Avvio espropriazione - Approvazione del progetto - Mediante conferenza di servizi - Disciplina prevista dall'art. 11, co. 4, D.P.R. n. 327/2001 - Partecipazione al procedimento.
2. Procedimento - Avvio espropriazione - Modalità - Alternative alla comunicazione individuale - Procedimento rivolto a numerosi destinatari titolari di immobili in diversi Comuni.
3. Procedimento - Avvio espropriazione - Modalità - Alternative alla comunicazione individuale - Individuazioni dei nominativi dei proprietari e delle particelle catastali interessate - Necessità - Sussistenza - Deroga - Possibilità - Fattispecie - Individuazione.
4. Procedimento - Avvio espropriazione - Omissione - Efficacia invalidante - Se l'interessato dimostri l'incidenza della sua partecipazione sul provvedimento finale.
5. Procedimento - Avvio espropriazione - Modalità - Alternative alla comunicazione individuale - Pubblicazione dell'avviso su un solo quotidiano - Condizione - Diffusione non solo nazionale ma anche locale.

1. Nel caso di Conferenze di servizi in materia di lavori pubblici, l'art. 11 co. 4, D.P.R. n. 327/2001 richiama, quali modalità della pubblicità, le forme previste dal D.P.R. n. 554/1999 il cui art. 9 a sua volta, prevede una pubblicità da effettuarsi "all'Albo pretorio del Comune ovvero, nel caso di amministrazione aggiudicatrici diverse dal comune, utilizzando forme equivalenti di pubblicità".
2. Nel caso di procedure di espropriazione per p.u., il ricorso alle forme di pubblicità alternative alla comunicazione individuale di avvio del procedimento trova giustificazione nella circostanza derivante dal coinvolgimento nella procedura esecutiva di un rilevante numero di destinatari e di un'apprensione coattiva di immobili siti in diversi comuni.
3. Anche se in linea generale lo strumento pubblicitario quale forma alternativa alla comunicazione individuale, per essere idoneo allo scopo, deve menzionare partitamente tutte le particelle catastali interessate dal progetto di opera pubblica e i relativi intestatari (ché solo in tale modo i soggetti coinvolti sono messi in condizione di conoscere che i propri terreni sono interessati da una procedura ablatoria e di poter prendere parte in tempo utile al procedimento), deve ritenersi che, nel caso di ampliamento di una strada preesistente con localizzazione dei lavori di un'opera pubblica già individuata a livello legislativo nonché a livello di pianificazione comunale con l'applicazione della specifica disciplina sulle garanzie partecipative all'interno dei relativi procedimenti, sia sufficiente un avviso privo dell'indicazione nominativa dei proprietari catastali e delle particelle interessate pubblicato su di un quotidiano a diffusione nazionale ed affisso agli Albi pretori dei Comuni interessati, dato che tale avviso consente, sia pure per relationem, di individuare i destinatari finali del procedimento espropriativo.
4. Anche in materia espropriativa, l'omesso invio al privato proprietario della comunicazione di avvio del procedimento per la dichiarazione di pubblica utilità ha efficacia invalidante solo allorché il medesimo abbia assolto all'onere di dimostrare che, se avesse avuto la possibilità di partecipare al procedimento, avrebbe potuto incidere sul contenuto del provvedimento finale.
5. Ai sensi dell'art. 11, D.P.R. n. 327/2001 (il quale prescrive che l'avviso di inizio del procedimento espropriativo riguardante un alto numero di soggetti interessati, è pubblicato "su uno o più quotidiani a diffusione nazionale e locale"), deve ritenersi idoneo un avviso pubblicato su un solo quotidiano purché la diffusione di questo sia estesa (oltre che in campo nazionale, anche) in ambito locale (TAR Lazio-Roma, Sez. I-ter, sentenza 14.04.2009 n. 3789 - link a http://mondolegale.it).

ESPROPRIAZIONE: 1. Occupazione d'urgenza - Divenuta illegittima - Determinazione valore area - Criterio.
2. Occupazione d'urgenza - Divenuta illegittima - Determinazione del risarcimento del danno per l'occupazione illegittima -Criterio.

1. Poiché fino al decreto di acquisizione ex art. 43 DPR 327/2001 titolare dell'area deve ritenersi il legittimo proprietario, ancorché privato della disponibilità della stessa (cfr. Cons. di Stato, sent. nn. 2582/2007, 3752/2007, nonché Ad. Plen. 29.04.2005 n. 2/2005), il valore dell'area va calcolato al momento dell'acquisizione, mentre sul relativo importo vanno calcolati gli interessi moratori, ai sensi della norma citata, a decorrere dall'inizio della occupazione illegittima.
2. Per tutto il periodo di occupazione illegittima va corrisposto, ex art. 50 DPR 327/2001, un risarcimento commisurato a un dodicesimo del valore venale, anno per anno, con rivalutazione monetaria ed interessi (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 26.03.2009 n. 1987 -  link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEProvvedimento comunale di occupazione d'urgenza emanato prima dell'approvazione del progetto di variante regionale al PRG. Inefficacia fino all'approvazione regionale.
La decisione della Giunta comunale di procedere all'occupazione di immobili di proprietà privata prima dell'approvazione regionale del progetto di variante al PRG comunale (consistente nel mutamento della destinazione urbanistica di un'area da verde pubblico a terziario commerciale per consentire la realizzazione di un mercato) implica che la materiale apprensione degli immobili è condizionata all'esecutività della variante regionale, cosicché solo con la stessa è possibile dare attuazione al procedimento ablatorio.
Ne consegue che gli effetti della delibera comunale sono temporaneamente sospesi in attesa che sia adottata e divenga esecutiva l'approvazione conclusiva della Regione (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 12.03.2009 n. 1895).

ESPROPRIAZIONE: B.U.R. Lombardia, 1° suppl. ord. al n. 9 del 06.03.2009, "Norme regionali in materia di espropriazione per pubblica utilità" (L.R. 04.03.2009 n. 3 - link a www.infopoint.it).

ESPROPRIAZIONE1. Comunicazione di avvio del procedimento espropriativo - Necessità anche in caso di dichiarazione di pubblica utilità implicita;
2. Comunicazione di avvio del procedimento - Comunicazione ex art. 8 l. 241/1990 - Consentita solo ove vi sia un ingente numero di proprietari espropriandi.

1. Nella espropriazione per pubblica utilità sussiste l'obbligo di previa comunicazione di avvio del procedimento funzionale all'approvazione del progetto di opera pubblica, ai sensi dell'art. 7 della l. 241/1990. Tale obbligo sussiste anche in caso di dichiarazione di pubblica utilità implicita a norma dell'art. 1 della legge 03.01.1979 n. 1 in quanto l'avviso di avvio del procedimento ha valenza generale, essendo finalizzata a creare un contraddittorio all'interno del procedimento amministrativo (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV, n. 4018/2004).
2. In materia di espropriazioni per pubblica utilità, il ricorso alle forme alternative di comunicazione di avvio del procedimento di cui all'art. 8 comma 3 della l. 241/1990 (cd. altre forme di pubblicità idonee) è consentito solo qualora il numero dei proprietari espropriandi sia di tale entità da rendere particolarmente gravosa e quindi certamente pregiudizievole per l'interesse pubblico alla sollecita conclusione della procedura la comunicazione personale (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 03.03.2009 n. 1727).

ESPROPRIAZIONE: 1. Acquisizione ex art. 43 D.P.R. 327/2001 - Legittimazione - In capo al ricorrente - Non sussiste - In capo alla P.A. - Sussiste.
2. Acquisizione ex art. 43 D.P.R. 327/2001 - Domanda ex art. 43 D.P.R. 327/2001 da parte del ricorrente - Difetto assoluto di giurisdizione.
3. Occupazione d'urgenza - Divenuta illegittima - In assenza di effetto traslativo della proprietà - Abbandono dei terreni - Reimmissione del proprietario nel possesso - Provvedimento di restituzione - Non necessita.
4. Occupazione d'urgenza - Divenuta illegittima - Risarcimento - Giurisdizione A.G.O. - Translatio iudicii - Conseguenze.
1.
Ex art. 43 del D.P.R. 327/2001 l'acquisizione coattiva giudiziale può essere chiesta non dal privato cui sia stata sottratta la disponibilità del fondo senza un valido titolo, ma - in via riconvenzionale - dall'Amministrazione che ne ha interesse o che utilizza il bene, a fronte di una richiesta del privato di restituzione del fondo o dell'impugnazione del provvedimento di acquisizione coattiva.
2. La domanda del ricorrente di condanna della P.A. all'emissione del provvedimento di acquisizione coattiva giudiziale non ha cittadinanza nel sistema del diritto vigente e deve, pertanto, essere dichiarata inammissibile per difetto assoluto di giurisdizione.
3. Qualora il Comune abbandoni i fondi dallo stesso occupati d'urgenza per la realizzazione di opera pubblica - su di essi mai realizzata - senza che si sia mai verificato l'effetto traslativo di proprietà dei fondi medesimi, il proprietario è legittimato a reimmettersi nel possesso degli stessi senza dover attendere alcun provvedimento formale di restituzione.
4. L'illegittimità della occupazione d'urgenza, avvenuta oltre i tre mesi dal momento in cui è stato emesso il decreto di occupazione, genera una pretesa risarcitoria che non appartiene alla giurisdizione del Giudice Amministrativo, bensì a quella del Giudice Ordinario (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 102/2006): pertanto, la relativa domanda risarcitoria deve essere rimessa al Giudice Ordinario con pronuncia declinatoria di giurisdizione ex art. 30 Legge 1034/1971, restando salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda (cfr. Corte Costituzionale, sent. n. 77/2007), senza indicazione del termine entro il quale effettuare la riassunzione, termine che dovrà essere assegnato dal Giudice Ordinario, trattandosi di questione che attiene al merito della pretesa che viene azionata in giudizio (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 20.02.2009 n. 1329).

ESPROPRIAZIONE: 1. Istanza di retrocessione parziale di fondi - Inclusione in un opera complessiva - Utilizzo dell'area - Respinta.
2. Occupazione illegittima - Non sussiste - Occupazione acquisitiva - Risarcimento dei danni - Prescrizione.

1. Quando l'opera pubblica realizzata, pur comportando l'edificazione di una sola parte dell'area comprende tutta l'area oggetto dell'esproprio, come nel caso di specie di un impianto sportivo, già affidato in gestione ad una società sportiva, non può ritenersi inutilizzato il fondo dei ricorrenti, non ancora edificato, rientrante in tale area. Pertanto va respinta la domanda di retrocessione parziale dell'area avanzata dai ricorrenti per mancanza del presupposto del mancato utilizzo, nonché dell'adozione del provvedimento di inservibilità del bene espropriato.
2. Nel caso di procedimento espropriativo in relazione al quale, pur non essendo stato pronunciato il provvedimento finale, è stata realizzata l'opera durante il periodo di occupazione legittima, ovvero entro i cinque anni dall'immissione in possesso in forza del decreto di occupazione d'urgenza, e si è verificata la irreversibile trasformazione dei suoli (nel caso di specie individuata con la consegna, nel 1990, dell'impianto sportivo alla società di gestione), si configura un'ipotesi di occupazione acquisitiva dell'intera proprietà da parte dell'Amministrazione e non di occupazione illegittima; pertanto dovendosi applicare il termine quinquennale decorrente dalla scadenza dell'occupazione legittima o, se successivo, dal momento della irreversibile trasformazione del fondo, risulta, nel caso di specie, prescritto il diritto al risarcimento del danno.   (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 23.01.2009 n. 196 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONESul dies a quo di commissione dell’illecito in caso di occupazioni sine titulo.
L'omissione dei termini di inizio e fine dei lavori non determina la nullità ma soltanto l'annullabilità della dichiarazione di pubblica utilità, il che ne impone l’impugnazione nei termini decadenziali di cui all’art. 21 della legge n. 1034/1971 (cfr. Cons. St., Ad. Plenaria, n. 4/2003 e, più di recente, TAR Lazio, sez. II, n. 6377/2008).
Va altresì specificato che mentre la distinzione tra occupazione appropriativa ed usurpativa (quella realizzata in assenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità) ha perso di significato sia con riferimento alla giurisdizione (nel senso che residuano al giudice ordinario le sole ipotesi in cui ab origine manchi del tutto una dichiarazione di pubblica utilità dell’opera) che alla decorrenza del termine di prescrizione trattandosi nei due casi di un illecito permanente come affermato dalla più recente giurisprudenza amministrativa (aderendo alle argomentazioni svolte in più occasioni dalla Corte Europea dei diritti umani e dalle previsioni contenute nell’art. 43 del D.P.R. n. 327/2001 - di recente, cit. Cons. St., sez. IV, 27.06.2007 n. 3752, 16.11.2007, n. 5830 e 30.11.2007, n. 6124), l’unico elemento di differenziazione ancora esistente riguarda invero l’individuazione del dies a quo di commissione dell’illecito posto che, in caso di occupazione usurpativa, esso va fatto decorrere dal momento dell’immissione in possesso da parte dell’amministrazione mentre, in caso di occupazione appropriativa, dalla scadenza del termine di occupazione legittima del terreno (ciò rileva al fine di individuare il momento in cui misurare il valore venale ai fini della quantificazione del risarcimento del danno)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 14.01.2009 n. 162 - link a www.altalex.com).

anno 2008

ESPROPRIAZIONE: Quesito 2 - Computo delle perdite aziendali nell'indennità di esproprio (Geometra Orobico n. 3/2008).

URBANISTICA: Sulla reiterazione dei vincoli espropriativi.
L’atto di reiterazione del vincolo preordinato all’esproprio deve essere adeguatamente giustificato sulla base di una idonea istruttoria e di una adeguata motivazione, da cui possano evincersi con chiarezza e precisione non solo le finalità di interesse pubblico che l’ente intende concretamente perseguire ma anche la loro perdurante attualità; attualità che, tuttavia, può legittimamente evincersi dalle linee guida che hanno ispirato l’attività pianificatoria.
Il Collegio ritiene che l’oggetto e l’idoneità della motivazione di un provvedimento di reiterazione di vincoli espropriativi debbano essere correlati al contenuto del provvedimento stesso, con la conseguenza che l’Amministrazione interessata è tenuta ad indicare espressamente le ragioni che giustificano la predetta reiterazione in riferimento alle seguenti situazioni:
mancanza di aree più idonee della stessa zona destinate ad uso pubblico;
perdurante conformità all’interesse pubblico della originaria destinazione, alle esigenze della collettività che richiedono la realizzazione dell’opera ed alla prevalenza delle stesse sull’interesse del privato proprietario del bene.
Sicché, non inficia la legittimità del provvedimento di reiterazione di un vincolo espropriativo l’omessa previsione dell’indennizzo
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.12.2008 n. 6605 - link a www.altalex.com).

ESPROPRIAZIONE1. Espropriazione per pubblica utilità - Istanza di retrocessione di fondi - Distinzione tra retrocessione parziale e retrocessione totale - Qualificazione dell'istanza come retrocessione parziale - Giurisdizione del G.A. - Sussiste.
2. Espropriazione per pubblica utilità - Istanza di retrocessione di fondi - Distinzione tra retrocessione parziale e retrocessione totale - Qualificazione dell'istanza come retrocessione parziale - Eccezione di prescrizione del diritto - Interesse legittimo pretensivo - Rigetto.
3. Espropriazione per pubblica utilità - Rigetto dell'istanza di retrocessione di fondi - Diversa destinazione dei beni espropriati - Non sussiste - Valutazione discrezionale del persistente interesse pubblico - Legittimità.

1. In considerazione della distinzione delineata dalla L. 2359/1865 tra la retrocessione totale di cui all'art. 63 e la retrocessione parziale prevista dagli artt. 60 e 61, per verificare in concreto se l'opera pubblica non è stata realizzata oppure se è stata realizzata solo in parte occorre considerare l'ampiezza della dichiarazione di pubblica utilità e del decreto di esproprio e verificare se almeno una parte dei fondi espropriati sulla base di essi hanno ricevuto la destinazione pubblica prevista, con la conseguenza che nel caso in cui tutte le aree espropriate ad un soggetto siano rimaste inutilizzate, ma l'espropriazione sia avvenuta sulla base di un provvedimento ablativo che comprende aree di diversi proprietari, una parte dei quali è stata effettivamente interessata dalla realizzazione dell'opera pubblica, si ha retrocessione parziale. Così è avvenuto nel caso di specie dovendosi pertanto qualificare l'istanza presentata dalla parte come retrocessione parziale, subordinata all'adozione di un provvedimento di inservibilità del bene, in relazione alla quale sussiste la giurisdizione del G.A.
2. La qualificazione come retrocessione parziale dell'istanza formulata dalla ricorrente comporta il rigetto dell'eccezione di prescrizione del diritto sollevata dalla controinteressata per aver richiesto la dichiarazione di inservibilità del bene quando era ormai decorso il termine prescrizionale, in quanto il diritto a chiedere l'emanazione di un provvedimento di inservibilità è, in realtà, un interesse legittimo di tipo pretensivo all'esercizio del potere pubblico e, pertanto, come tutti gli interessi legittimi non è suscettibile di prescrizione ma solo soggetto alla decadenza.
3. Premesso che nella retrocessione parziale rispetto a beni non ancora utilizzati la pubblica amministrazione esercita scelte discrezionali circa la persistenza dell'interesse pubblico all'utilizzo delle aree già espropriate, nel caso in cui il diniego dell'istanza di retrocessione sia motivato dalla persistente necessità di realizzare interventi di accessibilità all'aeroporto e di compensazione ambientale dello stesso, ovvero per intereventi non diversi da quello di ampliamento dell'aeroporto cha ha fondato la precedente procedura ablativa, non si può ritenere che i beni espropriati siano destinati a scopi di pubblica utilità diversi da quelli per cui è stata pronunciata l'espropriazione (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 23.12.2008 n. 6165 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONENon sussiste un obbligo, per la amministrazione che procede alla realizzazione di un’opera pubblica, di depositare, già al momento in cui sottopone il progetto per la approvazione definitiva e per la dichiarazione di pubblica utilità, l’elenco dei terreni soggetti ad occupazione temporanea finalizzata alla corretta esecuzione dei terreni.
Il piano particellare delle aree soggette ad occupazione temporanea non è elemento necessario per la valida approvazione del progetto definitivo e non sussiste l’obbligo di comunicare, ai proprietari delle aree medesime, l’avvio del procedimento finalizzato alla approvazione dell’opera pubblica o la avvenuta approvazione del progetto definitivo.

Allo stato attuale della legislazione, non si può affermare che sussista un obbligo, per la amministrazione che procede alla realizzazione di un’opera pubblica, di depositare, già al momento in cui sottopone il progetto per la approvazione definitiva e per la dichiarazione di pubblica utilità, l’elenco dei terreni soggetti ad occupazione temporanea finalizzata alla corretta esecuzione dei terreni.
Infatti, l’art. 16 d.p.r. 327/2001 statuisce che l’autorità espropriante, al fine di promuovere la adozione della dichiarazione di pubblica utilità, deve depositare, oltre agli elaborati progettuali, tutti gli atti utili e necessari a descrivere la natura e lo scopo delle opere da eseguire e “in ogni caso lo schema dell’atto di approvazione del progetto deve richiamare gli elaborati contenenti la descrizione dei terreni e degli edifici di cui é prevista l’espropriazione, con l’indicazione dell’estensione e dei confini, nonché possibilmente dei dati identificativi catastali e con il nome e cognome dei proprietari iscritti nei registri catastali” (art. 16 comma 2 d.p.r. 327/2001). Dalla norma citata si evince, dunque, che solo relativamente alle aree soggette a esproprio vi é l’obbligo di depositare l’elencazione dei terreni.
Tale impostazione trova conferma nell’art. l’art. 13 dell’allegato tecnico al codice dei contratti pubblici, approvato con D. L.vo 163/2006, il quale statuisce oggi, a differenza dell’art. 33 D.P.R. 554/1999, che “1. Il piano particellare degli espropri, degli asservimenti e delle interferenze con i servizi é redatto in base alle mappe catastali aggiornate, e comprende anche le espropriazioni e gli asservimenti necessari per gli attraversamenti e le deviazioni di strade e corsi d’acqua e le altre interferenze che richiedono espropriazioni. 2…….3. Il piano é corredato dall’elenco delle ditte che in catasto risultano proprietarie dell’immobile da espropriare e asservire, ed é corredato dalla indicazione di tutti i dati castali nonché delle superfici interessate”. Come si vede, dalla norma confluita nell’allegato tecnico al codice dei contratti pubblici, é stato espunto ogni riferimento alle aree soggette ad occupazione temporanea.
Si evidenzia, dunque, una chiara tendenza del legislatore ad alleggerire gli oneri a carico delle autorità esproprianti, tra l’altro anche mediante il venir meno degli obblighi correlati alla immediata individuazione delle c.d. aree di cantiere. Tale considerazione conferma che l’art. 16 d.p.r. 327/01 deve essere letto esattamente nel senso che impone, al fine della approvazione del progetto definitivo, solo il deposito del piano particellare delle aree ad espropriare, e non anche delle aree soggette ad occupazione temporanea.
Allo stesso modo gli artt. 16 e 17 d.p.r. 327/01 prevedono l’obbligo di dare comunicazione, rispettivamente dell’avvio del procedimento e della avvenuta approvazione del progetto definitivo, al “proprietario dell’area ove é prevista la realizzazione dell’opera”, locuzione questa che può ragionevolmente riferirsi solo al proprietario di aree da espropriare: ciò si desume chiaramente dagli artt. 16 comma 11 e 17 comma 3, i quali sottendono entrambi la qualità di soggetto ad espropriazione nel “proprietario dell’area “: nel primo caso, infatti, la norma facoltizza tale soggetto a “chiedere che l’espropriazione riguardi anche le frazioni residue dei suoi beni”, mentre nel secondo caso gli conferisce la possibilità di interloquire sul valore dell’area ai fini della determinazione della indennità di esproprio.
Si deve pertanto ritenere che il piano particellare delle aree soggette ad occupazione temporanea non sia elemento necessario per la valida approvazione del progetto definitivo e che, correlativamente non sussista l’obbligo di comunicare, ai proprietari delle aree medesime, l’avvio del procedimento finalizzato alla approvazione dell’opera pubblica o la avvenuta approvazione del progetto definitivo.
Peraltro, l’art. 49 d.p.r. 327/2001 statuisce che l’autorità espropriante può disporre l’occupazione temporanea di aree non soggette al procedimento espropriativo “se ciò risulta necessario per la corretta esecuzione dei lavori previsti”.
La norma limita quindi la discrezionalità della amministrazione procedente, statuendo che alla occupazione temporanea di aree si possa far luogo solo in caso di bisogno effettivo della cui ricorrenza l’Amministrazione procedente deve evidentemente –onde evitare che la disposizione in esame venga sistematicamente disapplicata- dare conto nella motivazione del provvedimento che dispone la occupazione temporanea. Si noti che l’art. 49, comma 1, d.p.r. 327/2001 legittima l’occupazione temporanea non in relazione ad una necessità qualsiasi, ma solo in relazione alla necessità di eseguire correttamente le opere. Si deve quindi ritenere, ad esempio, che un’area privata possa essere occupata temporaneamente per la necessità di collocarvi ponteggi o altri macchinari necessari per dar corso a opere collocate in prossimità del confine, ma non anche per disporre, in prossimità di un cantiere, di un deposito di materiali facilmente trasportabili. L’Amministrazione, in altre parole, deve organizzare i cantieri in modo da non arrecare alcun disturbo quantomeno a chi non sia soggetto ad espropriazione, e quindi il decreto che dispone l’occupazione temporanea deve essere motivato specificamente a dimostrazione della sussistenza delle ragioni che la legittimano.
Va preliminarmente rilevato che l’occupazione temporanea priva il proprietario, sia pur transitoriamente, del godimento dell’area, e quindi incide fortemente nella di lui sfera giuridica. E’ quindi essenziale, onde assicurare un effettivo ed equo contemperamento tra l’interesse pubblico e quello del privato che deve subìre l’occupazione temporanea, che tale indennizzo venga offerto, e quindi quantificato, contestualmente al decreto che dispone l’occupazione temporanea, allo stesso modo in cui l’indennità di esproprio deve essere offerta e quantificata con il decreto che dispone l’espropriazione o l’occupazione anticipata preordinata all’esproprio: in altre parole, il privato ha diritto a conoscere da subito l’esatto ammontare che gli viene offerto a titolo di indennizzo, onde essere messo in grado di valutare quali azioni intraprendere a tutela dei propri diritti (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 17.12.2008 n. 2891 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: P. Carpentieri, Edilizia ed espropriazione: novità e criticità - L’espropriazione dei beni culturali (con particolare riferimento ai parchi archeologici) (link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: F. Delfino, L’ESPROPRIAZIONE PER LA REALIZZAZIONE DI OPERE DESTINATE ALLA DIFESA MILITARE (link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: G. Abbamonte, L'evoluzione della disciplina in materia di edilizia ed espropriazione e le principali problematiche giurisprudenziali (link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEProcedimento - Apposizione del vincolo urbanistico - Presupposto imprescindibile.
Relativamente al progetto preliminare e quello definitivo (contenente dichiarazione di p.u.) per la realizzazione di una pista ciclabile il cui tracciato interessava anche l'area di proprietà del ricorrente, il Collegio ritiene fondato ed assorbente il primo motivo di ricorso: a norma dell'art. 8 del D.P.R. 327/2001 il procedimento di espropriazione per p.u. deve avere inizio con la apposizione del vincolo urbanistico a tal fin preordinato, il quale costituisce presupposto imprescindibile affinché l'area possa essere espropriata (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 19.11.2008 n. 5453 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: D. Argenio, Espropriazione per pubblica utilità: procedura per decreto e procedure per atto di acquisizione coattiva sanante (07.11.2008 - link a www.dirittoelegge.it).

ESPROPRIAZIONE: Sulla motivazione necessaria circa la reiterazione di un vincolo espropriativo.
In merito alla idoneità della motivazione esposta dal Comune a fondamento della propria scelta di reiterare un vincolo espropriativo decaduto si osserva preliminarmente che l’obbligo di motivazione non viene meno per la parziale difformità dell’opera pubblica prevista nel PRG del 2005 rispetto alla localizzazione originaria del PRG del 1983. La prospettiva da cui viene osservata la situazione è quella del proprietario che in conseguenza del vincolo subisce una limitazione all’esercizio dei suoi diritti (nel caso in esame il vincolo non compromette l’uso agricolo ma rende impossibili le edificazioni in zona agricola consentite prima dalla LR 07.06.1980 n. 93 e ora dagli art. 59-60 della LR 11.03.2005 n. 12). Sotto questo profilo è irrilevante che il vincolo originariamente posto per un’opera sia reiterato per un’opera diversa e, a maggior ragione, sono irrilevanti le modifiche introdotte nel tempo alla stessa opera, sia che riguardino le modalità realizzative sia che interessino la localizzazione. Diversamente sarebbe sufficiente reiterare il vincolo con qualche variazione per qualificare sempre la fattispecie come prima previsione ed eludere l’obbligo di motivazione. Circa il contenuto della motivazione si richiama l’orientamento giurisprudenziale che, graduando tale obbligo, lo aggrava nel caso in cui la reiterazione del vincolo riguardi una singola opera pubblica o incida su un proprietario particolare, nonché nel caso di aspettative consolidate in precedenti atti amministrativi o convenzioni urbanistiche, e considera invece sufficiente nelle altre ipotesi l’illustrazione della persistenza dell'interesse pubblico (v. CS AP 24.05.2007 n. 7; CS Sez. IV 08.06.2007 n. 2999).
La reiterazione di un vincolo espropriativo senza previsione di un’indennità commisurata all'entità del danno effettivo non determina l’illegittimità della disciplina urbanistica (v. CS AP 24.05.2007 n. 7). Il diritto a ottenere un ristoro dall’amministrazione si colloca su un piano distinto da quello urbanistico e sorge ex lege con l’approvazione dell’atto di reiterazione del vincolo. Le questioni relative all’inerzia dell’amministrazione nella quantificazione dell’indennità appartengono al giudice ordinario ex art. 39 comma 4 del DPR 327/2001 (TAR Lombardia-Brescia, sentenza 16.09.2008 n. 1041 -
link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEEspropriazione illegittima, impossibilità della restituzione del bene e conseguenze.
In materia espropriativi, l’amministrazione interessata o chi utilizza il bene può paralizzare le eventuali conseguenze ripristinatorie discendenti dalla favorevole impugnativa di qualsiasi azione restitutoria del bene utilizzato per scopi di interesse pubblico.
L’amministrazione può cioè chiedere in giudizio che il giudice amministrativo, nel caso di fondatezza del ricorso o della domanda di impugnazione, disponga la condanna al risarcimento del danno, con esclusione della restituzione, senza limiti di tempo.
Effettivamente, con tale norma, il giudice amministrativo si trova investito del potere di ricercare l’equilibrio fra contrapposti interessi, valutandpo se la restaurazione in forma reale, pur possibile materialmente e giuridicamente, non sia eccessivamente onerosa per il danneggiante obbligato
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 03.09.2008 n. 4112 - link a www.altalex.com).

ESPROPRIAZIONE: V. Montaruli, I riflessi sul contenzioso espropriativo delle sentenze della Corte Costituzionale nr. 348 e 349 del 2007 (link a www.diritto.it).

ESPROPRIAZIONE: S. Marziali, Il piano particellare di esproprio (link a www.noccioli.it).

ESPROPRIAZIONE: Al privato proprietario di un’area destinata all’espropriazione, siccome interessata dalla realizzazione di un’opera pubblica, dev’essere garantita, mediante la formale comunicazione dell’avviso di avvio del procedimento, la possibilità di interloquire con l’amministrazione procedente sulla sua localizzazione.
Com’è noto, un indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato (cfr. Ad. Plen. 20.12.2002, n. 8; 24.01.2000, n. 2; 15.09.1999, n. 14), dal quale non si ravvisano ragioni per discostarsi, ha affermato il principio, generale ed inderogabile, per cui al privato proprietario di un’area destinata all’espropriazione, siccome interessata dalla realizzazione di un’opera pubblica, dev’essere garantita, mediante la formale comunicazione dell’avviso di avvio del procedimento, la possibilità di interloquire con l’amministrazione procedente sulla sua localizzazione e, quindi, sull’apposizione del vincolo, prima della dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell’approvazione del progetto definitivo.
In coerenza con tale canone di condotta, che vincola tutte le amministrazioni e che, come tale, non soffre eccezioni (se non espresse da disposizioni speciali che esonerano esplicitamente l’amministrazione dal relativo adempimento procedurale), ed in conformità al parametro di giudizio che ne costituisce immediato corollario, si deve, allora, rilevare che, nella fattispecie in esame, anche a causa di una confusione procedimentale che non consente una rigorosa distinzione dei diversi segmenti che, di norma, integrano la procedura di approvazione di un’opera pubblica, all’Azienda Agricola, proprietaria del terreno interessato dalla realizzazione dell’opera, non è stato consentito di interloquire, in tempo utile, con le amministrazioni procedenti in merito alla localizzazione dell’intervento ed all’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio.
Per quanto confusa e contraddittoria sia stata la gestione del procedimento (non risultando chiara, in particolare, l’evoluzione delle elaborazioni progettuali), la localizzazione dell’opera, unitamente all’apposizione del relativo vincolo ablatorio, è stata deliberata, seppur con il peculiare strumento dell’intesa Stato–Regione, in mancanza della previa notifica all’Azienda Agricola della prescritta informativa sulla dichiarazione della pubblica utilità dell’opera, con conseguente violazione del pertinente obbligo di comunicazione.
E non serve, da ultimo, invocare come esimente dal dovere in questione il disposto dell’art. 13, comma 1, della legge 07.08.1990, n. 241, in quanto quest’ultima norma si riferisce ai soli atti a contenuto generale, mentre l’intesa tra lo Stato e la Regione sulla localizzazione di un’opera di interesse statale non consiste in un documento di pianificazione territoriale, ma produce l’effetto puntuale e specifico dell’individuazione dell’ubicazione dell’intervento (oltre a valere come dichiarazione di pubblica utilità) e si rivela, come tale, idonea ad incidere, in maniera immedia-ta, sugli interessi dei soggetti proprietari del terreno interessato dalla sua realizzazione, con le evidenti implicazioni sulla partecipazione di questi al relativo procedimento (giudicata, da ultimo, necessaria da Cons. St., sez. IV, 16.05.2006, n. 2773).
I rilievi appena svolti comportano, quale immediato corollario, l’assoluta inidoneità della comunicazione indicata dalle Amministrazioni appellate come satisfattiva dell’interesse partecipativo asseritamente violato, ad integrare gli estremi dell’instaurazione tempestiva di quel contraddittorio procedimentale utile ed effettivo in merito alle determinazioni pertinenti alla localizzazione dell’opera ed alla costituzione del vincolo espropriativo che, solo, consente di giudicare adempiuto l’obbligo prescritto dall’art. 7 l. n. 241/1990 (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 29.07.2008 n. 3760 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: 1. Vincoli finalizzati all'esproprio - Reiterazione - Motivazione in ordine all'attualità dell'interesse pubblico da soddisfare - Adempimento dell'obbligo di motivazione dei provvedimenti - Sussiste.
2. Vincoli finalizzati all'esproprio - Reiterazione - Diritto all'indennizzo - Giurisdizione A.G.O. - Sussistenza.

1. L'obbligo di motivare i provvedimenti di reiterazione di vincoli preordinati all'esproprio deve ritenersi assolto con l'indicazione di una motivazione in ordine all'attualità dell'interesse pubblico da soddisfare.
2. Anche prima del D.P.R. 327/2001, le controversie concernenti il riconoscimento del diritto all'indennizzo per reiterazione di vincoli di inedificabilità sostanzialmente espropriativi, doveva essere proposta innanzi all'autorità giudiziaria ordinaria in base alla previsione dell'art 34, comma 3, lett. b), del d.lg. n. 80 del 1998
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 09.06.2008 n. 1950 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: 1. Vincoli finalizzati all'esproprio - Decadenza - Inerzia dell'Amministrazione - Risarcimento del danno -Diritto - Non sussiste.
2. Vincoli finalizzati all'esproprio - Decadenza - Inerzia dell'Amministrazione - Intervento del privato - Pronuncia che accerta l'inadempimento dell'Amministrazione - Risarcimento del danno -Diritto - Sussiste.

1. La mera scadenza del vincolo espropriativi, in difetto di provvedimenti di reiterazione del vincolo, determina l'obbligo per l'amministrazione comunale di procedere alla nuova zonizzazione delle aree. La violazione di tale obbligo non genera, tuttavia, un danno risarcibile per il privato, ma determina solamente la nascita di un mero interesse procedimentale ad ottenere la zonizzazione delle aree, gravando in capo al privato l'onere di reagire a tale inerzia, attivando i rimedi amministrativi e giurisdizionali che l'ordinamento prevede per superare il comportamento inerte.
2. Nell'ipotesi in cui la P.A. continua a rimanere inerte anche dopo che il privato si è attivato ed ha ottenuto dal giudice amministrativo una pronuncia che ha accertato l'illegittimità del diniego opposto dalla P.A. alla richiesta di effettuare la zonizzazione o il suo silenzio, matura il diritto del proprietario dei terreni al risarcimento del danno che gli deriva dall'ulteriore ritardo da parte del Comune nell'assolvimento dell'obbligo amministrativo 
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 05.06.2008 n. 1929).

ESPROPRIAZIONE: 1. Giurisdizione e competenza - Espropriazione per pubblica utilità - Annullamento procedure ablative - Conseguenze - Occupazione sine titulo - Risarcimento danno - Giurisdizione G.A. - Sussiste.
2. Espropriazione per pubblica utilità - Fattispecie di occupazione sine titulo sussistenti alla data di entrata in vigore del D.P.R. n. 327/2001 - Art. 57 D.P.R. n. 327/2001 - Fasi fisiologiche del procedimento espropriativo - Applicazione - Art. 43 D.P.R. n. 327/2001 - Fasi patologiche del procedimento espropriativo - Applicazione.
3. Espropriazione per pubblica utilità - Occupazioni d'urgenza - In assenza di dichiarazione di pubblica utilità o con decreto di esproprio ritenuto illegittimo - Risarcimento danno - Spetta - Rimborso valore venale - Spetta - Interessi moratori - Spettano.

1. Compete al Giudice Amministrativo la tutela risarcitoria correlata all'annullamento delle procedure ablative che abbia reso sine titulo l'occupazione dei fondi utilizzati nell'esecuzione dell'opera pubblica.
2. L'art. 57 D.P.R. 327/2001, riferendosi ai «procedimenti in corso», ha previsto norme transitorie unicamente per individuare l'ambito di applicazione della riforma in relazione alle diverse fasi "fisiologiche" del procedimento, senza limitare, neanche per implicito, l'ambito di applicazione dell'art. 43, che, operando in situazioni "patologiche" (scadenza del termine entro il quale poteva essere emesso il decreto di esproprio; annullamento di un atto del procedimento ablatorio), è opposto a quello delle norme che riguardano i «procedimenti in corso». In altri termini, l'atto di acquisizione - in quanto emesso ab externo del procedimento espropriativo - non rientra nell'ambito di operatività della normativa transitoria di cui all'art. 57 (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 2582/2007).
3. In caso di decreto di occupazione illegittimo, in base al quale sia stata definitivamente sottratto un terreno, al ricorrente spetta ex art. 43, comma 6, t.u. 327/2001, sia il risarcimento del danno relativo al periodo di occupazione senza titolo, sia l'importo corrispondente al valore venale, con gli interessi moratori a decorrere dal giorno in cui il terreno sia stato occupato senza titolo 
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 05.05.2008 n. 1288 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: E. Trabucchi, Corte Europea dei Diritti dell'Uomo: l'espropriazione isolata non può giustificare un'indennità inferiore al valore di mercato del bene ablato - Nota a Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, sentenza 10.06.2008 (link a www.filodiritto.com).

ESPROPRIAZIONE: C. Taglienti, OCCUPAZIONE D’URGENZA PREORDINATA ALL’ESPROPRIO (link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: L. Marzano, Incostituzionalità della legge-provvedimento che si traduca in una reiterazione non procedimentalizzata dei vincoli espropriativi (nota a Corte Cost., sentenza 20.07.2007, n. 314) (link a www.lexitalia.it).

ESPROPRIAZIONE: Occupazione appropriativa, illegittimità, conseguenze, danni, sussistenza.
In caso di occupazione appropriativa, l’espropriato ha diritto ad un ristoro economico corrispondente al valore venale del bene con gli accessori peculiari delle obbligazioni valore (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 23.04.2008 n. 10560 - link a www.altalex.com).

ESPROPRIAZIONE: Provvedimenti di reiterazione di vincoli preordinati all'esproprio - Motivazione in ordine all'attualità dell'interesse pubblico da soddisfare - Adempimento dell'obbligo di motivazione dei provvedimenti - Sussiste.
L'obbligo di motivare i provvedimenti di reiterazione di vincoli preordinati all'esproprio deve ritenersi assolto con l'indicazione di una motivazione in ordine all'attualità dell'interesse pubblico da soddisfare 
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.04.2008 n. 1227 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEOccupazione appropriativa - Nuovi criteri risarcitori - L. 24/12/2007, n. 244 (legge finanziaria 2008) - Calcolo - Giudizi in corso - Applicazione.
L'art. 2, comma 89, lett. e) legge 24.12.2007, n. 244 (legge finanziaria 2008) il quale, colmando il vuoto normativo conseguente alla pronuncia di illegittimità costituzionale (sentenza n. 349 del 2007) dell'art. 5-bis, comma 7-bis, d.l. n. 333 del 1992, convertito con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, ha modificato l'art. 55 d.P.R. n. 327 del 2001 disponendo che nel caso di utilizzazione di un suolo edificabile per scopi di pubblica utilità, in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio alla data del 30.09.1996, il risarcimento del danno è liquidato in misura pari al valore venale del bene. La norma è applicabile nei giudizi in corso in cui sia ancora in discussione il "quantum" del risarcimento e che quest'ultimo non può superare in nessun caso il valore che il proprietario trarrebbe dall'immobile se decidesse di porlo sul mercato con la destinazione stabilita dallo strumento urbanistico, dovendosi escludere rilevanza ad altre destinazioni di fatto impresse dal proprietario (Corte di Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 31.03.2008 n. 8384 - link a www.ambientediritto.it).

LAVORI PUBBLICIAccessione invertita, legittimità accessione orizzontale, legittimità.
L’accessione invertita riguarda l’occupazione orizzontale di parte del suolo del vicino, ma non il caso di edificazione avvenuta al di sotto del suolo altrui e, quindi, di occupazione verticale del medesimo, che è fuori della previsione legislativa.
La buona fede rilevante ai fini dell'accessione invertita, comunque, consiste nel ragionevole convincimento del costruttore di edificare sul proprio suolo e di non commettere alcuna usurpazione in danno del vicino, sicché la mancata opposizione di costui non vale a dimostrare lo stato soggettivo di buona fede dell'occupante, che deve, invece, riguardare le condizioni in cui il costruttore si è trovato ad operare, sì da generare il convincimento di esercitare un suo preteso diritto
(Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 27.02.2008 n. 5133 - link a www.altalex.com).

ESPROPRIAZIONE: Dichiarazione di pubblica utilità - Divenuta inefficace - Rilevanza - Ai fini dell'individuazione della giurisdizione - Giurisdizione G.A. - Sussistenza - Occupazione acquisitiva - Inammissibilità - Formale provvedimento di acquisizione - Necessità.
La presenza di un atto di dichiarazione di pubblica utilità poi divenuto inefficace rileva soltanto ai fini dell'individuazione della giurisdizione amministrativa, in quanto i comportamenti di impossessamento del bene altrui collegati all'esercizio, anche se illegittimo, di un pubblico potere devono a loro volta essere presi in considerazione come manifestazioni di una funzione pubblica. Non è invece possibile qualificare la dichiarazione di pubblica utilità divenuta inefficace come un elemento che congiuntamente all'irreversibile trasformazione del bene dà origine a un'ipotesi ablatoria atipica, in quanto la perdita della proprietà può derivare solo dal giusto procedimento espropriativo nel rispetto delle garanzie previste dalla legge. Anche dopo la realizzazione dell'opera pubblica la proprietà del bene rimane quindi all'originario titolare finché non sia adottato un formale provvedimento di acquisizione (ora disciplinato dall'art. 43 DPR 327/2001) con l'annessa liquidazione del risarcimento del danno. Trattandosi di uno strumento che regolarizza dall'esterno la procedura espropriativa e soddisfa le pretese risarcitorie dei privati in conformità a principi presenti da tempo nel diritto comune europeo, il provvedimento di acquisizione è utilizzabile indipendentemente dal confine temporale stabilito dall'art. 57 del DPR 327/2001. L'utilizzazione del fondo altrui ha natura di illecito permanente e quindi non consente il decorso del termine di prescrizione quinquennale del diritto al risarcimento (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Brescia,
sentenza 22.02.2008 n. 140 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEESPROPRIAZIONE per pubblica utilità - Computo nell'indennità delle perdite aziendali - Esclusione - Fattispecie.
L'indennità di espropriazione non può superare in nessun caso il valore determinabile con l'applicazione del criterio legale previsto dalla normativa, per cui non può incidere il reale pregiudizio che il proprietario od altro titolare di minore diritto di godimento risentono come effetto dal non potere ulteriormente svolgere mediante l'uso dello stesso immobile la precedente attività. Di conseguenza, ove risulti impedito sul luogo l'ulteriore svolgimento dell'impresa che utilizzava gli immobili per fornire i propri servizi, l'espropriazione non si estende al diritto dell'imprenditore su di essi, né all'azienda organizzata dall'imprenditore, sì che il valore del bene espropriato debba comprendere quello dell'azienda in sé considerata, quale complesso funzionale organizzato, risultante da una pluralità di elementi. Nel caso di specie (relativo all’espropriazione di terreno destinato a parcheggio a servizio di struttura alberghiera) le perdite aziendali lamentate dall'espropriato non sono suscettibili di indennizzo, ed è sufficiente a compensare la perdita subita l'applicazione del criterio legale previsto nel caso di espropriazione parziale (nella specie disciplinata dall'art. 15-bis legge prov. Trento 19.02.1993, n. 63, riproduttiva dell'art. 40 legge 25.06.1865, n. 2359), assumendo le perdite aziendali rilevanza autonoma rispetto alla perdita dominicale solo nella diversa ipotesi di espropriazione di azienda agricola (art. 16 legge 22.10.1971, n. 865).
ESPROPRIAZIONE - Opposizione alla stima - Criterio di determinazione indennitaria - Limite della reformatio in peius - Art. 19 L. n. 865/1971.
Nel giudizio di opposizione alla stima, di cui al l'art. 19 della legge 22.10.1971, n. 865, la qualificazione del fondo e l'adozione del criterio di determinazione indennitaria attiene all'attività di applicazione delle norme, alla quale si associa l'attività difensiva delle parti, di modo che non può ravvisarsi preclusione alcuna tanto ad una definizione, da parte del giudice, dell'oggetto espropriato in discordanza con la stima amministrativa o con le indicazioni delle parti (con l'unico limite del divieto di reformatio in peius della posizione dell'opponente (Cass. n. 12966/2004).
ESPROPRIAZIONE - Mancanza dell’identità del proprietario - Espropriazione parziale - Esclusione - Criterio della stima differenziale - Fattispecie.
Quando manca il presupposto dell'identità del proprietario non è ravvisabile neanche l’ipotesi di espropriazione parziale (Cass. 27.08.2004 n. 17112). Nella specie, non è applicabile il criterio della stima differenziale, riguardo ad una particella appartenente a soggetto diverso dal proprietario del terreno sui cui insiste l'azienda (alberghiera).
ESPROPRIAZIONE - Pertinenza - Qualificazione - Natura.
Anche se per definizione, la pertinenza è posta a servizio del bene principale, assume, sotto il profilo indennitario, una sua autonomia, nel senso che di essa deve qualificarsene la natura urbanistica (suolo edificabile o agricolo), che però non potrà mai essere assimilata a quella dell'area (edificata) cui pertiene (Cass. 14.01.2008, n. 599; 28.11.2007, n. 24703) (Corte di Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 31.01.2008 n. 2424 - link a www.ambientediritto.it).

ESPROPRIAZIONE: V. Mazzarelli, IL VALORE DELL’INDENNITÀ DI ESPROPRIO (link a www.pausania.it).

ESPROPRIAZIONE1. Occupazioni temporanea e d'urgenza - Occupazione acquisitiva - Domanda di risarcimento del danno - In assenza di atto formale di acquisizione del bene - Non spetta - Restituzione del bene - Spetta.
2. Occupazione temporanea e d'urgenza - Occupazione acquisitiva - Domanda di risarcimento del danno - Periodo successivo a quello dell'occupazione legittima - Spetta.
3. Occupazioni temporanee e d'urgenza - Occupazione acquisitiva - Art. 43 D.P.R. 337/2001 - Applicabilità - Tutti i casi di occupazione sine titulo.

1. Nell'ipotesi di occupazione acquisitiva, in mancanza dell'adozione da parte della P.A. di un provvedimento di acquisizione sanante ex art. 43 del d.P.R. n. 327/2001, la domanda di risarcimento dei danni non può trovare accoglimento, ma è invece necessario condannare la P.A. alla restituzione dell'area, anche se essa sia ormai irreversibilmente trasformata. La trasformazione irreversibile del fondo con la realizzazione dell'opera pubblica è un fatto, e tale resta, quindi non può di per sé costituire impedimento alla restituzione del bene; mentre la perdita della proprietà da parte del privato e l'acquisto della stessa in capo alla P.A. possono conseguire unicamente all'emanazione di un provvedimento formale, nel rispetto del principio di legalità e di preminenza del diritto (cfr. Cons. di St., Ad. Pl., sent. n. 2/2005).
2. Nel caso di occupazione acquisitiva, a decorrere dalla data di scadenza dell'occupazione legittima, spetta ai proprietari il risarcimento del danno per l'utilizzazione illegittima del suolo.
3. L'art. 43 D.P.R. 327/2001, che prevede, quale unica alternativa alla restituzione del bene, l'atto di acquisizione cd. sanante, accompagnato dal risarcimento del danno, deve reputarsi applicabile a tutti i casi di occupazione sine titulo, sussistenti o meno alla data di entrata in vigore del D.P.R. 327, recante il Testo Unico sulle espropriazioni (30.06.2003) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 23.01.2008 n. 156 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE1. Occupazione temporanea e d'urgenza - Opere interrate - Risarcimento - Spetta - Obbligo di rimozione - Non sussiste.
2. Occupazione temporanea e d'urgenza - Opere interrate - Risarcimento - Portata.
3. Opere pubbliche - Occupazione legittima - Indennità di occupazione - Giurisdizione G.O.
1.
Il protrarsi nel tempo della presenza arbitraria di tubazioni interrate non può determinare gli effetti di un'occupazione permanente (illegittima), ma si limita a comprimere le facoltà di godimento del proprietario del fondo asservito in via di mero fatto: conseguentemente tale compressione è suscettibile di essere risarcita, atteso il suo carattere illecito, mentre non è accoglibile la relativa domanda di rimozione di manufatti (cfr. Cassaz. Civ., SS.UU., sent. n. 13714/2005).
2. Nel caso del protrarsi nel tempo di tubazioni interrate poste arbitrariamente dalla P.A. nel terreno di un privato, questi è legittimato a richiedere sia il risarcimento per la diminuzione di valore del fondo in conseguenza delle diminuite utilità da esso ricavabili per la presenza di tubazioni interrate, sia il risarcimento per il periodo di occupazione abusiva, ossia per l'indisponibilità dell'area protrattasi oltre la scadenza del termine dell'occupazione legittima (Cassaz. Civ., SS.UU., sent. n. 15277/2001).
3. L'indennità di occupazione legittima costituisce pretesa da azionare, ex art. 34, comma 3, lett. b), D. Lgs. 80/1998, davanti al giudice ordinario (TAR Sicilia, sent. n. 2194/2006; TAR Basilicata, sent. n. 516/2007) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 23.01.2008 n. 155 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: 1. Dichiarazione di pubblica utilità - annullata - Sussistenza - Giurisdizione del G.A. - Sussistenza.
2. Dichiarazione di pubblica utilità - annullata - Realizzazione dell'opera pubblica - Occupazione usurpativa - Non sussistenza - Proprietà del bene - Non mutamento - Provvedimento Acquisizione - Necessità - Risarcimento del danno -Termine quinquennale - Non decorre.

1. La presenza di un atto di dichiarazione di pubblica utilità poi annullato consente l'attribuzione della controversia al giudice amministrativo, anche fattispecie tradizionalmente inquadrate nella categoria dell'occupazione usurpativa, in quanto i comportamenti di impossessamento del bene altrui collegati all'esercizio, anche se illegittimo, di un pubblico potere devono a loro volta essere qualificati come manifestazioni di una funzione pubblica; in base a questa impostazione il caso della mancata fissazione dei termini iniziali e finali ex art. 13 L. 2359/1865 appare pienamente inserito nello svolgimento, sia pure imperfetto, dell'azione amministrativa.
2. Poiché la perdita della proprietà può derivare solo dal giusto procedimento espropriativo nel rispetto delle garanzie previste dalla legge si deve ritenere che anche dopo la realizzazione dell'opera pubblica la proprietà del bene rimanga all'originario titolare finché non sia adottato un formale provvedimento di acquisizione (ora disciplinato dall'art. 43 D.P.R. 327/2001) con annessa liquidazione del risarcimento del danno. Trattandosi di uno strumento che regolarizza dall'esterno la procedura espropriativa e soddisfa le pretese risarcitorie dei privati in conformità a principi presenti da tempo nel diritto comune europeo, il provvedimento di acquisizione è utilizzabile indipendentemente dal confine temporale stabilito dall'art. 57 DPR 327/2001. L'utilizzazione del fondo altrui ha natura di illecito permanente e quindi non consente il decorso del termine di prescrizione quinquennale del diritto al risarcimento (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Brescia,
sentenza 15.01.2008 n. 3 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEDiritto all'indennizzo espropriativo - Evasione totale o parziale dell’imposta I.C.I. - Effetti - Sanzioni e recupero del tributo I.C.I. - Accertamento da parte dell'Amministrazione.
In materia di espropriazione, l'evasore totale dell’imposta I.C.I. non perde il suo diritto all'indennizzo espropriativo (Cass. sentenza n. 24509/2006), ma è unicamente "destinato a subire le sanzioni per la omessa dichiarazione e l'imposizione per l'I.C.I. che aveva tentato di evadere", potendo l'erogazione della indennità di espropriazione "intervenire solo dopo la verifica che essa non superi il tetto massimo ragguagliato al valore accertato per l'I.C.I., ed a seguito della regolarizzazione della posizione tributaria con concreto avvio del recupero dell'imposta e delle sanzioni" (così testualmente, Corte Cost. n. 351/2000). Mentre, "l'evasore parziale resta soggetto alle stesse conseguenze per il minor valore dichiarato", potendo quindi il Comune procedere ad accertamento del maggiore valore dei fondo agli effetti tributari e sulla base di questo commisurare consequenzialmente, in via definitiva, l'indennità espropriativa (ivi) e non già liquidarla (come nella specie) in misura irrisoria, con ancoraggio alla dichiarazione infedele. Nella seconda evenienza, in particolare, va da sé che il previo recupero del tributo I.C.I., parzialmente evaso, possa avvenire, agli effetti indicati, oltre che per accertamento da parte dell'Amministrazione, a seguito di rettifica, in termini, da parte dello stesso proprietario (argomentando L. n. 413 del 1991, ex artt. 32, 49 e 53; D.Lgs. n. 241 del 1997, art. 13; D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 59, comma 1, lett. l; e considerando che la dichiarazione tributaria è atto di scienza e di non di volontà).
Occupazione d'urgenza - Effetti - Possesso del bene - Indennità per l'occupazione - Decreto di esproprio o ablazione - Perdita del possesso del bene.
L'occupazione d'urgenza, per il suo carattere coattivo, non priva il proprietario del possesso del bene occupato, in quanto questo, finché non intervenga il decreto di esproprio o comunque ablazione, continua ad appartenergli, tant'è che per tal motivo gli si riconosce anche una indennità per l'occupazione (Corte di Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 03.01.2008 n. 19 - link a www.ambientediritto.it).

anno 2007

ESPROPRIAZIONE1. Approvazione del progetto di opera pubblica ai sensi dell'art. 1 legge n. 1/1978 - costituisce valida dichiarazione di pubblica utilità - fattispecie di opera pubblica realizzata da privati.
2. Opera pubblica realizzata in mancanza del decreto d'esproprio ma in presenza di dichiarazione di pubblica utilità - Ipotesi riconducibile all'"occupazione appropriativa" - Giurisdizione del giudice amministrativo- Sussiste.
3. Ipotesi di occupazione appropriativa - Illecito permanente- Prescrizione quinquennale - Non sussiste - imprescrittibilità dell'azione - sussiste.
3. Mancanza del decreto d'esproprio - Occupazione d'urgenza oltre i termini di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità - Responsabilità extracontrattuale - Condanna al risarcimento del danno ex art. 43 DPR 327/2001- Sussiste.

1. L'art. 1 della legge n. 1/1978 consente agli enti locali di approvare progetti di opere pubbliche conferendo automaticamente a tale decisione il requisito di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza in modo tale da configurare un decreto d'occupazione d'urgenza, legittimamente adottato dal Consiglio Comunale anche per opere pubbliche realizzate da soggetti privati.
2. In presenza di un'opera pubblica realizzata in forza di una valida dichiarazione di pubblica utilità, adottata ai sensi dell'art. 1 della legge n. 1/1978, cui non è seguita l'adozione del decreto d'esproprio (e con un'occupazione d'urgenza effettuata oltre i termini di validità del relativo provvedimento), non si configura un'ipotesi di "occupazione usurpativa pura" (che si ha nel momento in cui la dichiarazione di pubblica utilità non sia mai stata adottata) ma la fattispecie della "occupazione appropriativa" che, similmente al caso dell'"occupazione usurpativa spuria" (configurabile quando l'amministrazione ha adottato una dichiarazione di pubblica utilità poi annullata in via di autotutela o giurisdizionale), è attribuita alla giurisdizione del giudice amministrativo anche in applicazione del principio (di derivazione comunitaria) di effettività della tutela giurisdizionale.
3. Se a fronte di una valida dichiarazione di pubblica utilità non segue il relativo decreto d'esproprio e l'occupazione d'urgenza viene effettuata oltre i termini di efficacia del relativo provvedimento (3 mesi ex art. 20 L. 865/1971), si versa in un'ipotesi di occupazione appropriativa che rappresenta ormai un illecito permanente sul presupposto che non è ipotizzabile che la commissione di un fatto illecito (l'occupazione sine titulo e la conseguente trasformazione del territorio) possa determinare il trasferimento di proprietà dell'immobile in capo all'ente pubblico, rendendo quindi l'azione risarcitoria imprescrittibile.
4. L'occupazione appropriativa rappresenta un'ipotesi di responsabilità extracontrattuale del Comune resistente che comporta l'obbligo ex art. 43 DPR 327/2001 (applicabile anche alle occupazioni sine titulo già sussistenti alla data di entrata in vigore del T.U. espropriazioni) di restituire il suolo e di risarcire il danno cagionato salvo il potere dell'Amministrazione di fare venire meno l'obbligo di restituzione attraverso l'adozione dell'atto di acquisto del bene al proprio patrimonio (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 18.12.2007 n. 6676 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE1. Vincolo a sede stradale - Vincolo preordinato all'esproprio soggetto a decadenza quinquennale - Sussiste.
2. Calcolo dell'indennità di espropriazione - Manufatto sanato - Computabilità.

1. Il vincolo a sede stradale è un vincolo preordinato all'esproprio, al quale si applica il principio della decadenza quinquennale ex art. 2 della l. n. 1187/1968, per questo verso è significativo il fatto che l'art. 18, comma 2 lett. b) della L. R. n. 12/2005 stabilisce un'identica durata quinquennale per il vincolo asseritamente "confermativo", ma in effetti espropriativo.
2. In sede di calcolo dell'indennità di espropriazione, occorre tenere presente anche il valore di quei soli manufatti che, originariamente realizzati senza un titolo abilitativo, sono stati successivamente sanati (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 18.12.2007 n. 6675 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEOccupazione temporanea e d'urgenza - Procedura accelerata ex art. 3 Legge 1/1978 - Ambito di applicazione - Edilizia agevolata - Esclusione.
La procedura accelerata ex art. 3 Legge 1/78 vigente al momento dei fatti di causa riguarda solo le opere pubbliche e tra queste si devono ricomprendere anche gli interventi di edilizia sovvenzionata in ragione della natura di opere pubbliche rivestita dagli alloggi di edilizia residenziale pubblica, ma non gli interventi di edilizia agevolata, che, al contrario di quelli sovvenzionati, sono eseguiti da soggetti privati e si traducono nella realizzazione di beni di natura privata (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 13.12.2006 n. 2962 - massima tratta da www.solom.it).

ESPROPRIAZIONE: 1. Espropriazione per p.u. - Decreto di occupazione d'urgenza - Ha natura vincolata - Necessità di comunicazione agli espropriandi - Non sussiste - Necessità del giusto procedimento - Nella dichiarazione di pubblica utilità - Sussiste - Nell'occupazione d'urgenza - Non sussiste.
2. Espropriazione per p.u. - Decreto di occupazione d'urgenza - Natura vincolata - Non basta ad escludere la necessità di comunicazione di avvio del procedimento - Necessità di verifica dei presupposti dell'art. 21-octies, l. n. 241/1990 - Sussiste.
3. Espropriazione per p.u. - Decreto di occupazione d'urgenza - Natura vincolata - Esclude il vizio di eccesso di potere.
4. Art. 6, L. n. 241/1990 - Principio di adeguatezza e completezza dell'istruttoria procedimentale - Obbligo dell'Amministrazione di accertare d'ufficio la realtà dei fatti e degli atti posti alla sua attenzione - Sussiste.

1. Per l'adozione del decreto autorizzatorio dell'occupazione d'urgenza, quale provvedimento di natura vincolata, meramente attuativo di provvedimenti presupposti, non si rende necessaria alcuna ulteriore comunicazione di carattere specifico ai proprietari delle aree da espropriare. Si è infatti chiarito che il giusto procedimento, se rispettato nell'ambito della dichiarazione di pubblica utilità, non ha ragion d'essere nell'occupazione d'urgenza. Ciò non tanto perché vi osti il presupposto dell'urgenza, atteso che qualsiasi approvazione del progetto di un'opera pubblica equivale ope legis a dichiarazione di urgenza ed indifferibilità, mentre l'urgenza che costituisce impedimento alla comunicazione dell'avvio del procedimento è un'urgenza qualificata. Ma piuttosto perché il giusto procedimento ha ragion d'essere nell'ambito della dichiarazione di pubblica utilità, che conserva momenti di scelte discrezionali, e non più nel quadro dell'occupazione d'urgenza, meramente attuativa dei provvedimenti presupposti.
2. La natura vincolata del decreto di occupazione d'urgenza non basta da sé a far ritenere che non fosse dovuta la comunicazione di avvio del relativo procedimento. In tal senso depone il testo dell'art. 21-octies, comma 2, parte seconda, della l. n. 241/1990, a tenore del quale l'omissione della comunicazione di avvio del procedimento non comporta l'annullabilità dell'atto finale solamente laddove, alla luce degli elementi forniti nel processo dall'amministrazione, emerga dal giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
3. Il decreto di occupazione d'urgenza ha natura di atto vincolato, per il quale non è configurabile l'eccesso di potere, essendo questo un vizio che, invece, si riferisce all'esercizio del potere discrezionale.
4. L'art. 6 della L. n. 241/1990 codifica il fondamentale principio dell'adeguatezza e completezza dell'istruttoria procedimentale, in base al quale l'Amministrazione è obbligata ad accertare d'ufficio, per quanto possibile, la realtà dei fatti e degli atti posti alla sua attenzione (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 29.11.2007 n. 6524 - massima tratta da www.solom.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: 1. Realizzazione di opere e/o lavori pubblici o di pubblico interesse - Redazione dello stato di consistenza contestuale al verbale di immissione in possesso ex art. 32 L. n. 265/1999 e succ. mod ed int. - Sussiste- Amministrazioni comunali e amministrazioni consortili - Applicazione- Sussiste.
2. Assegnazione da parte del Comune prima della espropriazione - Funzione di individuare il beneficiario dell'area e non di trasferirgli la titolarità dell'aera - Ammissibilità.
3. Dichiarazione di pubblica utilità contestuale all'approvazione del PIP - Durata decennale del PIP- Occupazione d'urgenza dopo nove anni dalla approvazione del PIP - Legittimità.
4. Attuazione del PIP mediante esproprio di aree o cessione del diritto di proprietà o diritto di superficie - Parte non attuata del PIP - Area o lotto liberi da edifici - Sussiste.

1. Ai sensi dell'art. 32 della L. n. 265/1999 poi trasfuso nell'art. 121 dal D.lgs. n. 267/2000 per le opere e i lavori pubblici o di pubblico interesse, la redazione dello stato di consistenza può avvenire contestualmente al verbale di immissione in possesso. Tale norma applicabile alle amministrazioni comunali ben può essere utilizzata anche nei riguardi delle amministrazioni consortili nello svolgimento di funzioni che l'art. 27 della L. n. 865/1971, affida alternativamente ai comuni o ai loro consorzi.
2. Sebbene l'espropriazione debba necessariamente precedere la cessione di proprietà o di un diritto di superficie, non è precluso al comune di procedere, prima dell'espropriazione, ad una assegnazione che ha l'effetto di individuare il futuro beneficiario della cessione e non di trasmettergli la titolarità dell'area.
3. Non costituisce motivo di illegittimità del decreto di esproprio il fatto che l'occupazione d'urgenza sia stata disposta dopo nove anni dall'approvazione del PIP, in quanto tale decreto trova la propria base legale nella dichiarazione di pubblica utilità derivante dall'approvazione del PIP che ha efficacia decennale decorrente dalla data del decreto di approvazione.
4. Essendo il PIP attuato mediante esproprio delle aree e utilizzazione delle stesse da parte delle imprese assegnatarie, previa cessione di proprietà o diritto di superficie, per parte non ancora attuata del PIP, deve intendersi ogni area o lotto libero da edifici, suscettibili di sfruttamento edilizio per le finalità proprie del piano (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 27.11.2007 n. 6458 - massima tratta da www.solom.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONESul risarcimento del danno da occupazione illegittima.
Nello schema dell’occupazione espropriativa, l’illecito si perfeziona con effetto estintivo della proprietà privata al momento della radicale ed irreversibile trasformazione del fondo, se avvenuta in periodo di occupazione illegittima o alla scadenza della occupazione legittima, e tutta la attività svolta nel corso dell’occupazione da chiunque esplicata, rende l’autore o gli autori responsabili del relativo risarcimento ai sensi degli artt. 2043 e 2051 c.c., e detta responsabilità grava sempre e comunque sull’ente, che ha consumato l’illecita apprensione e posto in essere il mutamento del regime di appartenenza dell’immobile.”
Qualora l’amministrazione espropriante affidi ad un altro soggetto mediante concessione la realizzazione di un’opera pubblica e deleghi gli oneri concernenti la procedura ablatoria, l’illecito in cui consiste l’occupazione appropiativa è ascrivibile all’autore materiale, pur se privo di un titolo che lo autorizzasse, in quanto si realizza l’irreversibile trasformazione del suolo in mancanza del decreto di esproprio e la perdita della proprietà a danno del privato
(Corte di Cassazione, SS.UU. civili, sentenza 23.11.2007 n. 24397 - link a www.altalex.com).

ESPROPRIAZIONE1. Espropriazione per pubblica utilità - Accoglimento del ricorso - Effetto ripristinatorio della sentenza - Retrocessione dei beni - Nello stato in cui si trovavano - Necessità - Realizzazione dell'opera - Impedimento di mero fatto - Eccessiva onerosità - Pregiudizio per l'economia nazionale - Non preclude - Rimedio sanante - Acquisizione coattiva sanante ex art. 43 D.Lgs 327/2001 - Necessità.
2. Acquisizione coattiva sanante - formale provvedimento di acquisizione - Necessità - Domanda riconvenzionale - Insufficienza.

1. Dall'accoglimento del ricorso consegue, come effetto ripristinatorio della sentenza, l'obbligo dell'amministrazione di retrocedere i beni illegittimamente espropriati, nello stato in cui essi in origine si trovavano: la restituzione stessa non è preclusa né dall'eventuale eccessiva onerosità per il debitore ai sensi dell'art. 2058 c.c. né dal possibile pregiudizio per l'economia nazionale di cui all'art. 2933 c.c.; in tal senso, a nulla rileva, costituendo un impedimento di mero fatto, la realizzazione dell'opera pubblica alla quale l'espropriazione era preordinata. opera che quindi l'amministrazione dovrà smantellare, a meno che non esperisca utilmente il rimedio sanante di cui all'art. 43 T.U. espropriazioni. Risulterebbe, infatti, incompatibile con la tutela della proprietà accordata dalla C.E.D.U. una previsione normativa che riconnettesse l'acquisto della proprietà ad una situazione iniziale illegittima la quale, senza che ne segua un nuovo e diverso provvedimento amministrativo formale, legittimo e pienamente sindacabile da un giudice, potesse evolvere, per mera attività della parte processuale pubblica, in un titolo di acquisto della proprietà e di privazione del possesso in capo al privato, tenuto anche conto che la parte pubblica, per definizione normativa, dovrebbe avere torto all'esito del giudizio.
2. L'art. 43 commi 3 e 4 T.U. espropriazioni deve essere interpretato nel senso che l'amministrazione convenuta in giudizio per la restituzione del bene di un privato illegittimamente utilizzato per scopi di interesse pubblico, la quale intendesse richiedere al giudice di essere condannata al risarcimento del danno, esclusa la restituzione del bene in natura, dovrebbe versare in atti un formale provvedimento di acquisizione, adottato ai sensi dei commi 1 e 2 dello stesso articolo, e così sottoporlo ad immediato controllo giurisdizionale di legittimità -con facoltà per la controparte di impugnarlo con motivi aggiunti- e potrebbe trattenere il bene solo qualora detto provvedimento fosse ritenuto legittimo. A tal fine non sarebbe invece sufficiente una semplice domanda riconvenzionale, sia per contrasto con il citato art. 1 del Protocollo addizionale, sia perché la legge non individua, neppure in termini generali, i parametri e i criteri cui il giudice amministrativo dovrebbe attenersi. In questo modo, si trascurerebbe di considerare che il giudice, per ruolo costituzionale, non è un gestore di interessi pubblici, e quindi se dovesse essere costretto in tale veste, perderebbe la sua posizione di terzietà, e che, in assenza di alcun criterio e di una specifica potestà e competenza amministrativa, il giudice stesso non potrebbe esprimere che una scelta arbitraria. Pertanto, va ribadito che nel caso di specie la retrocessione non trova preclusioni di sorta (TAR Lombardia-Brescia,
sentenza 06.11.2007 n. 1142 - massima tratta da www.solom.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Sulla partecipazione procedimentale in materia espropriativa.
Il Supremo Consesso siciliano afferma, in maniera lapidaria, che l’amministrazione espropriante è tenuta al rispetto della normativa inerente la partecipazione procedimentale del soggetto passivo della potestà amministrativa così come enunciato dagli artt. 7 e ss. della legge n. 241/1990 e s.m.i. (cfr. TAR Calabria-Reggio Calabria, n. 243 del 22.03.2007).
La sentenza in commento è particolarmente interessante in quanto definisce l’ambito di applicazione dell’art 21-octies, comma 2, seconda proposizione, della L. 241/1990, che testualmente prevede: “... Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.”
(Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Siciliana, sentenza 14.09.2007 n. 851 - link a www.altalex.com).

ESPROPRIAZIONEDichiarazione di pubblica utilità - Data ultimazione lavori - Mancata previsione - Omissione - Conseguenze - Tesi della “carenza di potere in concreto” - Giurisdizione del G.A.
La mancata previsione, nel primo atto della procedura ablatoria, dei termini dei lavori e della procedura medesima, deve ritenersi costituire, un caso di cattivo esercizio del potere e non di carenza di potere (in concreto), sicché l’immissione in possesso e la trasformazione del suolo, sulla base di una siffatta, asseritamente invalida (ma efficace) dichiarazione di pubblica utilità dell’opera, concreta un comportamento “amministrativo” (e non “mero”) dell’amministrazione, comunque riconducibile, almeno mediatamente, all’esercizio di pubblici poteri autoritativi, sì da restare ascritto, quanto alla tutela giurisdizionale, anche risarcitoria, alla cognizione del G.A. e non a quella del G.O. (Corte cost. n. 191 del 2006). La tesi della “carenza di potere in concreto” è smentita, tra l’altro, dall’articolo 21-septies della legge n. 241 del 1990 (aggiunto dall’articolo 14 della legge n. 15 del 2005), che menziona, tra i casi (tassativi) di nullità dell’atto amministrativo, la sola ipotesi di difetto assoluto di attribuzione (Tar Campania, Napoli, sez. V, 17.02.2006, n. 2137), dall’articolo 13, comma 3, del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità, di cui al d.P.R. 08.06.2001, n. 327, che ha reso facoltativa la previsione del termine del decreto di esproprio, il che vale a dimostrare, sul piano interpretativo, la debolezza della tesi pretoria della essenzialità dei termini, intesi come conformativi dello stesso potere ablatorio, nonché dalla stessa (più recente) giurisprudenza della Cassazione (Cass., ss.uu., 2688 del 2007, cit., 19.02.2007, n. 3724), che ha (giustamente) affermato la giurisdizione amministrativa nel caso di successivo annullamento (ancorché retroattivo) della stessa dichiarazione di pubblica utilità dell’opera. (cfr., contra, Cass., ss.uu., ord. 15.06.2006 n. 13911; 07.02.2007, n. 2688; 19.04.2007, n. 9323).
Dichiarazione di pubblica utilità - Termini dei lavori e delle espropriazioni - Indefettibilità della fissazione - Previsione in atti successivi della procedura - Insufficienza.
Pacifica, ormai, in giurisprudenza è l’acquisizione della indefettibilità della fissazione, sin dal primo atto della procedura espropriativa, ossia sin dall’approvazione del progetto definitivo dell’opera, che comporta la sua dichiarazione di pubblica utilità, dei termini dei lavori e delle espropriazioni (da ultimo, Tar Campania Napoli, sez. V, 1 febbraio 2007, n. 828). In punto di fatto tale omissione, nella fattispecie, è incontestata (oltre che documentata in atti), sicché non può che dedursene l’illegittimità, sotto questo profilo, degli atti impugnati. La giurisprudenza (da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 27 dicembre 2006, n. 7898; id., 16 maggio 2006, n. 2773) ha altresì definitivamente chiarito l’insufficienza di tale previsione in atti successivi della procedura.
Apposizione del vincolo espropriativo - Indennizzo espropriativo - Classificazione urbanistica e c.d. edificabilità "di fatto".
Nel sistema di disciplina della stima dell'indennizzo espropriativo introdotto dall'art. 5-bis, legge n. 359 del 1992, un'area va ritenuta edificabile quando come tale essa risulti classificata dagli strumenti urbanistici al momento dell'apposizione del vincolo espropriativo, mentre la cosiddetta edificabilità "di fatto", correlata alle peculiari circostanze del caso che rafforzano o comprimono l'edificabilità, rileva esclusivamente in via complementare od integrativa, nella fase dell'apprezzamento del valore venale, con la conseguenza che sulla parte che invoca dette circostanze, al fine di sostenere una variazione in positivo o in negativo del valore dell'area derivante dall'attitudine edificatoria fissata dagli strumenti urbanistici, grava l'onere di allegarle e di dimostrarle (Cass. civ., sez. I, 11.02.2005, n. 2871) (TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 12.09.2007 n. 7553 - link a www.ambientediritto.it).

ESPROPRIAZIONEAi fini dell’identificazione del soggetto passivo del rapporto espropriativo hanno rilievo decisivo e pressoché assorbente le risultanze catastali, ancorché divergenti rispetto all’effettiva situazione proprietaria del bene, ciò perché vi è la necessità di ancorare il procedimento di esproprio ad un dato certo e documentale, esonerando l’amministrazione e l'espropriante da incerti e complessi accertamenti circa l'effettiva appartenenza del bene e svincolando la procedura da successive vicende di variazione della proprietà dei beni.
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L’obbligo della comunicazione dell'avvio del procedimento è, invero, preordinato non solo ad un ruolo difensivo, ma anche alla formazione di una più completa, meditata e razionale volontà dell'Amministrazione; mediante tale comunicazione si mira, quindi, ad attuare una democratizzazione ed una trasparenza nell'esercizio dell'attività pubblica al fine di consentire, per il tramite del principio del contraddittorio, una efficace tutela delle ragioni del cittadino e contestualmente di apprestare a vantaggio dell'Amministrazione elementi di conoscenza utili nell'esercizio dei poteri discrezionali.
In altri termini, la facoltà dei privati interessati di proporre osservazioni e controdeduzioni ed il conseguente obbligo dell'Amministrazione di pronunziarsi motivatamente sulle medesime a conclusione di una vera e propria fase del procedimento svolta in contraddittorio sono intesi ad offrire elementi di valutazione non marginali ai fini del buon andamento e funzionalità dell'azione amministrativa; siffatte finalità sono certamente frustate ove, come nella specie, gli interessati vengono portati a conoscenza dell'opera pubblica quando il relativo progetto è stato già definito in tutte le sue componenti, per cui viene precluso ai medesimi di apportare alcun contributo.

Con il primo motivo di ricorso, la ricorrente lamenta di non avere ricevuto il previo avviso di avvio del procedimento nonostante fosse proprietaria dell’area intersecata dal progetto approvato e destinata all’espropriazione.
La censura, come già rilevato in sede cautelare, è fondata, atteso che la Sig.ra Chiumiento, pur risultando intestataria catastale della particella (foglio 11, 867) interessata dal procedimento ablatorio, non ha ricevuto la previa comunicazione di avviso di avvio del procedimento, che, a norma dell’art. 16, comma 4, del d.P.R n. 327/2001 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità), deve precedere l’approvazione del progetto valevole quale dichiarazione di pubblica utilità ed urgenza.
Va peraltro precisato che ai fini dell’identificazione del soggetto passivo del rapporto espropriativo hanno rilievo decisivo e pressoché assorbente le risultanze catastali, ancorché divergenti rispetto all’effettiva situazione proprietaria del bene, ciò perché vi è la necessità di ancorare il procedimento di esproprio ad un dato certo e documentale, esonerando l’amministrazione e l'espropriante da incerti e complessi accertamenti circa l'effettiva appartenenza del bene e svincolando la procedura da successive vicende di variazione della proprietà dei beni (Consiglio di stato, sez. VI, 02.05.2006, n. 2423).
Dagli atti di causa emerge che in data 19.07.1991 veniva stipulato atto di donazione tra il proprietario esclusivo dell’area Sig. Chiumiento Antonio e la di lui figlia Sig.ra Chiumiento Maria Giuseppa, con riserva di usufrutto a favore del primo. Orbene la ricorrente figura nella certificazione catastale in atti con effetti a decorrere dalla ridetta data del 19.07.1991, epoca cui risale l’atto di donazione stipulato in suo favore e regolarmente corredato di nota di trascrizione. In contrasto con le predette risultanze, è stato il solo Sig. Chiumiento a ricevere comunicazione dell’avviso procedimentale di cui alla nota prot. n. 40991 del 03.11.2005, a seguito della quale rivolgeva peraltro articolate osservazioni all’Amministrazione (che le respingeva con la nota prot. n. 45518 del 05.12.2005).
Il difetto del previo contraddittorio procedimentale non può non avere patologica ricaduta sulla legittimità degli atti afferenti al procedimento ablatorio attivato nei riguardi della ricorrente. Difatti la giurisprudenza ha costantemente rimarcato l’importanza della partecipazione procedimentale nella specifica materia, osservando che "l’obbligo della comunicazione dell'avvio del procedimento è, invero, preordinato non solo ad un ruolo difensivo, ma anche alla formazione di una più completa, meditata e razionale volontà dell'Amministrazione; mediante tale comunicazione si mira, quindi, ad attuare una democratizzazione ed una trasparenza nell'esercizio dell'attività pubblica al fine di consentire, per il tramite del principio del contraddittorio, una efficace tutela delle ragioni del cittadino e contestualmente di apprestare a vantaggio dell'Amministrazione elementi di conoscenza utili nell'esercizio dei poteri discrezionali.
In altri termini, la facoltà dei privati interessati di proporre osservazioni e controdeduzioni ed il conseguente obbligo dell'Amministrazione di pronunziarsi motivatamente sulle medesime a conclusione di una vera e propria fase del procedimento svolta in contraddittorio sono intesi ad offrire elementi di valutazione non marginali ai fini del buon andamento e funzionalità dell'azione amministrativa; siffatte finalità sono certamente frustate ove, come nella specie, gli interessati vengono portati a conoscenza dell'opera pubblica quando il relativo progetto è stato già definito in tutte le sue componenti, per cui viene precluso ai medesimi di apportare alcun contributo
" (cfr. Consiglio di stato, Sez. IV, 13.12.2001, n. 6238, riportata da TAR Puglia Bari, sez. II, 17.02.2005, n. 594)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 26.04.2007 n. 457 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONI: Illegittimo il decreto di esproprio senza l'avviso dell’avvio del procedimento.
Il Collegio reggino, nella decisione in epigrafe, ritiene che l’avviso dell’avvio del procedimento ex art. 16, comma 4°, del D.P.R. 08.06.2001, n. 327, costituisce una vera e propria “… garanzia partecipativa che non è meramente formale, ma rappresenta un necessario passaggio cognitivo-dialettico, funzionale sia per la parte, che può opporre fatti e/o circostanze non considerati, sia per l’Amministrazione, che deve esaminarli e valutarli prima di approvare il progetto definitivo dell’opera, essendo l’attività espropriativa connotata di ampi margini di discrezionalità amministrativa e tecnica” (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 22.03.2007 n. 243 - link a www.altalex.com).

ESPROPRIAZIONEOccupazione di una parte maggiore di quanto enunciato nell’atto di esproprio - Comportamento illecito dell’amministrazione - Risarcimento e domanda di restituzione - Competente giudice civile - Sindacabilità del G.A. - Esclusione.
L’occupazione di una parte maggiore di quanto enunciato nell’atto di esproprio non attiene ai vizi di legittimità del provvedimento, sindacabili dal giudice amministrativo, ma alla sua esecuzione, da censurare innanzi al giudice civile, competente a conoscere degli eventuali danni prodotti all’espropriato dal comportamento illecito dell’amministrazione a disporne l’eventuale risarcimento (ex plurimis Cass., sez. I, 14.01.2000, n. 350) e a decidere sulla domanda di restituzione.
Pertanto, è inammissibile la censura del ricorso introduttivo nella quale il ricorrente afferma che, relativamente alla particella di sua proprietà, le operazioni di occupazione sarebbero avvenute per quattrocento metri in più di quanto riportato nel provvedimento (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 20.03.2007 n. 1338 - link a www.ambientediritto.it).
anno 2000

ESPROPRIAZIONEVincolo indiretto ex art. 21 L. 1089/1939 di inedificabilità assoluta - Decreto di esproprio - Illegittimità.
Deve ritenersi illegittimo il provvedimento col quale è stata disposta l'espropriazione e l'occupazione definitiva di immobile già destinato alla realizzazione di un'opera pubblica, ma nelle more sottoposto a vincolo di inedificabilità assoluta derivante dall'adozione di decreto ministeriale di vincolo indiretto ai sensi dell'art. 21 legge 1089/1939, poiché detta inedificabilità ne esclude in radice la capacità di divenire oggetto di acquisizione allo specifico fine di essere destinato alla realizzazione dell'intervento edificatorio progettato (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. I, sentenza 02.10.2000 n. 2052 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE1 - Vincolo conformativo contenuto nel piano particolareggiato - Procedura ex art. 20 L. 1150/1942 - Necessità - Mancanza - Illegittimità.
2 - Procedura in attuazione di prg - Giurisdizione esclusiva del g.a.
3 - Risarcimento del danno - Necessità della prova.

1 - In presenza di vincolo conformativo che importa una destinazione non realizzabile esclusivamente a iniziativa pubblica, previa espropriazione, ma attuabile anche dal soggetto privato senza necessità di ablazione del bene (sentenza n. 179/1999 C. Cost.), qualora tale conformazione dell'area e dell'intervento in essa realizzabile sia contenuta in un piano particolareggiato, l'amministrazione non può procedere all'espropriazione, senza aver previamente esperito nei confronti del privato la procedura di attuazione coattiva del piano particolareggiato prevista dall'art. 20 L. 1150/1942 (ingiunzione ai proprietari di eseguire i lavori e successiva diffida).
Deve ritenersi pertanto illegittima la delibera con la quale viene avviato il procedimento espropriativo dell'area, senza la preventiva attivazione della procedura suddetta (fattispecie relativa ad area destinata dagli strumenti urbanistici vigenti in ambito comunale alla istallazione di un impianto -stazione di servizio- per la distribuzione di carburanti).
2 - Le procedure espropriative di attuazione delle previsioni di prg devono ritenersi ricomprese nella materia "urbanistica" come individuata dall'art. 34 del D. Lgv. 80/1998, intesa come ambito di azioni, provvedimenti ed interessi comunque attinenti al territorio e quindi includente anche gli strumenti operativi sul piano tecnico amministrativo (quali le procedure espropriative di attuazione di previsioni di P.R.G.) per l'acquisizione, da parte dell'Amministrazione pubblica, di porzioni del territorio stesso al fine della loro trasformazione e destinazione a scopi di pubblica utilità.
Sussiste quindi la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ed a questo compete di conoscere, ai sensi dell'art. 35 del medesimo Decreto Legislativo, di tutte le questioni relative a diritti, ivi comprese quelle riguardanti la richiesta di risarcimento del danno ingiusto derivante da lesione di interesse legittimo.
3 - Ai fini dell'accoglimento della domanda risarcitoria, il ricorrente deve provare il proprio diritto al risarcimento, dimostrando in concreto il danno patrimoniale subito e il nesso eziologico con il provvedimento annullato, non essendo di per sé sufficiente l'illegittimità dell'atto e la lesione dell'interesse legittimo a far sorgere il diritto al risarcimento: non vi è alcuna deminutio patrimoniale a seguito dell'avvio del procedimento espropriativo ove il terreno sia rimasto in possesso del ricorrente (per essere stata concessa l'ordinanza di sospensione cautelare) e non risultando che vi siano state concrete trattative di vendita o di utilizzazione economica del bene sfumate per il procedimento attivato dalla P.A. (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. I, sentenza 15.05.2000 n. 888 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEDichiarazione di pubblica utilità - Termini - Scadenza - Decreto di esproprio - Illegittimità - Termine quinquennale di occupazione di urgenza - Irrilevanza.
Il termine di validità della dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza dei lavori (che non è fissato in alcun provvedimento legislativo) è determinato di volta in volta dalle Amministrazioni nei provvedimenti di approvazione dei progetti esecutivi in rapporto alla tipologia e durata dei lavori da eseguire; pertanto è illegittimo il decreto di esproprio intervenuto dopo la scadenza del termine massimo di quarantotto mesi fissato nei provvedimenti con i quali è stata dichiarata la pubblica utilità dell'opera in questione, a nulla rilevando la disciplina del D.L. 534/1987 e della L. 158/1991 concernente esclusivamente la proroga del termine di occupazione quinquennale fissato dall'art. 20 della legge 865/1971 (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. I, sentenza 18.04.2000 n. 703 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEOccupazione temporanea e d'urgenza - Scadenza termini per compimento di espropriazione senza adozione del relativo provvedimento - Effetti sulla dichiarazione di pubblica utilità e sul provvedimento di occupazione d'urgenza.
1. - Il decorso dei termini finali fissati ex art. 13 della Legge 2359/1865 nell'atto dichiarativo della pubblica utilità senza la realizzazione dell'opera e/o la emanazione del decreto di esproprio comporta l'inefficacia, ex tunc, della originaria dichiarazione di pubblica utilità, determinando l'illegittimità ab initio della intera procedura espropriativa e della connessa occupazione d'urgenza che risulta così disposta sine titulo.
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1. - La decisione afferma innovativamente la illegittimità della intera procedura espropriativa e della connessa occupazione d'urgenza per il solo fatto dello scadere dei termini finali della dichiarazione di pubblica utilità (senza la tempestiva emanazione del decreto di esproprio) così da determinarsi ex tunc l'inefficacia della medesima dichiarazione.
La tradizionale giurisprudenza risulta, invece, orientata nel senso che lo scadere di detti termini comporta l'illegittimità del decreto di esproprio tardivamente adottato (vds. Cons. Stato, Sez. V, 23.10.1981 n. 518; Sez. IV, 09.07.1974 n. 531), senza "retroagire" sull'atto dichiarativo della p.u. (per i profili risarcitori conseguenti alla realizzazione dell'opera pubblica vds. per tutte la "fondamentale" Cass. Sez. Un. 28.02.83 n. 1464, nonché, per gli effetti restitutori e di decorrenza del termine di prescrizione, Cass. Sez. Un. 04.03.1997 n. 1907 e Cass. Sez. I, 15.12.1995 n. 12841)
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. I, sentenza 14.03.2000 n. 426 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE1. - Dichiarazione di pubblica utilità - Carenza - Decreto di occupazione d'urgenza - Carenza di potere - Esclusione.
2. - Processo cautelare - Espropriazione e occupazione - Occupazione temporanea e d'urgenza - Azione di reintegrazione nel possesso di fronte al G.A. - Mancata impugnazione nei termini - Inammissibilità - Domanda cautelare ex art. 21 L. n. 1034/1971- Necessità - Rigetto.

1. - In tema di espropriazione per pubblica utilità, la carenza della dichiarazione di pubblica utilità determina l'illegittimità del decreto di occupazione d'urgenza per difetto del presupposto e non la sua nullità per carenza di potere ablativo (secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa che si differenzia da quello delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione).
2. - Non può accogliersi la domanda diretta alla reintegrazione del possesso di terreni oggetto di provvedimenti di occupazione d'urgenza non impugnati nei termini (ed a torto ritenuti nulli per difetto della dichiarazione di p.u.) posto che, a prescindere dall'applicabilità nel processo amministrativo degli strumenti interinali disciplinati dal codice di rito (nonché dalla riconducibilità della controversa fattispecie nell'ambito della giurisdizione esclusiva ex art. 34 d.lgs. 80/1998), l'interessato avrebbe dovuto proporre in via incidentale, nella tempestiva impugnativa dei decreti di occupazione, domanda di sospensione dell'esecuzione ex art. 21, u.cpv. L. n. 1034/1971 (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. II, ordinanza 24.02.2000 n. 265).