dossier
ESPROPRIAZIONE |
anno 2023 |
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ESPROPRIAZIONE: L.
Spallino,
Espropriazione per pubblica utilità e misure perequative - Repertorio di
giurisprudenza (08.11.2023 - link a www.dirittopa.it).
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1 - Acquisizione di aree ad uso pubblico: alternatività degli strumenti
espropriativi e perequativi.
2 - Cessione a titolo gratuito al comune di aree gravate da vincolo di
esproprio con compensazione di diritti edificatori: imposta di registro in
misura fissa.
3 - Cessione perequativa aree a standard: alternatività all’espropriazione.
4 - Diritti edificatori compensativi e legittimazione del proprietario ad
esigere dalla PA l'individuazione di un'area di atterraggio
5 - Domanda di accertamento dell'obbligo della PA di provvedere sulla
istanza del privato titolare di diritti edificatori compensativi:
giurisdizione esclusiva del g.a.
6 - ICI e diritti edificatori: irrilevanza ai fini imponibili del terreno
inserito in un programma di compensazione urbanistica.
7 - Indennizzo per vincoli espropriativi: non esaustività della forma
monetaria.
8 - Indennizzo per vincoli espropriativi: alternatività dei diritti
edificatori compensativi rispetto al pagamento dell’indennizzo.
9 - Modelli di perequazione e di compensazione urbanistica: carattere non
stringente.
10 - Cessione perequativa: criteri di determinazione dell’indennità
11 - Cessione perequativa: perequazione ^limitata^ e perequazione ^estesa^.
12 - Perequazione e compensazione: differenze.
13 - Regione Lombardia: differenze tra l’istituto della cessione
compensativa di cui all’art. 11, comma 3, l.rg. Lombardia n. 12/2005 e
l’istituto della perequazione.
14 - Regione Lombardia: registro delle cessioni dei diritti edificatori.
15 - Regolamenti edilizi: inidoneità a imporre pesi espropriativi.
16 - Volumetria perequativa: dimensionamento. |
ESPROPRIAZIONE: L.
Spallino,
Occupazione senza titolo e usucapione del fondo a favore della P.A.
(04.08.2023 - link a www.dirittopa.it).
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Cassazione civile, Sez. II, 28.06.2023, n. 18445
La Corte di Cassazione conferma la compatibilità dell'usucapione da parte
dell'ente occupante con l'acquisizione sanante di cui all'articolo 42-bis
del Testo Unico degli Espropri. La decisione completa il quadro descritto
nel recente articolo Occupazione senza titolo e prescrizione del
risarcimento del danno. (...continua). |
ESPROPRIAZIONE:
L. Spallino,
Occupazione senza titolo e prescrizione del risarcimento del danno
(01.07.2023 - link a www.dirittopa.it).
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Consiglio di Stato, Sez. IV, 19.04.2023, n. 3965
Il Consiglio di Stato consolida,
per quanto necessario, l'indicazione secondo la quale la condotta illecita
di una Pubblica amministrazione che incida sul diritto di proprietà del
privato, sia pure concretizzantesi in un'opera pubblica, costituisce un
illecito permanente che, come tale, impedisce il decorso del termine
quinquennale di prescrizione del diritto al risarcimento del danno. Nulla di
innovativo ma un'utile puntualizzazione, che consente di ripercorrere il
percorso che ha portato all'attuale articolo 42-bis TU Espropri. (...continua). |
anno 2022 |
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ESPROPRIAZIONE: Il
proprietario del terreno illegittimamente occupato per finalità di edilizia
residenziale pubblica, agevolata e convenzionata può chiedere la
retrocessione del bene.
La I Sez. civile della Corte di Cassazione, in tema
occupazione di terreno per finalità di edilizia residenziale pubblica,
sovvenzionata e convenzionata, ha affermato che l’art. 3 della l. n. 458 del
1988 (ancora applicabile alle fattispecie anteriori all’entrata in vigore
del d.P.R. n. 327 del 2001), nella parte in cui prevede solo il risarcimento
del danno, e non la restituzione del fondo, in caso di decreto di esproprio
dichiarato illegittimo o di procedimento ablativo concluso in violazione dei
termini e delle forme di legge, deve essere reinterpretato alla luce dei
principi enunciati dalla Corte EDU sull’art. 1 del Protocollo addizionale
alla Convenzione, oltre che dell’art. 42 Cost., sicché, a fronte della
impossibilità di configurare un potere di acquisizione “indiretta”, non può
ritenersi ancora operante il divieto di restituzione del bene al privato che
lo richieda.
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1. Il ricorrente lamenta:
...
b) con il secondo motivo, la violazione e falsa
applicazione, ex art. 360, n. 3 c.p.c., dell'art. 3, comma 1, l. 458/1988,
essendo inapplicabile tale disposizione in assenza di una valida
dichiarazione di pubblica utilità;
c) con il terzo motivo, l'omesso esame, ex art. 360, n. 5
c.p.c., di fatto decisivo in merito al rigetto della domanda restitutoria
pur in mancanza di una valida dichiarazione di pubblica utilità;
...
4. Il secondo ed il terzo motivo sono invece fondati.
Prima dell'intervento delle Sezioni Unite del 2015, questa Corte aveva
affermato l'ammissibilità della tutela restitutoria nell'ipotesi in cui
l'attività di trasformazione del suolo privato non fosse riconducibile ad
alcun fine di pubblico interesse legalmente dichiarato (fattispecie
cosiddetta di occupazione usurpativa) anche in relazione «agli interventi
astrattamente qualificati da finalità di edilizia residenziale pubblica,
posto che l'art. 3 della legge n. 458 del 1988, che esclude la restituzione
degli immobili a tal fine utilizzati, va interpretato nel senso che l'operatívità
dell'esclusione resta subordinata alla preventiva esistenza di una
dichiarazione di pubblica utilità valida ed efficace al momento della
costruzione dell'immobile, a ciò inducendo sia il tenore della norma, che,
con dizione analoga a quella dell'art. 42, terzo comma, Cost., introduce uno
specifico vincolo di scopo ("per finalità di edilizia residenziale..."), che
è da escludere in assenza della dichiarazione, sia la caratterizzazione
della fattispecie dalla norma considerata, di annullamento o di declaratoria
di illegittimità "del provvedimento espropriativo", che necessariamente
presuppone l'esistenza della dichiarazione di pubblica utilità, sia
l'interpretazione recepita dalla Corte costituzionale (sentenze n. 384 del
1990 e n. 486 del 1991), che considera la norma come una sostanziale
applicazione al settore specifico della edilizia residenziale pubblica di
quella particolare, ma diversa, fattispecie acquisitiva alla mano pubblica
di beni privati costituita dalla figura della cosiddetta occupazione
appropriativa, caratterizzata dall'esistenza di detta dichiarazione»
(Cass. 18239/2005; Cass. 20131/2013).
L'art. 3 l. 458/1988 (abrogato dall'art. 58 del DPR 327/2001, ma ancora in
vigore, ex art. 57 T.U.E., per fattispecie anteriori all'entrata in vigore
del T.U.E) stabiliva, al primo comma, che il proprietario del terreno
utilizzato per finalità di edilizia residenziale pubblica, aveva diritto al
risarcimento del danno causato «da provvedimento espropriativo dichiarato
illegittimo con sentenza passata in giudicato, con esclusione della
retrocessione del bene».
La norma è stata sottoposta al vaglio della Corte costituzionale, la quale,
con sentenza del 27.12.1991 n. 586, ne ha esteso l'applicabilità all'ipotesi
di mancanza del provvedimento espropriativo.
Orbene, a seguito dell'intervento delle Sezioni Unite di questa Corte, con
la sentenza n. 735/2015, ogni distinzione tra occupazione acquisitiva ed
occupazione usurpativa, a seconda della presenza o meno di una dichiarazione
di pubblica utilità, che comportava diverse conseguenze sul piano economico
ed anche dell'individuazione del momento di consumazione dell'illecito
(momento dell'irreversibile trasformazione del suolo con la realizzazione
dell'opera pubblica o il momento della proposizione della domanda
risarcitoria), è stata superata e deve, dunque, parlarsi, in entrambi i
casi, di occupazione abusiva o illegittima tout court, essendo la
relativa domanda risarcitoria caratterizzata da una medesima causa
petendi, rappresentata da un illecito a carattere permanente (Cass. n.
7135 del 2015; n. 12260 del 2016; n. 22929 del 2017), cosicché l'atto
abdicativo del diritto dominicale va ricollegato alla proposizione della
domanda di risarcimento per equivalente, in riferimento al quale va operata
la stima del bene distrutto (Cass. 12961/2018).
In particolare, le Sezioni Unite del 2015, nell'interrogarsi, una volta
espunto dall'ordinamento nazionale l'istituto dell'occupazione acquisitiva,
elaborato dalla giurisprudenza e, successivamente, divenuto presupposto di
diverse disposizioni di legge per contrarietà dell'istituto con i principi
dettati dall'art. 1 dei protocollo addizionale alla Convenzione EDU, se,
da un lato, l'interpretazione della giurisprudenza sulle conseguenze
dell'illecita utilizzazione fosse o meno «la sola consentita dal sistema»
e, dall'altro, se le norme di «copertura all'istituto»
potessero o meno essere «sganciate» da questo ed essere oggetto di
una diversa interpretazione, data risposta positiva al primo interrogativo,
hanno affermato, in ordine al secondo interrogativo e con riguardo specifico
anche all'art. 3 della l. 458/1988 (disposizione questa, abrogata dal D.P.R.
n. 327 del 2001, art. 58, a decorrere dall'entrata in vigore dello stesso
D.P.R, che, nell'escludere !a restituzione del bene, «presuppone
evidentemente che alla trasformazione irreversibile dell'area consegua
necessariamente l'acquisto della stessa da parte chi ha realizzato le opere»)
che:
a) tale disposizione «non ha carattere generale, essendo
limitata alla utilizzazione dei suoli per finalità di edilizia residenziale
pubblica, agevolata e convenzionata»;
b) inoltre, come chiarito da Cass. SU n. 12546/1992, essa si
riferisce ad una fattispecie che non può neppure ricondursi all'istituto
dell'occupazione acquisitiva, non essendo configurabile l'effetto
acquisitivo in favore dell'ente territoriale, in mancanza di una legittima
procedura espropriativa, e neppure essendo ipotizzabile, secondo
l'orientamento giurisprudenziale all'epoca espresso dal giudice di
legittimità, l'accessione invertita in favore di cooperative (o di privati),
mancando «sia l'irreversibile destinazione del suolo privato a parte
integrante di un'opera pubblica (bene demaniale o patrimoniale
indisponibile) sia l'appartenenza a un soggetto pubblico».
Questa Corte a Sezioni Unite ha inoltre chiarito che «in materia di
espropriazione per pubblica utilità, la necessità di interpretare il diritto
interno in conformità con il principio enunciato dalla Corte europea dei
diritti dell'uomo, secondo cui l'espropriazione deve sempre avvenire in
"buona e debita forma", comporta che l'illecito spossessamento del privato
da parte della P.A. e l'irreversibile trasformazione del suo terreno per la
costruzione di un'opera pubblica non danno luogo, anche quando vi sia stata
dichiarazione di pubblica utilità, all'acquisto dell'area da parte
dell'Amministrazione, sicché il privato ha diritto a chiederne la
restituzione, salvo che non decida di abdicare al suo diritto e chiedere il
risarcimento del danno per equivalente»; l'illecito a carattere
permanente, insito sia nell'occupazione appropriativa (occupazione sotto la
vigenza della dichiarazione di pubblica utilità ma con realizzazione
dell'opera pubblica in assenza di un decreto di esproprio) sia in quella
usurpativa (ricorrente nell'ipotesi di mancanza anche di un valido ed
efficace provvedimento di dichiarazione di pubblica utilità dell'opera), è
dunque inidoneo a comportare l'acquisizione autoritativa alla mano pubblica
del bene occupato, con cessazione dell'illecito soltanto per effetto della
restituzione, di un accordo transattivo, della compiuta usucapione da parte
dell'occupante che lo ha trasformato, ovvero della rinunzia del proprietario
al suo diritto, implicita nella richiesta di risarcimento dei danni per
equivalente (Cass. 22929/2017).
Deve poi richiamarsi il principio di diritto espresso da questa Corte nella
ordinanza 16509/2019, secondo cui «nel caso di occupazione acquisitiva
derivante dalla trasformazione irreversibile del terreno ablato nell'ambito
di un procedimento inizialmente assistito da dichiarazione di pubblica
utilità, e successivamente divenuto illegittimo per la mancata emanazione
del decreto di esproprio nel termine di legge, l'inefficacia di detta
dichiarazione opera "ex nunc", non verificandosi alcun travolgimento "ex
post' delle attività legittimamente compiute dalla P.A. sulla base del
decreto di occupazione e in pendenza del termine di efficacia della
dichiarazione di pubblica utilità», cosicché al privato è dovuta
l'indennità di occupazione legittima «a far data dall'immissione in
possesso nel bene fino alla perdita di efficacia della dichiarazione di p.u„,
che determina in ogni caso la sopravvenuta carenza di potere ablatorio della
P.A.».
Ora, nella specie, il giudice di primo grado aveva, con sentenza del 2009,
accertato essere intervenuta una «occupazione usurpativa» del terreno
del Sa., da parte del Comune, «in difetto di titolo sulla part. 683 (ex
384)» e che «neppure facendo riferimento all'ordinanza n. 461 del
20/08/1985 era possibile rinvenire una valida dichiarazione di pubblica
utilità dell'opera ex art. 13 l. 2359/1865» (pag. 4 della sentenza
impugnata), in quanto la realizzazione di edifici di edilizia economica e
popolare nei terreni in oggetto (le part. 683 e 384, rimaste in
contestazione) era avvenuta in assenza di una valida dichiarazione di
pubblica utilità, essendo emerso dagli atti che, disposta dal Comune di
Messina un'occupazione d'urgenza, per la costruzione di alloggi di edilizia
economica e popolare, con decreto n. 461/1985, coinvolgente anche terreni di
proprietà del Sa., la Cooperativa originariamente incaricata («Consorzio
dello Stretto», cui poi era subentrata, nel 1995, la Cooperativa So., la
quale aveva realizzato e completato i lavori tra il settembre 1996 ed il
maggio 2002, come descritto a pag. 15 della sentenza impugnata ) aveva «realizzato
gli immobili su terreni diversi da quelli occupati in via d'urgenza»
(pag. 2 della sentenza impugnata e pag. 12 del ricorso, che riporta estratti
della CTU espletata in primo grado).
Il decreto sindacale n. 470 del 1999 consisteva, come riportato in ricorso,
sulla base delle risultanze della CTU, in un atto con il quale «l'ente
locale certificava l'avvenuta acquisizione al patrimonio comunale dei fondi
occupati dalla So.... per effetto di accessione invertita ... ed
irreversibile trasformazione determinata dall'esecuzione di quegli
interventi». Il Tribunale aveva rilevato l'intervenuta inefficacia della
dichiarazione di pubblica utilità costituita dal decreto di occupazione
d'urgenza del 1985, in mancanza di un'effettiva espropriazione entro i
termini stabiliti e di qualsivoglia attività edificatoria sulle aree oggetto
di occupazione d'urgenza, con conseguente giurisdizione del giudice
ordinario.
Risulta, dalla sentenza della Corte d'appello, che il Comune, appellante
principale, aveva contestato la statuizione di primo grado, deducendo che la
fattispecie doveva essere ricostruita come «occupazione appropriativa»,
dal momento che il procedimento aveva preso «avvio dalla approvazione del
piano di zona di cui alla del CC 885/C del 19/12/1979 nel quale era
implicita la dichiarazione di pubblica utilità dell'opera», il che
giustificava anche la successiva determina sindacale dell'01/06/1999, di
acquisizione dell'area al patrimonio comunale.
Il Sa., appellante incidentale; aveva eccepito che la delibera del 1979, di
approvazione del P.E.P. valevole ai fini della dichiarazione di pubblica
utilità, non era stata neppure prodotta in giudizio e comunque
l'irreversibile trasformazione dei terreni di proprietà del medesimo era
avvenuta o nel 2002, alla data di completamento dei lavori, come accertato
dal CTU, o nel giugno 1999, alla data del decreto sindacale di attestazione
dell'acquisizione della porzione 683, non ancora irreversibilmente
trasformata, al patrimonio comunale, in ogni caso «dopo la definitiva
scadenza di validità del P.E.P. (al 19/12/1994) ex art. 38, comma 2, l.
865/1971» non potendo operare la proroga triennale di cui all'art. 51 l.
457/1978 (in quanto relativa a piani di zona già in essere alla data della
sua entrata in vigore e non quindi successivamente deliberati, quale quello
in oggetto, risalente al 1979).
La Corte d'appello, richiamandosi al contenuto della pronuncia delle Sezioni
Unite n. 735/2015, nelle more del giudizio intervenuta, non ha preso
posizione sulla questione, ritenendo assorbente il fatto che non assumeva
più rilievo, dopo tale arresto, la distinzione tra occupazione usurpativa e
occupazione appropriativa e che nella specie vi era stata, quanto alle part.
683 e 384, la realizzazione del programma di edilizia residenziale pubblica,
con operatività dell'art. 3 l. 458/1988, spettando al privato il solo
risarcimento del danno.
Assume quindi il ricorrente che vi sia stata violazione e falsa applicazione
dell'art. 3 della L. 458/1988, ex art. 360 n. 3 c.p.c., nonché, ex art. 360
n. 5 c.p.c., omesso esame di fatto decisivo rappresentato dall'assenza di
alcuna dichiarazione di pubblica utilità, in quanto, non ricorrendo il
presupposto applicativo della costruzione e manipolazione del bene
contrassegnata dal vincolo di scopo conseguente ad una dichiarazione di
pubblica utilità, doveva e deve essere accolta la domanda restitutoria
dell'attore, proposta in via principale, oggetto anche di specifica
doglianza con appello incidentale (nel primo motivo), salvo un legittimo
atto di acquisizione coattivo sanante ex art. 42-bis DPR 327/2001, allo
stato non intervenuto.
Deduce, in replica, il Comune che, da un lato, l'art. 3 della l.
458/1988, disposizione di carattere speciale, esclude possa disporsi la
retrocessione di area utilizzata per edilizia residenziale pubblica, una
volta che sia intervenuta la trasformazione irreversibile della stessa e «l'acquisto»
da parte di chi ha realizzato le opere (peraltro, quanto alla part. 683, per
effetto anche di acquisizione al patrimonio del Comune, con decreto n. 4701
del 01/06/1999), e, dall'altro lato, nella specie, il Sa. avrebbe, in
primo grado e in appello, «espressamente abdicato al suo diritto alla
restituzione» (anche implicitamente), chiedendo la condanna al
risarcimento del danno.
Ora, tale rinuncia implicita alla domanda di restituzione, con abdicazione
del diritto dominicale, non emerge dagli atti, avendo il Sa. chiesto sin dal
primo grado, in via principale, la restituzione dei terreni di proprietà e,
solo in via subordinata, il risarcimento del danno per equivalente, tanto da
avere proposto specifico motivo di appello incidentale avverso la decisione
di primo grado che aveva solo per uno dei tre terreni accolto la domanda
restitutoria, ritenendo impossibile per gli altri la tutela reale, in
applicazione dell'art. 2058, comma 2, c.c. (eccessiva onerosità) e 2933,
comma 2, c.c. (ritenendo che la distruzione dell'opera di edilizia
residenziale convenzionata integrasse pregiudizio all'intera economia
nazionale).
Deve quindi ritenersi che il Sa. non avesse chiaramente rinunciato al suo
diritto alla restituzione dei terreni di proprietà. Occorre poi rilevare che
sulla questione di giurisdizione (del giudice ordinario), in relazione a
tutte le domande attoree, è calato il giudicato.
Orbene, come già detto, la proceduta è stata avviata (nel 1986) ed è
proseguita nel vigore del 1° comma dell'art. 3 della legge speciale n.
458/1988; la realizzazione del programma costruttivo è stata completata nel
2002, ugualmente nel vigore della disposizione citata; il giudizio è stato
introdotto nel 2001 quando il 1° comma dell'art. 3 della legge n. 458/1988
era ancora vigente.
Come già chiarito da questa Corte (Cass. 6390/2017; Cass. 25549/2018), la
disposizione di cui all'art. 3, comma 1, l. 458 del 1988, -quale integrata,
con la sentenza additiva della Corte Cost. n. 486 del 1991-che ha escluso la
possibilità della retrocessione (da intendersi nel senso di restituzione,
come precisato da Cass. n. 2712 del 1990) delle aree illecitamente
occupate-, abrogata dall'art. 58 DPR 327/2001, ma ancora applicabile, in
alcune fattispecie pregresse (anteriori all'entrata in vigore del TALE.,
30/06/2003), ratione temporis,- deve essere intesa, «secondo
l'impostazione esegetica convenzionalmente orientata data dalla menzionata
sentenza n. 735 del 2015», «piuttosto che punto di emersione a
livello normativo del fenomeno dell'occupazione acquisitiva, del quale il
legislatore avrebbe preso atto», come «volta a riconoscere, secondo
il normale criterio di efficacia delle leggi nel tempo di cui all'art 11
Preleggi, sia il diritto al risarcimento del danno per il proprietario del
suolo utilizzato per opere di edilizia residenziale pubblica, agevolata e
convenzionata, sia ad escludere in suo favore la tutela reale usualmente
apprestata dall'ordinamento al danneggiato».
Tuttavia, nei suddetti precedenti, è stata ritenuta non rilevante la
questione della compatibilità di tale disposizione coi principi della CEDU
in tema di art. 1 Prot. 1 alla Convenzione e, dunque, la sua legittimità
costituzionale in relazione al disposto dell'art 117 Cost. in quanto la
parte ricorrente non aveva agito in via reipersecutoria, ma aveva chiesto il
risarcimento per equivalente.
Il Consiglio di Stato (investito per giurisdizione esclusiva ex art. 133,
comma 1, lett. g), c.p.a.), con sentenza della VI Sezione n. 460/2019, in
controversia avente ad oggetto una domanda di restituzione, previa riduzione
nel pristino stato, di terreni di proprietà di privati, l'occupazione dei
terreni ed irreversibilmente trasformati, malgrado inefficacia della
dichiarazione di pubblica utilità ed in assenza di decreto di esproprio
definitivo, ha affermato, confermando la decisione di primo grado che aveva
accolto la domanda, che:
a) sulla scorta di quanto statuito dall'Adunanza plenaria con la
sentenza n. 2 del 2016, un'interpretazione letterale dell'art. 3 della L. n.
458 del 1988, escludendo la retrocessione del bene (con diritto al solo
risarcimento del danno), consentirebbe «la reintroduzione di una
fattispecie di espropriazione larvata o indiretta, conseguente al mero fatto
dell'irreversibile trasformazione dell'area a seguito del compimento
dell'opera pubblica, con correlativo acquisto della proprietà del fondo da
parte chi ha realizzato le opere»;
b) è pertanto necessario sottoporre la disposizione, già ritenuta
il punto di emersione a livello normativo del fenomeno dell'occupazione
acquisitiva (Corte di Cassazione. sez. un. 19.01.2015, n. 735), ad un'opera
di interpretazione giuridica che tenga conto degli approdi raggiunti dalle
Corti interne alla luce dei fondamentali pronunciamenti della Corte Europea
dei Diritti dell'Uomo;
c) il contrasto tra l'istituto dell'occupazione acquisitiva e i
principi dettati dall'art. 1, del protocollo addizionale alla Convenzione
EDU può quindi essere risolto in via ermeneutica, addivenendo ad un
adeguamento interpretativo della lettera della disposizione di cui al citato
art. 3, alla luce dell'art. 42 della Costituzione;
d) deve quindi essere escluso il presupposto sostanziaie «a
monte» (il potere di acquisizione indiretta), con la conseguenze che
cade, necessariamente, l'effetto meramente procedimentale «a valle»
(il potere di non retrocedere il bene), così riconvertendo anche quest'ultima
residuale ipotesi di occupazione appropriativa nel solco dei principi ormai
consolidati dettati dall'Adunanza plenaria n. 2/2016;
e) la previsione, così esattamente reinterpretata alla luce dei
principi europei, costituzionali e giurisprudenziali delle Corti interne,
nemmeno pone un dubbio di rilevanza, nel caso in esame, di una questione di
legittimità costituzionale della L. n. 458 del 1988, art. 3, comma 1, in
relazione al disposto dell'art. 117 Cost., comma 1.
Ora, ai sensi del 1 comma dell'art. 3 della legge n. 458/1988,
l'utilizzazione di un'area per edilizia pubblica, sovvenzionata e
convenzionata, con procedimento espropriativo dichiarato illegittimo o non
concluso nei termini e forme di legge, determina per il proprietario il solo
diritto ai danni, con esclusione della restituzione del fondo. La norma in
esame, come già ritenuto da questa Corte (Cass. SU 735/2015) non presuppone
necessariamente un'ipotesi di occupazione acquisitiva o usurpativa, mancando
«sia l'irreversibile destinazione del suolo privato a parte integrante di
un'opera pubblica (bene demaniale o patrimoniale indisponibile) sia
l'appartenenza a un soggetto pubblico».
Invero, la costruzione di alloggi di edilizia residenziale può essere
compiuta non da soggetti pubblici ma da parte di cooperative all'uopo
delegate dal Comune, il che non poteva dare vita ad entità materiali
qualificabili come opere pubbliche (cfr. Corte Cost. 1991 cit.) e gli
alloggi realizzati vengono di regola assegnati a privati, al termine del
programma costruttivo (cfr. Cass. 10709/1992; Cass. Sezz. UU. 12546/1992,
ove si è evidenziato che l'intento del legislatore è stato quello di
apprestare «tutela di un interesse solo indirettamente pubblico ma che
non accede all'opera pubblica, essendo chiaro che, senza il riconoscimento
legislativo, la posizione degli assegnatari di alloggi edificati mediante
occupazione abusiva, pur se strutturalmente analoga a quella dell'ente
beneficiario dell'opera pubblica, non avrebbe ricevuto tutela»).
Tuttavia, tale disposizione -premesso che per la sua applicazione la Corte
d'appello avrebbe dovuto previamente verificare se ricorresse o meno una
residuale ipotesi di occupazione appropriativa e quindi se vi fosse o meno
una previa dichiarazione di pubblica utilità valida ed efficace al momento
della costruzione dell'immobile, a ciò inducendo sia il tenore della norma,
che, con dizione analoga a quella dell'art. 42, terzo comma, Cost.,
introduce uno specifico vincolo di scopo,- deve ormai essere reinterpretata
alla luce dell'art. 42 Cost. e dell'art. 1, del protocollo addizionale alla
Convenzione EDU e quindi dovendosi escludere un potere di acquisizione dei
terreni in capo all'amministrazione, il divieto di restituzione del bene al
privato, dettato dalla suddetta disposizione, non può essere ritenuto ancora
operante (Corte
di Cassazione, Sez. I civile,
ordinanza 26.05.2022 n. 17017). |
ESPROPRIAZIONE: Competenza
esclusiva dell’Organismo straordinario di liquidazione di un comune ad
emanare un provvedimento art. 42-bis T.U. delle espropriazioni in
conseguenza di un giudicato di ottemperanza.
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Processo amministrativo - Giudizio di ottemperanza – Provvedimento art.
42-bis T.U. delle espropriazioni - Competenza esclusiva dell’Organismo
straordinario di liquidazione.
Rientra nella competenza esclusiva dell’Organismo
straordinario di liquidazione di un comune il potere di emanare un
provvedimento art. 42-bis T.U. delle espropriazioni in conseguenza di un
giudicato di ottemperanza (1).
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(1) Cfr.
Cons. St., A.P., n. 15 del 2020.
Qualora l’Organismo straordinario di liquidazione non sia stato coinvolto
nel giudizio di ottemperanza di primo grado e penda l’appello (anche in
relazione alla mancata integrazione del contraddittorio), può essere
nominato un Commissario ad acta, atteso che il ricorso di secondo
grado non comporta, di per sé, un effetto sospensivo della sentenza di primo
grado, tanto più ove, come nel caso che ne occupa, non sia stata nemmeno
richiesta in sede cautelare la sospensione dell'esecuzione della stessa.
Da quanto sopra consegue anche una differente portata nei poteri del giudice
dell’esecuzione, che devono essere opportunamente calibrati, al fine di non
determinare l’irreversibilità degli effetti dell’esecuzione di sentenza.
Per tale ragione, parte ricorrente è onerata di prestare una cauzione, anche
fideiussoria, avente ad oggetto l’intero importo così come quantificato
nella parte motiva della sentenza da ottemperare ed i cui effetti cesseranno
all’esito del giudizio di appello, ove pure favorevole (TAR
Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 24.01.2022 n. 220 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2021 |
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ESPROPRIAZIONE: Per
l’Adunanza plenaria il giudicato civile di rigetto della domanda
risarcitoria in caso di occupazione acquisitiva preclude l’esercizio di
altre azioni sul bene.
Secondo l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, il giudicato civile di
rigetto della domanda di risarcimento del danno per l’equivalente del valore
di mercato del bene illegittimamente occupato dalla pubblica
amministrazione, formatosi su una sentenza irrevocabile con cui è accertato
il perfezionamento dell’occupazione acquisitiva, preclude alle parti, ai
loro eredi o aventi causa il successivo esercizio, in relazione al medesimo
bene, dell’azione di risarcimento del danno in forma specifica, dell’azione
di rivendicazione e dell’azione avverso il silenzio serbato
dall’amministrazione sull’istanza di provvedere ai sensi dell’art. 42-bis
d.P.R. n. 327 del 2001.
Ai fini di tale effetto preclusivo è sufficiente che dall’interpretazione
della sentenza si possa ravvisare un accertamento, anche implicito, del
perfezionamento della fattispecie dell’occupazione acquisitiva e dei
relativi effetti sul regime proprietario del bene, purché si tratti di
accertamento effettivo e costituente un necessario antecedente logico della
statuizione finale di rigetto.
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Espropriazione per pubblico interesse – Occupazione acquisitiva – Domanda
restitutoria – Preclusione in presenza di giudicato civile di rigetto della
domanda di risarcimento del danno per equivalente
In caso di occupazione illegittima, a fronte di un
giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno per
l’equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato dalla
pubblica amministrazione, formatosi su una sentenza irrevocabile contenente
l’accertamento del perfezionamento della fattispecie della cd. occupazione
acquisitiva, alle parti e ai loro eredi o aventi causa è precluso il
successivo esercizio, in relazione al medesimo bene, sia dell’azione (di
natura personale e obbligatoria) di risarcimento del danno in forma
specifica attraverso la restituzione del bene previa rimessione in pristino,
sia dell’azione (di natura reale, petitoria e reipersecutoria) di
rivendicazione, sia dell’azione ex artt. 31 e 117 Cod. proc. amm. avverso il
silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza di provvedere ai sensi
dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001.
Ai fini della produzione di tale effetto preclusivo non è necessario che la
sentenza passata in giudicato contenga un’espressa e formale statuizione sul
trasferimento del bene in favore dell’amministrazione, essendo sufficiente
che, sulla base di un’interpretazione logico-sistematica della parte-motiva
in combinazione con la parte-dispositiva della sentenza, nel caso concreto
si possa ravvisare un accertamento, anche implicito, del perfezionamento
della fattispecie della cd. occupazione acquisitiva e dei relativi effetti
sul regime proprietario del bene, purché si tratti di accertamento effettivo
e costituente un necessario antecedente logico della statuizione finale di
rigetto (1).
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(1) I. – Con la
sentenza in rassegna, l’Adunanza plenaria, analizzando i quesiti sollevati
da Cons. Stato, sez. IV, ordinanza 26.10.2020, n. 6531 (in Foro it.,
2021, III, 8, con nota di BONA; oggetto della News US, n. 117 del 09.11.2020, sulla quale si veda infra § m), ha formulato i principi di diritto di
cui in massima.
II. – Il collegio, dopo aver analizzato la vicenda processuale sottesa, le
argomentazioni delle parti e quelli della sezione rimettente, nel decidere
nel merito la controversia, ha osservato quanto segue:
a) la soluzione dei quesiti sottoposti
all’attenzione dell’Adunanza plenaria richiede di risolvere la questione se,
e in presenza di quali presupposti, il giudicato civile di rigetto di una
domanda di risarcimento per equivalente dei danni da perdita della proprietà
sul suolo per effetto dell’occupazione illegittima e della trasformazione
irreversibile del bene da parte della pubblica amministrazione, in
applicazione dell’istituto di creazione giurisprudenziale della cd.
occupazione acquisitiva, precluda:
a1) l’esercizio di un’azione di
risarcimento in forma specifica diretta alla restituzione del medesimo bene
previa rimessione in pristino;
a2) l’esercizio di un’azione
reale di rivendicazione del bene;
a3) l’esercizio di un’azione ai
sensi degli artt. 31 e 117 c.p.a. avverso il silenzio dell’amministrazione
sull’istanza di provvedere ai sensi dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327 del 2001;
b) secondo un consolidato orientamento della
giurisprudenza, l’interpretazione del giudicato va effettuata alla stregua
non soltanto del dispositivo della sentenza, ma anche della sua motivazione.
Il contenuto decisorio della sentenza, ai fini della delimitazione
dell’estensione del giudicato, è rappresentato non solo dal dispositivo, ma
anche dalle affermazioni e dagli accertamenti contenuti nella motivazione,
nei limiti in cui essi costituiscano una parte della decisione e risolvano
questioni facenti parte del thema decidendum;
c) occorre aderire a una concezione estensiva dei
limiti oggettivi del giudicato, per cui il giudicato sostanziale si forma su
tutto ciò che ha costituito oggetto della decisione, compresi gli
accertamenti in fatto e in diritto, i quali rappresentano le premesse
necessarie e il fondamento logico-giuridico della pronuncia finale,
spiegando la sua autorità non solo sulla situazione giuridica soggettiva
fatta valere con la domanda giudiziale –giudicato esplicito– ma anche
sugli accertamenti che si ricollegano in modo inscindibile con la decisione
e ne formano il presupposto –giudicato implicito –. In particolare:
c1) il giudicato implicito si
estende anche alla questione pregiudiziale di merito rispetto ad altra di
carattere dipendente su cui si sia formato il giudicato esplicito, senza che
a tale fine sia necessaria la proposizione di una domanda di parte volta a
trasformare la questione pregiudiziale in causa pregiudiziale ai sensi
dell’art. 34 c.p.c., purché dalla sentenza emerga che gli aspetti del
rapporto su cui verte la questione pregiudiziale abbiano formato oggetto di
una valutazione effettiva;
c2) quindi “l’autorità di cosa
giudicata copre l’accertamento, oltre che del singolo effetto dedotto come petitum (mediato), anche del rapporto complesso dedotto come causa petendi,
sia esso di natura reale o di natura obbligatoria, dal quale l’effetto trae
origine”;
d) l’individuazione in modo più o meno estensivo
dell’oggetto del processo si riflette anche sull’istituto processuale della
modificazione della domanda, nelle forme della mutatio o della emendatio
libelli, nel senso che quanto più si estendono i limiti oggettivi del
giudicato, tanto più ampia dovrà essere concepita la facoltà di modifica
delle domande in corso di giudizio, al fine di evitare che la parte possa
vedersi preclusa la possibilità di proporre in futuro domande giudiziali,
che potrebbero rivelarsi incompatibili con gli accertamenti oggetto di
giudicato in quanto rientranti nella sfera del deducibile non dedotto nel
processo definito;
e) pertanto, aderendo a tale interpretazione estensiva
del giudicato, deve ritenersi possibile convertire nel corso del giudizio la
domanda di risarcimento o di restituzione in domanda ex art. 42-bis d.P.R.
n. 327 del 2001;
f) nel caso di specie, con riferimento alla
sentenza resa dal Tribunale ordinario di Cagliari – con cui erano rigettate
le domande di condanna della parte pubblica al pagamento della somma
corrispondente al valore di mercato dei terreni illegittimamente occupati:
f1) il giudice ha rigettato la
domanda di risarcimento per equivalente del danno da perdita della proprietà
per intervenuta prescrizione quinquennale, ricostruendo la fattispecie
dedotta in giudizio in termini di occupazione acquisitiva, escludendo
espressamente la configurabilità della occupazione usurpativa;
f2) l’accertamento del
perfezionamento dell’occupazione acquisitiva costituisce un passaggio logico
necessario per qualificare l’occupazione illegittima e la trasformazione
irreversibile del bene come illecito istantaneo e individuare il dies a quo
del termine di prescrizione alla data di scadenza del termine
dell’occupazione legittima, essendo la realizzazione dell’opera pubblica
intervenuta in pendenza di tale termine;
f3) il rigetto della domanda di
risarcimento per equivalente dei danni da perdita della proprietà, per
prescrizione quinquennale, contenuta nella sentenza passata in giudicato
trova il suo antecedente logico necessario nell’accertato
perfezionamento della fattispecie dell’occupazione acquisitiva e dei
relativi effetti, di estinzione della proprietà sul suolo in capo
all’originaria proprietaria e di acquisizione della proprietà sullo stesso
bene in capo all’amministrazione costruttrice dell’opera pubblica e nella
correlata qualificazione dell’illecito generatore dell’obbligazione
risarcitoria come illecito istantaneo;
f4) il giudicato si è quindi
formato, oltre che sull’inesistenza del diritto al risarcimento del danno,
anche sul perfezionamento della fattispecie dell’occupazione acquisitiva e
sui relativi effetti, di estinzione della proprietà del suolo in capo
all’originaria proprietaria e di acquisizione della proprietà sullo stesso
bene in capo all’amministrazione, in quanto antecedenti logici necessari
della statuizione finale;
f5) è irrilevante, ai fini
della configurabilità del giudicato implicito, la mancata adozione, nella
sentenza e nel relativo dispositivo, di una formale ed espressa statuizione
sul trasferimento del bene in favore dell’amministrazione, in quanto i
relativi effetti scaturiscono per legge dal perfezionamento della
fattispecie, complessa, di creazione giurisprudenziale, rispetto ai quali la
pronuncia giudiziale assume natura di sentenza di accertamento;
f6) allo stesso modo è
irrilevante che, nella specie, dalla documentazione catastale prodotta in
giudizio emerga la persistente intestazione della proprietà dell’area
all’originaria proprietaria;
f7) pertanto, il giudicato
civile si è formato sia sull’inesistenza del diritto al risarcimento dei
danni perché estinto per prescrizione sia sul regime proprietario del bene
conseguente all’accertato perfezionamento dell’occupazione acquisitiva;
g) con riferimento all’effetto preclusivo
scaturente dal giudicato civile sulla domanda risarcitoria in forma
specifica proposta in giudizio:
g1) si premette che l’azione di
natura personale e obbligatoria di risarcimento dei danni in forma specifica
ai sensi dell’art. 2058 c.c. si differenzia dall’azione reale di
rivendicazione prevista dall’art. 948 c.c.;
g2) con l’azione di
rivendicazione, di carattere reale, petitorio e ripristinatorio, l’attore
assume di essere proprietario della cosa e di non averne più il possesso e
agisce contro chi la possegga e la detenga, al fine di ottenere il
riconoscimento del suo diritto di proprietà e al fine di recuperare il bene,
a prescindere dall’accertamento di un illecito;
g3) l’azione di reintegrazione
in forma specifica è un rimedio risarcitorio finalizzato alla rimozione
delle conseguenze derivanti dall’evento lesivo tramite la produzione di una
situazione materiale e giuridica corrispondente a quella che si sarebbe
realizzata se non fosse intervenuto il fatto illecito produttivo di danno,
il cui accoglimento è subordinato al ricorrere degli elementi della
fattispecie di cui all’art. 2043 c.c., cui si aggiungono i limiti della
possibilità e della non eccessiva onerosità per l’autore dell’illecito
previsti dall’art. 2058 c.c.;
g4) il giudice di primo grado
ha qualificato le pretese fatte valere dinanzi al giudice civile come
pretese risarcitorie e tale qualificazione della domanda non è stata
impugnata con un motivo specifico in appello, con la conseguenza che sulla
qualificazione della domanda -risarcimento in forma specifica – si è formato
il giudicato interno;
g5) quanto al rapporto tra
azione di risarcimento in forma specifica –esercitata nel presente giudizio– e l’azione di risarcimento dei danni per equivalente –respinta con il
giudicato civile–, si tratta di due rimedi in rapporto di concorso
alternativo, diretti all’attuazione dell’unico diritto alla reintegrazione
della sfera giuridica lesa che trova la sua fonte nella medesima fattispecie
di illecito, con la particolarità che l’effetto programmato dalla norma al
verificarsi della fattispecie si determina in seguito alla scelta compiuta
dal titolare circa l’una o l’altra forma di tutela;
g6) quindi, pur completandosi
la fattispecie multipla con la proposizione della domanda e con l’opzione
esercitata dall’attore a favore dell’una o dell’altra forma di tutela, il
diritto rimane unico, come unica rimane la posizione giuridica sostanziale
fatta valere in giudizio, con la conseguenza che il giudicato di rigetto
della prima domanda preclude una nuova azione sulla seconda;
g7) “pertanto, sotto tale
angolo visuale l’effetto preclusivo si è formato in ragione della
circostanza che sull’unico diritto al risarcimento dei danni, scaturente dal
medesimo fatto illecito, si è già deciso e si è ormai formato il giudicato
di rigetto fondato sul motivo portante, comune ad entrambi i rimedi,
dell’estinzione per prescrizione dell’unico diritto al risarcimento dei
danni”;
g8) la domanda di risarcimento
in forma specifica è, altresì, preclusa in ragione dell’incompatibilità
indiretta con il giudicato formatosi sul regime proprietario del bene
richiesto in restituzione, in particolare sull’effetto acquisitivo
determinatosi in capo all’amministrazione costruttrice dell’opera pubblica,
presupponendo l’azionabilità del diritto al risarcimento dei danni in forma
specifica, la titolarità della proprietà del bene leso in capo all’attore,
incompatibile con il giudicato implicito formatosi sul perfezionamento della
fattispecie dell’acquisto della proprietà a titolo originario in capo
all’amministrazione;
h) l’esito di accoglimento dell’eccezione di
giudicato non muterebbe neppure qualora fosse stata proposta azione reale di
rivendicazione ai sensi dell’art. 948 ss. c.c., in quanto:
h1) in considerazione del
carattere di esclusività che caratterizza il diritto di proprietà, il
principio logico di non contraddizione non consente la coesistenza di due
diritti dello stesso contenuto relativi a un identico bene di cui siano
titolari due soggetti diversi;
h2) “l’essenza del giudicato
sostanziale comporta l’impossibilità di far valere in un secondo processo
tra le stesse parti (e/o relativi eredi e/o aventi causa) un diritto
direttamente incompatibile con il diritto accertato da un primo giudicato”;
h3) l’esercizio dell’azione di
rivendicazione da parte del privato nei confronti dell’amministrazione dopo
la formazione del giudicato sull’acquisto della proprietà in capo a quest’ultima
è precluso dal giudicato in ragione della relazione di incompatibilità
diretta del diritto di proprietà fatto valere con l’azione di rivendicazione
rispetto al diritto di proprietà acquisito dall’amministrazione oggetto
dell’accertamento passato in giudicato;
i) anche l’azione ai sensi degli artt. 31 e 117 c.p.a. sull’istanza di provvedere ai sensi dell’art. 42-bis
d.P.R. n. 327 del 2001 trova il suo limite nei rapporti esauriti, quali
quelli definiti con autorità di giudicato. L’azione sarebbe preclusa per
l’incompatibilità sussistente tra la situazione giuridica soggettiva
azionata, presupponente la persistente titolarità della proprietà del bene
in capo alla parte ricorrente, e l’accertamento, con efficacia di giudicato,
dell’effetto acquisitivo in favore dell’amministrazione;
j) con riferimento alla questione relativa alla
forza di resistenza del giudicato nazionale in caso di eventuale contrasto
con il diritto dell’Unione europea, si rileva che:
j1) la disciplina del regime di
proprietà a norma del combinato disposto degli artt. 4, comma 1, e 5, comma
2, TUE e 345 TFUE esula dalle competenze attribuite all’Unione e appartiene
alla competenza degli Stati membri, salvi eventuali profili di violazione
del principio fondamentale di non discriminazione e del diritto di
stabilimento che, nel caso di specie, non vengono in rilievo;
j2) ai sensi dell’art. 6, commi
1 e 2, TUE, l’adesione dell’Unione alla Convenzione EDU non modifica o
estende le competenze dell’Unione definite nei Trattati;
j3) la giurisprudenza della
Corte di giustizia UE non ha preso in considerazione le fattispecie di
occupazione senza titolo che si sono avute nella prassi nazionale;
j4) la questione appare
pertanto irrilevante ai fini della decisione della controversia;
j5) in ogni caso, la stessa
Corte di giustizia UE ha variamente sottolineato l’importanza che il
principio dell’autorità del giudicato riveste sia nell’ordinamento giuridico
comunitario sia negli ordinamenti giuridici nazionali, rilevando che il
diritto europeo non impone a un giudice nazionale di disapplicare le norme
processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata a una
decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione
del diritto dell’Unione da parte di tale decisione;
j6) in senso conforme la Corte
di cassazione ha ribadito che il diritto dell’Unione europea non impone al
giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne da cui deriva
l’autorità di cosa giudicata di una decisione, nemmeno quando ciò
permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da
parte di tale decisione, salva l’eccezionale ipotesi di discriminazione tra
situazioni di diritto europeo e situazioni di diritto interno ovvero di
pratica impossibilità o eccessiva difficoltà di esercizio dei diritti
conferiti dall’ordinamento europeo;
j7) quindi, l’oggetto del
giudicato civile esula dal campo di applicazione del diritto dell’UE, non
ponendosi una questione di compatibilità delle relative statuizioni con il
diritto europeo;
k) per quanto concerne il tema del giudicato
civile contrastante con il diritto convenzionale della CEDU:
k1) nel caso di specie, gli
eredi dell’originaria proprietaria, non impugnando la sentenza di primo
grado del giudice civile non hanno esaurito i rimedi processuali interni,
con la conseguente mancata integrazione della condizione imprescindibile per
la legittimazione a ricorrere alla Corte EDU, né, tanto meno, hanno adito la
Corte entro il termine di decadenza di sei mesi dalla pronuncia nazionale
definitiva di ultima istanza, stabilità dall’art. 35, comma 1, della CEDU;
k2) in assenza di una pronuncia
della Corte EDU sulla controversia decisa con la sentenza nazionale passata
in giudicato, non può in concreto porsi la questione circa l’obbligo di
esecuzione delle relative pronunce e di disapplicazione diretta del
giudicato civile formatosi tra le parti;
k3) a differenza di quanto
accade per il diritto eurounitario, il giudice comune nazionale non può
disapplicare la norma interna che ritenga incompatibile
con la CEDU, dovendo invece, laddove ravvisi un contrasto tra la prima e la
seconda, non risolvibile con lo strumento dell’interpretazione
convenzionalmente conforme, sollevare questione di legittimità
costituzionale per violazione dell’art. 117, comma 1, Cost. e la norma
convenzionale interposta;
k4) la Corte costituzionale,
con le sentenze n. 123 del 23.05.2017 (in Foro it., 2017, I, 2180, con
nota di D'ALESSANDRO; Giur. cost., 2017, 1246, con nota di TRAVI; Giur. it.,
2018, 708 (m), con nota di GRAZIANI; Dir. proc. amm., 2018, 642, con nota di
POLICE, ROSSETTI) e n. 93 del 27.04.2018 (in Foro it., 2018, I, 2289,
con nota di D'ALESSANDRO; Giur. it., 2018, 2667, con nota di SCALVINI; Nuova
giur. civ., 2018, 1395, con nota di PASQUALETTO; Giur. cost., 2018, 1489,
con nota di BRANCA), ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità
costituzionale del combinato disposto degli artt. 106 c.p.a. e 395 e 396
c.p.c., per il processo amministrativo, e artt. 395 e 396 c.p.c., per il
processo civile, censurati per violazione dell’art. 117, comma 1, Cost.,
nella parte in cui non prevedono un diverso caso di revocazione della
sentenza quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, comma 1, CEDU,
per conformarsi a una sentenza definitiva della Corte EDU;
k5) con tali sentenze, la
Corte, dopo aver distinto i ricorrenti nel giudizio di revocazione che
avevano adito la Corte EDU da quelli che non si erano avvalsi di tale
facoltà, escludendo per questi ultimi l’operatività del rimedio
convenzionale, ha escluso la sussistenza di un obbligo convenzionale
generale di riapertura dei processi, diversi da quelli penali, allorquando
ciò fosse necessario per conformarsi a una sentenza della Corte EDU.
In particolare, la Corte ha evidenziato l’esigenza di tutelare i soggetti
diversi dallo Stato che avevano preso parte al giudizio interno, unitamente
al rispetto della certezza del diritto garantita dalla res iudicata
ed al rilievo che nei processi civili e amministrativi non è in gioco la
libertà personale, concludendo che nelle materie diverse da quella penale,
non esiste, allo stato, un obbligo convenzionale generale di adottare la
misura ripristinatoria della riapertura del processo;
k6) su un piano ordinamentale
più generale, il legislatore, proprio per adeguarsi all’orientamento della
Corte EDU ha introdotto l’istituto dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327 del 2001,
il quale, anche se dichiarato applicabile dal comma 8 ai fatti anteriori
alla sua entrata in vigore, incontra il limite generale dei rapporti chiusi
in modo irretrattabile con efficacia di giudicato, ossia quello dei rapporti
esauriti;
k7) “deve pertanto escludersi
la possibilità di una riapertura generalizzata dei processi –siano essi
civili che amministrativi– definiti con sentenza passata in giudicato, nelle
quali sia stata fatta applicazione dell’istituto pretorio della cd.
occupazione acquisitiva, e di una disapplicazione dei relativi giudicati”;
l) nel formulare i principi di diritto di cui in
massima, il collegio ha ritenuto sussistenti i presupposti per decidere
l’intera controversia ai sensi dell’art. 99, comma 4, c.p.a., rigettando
l’appello proposto, incentrato sull’unico motivo di violazione dell’art.
2909 c.c. e del conseguente erroneo accoglimento dell’eccezione di
giudicato.
La domanda di risarcimento dei danni in forma specifica esercitata è
preclusa dal giudicato formatosi sulla statuizione di rigetto dell’azione di
risarcimento per equivalente dei danni da perdita della proprietà, fondata
sul motivo portante, comune a entrambi i rimedi, dell’estinzione per
prescrizione dell’unico diritto al risarcimento dei danni scaturente dal
perfezionamento del medesimo illecito istantaneo dell’occupazione
acquisitiva.
III. – Per completezza si osserva quanto segue:
m) la questione, come già evidenziato, è stata
rimessa all’Adunanza plenaria dalla citata Cons. Stato, sez. IV, ordinanza
26.10.2020, n. 6531 (in Foro it., 2021, III, 8, con nota di BONA; oggetto
della News US, n. 117 del 09.11.2020), che ha, in particolare, sollevato
alcune questioni relative alla rilevanza, ai fini del giudizio, del
giudicato civile formatosi sulla domanda di risarcimento per equivalente
rispetto alla domanda di “risarcimento in forma specifica”, proposta
successivamente dinanzi alla giurisdizione amministrativa.
Alla citata News US si rinvia, oltre che per l’esame dei quesiti e delle
argomentazioni sviluppate dal collegio: al § p), per precedenti
giurisprudenziali sulla rinuncia abdicativa in generale; al § q), con
riferimento alla rinuncia abdicativa e all’art. 42-bis d.P.R. n. 327 del
2001; al § r), sulla restituzione dell’area irreversibilmente trasformata
dall’opera pubblica; al § s), sul superamento dell’istituto dell’occupazione
appropriativa; al § t), sul rapporto tra domanda risarcitoria e precedente
giudicato di rigetto; al § u), sul rispetto del principio della
intangibilità del giudicato nel diritto europeo; al § v), sul principio
dell’intangibilità del giudicato nell’esecuzione di sentenze di condanna
della Corte europea dei diritti dell’uomo; al § w), sul principio c.d. del “dedotto
e deducibile” e sui limiti oggettivi e cronologici del giudicato; al §
x), sul versante processuale del rapporto tra tutela in forma specifica e
risarcimento per equivalente; al § aa), per riferimenti dottrinali sui vari
argomenti esaminati nella News;
n) sul diritto del proprietario a ottenere dalla
pubblica amministrazione espropriante le necessarie trascrizioni per rendere
opponibile ai terzi l’intervenuto trasferimento di proprietà, a fronte di
giudicato civile che ha dichiarato sussistente l’occupazione appropriativa,
si veda C.g.a., 19.02.2021, n. 125 (che ha anticipato i principi fissati
dalla Plenaria), secondo cui:
- “Il privato ha titolo ad ottenere dalla P.A. espropriante le necessarie
trascrizioni onde rendere conoscibile ed opponibile a terzi l’intervenuto
passaggio di proprietà ed evitare i fastidi derivanti –in termini di
pagamento tasse, formulazione dichiarazione redditi, e quant’altro- dalla
condizione apparente per cui il bene in oggetto figurerebbe ancora nel
compendio di pertinenza del privato espropriato; a tale risultato si può
pervenire mediante accordo ricognitivo dell’avvenuto trasferimento della
proprietà in virtù dei giudicati civili, ovvero mediante un decreto di
esproprio (ora per allora), ovvero ancora attraverso un provvedimento ex
art. 42-bis t.u. espr. (con esclusione di qualsiasi corresponsione di somme
o indennità di sorta, ove la questione economica sia stata definita con i
giudicati civili che abbiano riconosciuto al privato il diritto al
risarcimento del danno per la perdita della proprietà degli immobili)”;
- “Ai fini della estensione del giudicato il contenuto decisorio di una
sentenza è rappresentato non solo dal dispositivo, ma anche dalle
affermazioni e dagli accertamenti contenuti nella motivazione, nei limiti in
cui essi costituiscano una parte della decisione, in quanto risolvano
questioni facenti parte del thema decidendi e specificamente dibattute tra
le parti, ovvero integrino una necessaria premessa od un presupposto logico
indefettibile della pronuncia; in tal caso è lecito invocare il principio
della integrabilità del dispositivo con la motivazione della sentenza, e la
portata precettiva di una pronuncia giurisdizionale va individuata non solo
tenendo conto delle statuizioni formalmente contenute nel dispositivo, ma
coordinando questo con la motivazione”;
o) sull’esigenza di interpretare il giudicato
coordinando il dispositivo con la motivazione, si vedano, tra le altre:
o1) Cons. Stato, sez. III,
16.11.2018, n. 6471 (in Foro amm., 2018, 1896), secondo cui “Il contenuto
decisorio di una sentenza è rappresentato, ai fini della estensione del
relativo giudicato, non solo dal dispositivo, ma anche dalle affermazioni e
dagli accertamenti contenuti nella motivazione, nei limiti in cui essi
costituiscano una parte della decisione, in quanto risolvano questioni
facenti parte del thema decidendi e specificamente dibattute tra le parti,
ovvero integrino una necessaria premessa od un presupposto logico
indefettibile della pronuncia; in tal caso è lecito invocare il principio
della integrabilità del dispositivo con la motivazione della sentenza, e la
portata precettiva di una pronuncia giurisdizionale va individuata non solo
tenendo conto delle statuizioni formalmente contenute nel dispositivo, ma
coordinando questo con la motivazione, le cui enunciazioni, se dirette
univocamente all'esame di una questione dedotta in causa, incidono sul
momento precettivo e vanno considerate come integrative del contenuto
formale del dispositivo, con la conseguenza che il giudicato risulta
simmetricamente esteso”;
o2) Cass. civ., sez. I,
08.06.2007, n. 13513 (in Mass., 2007, 1058), secondo cui “Il contenuto
decisorio di una sentenza è rappresentato, non solo dal dispositivo, ma
anche dalle affermazioni e dagli accertamenti contenuti nella motivazione,
nei limiti in cui essi costituiscano una parte della decisione, in quanto
risolvano questioni facenti parte del thema decidendum e specificamente
dibattute tra le parti, ovvero integrino una necessaria premessa od un
presupposto logico indefettibile della pronuncia”;
o3) Cass. civ., sez. II,
27.10.1994, n. 8865 (in Mass., 1994), secondo cui “Il contenuto decisorio
di una sentenza è rappresentato, ai fini della estensione del relativo
giudicato, non solo dal dispositivo, ma anche dalle affermazioni e dagli
accertamenti contenuti nella motivazione, nei limiti in cui essi
costituiscano una parte della decisione, in quanto risolvano questioni
facenti parte del thema decidendum e specificamente dibattute tra le parti,
ovvero integrino una necessaria premessa od un presupposto logico
indefettibile della pronuncia (nella specie, nel giudizio di merito era
stato eccepito il giudicato esterno assumendosi che in un precedente
giudizio era stata esclusa l'esistenza del credito azionato dall'attore,
allora dallo stesso opposto in compensazione; nella sentenza di merito
-cassata dalla suprema corte per violazione di legge e vizio di motivazione-
si era ritenuto che il primo giudice non aveva statuito in ordine
all'eccezione di compensazione, attribuendosi rilievo determinante al
contenuto del dispositivo e trascurandosi le affermazioni contenute nella
motivazione -secondo la suprema corte potenzialmente rilevanti, a
prescindere dalla loro correttezza giuridica- secondo cui la tacita rinuncia
del convenuto all'eccezione di compensazione equivaleva ad un rigetto nel
merito della stessa e, conseguentemente, l'altra parte non aveva interesse a
sollecitare una decisione al riguardo)”;
p) sul giudicato implicito e sui relativi limiti,
oltre a quanto richiamato al § m), si vedano, tra le altre:
p1) Cass. civ., sez. III,
15.05.2018, n. 11754 (in Riv. dir. proc., 2020, 411, con nota di GABOARDI),
secondo cui, tra l’altro, “Qualora due giudizi tra le stesse parti si
riferiscano al medesimo rapporto giuridico ed uno di essi sia stato definito
con sentenza passata in giudicato, l'accertamento così compiuto in ordine
alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto
fondamentale comune ad entrambe le cause, formando la premessa logica
indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza,
preclude il riesame dello stesso punto accertato e risolto, senza che, ai
fini della formazione del giudicato esterno sullo stesso, sia necessaria una
domanda di parte volta ad ottenere la decisione di una questione
pregiudiziale con efficacia di giudicato, come previsto dall'art. 34 c.p.c.,
essendo tale norma rivolta soltanto a disciplinare il profilo
dell'individuazione della competenza per materia o per valore del giudice
dell'intera causa”;
p2) Cass. civ., sez. lav.,
09.12.2016, n. 25269 (in Mass., 2016, 885), secondo cui “Qualora due
giudizi tra le stesse parti si riferiscano al medesimo rapporto giuridico ed
uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato,
l'accertamento così compiuto in ordine alla situazione giuridica ovvero alla
soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto
fondamentale comune ad entrambe le cause, formando la premessa logica
indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza,
preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto, anche
se il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che hanno
costituito lo scopo ed il petitum del primo (nella specie, la suprema corte
ha cassato con rinvio la pronuncia impugnata ritenendo che, in materia di
opposizione a cartella esattoriale, avesse effetti preclusivi
l'insussistenza di un'intermediazione di manodopera ex art. 1 l. n. 1369 del
1960 accertata in un giudizio relativo ad una diversa cartella esattoriale)”;
p3) Cass. civ., sez. I,
17.03.2015, n. 5264 (in Mass., 2015, 190; Riv. corte conti, 2015, fasc. 1,
327), secondo cui “Il giudicato non si forma, nemmeno implicitamente,
sugli aspetti del rapporto che non hanno costituito oggetto di specifica
disamina e valutazione da parte del giudice, cioè di un accertamento
effettivo, specifico e concreto, come accade allorquando la decisione sia
stata adottata alla stregua del principio della «ragione più liquida»,
basandosi la soluzione della causa su una o più questioni assorbenti”;
p4) Cass. civ., sez. III,
21.05.2007, n. 11672 (in Mass., 2007, 887), secondo cui “Vero che gli
effetti del giudicato sostanziale si estendono, anche in caso di rigetto
della domanda, a tutte le statuizioni inerenti all'esistenza e alla validità
del rapporto dedotto in giudizio, l'operatività di tale efficacia deve
peraltro intendersi, limitata alle statuizioni necessarie ed indispensabili
per giungere alla decisione, non estendendosi, invece, alle enunciazioni
puramente incidentali, nonché alle considerazioni prive di relazione causale
con quanto abbia formato oggetto della pronuncia, ovvero di collegamento con
il contenuto del dispositivo - e prive pertanto di efficacia decisoria allo
stesso modo, il giudicato implicito può ritenersi formato solo quando tra la
questione risolta espressamente e quella considerata implicitamente, decisa
sussista non soltanto un rapporto di causa ad effetto, ma un nesso di
dipendenza così indissolubile che l'una non possa essere decisa senza la
preventiva decisione dell'altra, poiché, diversamente, ne risulterebbero
illegittimamente pregiudicati i diritti delle parti (nella specie, la
suprema corte, sulla scorta dell'enunciato principio, ha confermato la
sentenza impugnata con la quale, in riferimento ad una controversia di
risoluzione per finita locazione, era stata rigettata l'eccezione di
giudicato riferito ad una precedente pronuncia intercorsa tra le parti nella
quale era rimasta accertata la sanatoria della morosità e, quindi, il mero
adempimento sopravvenuto dell'obbligazione di corresponsione del canone da
parte del conduttore, senza, però, che tale decisione potesse far stato
sulla validità ed efficacia del contratto di locazione)”;
p5) Cass. civ., sez. lav.,
16.05.2002, n. 7140 (in Mass., 2002), secondo cui “Il giudicato si forma
su tutto ciò che ha costituito oggetto della decisione, anche ove ne sia
solo il necessario presupposto logico, e la relativa preclusione opera anche
nell'ipotesi in cui il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle
che costituiscono il petitum del primo (nella specie, la suprema corte ha
confermato l'impugnata sentenza, che aveva ritenuto precluso, per precedente
giudicato, l'accertamento della tempestività di una domanda, in quanto
necessario presupposto della pronuncia di accoglimento della domanda stessa)”;
p6) Cass. civ., sez. III,
08.10.1997, n. 9775 (in Mass. 1997), secondo cui “Il giudicato si forma,
oltre che sull'affermazione (o negazione) del bene della vita controverso,
sugli accertamenti logicamente preliminari e indispensabili ai fini del
decisum, quelli cioè che si presentano come la premessa indefettibile della
pronunzia, mentre non comprende le enunciazioni puramente incidentali e in
genere le considerazioni estranee alle controversie e prive di relazione
causale col decisum; l'autorità del giudicato è circoscritta oggettivamente
in conformità alla funzione della pronunzia giudiziale, diretta a dirimere
la lite nei limiti delle domande hinc et inde proposte, sicché ogni
affermazione eccedente la necessità logico giuridica della decisione deve
considerarsi un obiter dictum, come tale non vincolante”;
p7) Cass. civ., sez. III,
23.10.1995, n. 10999 (in Mass., 1995), secondo cui “Qualora due giudizi
tra le stesse parti vertano sul medesimo negozio o rapporto giuridico,
l'accertamento compiuto circa una situazione giuridica ovvero la risoluzione
di una questione di fatto o di diritto che incida su di un punto
fondamentale di entrambe le cause ed abbia costituito la logica premessa
della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza passata in
giudicato, preclude l'esame del punto accertato e risolto anche nel caso in
cui l'altro giudizio abbia finalità diverse da quelle che costituiscono lo
scopo od il petitum del primo (nella specie, la suprema corte ha confermato
la sentenza del giudice del merito che chiamato a giudicare sulla spettanza
dell'indennità per la perdita dell'avviamento commerciale aveva accolto
l'eccezione di una cosa giudicata formulata dal convenuto con riferimento ad
un precedente giudizio inter partes avente ad oggetto la durata del
contratto di locazione ed in cui si era affermata la non assoggettabilità
del rapporto alla disciplina della l. 27.07.1978 n. 392)”;
q) sulle funzioni della trascrizione, si vedano,
tra le altre:
q1) Cass. civ., sez. II,
03.02.2005, n. 2161 (in Giur. it., 2005, 2275, con nota di PERATONER),
secondo cui “Il conflitto tra acquirente a titolo derivato e acquirente
per usucapione è sempre risolto a favore dell'usucapiente, indipendentemente
dalla trascrizione della sentenza che accerta l'avvenuto acquisto a titolo
originario e dall'anteriorità della trascrizione di essa o della relativa
domanda rispetto alla trascrizione dell'acquisto a titolo derivato, perché
il principio dettato dall'art. 2644 c.c., con riferimento agli atti indicati
nell'art. 2643, non risolve il conflitto tra acquisto a titolo originario e
acquisto a titolo derivativo, ma unicamente quello tra più acquisti a titolo
derivativo dal medesimo dante causa”;
q2) Cass. civ., 29.04.1982, n.
2717 (in Mass., 1982), secondo cui “La sentenza con cui viene pronunciato
l'acquisto per usucapione del diritto di servitù ha natura dichiarativa e
non costitutiva del diritto stesso e, pertanto, la trascrizione di detta
sentenza non ricade nella disciplina dell'art. 2644, n. 14 c.c., bensì in
quella dell'art. 2651 dello stesso codice per il quale la trascrizione ha
funzione di mera pubblicità-notizia ed è, quindi, priva di efficacia
sostanziale”;
q3) nel senso che il diritto
della parte interessata alla trascrizione dell’atto prescinda dalla presenza
o meno di un ordine di trascrizione nella sentenza si veda Cass. civ., sez.
II, 11.08.2005, n. 16853 (in Mass., 2005; Vita not., 2006, 300), secondo cui
“Poiché, ai sensi dell'art. 2651 c.c., il conservatore ha l'obbligo di
trascrivere l'atto anche senza l'ordine del giudice, il capo della sentenza
contenente tale ordine non ha fra le parti un autonomo contenuto decisionale
che lo renda suscettibile di impugnazione, giacché -in caso di rifiuto del
conservatore- il diritto alla trascrizione è diversamente tutelato dalla
procedura prevista dagli art. 2674 c.c., 113-bis disp. att. c.c. e 745
c.p.c.”;
r) sulle differenze e sui rapporti tra azione di
risarcimento dei danni in forma specifica e azione di rivendicazione, si
vedano, tra le altre:
r1) con specifico riferimento
all’onere di allegazione e prova, Cass. civ., sez. II, 27.11.2018, n. 30705,
secondo cui “Nel giudizio sul risarcimento del danno derivante
dall'illegittimo protrarsi delle occupazioni finalizzate alle
espropriazioni, l'indagine sulla spettanza all'istante del diritto di
proprietà sul bene si traduce nell'accertamento della qualità di titolare
del credito risarcitorio e, pertanto, può essere condotta con gli ordinari
strumenti probatori, ed anche con il ricorso a presunzioni, non
richiedendosi la rigorosa dimostrazione del diritto dominicale prescritta in
tema di rivendicazione”;
r2) Cass. civ., sez. un.,
28.05.2014, n. 11912 (in Mass., 2014, 407), secondo cui “Il giudicato
sulla condanna risarcitoria in forma specifica preclude ogni questione sulla
giurisdizione del giudice adìto (nella specie amministrativo) anche
relativamente al risarcimento per equivalente, atteso che ogni statuizione
di merito comporta una pronuncia implicita sulla giurisdizione e che la
pretesa risarcitoria, pur nella duplice alternativa attuativa, è unica,
potendo la parte, tramite una mera emendatio, convertire l'originaria
richiesta nell'altra ed il giudice di merito attribuire d'ufficio al
danneggiato il risarcimento per equivalente, anziché in forma specifica”;
r3) Cons. Stato, sez. IV,
22.01.2014, n. 306, secondo cui “Poiché la restituzione del bene, previa
eventuale riduzione in pristino, costituisce modalità di risarcimento in
forma specifica, ai sensi dell'art. 2058 c.c., alternativa al risarcimento
per equivalente, ossia un mezzo concorrente per conseguire la riparazione
del pregiudizio subìto, la scelta in corso di giudizio per una delle due
modalità non costituisce mutatio libelli, risolvendosi solo in una emendatio
libelli”;
r4) Cons. Stato, sez. IV,
01.06.2011, n. 3331 (in Vita not., 2011, 935; Foro amm.-Cons. Stato, 2011,
1883), secondo cui “Qualora venga interposta domanda giudiziale avente ad
oggetto il risarcimento del danno derivante dall'occupazione acquisitiva,
costituisce non inammissibile mutatio, bensì ammissibile emendatio libelli,
la proposizione della domanda di restituzione del terreno illegittimamente
occupato, considerato che la doppia azione risarcitoria e restitutoria
costituisce espressione della tutela approntata dall'ordinamento in favore
dell'amministrato, in base alla quale la tutela in forma specifica e quella
per equivalente appaiono come mezzi concorrenti per conseguire la
riparazione del pregiudizio subìto”;
r5) Cass. civ., sez. III,
10.12.2004, n. 23086 (in Mass., 2004; Riv. giur. edilizia, 2005, I, 1145,
con nota di CICIA), secondo cui “L'azione di rivendicazione e quella di
restituzione hanno natura distinta; la prima ha carattere reale, si fonda
sul diritto di proprietà di un bene, del quale l'attore assume di essere
titolare e di non avere la disponibilità, ed è esperibile contro chiunque in
fatto possiede o detiene il bene al fine di ottenere l'accertamento del
diritto di proprietà sul bene stesso e di riacquisirne il possesso; la
seconda ha, invece, natura personale, si fonda sulla deduzione della
insussistenza o del sopravvenuto venir meno di un titolo di detenzione del
bene da parte di chi attualmente lo detiene per averlo ricevuto dall'attore
o dal suo dante causa, ed è rivolta, previo accertamento di quella
insussistenza o di quel venir meno, ad ottenere consequenzialmente la
consegna del bene; ne discende che l'attore in restituzione non ha l'onere
di fornire la prova del suo diritto di proprietà; ma solo dell'originaria
insussistenza o del sopravvenuto venir meno -per invalidità, inefficacia,
decorso del termine di durata, esercizio dell'eventuale facoltà di recesso-
del titolo giuridico che legittimava il convenuto alla detenzione del bene
nei suoi confronti; le due azioni, peraltro, pur avendo causa petendi e
petitum distinti, in quanto dirette al raggiungimento dello stesso risultato
pratico della disponibilità materiale del bene riacquisito, possono non solo
proporsi in via alternativa o subordinata nel medesimo giudizio, ma anche
trasformarsi l'una nell'altra nel corso di esso, nel rispetto delle
preclusioni introdotte nel codice di rito dalla l. n. 353 del 1990”;
s) con riferimento agli effetti del giudicato che
abbia disposto la restituzione del bene, si veda, tra le altre, Cons. Stato,
Ad. plen., 09.02.2016, n. 2 (in Foro it., 2016, III, 185, con note di BARILÀ,
PARDOLESI R.; Corriere giur., 2016, 498, con nota di CARBONE; Giur. it.,
2016, 1212, con nota di URBANI; Vita not., 2016, 196; Riv. neldiritto, 2016,
587; Riv. neldiritto, 2016, 607, con nota di BENEDETTI; Foro amm., 2016,
267; Urbanistica e appalti, 2016, 803, con nota di GISONDI; Riv. giur.
edilizia, 2016, I, 94; Guida al dir., 2016, fasc. 11, 92, con nota di
MEZZACAPO; Riv. amm., 2017, 38), secondo cui “Il provvedimento di
acquisizione, previsto dall'art. 42-bis d.p.r. 08.06.2001 n. 327, non può
essere emanato dal commissario ad acta in sede di esecuzione della sentenza
che preveda esclusivamente la restituzione del bene utilizzato senza titolo
dall'amministrazione; può invece essere emanato dal commissario in sede di
esecuzione della sentenza di mero annullamento di atti del procedimento di
espropriazione, o di sentenza che preveda espressamente tale possibilità di
acquisizione o, ancora, di sentenza che abbia accertato il silenzio
dell'amministrazione sulla istanza di acquisizione proposta dal privato
interessato”;
t) sull’istituto dell’occupazione acquisitiva e
sulla giurisprudenza relativa al termine di prescrizione quinquennale per
esperire l’azione di risarcimento del danno per equivalente, si vedano,
oltre quanto evidenziato al § m):
t1) sull’istituto
dell’occupazione acquisitiva in particolare, Cass. civ., 26.02.1983, n. 1464
(in Foro it., 1983, I, 626, con nota di ORIANI; Giur. it., 1983, I, 1, 1629,
con nota di ANNUNZIATA; Giust. civ., 1983, I, 1736, con nota di MASTROCINQUE,
ANNUNZIATA; Giust. civ., 1983, I, 1736, con nota di CAROTENUTO; Rass. giur.
Enel, 1983, 30, con nota di PATERNÒ; Riv. amm., 1983, 337, con nota di
PALLOTTINO; Riv. giur. edilizia, 1983, I, 218, con nota di A.C.V.C.),
secondo cui: “Occupato dalla p.a. (o da un suo concessionario)
illegittimamente, per mancanza del provvedimento autorizzativo o per decorso
dei termini di occupazione legittima, un fondo di proprietà privata per la
costruzione di un'opera pubblica, la radicale trasformazione del fondo
irreversibilmente destinato alla realizzazione dell'opera pubblica produce
l'acquisto a titolo originario della proprietà da parte della p.a. e
l'insorgere del diritto del privato al risarcimento del danno derivante
dalla perdita del diritto di proprietà (nella specie: la sentenza ha
ritenuto irrilevante in ordine al regime proprietario del bene ed inidoneo a
far venir meno il diritto del privato al risarcimento del danno il decreto
di espropriazione emanato dopo l'acquisto della proprietà da parte della p.a. e depositato per la prima volta nel giudizio dinanzi alla corte di
cassazione)”;
t2) Cass. civ., 05.02.1985, n.
784 (in Mass., 1985), secondo cui “Nelle ipotesi in cui la p.a. occupi
un fondo di proprietà privata per la costruzione di un'opera pubblica e tale
occupazione sia illegittima, per totale mancanza di provvedimento
autorizzativo o per decorso dei termini in relazione ai quali l'occupazione
si configura legittima, la radicale trasformazione del fondo, con
l'irreversibile sua destinazione al fine della costruzione dell'opera
pubblica, comporta l'estinzione del diritto di proprietà del privato e la
contestuale acquisizione a titolo originario della proprietà in capo
all'ente costruttore ed inoltre costituisce un fatto illecito (istantaneo,
sia pure con effetti permanenti) che abilita il privato a chiedere, nel
termine prescrizionale di cinque anni dal momento della trasformazione del
fondo nei sensi indicati, la condanna dell'ente medesimo a risarcire il
danno derivante dalla perdita del diritto di proprietà, mediante il
pagamento di una somma pari al valore che il fondo aveva in quel momento,
con la rivalutazione per l'eventuale diminuzione del potere di acquisto
della moneta fino al giorno della liquidazione, con l'ulteriore conseguenza
che un provvedimento di espropriazione del fondo per pubblica utilità,
intervenuto successivamente a tale momento, deve considerarsi del tutto
privo di rilevanza, sia ai fini dell'assetto proprietario sia ai fini della
responsabilità da illecito”;
t3) Cass. civ., 21.05.1984, n.
3118 (in Mass., 1984), secondo cui “In ipotesi di illegittima occupazione
da parte della p.a. di fondo di proprietà privata, per la costruzione di
un'opera pubblica, per mancanza di provvedimento autorizzativo o per decorso
dei relativi termini, la radicale trasformazione del fondo, univocamente
interpretabile nel senso dell'irreversibile sua destinazione al fine della
costruzione dell'opera pubblica, da un lato, comporta l'estinzione in quel
momento del diritto di proprietà del privato e la contestuale acquisizione,
a titolo originario, della proprietà in capo all'ente costruttore e,
dall'altro, costituisce un illecito (istantaneo, con effetti permanenti) che
abilita il privato a chiedere, nel termine prescrizionale di cinque anni dal
momento della trasformazione del fondo nei sensi prima indicati, la condanna
dell'ente medesimo a risarcire il danno derivante dalla perdita del diritto
di proprietà, mediante il pagamento di una somma pari al valore che il fondo
aveva in quel momento con la rivalutazione monetaria e con l'ulteriore
conseguenza che un provvedimento di espropriazione intervenuto
successivamente a tale momento deve considerarsi del tutto privo di
rilevanza, sia ai fini dell'assetto proprietario, sia ai fini della
responsabilità da illecito e della individuazione del giudice competente
sulla domanda risarcitoria secondo gli ordinari criteri di valore”;
t4) Cass. civ., 06.02.1982, n.
1172 (in Mass., 1987), secondo cui “Nell'ipotesi di illegittima
occupazione di un fondo del privato da parte della p.a. per l'esecuzione di
una opera pubblica, è la radicale trasformazione (e non una mera
modificazione) del fondo stesso con la sua irreversibile destinazione
all'opera predetta, che determina la cosiddetta accessione invertita della
proprietà del suolo a quella della costruzione su di esso effettuata e che
contemporaneamente costituisce il fatto illecito che abilita il privato a
chiedere il risarcimento del danno derivante dalla perdita del suo diritto
di proprietà; pertanto è dal momento di tale irreversibile trasformazione
(che può essere anche anteriore a quello della definitiva ultimazione
dell'opera pubblica) che inizia a decorrere il termine quinquennale di
prescrizione del diritto risarcitorio del privato”;
u) sulla sussistenza o meno dell’obbligo del
giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne da cui derivi
l’autorità di cosa giudicata, si veda supra § m) –e, in particolare, § m),
della News US, n. 117 del 09.11.2020 ivi citata– nonché:
u1) Corte di giustizia UE,
11.09.2019, C-676/17, secondo cui “Il diritto dell'Unione, in particolare
i principi di equivalenza e di effettività, deve essere interpretato nel
senso che non osta, in linea di principio, ad una disposizione nazionale,
come interpretata da una sentenza di un giudice nazionale, che prevede un
termine di decadenza di un mese per la presentazione di una domanda di
revocazione di una decisione giudiziaria definitiva pronunciata in
violazione del diritto dell'Unione, che decorre dalla notifica della
decisione di cui si chiede la revocazione; tuttavia, il principio di
effettività, in combinato disposto con il principio della certezza del
diritto, deve essere interpretato nel senso che osta, in circostanze come
quelle di cui trattasi nel procedimento principale, all'applicazione da
parte di un giudice nazionale di un termine di decadenza di un mese per la
presentazione di una domanda di revocazione di una decisione giudiziaria
definitiva qualora, al momento della presentazione di tale domanda di
revocazione, la sentenza che stabilisce detto termine non sia stata ancora
pubblicata nel Monitorul Oficial al României”;
u2) Corte di giustizia CE,
16.03.2006, C-234/04 (in Foro amm.-Cons. Stato, 2006, 691; Guida al dir.,
2006, fasc. 14, 109, con nota di CASTELLANETA; Riv. dir. internaz., 2006,
549), secondo cui “Il principio di cooperazione (art. 10 Ce) non impone
ad un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne allo
scopo di riesaminare ed annullare una decisione giurisdizionale contraria al
diritto comunitario ma passata in giudicato; l'obbligo di riesaminare una
decisione «definitiva» che risulti essere adottata in violazione del diritto
comunitario sussiste a condizione che l'organo competente disponga, in virtù
del diritto nazionale, del potere di tornare su tale decisione”;
u3) Corte di giustizia CE,
01.06.1999, C-126/97 (in Foro it., 1999, IV, 470, con nota di BASTIANON;
Dir. e pratica società, 1999, fasc. 16, 81, con nota di DITTA; Giust. civ.,
1999, I, 2887), secondo cui “Il diritto comunitario non osta a norme di
diritto processuale nazionale ai sensi delle quali un lodo arbitrale
parziale avente natura di decisione definitiva che non ha fatto oggetto di
impugnazione per nullità entro il termine di legge, acquisisce l'autorità
della cosa giudicata e non può più essere rimesso in discussione da un lodo
arbitrale successivo, anche se ciò è necessario per poter esaminare,
nell'ambito del procedimento di impugnazione per nullità diretto contro il
lodo arbitrale successivo, se un contratto, la cui validità giuridica è
stata stabilita dal lodo parziale, sia nullo perché in contrasto con l'art.
81 Ce”;
u4) nella giurisprudenza di
legittimità: Cass. civ., sez. trib., 27.01.2017, n. 2046 (in Mass., 2017,
82), secondo cui:
- “Il diritto dell'Unione europea, così come costantemente interpretato
dalla corte di giustizia, non impone al giudice nazionale di disapplicare le
norme processuali interne da cui deriva l'autorità di cosa giudicata di una
decisione, nemmeno quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una
violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione, salva
l'ipotesi, assolutamente eccezionale, di discriminazione tra situazioni di
diritto comunitario e situazioni di diritto interno, ovvero di pratica
impossibilità o eccessiva difficoltà di esercizio dei diritti conferiti
dall'ordinamento comunitario; pertanto, qualora il ricorso per cassazione
sia inammissibile (nella specie, in quanto redatto mediante integrale
riproduzione di una serie di documenti, con brevissima narrazione
riassuntiva e motivi non preceduti da alcuna esposizione sommaria dei fatti)
e la sentenza impugnata sia conseguentemente passata in giudicato, non è
consentito il rinvio pregiudiziale alla corte di giustizia”;
- Cass. civ., sez. trib., 29.07.2015, n. 16032 (in Mass., 2015, 495),
secondo cui “Il diritto comunitario, così come costantemente interpretato
anche dalla corte di giustizia (sentenze del 03.09.2009 in C-2/08 e del
16.03.2006 in C-234/04), non impone al giudice nazionale di disapplicare le
norme processuali interne da cui deriva l'autorità di cosa giudicata,
nemmeno quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del
diritto comunitario, sicché è inammissibile il ricorso per cassazione
tardivo nonostante la proposizione di un motivo avente ad oggetto la
compatibilità della decisione impugnata con la disciplina comunitaria, salva
l'ipotesi assolutamente eccezionale di discriminazione tra situazioni di
diritto comunitario e situazioni di diritto interno ovvero di pratica
impossibilità o eccessiva difficoltà di esercizio dei diritti conferiti
dall'ordinamento comunitario”;
- Cass. civ., sez. I, 06.05.2015, n. 9127 (in Mass., 2015, 293), secondo cui
“Il principio di intangibilità del giudicato riveste una tale importanza,
sia nell'ordinamento giuridico dell'Unione europea che in quelli nazionali,
che la corte di giustizia ha ripetutamente affermato che il diritto
dell'Unione europea non impone a un giudice nazionale di disapplicare le
norme procedurali interne che attribuiscono forza di giudicato a una
pronuncia giurisdizionale, nemmeno se ciò permetterebbe di risolvere una
situazione di contrasto tra il diritto nazionale e quello dell'Unione”;
v) sulla restituzione dell’area irreversibilmente
trasformata e sulla rinuncia abdicativa, si veda supra § m) –e, in
particolare, § r), della News US, n. 117 del 09.11.2020 ivi citata– nonché:
v1) Cons. Stato, Ad. plen.,
18.02.2020, n. 5 (in Foro amm., 2020, 210; Riv. giur. edilizia, 2020, I,
287; oggetto della News US, n. 25 del 04.03.2020, alla quale si rinvia per
ulteriori approfondimenti), secondo cui:
- “L’art. 42-bis del DPR 08.06.2001 n. 327 si applica a tutte le ipotesi
in cui un bene immobile altrui sia utilizzato e modificato
dall’amministrazione per scopi di interesse pubblico, in assenza di un
valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica
utilità, e dunque quale che sia la ragione che abbia determinato l’assenza
di titolo che legittima alla disponibilità del bene”;
- “Il giudicato restitutorio (amministrativo o civile), inerente
all’obbligo di restituire un’area al proprietario da parte
dell’Amministrazione occupante sine titulo, non preclude l’emanazione di un
atto di imposizione di una servitù, in esercizio del potere ex art. 42-bis,
comma 6, DPR 08.06.2001 n. 327, poiché questo presuppone il mantenimento del
diritto di proprietà in capo al suo titolare”;
v2) Cons. Stato, Ad. plen.,
20.01.2020, n. 4 (in Foro it., 2020, III, 134, con note di BARILA', BONA,
PARDOLESI R.; Riv. giur. edilizia, 2020, I, 302 oggetto della News US, n. 16
del 03.02.2020, alla quale si rinvia per ulteriori approfondimenti), secondo
cui “Per le fattispecie rientranti nell’ambito di applicazione dell’art.
42-bis d.P.R. n. 327/2001 la rinuncia abdicativa del proprietario del bene
occupato sine titulo dalla pubblica amministrazione, anche a non voler
considerare i profili attinenti alla forma, non costituisce causa di
cessazione dell’illecito permanente dell’occupazione senza titolo”;
v3) Cons. Stato, Ad. plen.,
20.01.2020, nn. 3 e 2 (in Foro it., 2020, III, 135, con note di BARILA',
BONA, PARDOLESI R.; Guida al dir., 2020, fasc. 9, 90, con note di PONTE;
Foro amm., 2020, 16; Urbanistica e appalti, 2020, 361, con nota di AMANTE;
Ambiente, 2020, 225; Riv. giur. edilizia, 2020, I, 322; Giur. it., 2020,
1989, con nota di MASERA; oggetto della News US, n. 15 del 03.02.2020,
alla quale si rinvia per ulteriori approfondimenti), secondo cui “Per le
fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis TUEs., l’illecito permanente
dell’Autorità viene meno nei casi da esso previsti (l’acquisizione del bene
o la sua restituzione), salva la conclusione di un contratto traslativo tra
le parti, di natura transattiva e la rinuncia abdicativa non può essere
ravvisata”
(Consiglio di Stato, Adunanza
plenaria,
sentenza 09.04.2021 n. 6 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: L’Adunanza
plenaria pronuncia sulle azioni esperibili in caso di giudicato civile di
rigetto della domanda di risarcimento del danno per l’equivalente del valore
di mercato del bene illegittimamente occupato.
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Espropriazione per pubblica utilità – Occupazione acquisitiva -
Risarcimento del danno - Equivalente del valore di mercato del bene
illegittimamente occupato - Giudicato civile di rigetto della domanda di
risarcimento del danno - Azione (di natura personale e obbligatoria) di
risarcimento del danno in forma specifica e azione (di natura reale,
petitoria e reipersecutoria) di rivendicazione – Esclusione.
In caso di occupazione illegittima, a fronte di un
giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno per
l’equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato dalla
pubblica amministrazione, formatosi su una sentenza irrevocabile contenente
l’accertamento del perfezionamento della fattispecie della cd. occupazione
acquisitiva, alle parti e ai loro eredi o aventi causa è precluso il
successivo esercizio, in relazione al medesimo bene, sia dell’azione (di
natura personale e obbligatoria) di risarcimento del danno in forma
specifica attraverso la restituzione del bene previa rimessione in pristino,
sia dell’azione (di natura reale, petitoria e reipersecutoria) di
rivendicazione, sia dell’azione ex artt. 31 e 117 c.p.a.. avverso il
silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza di provvedere ai sensi
dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327 del 2001.
Ai fini della produzione di tale effetto preclusivo non è necessario che la
sentenza passata in giudicato contenga un’espressa e formale statuizione sul
trasferimento del bene in favore dell’amministrazione, essendo sufficiente
che, sulla base di un’interpretazione logico-sistematica della parte-motiva
in combinazione con la parte-dispositiva della sentenza, nel caso concreto
si possa ravvisare un accertamento, anche implicito, del perfezionamento
della fattispecie della cd. occupazione acquisitiva e dei relativi effetti
sul regime proprietario del bene, purché si tratti di accertamento effettivo
e costituente un necessario antecedente logico della statuizione finale di
rigetto. (1)
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(1) La questione era stata rimessa dalla
sez. IV, con ord. 26.10.2020, n. 6531.
Ha chiarito l’Alto consesso la questione da risolvere è in presenza di quali
presupposti il giudicato civile di rigetto, per intervenuta prescrizione del
diritto fatto valere in giudizio, di una domanda di risarcimento (per
equivalente) dei danni da perdita della proprietà sul suolo per effetto
dell’occupazione illegittima e della trasformazione irreversibile del bene
da parte della pubblica amministrazione, in applicazione dell’istituto
(ormai superato) di creazione giurisprudenziale della cd. occupazione
acquisitiva, precluda l’esercizio di un’azione di risarcimento in forma
specifica diretta alla restituzione dell’eadem res previa rimessione
in pristino.
Ulteriore tematica da affrontare ancorché non rilevante ai fini della
decisione della presente causa, ma pur sempre da esaminare da questa
Adunanza plenaria nell’esercizio della funzione nomofilattica, attesa la
stretta connessione con l’oggetto delle questioni deferite con l’ordinanza
di rimessione– è se siffatto giudicato civile precluda, o meno, l’esercizio
di un’azione reale di rivendicazione del bene, oppure, ancora, l’esercizio
di un’azione ex artt. 31 e 117 c.p.a. avverso il silenzio
dell’amministrazione sull’istanza di provvedere ai sensi dell’art. 42-bis
d.P.R. n. 327/2001.
Ha osservato che, secondo consolidato orientamento della giurisprudenza
amministrativa e civile, l’interpretazione del giudicato formatosi su una
sentenza civile pronunciata a definizione di un giudizio ordinario di
cognizione, va effettuata alla stregua non soltanto del dispositivo della
sentenza, ma anche della sua motivazione: infatti, il contenuto decisorio di
una sentenza è rappresentato, ai fini della delimitazione dell’estensione
del relativo giudicato, non solo dal dispositivo, ma anche dalle
affermazioni e dagli accertamenti contenuti nella motivazione, nei limiti in
cui essi costituiscano una parte della decisione e risolvano questioni
facenti parte del thema decidendum (Cons
Stato, sez. III, 16.11.2018, n. 6471; Cass. civ., sez. I,
08.06.2007, n. 13513; id., sez. II, 27.10.1994, n. 8865).
La posizione della giurisprudenza, condivisa da questa Adunanza plenaria per
preminenti ragioni di economia processuale e di garanzia della certezza e
stabilità dei rapporti giuridici, è, invero, attestata su una concezione
estensiva dei limiti oggettivi del giudicato, per cui il giudicato
sostanziale (art. 2909 c.c.) –che, in quanto riflesso di quello formale
(art. 324 c.p.c..), fa stato ad ogni effetto fra le parti, i loro eredi o
aventi causa, relativamente all’accertamento di merito, positivo o negativo,
del diritto controverso– si forma su tutto ciò che ha costituito oggetto
della decisione, compresi gli accertamenti in fatto e in diritto, i quali
rappresentino le premesse necessarie e il fondamento logico-giuridico della
pronuncia finale, spiegando, quindi, la sua autorità non solo sulla
situazione giuridica soggettiva fatta valere con la domanda giudiziale (cd.
giudicato esplicito), ma estendendosi agli accertamenti che si ricollegano
in modo inscindibile con la decisione e ne formano il presupposto, così da
coprire tutto quanto rappresenta il fondamento logico-giuridico della
statuizione finale (cd. giudicato implicito).
Pertanto, l’accertamento su
una questione di fatto o di diritto costituente la premessa necessaria e il
motivo portante della decisione divenuta definitiva, quando sia comune ad
una causa introdotta posteriormente inter partes, preclude il riesame della
questione, anche se il giudizio successivo abbia finalità diverse da quelle
del primo (v., ex plurimis, Cass. civ., sez. lav., 09.12.2016, n.
25269; id., sez. 3, 23.10.1995, n. 10999, per cui, «[q]ualora due
giudizi tra le stesse parti vertano sul medesimo negozio o rapporto
giuridico, l’accertamento compiuto circa una situazione giuridica ovvero la
risoluzione di una questione di fatto o di diritto che incida su un punto
fondamentale di entrambe le cause ed abbia costituito la logica premessa
della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza passata in
giudicato, preclude l’esame del punto accertato e risolto anche nel caso in
cui l’altro giudizio abbia finalità diverse da quelle che costituiscono lo
scopo od il petitum del primo»).
In particolare, il giudicato implicito si estende anche alla questione
pregiudiziale di merito rispetto ad altra di carattere dipendente su cui si
sia formato il giudicato esplicito, senza che a tal fine sia necessaria la
proposizione, in via principale o riconvenzionale, di una domanda di parte
volta a trasformare la questione pregiudiziale in causa pregiudiziale ai
sensi dell’art. 34 Cod. proc. civ. (v. Cass. civ., Sez. III, 15.05.2018,
n. 11754), allorché la seconda sia legata alla prima da un nesso di
dipendenza così indissolubile da non poter essere decisa senza la preventiva
decisione di quella pregiudiziale, avente ad oggetto un antecedente
giuridico necessitato in senso logico dalla decisione e potenzialmente
idoneo a riprodursi fra le stesse parti in relazione ad ulteriori e distinte
controversie. Ciò, a condizione che dalla sentenza emerga che gli aspetti
del rapporto su cui verte la questione pregiudiziale abbiano formato oggetto
di una valutazione effettiva, il che, ad esempio, è da escludere allorquando
la decisione sia stata adottata in applicazione del cd. ‘primato della
ragione più liquida’ e la soluzione della causa sia basata su una o più
questioni assorbenti, oppure si sia in presenza di un obiter dictum privo di
relazione causale con il decisum (Cass. civ., sez. I, n. 5264 del 17.03.2015; id., sez. III,
08.10.1997, n. 9775; id. 08.11.2006, n.
23871). Quindi l’autorità di cosa giudicata copre l’accertamento, oltre che
del singolo effetto dedotto come petitum (mediato), anche del rapporto
complesso dedotto come causa petendi, sia esso di natura reale o di natura
obbligatoria, dal quale l’effetto trae origine.
Giova sin d’ora precisare che l’individuazione, in modo più o meno
estensivo, dell’oggetto del processo e del giudicato si riflette, oltre che
su una serie di altri istituti processuali (quali la litispendenza, la
continenza, la competenza, la connessione, il regime delle impugnazioni,
ecc.), anche su quello della modificazione della domanda (nelle forme della
mutatio e, rispettivamente, della emendatio libelli), nel senso che, quanto
più si estendono i limiti oggettivi del giudicato, tanto più ampia dovrà
essere concepita la facoltà di modifica delle domande in corso di giudizio,
onde evitare che la parte attrice possa vedersi preclusa, in un futuro nuovo
processo, la proposizione di domande giudiziali che, ancorché connotate da
diversità di causa petendi e/o petitum, nella finalità perseguita potrebbero
rilevarsi incompatibili con gli accertamenti assurti ad autorità di cosa
giudicata ed essere ricomprese nella sfera del ‘deducibile’ non dedotto nel
processo definito con efficacia di giudicato.
In tale prospettiva, la qui condivisa concezione estensiva dei limiti
oggettivi del giudicato su un piano generale appare senz’altro coerente con
il principio richiamato nell’ordinanza di rimessione, per il quale –nel
caso di occupazione illegittima del terreno da parte dell’amministrazione–
si applica sul piano sostanziale l’art. 42-bis d.P.R. n. 327 del 2001, con
la conseguente possibilità di convertire la domanda nel corso del giudizio e
quindi di ritenere ammissibile il rimedio di tutela da esso previsto,
sebbene basato sulla diversità della causa petendi e del petitum (riferibili
a una posizione di interesse legittimo correlativo al potere di
acquisizione) rispetto alle domande di risarcimento o di restituzione
(riferibili alla tutela del diritto di proprietà in quanto tale) proposte in
origine. Al proposito occorre precisare che l’operatività di tale principio
presuppone che la questione sia ancora sub iudice e non si sia formato un
giudicato sull’una o l’altra delle domande proposte e sulle eventuali
questioni pregiudiziali, per cui lo stesso non ha modo di influire sul
presente giudizio, il quale è, appunto, connotato dalla già intervenuta
formazione del giudicato civile di rigetto della domanda risarcitoria per
equivalente del danno da perdita della proprietà (v. infra).
Nel caso di specie il giudicato civile si è formato sia sull’inesistenza del
diritto al risarcimento dei danni perché estinto per prescrizione, sia sul
regime proprietario del bene conseguente all’accertato perfezionamento della
cd. occupazione acquisitiva.
Passando all’esame dell’effetto preclusivo scaturente da tale giudicato
sulla domanda risarcitoria in forma specifica proposta nel presente
giudizio, occorre premettere, in punto di qualificazione dell’azione
restitutoria/riparatoria esercitata, che hanno proposto azione (di natura
personale e obbligatoria) di risarcimento dei danni in forma specifica ai
sensi dell’art. 2058 Cod. civ., e non già azione (di natura reale e
petitoria) di rivendicazione ex art. 948 Cod. civ..
Trattasi, invero, di azioni diverse per causa petendi e petitum, ancorché
dirette al raggiungimento dello stesso risultato pratico di recuperare la
disponibilità materiale del bene: infatti, con l’azione di rivendicazione,
di carattere reale, petitorio e reipersecutorio/ripristinatorio, l’attore
assume di essere proprietario della cosa e di non averne più il possesso,
sicché agisce contro chi di fatto la possegga e la detenga, sia al fine di
ottenere il riconoscimento del suo diritto di proprietà sia al fine di
recuperare l’eadem res previo ripristino dello stato anteriore per rimuovere
la divergenza tra situazione di fatto e quella dominicale di diritto
rispetto al bene, a prescindere dall’accertamento di un illecito; l’azione
di reintegrazione in forma specifica è, invece, un rimedio risarcitorio
finalizzato alla rimozione delle conseguenze derivanti dall’evento lesivo
tramite la produzione di una situazione materiale e giuridica corrispondente
a quella che si sarebbe realizzata se non fosse intervenuto il fatto
illecito produttivo del danno, il cui accoglimento è subordinato al
ricorrere dei presupposti della responsabilità aquiliana ex art. 2043 cod.
civ., cui si aggiungono i limiti della possibilità e della non eccessiva
onerosità per l’autore dell’illecito previsti dall’art. 2058 cod. civ.
(sulla differenza tra l’azione di risarcimento dei danni in forma specifica
e l’azione di rivendicazione, v., ex plurimis, in via generale, Cass. civ.,
sez. III, 10.12.2004, n. 23086; con specifico riguardo agli oneri di
allegazione e di prova incombenti sulla parte attrice in punto di titolarità
del diritto di proprietà, v. Cass. civ., sez. II, 27.11.2018, n.
30705).
Sotto un profilo strettamente processuale e procedurale, deve ritenersi che
l’azione esercitata nel presente giudizio sia stata proposta ai sensi degli
artt. 30, commi 1, 2 e 6, e 34, comma 1, lett. c), c.p.a., nell’ambito della
giurisdizione esclusiva attribuita al giudice amministrativo dall’art. 133,
comma 1, lett. g), c.p.a., secondo cui spettano alla cognizione del
giudice amministrativo tutte le controversie aventi ad oggetto gli atti, i
provvedimenti, gli accordi e i comportamenti riconducibili, anche
mediatamente, all’esercizio di un pubblico potere da parte delle pubbliche
amministrazioni in materia di espropriazione per pubblica utilità, quali che
siano i diritti (reali o personali) fatti valere nei confronti di quest’ultima,
nonché la natura (reipersecutoria/ripristinatoria o risarcitoria) della
pretesa avanzata.
Quanto al rapporto tra l’azione di risarcimento in forma specifica
(esercitata nel presente giudizio) e l’azione di risarcimento dei danni per
equivalente (respinta con il giudicato civile), si osserva che si tratta di
due rimedi in rapporto di concorso alternativo, diretti all’attuazione
dell’unico diritto alla reintegrazione della sfera giuridica lesa che trova
la sua fonte nella medesima fattispecie di illecito, con la particolarità
che l’effetto programmato dalla norma al verificarsi della fattispecie si
determina, nel suo specifico contenuto, con riguardo alla scelta compiuta
dal titolare circa l’una o l’altra forma di tutela.
Per consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato, formatasi in sede di
giurisdizione esclusiva con specifico riferimento a fattispecie di
occupazione illegittima del bene da parte della pubblica amministrazione, i
due rimedi costituiscono mezzi concorrenti alternativi a tutela dell’unico
diritto al risarcimento dei danni, tant’è che è consentita la scelta in
corso di giudizio per una delle due modalità, qualificata come ammissibile
emendatio libelli anziché come vietata mutatio (v. Cons. Stato, sez. IV,
22.01.2014, n. 306; id.
01.06.2011, n. 3331; per la giurisprudenza civile, v. Cass.
civ., Sez. Un., 28.05.2014, n. 11912, secondo cui la pretesa risarcitoria, pur nella duplice alternativa attuativa, è unica, potendo la
parte, tramite una mera emendatio, convertire l’originaria richiesta
nell’altra ed il giudice di merito attribuire d’ufficio al danneggiato il
risarcimento per equivalente, anziché in forma specifica; con la
precisazione, che la giurisprudenza civile non sembra, invece, consentire la
modificazione della domanda di risarcimento per equivalente a domanda di
risarcimento in forma specifica, argomentando dalla maggiore onerosità di
quest’ultimo rimedio: v. i richiami giurisprudenziali di cui al § 13.1
dell’ordinanza di rimessione).
Quindi, pur completandosi la fattispecie multipla con la proposizione della
domanda e con l’opzione esercitata dall’attore a favore dell’una o
dell’altra forma di tutela, il diritto rimane unico, come unica rimane la
posizione giuridica sostanziale fatta valere in giudizio, con la conseguenza
che il giudicato di rigetto della prima domanda (nella specie, quella di
risarcimento per equivalente respinta dal Tribunale ordinario di Cagliari
con la sentenza n. 22860/2006) preclude una nuova azione sulla seconda
(nella specie, quella di risarcimento in forma specifica, proposta nel
presente giudizio). Pertanto, sotto tale angolo visuale l’effetto preclusivo
si è formato in ragione della circostanza che sull’unico diritto al
risarcimento dei danni, scaturente dal medesimo fatto illecito, si è già
deciso e si è ormai formato il giudicato di rigetto fondato sul motivo
portante, comune ad entrambi i rimedi, dell’estinzione per prescrizione
dell’unico diritto al risarcimento dei danni.
Sotto altro profilo, la domanda di risarcimento in forma specifica è,
altresì, preclusa in ragione dell’incompatibilità indiretta con il giudicato
formatosi sul regime proprietario del bene richiesto in restituzione, in
particolare sull’effetto acquisitivo, nella ‘logica’ dell’istituto
dell’occupazione appropriativa, determinatosi in capo all’amministrazione
costruttrice dell’opera pubblica, presupponendo invero l’azionabilità del
diritto al risarcimento dei danni in forma specifica (tramite domanda di
rilascio previa rimessione in pristino) la titolarità della proprietà del
bene leso in capo all’attore, incompatibile con il giudicato implicito
formatosi sul perfezionamento della fattispecie dell’acquisto della
proprietà a titolo originario in capo all’amministrazione.
L’esito di accoglimento dell’eccezione di giudicato non muterebbe neppure,
qualora gli odierni appellanti avessero proposto azione reale di
rivendicazione ex artt. 948 ss. c.c., in quanto: il carattere di esclusività
proprio di ogni diritto il principio logico di non contraddizione non
consente la coesistenza di due di diritti dello stesso contenuto relativi ad
un identico bene di cui siano titolari attivi esclusivi due soggetti
diversi; l’essenza del giudicato sostanziale comporta l’impossibilità di far
valere in un secondo processo tra le stesse parti (e/o relativi eredi e/o
aventi causa) un diritto direttamente incompatibile con il diritto accertato
da un primo giudicato; pertanto, l’esercizio dell’azione di rivendica da
parte del privato nei confronti dell’amministrazione, dopo la formazione del
giudicato sull’acquisto della proprietà in capo a quest’ultima, è precluso
dal giudicato in ragione della relazione di incompatibilità diretta del
diritto di proprietà fatto valere con l’azione di rivendicazione (avente tra
l’altro natura petitoria, volta al riconoscimento del diritto di proprietà
in capo all’attore, oltre che natura reipersecutoria) rispetto al diritto di
proprietà acquisito dall’amministrazione oggetto dell’accertamento passato
in giudicato.
Non diversamente, anche l’eventuale azione avverso il silenzio della
pubblica amministrazione sull’istanza di provvedere ai sensi dell’art.
42-bis d.P.R. n. 327 del 2001, ancorché tale istituto a norma del comma 8
sia applicabile ai fatti anteriori, trova il suo limite nei rapporti
esauriti, quali quelli definiti con autorità di cosa giudicato [cfr., con
riferimento all’ipotesi di rapporto esaurito per essere intervenuto un
giudicato che abbia disposto la restituzione del bene al proprietario, Corte
Cost. n. 71 del 1995, § 6.9.1;
Ad. plen., n. 2 del 2016, §§ 6.2 e 5.4, lettera f)].
Anche in questo caso, l’azione ex artt. 31 e 117 c.p.a. sarebbe preclusa dal
giudicato civile formatosi sul regime proprietario, per l’incompatibilità
sussistente tra la situazione giuridica soggettiva azionata, presupponente
la persistente titolarità della proprietà del bene in capo alla parte
ricorrente, e l’accertamento, con efficacia di giudicato, dell’effetto
acquisitivo in favore dell’amministrazione
(Consiglio di Stato, A.P.,
sentenza 09.04.2021 n. 6 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2020 |
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ESPROPRIAZIONE:
L.r. Lombardia 11.03.2005, n. 12 (art. 9, comma 12) –
Vincoli preordinati all’espropriazione per la realizzazione
ad opera della pubblica amministrazione di attrezzature e
servizi previsti dal piano dei servizi – Questione di
legittimità costituzionale in via incidentale – Asserita
violazione dei precetti costituzionali della temporaneità e
della indennizzabilità dei vincoli espropriativi (art. 42
Cost.) e pregiudizio della competenza concorrente in materia
di governo del territorio (art. 117 Cost.) – Illegittimità
costituzionale in parte qua.
Va dichiarata la illegittimità
costituzionale dell’art. 9, comma 12, della legge della
Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo
del territorio), secondo periodo, limitatamente alla parte
in cui prevede che i vincoli preordinati all’espropriazione
per la realizzazione, esclusivamente ad opera della pubblica
amministrazione, di attrezzature e servizi previsti dal
piano dei servizi decadono qualora, entro cinque anni
decorrenti dall’entrata in vigore del piano stesso,
l’intervento cui sono preordinati non sia inserito, a cura
dell’ente competente alla sua realizzazione, nel programma
triennale delle opere pubbliche e relativo aggiornamento.
La Regione, disciplinando una nuova ipotesi di attuazione
del vincolo espropriativo, ha infatti superato i limiti
imposti alla sua competenza concorrente in materia (art.
117, comma 3, Cost.), con l’introduzione di una nuova
condizione in cui il vincolo preordinato all’esproprio si
consolida, pur in mancanza di un «serio inizio della
procedura espropriativa», condizione ritenuta invece
essenziale dalla giurisprudenza costituzionale e la cui
ricorrenza è stata individuata dal legislatore statale
–esclusivamente al quale spetta la relativa competenza– solo
nella dichiarazione di pubblica utilità dell’opera.
La disposizione regionale censurata si pone peraltro in
contrasto con l’art. 42 Cost., poiché consente l’esercizio
del potere ablatorio a tempo indeterminato, in ragione di un
provvedimento, quale l’approvazione del piano triennale
delle opere pubbliche, la cui adozione non garantisce la
partecipazione procedimentale degli interessati e che può
essere indefinitamente rinnovato, senza necessità né di
motivazione, né di indennizzo (Corte
Costituzionale,
sentenza 18.12.2020 n. 270 - link a www.ambientediritto.it). |
ESPROPRIAZIONE: Reiterazione
di vincoli espropriativi a tempo indeterminato: la Corte costituzionale ne
ribadisce le ragioni di illegittimità costituzionale.
La Corte costituzionale, in accoglimento di una questione sollevata dal Tar
per la Lombardia–Brescia, dichiara l’illegittimità costituzionale di una
norma di legge regionale (l’art. 9, comma 12, della legge della Regione
Lombardia n. 12 del 2005, recante “Legge per il governo del territorio”),
con la quale, in sostanza, si prevedeva la possibilità di reiterare, a tempo
indeterminato, l’efficacia di vincoli preordinati all’esproprio, oltre
quindi il termine quinquennale stabilito dall’art. 9, comma 2, del d.P.R. n.
327 del 2001 (c.d. testo unico delle espropriazioni).
In motivazione, la Corte ribadisce che la proroga, in via legislativa, dei
vincoli espropriativi costituisce un “fenomeno inammissibile dal punto di
vista costituzionale, qualora essa si presenti sine die o all’infinito
(attraverso la reiterazione di proroghe a tempo determinato che si ripetano
aggiungendosi le une alle altre), o quando il limite temporale sia
indeterminato, cioè non sia certo, preciso e sicuro e, quindi, anche non
contenuto in termini di ragionevolezza”.
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Espropriazione per pubblico interesse – Regione Lombardia – Vincolo
preordinato all’esproprio – Reiterazione – Violazione degli artt. 42, terzo
comma, e 117, terzo comma, Cost. – Illegittimità costituzionale in parte
qua.
E’ incostituzionale, per violazione degli artt. 42,
terzo comma, e 117, terzo comma, Cost., l’art. 9, comma 12, secondo periodo,
della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, in quanto, consentendo
la protrazione dell’efficacia del vincolo preordinato all’esproprio ben
oltre la naturale scadenza quinquennale e –in virtù del richiamo al
programma triennale delle opere pubbliche– per un tempo sostanzialmente
indefinito, senza che sia previsto il riconoscimento di alcun indennizzo,
realizza un effetto che si pone in frontale contrasto con la giurisprudenza
costituzionale in materia di espropriazione per pubblica utilità, dando
seguito alla quale il legislatore statale ha individuato un ragionevole
punto di equilibrio tra la reiterabilità indefinita dei vincoli e la
necessità di indennizzare il proprietario (1).
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(1) I. – Con la sentenza in rassegna, la Corte costituzionale
ribadisce la propria costante giurisprudenza in materia di durata del
vincolo espropriativo, confermando che la legge (in questo caso, si trattava
di una norma della legge generale della Regione Lombardia in materia di
governo del territorio) non può prevedere una protrazione indefinita del
vincolo, ben oltre il termine quinquennale individuato dall’art. 9, comma 2,
del t.u. espropriazioni (di cui al d.P.R. n. 327 del 2001), termine che
rappresenta il “punto di equilibrio”, individuato dal legislatore,
oltre il quale non è costituzionalmente tollerabile il sacrificio del
diritto di proprietà privata senza il riconoscimento di un adeguato
indennizzo.
La questione era stata sollevata dal
Tar per la Lombardia–Brescia, sezione II, con ordinanza 14.08.2019, n. 740
(in Riv. giur. edilizia, 2019, I, 1250, nonché oggetto della
News US n. 109 del 16.10.2019, cui si rinvia per gli ampi
riferimenti di dottrina e di giurisprudenza). Nel giudizio a quo, era
impugnato l’atto contenente la dichiarazione di pubblica utilità, insieme ai
successivi provvedimenti, adottati nell’ambito di una procedura
espropriativa iniziata dal Comune di Agro per la realizzazione di una strada
di collegamento progettata, in parte, su un fondo privato.
Il vincolo preordinato all’esproprio, derivante dall’approvazione del piano
comunale di governo del territorio, avrebbe esaurito la propria durata
quinquennale nel novembre 2017 ma, in applicazione della norma regionale
censurata, esso risultava prorogato sine die per effetto
dell’avvenuto inserimento dell’opera nel programma triennale delle opere
pubbliche, approvato nell’aprile del 2017.
In base alla norma regionale oggetto dei dubbi sollevati dal Tar per la
Lombardia, infatti, i vincoli preordinati all’esproprio, aventi una durata
pari a cinque anni, “decadono qualora, entro tale termine, l'intervento
cui sono preordinati non sia inserito, a cura dell'ente competente alla sua
realizzazione, nel programma triennale delle opere pubbliche e relativo
aggiornamento, ovvero non sia stato approvato lo strumento attuativo che ne
preveda la realizzazione”.
II. – La Corte costituzionale, dunque, dichiara l’illegittimità
costituzionale di tale norma per violazione degli artt. 42, comma 3, e 117,
comma 3, Cost., concludendo invece per l’inammissibilità (per difetto di
motivazione) della questione in relazione al parametro di cui agli artt.
117, comma 1, Cost., e 1 del Protocollo addizionale alla CEDU. Questo, in
sintesi, il percorso seguito dalla Corte per giungere –dopo aver superato
alcune questioni di inammissibilità– alla declaratoria di
incostituzionalità:
a) la Corte premette, anzitutto, un’articolata
ricostruzione del quadro normativo statale vigente in subiecta materia,
ripercorrendone le tappe salienti e ricordando quanto segue:
a1) l’espropriazione per motivi
d’interesse generale, governata dall’art. 42, comma 3, Cost., è un
procedimento preordinato all’emanazione di un provvedimento che trasferisce
la proprietà o altro diritto reale su di un bene; le fasi del procedimento,
finalizzate all’emissione del decreto di esproprio, sono scandite dall’art.
8 del t.u. espropriazioni, e sono costituite dalla sottoposizione del bene
al vincolo preordinato all’esproprio, dalla dichiarazione di pubblica
utilità dell’opera che deve essere realizzata e dalla determinazione
dell’indennità di espropriazione;
a2) ai sensi dell’art. 9 del
medesimo testo unico, un bene è sottoposto al vincolo preordinato
all’espropriazione quando diventa efficace, in base alla specifica normativa
statale e regionale di riferimento, l’atto di approvazione del piano
urbanistico generale, ovvero una sua variante, che preveda la realizzazione
di un’opera pubblica o di pubblica utilità; l’effetto del vincolo comporta
che il proprietario del bene, pur restando titolare del diritto sulla cosa,
non può utilizzarla in contrasto con la destinazione dell’opera, fino a che
l’amministrazione non proceda all’espropriazione;
a3) il legislatore, chiamato ad
adeguarsi ai principi enunciati con la sentenza 29.05.1968, n. 55 (in Giur.
cost., 1968), ha stabilito, con l’art. 2 della legge n. 1187 del 1968, una
durata quinquennale del vincolo espropriativo, periodo durante il quale la
necessità di corrispondere un indennizzo è esclusa;
a4) con la sentenza 20.05.1999,
n. 179 (in Foro it., 1999, I, 1705, con nota di BENINI, in Corriere giur.,
1999, 830, con note di CARBONE e GIOIA, in Giorn. dir. amm., 1999, 851, con
nota di MAZZARELLI, in Urb. e appalti, 1999, 712, con nota di LIGUORI, in
Giust. civ., 1999, I, 2597, con nota di STELLA RICHTER, in Appalti
urbanistica edilizia, 1999, 395, con nota di GISONDI, in Riv. amm., 1999,
274, con nota di CACCIAVILLANI, in Giur. it., 1999, 2155, con nota di DE
MARZO, in Le Regioni, 1999, 804, con nota di CIVITARESE MATTEUCCI, in Riv.
it. dir. pubbl. comunitario, 1999, 873, con nota di BONATTI, ed in Guida al
dir., 1999, 22, 133, con nota di RICCIO), la Corte costituzionale ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt.
7, numeri 2), 3) e 4), e 40 della legge n. 1150 del 1942, e 2, primo comma,
della legge n. 1187 del 1968, nella parte in cui consentiva alla pubblica
amministrazione di reiterare i vincoli espropriativi scaduti senza la
previsione di un indennizzo;
a5) con l’adozione del testo
unico sulle espropriazioni, di cui al già richiamato d.P.R. n. 327 del 2001,
il legislatore statale si è adeguato alle indicazioni della giurisprudenza
costituzionale, prevedendo la durata quinquennale del vincolo preordinato
all’esproprio (art. 9, comma 2; si tratta del c.d. periodo di franchigia,
durante il quale al proprietario del bene non è dovuto alcun indennizzo),
nonché la decadenza dal vincolo se, entro tale termine, non è dichiarata la
pubblica utilità dell’opera (art. 9, comma 3); il vincolo può essere
motivatamente reiterato, subordinatamente alla previa approvazione di un
nuovo piano urbanistico generale o di una sua variante (art. 9, comma 4), e
con la corresponsione di un apposito indennizzo (art. 39) – ciò, fermo
restando che le stesse garanzie devono sorreggere un’eventuale proroga del
vincolo prima della sua naturale scadenza (in tal senso, Corte cost.,
sentenza 20.07.2007, n. 314, in Foro it., 2009, I, 1711);
a6) la dichiarazione di
pubblica utilità, che deve intervenire entro il termine di efficacia del
vincolo espropriativo (art. 13, comma 1, t.u. espropriazioni), è l’atto con
il quale vengono individuati in concreto i motivi di interesse generale cui
l’art. 42, comma 3, Cost. subordina l’espropriazione della proprietà privata
nei casi previsti dalla legge (cfr. Corte cost., sentenza 08.05.1995, n.
155, in Foro it., 1995, I, 2389), e segna l’effettivo avvio della procedura
espropriativa, nel necessario rispetto del contraddittorio tra i cittadini
interessati e l’amministrazione;
a7) un “ruolo centrale”,
nella disciplina in esame, è poi svolto dalla c.d. dichiarazione implicita
di pubblica utilità, la quale (a norma dell’art. 12 del d.P.R. n. 327 del
2001) si intende disposta “quando l’autorità espropriante approva a tale
fine il progetto definitivo dell’opera pubblica o di pubblica utilità,
ovvero quando sono approvati il piano particolareggiato, il piano di
lottizzazione, il piano di recupero, il piano di ricostruzione, il piano
delle aree da destinare a insediamenti produttivi, ovvero quando è approvato
il piano di zona”, nonché nei casi in cui la normativa vigente prevede
che equivalga “a dichiarazione di pubblica utilità l’approvazione di uno
strumento urbanistico, anche di settore o attuativo, la definizione di una
conferenza di servizi o il perfezionamento di un accordo di programma,
ovvero il rilascio di una concessione, di una autorizzazione o di un atto
avente effetti equivalenti”;
a8) a livello statale, poi, un
ruolo decisivo gioca il programma triennale dei lavori pubblici, attualmente
previsto dall’art. 21 del codice dei contratti pubblici (di cui al d.lgs. n.
50 del 2016) il quale disciplina unitariamente la programmazione, sia per i
lavori pubblici che per i servizi e le forniture, demandando (comma 8) a un
decreto ministeriale, di natura regolamentare, la normazione di dettaglio;
tale programma triennale, ai sensi dell’art. 3, lettera ggggg-sexies), del
cod. contratti pubblici, rappresenta il documento, da aggiornare
annualmente, che le amministrazioni adottano al fine di individuare i lavori
da avviare nel triennio;
a9) l’art. 5, comma 5,
dell’apposito regolamento (di cui al d.m. 16.01.2018, n. 14) stabilisce le
modalità di partecipazione dei privati interessati in relazione alla
definizione del contenuto del programma in questione, prevedendo la
possibilità di presentare osservazioni prima dell’approvazione definitiva
del programma;
b) a livello regionale, e con specifico riguardo
alla disciplina vigente nella Regione Lombardia, la Corte poi ricorda che:
b1) la disciplina sul governo
del territorio, contenuta nella legge regionale n. 12 del 2005, nonché la
disciplina sul procedimento di espropriazione (di cui alla legge della
Regione Lombardia n. 3 del 2009) sono state varate nell’esercizio della
potestà legislativa concorrente, come previsto dallo stesso testo unico
delle espropriazioni (art. 5, comma 1), posto che l’espropriazione
costituisce una funzione trasversale, che può esplicarsi anche nella materia
concorrente del “governo del territorio” nella quale, come più volte
riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale, rientra l’urbanistica (cfr.
sentenza 26.06.2020, n. 130, e sentenza 05.12.2019, n. 254, quest’ultima in
Quad. dir. e politica ecclesiastica, 2019, 697, con nota di MARCHEI, in Dir.
pen. globalizzazione, 2020, 33, con nota di PLACANICA, ed in Giur. cost.,
2019, 3131, con nota di GORLANI);
b2) con specifico riferimento
alle prime due fasi della procedura espropriativa (che vengono in rilievo
nella fattispecie di cui al giudizio a quo), la disciplina regionale
lombarda presenta delle differenze rispetto a quella statale, in quanto (per
un verso) fa discendere un “peculiare effetto” dall’inserimento
dell’opera pubblica o di pubblica utilità nel programma triennale delle
opere pubbliche (ossia, la mancata decadenza del vincolo, pur superato il
periodo quinquennale), mentre (per altro verso) l’art. 9 della legge
regionale sul procedimento espropriativo, a determinate condizioni, include
proprio il programma triennale delle opere pubbliche tra gli atti che
comportano la dichiarazione di pubblica utilità;
c) nel solco tracciato dalla sentenza n. 179 del
1999, cit., la Corte ribadisce dunque che “la proroga in via legislativa
dei vincoli espropriativi è fenomeno inammissibile dal punto di vista
costituzionale, qualora essa si presenti sine die o all’infinito (attraverso
la reiterazione di proroghe a tempo determinato che si ripetano
aggiungendosi le une alle altre), o quando il limite temporale sia
indeterminato, cioè non sia certo, preciso e sicuro e, quindi, anche non
contenuto in termini di ragionevolezza”; di conseguenza, la Corte
enuclea i seguenti vizi della norma regionale censurata:
c1) essa consente la
protrazione dell’efficacia del vincolo “ben oltre la naturale scadenza
quinquennale e, in virtù dell’inclusione dell’aggiornamento annuale del
programma triennale delle opere pubbliche nell’ambito applicativo della
norma, per un tempo sostanzialmente indefinito, senza che sia previsto il
riconoscimento al privato interessato di alcun indennizzo”;
c2) tale effetto “si pone in
frontale contrasto con la giurisprudenza costituzionale illustrata in
precedenza, dando seguito alla quale il legislatore statale ha individuato
un ragionevole punto di equilibrio tra la reiterabilità indefinita dei
vincoli e la necessità di indennizzare il proprietario”;
c3) peraltro, la norma lombarda
“ha omesso di imporre un preciso onere motivazionale circa l’interesse
pubblico al mantenimento del vincolo per un periodo che oltrepassa quello
cosiddetto di franchigia”, con ciò ulteriormente discostandosi dalla
legge statale di riferimento (cfr. art. 9, comma 4, del d.P.R. n. 327 del
2001);
c4) ancora, la norma lombarda “appare
del tutto carente quanto al livello di garanzia partecipativa da
riconoscersi al privato interessato”, così contravvenendo ad un’altra
prescrizione già in passato ribadita dalla giurisprudenza costituzionale,
quella cioè di mettere i privati, ancora prima dell’adozione dell’atto
limitativo, “in condizioni di esporre le proprie ragioni, sia a tutela
del proprio interesse, sia a titolo di collaborazione nell’interesse
pubblico” (viene richiamata la sentenza 30.04.2015, n. 71, in Foro it.,
2015, I, 2629, con nota di R. PARDOLESI, in Urb. e appalti, 2015, 767, con
note di ARTARIA e BARILÀ, in Guida al dir., 2015, 21, 84, con nota di PONTE,
in Resp. civ. e prev., 2015, 1492, con nota di REGA, in Giur. cost., 2015,
998, con nota di MOSCARINI, in Europa e dir. privato, 2015, 951, con nota di
GRISI, ed in Riv. giur. edilizia, 2015, I, 581, con note di MARI e STRAZZA);
c5) del resto, le forme di
partecipazione che sono previste per l’approvazione del programma triennale
delle opere pubbliche appaiono –precisa la Corte– “di qualità e grado
insufficienti, e comunque non corrispondenti a quelle stabilite dal t.u.
espropriazioni (in particolare nell’art. 11) per gli atti appositivi e per
quelli reiterativi del vincolo espropriativo”, trovando esse la loro
fonte in un atto meramente regolamentare (il già ricordato d.m. n. 14 del
2018), il quale oltretutto le prevede in modalità solo eventuale.
III. – Per completezza, si consideri quanto segue:
d) nella decisione in rassegna, la Corte afferma
la “trasversalità” della materia delle espropriazioni, in quanto
riconducibile all’urbanistica la quale, a sua volta, è da ricomprendere
nella materia concorrente del governo del territorio; su quest’ultima
affermazione cfr., di recente:
d1) Corte cost., sentenza n.
130 del 2020, cit., secondo cui “la normativa sui centri storici si trovi
al crocevia fra le competenze regionali in materia urbanistica o di governo
del territorio e la tutela dei beni culturali”, con la conseguente
precisazione secondo cui “le Regioni hanno dedicato specifiche discipline
ai centri storici, nell’ambito delle competenze in materia di governo del
territorio o urbanistica, cercando di superare la visione parcellizzata
degli interventi edilizi per privilegiare la considerazione unitaria dei
nuclei storici. In accordo con l’ordinamento statale, le Regioni stesse
affidano a strumenti urbanistici comunali e al lavoro di uffici tecnici
territorialmente competenti l’attuazione delle norme dettate a livello
regionale e statale”;
d2) Corte cost., sentenza n.
254 del 2019, cit., secondo cui “nel regolare, in sede di disciplina del
governo del territorio, l’edilizia di culto, le regioni possono perseguire
esclusivamente finalità urbanistiche, nell’ambito delle quali deve essere
ricondotta anche la necessaria specifica considerazione delle esigenze di
allocazione delle attrezzature religiose. In ragione del peculiare rango
costituzionale della libertà di culto, inoltre, la stessa disciplina
urbanistico-edilizia deve far fronte, con riferimento alle attrezzature
religiose, all’ulteriore esigenza della necessaria previsione di luoghi per
il loro insediamento, con la conseguenza che essa non può comportare
l’esclusione o l’eccessiva compressione della possibilità di realizzare
strutture di questo tipo”, giungendosi così alla seguente conclusione: “In
questo quadro, la previsione –ad opera della legislazione regionale in
materia di governo del territorio– di uno speciale piano dedicato alle
attrezzature religiose, riconducibile al modello della pianificazione
urbanistica di settore, non è di per sé illegittima. Non lo è, tuttavia,
alla duplice condizione che essa persegua lo scopo del corretto insediamento
nel territorio comunale delle attrezzature religiose aventi impatto
urbanistico, e che, in questo orizzonte, tenga adeguatamente conto della
necessità di favorire l’apertura di luoghi di culto destinati alle diverse
comunità religiose (corrispondendo così anche agli standard urbanistici,
cioè alla dotazione minima di spazi pubblici)”;
e) per l’affermazione secondo cui le garanzie
partecipative devono trovare applicazione nell’ambito del procedimento
espropriativo, cfr. la sentenza della Corte costituzionale n. 71 del 2015,
cit., menzionata anche dalla pronuncia in epigrafe, secondo cui:
e1) il principio del “giusto
procedimento” (in virtù del quale i soggetti privati dovrebbero poter
esporre le proprie ragioni, e in particolare prima che vengano adottati
provvedimenti limitativi dei loro diritti) “non può dirsi assistito in
assoluto da garanzia costituzionale” (in tal senso, nella giurisprudenza
della Corte, cfr. già: sentenza 12.07.1995, n. 312, in Cons. Stato, 1995, II,
1197; sentenza 31.05.1995, n. 210, in Cons. Stato, 1995, II, 906; sentenza
24.02.1995, n. 57, in Mass. giur. lav., 1995, 146, con nota di SANTONI, in
Lavoro giur., 1995, 657, con nota di PILATI, in Giorn. dir. amm., 1995, 801,
con nota di MARIANI, in Dir. lav., 1995, II, 132, con nota di PELLACANI, ed
in Riv. it. dir. lav., 1995, II, 738, con nota di CORSINOVI; sentenza
19.03.1993, n. 103, in Foro it., 1993, I, 2410; ordinanza 10.12.1987, n.
503, in Giur. cost., 1987, I, 3317, con nota di AMODIO; sentenza 20.03.1978,
n. 23, in Giur. it., 1979, I, 209);
e2) ciò, tuttavia, “non
sminuisce certo la portata che tale principio ha assunto nel nostro
ordinamento, specie dopo l’entrata in vigore della legge 07.08.1990, n. 241”;
e3) in materia espropriativa, è
ormai risalente l’affermazione secondo cui i privati interessati devono
essere messi “in condizioni di esporre le proprie ragioni sia a tutela
del proprio interesse, sia a titolo di collaborazione nell’interesse
pubblico” (cfr. sentenza 20.07.1990, n. 344, in Giur. cost., 1990, 2158;
sentenza 21.03.1989, n. 143, in Foro it., 1991, I, 1970; sentenza
27.06.1986, n. 151, in Foro it., 1986, I, 2690, con note di COZZUTO QUADRI e
CARAVITA; sentenza 02.03.1962, n. 13, in Giur. cost., 1962);
f) in tema di proroga di vincoli espropriativi
già scaduti, cfr., nella giurisprudenza costituzionale, la sentenza n. 314
del 2007, cit. (menzionata anche dalla decisione in rassegna), con cui è
stata dichiarata l’illegittimità costituzionale di una norma di legge della
Regione Campania che prorogava, per un triennio, i piani regolatori dei
nuclei e delle aree industriali già scaduti; in tale pronuncia si legge, per
quanto qui di maggiore interesse:
f1) che la reiterazione dei
vincoli espropriativi, pur in linea di principio “consentita in via
amministrativa, e a maggior ragione, per legge”, deve tuttavia essere “puntualmente
motivata con riguardo alla persistente necessità di acquisire la proprietà
privata (da valutare sulla base di una apposita istruttoria procedimentale
da cui emerga la prevalenza dell’interesse pubblico rispetto a quello
privato da sacrificare); e, contemporaneamente, deve prevedere la
corresponsione del giusto indennizzo. In mancanza di tali presupposti vi è
lesione del diritto di proprietà”;
f2) che “La regola dell’indennizzabilità
dei vincoli espropriativi reiterati è ormai un principio consolidato
nell’ordinamento, anche per l’entrata in vigore dell’art. 39 t.u. delle
espropriazioni (d.p.r. 08.06.2001 n. 327). La reiterazione di qualsiasi
vincolo preordinato all’esproprio, o sostanzialmente espropriativo, dunque,
è da intendere implicitamente integrabile con il principio generale dell’indennizzabilità”
(con richiamo alla precedente ordinanza 25.07.2002, n. 397, in Riv. giur.
edilizia, 2002, I, 1207);
g) nella giurisprudenza amministrativa, con
riferimento all’obbligo di motivazione del provvedimento con cui è reiterato
il vincolo espropriativo, cfr. Cons. Stato, Ad. plen. 24.05.2007, n. 7 (in
Foro it., 2007, III, 350 con nota di TRAVI; in Guida al dir., 2007, 24, 73,
con nota di FORLENZA; in Riv. amm., 2007, 461, con nota di CACCIAVILLANI; in
Corriere merito, 2007, 1092, con nota di VELTRI; in Urb. e appalti, 2007,
1113, con nota di CARBONELLI; in Giorn. dir. amm., 2007, 1174, con nota di
MAZZARELLI; in Resp. e risarcimento, 2007, 7, 95, con nota di PAPPALARDO; in
Quaderni centro documentaz., 2007, 242, con nota di COLLACCHI) secondo cui:
g1) “l'esercizio del potere
di reiterazione di un vincolo preordinato all'esproprio decaduto per
decorrenza del termine quinquennale può essere esercitato unicamente sulla
base di una idonea istruttoria e di una adeguata motivazione che escluda un
contenuto vessatorio o comunque ingiusto dei relativi atti”;
g2) “per valutare
l'adeguatezza della motivazione dei provvedimenti di reiterazione di vincoli
preordinati all'esproprio occorre distinguere se questi riguardano o meno
una pluralità di aree, se riguardano solo una parte già incisa da vincoli
decaduti, se, infine, la reiterazione sia disposta (o meno) per la prima
volta sull'area”;
g3) “si ha adeguato supporto
motivazionale dell'atto di reiterazione del vincolo preordinato
all'esproprio qualora l'amministrazione, nell'evidenziare l'attualità
dell'interesse pubblico da soddisfare, abbia a seguito di specifica
istruttoria, tenuto conto delle seguenti circostanze:
1) in caso di reiterazione disposta con riguardo o meno una pluralità di
aree, nell'ambito dell'adozione di una variante generale o comunque
riguardante una consistente parte del territorio comunale, si devono
distinguere le ipotesi in cui la reiterazione del vincolo riguardi un'area
ben specificata (per realizzare una singola opera pubblica o per soddisfare
i prescritti standard sui servizi pubblici o sul verde pubblico) e quelle in
cui la reiterazione riguardi una pluralità di aree per una consistente parte
del territorio comunale, a seguito della decadenza di uno strumento
urbanistico generale che abbia disposto una molteplicità di vincoli
preordinati all'esproprio (necessari per l'adeguamento degli standard, a
seguito della realizzazione di ulteriori manufatti). Tale distinzione ha
ragion d'essere perché solo nell'ipotesi in cui vengono reiterati ‘in
blocco’ i vincoli decaduti, già riguardanti una pluralità di aree, la
sussistenza di un attuale specifico interesse pubblico risulta dalla
perdurante constatata insufficienza delle aree destinate a standard
(indispensabili per la vivibilità degli abitati), mentre l'assenza di un
intento vessatorio si evince dalla parità di trattamento che hanno tutti i
destinatari dei precedenti vincoli decaduti;
2) in caso di reiterazione disposta con riguardo solo ad una parte delle
aree già incise dai vincoli decaduti, mentre per l'altra parte non è
disposta la reiterazione in quanto il vincolo venga impresso su nuovi
terreni. Tale scelta, pur costituendo senz'altro un'anomalia della funzione
pubblica, deve fondarsi, pena il profilarsi di un intento vessatorio nei
confronti dei proprietari delle aree riassoggettate a vincolo, su una
motivazione da cui emergano le ragioni di interesse pubblico che
giustifichino il vantaggio di chi non è più coinvolto nelle determinazioni
di reperimento degli standard, a scapito di chi lo diventa, pur non essendo
stato destinatario di un precedente vincolo preordinato all'esproprio;
3) in caso di reiterazione disposta per la prima volta, può ritenersi
giustificato il richiamo alle originarie valutazioni; di converso, quando il
rinnovato vincolo sia a sua volta decaduto, l'autorità urbanistica deve
procedere con una ponderata valutazione degli interessi coinvolti,
evidenziano le ragioni, con riferimento al rispetto degli standard, alle
esigenze della spesa, agli specifici accadimenti riguardanti le precedenti
fasi procedimentali, che diano conto dell'attuale sussistenza dell'interesse
pubblico”;
g4) “secondo il quadro
normativo vigente antecedentemente al testo unico sugli espropri approvato
con il d.P.R. n. 327 del 2001, valeva il principio che, in caso di atti di
reiterazione dei vincoli preordinati all'esproprio, imponeva l'obbligo di
un'adeguata motivazione (poi espressamente disposto dall'art. 9, comma 4,
d.P.R. cit.), nella quale l'amministrazione doveva indicare la ragione che
l'avevano indotta a scegliere nuovamente proprio l'area sulla quale la
precedente scelta si era appuntata, evidenziando, a tal fine, l'attualità
dell'interesse pubblico da soddisfare, ciò in quanto tale specie di
determinazione è destinata ad incidere sulla sfera giuridica di un
proprietario che già per un quinquennio è stato titolare di un bene
suscettibile di dichiarazione di pubblica utilità e successivamente di
esproprio”;
g5) la deliberazione
riguardante la reiterazione del vincolo espropriativo non necessita di
copertura finanziaria volta a garantire il pagamento del corrispondente
indennizzo (“la delibera impugnata in primo grado non doveva essere
preceduta dall’approvazione di un ‘piano finanziario’”);
h) sulla distinzione fra vincoli conformativi e
vincoli espropriativi, in relazione a motivazione e indennizzo, cfr. da
ultimo, nella giurisprudenza amministrativa (cui adde le ulteriori
indicazioni riportate nella News US n. 109 del 16.10.2019, cit.):
h1) Cons. Stato, sezione IV,
sentenza 19.02.2020, n. 1253, secondo cui “l’art. 40 della legge n.
1150/1942, dopo l’intervento della Corte costituzionale con la sentenza n.
55 del 1968, deve intendersi nel senso che gli obblighi di allineamento
rispetto alle previsioni di piano sulle vie di comunicazione non decadono
perché non hanno natura espropriativa”;
h2) Cons. Stato, sezione IV,
sentenza 12.04.2018, n. 2205, in cui si legge quanto segue: “il concetto
di ‘limiti comportanti la totale inutilizzazione’ va enucleato in base alla
insuperata giurisprudenza costituzionale, in materia di cd. espropriazione
di valore (sentenze 20.01.1966 n. 6 e 29.05.1968 n. 55), che indica il
criterio per discernere le ipotesi in cui l'amministrazione esercita sui
beni di proprietà privata un potere conformativo (come tale, non
indennizzabile), da quelle in cui -viceversa- esercita un potere
sostanzialmente ablatorio (come tale, indennizzabile [...])”;
h3) Cons. Stato, sezione IV,
decisione 28.10.2009, n. 6661 (in Giurisdiz. amm., 2009, I, 1399), secondo
cui “In tema di convenzione urbanistica di lottizzazione, quando sia
scaduto un piano di lottizzazione si applicano alla convenzione le
disposizioni dell'art. 17 l. 1150/1942, le quali impongono, in mancanza di
una diversa disciplina di dettaglio, di rispettare gli allineamenti e le
prescrizioni di zona stabilite dallo strumento urbanistico attuativo,
ancorché scaduto; la previsione di «ultrattività» delle disposizioni del
piano scaduto è finalizzata ad evitare l'alterazione dello sviluppo
urbanistico-edilizio così come armonicamente programmato e ad assicurare una
edificazione omogenea”;
i) sulla programmazione triennale dei lavori
pubblici cfr., in dottrina: L. PETRANGELI PAPINI, La programmazione e la
progettazione dei lavori pubblici, in Appalti urbanistica edilizia, 2000,
12, 643 ss.; G. FORMICHELLA, Lavori pubblici. La programmazione dei lavori
pubblici negli Enti locali. I principi, le procedure, gli aspetti positivi e
gli spunti problematici, in Nuova rass., 2001, 1857 ss.; A. MATARAZZO,
Lavori pubblici. Brevi annotazioni operative in tema di programmazione dei
lavori pubblici, in Nuova rass., 2001, 1871 ss.; E. BARUSSO, Le competenze
degli organi dell’Ente Locale, Santarcangelo di Romagna, 2001, 127 ss.; G.
PESCE, Effetti del programma triennale delle opere pubbliche e valutazione
di fattibilità dell'intervento, in Urb. e appalti, 2003, 442 ss.; A. PAGANO,
Programma triennale dei lavori pubblici, Commento a d.m. Infrastrutture e
trasporti 09.06.2005, in Urb. e appalti, 2005, 914; D. GHIANDONI, E. MASINI,
Le principali novità del programma oo.pp. 2019/2021, in Azienditalia, 2018,
10, 1247; P. LEONCINO, La contabilizzazione delle opere pubbliche, in
Azienditalia, 2019, 6, 885; A. GRAZIANO, in Trattato sui contratti pubblici,
diretto da M.A. SANDULLI e R. DE NICTOLIS, I, Fonti e principi, Ambito,
Programmazione e progettazione, 2019, 1123 ss.; R. DE NICTOLIS, Appalti
pubblici e concessioni, Bologna, 2020, 300 ss.
(Corte Costituzionale,
sentenza 18.12.2020 n. 270 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Illegittimo
l’art. 9, comma 12, secondo periodo, della L.R. Lombardia n. 12 del 2005 che
consente la protrazione dell’efficacia del vincolo preordinato all’esproprio
oltre la naturale scadenza quinquennale.
La Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 9,
comma 12, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, secondo periodo,
limitatamente alla parte in cui prevede che i vincoli preordinati
all’espropriazione per la realizzazione, esclusivamente ad opera della
pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi previsti dal piano dei
servizi decadono qualora, entro cinque anni decorrenti dall’entrata in
vigore del piano stesso, l’intervento cui sono preordinati non sia inserito,
a cura dell’ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale
delle opere pubbliche e relativo aggiornamento.
Osserva al riguardo la Corte che:
<<le questioni di legittimità costituzionale sollevate sull’art. 9, comma
12, della legge reg. n. 12 del 2005 sono fondate, poiché tale disposizione
viola gli artt. 42, terzo comma, e 117, terzo comma, Cost..
Non può che ribadirsi, nel solco della sentenza n. 179 del 1999, che la
proroga in via legislativa dei vincoli espropriativi è fenomeno
inammissibile dal punto di vista costituzionale, qualora essa si presenti «sine
die o all’infinito (attraverso la reiterazione di proroghe a tempo
determinato che si ripetano aggiungendosi le une alle altre), o quando il
limite temporale sia indeterminato, cioè non sia certo, preciso e sicuro e,
quindi, anche non contenuto in termini di ragionevolezza».
Questo è proprio il vizio che presenta, in primo luogo, la disposizione
censurata.
Come correttamente evidenziato dal giudice rimettente, infatti, l’art. 9,
comma 12, secondo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005,
consente la protrazione dell’efficacia del vincolo preordinato all’esproprio
ben oltre la naturale scadenza quinquennale e, in virtù dell’inclusione
dell’aggiornamento annuale del programma triennale delle opere pubbliche
nell’ambito applicativo della norma, per un tempo sostanzialmente
indefinito, senza che sia previsto il riconoscimento al privato interessato
di alcun indennizzo.
Questo effetto si pone in frontale contrasto con la giurisprudenza
costituzionale illustrata in precedenza, dando seguito alla quale il
legislatore statale ha individuato un ragionevole punto di equilibrio tra la
reiterabilità indefinita dei vincoli e la necessità di indennizzare il
proprietario.
Gli artt. 42, terzo comma, e 117, terzo comma, Cost. sono, infatti, violati
in tutti i casi in cui –come avviene nella specie– alla protrazione
automatica di vincoli di natura espropriativa, disposta da una legge
regionale oltre il punto di tollerabilità individuato dal legislatore
statale, non corrisponda l’obbligo di riconoscere un indennizzo.
A ciò si aggiunga che, nel consentire la proroga senza indennizzo del
vincolo preordinato all’esproprio oltre il quinquennio originario, il
legislatore regionale ha omesso di imporre un preciso onere motivazionale
circa l’interesse pubblico al mantenimento del vincolo per un periodo che
oltrepassa quello cosiddetto di franchigia: ciò che invece è richiesto dalla
legge statale (art. 9, comma 4, t.u. espropriazioni) per le ipotesi di
reiterazione del vincolo.
Ancora, e si tratta di un profilo che non risulta certo ultimo per
importanza, la disposizione censurata appare del tutto carente quanto al
livello di garanzia partecipativa da riconoscersi al privato interessato.
Proprio in materia espropriativa, questa Corte ha da tempo affermato che i
privati interessati, prima che l’autorità pubblica adotti provvedimenti
limitativi dei loro diritti, devono essere messi «in condizioni di esporre
le proprie ragioni, sia a tutela del proprio interesse, sia a titolo di
collaborazione nell’interesse pubblico» (da ultimo, sentenza n. 71 del
2015).
La garanzia in parola è, invece, frustrata da un atto –l’approvazione del
programma triennale delle opere pubbliche– in relazione al cui contenuto il
codice dei contratti pubblici prevede forme di partecipazione di qualità e
grado insufficienti, e comunque non corrispondenti a quelle stabilite dal
t.u. espropriazioni (in particolare nell’art. 11) per gli atti appositivi e
per quelli reiterativi del vincolo espropriativo.
Infatti, la partecipazione al procedimento che sfocia nel programma in
questione è prevista esclusivamente dalla fonte regolamentare (d.m. n. 14
del 2018), non già dall’art. 21 cod. contratti pubblici e nemmeno dalla
legge regionale. Inoltre, e soprattutto, l’art. 5, comma 5, del d.m. prima
ricordato si limita a prevedere che le «amministrazioni possono consentire
la presentazione di eventuali osservazioni» da parte dei privati
interessati, così degradando la partecipazione a mera eventualità>>
(commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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Espropriazione
per pubblica utilità - Norme della Regione Lombardia - Piano dei servizi -
Durata quinquennale dei vincoli preordinati all'espropriazione per la
realizzazione di attrezzature e servizi previsti dal piano dei servizi,
decorrenti dall'entrata in vigore del piano stesso - Decadenza dei vincoli
qualora, entro tale termine, l'intervento cui sono preordinati non sia
inserito, a cura dell'ente competente alla sua realizzazione, nel programma
triennale delle opere pubbliche.
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1.– Il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione staccata
di Brescia, con
ordinanza 20.09.2019 n. 827
(r.o. n. 221 del 2019), solleva, in riferimento agli artt. 42 e 117, terzo e
primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 1 del
Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a Parigi il 20.03.1952,
questioni di legittimità costituzionale dell’art.
9, comma 12, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12
(Legge per il governo del territorio).
...
1.– Il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione staccata
di Brescia, dubita che l’art. 9, comma 12, della legge della Regione
Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), violi gli
artt. 42 e 117, terzo e primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in
relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a
Parigi il 20.03.1952.
1.1.– Il TAR Lombardia ricorda che la disposizione censurata disciplina i
vincoli preordinati all’espropriazione per la realizzazione, esclusivamente
ad opera della pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi previsti
dal piano dei servizi.
Quest’ultimo costituisce una componente del piano di governo del territorio,
previsto dall’art. 7, comma 1, lett. b), della legge reg. Lombardia n. 12
del 2005 quale strumento urbanistico generale della pianificazione di
livello comunale.
La disposizione censurata, dopo aver stabilito nel primo periodo, in cinque
anni, decorrenti dall’entrata in vigore del citato piano dei servizi, la
durata dei vincoli ablativi in questione, prevede, nel secondo periodo (cioè
proprio nella parte della cui legittimità costituzionale il rimettente
dubita), che «[d]etti vincoli decadono qualora, entro tale termine,
l’intervento cui sono preordinati non sia inserito, a cura dell’ente
competente alla sua realizzazione, nel programma triennale delle opere
pubbliche e relativo aggiornamento […]».
Ciò posto, il rimettente espone, in punto di rilevanza, che le società Te.Mo. spa e So.Ag.Be. ss hanno impugnato l’atto
contenente la dichiarazione di pubblica utilità e i successivi
provvedimenti, adottati nell’ambito del procedimento espropriativo
preordinato alla realizzazione di una strada di collegamento, in parte
prevista su un fondo di proprietà della Te.Mo. spa e destinato dalla
So.Ag.Be. ss alla coltivazione di uva per la produzione di
vino pregiato.
La dichiarazione di pubblica utilità, contenuta nella deliberazione del
Consiglio comunale del 15.02.2018, n. 11 (recante l’approvazione del
progetto dell’opera da realizzare), sarebbe stata adottata –riferisce il
rimettente– quando erano già decorsi cinque anni dal momento
dell’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio.
Quest’ultimo, infatti, troverebbe origine nell’approvazione, in data
21.11.2012, del piano di governo del territorio del Comune di Adro, che
prevedeva l’assoggettamento del fondo in questione a vincolo ablativo fino
al 21.11.2017.
La decadenza del vincolo ablativo sarebbe stata impedita proprio e soltanto
in forza dell’applicazione della disposizione censurata. Tale effetto
sarebbe cioè derivato dall’inserimento dell’intervento, prima della scadenza
quinquennale del vincolo espropriativo, nel programma triennale delle opere
pubbliche –nella specie approvato in data 06.04.2017– inserimento che
avrebbe così legittimato l’adozione della dichiarazione di pubblica utilità
dell’opera, pur se intervenuta in data 15.02.2018, e dunque oltre il termine
quinquennale decorrente dall’approvazione del piano di governo del
territorio.
Il TAR Lombardia riferisce che, nella medesima data da ultimo indicata, è
stata anche adottata dal Consiglio comunale di Adro una variante urbanistica
(poi approvata con deliberazione del 12.05.2018, n. 23).
Tuttavia, con riferimento all’opera pubblica di cui si tratta, quest’ultima
deliberazione non avrebbe legittimamente reiterato il vincolo preordinato
all’esproprio (ormai già scaduto), in quanto il Comune di Adro, in
applicazione della disposizione censurata, avrebbe semplicemente «preso
atto» dell’inserimento dell’intervento nel programma triennale delle
opere pubbliche e del conseguente «effetto “confermativo”»
dell’efficacia del vincolo.
A giudizio del TAR Lombardia –che attribuisce al provvedimento di variante
urbanistica funzione meramente ricognitiva di un effetto legale già
prodottosi– la sua mancata impugnazione da parte delle società ricorrenti
non avrebbe dunque rilievo, poiché il provvedimento stesso «risulterebbe
inevitabilmente ed automaticamente travolto dall’eventuale declaratoria di
illegittimità costituzionale della norma che ne rappresenta il presupposto».
Infatti, la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera, impugnata dalle
ricorrenti, sarebbe comunque intervenuta sulla base di un vincolo
preordinato all’esproprio risalente a più di cinque anni prima, sicché essa
poggerebbe esclusivamente su una sorta di “proroga automatica” del vincolo,
conseguente all’inclusione dell’opera nel programma triennale delle opere
pubbliche ai sensi della disposizione censurata.
Quest’ultima costituirebbe, in definitiva, l’unico ostacolo frapposto
all’annullamento dell’atto.
1.2.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo, sulla scorta
della giurisprudenza di questa Corte, ricorda che, trascorso un periodo di
ragionevole durata –oggi fissato in cinque anni dall’art. 9, comma 2, del
decreto del Presidente della Repubblica 08.06.2001, n. 327, recante
«Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di
espropriazione per pubblica utilità (Testo A)» (d’ora innanzi: t.u.
espropriazioni)– la pubblica amministrazione può reiterare il vincolo solo
motivando adeguatamente in relazione alla persistenza di effettive esigenze
urbanistiche (art. 9, comma 4, t.u. espropriazioni), e comunque
corrispondendo un indennizzo (ai sensi del successivo art. 39 del medesimo
testo unico).
Secondo il Tribunale amministrativo rimettente, dunque, l’esercizio del
potere ablatorio può essere ritenuto conforme all’art. 42 Cost., solo se
risulti limitato nel tempo e compensato, in caso di reiterazione del
vincolo, dalla corresponsione di un equo indennizzo.
Ricorda il giudice a quo, in particolare, che la giurisprudenza
costituzionale (è richiamata la sentenza n. 179 del 1999) ha escluso che il
vincolo possa essere reiterato senza che si proceda, alternativamente,
all’espropriazione (o comunque al «serio inizio dell’attività preordinata
all’espropriazione stessa mediante approvazione dei piani attuativi)»,
oppure alla corresponsione di un indennizzo.
Nella ricostruzione del TAR Lombardia, questo «serio inizio» dell’attività espropriativa sarebbe stato individuato dal legislatore statale, unico
competente a tal fine, nel provvedimento che dichiara la pubblica utilità
dell’opera; quindi, in un atto che comunque garantisce la partecipazione del
proprietario del bene.
L’art. 9, comma 12, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, avrebbe,
invece, disciplinato una nuova ipotesi di attuazione del vincolo
espropriativo, in mancanza di un serio avvio della procedura espropriativa
e, in particolare, di una tempestiva dichiarazione di pubblica utilità
dell’opera.
In tal modo, in violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., la legge
regionale avrebbe ecceduto la propria competenza concorrente in materia, dal
momento che l’art. 12 t.u. espropriazioni non ricomprenderebbe, tra gli atti
che comportano la dichiarazione di pubblica utilità, l’inserimento
dell’opera pubblica nel programma triennale.
Inoltre, in lesione dell’art. 42 Cost., la disposizione censurata
consentirebbe l’esercizio del potere ablatorio «a tempo indeterminato»,
in ragione di un provvedimento –appunto l’approvazione del piano triennale
delle opere pubbliche– la cui adozione, da un lato, non può essere
qualificata come serio avvio della procedura espropriativa, e, dall’altro,
non garantisce la partecipazione procedimentale degli interessati e può
essere indefinitamente rinnovato, senza necessità né di motivazione, né di
indennizzo.
2.– In via preliminare, non può essere accolta la richiesta di una
declaratoria d’inammissibilità delle questioni per sopravvenuto difetto di
rilevanza, avanzata dal Comune di Adro, costituito in giudizio, in
conseguenza della rinuncia al ricorso depositata nel giudizio a quo dalle
società espropriate.
Come stabilito dall’art. 18 delle Norme integrative per i giudizi davanti
alla Corte costituzionale, il giudizio incidentale di costituzionalità è
autonomo rispetto al giudizio a quo, nel senso che non risente delle vicende
di fatto, successive all’ordinanza di rimessione e relative al rapporto
dedotto nel processo principale. Per questo, la costante giurisprudenza
costituzionale afferma che la rilevanza della questione deve essere valutata
alla luce delle circostanze sussistenti al momento del provvedimento di
rimessione, senza che assumano rilievo eventi sopravvenuti (sentenze n. 244
e n. 85 del 2020), quand’anche costituiti dall’estinzione del giudizio
principale per effetto di rinuncia da parte dei ricorrenti (ordinanza n. 96
del 2018).
3.– Deve essere, inoltre, circoscritto il thema decidendum.
Il giudice a quo, in dispositivo, indirizza le proprie censure
sull’intero comma 12 dell’art. 9 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005.
La motivazione dell’ordinanza di rimessione, tuttavia, consente agevolmente
di delimitare l’oggetto delle censure al solo secondo periodo del comma in
esame, limitatamente alla parte in cui prevede che i vincoli preordinati
all’espropriazione decadono qualora, entro cinque anni dall’approvazione del
piano dei servizi che prevede l’intervento, quest’ultimo non sia inserito, a
cura dell’ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale
delle opere pubbliche e relativo aggiornamento.
4.– Sempre in via preliminare, va rigettata l’eccezione d’inammissibilità
per difetto di rilevanza, originariamente avanzata dalla difesa del Comune
di Adro, secondo cui l’adozione della variante allo strumento urbanistico,
in quanto idonea a reiterare il vincolo preordinato all’esproprio,
renderebbe irrilevanti le questioni di legittimità costituzionale sollevate.
Nel caso in esame, non risulta implausibile il ragionamento del rimettente,
secondo il quale il Comune di Adro non sarebbe stato obbligato a reiterare
il vincolo –nonostante la scadenza del quinquennio dalla originaria
apposizione– proprio in virtù della norma censurata, che avrebbe determinato
una “proroga” ex lege del vincolo, a seguito dell’inserimento
dell’opera nel programma triennale, per la durata di quest’ultimo e dei suoi
eventuali aggiornamenti annuali.
Infatti, da questo punto di vista, il provvedimento di variante urbanistica,
quantomeno in relazione all’opera di cui si tratta, potrebbe considerarsi
meramente ricognitivo e, come tale, prima ancora che “atipico” (come
ritenuto dal rimettente), addirittura superfluo.
Non si versa, pertanto, in una di quelle ipotesi di manifesta implausibilità
della motivazione sulla rilevanza, che impediscono, secondo costante
giurisprudenza costituzionale, l’esame del merito (da ultimo, sentenze n.
218 del 2020 e n. 208 del 2019).
5.– Neppure può essere accolta l’eccezione d’inammissibilità delle censure
di violazione dell’art. 117 Cost., per non avere il rimettente indicato «quale
comma e/o lettera sarebbero stati violati».
In primo luogo, il giudice a quo, almeno in un passaggio dell’ordinanza di rimessione, individua espressamente il terzo comma dell’art. 117 Cost. quale
parametro evocato.
È, poi, ininfluente che il rimettente non menzioni espressamente la materia
di legislazione concorrente tra quelle indicate nel terzo comma dell’art.
117 Cost., quando la questione, nel contesto della motivazione, risulti
chiaramente enunciata (in senso analogo, da ultimo, sentenza n. 264 del
2020). E dal tenore dell’ordinanza di rimessione si evince con sufficiente
chiarezza che le censure si incentrano sulla violazione della competenza
legislativa concorrente spettante alla Regione nella materia «governo del
territorio».
6.– Va invece, e ancora preliminarmente, dichiarata l’inammissibilità della
questione sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in
relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU.
Il rimettente non ha, infatti, assolto l’onere di motivazione sulla non
manifesta infondatezza del prospettato dubbio di legittimità costituzionale.
L’ordinanza di rimessione è, invero, volta unicamente a denunciare la
lesione degli artt. 42 e 117, terzo comma, Cost., sotto i profili prima
illustrati, e non indica alcuna ragione a sostegno di uno specifico
contrasto della disposizione censurata con il parametro interposto
sovranazionale.
Tale carenza conduce inevitabilmente all’inammissibilità della specifica
questione in esame (in tal senso, tra le molte, sentenze n. 223 e n. 115 del
2020).
7.– Quanto all’esame del merito delle residue questioni di legittimità
costituzionale, è utile premettere qualche sintetico richiamo alla
disciplina statale e regionale rilevante, nonché alla pertinente
giurisprudenza costituzionale.
8.– Governata dall’art. 42, terzo comma, Cost., l’espropriazione per motivi
d’interesse generale consiste in un procedimento preordinato all’emanazione
di un provvedimento che trasferisce la proprietà o altro diritto reale su di
un bene.
Il legislatore statale ha introdotto a tal fine uno schema procedimentale
articolato nelle fasi indicate dall’art. 8 t.u. espropriazioni, costituite
dalla sottoposizione del bene al vincolo preordinato all’esproprio, dalla
dichiarazione di pubblica utilità dell’opera che deve essere realizzata e
dalla determinazione dell’indennità di espropriazione.
Tali fasi sono finalizzate all’emissione del decreto di esproprio.
Ai sensi del successivo art. 9 del medesimo testo unico, un bene è
sottoposto al vincolo preordinato all’espropriazione quando diventa
efficace, in base alla specifica normativa statale e regionale di
riferimento, l’atto di approvazione del piano urbanistico generale, ovvero
una sua variante, che preveda la realizzazione di un’opera pubblica o di
pubblica utilità.
Una volta apposto il vincolo espropriativo, il proprietario del bene resta
titolare del suo diritto sulla cosa e nel possesso di essa, ma non può
utilizzarla in contrasto con la destinazione dell’opera, fino a che
l’amministrazione non proceda all’espropriazione.
Come ricorda il giudice rimettente, questa Corte, con la sentenza n. 55 del
1968, ha dichiarato costituzionalmente illegittimi i numeri 2), 3) e 4)
dell’art. 7 della legge 17.08.1942, n. 1150 (Legge urbanistica), nonché
l’art. 40 della stessa legge, nella parte in cui non prevedevano un
indennizzo per le limitazioni espropriative a tempo indeterminato.
Il legislatore statale, chiamato a sciogliere l’alternativa tra un
indennizzo da corrispondere immediatamente, al momento dell’apposizione del
vincolo di durata indeterminata, e un vincolo senza immediato indennizzo ma
a tempo determinato, ha optato per tale seconda soluzione, con la legge 19.11.1968, n. 1187 (Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica
17.08.1942, n. 1150), il cui art. 2 ha stabilito la durata quinquennale del
vincolo, periodo durante il quale la necessità di corrispondere un
indennizzo è esclusa.
Con la sentenza n. 179 del 1999, infine, questa Corte ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 7, numeri
2), 3) e 4), e 40 della legge n. 1150 del 1942, e 2, primo comma, della
legge n. 1187 del 1968, nella parte in cui consentiva alla pubblica
amministrazione di reiterare i vincoli espropriativi scaduti senza la
previsione di un indennizzo.
Il legislatore statale si è adeguato a queste indicazioni con l’emanazione
del già richiamato t.u. espropriazioni.
In base alle norme dettate da quest’ultimo, il vincolo preordinato
all’esproprio è di durata quinquennale (art. 9, comma 2) –periodo,
cosiddetto di franchigia, durante il quale al proprietario del bene non è
dovuto alcun indennizzo– e decade se, entro tale termine, non è dichiarata
la pubblica utilità dell’opera (art. 9, comma 3).
Una volta decaduto e, dunque, divenuto inefficace, il vincolo può solo
essere motivatamente reiterato, subordinatamente alla previa approvazione di
un nuovo piano urbanistico generale o di una sua variante (art. 9, comma 4),
e con la corresponsione di un apposito indennizzo (art. 39).
Le stesse garanzie devono sorreggere una eventuale proroga del vincolo prima
della sua naturale scadenza (in tal senso, sentenza n. 314 del 2007).
Una volta apposto il vincolo, occorre procedere alla dichiarazione di
pubblica utilità dell’opera, entro il termine di efficacia del vincolo
espropriativo (art. 13, comma 1, t.u. espropriazioni).
Si tratta dell’atto con il quale vengono individuati in concreto i motivi di
interesse generale cui l’art. 42, terzo comma, Cost. subordina
l’espropriazione della proprietà privata nei casi previsti dalla legge
(sentenza n. 155 del 1995).
Con la dichiarazione di pubblica utilità, la pubblica amministrazione avvia
effettivamente la procedura espropriativa, accertando l’interesse pubblico
dell’opera attraverso l’individuazione specifica di essa e la sua
collocazione nel territorio, nel rispetto del contraddittorio tra i
cittadini interessati e l’amministrazione.
Un ruolo centrale nell’attuale disciplina del procedimento espropriativo è
svolto dalla cosiddetta dichiarazione implicita di pubblica utilità.
Il t.u. espropriazioni, infatti, prevede che l’adozione di taluni atti,
aventi struttura e funzioni proprie, comporti anche la dichiarazione di
pubblica utilità delle opere da essi previste.
In particolare, ai sensi dell’art. 12, comma 1, la dichiarazione di pubblica
utilità si intende disposta «quando l’autorità espropriante approva a tale
fine il progetto definitivo dell’opera pubblica o di pubblica utilità,
ovvero quando sono approvati il piano particolareggiato, il piano di
lottizzazione, il piano di recupero, il piano di ricostruzione, il piano
delle aree da destinare a insediamenti produttivi, ovvero quando è approvato
il piano di zona». Inoltre, e comunque, essa si intende disposta quando la
normativa vigente prevede che equivalga «a dichiarazione di pubblica utilità
l’approvazione di uno strumento urbanistico, anche di settore o attuativo,
la definizione di una conferenza di servizi o il perfezionamento di un
accordo di programma, ovvero il rilascio di una concessione, di una
autorizzazione o di un atto avente effetti equivalenti».
8.1.– In ambito statale, il programma triennale dei lavori pubblici è
attualmente previsto dall’art. 21 del decreto legislativo 18.04.2016, n.
50 (Codice dei contratti pubblici), il quale disciplina unitariamente la
programmazione, sia per i lavori pubblici che per i servizi e le forniture,
demandando (comma 8) a un decreto ministeriale, di natura regolamentare, la
normazione di dettaglio.
Ai sensi dell’art. 3, lettera ggggg-sexies), cod. contratti pubblici, il
programma rappresenta il documento, da aggiornare annualmente, che le
amministrazioni adottano al fine di individuare i lavori da avviare nel
triennio.
Ai fini della presente decisione, va altresì sottolineato che, in relazione
alla definizione del contenuto del programma in questione, la disciplina
della partecipazione dei privati interessati è contenuta nella fonte
regolamentare prima evocata: l’art. 5, comma 5, del decreto ministeriale
16.01.2018, n. 14 («Regolamento recante procedure e schemi-tipo per la
redazione e la pubblicazione del programma triennale dei lavori pubblici,
del programma biennale per l’acquisizione di forniture e servizi e dei
relativi elenchi annuali e aggiornamenti annuali»), prevede, infatti, che le
amministrazioni «possono consentire» la presentazione di «eventuali»
osservazioni entro trenta giorni dalla pubblicazione del programma sul
profilo informatico del committente e che l’approvazione definitiva del
documento programmatico triennale, con gli eventuali aggiornamenti, avviene
entro i successivi trenta giorni dalla scadenza del termine fissato per tali
«consultazioni», ovvero, comunque, entro sessanta giorni dalla pubblicazione
sul suddetto profilo.
9.– La complessiva disciplina statale sinteticamente richiamata ha trovato
peculiare attuazione nella legislazione della Regione Lombardia.
Come riconosce significativamente lo stesso art. 5, comma 1, t.u.
espropriazioni («[l]e Regioni a statuto ordinario esercitano la potestà
legislativa concorrente, in ordine alle espropriazioni strumentali alle
materie di propria competenza […]»), l’espropriazione costituisce una
funzione trasversale, che può esplicarsi in varie materie, anche di
competenza concorrente. Tra queste, soprattutto, il «governo del
territorio», per la pacifica attrazione in quest’ultimo dell’urbanistica,
come chiarito dalla giurisprudenza costituzionale (tra le più recenti,
sentenze n. 130 del 2020 e n. 254 del 2019).
La Regione Lombardia, nell’esercizio delle proprie competenze legislative,
si è dotata sia di una propria legge per il governo del territorio (legge
reg. Lombardia n. 12 del 2005), sia di una disciplina in materia di
procedimento di espropriazione, contenuta nella legge della Regione
Lombardia 04.03.2009, n. 3 (Norme regionali in materia di espropriazione per
pubblica utilità).
Con specifico riferimento alla vicenda che ha dato origine al giudizio a
quo, relativo ad una fattispecie in cui sono in questione le prime due fasi
della procedura espropriativa (apposizione del vincolo preordinato
all’esproprio e dichiarazione di pubblica utilità) assumono rilievo, nella
legislazione della Regione Lombardia, due disposizioni: da un lato, quella
effettivamente censurata, contenuta nella legge reg. Lombardia n. 12 del
2005, che attribuisce, come s’è visto, peculiare effetto all’inserimento
dell’opera pubblica o di pubblica utilità nel programma triennale delle
opere pubbliche; dall’altro, l’art. 9 della legge reg. Lombardia n. 3 del
2009, il quale, nell’indicare gli atti che comportano la dichiarazione di
pubblica utilità, include –a differenza della appena ricordata disciplina
statale– anche il programma triennale delle opere pubbliche, subordinando
però tale effetto all’accertamento di alcuni requisiti.
In particolare, il comma 2 della previsione da ultimo citata esige,
relativamente a ciascuna opera per la quale il programma triennale intende
produrre l’effetto in parola, che esso contenga: un piano particellare che
individui i beni da espropriare, con allegate le relative planimetrie
catastali; una motivazione circa la necessità di dichiarare la pubblica
utilità in tale fase; la determinazione del valore da attribuire ai beni da
espropriare, in conformità ai criteri applicabili in materia, con
l’indicazione della relativa copertura finanziaria.
Pur riguardando entrambe il programma triennale delle opere pubbliche in
ambito regionale, le due disposizioni hanno differenti obbiettivi: la prima
(oggetto delle censure di legittimità costituzionale) è relativa alla fase
dell’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio e stabilisce che il
vincolo non decade se l’opera viene inserita nel programma; la seconda,
relativa alla fase successiva del procedimento, include, alle condizioni
viste, il programma in questione tra gli atti la cui approvazione comporta
dichiarazione di pubblica utilità, con scelta, si è detto, innovativa
rispetto alla disciplina statale.
Il giudice a quo non si occupa affatto della seconda disposizione e perciò
non ne definisce il rapporto (di coordinamento, di alternatività, di
esclusione) con la prima, che sospetta di illegittimità costituzionale. Si
deve ritenere, peraltro, che tale pur indubbia lacuna non comporti
l’inammissibilità delle questioni, per incompleta ricostruzione del quadro
normativo di riferimento, oppure per una erronea o incompleta individuazione
della disciplina da censurare. Avendo affermato, nell’ordinanza di
rimessione, che il programma triennale delle opere pubbliche approvato dal
Comune di Adro non costituisce «serio inizio» della procedura
espropriativa (carattere che, invece, è in generale riconosciuto alla
dichiarazione di pubblica utilità di un’opera, e che, in virtù dei requisiti
posti dall’art. 9, comma 2, legge reg. Lombardia n. 3 del 2009, potrebbe
derivare, almeno nelle intenzioni del legislatore regionale,
dall’inserimento nel programma triennale delle opere pubbliche corredate da
quei requisiti), se ne deve dedurre che il rimettente abbia implicitamente
ritenuto non applicabile l’art. 9 della legge reg. Lombardia n. 3 del 2009
alla fattispecie al suo esame.
Trattandosi, dunque, di disposizione non ritenuta pertinente alla
definizione del giudizio, questa Corte può prescindere da qualsiasi
valutazione su di essa, sia in punto di ammissibilità delle questioni, sia,
nel merito, circa la sua riconducibilità alla legittima espressione della
potestà legislativa concorrente spettante alla Regione nella materia
«governo del territorio».
10.– Tutto ciò premesso, le questioni di legittimità costituzionale
sollevate sull’art. 9, comma 12, della legge reg. n. 12 del 2005 sono
fondate, poiché tale disposizione viola gli artt. 42, terzo comma, e 117,
terzo comma, Cost.
Non può che ribadirsi, nel solco della sentenza n. 179 del 1999, che la
proroga in via legislativa dei vincoli espropriativi è fenomeno
inammissibile dal punto di vista costituzionale, qualora essa si presenti «sine
die o all’infinito (attraverso la reiterazione di proroghe a tempo
determinato che si ripetano aggiungendosi le une alle altre), o quando il
limite temporale sia indeterminato, cioè non sia certo, preciso e sicuro e,
quindi, anche non contenuto in termini di ragionevolezza».
Questo è proprio il vizio che presenta, in primo luogo, la disposizione
censurata.
Come correttamente evidenziato dal giudice rimettente, infatti, l’art. 9,
comma 12, secondo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005,
consente la protrazione dell’efficacia del vincolo preordinato all’esproprio
ben oltre la naturale scadenza quinquennale e, in virtù dell’inclusione
dell’aggiornamento annuale del programma triennale delle opere pubbliche
nell’ambito applicativo della norma, per un tempo sostanzialmente
indefinito, senza che sia previsto il riconoscimento al privato interessato
di alcun indennizzo.
Questo effetto si pone in frontale contrasto con la giurisprudenza
costituzionale illustrata in precedenza, dando seguito alla quale il
legislatore statale ha individuato un ragionevole punto di equilibrio tra la
reiterabilità indefinita dei vincoli e la necessità di indennizzare il
proprietario.
Gli artt. 42, terzo comma, e 117, terzo comma, Cost. sono, infatti, violati
in tutti i casi in cui –come avviene nella specie– alla protrazione
automatica di vincoli di natura espropriativa, disposta da una legge
regionale oltre il punto di tollerabilità individuato dal legislatore
statale, non corrisponda l’obbligo di riconoscere un indennizzo.
A ciò si aggiunga che, nel consentire la proroga senza indennizzo del
vincolo preordinato all’esproprio oltre il quinquennio originario, il
legislatore regionale ha omesso di imporre un preciso onere motivazionale
circa l’interesse pubblico al mantenimento del vincolo per un periodo che
oltrepassa quello cosiddetto di franchigia: ciò che invece è richiesto dalla
legge statale (art. 9, comma 4, t.u. espropriazioni) per le ipotesi di
reiterazione del vincolo.
Ancora, e si tratta di un profilo che non risulta certo ultimo per
importanza, la disposizione censurata appare del tutto carente quanto al
livello di garanzia partecipativa da riconoscersi al privato interessato.
Proprio in materia espropriativa, questa Corte ha da tempo affermato che i
privati interessati, prima che l’autorità pubblica adotti provvedimenti
limitativi dei loro diritti, devono essere messi «in condizioni di
esporre le proprie ragioni, sia a tutela del proprio interesse, sia a titolo
di collaborazione nell’interesse pubblico» (da ultimo, sentenza n. 71
del 2015).
La garanzia in parola è, invece, frustrata da un atto –l’approvazione del
programma triennale delle opere pubbliche– in relazione al cui contenuto il
codice dei contratti pubblici prevede forme di partecipazione di qualità e
grado insufficienti, e comunque non corrispondenti a quelle stabilite dal
t.u. espropriazioni (in particolare nell’art. 11) per gli atti appositivi e
per quelli reiterativi del vincolo espropriativo.
Infatti, la partecipazione al procedimento che sfocia nel programma in
questione è prevista esclusivamente dalla fonte regolamentare (d.m. n. 14
del 2018), non già dall’art. 21 cod. contratti pubblici e nemmeno dalla
legge regionale. Inoltre, e soprattutto, l’art. 5, comma 5, del d.m. prima
ricordato si limita a prevedere che le «amministrazioni possono consentire
la presentazione di eventuali osservazioni» da parte dei privati
interessati, così degradando la partecipazione a mera eventualità.
11.– Per queste complessive ragioni va dichiarata l’illegittimità
costituzionale dell’art. 9, comma 12, della legge reg. Lombardia n. 12 del
2005, secondo periodo, limitatamente alla parte in cui prevede che i vincoli
preordinati all’espropriazione per la realizzazione, esclusivamente ad opera
della pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi previsti dal piano
dei servizi decadono qualora, entro cinque anni decorrenti dall’entrata in
vigore del piano stesso, l’intervento cui sono preordinati non sia inserito,
a cura dell’ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale
delle opere pubbliche e relativo aggiornamento.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art.
9, comma 12, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12
(Legge per il governo del territorio), secondo periodo,
limitatamente alla parte in cui prevede che i vincoli preordinati
all’espropriazione per la realizzazione, esclusivamente ad opera della
pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi previsti dal piano dei
servizi decadono qualora, entro cinque anni decorrenti dall’entrata in
vigore del piano stesso, l’intervento cui sono preordinati non sia inserito,
a cura dell’ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale
delle opere pubbliche e relativo aggiornamento;
2) dichiara inammissibile la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 9, comma 12, legge reg. Lombardia n. 12 del 2005,
sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in
relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a
Parigi il 20.03.1952, dal Tribunale amministrativo regionale per la
Lombardia, sezione staccata di Brescia, con l’ordinanza indicata in epigrafe
(Corte Costituzionale,
sentenza 18.12.2020 n. 270). |
ESPROPRIAZIONE:
Espropriazione per pubblica utilità - Norme della
Regione Lombardia - Vincoli preordinati
all'espropriazione per la realizzazione di
attrezzature e servizi previsti dal piano dei
servizi - Termine di decadenza quinquennale,
decorrente dalla vigenza del piano - Proroga, in
caso di inserimento dei relativi interventi nel
programma triennale delle opere pubbliche e relativo
aggiornamento - Violazione del diritto di proprietà
e dei principi in materia di governo del territorio
- Illegittimità costituzionale.
●
È dichiarato costituzionalmente illegittimo, per
violazione degli artt. 42, terzo comma, e 117, terzo
comma, Cost., l'art. 9, comma 12, secondo periodo,
della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005,
limitatamente alla parte in cui prevede che i
vincoli preordinati all'espropriazione per la
realizzazione, esclusivamente ad opera della
pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi
previsti dal piano dei servizi decadono qualora,
entro cinque anni decorrenti dall'entrata in vigore
del piano stesso, l'intervento cui sono preordinati
non sia inserito, a cura dell'ente competente alla
sua realizzazione, nel programma triennale delle
opere pubbliche e relativo aggiornamento.
La norma censurata dal TAR Lombardia, sez. staccata
di Brescia, consente la protrazione dell'efficacia
del vincolo preordinato all'esproprio ben oltre la
naturale scadenza quinquennale e, in virtù
dell'inclusione dell'aggiornamento annuale del
programma triennale delle opere pubbliche
nell'ambito applicativo della medesima norma, per un
tempo sostanzialmente indefinito, senza che sia
previsto il riconoscimento al privato interessato di
alcun indennizzo.
Pertanto, essa è in frontale contrasto con la
giurisprudenza costituzionale formatasi in tema di
vincoli ablativi finalizzati all'espropriazione,
dando seguito alla quale il legislatore statale ha
individuato un ragionevole punto di equilibrio tra
la reiterabilità indefinita dei vincoli e la
necessità di indennizzare il proprietario. Nel
consentire la proroga senza indennizzo del vincolo
preordinato all'esproprio oltre il quinquennio
originario, il legislatore regionale ha omesso di
imporre un preciso onere motivazionale circa
l'interesse pubblico al mantenimento del vincolo per
un periodo che oltrepassa quello c.d. di franchigia:
ciò che invece è richiesto dalla legge statale (art.
9, comma 4, t.u. espropriazioni) per le ipotesi di
reiterazione del vincolo.
Ancora, la disposizione censurata appare del tutto
carente quanto al livello di garanzia partecipativa
da riconoscersi al privato interessato, in quanto la
partecipazione al procedimento che sfocia nel
programma triennale delle opere pubbliche -in
relazione al cui contenuto il codice dei contratti
pubblici prevede forme di partecipazione di qualità
e grado insufficienti, e comunque non corrispondenti
a quelle stabilite dal t.u. espropriazioni (in
particolare nell'art. 11) per gli atti appositivi e
per quelli reiterativi del vincolo espropriativo- è
prevista esclusivamente dalla fonte regolamentare (d.m.
n. 14 del 2018), non già dall'art. 21 cod. contratti
pubblici e nemmeno dalla legge regionale.
Inoltre, e soprattutto, l'art. 5, comma 5,
dell'indicato d.m., prevedendo che le
amministrazioni possano consentire la presentazione
di eventuali osservazioni da parte dei privati
interessati, degrada la partecipazione a mera
eventualità
(precedenti citati: sentenze n. 314 del 2007, n. 179
del 1999, n. 155 del 1995 e n. 55 del 1968).
●
L'espropriazione costituisce una funzione
trasversale, che può esplicarsi in varie materie,
anche di competenza concorrente. Tra queste,
soprattutto, il «governo del territorio», per la
pacifica attrazione in quest'ultimo dell'urbanistica
(precedenti citati: sentenze n. 130 del 2020 e n.
254 del 2019).
La proroga in via legislativa dei vincoli
espropriativi è fenomeno inammissibile dal punto di
vista costituzionale, qualora essa si presenti sine
die o all'infinito (attraverso la reiterazione di
proroghe a tempo determinato che si ripetano
aggiungendosi le une alle altre), o quando il limite
temporale sia indeterminato, cioè non sia certo,
preciso e sicuro e, quindi, anche non contenuto in
termini di ragionevolezza
(precedente citato: sentenza n. 179 del 1999).
●
In materia espropriativa, i privati interessati,
prima che l'autorità pubblica adotti provvedimenti
limitativi dei loro diritti, devono essere messi in
condizioni di esporre le proprie ragioni, sia a
tutela del proprio interesse, sia a titolo di
collaborazione nell'interesse pubblico
(precedente citato: sentenza n. 71 del 2015)
(Corte Costituzionale,
sentenza 18.12.2020 n. 270). |
ESPROPRIAZIONE: Soggetto
legittimato ad impugnare la procedura espropriativa e ad avere l’indennità
di esproprio.
---------------
●
Processo amministrativo – Legittimazione attiva – Espropriazione – Esistenza
di un diritto reale o personale di godimento su cosa altrui – Sufficienza.
●
Espropriazione per pubblica utilità - Indennità di esproprio – Soggetti
aventi diritto – Individuazione.
●
La legittimazione ad agire contro una procedura espropriativa spetta sia ai
proprietari dei terreni colpiti che a tutti gli altri soggetti titolari di
un interesse qualificato ad essi ricollegabile, che deve essere provato
sulla base di un titolo giuridico; ai fini della sussistenza della
legittimazione attiva all’impugnazione degli atti di una procedura ablativa,
cioè, non è ritenuto essenziale che la relazione giuridica col bene immobile
sia costituita dal diritto di proprietà, ma è sufficiente l’esistenza di un
diritto reale o personale di godimento su cosa altrui, ossia comunque una
relazione giuridica qualificata con il bene oggetto del provvedimento
ablativo, tale da identificare una posizione giuridica soggettiva
individualizzata e specifica che connoti un interesse all’annullamento
dell’atto ablativo (1).
●
Tra i titolari di diritti reali o personali di godimento, solo
l’enfiteuta è espressamente preso in considerazione ai fini della
corresponsione dell’indennità di esproprio; per contro, agli altri non è
riconosciuto il diritto ad indennità aggiuntive, risolvendosi la relativa
posizione sul piano dei rapporti con la proprietà, la tutela della pienezza
del ristoro della quale è rafforzata dalla riconosciuta possibilità di
proporre l’opposizione alla stima, ovvero di partecipare al giudizio già
instaurato allo scopo (2).
---------------
(1) Cons. Stato, sez. IV, 18.06.2008, n. 3033.
La Sezione affronta il problema della legittimazione attiva dei titolari di
un diritto reale o personale di godimento avuto riguardo ad una procedura di
esproprio. Ha affermato che anche la titolarità in capo ai ricorrenti di una
“concessione livellaria” consente di riconoscere loro una posizione
giuridica qualificata azionabile in giudizio parificabile a quella del
titolare di un diritto di enfiteusi.
Ciò non può non valere anche in caso di azioni meramente risarcitorie o
restitutorie, nel limitato ambito di ammissibilità delle stesse innanzi al
giudice amministrativo alla luce dei principi affermati di recente dalle
pronunce dell’Adunanza plenaria nn.
2,
3,
4 e
5 del 2020. Ciò rende pertanto irrilevante la prova della
proprietà piena dei terreni ai fini della riconosciuta legittimazione,
impattando la stessa casomai sul quantum della richiesta, ma non
sull’an.
(2) Ha ricordato la Sezione che l’art. 42-bis, d.P.R. n. 327 del
2001, pur essendo rubricato in termini generali “utilizzazione senza
titolo di un bene per scopi di interesse pubblico”, declina alla lettera
l’acquisizione al patrimonio indisponibile dello stesso e la corresponsione
“al proprietario” dell’indennizzo per il danno subito, quantificato
nel 10% del valore venale del bene.
Il combinato disposto di tale disposizione con la previsione della
titolarità del diritto all’indennizzo anche per l’enfiteuta -e dunque,
mutatis mutandis, per il livellario, cui si riferisce il caso di specie-
non possa non imporre all’Amministrazione procedente di attivarsi per
concludere il procedimento avviato, acquisendo o restituendo il bene, previa
rimessione in pristino, all’esito di motivata valutazione comparativa degli
interessi in gioco, siccome chiarito dall’Adunanza plenaria nelle decisioni
nn.
2,
3,
4 e
5 del 2020
(Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 09.11.2020 n. 6863 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
6. Preliminarmente il Collegio ritiene di dovere scrutinare il
secondo e il terzo motivo di ricorso, con i quali si contesta la
sentenza nella parte in cui ha declinato la giurisdizione con riferimento ai
beni illegittimamente occupati senza alcuna previa attivazione di procedure
ablatorie.
Afferma il Tribunale che nel caso di specie le parti non hanno fornito la
prova che l’occupazione possa essere addebitata al Comune di Africo, con ciò
adombrando anche un profilo di difetto di legittimazione passiva dello
stesso, espressamente sviluppato dalla difesa civica in sede di ricorso
incidentale.
Rileva la Sezione come a tutto concedere alla tesi degli appellanti, dando
rilievo alla destinazione pubblica delle aree occupate, piuttosto che alla
individuazione degli autori materiali delle opere nelle quali si è
concretizzata ridetta occupazione, ai fini della perimetrazione della
competenza del giudice amministrativo è sufficiente evidenziare la natura
meramente comportamentale della condotta lesiva.
In sintesi, esula dalla giurisdizione del giudice amministrativo la
richiesta risarcitoria relativa alle porzioni della particella catastale n.
48, sulle quali insistono strade prive di denominazione di collegamento tra
arterie viarie pubbliche, meglio individuate in atti, di estensione pari,
rispettivamente, a mq. 532,00 e 144,00, nonché a quella del mappale 53, per
un totale di circa mq. 880,00. Ciò in quanto, come peraltro rilevato anche
dal giudice civile nella sentenza del 2004 richiamata sub § 1, la relativa
occupazione non è sorretta da una dichiarazione di pubblica utilità,
ancorché illegittima o inefficace o comunque non seguita dal completamento
della procedura.
Costituisce al
riguardo ius receptum,
cui questo Collegio intende fare riferimento, quello in
forza del quale rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la
richiesta risarcitoria il cui presupposto sia la trasformazione del fondo in
assenza di un atto autoritativo formale ovvero in forza di un mero
comportamento materiale, non collegato, cioè, all’esercizio, pur se
illegittimo, del relativo potere
(al riguardo v. Corte cost., n. 191 del 2006; Cass. civ., sez. un., n. 23462
del 2016; Cons. Stato, A.P., nn. 10 e 12 del 2007).
Quanto detto è da estendere anche alla richiesta
risarcitoria per il danno arrecato dalla realizzazione della strada
insistente sul mappale 53 in maniera difforme rispetto alle previsioni del
Piano regolatore generale, sì da impedire la realizzazione per i terreni
residui di interesse dei ricorrenti dei previsti sei lotti edificabili di
circa mq. 700 cadauno. Essa, infatti, attiene alla sostanziale perdita di
valore della porzione residua derivata da una più ampia ablazione, che
finanche in caso di illegittimità solo formale della stessa è egualmente da
ricondurre all’ambito di competenza del giudice ordinario
(v. ex multis Cass., SS.UU., n. 2721 del 2018).
L’eventuale abusività della realizzazione delle opere,
quale parrebbe emergere proprio dalla ricostruzione della difesa civica, che
ne disconosce la paternità, senza tuttavia indicare il titolo di natura
urbanistico-edilizia, in forza delle quali esse sarebbero state realizzate
da privati, attiene alla fase dei controlli, peraltro doverosi, facenti capo
al Comune ai sensi dell’art. 27 del d.P.R. n. 380/2001, ma non rileva ai
fini dell’odierna controversia.
7. Da quanto detto consegue la reiezione dei motivi di appello rubricati
come secondo e terzo e la conseguente conferma della sentenza impugnata
nella parte in cui afferma il difetto di giurisdizione con riferimento ai
terreni in atti meglio identificati.
Consegue altresì la declaratoria di improcedibilità per sopravvenuta carenza
di interesse dell’autonomo motivo di doglianza incidentalmente prospettato
dal Comune di Africo inerente, appunto, il richiesto riconoscimento del
proprio difetto di legittimazione passiva con riferimento agli stessi, da
stralciare dal perimetro della decisione.
8. Circoscritto come sopra il petitum che ci occupa in via residuale,
può passarsi ad esaminare la assai più complessa questione della
disconosciuta legitimatio ad causam. Afferma dunque il giudice di
prime cure che nel caso di specie la mancata prova della proprietà dei lotti
occupati dal Comune, renderebbe irrilevante la qualifica di livellari
posseduta dai ricorrenti e risultante dalle visure catastali.
Ritiene il Collegio che l’assunto, condivisibile nelle premesse, non lo è
nelle conseguenze, dovendo pertanto trovare accoglimento la doglianza di
parte che, nella denegata ipotesi confermativa della mancata affrancazione
dal livello ope legis, chiede di dare rilievo allo stesso quale
titolo di legittimazione ad agire.
Se da un lato, dunque, non può essere bastevole al riconoscimento della
piena proprietà la produzione di una dichiarazione unilaterale, resa
peraltro “ai soli fini catastali”, dall’altro anche lo status
di livellario consente di agire a tutela dei propri diritti, indebitamente
lesi da un illegittimo procedimento di esproprio.
La l. 29.01.1974, n. 16, infatti, successivamente abrogata dall’art. 24 del
d.l. 25.06.2008, n. 112, convertito, con modificazioni dalla l. 06.08.2008,
n. 133, vigente ratione temporis ed invocata dagli appellanti, ha
previsto la cancellazione del livello in caso di omesso versamento per oltre
un ventennio di un canone inferiore a £. 1.000,00, ove il rapporto tra le
parti fosse stato costituito anteriormente al 28.10.1941, con la chiara
finalità di eliminare per ragioni di antieconomicità diritti perpetui di
contenuto spesso anacronistico. Essa tuttavia si riferisce dichiaratamente
alle sole Amministrazioni e Aziende autonome dello Stato, e non può trovare
applicazione, come correttamente affermato dal TAR per la Calabria, ad altri
enti territoriali, quali un Comune, siccome le parti pretenderebbero nel
caso di specie.
Ciò del resto ha trovato da subito conferma nelle indicazioni della
magistratura contabile, laddove, esprimendosi su specifico quesito (Corte
dei conti, sez. regionale controllo della Campania, parere n. 18 del
18.05.2006), si è fatto leva sia sulla richiamata lettera della legge, sia
sulla volontà del legislatore, per come emerge dai, pur scarni, riferimenti
contenuti in proposito negli atti parlamentari (atto Senato della Repubblica
n. 365; atto Camera dei Deputati n. 2460, della IV legislatura).
D’altro canto, è evidente che la richiamata procedura di affrancazione non
può operare in automatico e sulla base di una mera dichiarazione di parte,
dovendo essere collocata nella complessa cornice normativa in materia di
diritti reali di godimento, tra i quali rientrano anche i livelli e
l’enfiteusi, la cui antica origine e larga diffusione nel passato, non trova
più riscontro nel mutato quadro economico-sociale, rendendo di sicuro
interesse, ma intuibile complessità l’immediata risoluzione di tutti i
possibili risvolti di ciascuna singola vicenda ad essi riconducibile.
Essa presuppone comunque un accertamento giudiziale, ovvero convenzionale
del titolo, tanto più che la mera indicazione catastale non consente, ad
esempio, di rilevarne l’eventuale derivazione da usi civici, secondo l’ancor
più risalente disciplina contenuta nel r.d. 16.06.1927, n. 1766 e relativo
regolamento di esecuzione r.d. 26.02.1928, n. 332. Circostanza questa che il
Comune di Africo ha manifestato l’intenzione di accertare, seppure
tardivamente, ricorrendo all’apposito procedimento di verifica di cui alla
l.r. n. 18/2007.
In sintesi, come peraltro affermato dal giudice di prime cure, il sistema di
norme dettate in prevalenza per l’enfiteusi, ma di fatto estendibili anche
ai livelli, «contempla una precisa procedura giudiziale per la
proposizione della domanda di affrancazione […] che esplica effetti
costitutivi, che non può essere sostituita da una dichiarazione unilaterale
a soli fini catastali, quale quella che parte ricorrente ha prodotto in atti».
8.1. Escluso, dunque, che possa ritenersi provata l’affrancazione dal
livello e l’acquisizione della piena proprietà da parte dei ricorrenti, al
pari, del resto, di quanto da essi genericamente preteso in termini di
usucapione, resta acclarato e incontestata tra le parti l’esistenza del
livello stesso su concessione del medesimo Comune di Africo.
Il fatto, poi, che ciò si fosse tradotto in un uso esclusivo e assimilabile
alla proprietà da parte dei ricorrenti è in qualche modo dimostrato dal
comportamento tenuto dall’amministrazione medesima, che ha scelto di
formalizzare una procedura di esproprio, poi indebitamente interrotta. Pur
non essendo, infatti, stata precisata l’esatta natura degli atti adottati,
ricondotti genericamente a “consegna” e/o ultimazione di lavori, la
formalizzazione degli stessi -incontestata tra le parti e dunque ormai
assurta a forza di giudicato- ha fondato l’affermazione della giurisdizione
del giudice amministrativo per i terreni cui gli stessi si riferiscono, «trattandosi
di controversia nella quale si controverte intorno alla esecuzione di atti o
provvedimenti amministrativi riconducibili, secondo la loro causa,
all’esercizio del pubblico potere dell’amministrazione».
9. Il TAR per la Calabria, traendo argomenti anche da -in verità superate-
pronunce di questo giudice, acquisita la circostanza dell’esistenza del “livello”,
la ha tuttavia ritenuta insufficiente a fondare un’azione di tipo
risarcitorio per la relativa occupazione sine titulo.
La difesa
civica, dal canto suo, nel controdedurre alla prospettazione avversa, non ha
inteso contestare tale peculiare rapporto con i fondi occupati, limitandosi
a negare la possibilità che il giudice, una volta adìto da sedicenti
proprietari, possa scrutinarne le pretese mutandone il titolo di
legittimazione.
Il Collegio non ritiene corretta nessuna delle due affermazioni.
9.1.
La legittimazione a ricorrere, ovvero il titolo o possibilità giuridica
dell’azione, discende da qualsivoglia speciale posizione qualificata del
soggetto che lo distingue dal quisque de populo rispetto
all’esercizio del potere amministrativo. Essa assume evidentemente un
aspetto del tutto particolare nell’azione di condanna, basata sulla invocata
sussistenza del diritto di credito (che esiste se sussistono i presupposti
dell’art. 2043 c.c. in relazione alla sfera giuridico-patrimoniale di un
determinato soggetto).
Secondo la giurisprudenza consolidata della Corte di
legittimità (cfr. ex plurimis Cass. n. 14468 del 2008),
ridetta
legitimatio ad causam, attiva e passiva, consiste nella affermazione
della titolarità del potere e del dovere di promuovere o subire un giudizio
in ordine al rapporto sostanziale dedotto in causa, mediante la
rappresentazione di fatti in astratto idonei a fondare il diritto azionato,
secondo la prospettazione dell’attore, prescindendo dall’effettiva
titolarità del rapporto (che costituisce questione di merito).
A ciò consegue il dovere del giudice di verificarne l’esistenza in ogni
stato e grado del procedimento
(cfr. Cass. civ., Sez. un., 16.02.2016, n.
2951 secondo cui,
da un lato, «la titolarità della posizione soggettiva,
attiva o passiva, vantata in giudizio è un elemento costitutivo della
domanda e spetta all’attore allegarla e provarla, salvo che il convenuto non
la riconosca o svolga difese incompatibili con la sua negazione»;
dall’altro, «la carenza di titolarità, attiva o passiva, del rapporto
controverso è rilevabile di ufficio dal giudice se risultante dagli atti di
causa»).
Va tuttavia considerato l’altrettanto consolidato indirizzo della Corte di
cassazione, secondo il quale «nel giudizio di risarcimento dei danni
derivati ad un bene immobile da un illecito comportamento del convenuto,
atteso che oggetto della pretesa azionata è, non già il diretto e rigoroso
accertamento della proprietà del fondo, bensì l'individuazione del titolare
del bene avente diritto al risarcimento, non è richiesta la prova rigorosa
della proprietà (cd. probatio diabolica), potendo il convincimento del
giudice in ordine alla legittimazione alla pretesa risarcitoria formarsi
sulla base di qualsiasi elemento documentale e presuntivo sufficiente ad
escludere un'erronea destinazione del pagamento dovuto» (da ultimo,
Cass. n. 18841 del 2016).
Principio che è stato affermato anche in riferimento specifico alla
occupazione da parte della Pubblica Amministrazione
(Cass. n. 10294 del
2002; id., n. 7904 del 2012).
10. Traslando tali affermazioni paradigmatiche nella disamina concreta della
fattispecie all’esame, va ricordato come
secondo la prevalente
interpretazione giurisprudenziale, dalla quale non v’è motivo per
discostarsi,
la legittimazione ad agire contro una procedura espropriativa
spetta sia ai proprietari dei terreni colpiti che a tutti gli altri soggetti
titolari di un interesse qualificato ad essi ricollegabile, che deve essere
provato sulla base di un titolo giuridico
(cfr. Consiglio di stato, Sez. IV,
18.06.2008, n. 3033).
Ai fini della sussistenza della legittimazione attiva all’impugnazione degli
atti di una procedura ablativa, cioè, non è ritenuto essenziale che la
relazione giuridica col bene immobile sia costituita dal diritto di
proprietà, ma è sufficiente l’esistenza di un diritto reale o personale di
godimento su cosa altrui, ossia comunque una relazione giuridica qualificata
con il bene oggetto del provvedimento ablativo, tale da identificare una
posizione giuridica soggettiva individualizzata e specifica che connoti un
interesse all’annullamento dell’atto ablativo
(cfr. Cons. Stato sez. IV,
06.04.2012, n. 2050; per questione specificamente relativa alla posizione
legittimante del c.d. livellario, ancorché negandosi che l’Amministrazione
sia tenuta a notificargli avvisi e comunicazioni, assieme o in luogo del
concedente, v. anche Cons. Stato, sez. IV, 16.09.2011, n. 5233, che conferma
TAR per la Campania, Salerno, 26.02.2009, n. 669, al cui orientamento si è
richiamato anche TAR per il Lazio, sez. II-bis, 29.07.2010, n. 29121).
La titolarità in capo ai ricorrenti di una “concessione livellaria”
consente di riconoscere loro una posizione giuridica qualificata azionabile
in giudizio parificabile a quella del titolare di un diritto di enfiteusi.
Ciò non può non valere anche in caso di azioni meramente risarcitorie o
restitutorie, nel limitato ambito di ammissibilità delle stesse alla luce
dei principi affermati di recente dalle richiamate pronunce dell’Adunanza
plenaria.
Quanto detto rende pertanto irrilevante la prova della proprietà piena dei
terreni ai fini della riconosciuta legittimazione, impattando la stessa
casomai sul quantum della richiesta, ma non sull’an. In
sintesi, la circostanza che, diversamente da quanto affermato dal primo
giudice,
l’atto di una procedura espropriativa -e conseguentemente i
comportamenti interni alla stessa suscettibili di ledere posizioni
giuridiche- possa essere impugnato anche da un livellario, rende neutra ai
fini del riconoscimento della legittimazione la prova della precisa
qualificazione dello status di riferimento, purché quantomeno uno dei due
sia dimostrato come sussistente.
Non merita pertanto accoglimento l’eccezione sollevata dall’Amministrazione
comunale, in forza della quale l’aver agito rivendicando il diritto al
risarcimento quali proprietari escluderebbe la possibilità che l’istanza
venga valutata con riferimento alla titolarità di altri diritti, seppure
sussistenti. In presenza, infatti, di oggettivi elementi che comprovano
l’effettiva titolarità -o quanto meno la disponibilità giuridicamente
qualificata- dei terreni da parte dei ricorrenti, non è degna di pregio
l’argomentazione circa la non piena corrispondenza tra le situazioni
giuridiche rappresentate e quelle concretamente emerse, laddove queste
ultime siano comunque tutelate dalla norma. L’involucro giuridico
all’interno del quale è stata prospettata la richiesta risarcitoria, seppure
errato, non ne preclude infatti la ricollocazione in altra veste, laddove
incontestata tra le parti e rilevante a fini (anche) risarcitori. La
verifica della legittimazione attiva, peraltro, può avvenire anche
d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, secondo la legge che regola
il rapporto dedotto, salvo che sulla questione sia intervenuto giudicato
interno.
11.
L’art. 34, comma 1, del D.P.R. n. 327/2001, sotto la rubrica “indennità
di esproprio”, prevede espressamente che essa spetti sia al proprietario
che all’enfiteuta, ove possessore del bene immobile, con ciò ritenendo di
particolare incisività rispetto al bene il rapporto intercorrente fra il
titolare di tale diritto di godimento e il terreno oggetto della procedura.
Per contro, la titolarità di qualsivoglia diritto reale o personale di
godimento sul bene (ultimo comma della medesima norma) non dà diritto ad
indennità aggiuntive, ma si risolve sul piano dei rapporti con la proprietà,
la tutela della pienezza del ristoro della quale è rafforzata dalla
riconosciuta possibilità di proporre l’opposizione alla stima, ovvero di
partecipare al giudizio già instaurato allo scopo.
In sintesi, sotto il profilo del procedimento espropriativo e del diritto
all’indennità di esproprio, il T.U.es. considera l’enfiteuta, unico fra i
titolari di diritto reale di godimento, sullo stesso piano del concedente
proprietario, col quale è destinato a concorrere alla percezione
dell’indennità in ragione del valore attribuibile ai relativi diritti
(cfr.
TAR Sicilia-Catania, Sez. III, 21.11.2013, n. 2801).
12.
Il “livello” o “precario” (che mutua il suo nome da
libellus, vale a dire dal documento, in cui si consacrava il contratto,
costituente il rapporto), è un istituto giuridico utilizzato in epoca
imperiale e diffusissimo fino al 1800.
Privo di una propria configurazione
normativa, esso differiva dal censo perché, dei vari obblighi gravanti sul
livellario, nel censo non vi era che quello del pagamento di un tenue
canone; il livello, inoltre, ampiamente usato nel Medioevo soprattutto fra
privati e chiese, si configurava originariamente come una vendita per un
certo termine, allo scadere del quale il contratto si poteva rinnovare
versando nuovamente il corrispettivo (detto esso stesso livello, o anche “pensio”,
censo), mentre alla morte del livellario la piena proprietà tornava alla
Chiesa concedente.
Il livello finì per confondersi e unificarsi
completamente con l’enfiteusi –e così il corrispettivo del livello, col
canone di questa– già prima delle codificazioni moderne (lo stesso dicasi
per le norme sul diritto di prelazione, sui laudemi, ecc.), fino alla
sostanziale affermazione legislativa della applicabilità allo stesso delle
norme di cui agli artt. 957 ss., c.c.
Emerge, quindi, un primo dato di fatto, vale a dire che, secondo un’esegesi
di tipo storico-sistematico, il livello è un diritto reale, assimilabile
all’enfiteusi, con la conseguenza che è alla disciplina di quest’istituto
che occorre far riferimento, per la soluzione del problema che ci occupa.
12.1.
Proprio a causa, infatti, della commistione o confusione,
determinatasi già sul finire del Medioevo tra i termini di livello e di
enfiteusi, fin dal codice civile del 1865 tali contratti agrari sono
rientrati in una tendenza legislativa volta all’accorpamento disciplinare
degli istituti a vantaggio dell’enfiteusi.
Tale tendenza ha avuto il suo culmine con le leggi 22.07.1966, n. 607 e
18.12.1970, n. 1138, non a caso evocate quale “cornice di sistema”
anche nell’apprezzabile ricostruzione operata dal giudice di prime cure. In
verità queste ultime due leggi tentarono di assoggettare alle regole
dell’enfiteusi anche altri tipi di contratti o rapporti di concessione
fondiaria: dapprima quella del 1966, con riferimento ai contratti aventi
contenuto e caratteri analoghi o affini a quelli tipici del rapporto
enfiteutico e poi la successiva del 1970, estesero infatti l’applicabilità
della enfiteusi a quasi tutti gli altri tipi di contratti agrari con
clausola migliorativa (elemento questo la cui mancanza aveva costituito in
passato uno dei possibili fattori di distinzione tra le due situazioni).
L’obiettivo era quello di favorire gli enfiteuti o concessionari di fondi
rustici per motivi di ordine economico-sociale, agevolando l’affrancazione
con più convenienti criteri di determinazione dei canoni e dei capitali
d’affranco e con più rapide e sommarie forme di procedimento. Sebbene dunque
alcune parti o articoli delle leggi menzionate furono oggetto di
declaratoria d’illegittimità ad opera della Corte Costituzionale
(sentenze
n. 37 del 1969 e n. 53 del 1974),
gli interventi legislativi de quibus hanno
comunque prodotto una sempre maggiore confusione tra questi rapporti agrari.
Da qui anche la necessità, talvolta, proprio ai fini di valutare l’impatto
su eventuali vincoli di inedificabilità, di individuare nella fonte del
livello la tipologia ed intensità dello stesso, distinguendosi quelli cc.dd.
alloidali in quanto connotati da un rapporto meramente obbligatorio,
parificabile alla piena proprietà privata del bene, proveniente dalla
sdemanializzazione (sistemazione) di terre civiche (proprietà collettive)
gravate da un canone (demaniale) di natura enfiteutica imposto con vari
istituti normativamente previsti. In tali ipotesi, la demanialità si è cioè
trasferita dal bene civico al canone “di natura enfiteutica” il cui
capitale di affrancazione è imprescrittibile in quanto destinato alla
collettività per opere che vadano a compensare la perdita del valore
dell’area demaniale civica perduta (ai sensi dell’art. 24 della l. n.
1766/1927).
La evidente mancanza di chiarezza sulla genesi giuridica del livello in
controversia, che il Comune di Africo tenta di fare entrare tardivamente
nella controversia richiamando la propria volontà di verificare la
preesistenza di usi civici attiene agli esiti, futuri e incerti, oltre che
eventuali, di ulteriore contenzioso. Se ne è doverosamente fatto cenno in
questa sede al solo scopo di evidenziare gli aspetti ancora chiaroscurali
della vicenda tra le parti, e tuttavia i punti fermi allo stato della
controversia, riconducibili alla sussistenza di un livello a favore del
medesimo Comune, come tale assimilabile ad un’enfiteusi, sufficiente a
legittimare la richiesta risarcitoria per l’occupazione finalizzata alla
realizzazione di opere pubbliche pregiudizievoli della fruizione dello
stesso.
13.
Il riconoscimento, in favore del livellario, del diritto a ricorrere
avverso gli atti ablativi costituisce un risultato, cui può pervenirsi solo
per via interpretativa, in considerazione dei penetranti poteri che lo
stesso, com’è innegabile, esercita sul fondo (al pari dell’enfiteuta): ciò,
peraltro, non esclude, ed anzi necessariamente implica, che tale potere (di
gravare gli atti espropriativi) debba esser riconosciuto, in primis,
al concedente del diritto (di cd. “precario”), che è, e resta,
proprietario, fino all’affrancazione (com’è, e resta, proprietario, fino
all’affrancazione, il concedente nell’enfiteusi).
Da ultimo, peraltro, tale assimilazione è stata da sempre ribadita dai
giudici di legittimità laddove hanno evidenziato i punti di contatto tra le
due posizioni giuridiche sul piano concettuale e sistematico nella
tendenziale perpetuità del rapporto (tanto che si parla anche, appunto, di
locazione perpetua) e nella possibilità di sfruttamento del terreno in tutto
assimilabile a quella del proprietario
(cfr. Cass. Civ.,sez. I, 09.01.2020,
n. 213).
La differenza tra i due istituti, pertanto, appare spesso più teorica che
pratica: la confusione spesso sorta rispetto al diverso fenomeno
dell’affrancazione dei terreni, gravati da usi civici, oltre ad essere in
contrasto con il dato letterale (una cosa sono, evidentemente, gli usi
civici, un’altra è il cd. “livello” o “precario”), è
palesemente smentita dalla storia del cd. “precario”, tale da
patrocinare l’assimilazione del medesimo all’enfiteusi, salvo situazioni
specifiche di cui si è fatto cenno.
14.
Sulla materia dell’occupazione sine titulo, come già ricordato
più volte, sono di recente intervenute importanti pronunce dell’Adunanza
plenaria che hanno posto imprescindibili punti fermi, ai quali occorre fare
riferimento anche per risolvere l’odierna controversia.
In particolare
si è chiarito come non possa trovare spazio nel nostro
ordinamento un istituto quale la rinuncia abdicativa alla proprietà,
tendenzialmente identificata nell’avvenuta proposizione di un’azione
risarcitoria per equivalente da parte del proprietario i cui terreni siano
stati indebitamente occupati. Risulta infatti ormai acquisita
l’incompatibilità con la tipicità che caratterizza il procedimento di
espropriazione, di meccanismi atipici di acquisizione della proprietà
riconducibili al paradigma dell’occupazione acquisitiva o usurpativa, cui
può corrispondere, dalla parte del soggetto che la subisce, la rinuncia
traslativa o abdicativa. Da qui la tendenziale inammissibilità di una
domanda di parte avente contenuto solo risarcitorio, il cui disconosciuto
valore di rinuncia implica la permanenza dell’illecito sotteso alla relativa
richiesta.
A fronte, dunque, della natura permanente dell’illecito concretizzatosi
nell’avvio in fatto o in diritto di una procedura di esproprio senza
formalizzarne l’atto finale, si è rivitalizzata l’importanza che ridetto
atto intervenga comunque, sanando, ancorché pro futuro, la situazione e
facendo coincidere lo stato di fatto con quello di diritto.
15. Con riferimento, tuttavia, alle ipotetiche conseguenze di tali
affermazioni anche sui giudizi in corso, il giudice della Plenaria ha
opportunamente richiamato l’adeguato “strumentario” messo a
disposizione dall’ordinamento processuale amministrativo per evitare che le
domande proposte in primo grado, congruenti con quello che allora appariva
il vigente quadro normativo e l’orientamento giurisprudenziale di
riferimento assurto a diritto vivente, siano di ostacolo alla formulazione
di istanze di tutela adeguate al diverso contesto normativo e
giurisprudenziale vigente al momento della decisione della causa in appello,
quali la conversione della domanda, ove ne ricorrano le condizioni, la
rimessione in termini per errore scusabile ai sensi dell’art. 37 c.p.a.,
l’invito alla precisazione della domanda in relazione al definito quadro
giurisprudenziale, in tutti i casi previa sottoposizione della relativa
questione processuale, in ipotesi rilevata d’ufficio, al contraddittorio
delle parti ex art. 73, comma 3, c.p.a., a garanzia del diritto di difesa di
tutte le parti processuali.
Ciò è quanto accaduto nel caso di specie, laddove, a fronte del possibile
impatto su un’insistita richiesta solo risarcitoria dei principi affermati
dall’Adunanza plenaria, gli appellanti hanno riqualificato la propria
originaria domanda, richiedendo espressamente l’intimazione al Comune di
Africo di provvedere ai sensi dell’art. 42-bis del T.U.es., già
infruttuosamente invocato in via stragiudiziale. Sul punto, la difesa civica
oppone la sostanziale inapplicabilità della disposizione ad una posizione
giuridica diversa dalla proprietà.
16. Il Collegio non condivide la prospettazione del Comune di Africo,
ritenendo conforme alla sistematica della normativa, come sopra ricostruita,
una diversa opzione ermeneutica, ispirata ai principi di certezza delle
situazioni giuridiche poste a base della codifica del relativo principio una
volta venuta meno la previsione dell’acquisizione sanante di cui all’art. 43
del medesimo T.U.es. a seguito della sua declaratoria di illegittimità
costituzionale (Corte cost., n. 193 del 04.10.2010).
In punto di diritto, va infatti ricordato in termini generali come
l’occupazione abusiva di un immobile, quale situazione nella quale rientra
qualsiasi situazione originaria (apprensione del bene diretta da parte della
P.A., senza alcuna previa attivazione di procedure ablatorie) o sopravvenuta
(a seguito di declaratoria di illegittimità di procedure espropriative,
ovvero di inefficacia delle stesse) di acquisizione della disponibilità
materiale di immobili da parte della mano pubblica, in passato ricondotte
alla dizione di “vie di fatto”, “occupazione usurpativa”, “occupazione
acquisitiva”, “accessione invertita”, costituisce un illecito
permanente rientrante nel genus dell’art. 2043 c.c.
La cessazione di ridetta permanenza consegue a specifici fatti o atti
giuridici, tra i quali la restituzione del fondo al legittimo proprietario,
la stipula di un accordo transattivo con effetti traslativi del diritto di
proprietà in capo all’amministrazione agente, il maturare dell’usucapione a
condizioni date, ovvero l’adozione del provvedimento oggi previsto dall’art.
42-bis del T.U.es.
17.
L’art. 42-bis del d.P.R. n. 327/2001, pur essendo rubricato in termini
generali “utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse
pubblico”, declina alla lettera l’acquisizione al patrimonio
indisponibile dello stesso e la corresponsione “al proprietario”
dell’indennizzo per il danno subito, quantificato nel 10% del valore venale
del bene. Nei commi successivi si preoccupa altresì di indicare i criteri
alla stregua dei quali calcolare il ristoro, pure parificato ad indennizzo
malgrado l’improprio riferimento lessicale alla funzione risarcitoria, per
la precedente occupazione sine titulo.
Ritiene la Sezione che
il combinato disposto di tale disposizione con la
previsione della titolarità del diritto all’indennizzo anche per l’enfiteuta
-e dunque, mutatis mutandis, per il livellario- non possa non imporre
all’Amministrazione procedente di attivarsi per concludere il procedimento
avviato, acquisendo o restituendo il bene, previa rimessione in pristino,
all’esito di motivata valutazione comparativa degli interessi in gioco,
siccome ben chiarito dalle più volte ricordate pronunce della Plenaria.
19. Nel caso di specie, tuttavia, l’ulteriore peculiarità è data dal fatto
che sedicente concedente il diritto di livello è lo stesso Comune che
dovrebbe acquisirne la proprietà. Il che rende all’apparenza ontologicamente
incompatibile qualsivoglia ipotesi acquisitiva di quanto in realtà già nella
disponibilità dell’Ente procedente.
Ritiene tuttavia il Collegio che siffatta ricostruzione comporterebbe
un’indebita discriminazione tra l’ipotesi in cui il fondo sia gravato da
enfiteusi o livello a favore di un privato o di un ente diverso da quello
che agisce per l’esproprio e quella in cui, al contrario, concedente ed
espropriante -rectius, nella prima fase, occupante- coincidano.
Lasciare tale situazione priva di qualsivoglia forma di tutela equivarrebbe
a consentire al concedente di disporre del proprio bene prescindendo
dall’esistenza di un diritto reale sullo stesso, addirittura trasformandolo
irreversibilmente sì da renderlo inutilizzabile ai fini posti a base
dell’originario rapporto tra le parti.
E’ evidente invece che la tutela accordata allo stesso, ove si identifichi
nell’enfiteusi ovvero, per quanto chiarito, in un livello, non può non
estendersi fino alla pretesa che le opzioni gestionali funzionali alla
realizzazione dell’opera pubblica vengano tradotte nei corrispondenti
provvedimenti amministrativi, superando situazioni di illegittimità e
incertezza. Del resto, ove l’esistenza di un penetrante diritto di godimento
altrui si fosse palesato neutro rispetto ai poteri dispositivi sul bene, non
si spiega l’avvenuta attivazione della procedura di esproprio, evidentemente
finalizzata alla caducazione dello stesso e al rientro nella piena proprietà
per finalità di interesse pubblico.
20. Se così è, appare evidente la necessità che il Comune di Africo si
determini formalmente sui terreni in controversia con riferimento ai quali
ha agito a fini di esproprio, provvedendo ad “acquisirli”,
intendendosi necessariamente con tale espressione la formale cancellazione
del livello, ove le necessiti la permanenza dell’opera pubblica realizzata
sui terreni gravati dallo stesso; ovvero a “restituirli” alla
relativa fruizione, senza che ciò impatti sul regime proprietario.
21. Quanto infine alla rivendicata usucapione da parte della difesa civica,
essa non è in alcun modo
assentibile, stante che affinché essa operi si è da sempre ritenuto
necessario il carattere non violento della condotta, l’individuazione del
momento esatto della interversio possessionis, nonché il computo
della prescrizione acquisitiva dalla data di entrata in vigore del T.U.es.
(30.06.2003), perché solo l’art. 43 dello stesso ha sancito il superamento
dell’istituto dell’occupazione acquisitiva e, dunque, solo da quel momento
può ritenersi individuato, ex art. 2935 c.c., il “giorno in cui il
diritto può essere fatto valere” (cfr. C.g.a. n. 255/2019; Cons. Stato,
A.P., n. 2 del 2016). Circostanze queste non ravvisabili nel caso di specie.
22. Concludendo, il Collegio ritiene pertanto che l’appello debba essere
respinto, confermando il difetto di giurisdizione, avuto riguardo ai terreni
occupati al di fuori di qualsivoglia procedura ablatoria, individuati dal
giudice di prime cure con le lettere C), D) e E), riferita quest’ultima
anche alla richiesta risarcitoria per la perdita di valore di area residua;
lo accoglie, nei limiti della necessità che si addivenga ad acquisizione o
restituzione, per le ulteriori porzioni, nell’accezione poc’anzi meglio
precisata.
Pertanto, ai sensi dell’art. 34, primo comma, lett. c), c.p.a., il Collegio,
anche allo scopo di porre termine ad una controversia ormai risalente negli
anni, ritiene opportuno disporre che il Comune di Africo addivenga ad un
accordo sostitutivo di provvedimento entro centoventi giorni dalla
comunicazione o dalla notificazione della sentenza, comprensivo della
quantificazione delle voci di ristoro riconosciute di spettanza degli
appellanti, corrispondenti a quanto dovuto per equivalente ovvero
all’indennizzo per il periodo di occupazione successivo alla scadenza degli
atti in forza dei quali è stata effettuata l’immissione in possesso; in caso
di decorrenza infruttuosa di tale termine, emetta, nei successivi sessanta
giorni, un formale e motivato decreto di acquisizione dell’area, secondo i
dettami rivenienti dall’art. 42-bis T.U.es. o ne disponga la restituzione,
quantificando da subito in termini temporali ed economici le scansioni della
necessaria riduzione in pristino dello stato dei luoghi.
Val la pena ricordare come nella quantificazione delle somme dovute ex art.
42-bis T.U.es., l’Amministrazione dovrà necessariamente calcolare un
indennizzo pari al valore venale della parte di terreni occupati poi oggetto
del provvedimento di acquisizione al momento di adozione di quest’ultimo. A
ciò si aggiunge il risarcimento per l’occupazione illegittima, nella misura
dell’interesse del 5% sul valore venale del terreno occupato al momento
dell’adozione del provvedimento di acquisizione (art. 42-bis, terzo comma).
All’inutile decorso di ciascuno dei termini come sopra indicati, a tanto
provvederà, nella qualità di Commissario ad acta, il Prefetto di
Reggio Calabria, il quale, anche avvalendosi di personale dell’Ufficio
Territoriale del Governo al quale è preposto, appositamente delegato,
adotterà -in luogo dell’Amministrazione intimata- le determinazioni
necessarie al fine di dare compiuta esecuzione a quanto stabilito nella
presente pronunzia.
Il Collegio fa presente che qualsiasi controversia che dovesse nuovamente
insorgere sulla determinazione o sul pagamento dell’indennità di esproprio è
appannaggio della giurisdizione del giudice ordinario (Cass. civ., sez. un.,
n. 4880 del 2019; 02.02.2018, n. 2583; Cons. Stato, sez. IV, 25.02.2019, n.
1272).
Ciò a valere anche per quelle aventi ad oggetto l’interesse del cinque per
cento del valore venale del bene, dovuto per il periodo di occupazione senza
titolo dei terreni successivamente acquisiti, siccome previsto dal comma 3,
ultima parte, di detto articolo, «a titolo di risarcimento del danno»,
giacché esso, ad onta del tenore letterale della norma, costituisce solo una
voce del complessivo «indennizzo per il pregiudizio patrimoniale» di cui
al comma 1 della medesima norma, secondo un'interpretazione imposta dalla
necessità di salvaguardare il principio costituzionale di concentrazione
della tutela giurisdizionale avverso i provvedimenti ablatori; dette
controversie sono devolute alla competenza, in unico grado, della Corte di
appello (Cons. Stato, sez. IV , 29.09.2017, n. 4550 del 2017; Cass. civ.,
sez. un., 25.07.2016, n. 15283; id., ord. 29.10.2015, n. 22096)
(Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 09.11.2020 n. 6863 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: All’Adunanza
plenaria questioni connesse al giudicato civile di rigetto
della domanda di risarcimento del danno per l’equivalente
del valore di mercato del bene illegittimamente occupato.
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Espropriazione per pubblica utilità – Occupazione
acquisitiva - Risarcimento del danno - Equivalente del
valore di mercato del bene illegittimamente occupato -
Giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento
del danno – Rimessione alla Adunanza plenaria di questioni
connesse.
Sono rimesse all’Adunanza plenaria del Consiglio di
Stato le questioni:
a) se -in caso di occupazione illegittima, a fronte di un giudicato
civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno
per l’equivalente del valore di mercato del bene
illegittimamente occupato, formatosi con una sentenza emessa
quando vi era la prassi nazionale che dava rilievo alla
‘occupazione appropriativa’ o ‘accessione invertita’- sia
precluso l’esercizio attuale dell’azione di risarcimento del
danno in forma specifica attraverso il rilascio dei terreni,
previa rimessione in pristino;
b) in caso positivo, se l’effetto preclusivo derivante dal
giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento
del danno, per l’equivalente del valore di mercato del bene
illegittimamente occupato, sia subordinato alla sussistenza
in tale pronuncia (e nel dispositivo) della formale, chiara
e univoca statuizione costitutiva sul trasferimento del bene
in favore dell’Amministrazione in base alla ‘occupazione
appropriativa’ ovvero se a tali fini sia sufficiente che –in
motivazione- la pronuncia abbia unicamente (eventualmente
anche per implicito) fatto riferimento a tale istituto per
giungere al rigetto della domanda risarcitoria;
c) come possa influire sull’esito del giudizio il principio per il
quale –nel caso di occupazione senza titolo del terreno
occupato dall’Amministrazione– si applica sul piano
sostanziale l’art. 42-bis del testo unico sugli espropri,
con la conseguente possibilità ormai riconosciuta dalla
giurisprudenza di disporre la conversione della domanda nel
corso del giudizio, e dunque di ritenere ammissibile il
rimedio di tutela da esso previsto, basato sulla diversità
della causa petendi e del petitum (riferibili a posizioni di
interesse legittimo correlativo al potere di acquisizione)
rispetto alle domande di risarcimento o di restituzione
(riferibili alla tutela del diritto di proprietà in quanto
tale);
d) per il caso in cui ritenga che gli appellanti sono ancora
proprietari del bene (aventi pertanto titolo a chiedere
l’emanazione del provvedimento discrezionale previsto
dall’art. 42-bis del testo unico sugli espropri), se –nel
caso di emanazione dell’atto di acquisizione– l’Autorità
debba disporre unicamente il pagamento del controvalore del
terreno e non anche ulteriori importi a titolo di
risarcimento del danno, in considerazione del giudicato
civile, che a suo tempo ha respinto la domanda risarcitoria
(sia pure per equivalente) (1).
---------------
(1) Ha chiarito la Sezione che ai fini dell’inquadramento della
questione ed in particolare con l’obiettivo di valutare se
nel caso di specie la proposizione della domanda
restitutoria successivamente alla formazione del giudicato
sulla domanda di risarcimento per equivalente integri o meno
una violazione dell’art. 2909 c.c., va ricostruito il
rapporto tra gli istituti del risarcimento in forma
specifica e del risarcimento per equivalente.
Al riguardo, la giurisprudenza suole costantemente
riconoscere l’esistenza di una relazione di continenza del
secondo nel primo, ritenendo che la seconda domanda
costituisca un minus rispetto alla prima, al punto che:
a) mentre costituisce certamente domanda nuova quella volta ad
ottenere il risarcimento in forma specifica rispetto alla
domanda proposta di risarcimento per equivalente, viceversa
la richiesta di risarcimento del danno per equivalente
costituisce mera modificazione (“emendatio”), e non
mutamento (“mutatio”), della domanda di
reintegrazione in forma specifica, dovendosi la prima
ritenere già compresa nella seconda (cfr. da ultimo Cass.
civ., sez. VI, 16.05.2017, n. 12168).
Ne consegue che la domanda risarcitoria per equivalente,
proposta in via alternativa a quella risarcitoria in forma
specifica, non è incompatibile con quest’ultima, proprio
perché è già contenuta in essa;
b) in tema di danni, rientra nei poteri discrezionali del giudice
del merito attribuire al danneggiato il risarcimento per
equivalente anziché quello in forma specifica come domandato
dall’attore in forza di quanto previsto dall’art. 2058,
comma secondo, c.c. e ciò proprio perché il risarcimento per
equivalente costituisce un minus rispetto al
risarcimento in forma specifica e, quindi, la relativa
richiesta è implicita nella richiesta di risarcimento in
quest'ultima forma, per cui il giudice può condannare
d’ufficio al risarcimento per equivalente senza violare
l’art. 112 c.p.c.; per contro non è consentito al giudice,
senza violare l'art. 112 c.p.c., ove sia stato richiesto il
risarcimento per equivalente, disporre la reintegrazione in
forma specifica, non compresa, neppure per implicito, in
quella domanda così proposta (cfr., ex plurimis,
Cass. civ. n. 259 del 2013; id., sez. III, 21.05.2004, n.
9709; id., sez. II, 18.01.2002, n. 552; id., sez. I,
12.01.2010, n. 254, sulla possibilità di ricondurre la
domanda di restituzione del fondo allo schema dell'art. 2058
c.c., in tema appunto di reintegrazione in forma specifica);
c) “per come ricavabile dal dato testuale dell'art. 2058 c.c.
(là dove precisa che "il danneggiato può chiedere..."),
mentre la richiesta del risarcimento per equivalente
contiene la domanda di risarcimento in forma specifica,
sicché domandata la prima si può sempre (validamente)
invocare la seconda in corso di causa (che può anche essere
concessa d'ufficio dal giudice, senza violare il principio
della domanda), la richiesta della prima (esclusivamente
riservata ad una libera opzione processuale del soggetto
danneggiato) non autorizza la scelta della seconda ad opera
del giudice e non postula, per la sua concessione,
l'impraticabilità della riparazione in forma specifica”
(Cons.
St., sez. IV, 10.08.2004, n. 5500), ponendosi
altrimenti in violazione dell’art. 112 c.p.c. (C.g.a.
03.11.2017, n. 465);
d) la restituzione del bene, previa eventuale riduzione in
pristino, costituisce modalità di risarcimento in forma
specifica, ai sensi dell’art. 2058 cod. civ., alternativa al
risarcimento per equivalente e, quindi, mezzo concorrente
per conseguire la riparazione del pregiudizio subito; di
conseguenza è da escludere che la scelta, in corso di
giudizio, per una delle due modalità costituisca una
mutatio libelli, risolvendosi solo in una emendatio
libelli (cfr.
Cons. St., sez. IV, 22.01.2014, n. 306; id.
01.06.2011, n. 3331), essendo evidente, per un
verso, che la tutela in forma specifica e quella per
equivalente appaiono come mezzi concorrenti per conseguire
la riparazione del pregiudizio subito, per altro verso, che
tra esse vi è identità delle posizioni giuridiche soggettive
(proprietari di suoli oggetto di illegittima occupazione e
trasformazione), del petitum (la restituzione del
suolo, salvo esercizio del potere discrezionale di
acquisizione ex art. 42-bis) e della causa petendi
(l’illecita perdurante occupazione e utilizzazione del
suolo) (Cons.
St., sez. IV, 22.01.2014, n. 306).
Conclusivamente sul punto e con specifico riferimento al
caso in esame, si dovrebbe quindi valutare se può essere
riconosciuta la ‘piena coincidenza’ dell’azione
originariamente intentata dinanzi al giudice civile con
l’azione restitutoria di cui al presente giudizio, con la
conseguenza che, qualora si ritenesse sussistente l’unicità
dell’obbligazione risarcitoria, la pronuncia passata in
giudicato relativa alla domanda di risarcimento per
equivalente dovrebbe coprire -a rigore- anche le pretese
oggetto di questo giudizio.
A tale ultimo riguardo ed in particolare con riferimento
all’efficacia del giudicato, rileva anche la giurisprudenza
europea e nazionale per la quale il diritto europeo non
impone al giudice nazionale di disapplicare le norme
processuali interne da cui deriva l’autorità di cosa
giudicata, nemmeno quando ciò permetterebbe di porre rimedio
ad una violazione del diritto comunitario.
Pur se di per sé la giurisprudenza della Corte di Giustizia
dell’Unione europea non ha preso in considerazione le
fattispecie di occupazione senza titolo che si sono avute
nella prassi nazionale (in quanto la relativa materia non è
disciplinata di per sé dai Trattati istitutivi), è opportuno
sottolineare come –in termini generali- la stessa Corte di
giustizia (sentenza 03.09.2009, in causa C-2/8 Olimpiclub, e
sentenza 16.03.2006, in causa C-234/4, Kapferer) ha
sottolineato l’importanza che il principio dell’autorità di
cosa giudicata riveste sia nell’ordinamento giuridico
comunitario sia negli ordinamenti giuridici nazionali, in
quanto, al fine di garantire sia la stabilità del diritto e
dei rapporti giuridici, sia una buona amministrazione della
giustizia, è importante che le decisioni giurisdizionali
divenute definitive dopo l’esaurimento delle vie di ricorso
disponibili o dopo la scadenza dei termini previsti per
questi ricorsi non possano più essere rimesse in discussione
(Corte di giustizia UE, sentenza 30.09.2003, causa C‑224/01,
Köbler, Racc. pag. I‑10239, punto 38, e 16.03.2006, causa
C‑234/04, Kapferer, Racc. pag. I‑2585, punto 20).
Ciò premesso, la Corte ha comunque ricordato che, in assenza
di una normativa comunitaria in materia, le modalità di
attuazione del principio dell’autorità di cosa giudicata
rientrano nell’ordinamento giuridico interno degli Stati
membri in virtù del principio dell’autonomia procedurale di
questi ultimi, sebbene esse non debbano essere meno
favorevoli di quelle che riguardano situazioni analoghe di
natura interna (principio di equivalenza) né essere
strutturate in modo da rendere in pratica impossibile o
eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti
dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di
effettività) (v., in tal senso, sentenza 16.05.2000, causa C
78/98, Preston e a., Racc. pag. I 3201, punto 31 e
giurisprudenza ivi citata).
In conclusione, ad avviso della Corte di giustizia UE, il
diritto comunitario non impone ad un giudice nazionale di
disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono
autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando
ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del
diritto comunitario da parte di tale decisione (v. Corte di
giustizia UE, 16.03.2006, causa C‑234/04, Kapferer, cit.,
punto 21; 01.06.1999, causa C 126/97, Eco Swiss, Racc. pag.
I 3055, punti 46 e 47).
Peraltro, di recente, la Corte di giustizia, ritornando
sulla questione (Corte giustizia, grande sezione,
06.10.2015, causa C-69/14, T. c. Gov. Romania), con riguardo
al diritto di ottenere il rimborso di tributi riscossi in
uno Stato membro in violazione del diritto unionale, ha
stabilito che il diritto dell’Unione, in base ai principi di
equivalenza e di effettività, dev’essere interpretato nel
senso che non osta al fatto che a un giudice nazionale non
spetti la possibilità di revocare una decisione
giurisdizionale definitiva pronunciata nel contesto di un
ricorso di natura civile. E ciò anche quando tale decisione
risulti incompatibile con un’interpretazione del diritto
dell’Unione accolta dalla Corte di giustizia successivamente
alla data in cui la decisione è divenuta definitiva,
finanche qualora, di contro, una tale possibilità sussista
per le decisioni giurisdizionali definitive incompatibili
con il diritto dell’Unione pronunciate nel contesto dei
ricorsi di natura amministrativa.
È stata, quindi, ribadita l’importanza che riveste anche
nell’ordinamento giuridico dell’Unione il principio
dell’intangibilità del giudicato, al fine di garantire sia
la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia una
buona amministrazione della giustizia, di modo che il
giudice nazionale non è vincolato dal diritto dell’Unione a
disapplicare le norme processuali interne che conferiscono
forza di giudicato ad una pronuncia giurisdizionale, neanche
quando ciò consentirebbe di rimediare ad una situazione
nazionale contrastante col diritto unionale.
Conforme risulta la giurisprudenza nazionale, la quale ha
precisato come il diritto dell’Unione europea non impone al
giudice nazionale di disapplicare le norme processuali
interne da cui deriva l'autorità di cosa giudicata di una
decisione, nemmeno quando ciò permetterebbe di porre rimedio
ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale
decisione, salve le ipotesi, assolutamente eccezionali, di
discriminazione tra situazioni di diritto comunitario e
situazioni di diritto interno, ovvero di pratica
impossibilità o eccessiva difficoltà di esercizio dei
diritti conferiti dall’ordinamento comunitario ovvero di
contrasto con una decisione definitiva della Commissione
europea emessa prima della formazione del giudicato (cfr.
Cass., sez. trib., 28.11.2019, n. 31084; sez. V, 13.07.2018,
n. 18642; Sez. trib., 27.01.2017, n. 2046; Sez. trib.,
29.07.2015, n. 16032; sez. I, 06.05.2015, n. 9127; sez. V,
29.07.2015, n. 16032; Sez. trib., 15.12.2010, n. 25320).
Inoltre, la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 71/2015,
al punto n. 5.3, ha ammesso, implicitamente, che l’avvenuto
giudicato formatosi precluda la rivisitazione della tematica
(“Come evidenziato nell'ordinanza di rimessione, ne
risulta che se la norma censurata fosse dichiarata
incostituzionale, il ristoro economico sarebbe assoggettato
al regime del risarcimento ex art. 2043 cod. civ., a
prescindere dal riconoscimento del diritto alla restituzione
del bene. In altri termini, la rilevanza della questione
emerge dal fatto che se la questione di legittimità
costituzionale fosse accolta, il giudizio rimarrebbe
incardinato innanzi al giudice amministrativo, investito
della domanda di rideterminazione del ristoro economico, che
acquisterebbe natura risarcitoria; se essa fosse rigettata,
ne deriverebbe invece la traslatio iudicii innanzi al
giudice ordinario, per i profili di quantificazione
dell'indennizzo previsto dall'art. 42-bis del T.U. sulle
espropriazioni”).
Le conclusioni a cui conducono le sopra esposte
considerazioni devono, d’altro canto, essere ponderate alla
luce del peculiare rapporto intercorrente tra il diritto
nazionale e le disposizioni della Convenzione europea dei
diritti dell’uomo.
Infatti, le sentenze della Corte di Strasburgo, anche quelle
che hanno più volte condannato la Repubblica Italiana per le
prassi nazionali sulla ‘occupazione appropriativa’,
sono state pronunciate in casi in cui per definizione si
erano formati giudicati sfavorevoli per i proprietari,
all’esito dei relativi giudizi civili.
Dunque, mentre le sopra citate sentenze della Corte di
Giustizia hanno espresso il principio per cui il diritto
unionale non impone all’ordinamento e al giudice nazionale
di superare il giudicato che con esso si sia posto in
contrasto, quando si tratta invece della Convenzione europea
dei diritti dell’uomo la Corte di Strasburgo è competente a
valutare proprio se il giudicato nazionale si sia posto in
contrasto con la Convenzione, una volta esauriti i rimedi
interni.
La Sezione ha altresì ricordato che la stessa Corte EDU, pur
ritenendo la restituzione del bene quale forma privilegiata
di riparazione, ammetteva, “quando la restituzione di un
terreno risulta impossibile per motivi plausibili in
concreto”, il risarcimento per equivalente in una misura
pari al valore integrale del bene alla data della pronuncia
(v. Corte EDU, 30.05.2000, Belvedere Alberghiera s.r.l. c.
Italia, § 69; 06.03.2007, Scordino c. Italia, § 16): la
Corte ha ammesso sì in sostanza la sanatoria della
situazione venutasi a verificare, ma purché vi sia il
ristoro dei proprietari.
D’altra parte, per la soluzione della questione in esame,
rilevano anche i principi enunciati dalle sentenze nn. 2, 3
e 4 del 2020 dell’Adunanza Plenaria, la quale:
a) ha ribadito la contrarietà alla Convezione europea dei diritti
dell’uomo di qualunque forma di trasferimento della
proprietà in favore dell’Amministrazione che sia priva di
una base legale, in tal modo negando l’ammissibilità nel
nostro ordinamento anche della c.d. rinuncia abdicativa,
quale atto implicito nella proposizione, da parte di un
privato illegittimamente espropriato, della domanda di
risarcimento del danno per equivalente monetario derivante
dall’illecito permanente costituito dall’occupazione di un
suolo da parte della P.A., a fronte della irreversibile
trasformazione del fondo;
b) ha affermato che “l’ordinamento processuale amministrativo
offre un adeguato strumentario per evitare, nel corso del
giudizio, che le domande proposte in primo grado, congruenti
con quello che allora appariva il vigente quadro normativo e
l’orientamento giurisprudenziale di riferimento assurto a
diritto vivente, siano di ostacolo alla formulazione di
istanze di tutela adeguate al diverso contesto normativo e
giurisprudenziale vigente al momento della decisione della
causa in appello, quali la conversione della domanda ove ne
ricorrano le condizioni, la rimessione in termini per errore
scusabile ai sensi dell’art. 37 Cod. proc. amm. o l’invito
alla precisazione della domanda in relazione al definito
quadro giurisprudenziale, in tutti i casi previa
sottoposizione della relativa questione processuale, in
ipotesi rilevata d’ufficio, al contraddittorio delle parti
ex art. 73, comma 3, Cod. proc., a garanzia del diritto di
difesa di tutte le parti processuali”;
c) ha ritenuto che l’art. 42-bis d.P.R. 08.06.2001, n. 327, sia
applicabile a tutte le ipotesi in cui un bene immobile
altrui sia utilizzato e modificato dall’amministrazione per
scopi di interesse pubblico, in assenza di un valido ed
efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della
pubblica utilità, e dunque quale che sia la ragione che
abbia determinato l’assenza di titolo che legittima alla
disponibilità del bene).
Va dunque rimarcato come anche in sede d’appello si possa
riconvertire la domanda di restituzione del bene in domanda
di applicazione dell’art. 42-bis del testo unico sugli
espropri (Cons. St., sez. IV, 21.09.2020, nn.
5527 e
5522), sicché anche per questa ragione si
potrebbe sostenere che il giudicato civile di rigetto, a suo
tempo formatosi sulla domanda risarcitoria per
l’accoglimento della eccezione di prescrizione, non precluda
l’esame della domanda di tutela basata sul citato art.
42-bis (anche a seguito della conversione della domanda in
sede d’appello), nettamente diversa da quella decisa dal
giudice civile quanto alla causa petendi (basata
sull’interesse legittimo pretensivo) ed al petitum
(volto ad ottenere un provvedimento ai sensi dell’art.
42-bis) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
ordinanza 26.10.2020 n. 6531 - commento tratto da
e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Effetti
della decadenza del vincolo di esproprio sulle fasce di
rispetto stradali.
La circostanza che «il vincolo
preordinato all’esproprio sia decaduto ex lege non comporta
la decadenza anche delle fasce di rispetto stradali connesse
alla realizzazione dell’opera; e ciò in quanto, secondo
consolidati principi giurisprudenziali, le fasce di rispetto
stradali hanno natura di vincoli di carattere conformativo,
e non espropriativo, e come tali non sono soggetti a
decadenza ex lege per effetto del decorso del termine
quinquennale di cui all’art. 9 d.p.r. 327/2001, ma
conservano la propria efficacia a tempo indeterminato, fino
all’intervento di una nuova pianificazione urbanistica»
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 24.09.2020 n. 657 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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SENTENZA
5. Con il quinto motivo, la ricorrente ha dedotto
l’illegittimità della Variante impugnata nella parte in cui
ha previsto una fascia di rispetto stradale di 40 metri,
così incidendo su fabbricati già costruiti e su aree di
potenziale espansione dello stabilimento, in violazione
dell’art. 26, comma 3, del Regolamento di esecuzione del
Codice della Strada che per le strade di tipo C prevede una
fascia di rispetto di 10 metri, in assenza di specifica
motivazione; la stessa variante parziale al P.T.C.P. in
corso di approvazione prevederebbe per questo tratto
stradale una distanza di 30 metri.
Nei propri scritti conclusivi, la ricorrente ha aggiunto che
con la decadenza ex lege del vincolo preordinato
all’esproprio, sopravvenuta in corso di causa, sarebbero
venute meno automaticamente anche le fasce di rispetto
stradali, essendo state previste a servizio di un’opera
viabilistica non più attuale. Per tale motivo, ha chiesto a
questo Tribunale di accertare il proprio diritto di
edificare sulle aree di sua proprietà già assoggettate a
vincolo preordinato all’esproprio e all’osservanza della
fascia di rispetto stradale, entrambe decadute per legge.
La censura (e la domanda) non possono essere condivise.
5.1. La difesa della parte interveniente Società di Progetto
Autovia Padana s.p.a., attuale titolare della concessione di
costruzione ed esercizio dell’Autostrada A21
Piacenza-Cremona-Brescia, in forza di convenzione stipulata
nel maggio del 2017 con il Ministero delle Infrastrutture e
dei Trasporti, ha documentato in giudizio che il progetto di
realizzazione del “Terzo ponte sul fiume Po” è ancora
attuale, tanto da essere stato incluso nell’”oggetto”
della convenzione di concessione, all’art. 2.1., nella parte
in cui si fa specifico riferimento alle “Opere Lotto n.
2: Nuovo Casello di Castelvetro, Raccordo Autostradale con
la SS 10 “Padana inferiore” e completamento della bretella
autostradale tra la SS 10 “padana inferiore” e la SS 234”.
L’art. 11-bis della convenzione ha previsto l’impegno della
concessionaria a reperire i necessari finanziamenti entro la
fine del primo periodo regolatorio, che –da quel che è dato
di comprendere- dovrebbe giungere a scadenza nel maggio del
2022, dopo di che, in mancanza di finanziatori, il progetto
potrebbe essere stralciato dall’oggetto della concessione.
Allo stato, in pendenza del primo quinquennio regolatorio,
la previsione dell’opera viabilistica è ancora attuale e la
concessionaria ha ribadito in giudizio il proprio interesse
a realizzarla, previo reperimento delle risorse necessarie,
in ossequio agli impegni convenzionali.
5.2. Ciò posto, la circostanza che, nelle more del presente
giudizio il vincolo preordinato all’esproprio sia decaduto
ex lege non comporta la decadenza anche delle fasce
di rispetto stradali connesse alla realizzazione dell’opera;
e ciò in quanto, secondo consolidati principi
giurisprudenziali, le fasce di rispetto stradali hanno
natura di vincoli di carattere conformativo, e non
espropriativo (TAR Catania, sez. I , 22/10/2015, n. 2458;
TAR , Salerno, sez. II, 13/06/2013, n. 1276; TAR Palermo,
sez. III, 24/05/2013, n. 1167; TAR Lecce, sez. I,
24/09/2009, n. 2156; TAR Firenze, sez. III, 20/12/2012, n.
2110), e come tali non sono soggetti a decadenza ex lege
per effetto del decorso del termine quinquennale di cui
all’art. 9 d.p.r. 327/2001, ma conservano la propria
efficacia a tempo indeterminato, fino all’intervento di una
nuova pianificazione urbanistica (Cons. Stato, Sez. IV,
18.05.2018, n. 3002; Consiglio di Stato, sez. IV,
12/04/2017, n. 1700; TAR Napoli, sez. II, 27/12/2019, n.
6149; TAR Torino, sez. II, 29/08/2014, n. 1457; TAR Milano,
sez. II , 30/11/2007, n. 6532).
5.3. Quanto all’ampiezza della fascia di rispetto stradale
connessa alla realizzazione dell’opera viabilistica, venendo
in considerazione la realizzazione di un collegamento
autostradale, e quindi di una strada di tipologia A -secondo
la classificazione di cui all’art. 2 comma 2 del Codice
della Strada– essa non poteva essere fissata in misura
inferiore a 30 metri, secondo quanto previsto dall’art. 16,
comma 3, lett. a), del Regolamento di esecuzione del Codice
della Strada, norma applicabile “fuori dai centri abitati
ma all’interno di zone previste come edificabili o
trasformabili dallo strumento urbanistico”, come nel
caso di specie.
Nell’impugnato P.G.T. la fascia di rispetto stradale è stata
fissata in 40 metri, misura da ritenersi legittima in quanto
“non inferiore” alla misura minima di 30 metri
prescritta dalla normativa di settore; e ciò sarebbe già di
per sé sufficiente a consentire il rigetto della censura.
Nelle more del giudizio, peraltro, secondo la documentata
deduzione della difesa comunale, in occasione
dell’approvazione del P.G.T. del 2018 è stata accolta la
richiesta della ricorrente di ridurre da 40 a 30 metri la
fascia di rispetto stradale esistente, recependo i contenuti
del Protocollo d’Intesa sottoscritto in data 28.10.2018
dalla ricorrente e dal Comune di Cremona. In tale Protocollo
d’Intesa, il Comune si è impegnato, in particolare, “al
mantenimento della profondità di 30 metri della fascia di
rispetto del cosiddetto terzo Ponte e, qualora se ne
presentassero le condizioni, a fornire il proprio il proprio
pieno appoggio presso gli Enti competenti per una sua
ulteriore riduzione in una misura compatibile con le
esigenze di sviluppo produttivo di Ol.Zu.”.
Alla luce di tale accordo intercorso tra le parti,
pacificamente recepito nel P.G.T. del 2018 non impugnato
dalla parte ricorrente, la censura in esame è diventata
improcedibile per acquiescenza e sopravvenuta carenza di
interesse, così come eccepito dalle difese
dell’amministrazione e della parte controinteressata. Né
convince la replica della parte ricorrente secondo cui
l’efficacia del Protocollo d’Intesa sarebbe stata limitata
fino al 31.12.2020 (art. 4, comma 2), dal momento che, a
tutto concedere, questo implicherebbe la riviviscenza, a far
data dal 01.01.2021, della distanza previgente di 40 metri,
derogata solo temporaneamente dal Protocollo d’Intesa del
2018.
5.4. La domanda della società ricorrente di accertamento del
proprio diritto di edificare sull’area di sua proprietà
inclusa all’interno della fascia di rispetto, prima ancora
che infondata nel merito alla luce di quanto sopra esposto,
è inammissibile ai sensi dell’art. 34, comma 2, c.p.a.,
perché volta a sollecitare una pronuncia del giudice su
poteri amministrativi non ancora esercitati. |
ESPROPRIAZIONE:
1.- Espropriazione per pubblica utilità – “usucapione pubblica” –
inconfigurabilità.
Va respinta la tesi della predicabilità sistematica di
una “usucapione pubblica” che si innesti su un procedimento espropriativo: a
tutto concedere, in astratto una problematica di vaglio in ordine alla
usucapibilità di beni appresi mercé l’occupazione dell’area innervata su un
procedimento espropriativo non regolarmente conclusosi (come nel caso
all’esame, per omessa emissione di un tempesti vo decreto di esproprio)
potrebbe porsi laddove l’Amministrazione abbia posseduto ininterrottamente
detto compendio immobiliare per il torno di tempo prescritto dal codice
civile individuandosi quale dies a quo quello dell’entrata in vigore del
d.P.R. 08.06.2001 n. 327, il cui art. 43 ha sancito il superamento normativo
dell’istituto dell’occupazione acquisitiva che costituiva una vera e propria
fattispecie ablatoria seppure atipica.
Invero sino alla data di entrata in vigore del d.P.R. 08.06.2001 n. 327
costituiva approdo consolidato quello per cui la trasformazione dell’area
implicasse acquisto automatico della proprietà (appunto per accessione
invertita, ex art. 938 c.c.) in capo all’Amministrazione del suolo sul quale
l’opera pubblica era sorta. Il privato spossessato, quindi, non avrebbe
potuto validamente esercitare alcuna opzione reintegratoria specifica, e non
avrebbe potuto conseguire la restituzione dell’area, in quanto già passata
in proprietà dell’Amministrazione.
Anche in conseguenza degli approdi a cui è pervenuta la Corte Europea dei
Diritti dell’Uomo, il Legislatore statale è intervenuto e, in virtù del
d.P.R. 08.06.2001 n. 327, è stato sancito il superamento normativo
dell’istituto dell’occupazione acquisitiva (massima free tratta da www.giustamm.it).
---------------
7.1. L’appello è fondato e va accolto, nei termini di cui alla motivazione
che segue: in riforma della sentenza di primo grado, quindi, il ricorso di
primo grado va accolto, nei termini precisati nella parte motiva della
presente decisione.
7.1. In particolare, il Collegio, richiamando plurime sentenze di questa
stessa Sezione (Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 4096/2015 su ricorso n.
10128/2014; Consiglio di Stato Sezione IV sentenza n. 3346 del 2014, resa
nell’ambito del ricorso 2584 del 2014; Consiglio di Stato Sezione IV
sentenza n. 3988/2015 resa nell’ambito del ricorso 7608 del 2014; Consiglio
di Stato, Sezione IV, sentenza n. 5410/2015 resa nell’ambito del ricorso
1498 del 2014), nelle quali sono già state compiutamente esposte le
motivazioni che non consentono di condividere la tesi della predicabilità
sistematica di una “usucapione pubblica” che si innesti su un
procedimento espropriativo, osserva che nelle menzionate decisioni è stato
chiarito che comunque –a tutto concedere– in astratto una problematica di
vaglio in ordine alla usucapibilità di beni appresi mercé l’occupazione
dell’area innervata su un procedimento espropriativo non regolarmente
conclusosi (ad esempio, come nel caso all’esame, per omessa emissione di un
tempesti vo decreto di esproprio) potrebbe porsi laddove l’Amministrazione
abbia posseduto ininterrottamente detto compendio immobiliare per il torno
di tempo prescritto dal codice civile individuandosi quale dies a quo
quello dell’entrata in vigore del d.P.R. 08.06.2001 n. 327, il cui art. 43
ha sancito il superamento normativo dell’istituto dell’occupazione
acquisitiva che costituiva una vera e propria fattispecie ablatoria seppure
atipica.
7.2. Invero sino alla data di entrata in vigore del d.P.R. 08.06.2001 n. 327
–come è noto– costituiva approdo consolidato in giurisprudenza quello per
cui la trasformazione dell’area implicasse acquisto automatico della
proprietà (appunto per accessione invertita, ex art. 938 c.c.) in capo
all’Amministrazione del suolo sul quale l’opera pubblica era sorta.
Il privato spossessato, quindi, non avrebbe potuto validamente esercitare
alcuna opzione reintegratoria specifica, e non avrebbe potuto conseguire la
restituzione dell’area, in quanto già passata in proprietà
dell’Amministrazione.
7.3. Anche in conseguenza degli approdi a cui è pervenuta la Corte Europea
dei Diritti dell’Uomo (ex multis sentenze CEDU Belvedere Alberghiera
s.r.l. c. Italia 30.05.2000, n. 31524/96; Sciarrotta c. Italia 12.01.2006,
n. 14793/02; Guiso-Gallisay c. Italia, 22.12.2009, n. 58858/00; Soc.
Immobiliare Podere Trieste c. Italia, 23.10.2012, n. 19041/2004; Rolim
Commercial S.A. c. Portogallo, 16.04.2013, n. 16153/2009), il Legislatore
statale è intervenuto e, in virtù del d.P.R. 08.06.2001 n. 327, è stato
sancito il superamento normativo dell’istituto dell’occupazione acquisitiva.
7.4. Da tale ricostruzione il Collegio non ha motivo per discostarsi.
7.5. Ciò implica, in primo luogo, che per tutte le occupazioni antecedenti
alla entrata in vigore del d.P.R. 08.06.2001 n. 327, il tempo durante il
quale l’Amministrazione ha esercitato un potere materiale sul bene occupato
(ed eventualmente, medio tempore, trasformato) in epoca precedente
alla entrata in vigore del citato d.P.R., non vale ai fini del computo del
termine per la maturazione della usucapione dell’area.
Ciò per una ragione dirimente: se è vero che l’istituto dell’usucapione
risponde ad una esigenza di certezza giuridica, “premia” il possesso
ininterrotto dell’area e “sanziona” l’inerzia del proprietario
dell’area medesima, il quale non ha esercitato le condotte materiali e/o le
iniziative giuridiche che dimostrano il suo interesse a mantenerne la
titolarità, è evidente che tale istituto può operare soltanto nei casi in
cui il privato possa esercitare i diritti posti a presidio della propria
posizione.
E’ questo, un principio logico, oltre che di civiltà giuridica, che nel
sistema giuridico italiano trova espresso conforto normativo sub art. 2935
c.c. “la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto
può essere fatto valere”.
Posto che, antecedentemente alla entrata in vigore del d.P.R. 08.06.2001 n.
327, il privato proprietario non avrebbe potuto fare valere il proprio
diritto alla restituzione, è del tutto logico che il tempo decorso (durante
il quale l’Amministrazione ha, anche ininterrottamente detenuto il bene)
prima di tale data non si computi ai fini della maturata usucapione.
7.6. Tanto basta, con portata dirimente, ad accogliere l’appello.
7.7. Invero il Tar ha:
- condivisibilmente stabilito che il tempo necessario ad usucapire
il bene fosse quello ordinario ventennale;
- ha ritenuto che detto termine fosse maturato, computando ai fini
del raggiungimento dell’arco temporale ventennale il torno di tempo
antecedente al 2001 (l’occupazione era divenuta illegittima in data
31.10.1986);
- ha ritenuto che il detto termine prescrizionale non sia stato
validamente interrotto dalla nota del legale della dante causa di uno degli
appellanti datata 28.04.2006, poiché quest’ultima non costituisce un atto di
natura giudiziale/processuale di instaurazione del giudizio e poiché a mezzo
di essa non è stata chiesta la restituzione del bene, ma soltanto il
pagamento dell’indennità di esproprio o il risarcimento del danno.
7.8. Ciò, per le già chiarite ragioni, non è condivisibile:
- il “diritto vivente” antecedente alla entrata in vigore
nel sistema del d.P.R. n. 327/2001, non consentiva l’esperimento dell’azione
restitutoria/reintegratoria del suolo;
- parte appellante non avrebbe quindi potuto proporre la relativa
domanda;
- opera il principio sopra richiamato e sancito dall’art. 2935 c.c.
(contra non valentem agere non currit praescriptio);
- il torno di tempo antecedente alla entrata in vigore nel sistema
del d.P.R. n. 327/2001 non è quindi computabile per far ritenere prescritta
l’azione di rivendica e, quindi, per ritenere maturata l’usucapione
ascrivibile al permanente possesso dell’area in capo all’Amministrazione;
- non rileva, in ogni caso, la questione in ordine al se la citata
nota del 28.04.2006 indirizzata al Comune di Manfredonia (all. n. 15
fascicolo di primo grado) valga ad interrompere l’inerzia del privato
giacché, per quanto più sopra argomentato, lo sbarramento temporale per
ravvisare l’usucapione è quello dell’entrata in vigore del d.P.R. 08.06.2001
n. 327;
- in ogni caso, dalle domande contenute nella nota del 28.04.2006
non è possibile inferire alcuna volontà di abdicare al diritto di proprietà
da parte dei proprietari delle aree in questione, per tutte le
considerazioni e motivazioni svolte dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria di
questo Consiglio di Stato del 20.01.2020 n. 4, in particolare al § 16 in
tema di rinuncia abdicativa e di valenza della domanda di risarcimento del
danno sotto tale profilo (par. 16.3.1. e 16.3.2).
8. L’appello va quindi accolto e la sentenza di prime cure deve essere
riformata.
9. Passando ad esaminare le conseguenze dell’accoglimento dell’appello e
posto che l’Amministrazione né ha restituito il bene né lo ha acquistato né
ha emesso il provvedimento ai sensi dell’art. 42-bis del T.U.
espropriazioni, mentre è accertata l’illegittimità del procedimento
espropriativo, ne discende che l’Amministrazione può avvalersi in via
postuma dello strumento acquisitivo della proprietà di cui all’art. 42-bis
d.P.R. n. 327/01, corrispondendo il valore venale del bene.
9.1. Nell’ipotesi in cui l’Amministrazione non opti per la soluzione testé
indicata dovrà restituire l’area, previa remissione in pristino della stessa
a propria cura e spese, corrispondendo le somme per la illegittima
occupazione.
9.2. Entro sessanta giorni decorrenti dalla data di
pubblicazione/notificazione della presente sentenza, l’Amministrazione dovrà
avviare l’uno o l’altro procedimento indicati ai punti che precedono.
La giuridica regolarizzazione della fattispecie mediante l’immediata
restituzione dei beni (previa integrale riduzione in pristino) ovvero
attivandosi per il legittimo acquisto della proprietà dell'area assume
carattere prioritario rispetto ad ogni valutazione circa l’an e il
quantum della spettanza di somme a titolo di illegittima occupazione e/o
di risarcimento dei danni (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. IV, n.
3880 del 2020), discendenti dalla scelta che effettuerà l’Amministrazione.
10. Conclusivamente pronunciando, quindi, in accoglimento dell’appello, la
sentenza resa in primo grado va annullata e il ricorso di primo grado va
accolto nei termini di cui alla motivazione che precede
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 11.09.2020 n. 5430 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ESPROPRIAZIONE: L’Adunanza
plenaria pronuncia sulla competenza dell’organo liquidatore, quando va
emanato un atto di liquidazione di una somma, spettante a seguito di
acquisizione sanante.
---------------
Enti locali – Comuni – Dichiarazione di dissesto – Competenza organo
liquidatore liquidazione di una somma, spettante a seguito della
realizzazione di un’opera pubblica su fondo altrui - Epoca anteriore alla
dichiarazione di dissesto dell’ente - Competenza dell’organo straordinario
di liquidazione – Condizione.
L’atto di acquisizione sanante, generatore
dell’obbligazione (e, quindi, del debito), è attratto nella competenza
dell’organo straordinario di liquidazione, e non rientra quindi nella
gestione ordinaria, sia sotto il profilo contabile sia sotto il profilo
della competenza amministrativa, se detto provvedimento ex art. 42-bis T.U.
Espropriazione è pronunciato entro il termine di approvazione del rendiconto
della Gestione Liquidatoria e si riferisce a fatti di occupazione
illegittima anteriori al 31 dicembre dell’anno precedente a quello
dell’ipotesi di bilancio riequilibrato (1).
---------------
(1)
Cons. St., sez. IV, ord., 20.03.2020, n. 1994.
Ha chiarito l’Alto consenso che è pur vero che l’emanando provvedimento ex
art. 42-bis T.U. Espropriazione, che farebbe sorgere il debito oggetto della
presente controversia, ha natura costitutiva, come confermato da questa
Adunanza con la
sentenza 20.01.2020, n. 2, che ha escluso la rilevanza del
risarcimento del danno ai fini dell’occupazione acquisitiva.
Il provvedimento dell’amministrazione che dispone la cd. acquisizione
sanante, quindi, non accerta un debito preesistente, ma lo determina ex
novo, quantificandone altresì l’ammontare e non ha, quindi, carattere
ricognitivo, ma costitutivo, determinando, sul piano amministrativo e
civilistico, un effetto traslativo ex nunc.
Tuttavia, detto provvedimento ex art. 42-bis, d.P.R. 08.06.2001, n. 327, ha
per presupposto (ai sensi del primo comma della predetta norma)
l’utilizzazione “di un bene immobile per scopi di interesse pubblico,
modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o
dichiarativo della pubblica utilità”; inoltre il provvedimento di
acquisizione, ai sensi del successivo comma 4, deve recare “l'indicazione
delle circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell'area e
se possibile la data dalla quale essa ha avuto inizio”.
Pertanto, il provvedimento risulta certamente correlato, sul piano della
stessa attribuzione causale, “ad atti e fatti di gestione verificatisi
entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio
riequilibrato, pur se accertati, anche con provvedimento giurisdizionale,
successivamente a tale data”, come specifica l’art. 5, comma 2, d.l. n.
80 del 2004 (convertito con l. n. 140 del 2004).
Sul piano dell’interpretazione letterale, quindi, le “circostanze”
(ovvero i fatti) che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell'area
costituiscono il presupposto per l’emanazione del provvedimento di
acquisizione sanante che l’amministrazione, prima della sua adozione, deve
accertare.
Parimenti, anche l’utilizzazione “di un bene immobile per scopi di
interesse pubblico” costituisce un fatto che deve esser oggetto di un
accertamento da parte dell’amministrazione, prodromico all’adozione del
provvedimento in esame.
Si tratta quindi, in entrambi i casi di fatti necessariamente correlati al
successivo provvedimento, il cui positivo accertamento costituisce uno dei
presupposti di legittimità del medesimo.
Pertanto, sotto il profilo finanziario, se tali fatti sono cronologicamente
ricollegabili all’arco temporale anteriore al 31 dicembre dell’anno
precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato, il provvedimento
successivo (non necessariamente giurisdizionale, come è evidente dalla mera
lettura del citato art. 5) che determina l’insorgere del titolo di spesa
deve essere imputato alla Gestione Liquidatoria, purché detto provvedimento
sia emanato prima dell’approvazione del rendiconto della gestione di cui
all’art. 256, comma 11, t.u. n. 267 del 2000.
In questo caso, non solo il debito viene imputato al Bilancio della Gestione
Liquidatoria sotto il profilo amministrativo-contabile, e non a quello della
gestione ordinaria, ma anche la competenza amministrativa ad emanare il
provvedimento che costituisce il titolo di spesa (nella specie,
l’acquisizione sanante) deve essere attribuita al Commissario Liquidatore,
in quanto è quest’ultimo soggetto che deve costituire la relativa partita
debitoria del bilancio da lui gestito
(Consiglio di Stato, A.P.,
sentenza 05.08.2020 n. 15 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Liquidazione
del risarcimento del danno conseguente alla occupazione senza titolo di un
terreno.
---------------
Risarcimento danni – Espropriazione per pubblica utilità - Occupazione
sine titulo - Liquidazione secondo equità – Possibilità.
Qualora sia chiesto il risarcimento del danno
conseguente alla occupazione senza titolo di un terreno, poi restituito
dall’Amministrazione, non si applica l’art. 42-bis, comma 3, del testo unico
sugli espropri (la cui regola del computo del 5% annuo sul valore dell’area
si applica solo qualora l’Autorità che utilizza l’area ne disponga
l’acquisizione) e il giudice amministrativo –in mancanza della specifica
prova del danno conseguente al suo mancato godimento– può disporne la
liquidazione secondo equità, tenendo conto della estensione del terreno,
della durata della occupazione e della sua precedente utilizzazione, e può
quantificare l’importo nel suo preciso ammontare (evitando la fissazione di
parametri che implicano la previa determinazione del valore dell’area) (1).
---------------
(1) Ha chiarito la
Sezione che il comma 3 dell’art. 42-bis del t.u. sugli espropri dispone che:
“Per il periodo di occupazione senza titolo è computato a titolo
risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la prova di una
diversa entità del danno, l'interesse del cinque per cento annuo sul valore
determinato ai sensi del presente comma”.
Tale disposizione ha un campo di applicazione imprescindibilmente legato
all’applicazione del comma 1 dell’art. 42-bis, il quale, come ribadito da
questo Consiglio, in Adunanza Plenaria, ha disciplinato un procedimento
semplificato da seguire quando l’amministrazione disponga l’acquisizione al
proprio patrimonio di un bene che possieda, senza titolo, per un interesse
pubblico, e che sia stato modificato nella sua originaria consistenza.
Si tratta di una normativa dal preciso ambito di applicazione, che delinea
una “fattispecie normativa di diritto amministrativo settoriale in
materia espropriativa, quale tassativamente predeterminata dal legislatore”
(cfr.
Cons. Stato, Ad. Plen., 20.01.2020, n. 4, v., in particolare,
punto 16.2.3.; Corte Cost., 30.04.2015, n. 71).
Relativamente alla questione se il parametro del 5 per cento annuo (previsto
dal comma 3) sia applicabile anche quando l’area sia restituita al
proprietario, il Collegio è consapevole che alcuni precedenti della Sezione
–richiamati dall’appellante- hanno liquidato proprio in base a tale
parametro, in via equitativa, il danno patito dal privato per l’occupazione
senza titolo (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 27.05.2019, n. 3428;
sez. IV, 09.05.2018, n. 2765;
sez. IV, 23.09.2016, n. 3929;
sez. IV, 28.01.2016 n. 329;
sez. V, 02.11.2011, n. 5844).
La Sezione, tuttavia, dopo maturo esame e re melius perpensa, ritiene che
questa impostazione vada tuttavia rimeditata.
Logicamente, prima ancora di esaminare l’applicabilità del comma 3 sopra
riportato per quantificare il danno fatto valere nel presente giudizio, il
Collegio ritiene che vada comunque approfondito se sia configurabile una
responsabilità risarcitoria e, in particolare, un danno derivante
dall’occupazione senza titolo di un fondo, allorché, nel giudizio, il
ricorrente si sia limitato ad allegare la mera lesione della facoltà di
godimento del bene, senza ulteriormente specificare e descrivere i
pregiudizi patrimoniali che da essa sono scaturiti.
Nel caso in esame, per l’appunto, in prime cure, l’interessato ha descritto
la lesione arrecata al suo diritto di proprietà, lamentando che
l’occupazione del bene da parte del Comune avrebbe cagionato il suo mancato
godimento per tutto il periodo in cui l’occupazione si è protratta.
È necessario domandarsi, dunque, preliminarmente, se, in ragione della
allegazione ‘estremamente sintetica’ del pregiudizio sofferto
(ampliata in questo secondo grado di processo), possa comunque riconoscersi
l’esistenza di un danno risarcibile, inteso come conseguenza
pregiudizievole, economicamente valutabile, verificatasi nel patrimonio di
chi asserisce di avere subito la lesione di una sua situazione giuridica
soggettiva.
In base alle allegazioni dell’interessato, questo pregiudizio viene infatti
a coincidere con la lesione di una delle due facoltà del diritto di
proprietà –quella di godimento- in cui, tradizionalmente e usualmente, si
articola il contenuto di questa situazione giuridica soggettiva.
Da tale compromissione, nondimeno, non si fa scaturire una conseguenza
pregiudizievole specifica, quale sarebbe il non aver potuto trarre profitto
da un uso –e, dunque, da un godimento- diretto o indiretto del bene (ad es.,
adibendolo ad una proficua coltivazione oppure concedendolo in locazione
[per chi ritiene che quest’ultima ipotesi costituisca esplicazione della
facoltà di godimento e non di quella di disposizione]).
L’orientamento di questo Consiglio incline all’applicazione del criterio
dettato dall’art. 42-bis, comma 3, d.P.R. n. 327 del 2001, per l’aspetto
relativo alla quantificazione del danno (per fattispecie diverse da quelle
disciplinate dal medesimo art. 42-bis, e in particolare per i casi di
rilevata spettanza di un risarcimento, nelle ipotesi di restituzione
dell’area o di constatato acquisto del bene da parte dell’Amministrazione in
assenza dell’atto formale di acquisizione), ha riguardato i profili relativi
all’“an”: si è affermato che, in presenza della lesione o della
compressione della facoltà di godimento derivanti dall’occupazione senza
titolo, non fosse necessario assolvere ad un onere di descrizione -del
pregiudizio patrimoniale sofferto- particolarmente particolareggiato e
dettagliato, per ammetterne la sussistenza.
A tale semplificazione degli oneri di allegazione e di prova della
sussistenza del danno patrimoniale, seguiva quella relativa alla
quantificazione attuata con l’applicazione dell’art. 42-bis, comma 3, d.P.R.
n. 327 del 2001.
Si accoglieva, dunque, un’impostazione particolarmente favorevole al
proprietario sia sul versante dell’allegazione e della prova dell’an
del danno, che sul versante relativo al quantum.
La Sezione ritiene che si possa dare continuità a questo orientamento solo
per quanto riguarda l’an del danno: si può ritenere sufficientemente
provata la sussistenza di un danno patrimoniale per il solo fatto che il
proprietario di un bene ne abbia sofferto lo spossessamento e ne abbia
dunque perduto, temporaneamente, il godimento.
Non rileva in questa sede approfondire la questione se la lesione così
arrecata al diritto di proprietà costituisca un c.d. “danno-evento”,
circa il profilo dell’an, oppure un danno conseguenza “in re ipsa”,
circa il profilo del quantum.
A fronte di un sistema normativo articolato e composito, sovranazionale e
nazionale, scandito da norme di rango diverso, che attribuisce una
consistente e multiforme tutela al diritto di proprietà, mediante la
previsioni di differenti rimedi, il quadro degli oneri probatori gravanti su
chi si assume danneggiato va “semplificato”, nel rispetto delle
regole che presidiano il processo, al fine di dare piena attuazione al
principio di effettività della tutela giurisdizionale (art. 1 c.p.a.).
L’allegazione della perdita temporanea della facoltà di godimento
costituisce non soltanto un profilo rilevante ai fini della descrizione
della lesione occorsa alla situazione giuridica soggettiva, che si assume
violata, ma anche un aspetto dirimente per gli aspetti correlati ai
pregiudizi economici che da quella lesione sono scaturiti.
13. Secondo una valutazione basata sull’id quod plerumque accidit e,
dunque, facendosi applicazione dell’istituto delle presunzioni semplici
(art. 2729 c.c.), può evidenziarsi come la perdita del godimento del bene si
traduca, di regola, nella perdita del valore d’uso di quel bene o, anche,
della sua mera “disponibilità statica”; di quella che, con locuzione
descrittiva, può essere definita come una “posta attiva potenziale”
della sfera giuridica dell’interessato, cioè dei molteplici impieghi,
profittevoli o anche solo di svago, che si traggono dall’essere nella
disponibilità del bene.
Pur se con riguardo alla diversa fattispecie del ritardo del pagamento di
un’obbligazione pecuniaria, la Corte di Cassazione (Sez. Unite, 16.07.2008,
n. 19499) ha fornito importanti principi in materia di prova:
- ha ammesso che si possa fornire la prova della sussistenza del
maggior danno attraverso il meccanismo delle presunzioni semplici, con
tecniche di semplificazione dell'istruzione probatoria variate nel corso del
tempo e adattate al mutare del contesto economico-sociale;
- ha affermato che “è stato da tempo chiarito come, in
definitiva, è nel rapporto tra normalità ed anormalità, tra regola ed
eccezione che si rinviene il criterio teorico pratico della ripartizione
dell'onere della prova, il quale non costituisce un istituto giuridico in sé
concluso, ma un modo di osservare l'esperienza giuridica. E la
giurisprudenza ha quindi fatto ricorso, tutte le volte che il modello legale
prefissato non risultava appagante in relazione alle posizioni delle parti
riguardo ai singoli temi probatori, allo schema della presunzione in modo
talora così tipico e costante da creare, in definitiva, vere e proprie
regole di giudizio. Col risultato non già di invertire l'onere della prova,
ma di distribuirlo in senso conforme alla realtà dell'esperienza positiva”;
- ha dunque ritenuto che, poiché di regola del bene-denaro si fa un
uso remunerativo o proficuo, si può presumere l’esistenza del (maggior)
danno occorso e di quantificarlo attraverso un criterio equitativamente
determinato.
Il principio di diritto suesposto risulta applicabile –ai sensi degli
articoli 2043, 2056 e 1226 del codice civile e con le precisazioni di
seguito esposte- anche quando l’Amministrazione abbia temporaneamente
occupato senza titolo un bene altrui (e non lo abbia formalmente acquisito
in applicazione dell’art. 42-bis del testo unico sugli espropri), nel corso
di un procedimento non conclusosi con un valido ed efficace decreto
d’esproprio o con un accordo di cessione.
Anche in tal caso, per un certo lasso di tempo, è configurabile il ‘mancato
godimento’ di un bene (il fondo illegittimamente occupato) del quale,
usualmente, il titolare può fare un uso remunerativo o proficuo: anzi,
mentre la mera disponibilità del denaro di per sé non soddisfa esigenze ed
aspirazioni personali, la mera disponibilità di un proprio fondo ne consente
molteplici impieghi, profittevoli o anche solo di svago
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 23.07.2020 n. 4709 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
9. Può procedersi oltre all’esame del terzo motivo di appello,
congiuntamente ai motivi successivi. Con essi, in sintesi, si censura la
sentenza di primo grado riproponendosi, in chiave critica, la domanda di
applicazione, in via equitativa, del parametro del cinque per cento annuo
del valore venale del bene, sancito dall’art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del
2001, cui potrebbe farsi riferimento, secondo l’appellante, per liquidare il
danno da temporanea perdita o mancato godimento del bene di cui si ha la
proprietà.
La domanda risarcitoria viene formulata anche con riferimento alla porzione
del bene non occupata (quarto motivo) e si domanda, infine, sulla somma
eventualmente liquidata, il riconoscimento della spettanza della
rivalutazione e degli interessi (quinto motivo).
9.1. I motivi di appello sono fondati nei limiti che si vanno a chiarire.
Il comma 3 dell’art. 42-bis del t.u. sugli espropri dispone che: “Per il
periodo di occupazione senza titolo è computato a titolo risarcitorio, se
dagli atti del procedimento non risulta la prova di una diversa entità del
danno, l'interesse del cinque per cento annuo sul valore determinato ai
sensi del presente comma”.
Tale disposizione ha un campo di applicazione imprescindibilmente legato
all’applicazione del comma 1 dell’art. 42-bis, il quale, come ribadito da
questo Consiglio, in Adunanza Plenaria, ha disciplinato un procedimento
semplificato da seguire quando l’amministrazione disponga l’acquisizione al
proprio patrimonio di un bene che possieda, senza titolo, per un interesse
pubblico, e che sia stato modificato nella sua originaria consistenza.
Si tratta di una normativa dal preciso ambito di applicazione, che delinea
una “fattispecie normativa di diritto amministrativo settoriale in materia espropriativa, quale tassativamente predeterminata dal legislatore” (cfr.
Cons. Stato, Ad. Plen., 20.01.2020, n. 4, v., in particolare, punto
16.2.3.; Corte Cost., 30.04.2015, n. 71).
Relativamente alla questione se il parametro del 5 per cento annuo (previsto
dal comma 3) sia applicabile anche quando l’area sia restituita al
proprietario, il Collegio è consapevole che alcuni precedenti della Sezione
–richiamati dall’appellante- hanno liquidato proprio in base a tale
parametro, in via equitativa, il danno patito dal privato per l’occupazione
senza titolo (cfr. Cons. Stato Sez. IV, 27.05.2019, n. 3428; Sez. IV, 09.05.2018, n. 2765 ; Sez. IV, 23.09.2016, n. 3929; Sez. IV, 28.01.2016 n. 329; Sez. IV,
02.11.2011, n. 5844).
9.2. La Sezione, tuttavia, dopo maturo esame e re melius perpensa, ritiene
che questa impostazione vada tuttavia rimeditata.
10. Logicamente, prima ancora di esaminare l’applicabilità del comma 3 sopra
riportato per quantificare il danno fatto valere nel presente giudizio, il
Collegio ritiene che vada comunque approfondito se sia configurabile una
responsabilità risarcitoria e, in particolare, un danno derivante
dall’occupazione senza titolo di un fondo, allorché, nel giudizio, il
ricorrente si sia limitato ad allegare la mera lesione della facoltà di
godimento del bene, senza ulteriormente specificare e descrivere i
pregiudizi patrimoniali che da essa sono scaturiti.
Nel caso in esame, per l’appunto, in prime cure, l’interessato ha descritto
la lesione arrecata al suo diritto di proprietà, lamentando che
l’occupazione del bene da parte del Comune avrebbe cagionato il suo mancato
godimento per tutto il periodo in cui l’occupazione si è protratta.
È necessario domandarsi, dunque, preliminarmente, se, in ragione della
allegazione ‘estremamente sintetica’ del pregiudizio sofferto (ampliata in
questo secondo grado di processo), possa comunque riconoscersi l’esistenza
di un danno risarcibile, inteso come conseguenza pregiudizievole,
economicamente valutabile, verificatasi nel patrimonio di chi asserisce di
avere subito la lesione di una sua situazione giuridica soggettiva.
In base alle allegazioni dell’interessato, questo pregiudizio viene infatti
a coincidere con la lesione di una delle due facoltà del diritto di
proprietà –quella di godimento- in cui, tradizionalmente e usualmente, si
articola il contenuto di questa situazione giuridica soggettiva.
Da tale compromissione, nondimeno, non si fa scaturire una conseguenza
pregiudizievole specifica, quale sarebbe il non aver potuto trarre profitto
da un uso –e, dunque, da un godimento- diretto o indiretto del bene (ad es.,
adibendolo ad una proficua coltivazione oppure concedendolo in locazione
[per chi ritiene che quest’ultima ipotesi costituisca esplicazione della
facoltà di godimento e non di quella di disposizione]).
11. L’orientamento di questo Consiglio incline all’applicazione del criterio
dettato dall’art. 42-bis, comma 3, del d.P.R. n. 327 del 2001, per l’aspetto
relativo alla quantificazione del danno (per fattispecie diverse da quelle
disciplinate dal medesimo art. 42-bis, e in particolare per i casi di
rilevata spettanza di un risarcimento, nelle ipotesi di restituzione
dell’area o di constatato acquisto del bene da parte dell’Amministrazione in
assenza dell’atto formale di acquisizione), ha riguardato i profili relativi
all’“an”: si è affermato che, in presenza della lesione o della
compressione della facoltà di godimento derivanti dall’occupazione senza
titolo, non fosse necessario assolvere ad un onere di descrizione -del
pregiudizio patrimoniale sofferto- particolarmente particolareggiato e
dettagliato, per ammetterne la sussistenza.
A tale semplificazione degli oneri di allegazione e di prova della
sussistenza del danno patrimoniale, seguiva quella relativa alla
quantificazione attuata con l’applicazione dell’art. 42-bis, comma 3, del
d.P.R. n. 327 del 2001.
Si accoglieva, dunque, un’impostazione particolarmente favorevole al
proprietario sia sul versante dell’allegazione e della prova dell’an del
danno, che sul versante relativo al quantum.
12. La Sezione ritiene che si possa dare continuità a questo orientamento
solo per quanto riguarda l’an del danno: si può ritenere sufficientemente
provata la sussistenza di un danno patrimoniale per il solo fatto che il
proprietario di un bene ne abbia sofferto lo spossessamento e ne abbia
dunque perduto, temporaneamente, il godimento.
Non rileva in questa sede approfondire la questione se la lesione così
arrecata al diritto di proprietà costituisca un c.d. “danno-evento”, circa
il profilo dell’an, oppure un danno conseguenza “in re ipsa”, circa il
profilo del quantum.
A fronte di un sistema normativo articolato e composito, sovranazionale e
nazionale, scandito da norme di rango diverso, che attribuisce una
consistente e multiforme tutela al diritto di proprietà, mediante la
previsioni di differenti rimedi, il quadro degli oneri probatori gravanti su
chi si assume danneggiato va “semplificato”, nel rispetto delle regole che
presidiano il processo, al fine di dare piena attuazione al principio di
effettività della tutela giurisdizionale (art. 1 c.p.a.).
L’allegazione della perdita temporanea della facoltà di godimento
costituisce non soltanto un profilo rilevante ai fini della descrizione
della lesione occorsa alla situazione giuridica soggettiva, che si assume
violata, ma anche un aspetto dirimente per gli aspetti correlati ai
pregiudizi economici che da quella lesione sono scaturiti.
13. Secondo una valutazione basata sull’id quod plerumque accidit e, dunque,
facendosi applicazione dell’istituto delle presunzioni semplici (art. 2729
c.c.), può evidenziarsi come la perdita del godimento del bene si traduca,
di regola, nella perdita del valore d’uso di quel bene o, anche, della sua
mera “disponibilità statica”; di quella che, con locuzione descrittiva, può
essere definita come una “posta attiva potenziale” della sfera giuridica
dell’interessato, cioè dei molteplici impieghi, profittevoli o anche solo di
svago, che si traggono dall’essere nella disponibilità del bene.
13.1. Pur se con riguardo alla diversa fattispecie del ritardo del pagamento
di un’obbligazione pecuniaria, la Corte di Cassazione (Sez. Unite, 16.07.2008, n. 19499) ha fornito importanti principi in materia di prova:
- ha ammesso che si possa fornire la prova della sussistenza del maggior
danno attraverso il meccanismo delle presunzioni semplici, con tecniche di
semplificazione dell'istruzione probatoria variate nel corso del tempo e
adattate al mutare del contesto economico-sociale;
- ha affermato che “è stato da tempo chiarito come, in definitiva, è nel
rapporto tra normalità ed anormalità, tra regola ed eccezione che si
rinviene il criterio teorico pratico della ripartizione dell'onere della
prova, il quale non costituisce un istituto giuridico in sé concluso, ma un
modo di osservare l'esperienza giuridica. E la giurisprudenza ha quindi
fatto ricorso, tutte le volte che il modello legale prefissato non risultava
appagante in relazione alle posizioni delle parti riguardo ai singoli temi
probatori, allo schema della presunzione in modo talora così tipico e
costante da creare, in definitiva, vere e proprie regole di giudizio. Col
risultato non già di invertire l'onere della prova, ma di distribuirlo in
senso conforme alla realtà dell'esperienza positiva”;
- ha dunque ritenuto che, poiché di regola del bene-denaro si fa un uso
remunerativo o proficuo, si può presumere l’esistenza del (maggior) danno
occorso e di quantificarlo attraverso un criterio equitativamente
determinato.
13.2. Il principio di diritto suesposto risulta applicabile –ai sensi degli
articoli 2043, 2056 e 1226 del codice civile e con le precisazioni di
seguito esposte- anche quando l’Amministrazione abbia temporaneamente
occupato senza titolo un bene altrui (e non lo abbia formalmente acquisito
in applicazione dell’art. 42-bis del testo unico sugli espropri), nel corso
di un procedimento non conclusosi con un valido ed efficace decreto
d’esproprio o con un accordo di cessione.
Anche in tal caso, per un certo lasso di tempo, è configurabile il ‘mancato godimento’ di un bene (il fondo illegittimamente occupato) del quale,
usualmente, il titolare può fare un uso remunerativo o proficuo: anzi,
mentre la mera disponibilità del denaro di per sé non soddisfa esigenze ed
aspirazioni personali, la mera disponibilità di un proprio fondo ne consente
molteplici impieghi, profittevoli o anche solo di svago (come si è
evidenziato nel precedente punto 13).
14. Vi è inoltre un’ulteriore ragione di ordine sistematico che induce a
ritenere provato il pregiudizio economico, pur in assenza di ulteriori e più
specifiche allegazioni rispetto alla dimostrata occupazione senza titolo.
14.1. L’art. 50, comma 1, del d.P.R. n. 327 del 2001, dispone che, “Nel caso
di occupazione di un'area, è dovuta al proprietario una indennità per ogni
anno pari ad un dodicesimo di quanto sarebbe dovuto nel caso di esproprio
dell'area e, per ogni mese o frazione di mese, una indennità pari ad un
dodicesimo di quella annua”.
14.2. Anche per tale caso, il legislatore ha posto uno specifico criterio di
quantificazione preventiva e forfetaria del pregiudizio economico
conseguente alla emanazione del provvedimento autoritativo di occupazione
d’urgenza, sul presupposto che la perdita del godimento del bene di cui si è
proprietari sia inevitabilmente foriero (anche) di un pregiudizio di natura
economica.
15. Del resto, la consolidata giurisprudenza di questo Consiglio e della
Corte di Cassazione ha sempre ritenuto risarcibili i danni patiti dal
proprietario, in caso di occupazioni connesse a procedimenti di esproprio
poi non conclusi o conclusi con atti poi annullati, anche laddove l’unico
pregiudizio allegato era stato individuato nella compressione della facoltà
di godimento.
16. La Sezione ritiene, dunque, che qualora risulti allegata o provata la
temporanea privazione del godimento di un bene, ciò costituisca sempre una
lesione del diritto soggettivo da cui scaturisce, di regola, un danno
risarcibile, ferma restando la possibilità di provare le ulteriori poste di
danno sofferto in relazione al mancato uso profittevole del bene medesimo.
17. Si tratta, giova ribadirlo, di una semplificazione probatoria, attuata
mediante l’applicazione dell’istituto delle presunzioni semplici.
Chi ha sofferto l’occupazione illegittima di un proprio bene, e se ne
ritiene danneggiato, potrà allegare conseguenze economiche più puntuali e
significative rispetto a quelle genericamente ravvisate nella perdita
temporanea del godimento del bene, così come, viceversa, l’amministrazione
potrà invece dedurre circostanze o avvenimenti volti a smentire la
sussistenza di conseguenze economiche pregiudizievoli o volti a
ridimensionarle nella loro entità (sul punto è consolidato l’indirizzo della
giurisprudenza più recente, cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 5703 del 2019;
sez. IV, n. 3428 del 2019; sez. IV, n. 2765 del 2018; sez. IV, n. 2285 del
2018; sez. IV n. 5262 del 2017; sez. IV, n. 897 del 2017; sez. IV, n. 4636
del 2016; Cass. civ., sez. I, n. 29990 del 2018; sez. I, n. 5687 del 2017;
sez. III, n. 16670 del 2016).
18. Ritenuto dunque che l’allegazione e la prova della lesione del godimento
del bene siano sufficienti a comprovare la sussistenza del danno
patrimoniale, occorre esaminare le problematiche relative alla sua
quantificazione.
In particolare, vanno ora esposte le motivazioni per le quali la Sezione
ritiene che vada rimeditato il richiamato precedente orientamento che
liquidava in via automatica il danno derivante dal mero mancato godimento
del bene immobile occupato utilizzando, a titolo equitativo ex art. 1226 c.c.,
il parametro del 5% di cui al più volte menzionato art. 42-bis, comma 3, del d.P.R. n. 327 del 2001.
19. E’ evidente che l’applicazione del comma 3, ultimo periodo, dell’art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001, già in considerazione del suo testo
letterale, non risulta disciplinare una fattispecie di illecito aquiliano
rientrante nel genus dell’art. 2043 c.c..
Il comma 3, che prevede la corresponsione di questa somma a titolo
indennitario per l’occupazione senza titolo subita dal proprietario, è
infatti inserito nell’ambito di una disciplina interamente finalizzata a
disciplinare le conseguenze dell’emanazione del provvedimento di
acquisizione.
Il comma 3, dunque, correla, in modo evidente, la liquidazione forfetaria
del danno da occupazione senza titolo –nella misura ivi prevista–
esclusivamente all’eventualità che venga emanato il provvedimento di
acquisizione.
20. Anche da un punto di vista sistematico, vi sono elementi che inducono ad
escludere che si possa applicare, come una sorta di automatismo, il comma 3
dell’art. 42-bis del testo unico sugli espropri per quantificare il
risarcimento del danno da occupazione illegittima di un fondo, nel caso in
un cui sia mancato il provvedimento di acquisizione al patrimonio
indisponibile.
20.1. “La disciplina del procedimento espropriativo speciale ex art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001 regola, in modo tipico, esaustivo e tassativo, il
procedimento di (ri)composizione del contrasto tra l’interesse privato del
proprietario e l’interesse generale cui è preordinata l’acquisizione del
bene alla mano pubblica comportate la cessazione dell’illecito permanente”
(v. punto 16.2.3. della richiamata sentenza della Adunanza Plenaria n. 4 del
2020).
Tale affermazione evidenzia che l’art. 42-bis ha uno specifico ambito di
operatività e che il comma 3 ha disciplinato le conseguenze patrimoniali
dell’emanazione dell’atto di acquisizione, con disposizioni speciali –insuscettibili di applicazione analogica– riguardanti la spettanza di un
importo forfettario a titolo di danno non patrimoniale, nonché la spettanza
di un importo pari al cinque per cento annuo del valore del bene, per il
periodo in cui l’occupazione risulti stata effettuata senza titolo.
Il comma 3 dell’art. 42-bis ha disciplinato una fattispecie complessa
caratterizzata da una originaria condotta contra ius (l’occupazione senza
titolo), cui è seguita l’emanazione di un provvedimento secundum ius (l’atto
di acquisizione) e rispetto alla quale al proprietario –che perda tale
qualità– spettano importi (per la cui quantificazione sussiste la
giurisdizione del giudice civile) sia per la condotta contra ius (il
risarcimento forfettizzato del danno non patrimoniale e la misura del cinque
per cento annuo a seguito dell’occupazione senza titolo), sia per
l’emanazione del provvedimento secundum ius (l’indennizzo pari al
controvalore del bene).
Il medesimo comma 3 non si applica, invece, quando si sia verificata
l’occupazione senza titolo di un fondo e, però, manchi l’emanazione del
provvedimento di acquisizione del bene.
20.2. Va poi esclusa l’applicazione automatica, sia pure in via analogica,
del comma 3 dell’art. 42-bis, anche per un’altra ragione.
L’applicazione analogica postula la lacuna della disciplina nella quale si
invoca l’analogia.
Nella fattispecie in esame, non sussiste alcuna lacuna legislativa.
Si è verificato infatti un illecito disciplinato dall’art. 2043 del codice
civile (applicabile per il fatto che l’Amministrazione ha deciso di
restituire l’area a suo tempo occupata), sicché si applicano tutte le
disposizioni riguardanti l’illecito aquiliano.
20.3. Anche sul piano dell’interpretazione teleologica, vi sono chiari
elementi che inducono a rimeditare l’orientamento sinora seguito sul rilievo
dell’applicazione automatica del parametro del cinque per cento.
La liquidazione forfetaria prevista dal comma 3 spetta nell’ambito di un
procedimento finalizzato ad adeguare la situazione di diritto a quella di
fatto, nel rispetto del principio di legalità sostanziale più volte ribadito
dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo.
Nel disciplinare questo potere, il legislatore ha inteso dunque porre una
serie di misure volte a differenziare l’ordinario procedimento di
espropriazione, da questo procedimento di espropriazione “semplificato”, al
fine di rendere il primo più vantaggioso per l’amministrazione e il secondo,
invece, più oneroso, così da assicurarne il rapporto regola-eccezione.
Una simile finalità non potrebbe ritrovarsi, invece, al di fuori della
fattispecie descritta, con riferimento a quella che è un’ordinaria azione
risarcitoria, per illegittima compressione di una delle facoltà del diritto
dominicale su un fondo.
20.4. In altri termini, e per sintetizzare, osserva la Sezione che, per il
caso di occupazione di un fondo preordinata all’esproprio, il legislatore ha
preso in espressa considerazione due specifiche fattispecie, per determinare
il quantum spettante al proprietario:
a) nel caso di occupazione preordinata all’esproprio supportata dalla
relativa ordinanza (in cui la condotta risulta secundum ius), si applica
l’articolo 50, comma 1, del testo unico sugli espropri, sicché
l’Amministrazione deve preventivare tra i costi da affrontare anche quelli –quantificati dal legislatore- da sostenere per il pagamento di quanto
spetti al proprietario per il periodo di occupazione anteriore al
conseguimento del titolo di proprietà (costi di evidente notevole entità, in
un’ottica di disincentivazione di tale preventiva occupazione, non
disciplinata dall’originario testo unico approvato con il d.P.R. n. 327 del
2001, ma ridisciplinata prima della sua entrata in vigore);
b) nel caso di occupazione senza titolo, seguita dall’emanazione dell’atto
di acquisizione da parte dell’Autorità che utilizza il bene (in cui la
condotta inizialmente risulta contra ius e poi è seguita dal provvedimento
che adegua la situazione di diritto a quella di fatto), si applica l’art. 42-bis, comma 3, del medesimo testo unico, sicché l’Amministrazione deve
preventivare tra i costi da affrontare anche quelli –quantificati dal
legislatore- da sostenere per risarcire il danno arrecato per il periodo
d’occupazione (con costi di evidente notevole entità, in un sistema nel
quale ha avuto decisiva rilevanza la giurisprudenza della Corte europea dei
diritti dell’uomo, volta a disincentivare la verificazione di tali illeciti
e ad attribuire al proprietario leso un quid pluris, anche con
l’integrazione del quantum spettante rispetto a quanto ordinariamente spetti
nel caso di emanazione del decreto di esproprio),
Per il caso rilevante nel presente giudizio -di occupazione senza titolo
preordinata all’esproprio, poi seguita dalla restituzione dell’area- in
assenza di specifiche disposizioni di legge trovano invece applicazione, in
sede di giurisdizione esclusiva ai sensi dell’art. 133 del codice del
processo amministrativo, i sopra richiamati articoli 2043, 2056 e 1226 del
codice civile.
21. Va dunque esclusa l’applicabilità del criterio sancito, per altro
contesto e con diverse finalità, dall’art. 42 bis, comma 3, ultimo periodo,
del d.P.R. n. 327 del 2001, per quantificare il danno subito in vicende
analoghe a quella in esame.
22. Ravvisata l’inapplicabilità in via automatica dell’art. 42-bis del testo
unico sugli espropri –da riservarsi dunque ai casi da esso disciplinati-
ritiene il Collegio che, per la quantificazione del danno, in difetto di una
prova più puntuale sulle poste negative legate al mero mancato godimento
dell’immobile, possa farsi applicazione di altri criteri equitativi.
22.1. Nel compiere tale valutazione, il giudice amministrativo deve tenere
conto delle circostanze salienti relative al caso di specie, come emergenti
dalle allegazioni delle parti e dagli atti di causa, così da liquidare un
danno, che rispecchi, nella misura maggiore possibile, il pregiudizio
economico sofferto.
22.2. Esemplificativamente, potrà tenersi conto della maggiore o minore
estensione dell’area occupata, della durata dell’occupazione, dell’uso che
fino a quel momento ne aveva fatto il suo proprietario, di circostanze
attinenti al proprietario (se, ad es., è un imprenditore o un agricoltore o
comunque è un soggetto che impiega o può impiegare proficuamente quel bene
per scopi produttivi) oppure al bene stesso (destinazione urbanistica del
bene occupato, il contesto territoriale e il tessuto economico in cui esso è
inserito, la possibilità, in atto o in potenza, di adoperare quel bene per
scopi economici o di svago).
22.3. Relativamente al caso di specie, sui profili relativi alla vocazione
edificatoria del fondo -pure allegati dal proprietario del bene, ma
incidenti sul mancato esercizio della facoltà di godimento del bene- il
Collegio si è già diffusamente espresso in precedenza, quando si è
esaminato, per respingerlo, il secondo motivo di appello, evidenziandosi che
la compressione della facoltà di godimento non ha inciso in modo definitivo
sullo jus aedificandi, né ha prodotto –per quel che si ricava dagli
atti del giudizio- una compromissione o una diminuzione di questa
potenzialità di questo aspetto o altra lesione economicamente valutabile.
Non risultano, inoltre, allegate, da parte del proprietario del bene,
ulteriori circostanze utili a quantificare il danno occorso in maniera più
specifica.
Di rilievo è invece la contraria circostanza allegata dall’amministrazione
comunale, la quale ha evidenziato che, al momento dell’immissione nel
possesso, l’area occupata era incolta e a basso potenziale produttivo.
22.4. Questo Consiglio ritiene allora che:
- allorquando si intraprende la via dell’equità, non esiste un solo
criterio utile che consenta di farne applicazione, ma ve ne sono molteplici;
- specie in tema di risarcimento del danno da perdita della
disponibilità di un immobile, quelli maggiormente diffusi sono incentrati
sul c.d. valore locativo o sul saggio legale annuale di interessi computato
sul valore venale del bene;
- la Sezione, tuttavia, anche per ragioni di economia dei mezzi
processuali e di correntezza amministrativa, propende per un criterio
equitativo puro ancorato all’esemplificativa indicazione dei criteri sopra
richiamati;
- in linea di principio, anche per evitare il differimento della
definizione della controversia, è preferibile che, in sede di liquidazione
equitativa del danno, il giudice amministrativo quantifichi l’importo nel
suo preciso ammontare (evitando così la fissazione di parametri più o meno
determinati o comunque opinabili, la cui applicazione implica ulteriori
insorgenze di controversie sulla successiva quantificazione, se del caso, in
sede di giudizio d’ottemperanza, pur se nulla vieta la fissazione di un
parametro percentuale che possa tenere anche conto dei tassi annui degli
interessi legali);
- nella specie, è equo quantificare il danno subito, per
l’occupazione illegittima del fondo protrattasi dal 29.06.2010 al
03.09.2013, in una somma di euro cinquemila, complessivamente determinata al
momento di pubblicazione della presente sentenza.
Tale quantificazione si giustifica, alla luce dei criteri suesposti, in
considerazione delle seguenti considerazioni:
- il pregiudizio lamentato è semplicemente quelle relativo alla
perdita del mero godimento del bene, non essendone stato (ammissibilmente e
fondatamente) allegato uno più specifico;
- il bene in questione, al momento dell’occupazione e in
precedenza, non era adibito ad alcun uso produttivo;
- il bene occupato non si prestava neppure ad usi di mero svago o
diletto, trattandosi, come emerge dal verbale di immissione in possesso, di
un fondo sul quale “insistono sterpaglie ed arbusti”;
- l’occupazione si è protratta per un tempo non eccessivamente
lungo ed è stata seguita da una restituzione disposta in sede
amministrativa;
- non rileva in questa sede la dedotta vocazione edificatoria;
- l’istanza per il rilascio del permesso di costruire non può
rilevare quale possibile prova da far valere nel giudizio risarcitorio, non
essendovi concreti elementi che inducano a ritenere che vi fosse una reale
intenzione di procedere allo sfruttamento delle potenzialità edificatorie
del fondo (e d’altra parte non risulta che, dopo la restituzione del
terreno, vi siano state iniziative in questo senso).
23. Relativamente al danno asseritamente subito con riferimento alla
porzione residua del fondo, ritiene il Collegio che esso non spetti, in
ragione di quanto dedotto proprio dal ricorrente, circa la qualificazione
del fondo come un “unicum sotto il profilo sia funzionale che economico”,
sicché la somma riconosciuta è suscettibile di risarcire tutti gli aspetti
patrimonialmente apprezzabili, poiché essi non possono che considerarsi
unitariamente.
24. L’importo risarcitorio così liquidato si deve intendere quantificato al
valore attuale (ovvero al momento della pubblicazione della sentenza) -secondo il criterio della
taxatio rei utilizzabile in tutti i casi di
risarcimento del danno da illecito aquiliano, con l’utilizzo dell’equità
integrativa di cui all’art. 1226 c.c.– e quindi comprensivo degli accessori
quali gli interessi compensativi e la rivalutazione monetaria del debito di
valore (Cons. Stato, sez. IV, n. 3105 del 2018; sez. IV, n. 2778 del 2018;
sez. IV, n. 2765 del 2018; sez. IV, 5262 del 2017; sez. IV, n. 897 del 2017;
sez. IV, n. 4636 del 2016): dalla data di pubblicazione della presente
decisione decorreranno, sulla somma così individuata, gli interessi al tasso
legale. |
ESPROPRIAZIONE -
URBANISTICA: In
ordine alla qualificazione giuridica della fascia di rispetto, il vincolo imposto sulle aree site in fasce di rispetto stradale
o autostradale comporta un divieto assoluto di edificazione che le rende
legalmente inedificabili, trattandosi di limitazioni costituzionalmente
legittime, in quanto concernenti la generalità dei cittadini proprietari di
determinati beni individuati a priori per categoria e localizzazione,
espressione del potere conformativo della P.A. di cui all'art. 42 Cost..
Detto vincolo non ha natura espropriativa, né è preordinato
all'espropriazione, in base a quanto previsto dagli art. 32, comma 1, e 37,
comma 4, del d.p.r. n. 327/2001, e l'indennità di esproprio relativa alla
sola fascia di rispetto ablata deve, pertanto, calcolarsi secondo il valore
di mercato di terreno non edificabile.
---------------
Deve escludersi qualsiasi incidenza dell'area corrispondente alla fascia di
rispetto ablata sulla determinazione della volumetria edificabile del lotto
in cui è compresa.
Il vincolo di inedificabilità discende dalla legge, che prevale sulla
pianificazione e programmazione urbanistica, è sancito nell'interesse
pubblico e non può, perciò, configurarsi come mero "vincolo di distanza".
La connotazione di inedificabilità, che caratterizza ineludibilmente, anche
in base alle citate norme del T.U.E., la fascia di rispetto prima
dell'assoggettamento alla procedura ablatoria, osta a che se ne possa tenere
conto senza quella connotazione ai fini del computo della volumetria
edificabile, in unione con la parte non ablata, secondo la disciplina
urbanistica, che è sotto-ordinata gerarchicamente alla legge, fonte del
vincolo.
Non è, pertanto, condivisibile l'indirizzo, a cui si sono attenuti i Giudici
di merito (Cass. n. 5875/2012; Cass. n. 13970/2011), in base al quale anche
la superficie della fascia di rispetto deve computarsi nell'individuazione
della volumetria edificabile del lotto unitario, in quanto non vi sarebbe
interferenza o contrasto tra la qualificazione legale del vincolo e la
valutazione dello stesso ai fini urbanistici.
Deve, invece, ritenersi preclusa ogni difformità della seconda rispetto alla
prima, e ciò in quanto l'area corrispondente alla fascia di rispetto, a
prescindere dall'assoggettamento alla procedura espropriativa, non ha alcuna
potenzialità edificatoria in virtù di disposizioni di legge, non derogabili
dalla sotto-ordinata regolamentazione urbanistica, come è dato desumere
anche dal tenore letterale dell'art. 37, comma 4, d.p.r. 327/2001.
---------------
In tema di determinazione dell’indennità di espropriazione per pubblica
utilità, lo spostamento della fascia di rispetto autostradale all’interno
dell’area residua rimasta in proprietà degli espropriati, pur traducendosi
in un vincolo assoluto di inedificabilità, di per sé non indennizzabile, può
rilevare nella determinazione dell’indennizzo dovuto al privato, in
applicazione estensiva dell’art.33 d.p.r. n. 327 /2001, per il deprezzamento
dell’area residua mediante il computo delle singole perdite ad essa
inerenti, qualora risultino alterate le possibilità di utilizzo della stessa
ed anche per la perdita di capacità edificatoria realizzabile sulle più
ridotte superfici rimaste in proprietà.
Il vincolo imposto sulle aree site in fasce di rispetto stradale o
autostradale comporta un divieto assoluto di edificazione che le rende
legalmente inedificabili, trattandosi di limitazioni costituzionalmente
legittime, in quanto concernenti la generalità dei cittadini proprietari di
determinati beni individuati a priori per categoria e localizzazione,
espressione del potere conformativo della P.A. di cui all’art. 42 Cost.
La connotazione di inedificabilità, che caratterizza ineludibilmente, anche
in base alle citate norme del T.U. Espropriazioni, la fascia di rispetto
prima dell’assoggettamento alla procedura ablatoria, osta a che se ne possa
tenere conto senza quella qualità ai fini del computo della volumetria
edificabile, in unione con la parte non ablata, secondo la disciplina
urbanistica, che è sottordinata gerarchicamente alla legge, fonte del
vincolo.
Nell’ipotesi di spostamento della fascia di rispetto all’interno dell’area
residua di proprietà, concettualmente distinta dall’altra già considerata
(ablazione della fascia di rispetto), la corrispondente porzione del bene è
edificabile prima dell’imposizione sulla stessa del vincolo legale di
inedificabilità conseguente dall’ablazione della fascia di rispetto, mentre
diviene inedificabile solo dopo l’esproprio dell’originaria fascia di
rispetto, così producendosi, per la “nuova” fascia di rispetto che resta in
proprietà, la perdita, e quindi la sostanziale ablazione, di un diritto
diverso da quello di proprietà, ossia del diritto di costruire.
Ove si verifichi detta situazione, poiché deve aversi riguardo alla
consistenza dell’area ante procedura espropriativa e, in allora, non
esisteva il vincolo di inedificabilità su quella porzione di bene, non può
assumere rilevanza l’inedificabilità successiva della stessa ai fini
dell’applicazione dell’art. 33 d.p.r. n. 327/2001.
Dunque, l’edificabilità originaria di quella porzione consente di valutarne
la volumetria edificatoria realizzabile in unione con l’altra parte residua,
rimasta in proprietà degli espropriati, così come, peraltro, rimane in
proprietà anche la nuova fascia di rispetto
(massima tratta da www.sdanganelli.it).
---------------
1. Con il primo motivo la società ricorrente lamenta «Violazione e
falsa applicazione di norme di diritto in relazione all'art. 360, comma 1,
n. 3, cod. proc. civ.. Violazione degli artt. 32, 33, 37 e 40 d.p.r. n.
327/2001 del d.p.r. 495/1992 art. 26 del d.lgs. n. 285/1992 art. 6-
dell'art. 41-septies l. n. 1150/1941, aggiunto dall'art. 19 l. n. 765/1967 -
art. 9 l. n. 729/1961 - D.M. 01.04.1968 art. 4».
La ricorrente deduce che la natura giuridica della fascia di rispetto
comporta l'inedificabilità assoluta, come da giurisprudenza di questa Corte
che richiama, e di conseguenza trova applicazione l'art. 40 TUE, e non
l'art. 33. Sostiene che l'area in fascia di rispetto non possa concorrere al
calcolo della superficie edificabile e l'indennità di espropriazione deve
liquidarsi in base al valore agricolo del terreno, senza che rilevi il
trasferimento della relativa volumetria.
Adduce la ricorrente che la disciplina non può essere derogata dagli
strumenti generali di pianificazione e il deprezzamento della parte residua
non può essere preso in considerazione perché la fascia di rispetto è un
vincolo legale conformativo che cagiona un pregiudizio non indennizzabile.
La disposizione legislativa precede e prevale sugli strumenti generali di
pianificazione del territorio e la Corte territoriale avrebbe dovuto
preliminarmente accertare se la destinazione edificatoria fosse preclusa
dalle norme di legge citate in rubrica.
...
6. Il primo motivo è fondato nei limiti di seguito precisati.
Occorre premettere che le articolate censure espresse con il primo motivo di
ricorso involgono questioni di diritto in ordine alle quali il Collegio
ritiene di disattendere l'istanza dei controricorrenti di rimessione alle
Sezioni Unite, trattandosi di tematiche che, pur presentando profili di
indubbio rilievo nomofilattico, possono essere decise dalla Sezione semplice
mediante interpretazione del contesto normativa in via estensiva e
chiarificatrice di principi già affermati da questa Corte, nel senso che
sarà illustrato.
Le questioni sottoposte allo scrutinio di questa Corte possono così
sintetizzarsi:
A) qualificazione giuridica della fascia di rispetto e correlata
incidenza, in ipotesi di sua ablazione, sul criterio di determinazione
dell'indennità di espropriazione e sull'individuazione della volumetria
edificabile, ante assoggettamento alla procedura di espropriazione,
dell'originario lotto unitario;
B) rilevanza, in ordine all'individuazione della medesima
volumetria edificabile, del solo "spostamento" della fascia di
rispetto, nell'ipotesi in cui il vincolo, in conseguenza dell'espropriazione
parziale, si sia spostato sull'area contigua, rimasta in proprietà
dell'espropriato, venutasi a trovare per effetto dell'espropriazione
all'interno della fascia di rispetto, nella quale in precedenza non
rientrava.
6.1. In ordine alla qualificazione giuridica della fascia di rispetto,
secondo l'orientamento di questa Corte che il Collegio ritiene di
condividere, il vincolo imposto sulle aree site in fasce di rispetto stradale
o autostradale comporta un divieto assoluto di edificazione che le rende
legalmente inedificabili, trattandosi di limitazioni costituzionalmente
legittime, in quanto concernenti la generalità dei cittadini proprietari di
determinati beni individuati a priori per categoria e localizzazione,
espressione del potere conformativo della P.A. di cui all'art. 42 Cost. (tra
le tante Cass. n. 14632/2018, n. 13516/2015 e n. 27114/2013).
Detto vincolo non ha natura espropriativa, né è preordinato
all'espropriazione, in base a quanto previsto dagli art. 32, comma 1, e 37,
comma 4, del d.p.r. n. 327/2001, e l'indennità di esproprio relativa alla
sola fascia di rispetto ablata deve, pertanto, calcolarsi secondo il valore
di mercato di terreno non edificabile (Cass. 14632/2018 e Cass. n.
5875/2015).
6.2. In ordine alle tematiche, più controverse, che presuppongono la
sussistenza, accertata nella specie dalla Corte territoriale, dell'esproprio
parziale di bene unitario ai sensi dell'art. 33 d.p.r. n. 327 /2001, ritiene
il Collegio che sia condivisibile l'orientamento secondo cui deve escludersi
qualsiasi incidenza dell'area corrispondente alla fascia di rispetto ablata
sulla determinazione della volumetria edificabile del lotto in cui è
compresa (tra le altre Cass. n. 8121/2009 e Cass. n. 26899/2008).
Il vincolo di inedificabilità discende dalla legge, che prevale sulla
pianificazione e programmazione urbanistica, è sancito nell'interesse
pubblico e non può, perciò, configurarsi come mero "vincolo di distanza"
(sulla qualificazione della fascia di rispetto come vincolo di distanza cfr.
Cons. Stato n. 2076/2010 e Cass. n. 25118/2018).
La connotazione di inedificabilità, che caratterizza ineludibilmente, anche
in base alle citate norme del T.U.E., la fascia di rispetto prima
dell'assoggettamento alla procedura ablatoria, osta a che se ne possa tenere
conto senza quella connotazione ai fini del computo della volumetria
edificabile, in unione con la parte non ablata, secondo la disciplina
urbanistica, che è sotto-ordinata gerarchicamente alla legge, fonte del
vincolo.
Non è, pertanto, condivisibile l'indirizzo, a cui si sono attenuti i Giudici
di merito (Cass. n. 5875/2012; Cass. n. 13970/2011), in base al quale anche
la superficie della fascia di rispetto deve computarsi nell'individuazione
della volumetria edificabile del lotto unitario, in quanto non vi sarebbe
interferenza o contrasto tra la qualificazione legale del vincolo e la
valutazione dello stesso ai fini urbanistici.
Deve, invece, ritenersi preclusa ogni difformità della seconda rispetto alla
prima, e ciò in quanto l'area corrispondente alla fascia di rispetto, a
prescindere dall'assoggettamento alla procedura espropriativa, non ha alcuna
potenzialità edificatoria in virtù di disposizioni di legge, non derogabili
dalla sotto-ordinata regolamentazione urbanistica, come è dato desumere
anche dal tenore letterale dell'art. 37, comma 4, d.p.r. 327/2001.
6.3. A diversa conclusione si deve pervenire nell'ipotesi di spostamento
della fascia di rispetto all'interno dell'area residua di proprietà,
dovendosi rimarcare la sua dirimente distinzione dall'altra già considerata
(ablazione della fascia di rispetto).
Infatti, in ipotesi di spostamento, la corrispondente porzione del bene è
edificabile prima dell'imposizione sulla stessa del vincolo legale di
inedificabilità conseguente dall'ablazione della fascia di rispetto, mentre
diviene inedificabile solo dopo l'esproprio dell'originaria fascia di
rispetto, così producendosi, per la "nuova" fascia di rispetto che
resta in proprietà, la perdita, e quindi la sostanziale ablazione, di un
diritto diverso da quello di proprietà, ossia del diritto di costruire.
In altri termini, come chiarito da questa Corte in precedenti pronunce
(Cass. n. 5875/2012 e Cass. n. 23210/2012), il vincolo, in conseguenza
dell'espropriazione, può essersi spostato sull'area contigua, rimasta in
proprietà del privato, venutasi a trovare per effetto dell'espropriazione
all'interno della fascia di rispetto, nella quale in precedenza non
rientrava (Cass. n. 13970/2011; n. 6518/2007; n. 14643/2001). Ove si
verifichi detta situazione, poiché deve aversi riguardo alla consistenza
dell'area ante procedura espropriativa e, in allora, non esisteva il vincolo
di inedificabilità su quella porzione di bene, non può assumere rilevanza l'inedificabilità
successiva della stessa ai fini dell'applicazione dell'art. 33 d.p.r. n.
327/2001.
Dunque, l'edificabilità originaria di quella porzione consente di valutarne
la volumetria edificatoria realizzabile in unione con l'altra parte residua,
rimasta in proprietà degli espropriati, così come, peraltro, rimane in
proprietà anche la "nuova" fascia di rispetto. Negare rilevanza, nel
senso indicato, alla descritta situazione si porrebbe in contrasto con i
principi costantemente affermati da questa Corte in tema di espropriazioni
per pubblica utilità, anche alla luce delle pronunce della Corte
Costituzionale (sentenze n. 348/2007, n. 349/2007 e 181/2011) e della Corte
Europea dei Diritti dell'Uomo, secondo i quali non solo il sistema
indennitario deve ritenersi improntato al riconoscimento del valore venale
del bene ablato, ma l'indennizzo dovuto al proprietario, in base alla
disciplina dettata dal citato art. 33, riguarda anche la compromissione o
l'alterazione delle possibilità di utilizzazione della restante porzione del
bene rimasta nella disponibilità del proprietario stesso, in tutti i casi in
cui il distacco di una parte del fondo e l'esecuzione dell'opera pubblica
influiscano negativamente sulla proprietà residua, in modo da compensare il
pregiudizio arrecato dall'ablazione ad essa (tra le tante Cass. n.
34745/2019).
Con riguardo a detti principi deve orientarsi l'interpretazione dell'art. 33
nella fattispecie in esame, la cui peculiarità risiede nel collegamento
funzionale con una parte del fondo non espropriata, ma assoggettata, in
diretta dipendenza dall'ablazione della fascia di rispetto, a vincolo
assoluto di inedificabilità, e, quindi, alla perdita del diritto di
costruire, pur nella permanenza del diritto di proprietà.
In tale ottica interpretativa, può darsi rilevanza, ai fini della
configurabilità dell'esproprio parziale, a quel collegamento, a sua volta
direttamente funzionale all'espropriazione della proprietà dell'area già in
precedenza vincolata in quanto fascia di rispetto. Il fondamento normativa
di suddetta ricostruzione si può rinvenire nell'art. 32, comma 1, citato
d.p.r., che prescrive di tener conto, nella determinazione del valore del
bene ai fini indennitari, anche dell'espropriazione di un diritto diverso da
quello di proprietà, e a detta espropriazione è assimilabile l'ipotesi che
si sta scrutinando, in cui il proprietario ha perso il diritto di costruire
sulla porzione del fondo corrispondente alla "nuova" fascia di
rispetto.
In base a detta opzione ermeneutica, estensiva nei termini consentiti dalla
specificità del caso, il privato potrà ottenere il deprezzamento dell'area
residua non ablata commisurato alla reale perdita o diminuzione di capacità
edificatoria di essa.
Detto risultato può essere, infatti, raggiunto, in termini di effettività,
solo se la valutazione della capacità edificatoria, da effettuarsi mediante
comparazione delle caratteristiche del bene unitario ante e post procedura
espropriativa, comprenda, nella ricostruzione della situazione ante
procedura ablatoria, l'area della "nuova" fascia di rispetto
originariamente edificabile, determinandosi, diversamente opinando,
ingiustificata disparità di trattamento rispetto a situazioni con
caratteristiche iniziali identiche, quanto alla pregressa destinazione
urbanistica dell'area che, all'esito dell'espropriazione, rimane in
proprietà.
Resta da precisare, sempre in ragione della specificità del caso, che il
criterio di stima differenziale, che comporta la sottrazione all'iniziale
valore dell'intero immobile quello della parte rimasta in capo al privato,
non è vincolante e può essere sostituito dal criterio che procede al calcolo
del deprezzamento della sola parte residua, per poi aggiungerlo alla somma
liquidata per la parte espropriata, purché si raggiunga il medesimo
risultato di compensare l'intero pregiudizio arrecato dall'ablazione alla
proprietà residua (da ultimo Cass. n. 25385/2019 e n. 34745/2019).
Nella specie, poiché la perdita del diritto di costruire sull'area residua
corrispondente alla "nuova" fascia di rispetto non è indennizzabile,
il giudice di merito potrà accertare e calcolare la diminuzione di valore
dell'area residua rimasta in proprietà a seguito dell'avanzamento della
fascia di rispetto mediante il computo delle singole perdite ad essa
inerenti (Cass. n. 24304/2011).
In altri termini, l'indennizzo eventualmente spettante al proprietario per
la perdita di valore dell'area residua dovrà essere calcolato in relazione
alla più limitata capacità edificatoria consentita sulla più ridotta
superficie rimasta a seguito della creazione o dell'avanzamento della fascia
di rispetto (Cass. n. 7195 del 2013).
Sulla scorta delle considerazioni che precedono, il primo motivo va
accolto nei limiti indicati, con la cassazione dell'ordinanza impugnata, e i
Giudici di merito dovranno attenersi al principio di diritto secondo il
quale, in tema di determinazione dell'indennità di espropriazione per
pubblica utilità, lo spostamento della fascia di rispetto autostradale
all'interno dell'area residua rimasta in proprietà degli espropriati, pur
traducendosi in un vincolo assoluto di inedificabilità, di per sé non
indennizzabile, può rilevare nella determinazione dell'indennizzo dovuto al
privato, in applicazione estensiva dell'art. 33 d.p.r. n. 327 /2001, per il
deprezzamento dell'area residua mediante il computo delle singole perdite ad
essa inerenti, qualora risultino alterate le possibilità di utilizzo della
stessa ed anche per la perdita di capacità edificatoria realizzabile sulle
più ridotte superfici rimaste in proprietà (Corte
di Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 30.06.2020 n. 13203). |
ESPROPRIAZIONE: Ai fini della decorrenza del termine d'impugnazione
dell'approvazione del progetto di un'opera pubblica, avente valore di
dichiarazione di pubblica utilità, non è sufficiente la mera pubblicazione
dell'atto ma è necessaria la notifica o, almeno, la piena conoscenza dello
stesso, quante volte esso ha effetti specifici e circoscritti all'area da
espropriare per l'esecuzione dell'opera e, quindi, è rivolto a soggetti
determinati anche se non esplicitamente nominati.
---------------
Da un lato, "non può accedersi
all'impostazione secondo cui il più recente provvedimento, nella specie il
decreto di esproprio, avrebbe prodotto una sorta di effetto "novativo"
dell'intera procedura, con la conseguenza di rimettere l'interessato in
termini per l'impugnazione di atti anteriori, già immediatamente lesivi e
incontestatamente a lui noti o comunque conoscibili, e tuttavia non
censurati a suo tempo nel termine di legge".
Dall’altro, “la dichiarazione di pubblica
utilità non può essere considerata un atto meramente preparatorio del
procedimento espropriativo e del conclusivo decreto di espropriazione,
trattandosi invece di atto presupposto dotato di autonoma lesività e,
quindi, da impugnarsi immediatamente, con la conseguenza che la sua mancata
tempestiva impugnazione determina la preclusione a dedurre, in sede di
impugnativa del decreto di esproprio, motivi attinenti ad asseriti vizi
della dichiarazione stessa".
---------------
È ben noto che, ai sensi dell’art. 12, comma 1, lett. a), del d.P.R. n.
327/2001, nella procedura espropriativa, la dichiarazione di pubblica
utilità è un effetto che consegue ex lege quando l’Autorità espropriante
approva il progetto definitivo dell’opera pubblica, che non richiede una
particolare dichiarazione, cosicché il termine quinquennale per la
tempestiva adozione del decreto di esproprio inizia a decorrere da tale
approvazione.
Né sul punto assume rilevanza la circostanza dell’omessa comunicazione
dell’avvio del procedimento teso ad adottare la disposta proroga, poiché,
come è stato osservato in giurisprudenza, "se è pur vero che la
proroga dei termini fissati dalla dichiarazione di pubblica utilità richiede
la previa comunicazione di avvio del procedimento, è altrettanto vero che
occorre verificare, in concreto, quali avrebbero potuto essere gli apporti
partecipativi dei privati e, dunque, un eventuale, diverso contenuto del
provvedimento, con ciò evitando che, in assenza di specifiche allegazioni,
sia validata una rilevanza meramente formale dell'omissione di comunicazione".
---------------
2.2.- Tanto premesso, con il presente ricorso, la parte ricorrente
ha impugnato il suddetto decreto di esproprio, nonché, quali atti precedenti
e presupposti, le delibere in epigrafe indicate, concernenti la procedura espropriativa complessivamente considerata.
Osserva il Collegio che le censure dedotte nel gravame sono tuttavia
riconducibili non a vizi propri del provvedimento ablativo finale, bensì a
pretesi vizi, in tesi inficianti quest’ultimo, derivati dall’illegittimità
delle antecedenti delibere comunali n. 26/2013 e n. 10/2015, che, secondo la
prospetta impostazione censoria, avrebbero prorogato l’originario termine di
efficacia della dichiarazione di pubblica utilità oltre il limite preclusivo
posto dal combinato disposto degli artt. 12 e 13 DPR n. 327/2001.
2.3.- Tenuto conto di quanto appena osservato, con riguardo alla delibera n.
26/2013 del 28.2.2013, il mezzo di gravame all’uopo articolato appare,
all’evidenza, tardivamente proposto, essendo stata la predetta delibera
richiamata e superata dalla delibera n. 181 del 12/12/2013, non
specificamente impugnata dalla ricorrente. Invero, con tale delibera la
Giunta Comunale aveva approvato il progetto definitivo relativo alla
viabilità ex art. 12, D.P.R. n. 327/2001.
Orbene, il giudice di appello, abbandonando la risalente giurisprudenza (Cons.
Stato - Sez. VI, 18.01.2007, n. 86) e pervenendo ad un approdo maggiormente sostanzialistico (ex aliis, Cons. Stato - Sez. IV, 05.06.2013, n. 3112), ha
infine affermato che "ai fini della decorrenza del termine d'impugnazione
dell'approvazione del progetto di un'opera pubblica, avente valore di
dichiarazione di pubblica utilità, non è sufficiente la mera pubblicazione
dell'atto ma è necessaria la notifica o, almeno, la piena conoscenza dello
stesso, quante volte esso ha effetti specifici e circoscritti all'area da
espropriare per l'esecuzione dell'opera e, quindi, è rivolto a soggetti
determinati anche se non esplicitamente nominati" (cfr.: Consiglio di Stato
- sez. IV, 11/11/2014, n. 5526)
Nella specie, sebbene sia pacifico che non vi sia stata comunicazione
personale della delibera recante l’approvazione del progetto definitivo e,
quindi, della rinnovata dichiarazione di pubblica utilità, reputa il
Collegio, in linea con il riferito orientamento giurisprudenziale, che la
decorrenza del termine di proposizione del gravame deve farsi risalire
all’esecuzione, avvenuta in data 27.05.2014, del decreto n. 11/2014 di
occupazione dei cespiti successivamente espropriati (verdi verbale
sottoscritto dal delegato della ricorrente).
A fronte di ciò, la circostanza che parte ricorrente non conoscesse
l'esistenza della delibera n. 181/2013 appare irrilevante: se anche fosse
vero che non ne fosse venuta formalmente a conoscenza, non è dubbio che ciò
avvenne per fatto imputabile a propria autoresponsabilità, nonostante
l'amministrazione l’avesse messa in condizione di conoscerla onde,
eventualmente, dedurre in modo tempestivo il vizio riguardante la sua
asserita tardiva adozione.
Inoltre, deve considerarsi l'effetto di presunzione legale di conoscenza
dell'avvio del procedimento di approvazione del progetto definitivo,
prodottosi in capo alla ricorrente in conseguenza della pubblicazione del
relativo avviso, con le modalità semplificate dell'art. 11, comma 2 e 16,
comma 5, del DPR 327/2001 (trattandosi di oltre cinquanta destinatari).
La ricorrente, avuta conoscenza dell'esistenza di una procedura
espropriativa in corso e, segnatamente, dell'avvio del procedimento di
dichiarazione di pubblica utilità, era senz’altro onerata ad assumere ogni
iniziativa per la tempestiva impugnativa dei relativi atti, senza attendere
l’adozione del decreto di esproprio, anche in considerazione del fatto che
le doglianze articolate in ricorso attengono proprio alla legittimità del
procedimento con cui la suddetta dichiarazione era stata prorogata.
Si trattava di una condotta concretamente esigibile e rispondente al
principio di buona fede che impone alle parti, anche nella relazione
procedimentale, obblighi di informazione e di denuncia tempestivi, la cui
omissione determina conseguenze che non possono non ricadere sulle parti
medesime, in applicazione del generale principio di auto-responsabilità (cfr.
in questo senso il principio di diritto enunciato da Cons. Stato, IV, 11.11.2014, n. 5526).
Infine, corrobora la conclusione cui si è pervenuti il consolidato formante
giurisprudenziale, fermo nell’affermare che, da un lato, "non può accedersi
all'impostazione secondo cui il più recente provvedimento, nella specie il
decreto di esproprio, avrebbe prodotto una sorta di effetto "novativo"
dell'intera procedura, con la conseguenza di rimettere l'interessato in
termini per l'impugnazione di atti anteriori, già immediatamente lesivi e
incontestatamente a lui noti o comunque conoscibili, e tuttavia non
censurati a suo tempo nel termine di legge" (Cons. di St., sez. IV, 23.02.2012, n. 981);
dall’altro, che “la dichiarazione di pubblica
utilità non può essere considerata un atto meramente preparatorio del
procedimento espropriativo e del conclusivo decreto di espropriazione,
trattandosi invece di atto presupposto dotato di autonoma lesività e,
quindi, da impugnarsi immediatamente, con la conseguenza che la sua mancata
tempestiva impugnazione determina la preclusione a dedurre, in sede di
impugnativa del decreto di esproprio, motivi attinenti ad asseriti vizi
della dichiarazione stessa" (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 22.12.2014, n. 6280).
Deve, pertanto, ritenersi che, al momento della proposizione del presente
gravame, era oramai decorso il termine decadenziale per l'impugnazione sia
della delibera n. 26/2013 del 28.02.2013, sia della delibera n. 181 del
12.12.2013 di approvazione del progetto definitivo.
2.4.- Passando alla disamina della delibera n. 10/2015 del 03.04.2015, il
mezzo di gravame si manifesta palesemente infondato, poiché la proroga
biennale è stata disposta prima della scadenza quinquennale dell’efficacia
della dichiarazione di pubblica utilità disposta con la delibera n. 181/2013
ed il decreto di espropriazione del 21.02.2017, rispetto a tali atti, è stato
legittimamente emesso prima della loro scadenza.
È ben noto che, ai sensi dell’art. 12, comma 1, lett. a), del d.P.R. n.
327/2001, nella procedura espropriativa, la dichiarazione di pubblica
utilità è un effetto che consegue ex lege quando l’Autorità espropriante
approva il progetto definitivo dell’opera pubblica, che non richiede una
particolare dichiarazione, cosicché il termine quinquennale per la
tempestiva adozione del decreto di esproprio inizia a decorrere da tale
approvazione (cfr.: Consiglio di Stato, sez. III, 25/02/2014, n. 906).
Né sul punto assume rilevanza la circostanza dell’omessa comunicazione
dell’avvio del procedimento teso ad adottare la disposta proroga, poiché,
come è stato osservato in giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV,
20.07.2016 n. 3248; id. 09.11.2012 n. 5822), "se è pur vero che la
proroga dei termini fissati dalla dichiarazione di pubblica utilità richiede
la previa comunicazione di avvio del procedimento, è altrettanto vero che
occorre verificare, in concreto, quali avrebbero potuto essere gli apporti
partecipativi dei privati e, dunque, un eventuale, diverso contenuto del
provvedimento, con ciò evitando che, in assenza di specifiche allegazioni,
sia validata una rilevanza meramente formale dell'omissione di comunicazione"
(cfr.: TAR Veneto, sez. II, 19/12/2019, n. 1391).
Nell’odierna fattispecie, la parte ricorrente non ha allegato quale avrebbe
potuto essere il proprio apporto procedimentale, limitandosi in proposito ad
affermare la sopravvenuta scadenza del termine di efficacia della
dichiarazione di pubblica utilità (argomentazione ut supra confutata) e la
generica insussistenza delle ragioni per la proroga.
Pertanto, in parte qua, alla luce delle argomentazioni sopra svolte, il
gravame è manifestamente infondato
(TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 24.06.2020 n. 2573 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Scelta
tra azione risarcitoria a fronte di una occupazione sine
titulo nell’ambito di un procedimento di espropriazione
mai completato e restituzione del bene.
----------------
Risarcimento danni - Espropriazione per pubblica utilità – Occupazione
sine titulo – Legittimazione – E’ del proprietario –
Rinuncia all’azione di restituzione – Necessità – Rinuncia
al diritto di proprietà – Esclusione – Scelta tra
restituzione e risarcimento – E’ dell’Amministrazione.
La proposizione dell’azione risarcitoria a fronte di
una occupazione sine titulo nell’ambito di un procedimento
di espropriazione mai completato è un’opzione spettante al
proprietario ed implica rinunzia all’azione di restituzione
e non già al diritto di proprietà; peraltro, l’abdicazione
all’azione non interferisce con i poteri discrezionali della
P.A. di disporne l’acquisizione sanante ex art. 42-bis, con
la conseguenza che l’opzione finale tra restituzione e
risarcimento resta pur sempre rimessa alla P.A., sia pure
nei limiti in cui residua il relativo potere discrezionale,
tenuto conto dell’interesse pubblico alla conservazione
dell’opera, ove realizzata (1).
----------------
(1) Ha chiarito il Tar che abrogato l’istituto di matrice
giurisprudenziale dell’”accessione invertita”, la
richiesta risarcitoria a fronte dell’irreversibile
trasformazione del fondo comporterebbe una rinunzia
abdicativa al diritto di proprietà (Cons.
St., sez. II, 28.11.2019, n. 8119 e
17.05.2019, n. 3195).
Non sono tuttavia mancate perplessità rispetto a tale
ricostruzione.
In particolare il
Tar Piemonte, con sentenza della I Sez. n. 368 del
28.03.2018, aveva escluso l’ammissibilità di una
rinuncia al diritto di (piena) proprietà che avrebbe
lasciato il bene privo di proprietario.
Ad avviso del Tar l’opzione per l’azione risarcitoria
rappresenta espressione della volontà del proprietario di
non avvalersi della tutela restitutoria rispetto al bene
illecitamente occupato. Comporta, in altri termini, una
rinunzia all’azione di restituzione del bene, nell’ambito di
più opzioni alternative, nessuna delle quali prodromica né
pregiudiziale all’altra.
Peraltro, se è vero che la richiesta risarcitoria del
proprietario dell’area ha valore di rinunzia abdicativa
all’azione di restituzione del bene illecitamente occupato
(o addirittura, secondo l’orientamento prevalente, alla
proprietà stessa) e che-si ribadisce- “la scelta dei
rimedi a tutela della proprietà è pur sempre riservata al
privato danneggiato” (Cass. civile, sez. I, ord.,
08.01.2020, n. 144 su citata), non appare in linea con
l’attuale quadro giuridico estenderne gli effetti fino a
elidere il potere discrezionale attribuito in via esclusiva
all’Ente che ha utilizzato un’area
sine titulo di valutarne l’acquisizione in proprietà (in alternativa
alla restituzione previa riduzione in pristino dell’opera
ivi realizzata), stante la specifica norma di legge (art.
42-bis), perfettamente inquadrabile nella cornice
costituzionale dei limiti alla proprietà privata (art. 42
Cost.).
Pertanto, incombe sull’Ente comunale l’obbligo della
suddetta valutazione; ove ne deliberasse l’acquisizione in
proprietà, sarebbe tenuto a liquidare in favore di parte
ricorrente il valore venale del bene al momento
dell'emanazione del provvedimento quale indennizzo a fronte
del pregiudizio patrimoniale subito (combinato disposto
commi 1 e 3 dell’art. 42-bis), nonché –a tenore dello stesso
42-bis, comma 3, ultima parte– un risarcimento del 5% del
valore venale stesso, per ogni anno successivo alla scadenza
dell’occupazione legittima (avvenuta per decorrenza del
termine quinquennale dall’immissione in possesso), a fronte
del pregiudizio prodotto dall’occupazione sine titulo;
salva la detrazione di quanto eventualmente già corrisposto
e subordinando –come per legge- l'effetto traslativo
dell’acquisizione sanante all'effettivo pagamento delle
somme.
Il risarcimento per il protrarsi dell’occupazione sine
titulo –dovuto ex art. 42-bis, comma 3, ultima parte-
dovrà essere corrisposto anche nel caso in cui
l'Amministrazione optasse per la restituzione del bene (TAR
Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 30.03.2020 n. 455 - commento tratto da e
link a www.giustizia-amministrartiva.it).
---------------
SENTENZA
2 - Il gravame è fondato e va accolto nei termini che saranno di seguito
chiariti, previa reiezione delle eccezioni preliminari.
2.1 - Prendendo le mosse dall’eccezione di inammissibilità
per mancata formulazione della domanda di restituzione, deve
sinteticamente rimarcarsi che, abrogato l’istituto di
matrice giurisprudenziale dell’”accessione invertita”,
la richiesta risarcitoria a fronte dell’irreversibile
trasformazione del fondo comporterebbe –stando ad un recente
ma consolidato orientamento della giurisprudenza
amministrativa– una rinunzia abdicativa al diritto di
proprietà (cfr., da ultimo, C.d.S., Sez. II, 28.11.2019, n.
8119 e 17.5.2019, n. 3195; in termini, C.d.S., Sez. IV,
26.2.2019 n. 1332; cfr. anche la più risalente decisione
dell’Adunanza plenaria n. 2 del 09.02.2016); posizione sulla
quale è attestata anche la prevalente giurisprudenza dei
Tribunali amministrativi (cfr., tra le molteplici pronunzie,
TAR Puglia-Lecce Sez. III, 13/01/2020, n. 19; TAR
Campania-Napoli Sez. V, 15/10/2019, n. 4873; TAR Veneto Sez.
II, 12/06/2019, n. 691).
Non sono tuttavia mancate perplessità rispetto a tale
ricostruzione.
In particolare il Tar Piemonte, con sentenza della prima
Sezione n. 368 del 28.03.2018, aveva escluso l’ammissibilità
di una rinuncia al diritto di (piena) proprietà che avrebbe
lasciato il bene privo di proprietario, osservando quanto
segue: “La rinunzia abdicativa non è ammessa in via
generale dal nostro ordinamento, non potendo essere desunta
in via interpretativa da norme che disciplinano casi
specifici di rinunzia, dai quali semmai si dovrebbe ricavare
che il legislatore ha voluto ammettere solo figure tipiche
di rinunzia. In particolare, dall'analisi delle norme
codicistiche che contemplano ipotesi di rinuncia ai diritti
reali su cosa altrui è lecito presumere che il legislatore
abbia ammesso solo quelle fattispecie di rinunzia abdicativa
a diritti immobiliari che non determinano una "vacatio"
nella titolarità del bene, con conseguente nullità dei
negozi potenzialmente idonei a determinarla e, su tutti,
della rinunzia abdicativa al diritto di proprietà
immobiliare”.
E la quarta Sezione del Consiglio di Stato, con sentenza n.
4636 del 07.11.2016, aveva altresì stigmatizzato i limiti
della ricostruzione stessa, delineando una “rinunzia (abdicativa)
sottoposta a condizione risolutiva, il cui mancato
inveramento è rappresentato dal provvedimento con il quale
l'amministrazione procede all'effettiva liquidazione del
danno e che, pertanto, va trascritto anche al fine di
conseguire gli effetti dell'acquisizione della proprietà in
capo all'amministrazione”.
Ritiene il Collegio che l’opzione per l’azione risarcitoria
possa piuttosto rappresentare espressione della volontà del
proprietario di non avvalersi della tutela restitutoria
rispetto al bene illecitamente occupato. Comporti, in altri
termini, una rinunzia all’azione di restituzione del bene,
nell’ambito di più opzioni alternative, nessuna delle quali
prodromica né pregiudiziale all’altra; ricostruzione questa
supportata da un recentissimo orientamento espresso dalla
Corte di Cassazione alla stregua del quale “la scelta dei
rimedi a tutela della proprietà è pur sempre riservata al
privato danneggiato” al quale, in particolare, non può
imputarsi “il mancato esperimento del rimedio
restitutorio in forma specifica che l’ordinamento interno e
internazionale gli accorda per la tutela della proprietà”
(cfr.: Cass. civile, Sez. I, ord. 08.01.2020 n. 144).
In ogni caso, per quanto precede, non può rinvenirsi nella
fattispecie alcuna preclusione processuale e, pertanto,
vanno disattese le prospettazioni sul punto della difesa
dell’Amministrazione comunale; ferma restando la diversa
questione, di cui si tratterà al punto 3, delle coordinate
del potere discrezionale dell’Amministrazione di valutare
l’opzione dell’acquisizione sanante, ex art. 42-bis del
D.P.R. n. 327/2001 (T.U. Espropri), in alternativa alla
restituzione del suolo, previa riduzione in pristino
dell’opera.
2.2 - Va, parimenti, respinta l’ulteriore eccezione
preliminare, formulata in via subordinata dal Comune
resistente, di intervenuta usucapione, avendo la
giurisprudenza escluso –tenuto conto dell’istituto dell’”accessione
invertita” di creazione pretoria- la valenza ad
usucapionem del possesso mantenuto dall’Amministrazione su
un bene occupato sine titulo, in ragione del fatto
che, a fronte di tale condotta materiale, il proprietario
del bene non si vedeva riconosciuta dall'ordinamento, alcuna
azione utile per recuperare il possesso del fondo; ciò allo
scopo di evitare che, sotto mentite spoglie (per alleviare
gli oneri finanziari altrimenti gravanti
sull'Amministrazione responsabile), si reintroducesse una
forma surrettizia di espropriazione indiretta in violazione
dell'art. 1 del Protocollo addizionale della C.E.D.U. (cfr.,
tra le molteplici pronunzie, TAR Puglia Lecce Sez. I,
17/07/2019, n. 1276; TAR Campania Napoli Sez. V, 03/10/2019,
n. 4724; TAR Campania Salerno Sez. II, 11/10/2019, n. 1730;
TAR Campania Napoli Sez. V, 15/10/2019, n. 4873; TAR Veneto
Venezia Sez. II, 12/06/2019, n. 691; TAR Calabria Catanzaro
Sez. II, 16/05/2019, n. 981).
Sul punto si era già espressa l’Adunanza plenaria nel 2016,
con la stessa decisione n. 2 su richiamata, statuendo che
l’usucapione potesse compiersi in ipotesi di occupazione
sine titulo per fini di pubblica utilità
subordinatamente alle seguenti condizioni: “che: - sia
effettivamente configurabile il carattere non violento della
condotta; - si possa individuare il momento esatto della
interversio possesionis; - si faccia decorrere la
prescrizione acquisitiva dalla data di entrata in vigore del
D.P.R. n. 327/2001 (30.06.2003), per evitare che sotto
mentite spoglie (alleviare gli oneri finanziari altrimenti
gravanti sull'Amministrazione responsabile), si reintroduca
una forma surrettizia di espropriazione indiretta in
violazione dell'art. 1 del Protocollo addizionale della Cedu…”
(in termini, di recente C.d.S., sez. IV, n. 5703 del
09.05.2019 e C.d.S. Sez. II, n. 8119 dell’08.10.2019).
Del resto, come la prescrizione estintiva non corre a danno
del titolare del diritto che non sia nelle condizioni
giuridiche di farlo valere, così l’usucapione (quale forma
di prescrizione acquisitiva) non è concepibile allorché il
proprietario non abbia alcuna facoltà giuridica di rientrare
in possesso del bene (C.d.S. Stato, sez. IV, 01.08.2017, n.
3838; C.d.S.., sez. IV, 30.08.2017, n. 4106; C.d.S., sez. IV,
13.08.2019, n. 5703).
3 - Venendo alla pretesa sostanziale, la domanda può trovare
accoglimento, nei termini qui di seguito enunciati.
3.1- Come anticipato in fatto, l’area è stata legittimamente
occupata in virtù di valida ed efficace dichiarazione di
pubblica utilità ma, trasformata irreversibilmente per la
realizzazione dell’opera pubblica (Biblioteca comunale), non
è mai stata oggetto di un definitivo decreto di esproprio
per pubblica utilità.
Parte ricorrente chiede i danni da perdita di proprietà,
quantificandoli in €. 331.656,33 quale valore venale del
bene o nella “maggiore o minore determinanda somma, oltre
interessi e rivalutazione monetaria dalla occupazione del
suolo e sino al soddisfo”.
Orbene, deve in proposito rimarcarsi che –come su accennato-
le ripetute pronunzie della Corte europea dei diritti
dell’uomo hanno determinato la cancellazione dal nostro
ordinamento dell’istituto della c.d. “accessione
invertita”, ideato e disciplinato dalla giurisprudenza e
privo di suggello normativo, rilevandone l’insanabile
contrasto con le garanzie di cui la proprietà privata è
assistita all’interno della Carta europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e, più precisamente,
all’art. 1 del Protocollo n. 1 (prima tra tutte, C.e.d.u.,
Sez. II, 30.05.2000, Carbonara e Ventura c/ Italia).
Tali pronunzie hanno destabilizzato e mutato il vecchio
sistema nazionale assestato sull’elaborazione di principi
giurisprudenziali condivisi, sicché oggi la realizzazione di
un intervento pubblico su fondo illegittimamente occupato
costituisce un mero fatto, inidoneo a determinare il
trasferimento della proprietà, conseguibile in via esclusiva
attraverso un formale atto di acquisizione
dell’Amministrazione, non anche attraverso atti o
comportamenti di tipo rinunziativo o abdicativo (cfr., da
ultimo, C.d.S. Sez. IV, 08.09.2015, n. 4193; C.d.S., Sez. IV,
03.09.2014, n. 4479; TAR Sicilia Palermo, Sez. III,
05.06.2015, n. 1317; TAR Sicilia Catania Sez. II,
27.02.2015, n. 615; cfr., in termini, anche questa Sezione,
16.09.2014, n. 1111).
Non può tuttavia dubitarsi che –nel mutato quadro
ordinamentale- l’Amministrazione abbia l’obbligo giuridico
di far venir meno l’occupazione
sine titulo, adeguando la situazione di fatto a quella di diritto. Ed
è proprio in tale mutato contesto che si giustifica
l’inserimento del richiamato art. 42-bis nel T.U. Espropri,
alla stregua del quale l'Autorità che utilizza un bene
immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in
assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio
o dichiarativo della pubblica utilità, valutati gli
interessi in conflitto, può –ha dunque la facoltà di-
disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al
suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia
corrisposto un indennizzo (ex art. 42-bis, commi 1 e 3, T.U.
Espropri).
Secondo condivisa giurisprudenza, il potere sanante rimesso
alla discrezionalità dell’Amministrazione non è mai
precluso; neanche in ipotesi di annullamento giurisdizionale
di atti della procedura espropriativa. In tali casi (ai
quali può evidentemente assimilarsi la fattispecie del
mancato perfezionamento della procedura stessa, che viene
qui in rilievo), ove il giudice - in applicazione dei
principi generali - condannasse sic et simpliciter
l’Amministrazione intimata alla restituzione del bene
illegittimamente trasformato, il potere sanante stesso
risulterebbe eliso dal vincolo del giudicato, con
conseguente frustrazione degli obiettivi avuti a riferimento
dal legislatore (cfr.: C.d.S., Sez. IV, 16.03.2012, n. 1514;
in termini Tar Sicilia, Palermo, Sez. III, 3238/2014 e
questo Tar Puglia Bari, Sez. III, n. 1104/2014).
In tali decisioni si è, pertanto, condivisibilmente
addivenuti alla conclusione che i principi desumibili dalla
norma su citata e le possibilità insite nel principio di
atipicità delle pronunce di condanna, ex art. 34 lett. c)
c.p.a., impongano una limitazione della condanna stessa
all'obbligo generico di provvedere a tenore dell’art. 42-bis
T.U. Espropri.
La quarta Sezione del Consiglio di Stato è tornata, a più
riprese, sulla questione, ribadendo che “il potere di
acquisizione c.d. sanante spetta alla P.A. a titolo
originario e autonomo, essendo soggetto esclusivamente alla
valutazione comparativa degli interessi imposta dal
Legislatore ed esercitabile anche in corso di causa, e
finanche in presenza di un giudicato già formato in materia
di occupazione sine titulo” (cfr. Sez. IV, 7.7.2015, n.
3363); da ultimo, ha richiamato e ribadito “l’orientamento
giurisprudenziale formatosi in materia, secondo cui, dinanzi
ad un’occupazione che possa qualificarsi sine titulo, spetta
alla pubblica Amministrazione attivarsi affinché venga posto
in essere un valido titolo di acquisto dell’area sulla quale
l’opera pubblica insiste (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
16.03.2012, n., 1514 e 26.03.2013, n. 1713)” (cfr.:
C.d.S. IV Sezione, n. 7334 del 28.10.2019, punto 22).
3.2 - Orbene, l’applicazione dei riportati principi alla
fattispecie in esame comporta che, accertata l'assenza di un
valido titolo di esproprio nonché la modifica del fondo e la
sua utilizzazione, rimanga impregiudicata la discrezionale
valutazione in ordine agli interessi in conflitto da parte
del Comune resistente, essendo in ultima analisi rimesso
all’Ente stesso l’opzione per l’acquisizione dell’area o per
la restituzione della stessa.
Se è vero, cioè, che la richiesta risarcitoria del
proprietario dell’area –come chiarito al punto 2.1- ha
valore di rinunzia abdicativa all’azione di restituzione del
bene illecitamente occupato (o addirittura, secondo
l’orientamento prevalente, alla proprietà stessa) e che-si
ribadisce- “la scelta dei rimedi a tutela della proprietà
è pur sempre riservata al privato danneggiato” (cfr.
Cass. civile, Sez. I, ord. 08.01.2020 n. 144 su citata), non
appare in linea con l’attuale quadro giuridico estenderne
gli effetti fino a elidere il potere discrezionale
attribuito in via esclusiva all’Ente che ha utilizzato
un’area sine titulo di valutarne l’acquisizione in
proprietà (in alternativa alla restituzione previa riduzione
in pristino dell’opera ivi realizzata), stante la specifica
norma di legge (art. 42-bis), perfettamente inquadrabile
nella cornice costituzionale dei limiti alla proprietà
privata (art. 42 Cost.).
Pertanto, anche nella fattispecie in esame, incombe
sull’Ente comunale l’obbligo della suddetta valutazione; ove
ne deliberasse l’acquisizione in proprietà, sarebbe tenuto a
liquidare in favore di parte ricorrente il valore venale del
bene al momento dell'emanazione del provvedimento quale
indennizzo a fronte del pregiudizio patrimoniale subito
(combinato disposto commi 1 e 3 dell’art. 42-bis), nonché –a
tenore dello stesso 42-bis, comma 3, ultima parte– un
risarcimento del 5% del valore venale stesso, per ogni anno
successivo alla scadenza dell’occupazione legittima
(avvenuta per decorrenza del termine quinquennale
dall’immissione in possesso), a fronte del pregiudizio
prodotto dall’occupazione sine titulo; salva la
detrazione di quanto eventualmente già corrisposto e
subordinando –come per legge- l'effetto traslativo
dell’acquisizione sanante all'effettivo pagamento delle
somme.
Il risarcimento per il protrarsi dell’occupazione sine
titulo –dovuto, si ribadisce, ex art. 42-bis comma 3,
ultima parte- dovrà essere corrisposto anche nel caso in cui
l'Amministrazione optasse per la restituzione del bene.
4 - Pertanto, alla luce delle considerazioni che precedono,
si condanna l’Amministrazione intimata -ai sensi dell'art.
34, lett. c), c.p.a.– ad operare una valutazione degli
interessi pubblici alla cura dei quali è preposta,
deliberando -entro e non oltre 120 giorni dalla
comunicazione o dalla notificazione della presente
decisione- se acquisire l’area ex art. 42-bis T.U. Espropri
o restituirla al legittimo proprietario, tenuto conto di due
significativi elementi: a) che l’opera pubblica è stata
completata; b) che l’Ente proprietario ricorrente ha optato
per l’azione risarcitoria.
Le relative determinazioni dovranno essere tempestivamente
notificate all’Ente ricorrente e, nel caso
dell’acquisizione, anche trascritte presso la Conservatoria
dei registri immobiliari a cura dell'Amministrazione
procedente, nonché comunicate alla competente Corte dei
Conti, ex art. 42-bis comma 7, T.U. Espropri. Si condanna
altresì il Comune stesso a corrispondere all’Ente ricorrente
–anche in ipotesi di opzione per la restituzione del bene
epurato dell’opera pubblica- il risarcimento, ex art. 42-bis
comma 3, T.U. espropri, a ristoro del pregiudizio subito in
conseguenza del mancato godimento del bene durante il
periodo di occupazione illegittima, maggiorato degli
interessi legali dall’inizio dell’occupazione illegittima e
fino alla regolarizzazione del possesso attraverso
l’acquisizione sanante o la restituzione del bene.
Nel calcolo dell’indennizzo per il pregiudizio patrimoniale
(ex art. 42-bis, commi 1 e 3, parametrato al valore venale
del bene) e nel calcolo del risarcimento (ex art. 42-bis,
comma 3, parametrato al 5% annuo del valore venale stesso,
mancando qui la prova di una diversa entità del danno),
dovrà tenersi conto delle risultanze della consulenza
tecnica espletata nel giudizio civile sotto il profilo
dell’estensione dell’area occupata e del valore venale della
stessa, attualizzato alla data di adozione dell’eventuale
provvedimento (di restituzione o acquisizione del bene);
consulenza già agli atti di causa e di cui si dispone
l’acquisizione al presente giudizio in applicazione del
principio di economia processuale (cfr., in termini, il
precedente di questa III Sezione n. 1604/2019).
Eventuali contestazioni sul quantum dell’indennizzo
complessivo (pregiudizio patrimoniale e risarcimento per
occupazione illecita) o del solo risarcimento per
occupazione illecita dovranno essere presentate alla Corte
di appello competente per territorio, in unico grado,
secondo il prevalente orientamento della giurisprudenza (cfr.,
per tutte, Cass. civ., Sez. Unite. ord., 21.02.2019, n.
5201; C.d.S., Sez. IV, 03.09.2019, n. 6074; C.G.A.S.
11.02.2019, n. 102). |
ESPROPRIAZIONE:
1.- Espropriazione per p.u. – provvedimento art. 45 DPR n. 327/2001 –
natura ablatoria – va riconosciuta.
2.- Processo amministrativo – dimidiazione dei termini – art. 119
CPA e art. 23-bis L. n. 1034/1971 – domande risarcitorie – non si applica.
3.- Processo amministrativo – appello – principio generale della
immediata efficacia della disciplina processuale – si applica.
4.- Processo amministrativo – errore scusabile – riconoscibilità –
limiti.
1. Il provvedimento a suo tempo
disciplinato dall’art. 43 del D.P.R. n. 327 del 2001 (sostituito dall’art.
42-bis con l’articolo 34, comma 1, del d.l. 06.07.2011, n. 98, convertito
con modificazioni nella legge 15.07.2011, n. 111, dopo la sua dichiarazione
di incostituzionalità per eccesso di delega) ha natura ablatoria ed è
assimilabile a un provvedimento espropriativo, assorbendo in sé, uno actu,
sia la dichiarazione di pubblica utilità che il decreto di espropriocosicché
in tale ambito trova applicazione la dimidiazione dei termini di cui
all'art. 119 c.p.a. e, precedentemente, all'art. 23-bis della legge n. 1034
del 1971.
La dimidiazione dei termini, in passato riconducibile al disposto dell’art.
23-bis, non riguarda le domande risarcitorie autonome, nelle quali non si
mira a demolire i provvedimenti adottati nell’ambito della procedura di
esproprio ma si lamenta il danno derivante dalla loro esecuzione: l’oggetto
del giudizio risarcitorio non rientra dunque tra quelli tassativamente
enumerati al comma 1 dell’art. 23, le cui disposizioni acceleratorie -nella
misura in cui derogano incisivamente all’ordinario regime processuale-
risultano di stretta interpretazione e non possono essere applicate
estensivamente al di fuori delle ipotesi nominate che il Legislatore ha
ritenuto di individuare.
2. Secondo il principio generale dell’immediata efficacia della
disciplina processuale, l’appello al Consiglio di Stato è regolato dalle
norme in vigore al momento della proposizione del gravame.
3. Per l’orientamento più rigoristico, ai fini del riconoscimento
dell’errore scusabile è irrilevante il comportamento processuale delle
controparti e la stessa condotta processuale tenuta dal giudice nel corso
del giudizio di primo grado, trattandosi di evenienza che non esclude ex se
la doverosa applicazione del rito (ordinario o speciale), effettivamente
stabilito dalla legge.
4. L’atto c.d. di cessione bonaria -ossia di cessione volontaria
del bene espropriando con la corresponsione di prezzo non superiore al 50%
dell’indennità provvisoria di espropriazione-, come previsto dall’art. 12
della legge 22.10.1971, n. 865, non deve rivestire forme diverse e
particolari rispetto a quelle in generale richieste per ogni contratto di
compravendita (art. 1350 C.C.). E’ quindi condizione essenziale e
sufficiente di validità dell’atto traslativo della proprietà la sola forma
scritta ad substantiam, e tale validità deve essere riconosciuta anche ad
una scrittura privata, quando -come nel caso di specie- essa non sia stata
disconosciuta, contestandosene la sottoscrizione o la provenienza mediante
proposizione di querela di falso, ai sensi dell’art. 2702 cod. civ..
---------------
Sotto tale aspetto, l’eventuale riproduzione nella forma di atto pubblico di
un contratto con effetto traslativo della proprietà già perfezionato con
scrittura privata non può conferire alla seconda effetti meramente
obbligatori.
La successiva stipulazione, in forma di atto pubblico, di un contratto di
vendita definitivamente concluso dalle parti mediante scrittura privata,
-secondo la giurisprudenza civile- non vale a trasformare quest'ultimo in
una promessa bilaterale di futuro contratto, giacché la successiva redazione
dell'atto pubblico assolve una funzione meramente riproduttiva degli estremi
del negozio, al fine di potere adempiere al sistema di pubblicità previsto
dalla legge.
In altri termini, qualora la compravendita di un immobile venga conclusa con
scrittura privata, l'obbligo delle parti di addivenire in un secondo tempo
alla stipulazione dell'atto pubblico di compravendita non converte il
negozio definitivo concluso in un negozio preliminare, poiché, in tale
ipotesi, la successiva stipulazione formale risponde all'esigenza di
provvedere alla trascrizione del trasferimento della proprietà, ai fini
della sua opponibilità ai terzi, e non implica perciò una nuova effettiva
manifestazione di volontà, ma solo la ripetizione, per fini formali, del
consenso già validamente prestato.
La idoneità di una scrittura privata a perfezionare una cessione volontaria,
ai sensi dell’art. 12 della legge n. 865/1971, non è esclusa dalla
peculiarità di questo accordo (pur se denominato dalle parti come
contratto), come individuata dalla legge (cfr., l’art. 11 della legge n. 241
del 1990).
Per la giurisprudenza civile tale accordo ha alcuni elementi “costitutivi,
indispensabili a differenziarla dal contratto di compravendita di diritto
comune”: “a) l'inserimento del negozio nell'ambito di un procedimento
di espropriazione per pubblica utilità, nel cui contesto la cessione assolve
alla peculiare funzione dell'acquisizione del bene da parte
dell'espropriante, quale strumento alternativo all'ablazione d'autorità; b)
la preesistenza non solo di una dichiarazione di pubblica utilità ancora
efficace, ma anche di un subprocedimento di determinazione dell'indennità e
delle relative offerta ed accettazione, con la sequenza e le modalità
previste dall'art. 12 l. 22.10.1971 n. 865; c) il prezzo di trasferimento
volontario correlato ai parametri di legge stabiliti, inderogabilmente, per
la determinazione dell'indennità di espropriazione".
Peraltro è ben evidente la differenza tra un accordo preliminare di cessione
bonaria, inteso quale species del genus del contratto
preliminare, e un accordo di cessione bonaria, costituente contratto con
efficacia traslativa, poiché il primo impegna le parti a prestare in un
momento successivo il consenso al trasferimento del bene, mentre il secondo
realizza il trasferimento stesso “contestualmente o a decorrere da un
momento successivo”, “senza necessità di ulteriori manifestazioni di
volontà" (massima free tratta da www.giustamm.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 16.03.2020 n. 1888 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ESPROPRIAZIONE: Per
l’Ad. plen. il giudicato che obbliga la p.a. a restituire il bene occupato
senza titolo non preclude l’imposizione di una servitù ex art. 42-bis TUEs.
Secondo l’Adunanza plenaria l’art. 42-bis del d.P.R. 08.06.2001, n. 327,
recante il Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in
materia di espropriazione per pubblica utilità, si applica a tutte le
ipotesi in cui un bene immobile sia occupato dalla p.a. per scopi di
interesse pubblico, quale che sia la ragione che abbia determinato l’assenza
di titolo che legittima alla disponibilità del bene, e il giudicato avente
ad oggetto l’obbligo di restituire un’area al proprietario da parte
dell’amministrazione occupante sine titulo non preclude
all’amministrazione di emanare un atto di imposizione di una servitù, ai
sensi dello stesso art. 42-bis.
---------------
●
Espropriazione per pubblico interesse – Atto di acquisizione – Assenza di
titolo che legittima disponibilità del bene – Applicabilità
●
Espropriazione per pubblico
interesse – Atto di acquisizione recante imposizione di servitù – Giudicato
restitutorio – Ammissibilità
●
L’art. 42-bis del DPR 08.06.2001 n. 327 si applica a tutte le
ipotesi in cui un bene immobile altrui sia utilizzato e modificato
dall’amministrazione per scopi di interesse pubblico, in assenza di un
valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica
utilità, e dunque quale che sia la ragione che abbia determinato l’assenza
di titolo che legittima alla disponibilità del bene (1).
●
Il giudicato restitutorio (amministrativo o civile), inerente
all’obbligo di restituire un’area al proprietario da parte
dell’Amministrazione occupante sine titulo, non preclude l’emanazione di un
atto di imposizione di una servitù, in esercizio del potere ex art. 42-bis,
comma 6, DPR 08.06.2001 n. 327, poiché questo presuppone il mantenimento del
diritto di proprietà in capo al suo titolare (2).
---------------
(1, 2) I. – Con la sentenza in rassegna, l’Adunanza plenaria ha
ritenuto che la disciplina dall’art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001 si
applica a tutte le ipotesi in cui un bene immobile altrui sia utilizzato e
modificato dall’amministrazione per scopi di interesse pubblico e, quindi,
qualunque sia la ragione che abbia determinato l’assenza di titolo che
legittima alla disponibilità del bene. Il collegio ha inoltre precisato che
il giudicato restitutorio, con cui viene fissato l’obbligo di restituire
un’area al proprietario da parte dell’amministrazione occupante senza
titolo, non preclude l’emanazione di un atto di imposizione di una servitù,
adottato in base alla medesima norma.
II. – La quarta sezione del
Consiglio di Stato con ordinanza 15.07.2019, n. 4950 (oggetto
della
News US n. 100 del 10.09.2019), aveva formulato all’adunanza
plenaria i seguenti quesiti:
“a) se il giudicato civile, sull’obbligo di restituire un’area al
proprietario da parte dell’Amministrazione occupante sine titulo, precluda o
meno l’emanazione di un atto di imposizione di una servitù di passaggio, col
mantenimento del diritto di proprietà in capo al suo titolare;
b) se la formazione del giudicato interno -sulla statuizione del TAR per cui
il giudicato civile consente l’attivazione di un ordinario procedimento
espropriativo– imponga nella specie di affermare che sussiste anche il
potere dell’Amministrazione di imporre la servitù di passaggio ex art.
42-bis, comma 6;
c) se la preclusione del ‘giudicato restitutorio’ sussista anche quando la
sentenza (nella specie, del giudice civile) non abbia espressamente precluso
l’esercizio dei poteri previsti dall’art. 42-bis per adeguare lo stato di
fatto a quello di diritto;
d) se la preclusione del ‘giudicato restitutorio’ sussista solo in relazione
ai giudicati formatisi dopo la pubblicazione della sentenza della Adunanza
Plenaria n. 2 del 2016, ovvero anche in relazione ai giudicati formatisi in
precedenza”.
III. – Con la sentenza in rassegna, il collegio, dopo aver
esaminato la vicenda processuale sottesa, ha osservato quanto segue:
a) l’esame dei quesiti proposti dalla sezione
remittente richiede di verificare l’applicabilità dell’art. 42-bis d.P.R. n.
327 del 2001 anche al di fuori dei casi in cui vi sia stato un procedimento
espropriativo e questo non si sia concluso o si sia concluso con un
provvedimento poi annullato dal giudice amministrativo. L’Adunanza plenaria
ritiene che la disposizione trovi applicazione in tutti i casi in cui un
bene immobile altrui sia nella disponibilità e sia stato utilizzato
dall’amministrazione pubblica per finalità di pubblico interesse, pur in
assenza di titolo;
b) sotto un profilo testuale;
b1) ai sensi del citato art.
42-bis “1. Valutati gli interessi in conflitto, l'autorità che utilizza
un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di
un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della
pubblica utilità, può disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente,
al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un
indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, quest'ultimo
forfetariamente liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale
del bene. 2. Il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche
quando sia stato annullato l'atto da cui sia sorto il vincolo preordinato
all'esproprio, l'atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di un'opera o
il decreto di esproprio. Il provvedimento di acquisizione può essere
adottato anche durante la pendenza di un giudizio per l'annullamento degli
atti di cui al primo periodo del presente comma, se l'amministrazione che ha
adottato l'atto impugnato lo ritira…(Omissis)… 6. Le disposizioni di cui al
presente articolo si applicano, in quanto compatibili, anche quando è
imposta una servitù e il bene continua a essere utilizzato dal proprietario
o dal titolare di un altro diritto reale; in tal caso l'autorità
amministrativa, con oneri a carico dei soggetti beneficiari, può procedere
all'eventuale acquisizione del diritto di servitù al patrimonio dei
soggetti, privati o pubblici, titolari di concessioni, autorizzazioni o
licenze o che svolgono servizi di interesse pubblico nei settori dei
trasporti, telecomunicazioni, acqua o energia….”;
b2) la formulazione della
disposizione induce a ritenere che la stessa, lungi dal poter trovare
applicazione nei soli casi in cui la p.a. agisca nella sua veste di
autorità, sia pure senza valido titolo, deve essere invece intesa come una
disposizione di chiusura del sistema;
b3) argomentando dal primo
comma dell’articolo in esame può ritenersi che esso trovi possibile
applicazione in tutti i casi in cui un bene immobile, che si trovi nella
disponibilità dell’amministrazione, sia stato da questa utilizzato e,
dunque, modificato nella sua consistenza materiale, per finalità di pubblico
interesse, finalità che denota l’agire dell’amministrazione quale pubblica
autorità;
b4) il primo comma dell’art.
42-bis, infatti, rende possibile l’esercizio del potere nel caso in cui
sussistano due presupposti: l’avvenuta modifica del bene immobile e la sua
utilizzazione per scopi di interesse pubblico, senza che assumano alcun
rilievo le circostanze che hanno condotto alla occupazione senza titolo e la
riconducibilità di tali circostanze a vicende di natura privatistica o
pubblicistica;
b5) nello stesso senso, il
secondo comma non restringe l’ambito di applicazione della norma ai casi
connessi all’esercizio di un potere amministrativo, ma afferma che il
provvedimento di acquisizione può essere adottato anche quando siano stati
annullati l’atto di vincolo preordinato all’esproprio, l’atto di
dichiarazione della pubblica utilità dell’opera ovvero il decreto di
espropriazione. L’utilizzo della locuzione “anche” esclude una
applicazione della norma limitata ai soli casi di illegittimo esercizio in
concreto del potere amministrativo;
b6) il quarto comma, nel
descrivere il contenuto del provvedimento di acquisizione, impone, tra
l’altro, che questo debba indicare le circostanze che hanno condotto alla
indebita utilizzazione dell’area e se possibile la data dalla quale essa ha
avuto inizio, senza limitare tale indicazione a una o più specifiche forme
di indebita utilizzazione;
b7) la natura di norma di chiusura propria della disposizione rende evidente
la finalità di ricondurre nell’alveo legale del sistema tutte le situazioni
in cui l’amministrazione, quale che ne sia la causa, si trovi ad avere
utilizzato la proprietà privata per ragioni di pubblico interesse, ma in
difetto di un valido titolo legittimante;
b8) ne discende che la
disposizione è applicabile anche quando il difetto di titolo si manifesti
per intervenuta declaratoria di nullità o per annullamento del contratto di
vendita;
c) in base ad un inquadramento logico-sistematico
della disposizione medesima, nell’ambito di una più generale riflessione
sull’attività amministrativa e sugli strumenti ad essa inerenti;
c1) l’attività della pubblica
amministrazione risulta costantemente funzionalizzata alla cura, tutela,
perseguimento dell’interesse pubblico, sia che a tali fini vengano
esercitati poteri pubblicistici ad essa conferiti sia che vengano utilizzati
strumenti propri del diritto privato, in un contesto generale già delineato
attraverso l’esercizio di potestà pubbliche. Tale affermazione trova
riscontro nell’art. 1 della l. 7 agosto 1990, n. 241, che, nell’enunciare i
principi generali dell’attività amministrativa, prevede che la stessa si
effettui sia mediante l’esercizio di poteri autoritativi, sia ricorrendo ad
istituti di diritto privato;
c2) “l’azione amministrativa
che si concretizza nell’emanazione di provvedimenti amministrativi, ovvero
quella che si svolge, in forma paritetica, attraverso la sottoscrizione di
accordi con i soggetti privati (art. 11 l. n. 241/1990, in particolare
attraverso gli accordi sostitutivi di provvedimento), così come la stessa
azione che utilizza direttamente strumenti disciplinati dal diritto privato
(in specie, contratti), partecipa dell’unica (ed unificante) ragione di
interesse pubblico, che la sorregge e giustifica, rappresentandone la causa
in senso giuridico”;
c3) mentre nelle prime due
ipotesi le finalità di pubblico interesse sono implicite nello stesso
ricorso ad atti tipici, quali il provvedimento o l’accordo procedimentale o
sostitutivo, nella terza ipotesi il ricorso ad atti di diritto privato in
tanto può essere ricondotto all’ambito di un’azione amministrativa
funzionalizzata, in quanto esso si iscriva, anche in base al principio di
legalità dell’azione amministrativa, in un contesto di finalità di interesse
pubblico, previamente definito mediante l’esercizio dei poteri all’uopo
occorrenti e obiettivamente accertabile;
c4) muovendo da tale generale
immanenza dell’interesse pubblico, la giurisprudenza amministrativa ha
variamente affermato la irriducibilità degli accordi di cui all’art. 11
della l. n. 241 del 1990 a meri strumenti di matrice civilistica;
c5) nei casi di contratto ad
oggetto pubblico, infatti, l’amministrazione mantiene comunque la sua
tradizionale posizione di supremazia; tali contratti non sono disciplinati
dalle regole proprie del diritto privato, ma solo dai principi del codice
civile in materia di obbligazioni e contratti, in quanto compatibili e salvo
che non sia diversamente disposto;
c6) alle ipotesi costituite da
accordi sostitutivi di provvedimento tra amministrazione e privato, ben
possono affiancarsi le ipotesi in cui l’amministrazione stipuli contratti di
diritto privato in un quadro che risulta già delineato dal precedente
esercizio di poteri pubblici, sui quali si è già provveduto a individuare le
finalità di pubblico interesse da perseguire;
c7) la finalità di pubblico
interesse determina diversamente il contenuto dei c.d. contratti ad oggetto
pubblico rispetto ai c.d. contratti ad evidenza pubblica. Nei primi la
predetta finalità non costituisce un elemento esterno al contratto, ma
conforma il contratto medesimo e, in particolare, la sua causa e il suo
oggetto.
Nei secondi, una volta scelto il contraente, il contratto stipulato non
rifluisce immediatamente nella più generale disciplina civilistica, in
considerazione della presenza di una disciplina speciale che normalmente
assiste il momento genetico e quello funzionale del contratto e che non può
che giustificarsi se non in ragione della particolare natura dello stesso,
ovvero dall’essere la causa e l’oggetto del contratto differentemente
conformati, in ragione delle finalità di interesse pubblico perseguite con
il contratto e dunque con l’adempimento delle obbligazioni assunte per il
tramite delle rispettive prestazioni;
c8) in definitiva, nei casi in
cui la pubblica amministrazione decida di perseguire la finalità di pubblico
interesse ricorrendo a ordinari modelli privatistici, la predetta finalità
resta immanente al contratto e al rapporto così posto in essere;
c9) di conseguenza, laddove la
finalità di pubblico interesse non risulti essere perseguita o perseguibile
per il tramite del contratto, non può escludersi, in generale, che
l’amministrazione possa intervenire sul rapporto insorto ovvero sulle
conseguenze di fatto di un rapporto comunque cessato per il tramite
dell’esercizio di poteri pubblicistici;
c10) la pluralità delle
modalità di scansione dell’attività amministrativa funzionalizzata non
consente una divaricazione netta tra attività privata e pubblica, con la
conseguenza che il citato art. 42-bis ben può trovare applicazione anche nei
casi di utilizzazione del bene senza titolo, non ostando a ciò la
sussistenza di un rapporto svoltosi sotto l’egida del diritto privato;
c11) tale conclusione è
ulteriormente confermata dal fatto che: per un verso non sussistono
particolari dubbi sull’applicabilità della disposizione alle ipotesi di
utilizzazione del bene per effetto di contratto di cessione volontaria
successivamente dichiarato nullo o annullato; per altro verso, se la
disposizione è applicabile ai casi di c.d. occupazione usurpativa, e,
dunque, nelle ipotesi in cui l’utilizzazione del bene immobile si configura
illecito ab initio, a maggior ragione potrà trovare applicazione la
norma laddove il preesistente rapporto tra privati si connette ad un
contratto di vendita dichiarato nullo o annullato cioè ad un titolo
astrattamente valido a disporre il trasferimento del bene;
c12) nel caso di specie, il
contratto di vendita riguardava un terreno mediante il quale sono state
attuate le previsioni del vigente programma di fabbricazione e il contratto
aveva sostanzialmente natura di accordo di cessione del bene espropriando,
attuativo dello strumento urbanistico con la dichiarata volontà dell’allora
proprietario.
A prescindere dalla possibilità di qualificarlo come accordo di cessione, il
contratto si configura, pertanto, come uno strumento attuativo di finalità
di pubblico interesse definite dall’atto di pianificazione urbanistica
adottato in esercizio del relativo potere. L’art. 42-bis, pertanto, potrò
trovare applicazione anche nei casi in cui l’amministrazione perda la
disponibilità del bene per vicende inerenti alla validità ed efficacia del
contratto di vendita;
d) in relazione all’ulteriore quesito proposto,
il giudicato civile non preclude l’emanazione di un atto di imposizione di
una servitù di passaggio, con mantenimento del diritto di proprietà in capo
al suo titolare, anche nel caso in cui la sentenza non abbia espressamente
vietato l’esercizio dei poteri previsti dall’art. 42-bis;
d1) la Corte costituzionale con
sentenza 30.04.2015, n. 71 (in Foro it., 2015, 9, 1, 2629; Urbanistica e
appalti, 2015, 6, 644; Urbanistica e appalti, 2015, 7, 767, con note di
ARTARIA, BARILA'; Quotidiano Giuridico, 2015, con nota di SALVATO), ha
osservato che la disposizione in esame ha reintrodotto la possibilità, per
l’amministrazione che utilizza senza titolo un bene privato per scopi di
interesse pubblico, di evitarne la restituzione al proprietario, attraverso
un atto di acquisizione coattiva al proprio patrimonio indisponibile; tale
atto, sostituendo il procedimento ablativo ordinario, costituisce una sorta
di procedimento espropriativo semplificato e si differenzia dal modello
previsto dall’art. 43 TUEs perché non produce alcun effetto di sanatoria.
Mentre l’art. 43 prevedeva un generalizzato potere di sanatoria, attribuito
alla stessa amministrazione che aveva commesso l’illecito, anche in deroga a
un giudicato che avesse disposto il ristoro in forma specifica del diritto
di proprietà violato, l’art. 42-bis consente l’acquisto della proprietà solo
con effetto ex nunc al momento dell’emanazione del decreto di
acquisizione;
d2) l’Adunanza plenaria, con
sentenza 09.02.2016, n. 2 (in Foro it., 2016, III, 185, con note di BARILÀ,
PARDOLESI; Corr. giur., 2016, 4, 498, con nota di CARBONE; Giur. it., 2016,
5, 1212, con nota di URBANI; Urbanistica e appalti, 2016, 7, 803, con nota
di GISONDI), ha affermato, tra l’altro, che: l’art. 42-bis introduce un
procedimento ablatorio sui generis caratterizzato da una precisa base
legale, semplificato nella struttura, complesso negli effetti, il cui scopo
non è quello di sanatoria di un precedente illegittimo comportamento
perpetrato dall’amministrazione, ma quello di soddisfare esigenze pubbliche,
redimibili esclusivamente attraverso il mantenimento e la gestione di
qualsiasi opera dell’infrastruttura realizzata senza titolo; un elemento
caratterizzante dell’istituto è rappresentato dalla impossibilità che
l’amministrazione emani il provvedimento di acquisizione in presenza di un
giudicato che abbia disposto la restituzione del bene al proprietario
(giudicato che può intervenire anche in sede di ottemperanza); sorge
l’effetto inibitorio collegato al giudicato nel caso in cui lo stesso
giudicato disponga espressamente la restituzione del bene; nel caso in cui
il giudicato si presenti, per effetto dell’assenza di una domanda
reipersecutoria, come puramente cassatorio, per scelta del proprietario, non
si produrrebbe l’effetto inibitorio dell’emanazione del provvedimento ex
art. 42-bis; se nonostante la proposizione di domanda restitutoria, per
ragioni processuali, il giudicato continua a non recare la statuizione
restitutoria, l’amministrazione potrà comunque emanare il provvedimento
previsto dall’art. 42-bis non sussistendo la preclusione inibente
richiamata;
d3) in base ai principi
desumibili dalle citate sentenze può affermarsi che: da un lato, “perché
possa prodursi l’effetto preclusivo derivante dal giudicato restitutorio,
occorre che la sentenza preveda espressamente, in accoglimento di una
specifica domanda avanzata in tal senso dal ricorrente o dall’attore, la
condanna dell’amministrazione alla restituzione del bene”; dall’altro
lato “l’effetto preclusivo, in quanto derivante, come si è detto, da una
espressa condanna alla restituzione del bene, si realizza con riguardo al
provvedimento ex art. 42-bis, co. 2, comportante l’acquisizione dello stesso
alla proprietà pubblica (in particolare, al patrimonio indisponibile della
medesima) e non può, quindi, inibire anche l’adozione del diverso
provvedimento di imposizione di servitù, di cui al successivo comma 6”;
d4) la sentenza coperta da
giudicato in senso sostanziale, ai sensi dell’art. 2909 c.c., fa stato fra
le parti, i loro eredi ed aventi causa, nei limiti oggettivi costituiti dai
suoi elementi costitutivi, ovvero il titolo della stessa azione e il bene
che ne forma oggetto;
d5) nel caso in cui l’oggetto
del petitum sia il recupero del bene alla piena proprietà e
disponibilità del soggetto privato originariamente proprietario, non rientra
nell’ambito oggettivo del giudicato un provvedimento che, senza incidere
sulla titolarità del bene, imponga sullo stesso ex novo una servitù,
trattandosi di ipotesi diversa da quella inibita dal giudicato e
assolutamente coerente con il mantenimento della proprietà in capo al
privato;
d6) pertanto, il giudicato
restitutorio non preclude l’emanazione di un atto di imposizione di una
servitù di passaggio sull’area in questione che presuppone il mantenimento
del diritto di proprietà in capo al suo titolare;
d7) il citato sesto comma
dell’art. 42-bis non deve essere interpretato nel ristretto senso di
consentire all’amministrazione l’emanazione di un provvedimento solo quanto
è stata imposta una servitù, poi venuta meno. Deve invece ritenersi che, una
volta venuto meno il titolo di proprietà del bene, la pubblica
amministrazione, alla quale è riconosciuto il potere di avvalersi della
disposizione, in considerazione di quanto modificato sul bene appreso per la
realizzazione dell’opera pubblica, può limitare l’esercizio del potere e,
quindi, procedere con limitazioni parziali delle facoltà o dei poteri
connessi al diritto reale del privato e dunque emanare decreti di
imposizione di servitù, in luogo della piena acquisizione del bene medesimo
con corrispondente perdita dell’altrui diritto di proprietà;
e) la risposta fornita al precedente quesito
rende superfluo l’esame degli ulteriori quesiti proposti.
IV. – Per completezza si segnala quanto segue:
f) per un inquadramento generale della tematica,
con particolare riferimento alla rinuncia abdicativa, si vedano la
News US, n. 15 del 03.02.2020 (a
Cons. Stato, Ad. plen., 20.01.2020, n. 2) e la
News US, n. 16 del 03.02.2020 (a
Cons. Stato, Ad. plen., 20.01.2020, n. 4);
g) sul rapporto tra giudicato restitutorio e
provvedimento ex art. 42-bis TUEs, si veda, in particolare, Cons. Stato, Ad.
plen., 09.02.2016, n. 2, cit., secondo cui, tra l’altro:
g1) “l'art. 42-bis del
D.P.R. 08.06.2001, n. 327 (T.U. espropriazione per p.u.). configura un
procedimento ablatorio sui generis, caratterizzato da una precisa base
legale, semplificato nella struttura (uno actu perficitur), complesso negli
effetti (che si producono sempre e comunque ex nunc), il cui scopo non è (e
non può essere) quello di sanatoria di un precedente illecito perpetrato
dall'Amministrazione (perché altrimenti integrerebbe una espropriazione
indiretta per ciò solo vietata), bensì quello autonomo, rispetto alle
ragioni che hanno ispirato la pregressa occupazione contra ius, consistente
nella soddisfazione di imperiose esigenze pubbliche, redimibili
esclusivamente attraverso il mantenimento e la gestione di qualsiasi opera
dell'infrastruttura realizzata sine titulo. Un tale obiettivo istituzionale,
inoltre, deve emergere necessariamente da un percorso motivazionale
-rafforzato, stringente e assistito da garanzie partecipative rigorose-
basato sull'emersione di ragioni attuali ed eccezionali che dimostrino in
modo chiaro che l'apprensione coattiva si pone come extrema ratio”;
g2) “deve escludersi la
formazione di un giudicato restitutorio allorché il proprietario non
proponga una rituale domanda di condanna dell'amministrazione alla
restituzione previa rimessione in pristino dell'area occupata oppure ove il
giudice non si pronunci o si pronunci in modo insoddisfacente su tale
domanda”;
g3) “l’Amministrazione non
può emanare il provvedimento di acquisizione, ex art. 42-bis del D.P.R. n.
327/2001, in presenza di un giudicato che abbia disposto la restituzione del
bene al proprietario; tale elemento si desume implicitamente dalla
previsione del comma 2 dello stesso art. 42-bis nella parte in cui consente
all'autorità di adottare il provvedimento durante la pendenza del giudizio
avente ad oggetto l'annullamento della procedura ablatoria (ovvero nel corso
del successivo eventuale giudizio di ottemperanza), ma non oltre, e quindi
dopo che si sia formato un eventuale giudicato non soltanto cassatorio ma
anche esplicitamente restitutorio”;
g4) “il provvedimento di
acquisizione, previsto dall'art. 42-bis del D.P.R. 08.06.2001, n. 327, non
può essere emanato dal commissario ad acta in sede di esecuzione della
sentenza che preveda esclusivamente la restituzione del bene utilizzato
senza titolo dall'amministrazione; può invece essere emanato dal commissario
in sede di esecuzione della sentenza di mero annullamento di atti del
procedimento di espropriazione, o di sentenza che preveda espressamente tale
possibilità di acquisizione o, ancora, di sentenza che abbia accertato il
silenzio dell'amministrazione sulla istanza di acquisizione proposta dal
privato interessato”;
h) sugli orientamenti espressi dal giudice civile
in relazione alla tematica esaminata dall’Adunanza plenaria, si vedano, tra
le altre:
h1) Cass. civ., sez. II,
04.11.2019, n. 28271, secondo cui “la servitù di elettrodotto acquistata
per usucapione ha natura di servitù volontaria, pur in presenza dei
presupposti per l'imposizione coattiva del vincolo, in quanto estranea
all'attuazione di un potere autoritativo o di un dovere legalmente imposto a
servitù, essendo nata non secondo il volere coatto o contro il volere del
soggetto passivo, ma indipendentemente da esso, in forza della conversione
di una situazione di fatto in una situazione di diritto”;
h2) Cass. civ., sez. I;
17.10.2019, n. 26437, secondo cui “l'ammontare dell'indennità dovuta in
conseguenza della imposizione di una servitù, necessaria per la
realizzazione di linee ferroviarie, deve essere determinato con riferimento
alla data del decreto di asservimento e non a quella di imposizione del
vincolo preordinato all'esecuzione dell'opera, in analogia con quanto
previsto in materia di indennità di espropriazione”;
h3) Cass. civ., sez. I,
19.06.2019, n. 16495, secondo cui “l'indennità di asservimento, prevista
dall'art. 44 d.p.r. n. 327 del 2001, deve essere determinata riducendo
proporzionalmente l'indennità corrispondente al valore venale del bene, in
ragione della minore compressione del diritto reale determinata
dall'asservimento rispetto all'espropriazione; ne consegue l'inapplicabilità
dell'art. 1038, 1° comma, c.c. che, in riferimento alla diversa fattispecie
delle servitù di acquedotto e scarico coattivo, commisura l'indennità dovuta
al proprietario del fondo servente all'intero valore venale del terreno
occupato, in quanto, da un lato, la sua applicabilità in materia di opere
pubbliche è preclusa dall'operatività della disciplina speciale dettata in
materia di espropriazione e, dall'altro, essa presuppone che il proprietario
del fondo servente perda la disponibilità della parte di terreno da occupare
per la costruzione dell'acquedotto”;
h4) Cass. civ., sez. I,
27.06.2018, n. 16979, secondo cui “il comportamento del proprietario di
un fondo, il quale, nel lottizzarlo, metta volontariamente e con carattere
di continuità una striscia di terreno a disposizione della collettività,
assoggettandola al relativo uso pedonale e carrabile, rende applicabile
l'istituto della c.d. dicatio ad patriam, quale modo di costituzione di una
servitù; ne deriva che la successiva esecuzione, da parte del comune, di
lavori di miglioria su detta striscia e, segnatamente, la realizzazione di
un marciapiedi, non dà luogo ad una c.d. occupazione usurpativa,
difettandone i presupposti della trasformazione del bene in opera pubblica e
della sua radicale manipolazione in guisa da farlo divenire strutturalmente
un aliud rispetto a quello precedente e, mancando, altresì, a monte, un
provvedimento amministrativo che riveli l'intendimento della p.a. di
appropriarsi della strada e di trasformarla in strada pubblica, includendola
nel relativo elenco”;
h5) Cass. civ., sez. I,
05.11.2012, n. 18936, secondo cui “qualora una porzione di fondo privato
sia appresa senza titolo dal comune per la realizzazione della locale rete
fognaria, non si determina la costituzione di una servitù secondo lo schema
della cosiddetta «occupazione acquisitiva» -non configurabile rispetto ai
diritti reali in re aliena- e si deve ravvisare un illecito a carattere
permanente, il quale perdura fino a quando non venga (anche per disposizione
del giudice ordinario) rimosso l'impianto, cessi il suo esercizio o sia
costituita regolare servitù, con le consequenziali implicazioni in tema di
prescrizione dell'azione risarcitoria”;
h6) Cass. civ., sez. I,
28.05.2012, n. 8433, secondo cui “il provvedimento di occupazione
temporanea preordinato alla espropriazione di un immobile privato
attribuisce immediatamente alla p.a. il diritto di disporne allo scopo di
accelerare la realizzazione dell'opera pubblica, per la quale è stato
emanato, ed incide in misura corrispondente sui poteri dominicali del
titolare del bene, privandolo, in tutto o in parte, delle facoltà di
godimento e di disposizione; ciò fa sorgere, per il mancato godimento del
bene, il diritto all'indennizzo ex art. 42 cost., separato ed aggiuntivo
rispetto all'indennità di espropriazione e all'indennità di asservimento nel
caso di imposizione di una servitù (nella specie, di elettrodotto), sebbene
a questa commisurato, ed a prescindere dal titolo in base al quale la
vicenda ablativa possa concludersi (cessione volontaria, espropriazione
formale, occupazione acquisitiva, asservimento)”;
i) con riferimento agli accordi ex art. 11 della
l. n. 241 del 1990, al loro ambito applicativo, ai contratti ad oggetto
pubblico e alle concessioni contratto, si segnala quanto segue:
i1) nel senso della
irriducibilità degli accordi ex art. 11 a meri strumenti di matrice
civilistica e, in generale, sull’ambito di applicazione della disposizione,
si vedano, tra le altre:
- Cons. Stato, sez. IV, 15.05.2017, n. 2256, secondo cui “sotto la comune
dizione di accordi (art. 11, L. 07.08.1990, n. 241), sono richiamati (e
succintamente disciplinati) sia moduli più propriamente procedimentali, cioè
attinenti alla definizione dell'oggetto dell'esercizio del potere
provvedimentale, sia accordi con contenuto più propriamente contrattuale,
veri e propri contratti ad oggetto pubblico in quanto disciplinanti aspetti
patrimoniali connessi all'esercizio di potestà”;
- Cons. Stato, sez. IV, 19.08.2016, n. 3653, secondo cui “sotto la comune
dizione di accordi (art. 11, L. 07.08.1990, n. 241), sono richiamati (e
succintamente disciplinati) sia moduli più propriamente procedimentali, cioè
attinenti alla definizione dell'oggetto dell'esercizio del potere
provvedimentale, sia accordi con contenuto più propriamente contrattuale,
veri e propri contratti ad oggetto pubblico in quanto disciplinanti aspetti
patrimoniali connessi all'esercizio di potestà” e “il rapporto tra
amministrazione e concessionario, fondato sulle (usualmente definite)
concessioni contratto, in ragione delle sue peculiarità originate
dall'inerenza all'esercizio di pubblici poteri, non ricade in modo
immediato, e tanto meno integrale, nell'ambito di applicazione delle
disposizioni del codice civile, le quali, se possono certamente trovare
applicazione in quanto compatibili ovvero se espressamente richiamate,
tuttavia non costituiscono la disciplina ordinaria di tali convenzioni, né
ciò è indicato dalla L. n. 241/1990, ed in particolare dal suo art. 11”;
- Cons. Stato, sez. IV, 02.12.2015, n. 5510, secondo cui “l'art. 11 Legge
n. 241/1990 non rende applicabili agli accordi della P.A. le norme del
codice civile in tema di obbligazioni e contratti, bensì i principi, con ciò
stesso presupponendo una non immediata adattabilità (sia ad accordi non
aventi natura contrattuale, sia a convenzioni contratto) delle norme
valevoli per le espressioni di autonomia privata, ma richiedendo la verifica
della applicabilità, in ragione della specifica natura dell'atto bilaterale
sottoposto a giudizio, dei principi (e di quanto da essi desumibile) in tema
di obbligazioni e contratti, senza per ciò stesso escludere la stessa
applicazione di nome in tema di obbligazioni e contratti, nei casi in cui
agli accordi possa riconoscersi una natura prettamente contrattuale”;
- Cons. Stato, sez. V, 05.12.2013, n. 5786, secondo cui “vi è una
fondamentale distinzione tra contratti di diritto privato e contratti di
diritto pubblico (o ad oggetto pubblico). In base a questa dicotomia
entrambi possono essere conclusi con privati, ma in quelli rientrati nella
seconda categoria, a dispetto della loro struttura bilaterale,
l'amministrazione mantiene comunque la sua tradizionale posizione di
supremazia. Con tale nozione di contratti di diritto pubblico si allude
quindi ai casi in cui un contratto interviene a determinare consensualmente
il contenuto di un provvedimento amministrativo o a regolare i rapporti
economici discendenti da quest'ultima; altre volte addirittura in sua
sostituzione. Si tratta dei fenomeni degli accordi integrativi o sostitutivi
del provvedimento di cui all'art. 11 l. n. 241/1990 e delle
concessioni-contratto”;
- Cons. Stato, sez. V, 14.10.2013, n. 5000, secondo cui, tra l’altro “anche
se il potere amministrativo può concretizzarsi in atti bilaterali (accordi
ex art. 11 della l. n. 241/1990) ovvero atti di diritto privato (art. 1,
comma 1-bis, di detta legge), con fusione tra potere amministrativo e
autonomia privata in un atto bilaterale consensuale in cui essi confluiscono
nella regolamentazione di interessi comuni, tuttavia l'Amministrazione,
nella conclusione di tali accordi, diversamente dalla parte privata, non
esercita alcuna autonomia privata (come dimostrato dalla previsione di cui
al comma 4-bis dell'art. 11 della l. n. 241/1990 relativa alla necessità
della previa deliberazione da parte dell'organo competente per l'adozione
del provvedimento integrato o sostituito), bensì un potere unilaterale non
privatistico”;
i2) sulla nullità del contratto
con cui una pubblica amministrazione rinuncia ad esercitare un potere
pubblico si veda Cass. civ., sez. un., 04.01.1995, n. 93 (in Giur. it.,
1995, I, 1, 1683, con nota di CANNADA-BARTOLI; Giust. Civ., 1995, I, con
nota di ANNUNZIATA; Foro it., 1995, I), secondo cui “l’impossibilità per
un Comune di stipulare contratti che comportino rinuncia al perseguimento
delle finalità istituzionali ed all'esercizio di potestà pubbliche e la
conseguente esclusione che da tali contratti, radicalmente invalidi ed
inefficaci, scaturiscano obbligazioni e diritti soggettivi, rendono
improponibili davanti all'autorità giudiziaria ordinaria azioni innominate
cautelari ex art. 700 c.p.c., nei confronti del Comune, trattandosi di
materia riservata alla giurisdizione amministrativa”; “il r.d.l. n.
454 del 1934 attribuisce alla P.A. il potere indisponibile di promuovere
l'organizzazione di fiere e mercati, con la conseguenza che un Comune non
può stipulare contratti che comportino la rinunzia a perseguire detta
finalità istituzionale e ad esercitare i relativi poteri e che, ancorché
concluso, un siffatto contratto, poiché invalido ed inefficace, è inidoneo a
far nascere obbligazioni e diritti soggettivi di cui possa pretendersi
l'osservanza. Pertanto, in relazione all'indicato contratto invalido, non è
proponibile al giudice ordinario la domanda di un provvedimento cautelare a
norma dell'art. 700 c.p.c. (inibitorio, nella specie, di una manifestazione
fieristica organizzata dal Comune), essendo i danni che ne giustificherebbe
l'emanazione riconducibili al preteso inadempimento del contratto in
questione”;
i3) sul riparto di
giurisdizione, si vedano tra le altre:
- Cons. Stato, sez. IV, 28.10.2016, n. 4539, secondo cui “appartiene alla
giurisdizione del Giudice Ordinario la controversia relativa ad una
convenzione avente ad oggetto l’integrale ristrutturazione ed ampliamento di
un impianto sportivo comunale, nonché la sua successiva gestione
pluriennale, ove, nella comparazione tra le prestazioni a carico del
concessionario, risulti preminente e tale da identificare il vero oggetto
del contratto, la realizzazione delle opere rispetto alla gestione degli
impianti, che, per il canone richiesto, assume rilievo solo quale mezzo per
conseguire, dal lato dell’impresa, la remunerazione necessaria, restando al
contempo soddisfatto l’interesse dell’amministrazione al funzionamento dei
servizi sportivi”;
- Cass. civ., sez. un., 07.01.2016, n. 64 (in Foro it., 2016, I, 1296, con
nota di GAMBINO), secondo cui la domanda di risarcimento dei danni per
l'inadempimento degli obblighi del soggetto attuatore di un accordo di
programma, attenendo alla fase di esecuzione dell'accordo, appartiene alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo;
- Cass. civ., sez. un., 06.07.2015, n. 13864 (in Urbanistica e appalti,
2015, 10, 1014), secondo cui “appartiene alla giurisdizione del giudice
ordinario la controversia relativa ad una convenzione avente ad oggetto
l'integrale ristrutturazione ed ampliamento di un impianto sportivo
comunale, nonché la sua successiva gestione pluriennale, ove, nella
comparazione tra le prestazioni a carico del concessionario, risulti
preminente -e tale da identificare il vero oggetto del contratto in
relazione all'interesse concretamente perseguito dalle parti e da
qualificare la concessione come di costruzione e gestione- la realizzazione
delle opere (il cui importo risulti superiore a due milioni di euro)
rispetto alla gestione degli impianti, che, per il canone richiesto (pari a
trentaseimila euro l'anno, per un importo complessivo, rapportato ai
diciotto anni di concessione, non superiore a settecentomila euro), assume
rilievo solo quale mezzo per conseguire, dal lato dell'impresa, la
remunerazione necessaria, restando al contempo soddisfatto l'interesse
dell'amministrazione al funzionamento dei servizi sportivi”;
- Cass. civ., sez. un., 12.03.2015, n. 4948 (in Foro it., 2015, I, 1994; Riv.
giur. edilizia, 2015, I, 702), secondo cui “rientra nella giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo la controversia promossa dal
concessionario della rete ferroviaria pubblica che, lamentando
l’inadempimento di un comune alle obbligazioni discendenti da una
convenzione volta alla soppressione di passaggi a livello, chiedeva di
dichiarare il diritto di far eliminare uno di tali passaggi a livello e di
far eseguire le opere necessarie, nonché di condannare l’ente locale al
risarcimento dei danni”;
- Cass. civ., sez. un., 29.07.2013, n. 18192; Cass. civ., sez. un.,
09.11.2012, n. 19391, secondo cui “nel nuovo quadro normativo (D.Lgs. n.
163 del 2006 - Codice degli appalti), non è più consentita la precedente
distinzione tra concessione di sola costruzione e concessione di gestione
dell'opera (o di costruzione e gestione congiunte), ma sussiste l'unica
categoria della "concessione di lavori pubblici", ove prevale il profilo
autoritativo della traslazione delle pubbliche funzioni inerenti l'attività
organizzativa e direttiva dell'opera pubblica, con le conseguenti
implicazioni in tema di riparto di giurisdizione "in quanto, ormai, la
gestione funzionale ed economica dell'opera non costituisce più un
accessorio eventuale della concessione di costruzione, ma la
controprestazione principale e tipica a favore del concessionario, come
risulta dall'art. 143 del codice, con la conseguenza che le controversie
relative alla fase di esecuzione appartengono alla giurisdizione ordinaria"
(L. n. 109 del 1994, art. 31-bis; art. 133, c. 1, lett. e), n. 1 C.P.A. -
D.Lgs. n. 104/2010).
Alla medesima declaratoria della giurisdizione ordinaria si perverrebbe, nel
caso di specie, pur nell'ipotesi in cui nella convenzione potesse ravvisarsi
un appalto di o.p. posto che, contrariamente all'assunto del comune, per
effetto della L. n. 205 del 2000, artt. 6 e 7, ora trasfusi nell'art. 133
cod. proc. amm. nelle procedure ad evidenza pubblica aventi ad oggetto
l'affidamento di lavori pubblici, spetta alla giurisdizione esclusiva del
g.a. soltanto la cognizione di comportamenti ed atti assunti prima
dell'aggiudicazione e nella successiva fase compresa tra l'aggiudicazione e
la stipula dei singoli contratti; mentre nella successiva fase contrattuale
riguardante, come nella fattispecie, l'esecuzione del rapporto la
giurisdizione continua ad appartenere al g.o.”; Cass. civ., sez. un.,
04.01.1995, n. 91 (in Foro it., 1995, I, 1195; Giust. civ., 1995, I, 1228;
Cons. Stato, 1995, II, 2085, con nota di CARNEVALE; Giur. it., 1995, I, 1,
1173, con nota di CANNADA BARTOLI; Edilizia urbanistica appalti, 1995,
1392).
Come evidenziato in giurisprudenza, questa ipotesi di giurisdizione
esclusiva non è correlata ad una determinata materia, bensì ad una specifica
tipologia di atto, indipendentemente dalla materia che ne costituisce
oggetto; in questo senso Cass. civ., sez. un., 09.03.2012, n. 3689; Cass.
civ., sez. un., 03.02.2011, n. 2546 (in Urbanistica e appalti, 2011, 663,
con nota di D'ANGELO; Ammin. it., 2011, 868; Giust. civ., 2013, I, 506).
Sull’alternatività tra giurisdizione amministrativa e arbitrato si veda
Cons. Stato, sez. III, 15.05.2013, n. 2641 (in Foro amm.-Cons. Stato, 2013,
1195), secondo cui “il principio di alternatività tra ricorso al collegio
arbitrale e ricorso giurisdizionale amministrativo è stato confermato dal
c.p.a. il quale all'art. 7, 7º comma, afferma in via generale principi di
economia e di concentrazione della giurisdizione amministrativa, che devono
ritenersi estesi anche ai rapporti tra giurisdizione amministrativa e
collegi arbitrali, al fine di non vanificare gli scopi delle norme che
prevedono questi ultimi proprio come soluzione alternativa alla
giurisdizione”;
i4) in dottrina, tra gli altri,
si vedano: MANFREDI, Accordi e azione amministrativa, Torino, 2001; SCOCA,
Autorità e consenso, in Dir. amm., 2002, 431 ss.; CERULLI IRELLI, Note
critiche in tema di attività amministrativa secondo moduli negoziali, in
Dir. amm., 2003, 216 ss.; GRECO, Accordi amministrativi tra provvedimento e
contratto, Torino, 2003; SCIULLO, Profili degli accordi tra amministrazioni
pubbliche e privati, in Dir. amm., 2007, 808 ss.; RENNA, Il regime delle
obbligazioni nascenti dall’accordo amministrativo, in Dir. amm., 2010, 1, p.
270 ss.; AA.VV., La rigenerazione di beni e spazi urbani. Contributo al
diritto delle città, a cura di DI LASCIO e GIGLIONI, passim;
j) sull’accordo di programma si vedano, tra l’altro:
j1) GAMBINO, nota a Cass. civ.,
sez. un., 07.01.2016, n. 64, cit., il quale precisa, tra l’altro, che
connotati distintivi dell’istituto —che permettono di differenziarlo da
altri moduli di coordinamento dell’attività amministrativa— emergono
dall’art. 34, primo comma, d.lgs. 18.08.2000, n. 267, in base al quale “per
la definizione e l’attuazione di opere, di interventi o di programmi di
intervento che richiedono, per la loro completa realizzazione, l’azione
integrata e coordinata di comuni, di province e regioni, di amministrazioni
statali e di altri soggetti pubblici, o comunque di due o più tra i soggetti
predetti, il presidente della regione o il presidente della provincia o il
sindaco, in relazione alla competenza primaria o prevalente sull’opera o
sugli interventi o sui programmi di intervento, promuove la conclusione di
un accordo di programma, anche su richiesta di uno o più dei soggetti
interessati, per assicurare il coordinamento delle azioni e per determinarne
i tempi, le modalità, il finanziamento ed ogni altro connesso adempimento”.
L’accordo di programma è, quindi, un atto di programmazione di interventi
futuri, realizzato non attraverso l’adozione di singoli provvedimenti
autoritativi, ma mediante il raggiungimento di un accordo vincolante tra le
diverse amministrazioni competenti. L’accordo di programma è un istituto di
coordinamento dell’azione amministrativa, introdotto dalla l. 08.06.1990 n.
142 e oggi regolato dall’art. 34 d.lgs. n. 267 del 2000;
j2) Cons. Stato, sez. IV,
02.03.2011, n. 1339 (in Foro amm.-Cons. Stato, 2011, 839), secondo cui
l’istituto rappresenta un duttile strumento di azione amministrativa
preordinata, senza rigidi caratteri di specificità, alla rapida conclusione
di una molteplicità di procedimenti tutte le volte in cui il loro ordinario
svolgimento richiederebbe l’espletamento di più sub-procedimenti,
indispensabili per la ponderazione di interessi pubblici concorrenti;
j3) sulla possibilità di
recesso in materia di accordo di programma, Tar Lombardia, Brescia, sez. I,
30.04.2010, n. 1635 (in Foro amm.-Tar, 2010, 1215), secondo cui “in tema
di accordo di programma, salvo il caso in cui siano state le stesse parti a
prevedere il diritto di recesso, il contenuto dell'accordo è modificabile
solo mediante una nuova determinazione espressa da tutte le amministrazioni
contraenti che giungono ad una nuova sistemazione concordata dell'assetto
degli interessi sottostanti all'azione amministrativa; ne consegue che, in
caso di rifiuto delle altre parti alla modifica dell'assetto degli interessi
originariamente concordato, l'amministrazione che intende recedere
dall'accordo potrà censurare in sede giurisdizionale tale rifiuto qualora
non sia conforme al principio di leale cooperazione tra gli enti pubblici
che deve informare i rapporti tra le amministrazioni pubbliche per effetto
della sentenza corte cost. 303/2003”;
j4) sugli effetti dell’accordo
di programma, Cons. Stato, sez. VI, 05.01.2001, n. 25 (in Urbanistica e
appalti, 2001, 305, con nota di MUCIO; Giur. it., 2001, 1274; Cons. Stato,
2001, I, 12; Riv. giur. ambiente, 2001, 476, con nota di CIVITARESE
MATTEUCCI; Foro amm., 2001, 77; Riv. corte conti, 2001, fasc. 1, 265; Giust.
civ., 2001, I, 2809), secondo cui, tra l’altro, “l'accordo di programma,
che è stato reso di generale applicazione dall'art. 15 l. 07.08.1990 n. 241,
e dall'art. 27 l. 08.06.1990 n. 142, costituisce il migliore strumento per
garantire una forma di coordinamento idonea al soddisfacimento del pubblico
interesse, i cui limiti oggettivi devono essere individuati con il solo
riferimento all'ampia definizione contenuta nel 1º comma dell'art. 27 l. n.
241/1990; pertanto tale strumento può essere utilizzato non solo per
qualsiasi tipo di opera pubblica, ma anche per la programmazione di attività
ulteriori e complementari rispetto alla realizzazione delle opere”; “l'accordo
di programma, che prevede anche la variante di un piano territoriale
paesistico, non può derogare agli ordinari criteri di competenza fissati
dalla legge per l'approvazione della suddetta variante; pertanto le parti
stipulanti sono obbligate ad ottemperare agli impegni assunti con l'accordo
nel pieno rispetto delle competenze che caratterizzano ciascuna
amministrazione”;
j5) sulla notifica del ricorso
a tutte le amministrazioni che l’abbiano sottoscritto, Cons. Stato, sez. IV,
02.12.2014, n. 5957 (in Foro amm., 2014, 3081), secondo cui “in caso di
impugnazione di un accordo di programma avente a oggetto la realizzazione di
un'opera pubblica, il ricorso va notificato, a pena di inammissibilità, a
tutte le pubbliche amministrazioni firmatarie dell'accordo, dovendo
considerarsi amministrazioni emananti tutte quelle che all'accordo stesso
hanno partecipato; tale principio deve ritenersi estensibile anche ai patti
territoriali i quali, a norma dell'art. 2, 203º comma, lett. d), l.
23.12.1996 n. 662, costituiscono una species del più ampio genus degli
accordi di programmazione negoziata, nel quale rientrano anche gli accordi
di programma, la cui disciplina procedimentale peraltro condividono sulla
scorta della delibera del Cipe del 10.05.1995”;
j6) in dottrina, nel senso che
l’istituto sia riconducibile al fenomeno dell’amministrazione per accordi si
veda TULUMELLO, Accordo di programma, voce Dig. pubbl., Torino, agg. 2012,
1;
j7) sulla disciplina generale
degli accordi tra pubbliche amministrazioni si veda l’art. 15 l. 07.08.1990
n. 241.
La dottrina (FERRARA, Gli accordi fra le amministrazioni pubbliche, in
Codice dell’azione amministrativa a cura di M.A. SANDULLI, Milano, 2011,
677) osserva che la disposizione costituisce un esempio di norma in bianco,
poiché definisce il regime generale degli accordi tra amministrazioni,
rimandando a discipline speciali per la regolamentazione di specifiche
figure di accordi.
L’art. 34 d.lgs. n. 267 del 2000 disciplina, invece, in modo dettagliato gli
accordi di programma, prevedendo le modalità di formazione (convocazione
della conferenza di servizi, unanimità della decisione), gli effetti
dell’accordo, gli organi di vigilanza sulla sua esecuzione, la possibilità
di devolvere ad arbitri le controversie.
Un altro esempio di accordi regolati dettagliatamente dalla legge è
costituito dagli istituti di programmazione negoziata (l. 23.12.1996 n. 662,
art. 2, comma 203).
Secondo FERRARA tra la fattispecie dell’art. 15 l. n. 241 del 1990 e queste
tipologie di accordo intercorre un rapporto da genere a specie, che comporta
l’applicazione della disciplina generale per gli aspetti non regolati dalla
normativa di dettaglio.
Nello stesso senso: Cons. Stato, sez. IV, 25.06.2013, n. 3458 (in Foro amm.-Cons.
Stato, 2013, 1619); Tar Puglia, sez. I, 04.06.2013, n. 899 (in Giurisdiz.
amm., 2013, II, 1071); Cons. Stato, sez. IV, 24.10.2012, n. 5450 (in
Giurisdiz. amm., 2012, I, 1511);
j8) osserva GAMBINO, op. ult.
cit., che la partecipazione del privato all’accordo di programma realizza un
accordo tra pubbliche amministrazioni e privati, regolato dall’art. 11 l. n.
241 del 1990.
Infatti, l’art. 34 d.lgs. n. 267 del 2000 prevede la partecipazione
all’accordo di programma dei soli soggetti pubblici; una partecipazione dei
privati, invece, è rimessa al giudizio delle amministrazioni, le quali
possono individuare le modalità più idonee per il loro intervento (in questo
senso anche Tar Lazio, sez. I, 20.01.1995, n. 62, in Foro it., 1995, III,
460, con nota di REGGIANI; Foro amm., 1995, 1060).
Sulla base di tale ricostruzione anche la domanda di risarcimento dei danni,
proposta dal comune ricorrente nei confronti del soggetto attuatore
dell’accordo, appartiene alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo, ai sensi dell’art. 11, quinto comma, l. n. 241 del 1990.
Essa, infatti, attiene alla fase di esecuzione dell’accordo di programma,
fase espressamente attribuita alla giurisdizione del giudice amministrativo,
prima dall’art. 11, quinto comma, l. n. 241 del 1990, ed ora dall’art. 133,
primo comma, lett. a), n. 2, c.p.a.;
k) sulla tendenza alla c.d. deformalizzazione
dell’istituto degli accordi amministrativi, ossia a qualificare gli artt. 11
e 15 della l. n. 241 del 1990 come schemi generali all’interno dei quali
inquadrare specifiche ipotesi di accordi si vedano, tra gli altri:
k1) in dottrina: BASSI, Gli
accordi integrativi o sostituitivi del provvedimento, in Codice dell’azione
amministrativa, cit.; TRAVI, Accordi fra proprietari e comune per modifiche
al piano regolatore ed oneri esorbitanti, in Foro it., 2002, V, 276;
k2) in giurisprudenza per una
applicazione degli articoli in esame: agli accordi di programma quadro, ai
contratti di programma, ai patti territoriali (Cons. Stato, sez. IV,
02.12.2014, n. 5957, cit.; Cons. Stato, sez. V, 27.12.2013, n. 6277, in Foro
amm. Cons. Stato, 2013, 3473); ad alcune convenzioni-concessioni (Cass. civ,
sez. un., 03.06.2015, n. 11376; Cons. Stato, sez. V, 18.03.2015, n. 1400, in
Urbanistica e appalti, 2015, 932, con nota di GIORDANENGO; Tar Lazio, sez.
III, 22.07.2014, n. 8001, in Urbanistica e appalti, 2015, 341, con nota di
CATANZANI; Riv. amm., 2014, 377, con nota di CATANZANI) e alle convenzioni
urbanistiche (Tar Lombardia, 11.05.2015, n. 1137, in Urbanistica e appalti,
2015, 1203, con nota di DE PAULI; Cass. civ., sez. un., 31.10.2014, n.
23256, in Foro it., 2015, I, 1687).
Discussa è, invece, l’applicazione dell’art. 11 l. n. 241 del 1990, in tema
di cessione volontaria: Cons. Stato, sez. V, 20.08.2013, n. 4179 (in
Giurisdiz. amm., 2012, ant., 1513; Foro amm. Cons. Stato, 2013, 2096; Riv.
giur. edilizia, 2013, I, 1157); Cass. civ., sez. un., 06.12.2010, n. 24687
(in Foro it. Rep. 2010, voce Espropriazione per p.i., n. 126).
L’effetto principale di tale qualificazione consiste proprio nella
devoluzione delle controversie alla giurisdizione del giudice amministrativo
(Consiglio
di Stato, Adunanza plenaria,
sentenza 18.02.2020 n. 5 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ESPROPRIAZIONE: La
cessione volontaria di beni immobili rientra nel genus dei cd. contratti ad
oggetto pubblico.
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Espropriazione per pubblica utilità – Cessione volontaria –
Individuazione.
La cessione volontaria di beni immobili rientra nel
più ampio genus dei cd. contratti ad oggetto pubblico, che si diversifica
dai normali contratti di compravendita di diritto privato per una serie di
imprescindibili elementi costitutivi, che vanno individuati nell’inserimento
del negozio nell’ambito di un procedimento di espropriazione per pubblica
utilità, nel cui contesto la cessione assolve alla peculiare funzione
dell’acquisizione del bene da parte dell’espropriante, quale strumento
alternativo all’ablazione d’autorità mediante decreto di esproprio; nella
preesistenza non solo di una dichiarazione di pubblica utilità ancora
efficace, ma anche di un subprocedimento di determinazione dell’indennità e
delle relative offerte ed accettazione, con la sequenza e le modalità
previste dall’art. 12, l. n. 865 del 1971; nel prezzo di trasferimento
volontario correlato ai parametri di legge stabiliti, inderogabilmente, per
la determinazione dell’indennità di espropriazione (1).
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(1) Ha chiarito la Sezione che la peculiarità di tale tipologia di
accordo ha comportato oscillazioni giurisprudenziali rivenienti
dall’accentuato valore solo civilistico degli stessi (Cass., SS.UU.
06.12.2010, n. 24687), ovvero, al contrario, sull’enfatizzato rilievo
attribuito al potere autoritativo comunque sotteso alla relativa stipula,
con conseguente assegnazione al giudice amministrativo della giurisdizione
esclusiva anche per le controversie che attengono alla loro esecuzione (Cons.
St. sez. V, 20.08.2013, n. 4179).
Il Giudice delle leggi (Corte cost. nn. 204 del 2004 e 191 del 2006), ha
chiarito che l'utilizzo dello strumento degli accordi presuppone l'esistenza
in capo alla p.a. di un potere autoritativo: l'accordo sostituisce l'atto
unilaterale, ma non può essere utilizzato se non in sostituzione di un
provvedimento espressione di potere autoritativo.
Traendo spunto dalle coordinate offerte dalla Consulta in sede di
valutazione della costituzionalità dell'art. 53, d.P.R. n. 327 del 2001, si
è dunque affermato che, attratta la cessione volontaria sotto il più duttile
ombrello dell’accordo sostitutivo o integrativo di provvedimento, sia pure
nei limiti della tipicità dei provvedimenti autoritativi che va a
sostituire, le controversie relative alla sua esecuzione, diverse da quelle
in tema di indennità, devono essere conosciute dal giudice amministrativo (Cons.
St., sez. VI. 14.09.2005, n. 4735).
L’inserimento della cessione nell’ambito di un accordo integrativo o
sostitutivo di provvedimento ex art. 11, l. n. 241 del 1990 non si palesa
dunque neutra rispetto all’individuazione del giudice chiamato a decidere le
relative controversie, con ciò dequotando l’accordo a vuoto simulacro
formale.
Gli accordi sostitutivi di provvedimento, disciplinati a livello generale
nell’art. 11 della l. n. 241 del 1990, costituiscono la formale
consacrazione della legittimazione negoziale delle pubbliche
amministrazioni. Trattasi di un istituto che attinge egualmente alla natura
di patto o convenzione, ma anche di fonte di situazioni giuridiche
patrimoniali diverse dalle obbligazioni civilistiche, che non esaurisce,
come ha evidenziato la dottrina più accorta, il previgente modello del
contratto ad oggetto pubblico, proprio in ragione della molteplicità di
funzioni cui può assolvere.
Esso si connota per la sostanziale equivalenza o sovrapponibilità fra
funzione economico sociale e cura dell’interesse pubblico e “sostituisce”
il provvedimento anche in senso finalistico, consentendo cioè attraverso il
modulo della negoziazione di ottenere un risultato più conveniente di quello
ottenibile con il primo da parte dell’amministrazione.
La previsione, all’interno della disciplina del procedimento amministrativo,
di un istituto generale quale l’accordo integrativo o sostitutivo di
provvedimento, quest’ultimo originariamente circoscritto ai soli casi
previsti dalla legge (v. la novella apportata con la l. 11.02.2005, n. 15,
che ha eliminato il relativo inciso dalla norma), ha definitivamente sancito
la legittimazione negoziale delle pubbliche amministrazioni.
L’istituto, tuttavia, in quanto nel contempo patto o convenzione, ma anche
fonte di situazioni giuridiche patrimoniali diverse dalle obbligazioni
civilistiche, non esaurisce, come ha evidenziato la dottrina più accorta, il
previgente modello del contratto ad oggetto pubblico, proprio in ragione
della molteplicità di funzioni cui può assolvere, pur connotandosi per la
sostanziale equivalenza o sovrapponibilità fra funzione economico sociale e
cura dell’interesse pubblico.
L’accordo, dunque, “sostituisce” il provvedimento anche in senso
finalistico, consentendo cioè attraverso il modulo della negoziazione di
ottenere un risultato più conveniente di quello ottenibile con il primo da
parte dell’amministrazione. Laddove, cioè, il responsabile del procedimento
valuti che esso costituisce lo strumento più idoneo per la composizione
degli interessi coinvolti nell’azione amministrativa, può addivenire alla
stipula di un contratto cui l’ordinamento giuridico ricollega determinati
effetti, ciascuno dei quali a sua volta conseguibile anche con
provvedimenti.
La significatività dell’istituto sta pertanto proprio nel suo mutuare
aspetti necessariamente civilistici mischiandoli a contenuti tipicamente
autoritativi, con ciò realizzando un’efficace sintesi -rectius, la
miglior sintesi possibile, secondo la valutazione del soggetto pubblico
agente- tra l’interesse pubblico sotteso all’intervento, complessivamente
inteso, e il necessario incontro tra le volontà, quale metodologia per il
suo perseguimento
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 28.01.2020 n. 705 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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SENTENZA
4. La cessione volontaria dell’immobile oggetto di procedura di esproprio
all’epoca dei fatti di cui è causa risultava ancora regolamentata dall’art.
12 della l. 22.10.1971, n. 865. La norma, infatti, è stata formalmente
abrogata dall’art. 58 del d. P.R. n. 327/2001, entrato in vigore tuttavia
solo il 30.06.2003, giusta le reiterate proroghe di efficacia intervenute al
riguardo, da ultimo con il d.lgs. 27.12.2002, n. 302. Inconferente appare
pertanto il richiamo, da parte della difesa della società appellata, ai fini
dell’individuazione del giudice competente, al combinato disposto degli artt.
45 e 53, comma 2 (che comunque, utilizzando la clausola «Resta fermo»,
ha carattere meramente ricognitivo dell’assetto preesistente) del medesimo
Testo unico.
L’istituto può essere ricondotto al genus dei cd. contratti ad
oggetto pubblico, che si diversifica dai normali contratti di compravendita
di diritto privato per una serie di imprescindibili elementi costitutivi che
la giurisprudenza ha individuato:
- nell’inserimento del negozio nell’ambito di un procedimento di
espropriazione per pubblica utilità, nel cui contesto la cessione assolve
alla peculiare funzione dell’acquisizione del bene da parte
dell’espropriante, quale strumento alternativo all’ablazione d’autorità
mediante decreto di esproprio;
- nella preesistenza non solo di una dichiarazione di pubblica
utilità ancora efficace, ma anche di un subprocedimento di determinazione
dell’indennità e delle relative offerte ed accettazione, con la sequenza e
le modalità previste dall’art. 12 della legge n. 865 del 1971;
- nel prezzo di trasferimento volontario correlato ai parametri di
legge stabiliti, inderogabilmente, per la determinazione dell’indennità di
espropriazione.
Ove non siano riscontrabili tutti i ridetti requisiti, non potendosi
astrattamente escludere che l’amministrazione abbia inteso perseguire una
finalità di pubblico interesse tramite un ordinario contratto di
compravendita, al negozio traslativo non possono collegarsi gli effetti
tipici della cessione volontaria disciplinata dall’art. 12 della legge n.
865 del 1971, ossia l’estinzione dei diritti reali o personali gravanti sul
bene acquisito dall’amministrazione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 30.10.2019,
n. 7445; id., 27.07.2016, n. 3391; Cass. 22.01.2018, n. 1534; id.,
22.05.2009, n. 11955).
4.1. Presupposto necessario, ma non sufficiente, dunque, perché si possa
configurare la cessione volontaria, e perché si possano produrre i suoi
effetti tipici, è il collegamento tra il rapporto contrattuale ed il
procedimento amministrativo di espropriazione per pubblica utilità che vi ha
dato origine, il quale funge da essenziale momento genetico e fondamentale
presupposto del trasferimento immobiliare. Senza l’apertura di una formale
procedura espropriativa non può esserci spazio per la cessione volontaria, e
ciò per la semplice ragione che essa non potrebbe in tale caso espletare la
sua funzione tipica di strumento di acquisizione della proprietà immobiliare
in capo all’amministrazione espropriante alternativo rispetto al
provvedimento amministrativo autoritativo costituito dal decreto di
esproprio (cfr. Cass. 29.03.2007, n. 7779).
La causa del contratto pubblicistico di cessione va quindi ricondotta a tale
modalità alternativa di realizzazione del procedimento espropriativo
mediante l’utilizzo di uno strumento privatistico, peraltro soggetto per
taluni aspetti -tra cui la determinazione del prezzo di cessione- alla
disciplina contenuta in norme di legge imperative (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
07.04.2015, n. 1768; id. 03.03.2015, n. 1035; Cass., SS.UU. 13.02.2007, n.
3040, quest’ultima richiamata anche dal giudice di prime cure).
5. Ora, nel caso di specie, senza neppure entrare nella concreta indagine
dei contenuti dell’accordo di cui è causa, il giudice di prime cure,
attraverso il semplice richiamo all’art. 12 della l. n. 865/1971 ne ha
operato la qualificazione giuridica, depauperando di qualsivoglia
significato aggiuntivo o interpretativo il riferimento all’accordo di cui
all’art. 11 della l. n. 241/1990.
5.1. Il Collegio non ignora al riguardo che nell’ambito della giurisprudenza
della Corte di Cassazione si sia talora affermato il carattere
esclusivamente civilistico degli accordi in questione, considerati in quanto
tali ontologicamente incompatibili col paradigma generale di cui all’art. 11
della l. n. 241/1990, necessariamente pubblicistico (cfr. al riguardo Cass.,
SS.UU. 06.12.2010, n. 24687).
La cessione volontaria degli immobili assoggettati ad espropriazione quale
modo tipico di chiusura del relativo procedimento in forza di una relazione
legale e predeterminata di alternatività, non di mera sostituzione, rispetto
al decreto ablatorio, si caratterizzerebbe per una discrezionalità limitata
all’an, laddove gli accordi ex art. 11 della l. n. 241/1990 si
connotano per la sussistenza della stessa anche nel quomodo.
Orientamento peraltro presente anche nella giurisprudenza amministrativa,
che tuttavia finisce poi per enfatizzare l’aspetto contenutistico del
pagamento del corrispettivo quale elemento tipico dell’accordo, tale da
orientare ex se l’attribuzione della controversia al giudice
ordinario giusta la previsione in tal senso dell’art. 133, comma 1, lett. g)
c.p.a. (cfr. ex multis Cons. Stato, sez. IV, 03.03.2015, n. 1035).
Il che corrisponde esattamente al percorso ermeneutico seguito dal giudice
di prime cure, che fa seguire all’inquadramento dello schema contrattuale
utilizzato come cessione volontaria del bene l’affermazione della
giurisdizione del giudice civile; salvo poi precisare che ciò avverrebbe non
tanto (o non solo) in ragione della stessa, quanto più propriamente per -e
limitatamente al- il suo contenuto indennitario.
5.2. La complessità dogmatica della questione trova altresì riscontro negli
opposti orientamenti che hanno diversamente qualificato la cessione
volontaria o semplicemente facendo leva sul carattere autoritativo del
potere di esproprio che comunque si va a sostituire; ovvero, in maniera più
articolata, facendo leva sugli ulteriori possibili effetti che anche tale
tipologia di contratto può conseguire, avuto riguardo al suo concreto
atteggiarsi nel contesto locale nel quale è destinato ad incidere.
Il rapporto con il più generale paradigma dell’accordo sostitutivo è stato a
seconda dei casi attinto o meno, facendo leva sulle prerogative dell’uno per
ascriverle all’altro, attraendolo nel relativo quadro definitorio e
regolatorio, e viceversa (cfr. ancora Cass., SS.UU. 06.12.2010, n. 24687,
ove si invoca il combinato disposto dei commi 1 e 5 dell’art. 11 della l. n.
241/1990 per ribadire la giurisdizione del giudice amministrativo).
Nella prima direzione, si è dunque genericamente affermato che la cessione
volontaria del bene, in quanto sostitutiva del decreto di espropriazione di
cui produce i medesimi effetti, non perde la connotazione di atto
autoritativo, implicando, più semplicemente, la confluenza in un unico testo
del provvedimento e del negozio e senza che la presenza del secondo snaturi
l'attività dell'Amministrazione (ex multis Cons. Stato, sez. V,
20.08.2013, n. 4179; sez. VI; 14.09.2005, n. 4735); da ciò la sua
riconducibilità sub art. 11, l. 07.08.1990 n. 241, avuto riguardo all'ampia
duttilità che la caratterizza, sia pure nei limiti della tipicità dei
provvedimenti autoritativi che va a sostituire.
Nella seconda, particolarmente significativa si rivela la casistica delle
cessioni volontarie che in qualche modo implicano anche riferimenti alla
destinazione urbanistica delle aree interessate, direttamente o
indirettamente, dall’esproprio. Atteso, infatti, che la convenzione
stipulata, ad esempio, «nel corso di una procedura espropriativa, con cui
l'espropriato cede al Comune l'area necessaria per la realizzazione
dell'opera pubblica ed il Comune si obbliga a trasferire al privato la
proprietà di altra area da destinare a parcheggio, viene conclusa in
funzione della programmata espropriazione in corso e, quindi,
dell'attuazione della relativa attività di trasformazione urbanistica ed
edilizia del territorio, così realizzando l'individuazione convenzionale del
contenuto di uno o più provvedimenti che l'amministrazione avrebbe dovuto
emettere a conclusione del procedimento in atto, nel caso di mancata
esecuzione dell'accordo, la relativa controversia rientra nella
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, sia perché la
convenzione rientra tra quelle di cui all'art. 11 della legge n. 241 del
1990 sia perché la stessa attiene alla materia urbanistica ai sensi
dell'art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998, come modificato dalla legge n. 205
del 2000, senza che abbia incidenza la parziale illegittimità costituzionale
(sent. n. 204 del 2004), giacché nella specie l'uso del territorio consegue
ad atti della P.A. e non a meri comportamenti» (v. Cass., 30.01.2008, n.
2029).
5.3. Il Giudice delle leggi (Corte Cost., nn. 204/2004 e 191/2006), ha
chiarito che l'utilizzo dello strumento degli accordi presuppone l'esistenza
in capo alla p.a. di un potere autoritativo: l'accordo sostituisce l'atto
unilaterale, ma non può essere utilizzato se non in sostituzione di un
provvedimento espressione di potere autoritativo. Da qui l'impossibilità di
ricondurre sic et simpliciter l'accordo allo schema del contratto di
diritto privato e la conseguente giustificazione dell'assegnazione al
giudice amministrativo della giurisdizione esclusiva anche per quelle
controversie che attengono alla sua esecuzione.
Traendo spunto, cioè, dalle coordinate offerte dalla Consulta in sede di
valutazione della costituzionalità dell'art. 53 del d.P.R. n. 327/2001, si è
dunque affermato che: «La dichiarazione di illegittimità costituzionale
dell'art. 53 comma 1, del d.lgs. 08.06.2001, n. 325, trasfuso nell'art. 53,
comma 1, del d.P.R. 08.06.2001, n. 327, ad opera della sentenza n. 191 del
2006 della Corte costituzionale, riguarda soltanto la devoluzione alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle controversie
relative ai comportamenti delle pubbliche amministrazioni, conseguenti
all'applicazione delle disposizioni del testo unico, non riconducibili,
nemmeno mediatamente, all'esercizio di un pubblico potere e, dunque, tenuti
in carenza di potere od in via di mero fatto; conseguentemente appartengono
alla giurisdizione del giudice amministrativo quelle controversie in tema di
risarcimento del danno derivante da provvedimenti che, benché impugnati per
illegittimità od illiceità, sono comunque riconducibili ai poteri ablatori
riconosciuti alla P.A. dagli artt. 43 e 44 del T.U. n. 327 e dall'art. 3»
(Cass., SS.UU.,Ord. 22.12.2011, n. 28343; Cons. Stato, sez. V, 20.08.2013,
n. 4179).
In definitiva, come pure questo Consiglio di Stato ha già avuto modo di
chiarire, attraendo la cessione volontaria sotto il più duttile ombrello
dell’accordo sostitutivo o integrativo di provvedimento, sia pure nei limiti
della tipicità dei provvedimenti autoritativi che va a sostituire, in
ragione del riconosciuto mantenimento della sua connotazione di atto
autoritativo, caratterizzato semplicemente dalla confluenza in un unico
testo di provvedimento e negozio, si è comunque potuto affermare che le
controversie relative alla sua esecuzione, diverse da quelle in tema di
indennità, devono essere conosciute dal giudice amministrativo (Cons. St.,
Sez. VI; 14.09.2005, n. 4735),
6. La previsione, all’interno della disciplina del procedimento
amministrativo, di un istituto generale quale l’accordo integrativo o
sostitutivo di provvedimento, quest’ultimo originariamente circoscritto ai
soli casi previsti dalla legge (v. la novella apportata con la l.
11.02.2005, n. 15, che ha eliminato il relativo inciso dalla norma), ha
definitivamente sancito la legittimazione negoziale delle pubbliche
amministrazioni.
L’istituto, tuttavia, in quanto nel contempo patto o convenzione, ma anche
fonte di situazioni giuridiche patrimoniali diverse dalle obbligazioni
civilistiche, non esaurisce, come ha evidenziato la dottrina più accorta, il
previgente modello del contratto ad oggetto pubblico, proprio in ragione
della molteplicità di funzioni cui può assolvere, pur connotandosi per la
sostanziale equivalenza o sovrapponibilità fra funzione economico sociale e
cura dell’interesse pubblico.
L’accordo, dunque, “sostituisce” il provvedimento anche in senso
finalistico, consentendo cioè attraverso il modulo della negoziazione di
ottenere un risultato più conveniente di quello ottenibile con il primo da
parte dell’amministrazione. Laddove, cioè, il responsabile del procedimento
valuti che esso costituisce lo strumento più idoneo per la composizione
degli interessi coinvolti nell’azione amministrativa, può addivenire alla
stipula di un contratto cui l’ordinamento giuridico ricollega determinati
effetti, ciascuno dei quali a sua volta conseguibile anche con
provvedimenti.
La significatività dell’istituto sta pertanto proprio nel suo mutuare
aspetti necessariamente civilistici mischiandoli a contenuti tipicamente
autoritativi, con ciò realizzando un’efficace sintesi -rectius, la
miglior sintesi possibile, secondo la valutazione del soggetto pubblico
agente- tra l’interesse pubblico sotteso all’intervento, complessivamente
inteso, e il necessario incontro tra le volontà, quale metodologia per il
suo perseguimento.
6.1. La natura complessa dell’accordo sostitutivo di provvedimento,
pertanto, non ne consente la dequotazione a vuoto simulacro formale, così
come di fatto affermato dal giudice di prime cure, che ne ritiene del tutto
neutro l’utilizzo ai fini dell’individuazione del riparto di giurisdizione:
ciò peraltro non contestando il mero ricorso al nomen iuris, senza
rilevata corrispondenza sostanziale con il modello evocato; bensì
semplicemente in ragione della sua incapacità di incidere sulla
qualificazione civilistica della cessione di immobili.
6.2. Rileva al contrario la Sezione che proprio il fervore del dibattito
dottrinario e giurisprudenziale insorto sulla tematica evidenzia la
necessità di non risolvere la questione sul piano delle mere astrazioni
dogmatiche, dovendo la categoria concettuale generale del contratto ad
oggetto pubblico essere ulteriormente vagliata e scrutinata in concreto onde
valutare l’atteggiarsi del modello utilizzato, pur se normativamente già
previsto, in un senso piuttosto che nell’altro.
E’ dunque rimessa al giudice, a fronte di una fattispecie consensuale
pubblica, una precisa operazione ermeneutica che non può prescindere dalla
disamina della fase formativa dell’accordo, della sua struttura e dei suoi
effetti, senza partire da categorizzazioni preconcette: solo all’esito di
tale specifica analisi, è infatti possibile non tanto e non solo
l’inquadramento concettuale della singola fattispecie, ma anche e
soprattutto l’individuazione degli strumenti rimediali alla stessa
applicabili.
7. Da tutto quanto sopra, rileva la Sezione, emerge che la linea di
demarcazione stabilita dall’art. 133, comma 1, lettera g), per separare la
giurisdizione del giudice amministrativo da quella del giudice ordinario, in
necessario combinato disposto con le indicazioni rivenienti anche dalla
lett. a), n. 2) della medesima norma, non possa essere fatta cadere sulla
sola affermazione della natura giuridica degli atti adottati astrattamente
intesa, ma debba essere riguardata dall’ottica del collegamento eziologico
che gli stessi, pur intercorsi pattiziamente tra le parti, hanno con
l’esercizio del potere pubblico, in primo luogo di esproprio e, soprattutto,
analizzandone nello specifico gli effetti.
8. Quale che sia la cornice definitoria nella quale si colloca l’accordo,
tuttavia, certo è che fuoriescono dalla stessa le questioni “solo”
indennitarie, in quanto rientranti ratione materiae nella
giurisdizione del giudice ordinario.
8.1. Costituisce infatti ius receptum, dalle cui conclusioni non è
ragione di discostarsi, che qualsiasi domanda attinente alla determinazione
o al pagamento della indennità di esproprio rientra nella giurisdizione del
giudice ordinario, perfino se proposta dall’amministrazione per recuperare
quella indebitamente versata ad un privato ovvero connessa a quella
risarcitoria da perdita del terreno spettante al giudice amministrativo (cfr.
ex multis, Cass. civ., SS.UU., 19.02.2019, n. 4880).
Quanto detto è stato riconosciuto finanche ove coesistano contestazioni che
investono sia la legittimità del decreto ex art. 42-bis del Testo unico
sull’espropriazione, sia la quantificazione dell'indennizzo: invero, salvo
eccezioni normative espresse, vige nell'ordinamento processuale il principio
generale dell'inderogabilità della giurisdizione per motivi di connessione,
potendosi risolvere i problemi di coordinamento posti dalla concomitante
operatività della giurisdizione ordinaria e di quella amministrativa su
rapporti diversi, ma interdipendenti, secondo le regole della sospensione
del procedimento pregiudicato (Cons. Stato, sez. IV, 01.03.2017, n. 941; id.,
12.05.2016, n. 1910, che si sono poste sulla scia di Cass., SS.UU., ord.
19.04.2013, n. 9534). |
ESPROPRIAZIONE: L’Adunanza
plenaria pronuncia sulla cessazione dell’illecito permanente
dell’occupazione senza titolo per effetto della rinuncia abdicativa.
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Espropriazione per pubblica utilità – Occupazione - Senza titolo –
Illecito permanente – Cessazione per rinuncia abdicativa – Esclusione.
Per le fattispecie rientranti nell’ambito di
applicazione dell’art. 42-bis, d.P.R. n. 327 del 2001 la rinuncia abdicativa
del proprietario del bene occupato sine titulo dalla pubblica
amministrazione, anche a non voler considerare i profili attinenti alla
forma, non costituisce causa di cessazione dell’illecito permanente
dell’occupazione senza titolo (1)
---------------
(1) Ha chiarito
l’Alto consesso che nel contesto dell’orientamento affermativo
dell’ammissibilità della rinuncia abdicativa quale strumento alternativo di
tutela del privato leso dall’occupazione illegittima in funzione della
domanda risarcitoria per equivalente del danno da perdita della proprietà,
non è mai stata fornita una soluzione certa e univoca in ordine
all’individuazione del titulus e del modus adquirendi del
diritto di proprietà in capo all’amministrazione occupante obbligata al
risarcimento dei danni.
In particolare, in tale contesto, l’effetto acquisitivo in capo
all’amministrazione occupante non può essere ricondotto all’art. 827 Cod.
civ., il quale prevede l’acquisto –a titolo originario e non iure
successionis, come nella diversa fattispecie disciplinata dall’art. 586
Cod. civ.– dei beni vacanti da parte dello Stato (segnatamente, al suo
patrimonio disponibile; v., su tale ultimo punto, Cass. civ., 14.04.1966, n.
942).
Pur in tesi non attribuendo all’art. 827 Cod. civ. una portata meramente
transitoria collegata all’entrata in vigore del Codice civile –volta, cioè,
a disciplinare la sola situazione giuridica dei beni che, in ragione di
discipline pregresse, a tale momento siano stati privi di proprietario–, la
sua applicazione alle vicende espropriative quale quella all’esame giammai
consentirebbe di sprigionare l’effetto dell’acquisto della proprietà del
bene (che, peraltro, secondo le previsioni dell’art. 42-bis d.P.R. n.
327/2001, dovrebbe avvenire al patrimonio indisponibile) in capo
all’amministrazione occupante diversa dallo Stato, ma ne determinerebbe
l’acquisto al patrimonio disponibile di quest’ultimo (o, nelle Regioni a
statuto speciale della Sardegna, della Sicilia e del Trentino-Alto Adige, al
patrimonio delle rispettive Regioni, in forza degli articoli 14, 34 e 67 dei
rispettivi statuti speciali), con la conseguenza che l’ente occupante, pur
ad avvenuto versamento della somma liquidata a titolo risarcitorio, non ne
diverrebbe proprietario.
Né a risolvere lo iato tra effetto abdicativo della rinuncia ed effetto
acquisitivo in capo all’amministrazione occupante, determinato
dall’applicazione dell’art. 827 Cod. civ., appare idonea la tesi, per cui la
rinuncia alla titolarità del bene dovrebbe ritenersi risolutivamente
condizionata all’inadempimento dell’amministrazione occupante all’obbligo di
corrispondere il controvalore monetario liquidato dal giudice al momento
della definizione della controversia, sicché la rinuncia, interinalmente
efficace, consoliderebbe i propri effetti al momento dell’effettivo ed
integrale versamento del risarcimento da parte dell’amministrazione
occupante; secondo tale tesi, il relativo provvedimento di liquidazione
escluderebbe in via definitiva la verificazione dell’evento (appunto
l’inadempimento) dedotto in condizione e sarebbe soggetto a trascrizione ai
sensi del combinato disposto degli artt. 2643 n. 5) e 2645 Cod. civ. «anche
al fine di conseguire gli effetti della acquisizione del diritto di
proprietà in capo all’amministrazione, a far data dal negozio unilaterale di
rinuncia» (v., in tal senso, Cons. Stato, Sez. IV, 07.11.2016, n. 4636).
Infatti, la tesi si scontra con il rilievo che la trascrizione assolve alla
funzione dell’opponibilità a terzi degli atti dispositivi di diritti reali,
ma non ne integra la validità o l’efficacia né può assurgere a elemento
costitutivo della fattispecie traslativa o acquisitiva, con la conseguenza
che, in mancanza di idoneo titolo d’acquisto in capo all’amministrazione
occupante, l’ordine di trascrizione in favore di quest’ultima resterebbe
privo di base legale.
Neppure appare possibile l’applicazione analogica di altre fattispecie di
acquisto a titolo originario per fatti ‘occupatori’ disciplinate dal
Codice civile, quali gli artt. 923, 940 o 942 Cod. civ., in quanto si
incorrerebbe nella violazione del principio di legalità delle fattispecie
ablative, sancito dalla Costituzione e dalla CEDU.
Ad analoga obiezione si espongono i tentativi di ricostruire in via pretoria
fattispecie traslative complesse, mediate da eventuali sentenze costitutive,
atteso il principio di tassatività delle sentenze costitutive di effetti
traslativi o acquisitivi di diritti reali, né offrendo l’art. 34, comma 1,
lettera e), Cod. proc. amm. una sufficiente base legale per pronunce di
siffatto tenore.
Né, infine, appare configurabile un’ipotesi di formazione tacita di un
accordo traslativo tra parte privata e pubblica amministrazione –ad es.,
ipotizzando un atto di consenso del privato coessenziale alla dismissione
della proprietà e la non opposizione all’acquisto da parte
dell’amministrazione–, attesa la necessità della forma scritta ad
substantiam per i contratti traslativi della proprietà immobiliare,
tanto più se parte contrattuale è una pubblica amministrazione.
In secondo luogo, s’impone il rilievo che l’evento della perdita della
proprietà è un elemento costitutivo del fatto illecito produttivo del danno.
Aderendo alla tesi della rinuncia abdicativa, l’evento dannoso (perdita
della proprietà) verrebbe cagionato dallo stesso danneggiato, in contrasto
con i principi che presiedono all’illecito aquiliano, che esigono un
rapporto di causalità diretta tra evento dannoso e comportamento del
soggetto responsabile, nella specie invece interrotto dalla rinuncia dello
stesso danneggiato, la quale soltanto –secondo la tesi all’esame– determina
l’effetto della perdita.
Né tale rilievo appare superabile con l’obiezione per cui il proprietario
verrebbe ‘costretto’ ad abdicare in quanto con l’occupazione gli sarebbe
rimasto un bene totalmente privo di utilità, sicché sarebbe l’irreversibile
trasformazione del fondo da parte dell’amministrazione ad averne causato la
perdita: infatti, per un verso, in caso di contestazione s’imporrebbe la
necessità di (spesso complessi) accertamenti giudiziari sul grado di
trasformazione del fondo idoneo a giustificare l’atto abdicativo, dall’esito
per definizione incerto, con la conseguente introduzione, sotto diversa
veste, dell’acquisizione giudiziaria già prevista nel pregresso art. 43
d.P.R. n. 327/2001 ed espunta dall’ordinamento per le criticità che la
connotavano, e, per altro verso, attraverso la riconduzione causale della
perdita del bene alla sua occupazione e trasformazione sine titulo da
parte dell’amministrazione si (re)introdurrebbe una forma di espropriazione
indiretta in contrasto con i canoni della CEDU.
Se, invece, la determinazione circa la rinuncia abdicativa fosse rimessa
alla libera e insindacabile (sotto il profilo causale) scelta del
proprietario –come sotteso alla tesi della sua ammissibilità, quale
espressione della libera autodeterminazione del proprietario in ordine al
diritto di proprietà sul bene leso dall’occupazione illegittima–,
l’applicazione di tale strumento negoziale alle vicende delle occupazioni
illegittime contrasterebbe con i richiamati principi civilistici in tema di
illecito aquiliano.
Da ultimo, si osserva che la disciplina del procedimento espropriativo
speciale ex art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001 regola, in modo tipico, esaustivo
e tassativo, il procedimento di (ri)composizione del contrasto tra
l’interesse privato del proprietario e l’interesse generale cui è
preordinata l’acquisizione del bene alla mano pubblica comportante la
cessazione dell’illecito permanente. L’operatività dell’istituto postula,
sul piano logico-giuridico, che la formale titolarità della proprietà
risulti ancora in capo al privato (e non sia venuta meno, in tesi, con
l’eventuale rinuncia implicita nella proposizione della domanda risarcitoria):
infatti, l’adozione dell’atto, unitamente alla liquidazione dell’indennizzo,
rappresenta il necessario presupposto per il trasferimento del diritto di
proprietà in favore dell’amministrazione.
Una volta disciplinata dal legislatore in modo compiuto ed esauriente, la
procedura ablativa speciale –presupponente l’occupazione illegittima e la
correlativa modificazione del bene da parte dell’amministrazione (in sé
prive di riflessi in ordine alla titolarità del bene)– ‘tipizza’ i
poteri dell’amministrazione e ‘conforma’ la facoltà di
autodeterminazione del proprietario in ordine alla sorte del bene rimasto di
sua proprietà.
Per quanto riguarda l’amministrazione, essa è titolare di una funzione, a
carattere doveroso nell’an, consistente nella scelta tra la
restituzione del bene previa rimessione in pristino e acquisizione ai sensi
dell’articolo 42-bis; non quindi una mera facoltà di scelta (o di non
scegliere) tra opzioni possibili, ma doveroso esercizio di un potere che
potrà avere come esito o la restituzione al privato o l’acquisizione alla
mano pubblica del bene. Alternative entrambe finalizzate a porre fine allo
stato di illegalità in cui versa la situazione presupposta dalla norma.
Quanto al privato –e corrispondentemente all’alternativa posta in termini
funzionali all’amministrazione–, la sua facoltà di autodeterminazione resta
conformata (sul piano legislativo, ex art. 42, secondo e terzo comma, Cost.)
nel senso che al medesimo è attribuita la potestà di compulsare la pubblica
amministrazione, attraverso una correlativa istanza/diffida, all’esercizio
del potere/dovere di porre comunque termine alla situazione di illecito
permanente costituita dall’occupazione senza titolo e ricondurla a legalità
secondo la seguente alternativa:
- o adottando il provvedimento di acquisizione sulla base degli
stringenti criteri motivazionali delineati dal comma 4 dell’art. 42-bis,
verso la corresponsione dell’indennizzo parametrato ai criteri stabiliti nel
precedente comma 1;
- oppure, in mancanza dell’acquisizione, disponendo la restituzione
del bene previa rimessione allo stato pristino (con salvezza, in entrambe le
ipotesi, del diritto al risarcimento dei danni per il periodo
dell’occupazione illegittima e degli eventuali danni ulteriori).
Altre soluzioni, che potevano trovare una spiegazione in presenza di una
lacuna legislativa, non sono ipotizzabili, in quanto resterebbe irrisolta la
definizione di una base legale certa per l’effetto traslativo della
proprietà. Di conseguenza, all’interprete non è consentito più (se mai lo
sia stato) di ricorrere all’analogia iuris per integrare la
fattispecie normativa di diritto amministrativo settoriale in materia
espropriativa, quale tassativamente predeterminata dal legislatore,
attraverso il ricorso ad un istituto di natura prettamente privatistica, al
dichiarato fine di aggiungere un ulteriore strumento di tutela del privato,
limitativo e derogatorio all’istituto dell’art. 42-bis.
Siffatta operazione ermeneutica –oltre a non essere necessaria sotto il
profilo della garanzia della effettività della tutela del proprietario leso,
in quanto sussistono idonei mezzi coercitivi affinché l’amministrazione
occupante provveda a compiere la scelta tra acquisizione o restituzione–
comporta, invero, uno stravolgimento dell’assetto d’interessi sotteso e (ri)composto
(d)alla particolare procedura ablativa disciplinata dal citato articolo di
legge; affida la decisione sulla sorte del bene ad un atto eventuale e
unilaterale del proprietario, cui si finirebbe per attribuire una sorta di
diritto potestativo direttamente ricadente nella sfera giuridica
dell’amministrazione; e si risolve, in definitiva, nell’inammissibile
introduzione praeter legem di una nuova fattispecie
ablativa/traslativa (peraltro, lasciando irrisolta la questione fondamentale
circa il titulus e il modus adquirendi della proprietà del
bene in capo all’ente occupante), la cui disciplina è, invece, riservata
alla legge e informata alla tassatività e tipicità dei poteri ablatori e
delle relative procedure.
Concludendo sul punto, preminenti esigenze di sicurezza giuridica,
implicanti la prevedibilità, per tutti i soggetti coinvolti (compresa la
parte pubblica), della fattispecie ablativa/acquisitiva, non possono che
escludere la rilevanza dell’atto unilaterale di rinuncia abdicativa alla
proprietà dell’immobile, ai fini della cessazione dell’illecito permanente
costituito dall’occupazione sine titulo del bene di proprietà privata
e della riconduzione della situazione di fatto a legalità.
Come sopra ripetutamente accennato, l’ordinamento processuale amministrativo
appresta uno strumentario processuale efficace per reagire all’eventuale
inerzia della pubblica amministrazione con l’azione ex artt. 31 e 117 Cod.
proc. amm., oppure, a seconda della fase in cui pende il processo e del tipo
di azione esercitata, attraverso l’assegnazione, nella sentenza cognitoria,
di un termine per provvedere in ordine all’acquisizione o (in caso di non
acquisizione) alla restituzione del bene illegittimamente occupato, ai sensi
dell’art. 34, comma 1, lettera b), Cod. proc. amm., con eventuale
contestuale nomina di un commissario ad acta a norma dell’art. 34,
comma 1, lett. e), Cod. proc. amm. per il caso di persistente inottemperanza
all’ordine di provvedere (al fine, appunto, di ricondurre la situazione di
occupazione illegittima nell’alveo della legalità attraverso l’esercizio del
correlativo potere, di natura vincolata nell’an e discrezionale nel
quomodo).
In particolare, l’iniziativa procedimentale e il successivo giudizio sul
silenzio costituiscono mezzi con cui il proprietario del bene occupato può
far valere l’interesse ad ottenere un ristoro pecuniario in luogo della
restituzione del bene, che, per le ragioni sopra esposte, non può più
trovare tutela attraverso il meccanismo della rinuncia abdicativa (che
rimetterebbe alla determinazione unilaterale del privato la decisione sulla
sorte del bene, al contempo lasciando irrisolta la vicenda acquisitiva).
Viene, con ciò, offerta al privato una tutela celere, concentrata e
definitiva dell’interesse leso, senza necessità di ricorrere alla
costruzione della rinuncia abdicativa. Ricorso, per quanto si è detto, non
più consentito in assenza di una lacuna legislativa e anzi in presenza di
una disciplina volta a fornire una base legale specifica, certa e
prevedibile, all’effetto ablativo della proprietà.
Il carattere assorbente della risposta al quesito precedente rende non
rilevante il quesito sub § 16.(ii), che comunque rafforza le criticità della
teoria della rinuncia abdicativa.
In primo luogo, la proposizione di una domanda risarcitoria del pregiudizio
sofferto rispetto a un bene, attraverso la richiesta di una somma
corrispondente al controvalore del bene, nulla esprime realmente in ordine
alla volontà di preservarne, o meno, la titolarità.
Infatti, siffatta domanda non è né logicamente né giuridicamente
incompatibile con la volontà di permanere titolare del diritto di proprietà,
potendo anche il danno da perdita del godimento del bene, in vista della sua
proiezione tendenziale all’infinito in ragione di una prospettata radicale e
irreversibile trasformazione del bene, finire per equivalere al valore di
scambio, sicché la mera richiesta di un risarcimento del danno commisurato
al valore del bene appare del tutto neutra sotto il profilo della volontà di
rinunciare, o meno, alla proprietà.
Considerata la rilevanza degli effetti dell’atto abdicativo, comportante la
perdita del diritto di proprietà su un bene immobile, non appare
ammissibile, per ragioni di certezza del traffico giuridico immobiliare,
ancorare l’effetto a manifestazioni di volontà enucleabili da atti
processuali a contenuto non univoco, in violazione dei principi di
accessibilità, precisione e prevedibilità cui deve essere improntata la
disciplina delle procedure ablative nonché lo stesso regime giuridico di
circolazione dei beni, per di più immobili.
In secondo luogo, occorre rilevare che l’atto di rinuncia al diritto di
proprietà su beni immobili è soggetto alla forma scritta ad substantiam
ai sensi dell’art. 1350, n. 5), Cod. civ., per cui vanno redatti per
iscritto «gli atti di rinunzia ai diritti indicati dai numeri precedenti»
(nei quali rientra anche il diritto di proprietà).
Ebbene, anche in ipotesi aderendo all’orientamento giurisprudenziale e
dottrinario che ritiene ammissibile una manifestazione tacita di volontà nel
contesto di un atto per la cui validità è richiesta la forma scritta –con la
motivazione che una forma vincolata non significa che la volontà debba
essere espressa, essendo sufficiente che la stessa vi sia contenuta, anche
in forma tacita, ma in modo da rilevare, per quanto qui interessa, una
volontà incompatibile con il mantenimento del diritto di proprietà–, l’atto
formale contenente la volontà tacita di rinuncia deve, in ogni caso,
assumere la forma scritta ad substantiam (scrittura privata o atto
pubblico), ossia essere munita della sottoscrizione personale della parte,
autenticata o comunque riconosciuta nelle forme di legge.
Tratterebbesi di requisito formale da vagliare caso per caso attraverso
l’esame degli atti processuali di parte in tesi suscettibili di essere
interpretati quali atti contenenti una volontà abdicativa.
Nel caso concreto sub iudice, né l’atto per motivi aggiunti del
31.10.2007 né quello successivo notificato il 24.05.2013 –con cui erano
state veicolate le domande di risarcimento per equivalente rapportate al
valore venale del bene (oltre ai danni da perdita del godimento per
occupazione illegittima)– recano la sottoscrizione personale delle parti, né
risulta conferita al difensore una procura speciale a disporre del diritto
di proprietà attraverso un’eventuale rinuncia abdicativa.
Pertanto, anche sotto i profili sopra esaminati, la teoria della rinuncia
abdicativa all’atto della sua applicazione pratica appaleserebbe una serie
di criticità
(Consiglio di Stato, A.P.,
sentenza 20.01.2020 n. 4 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ESPROPRIAZIONE: Per
la Plenaria, nelle ipotesi dell’art. 42-bis TUEs, l’illecito della p.a.
viene meno nei casi da esso previsti e non è ravvisabile la rinuncia
abdicativa.
Secondo l’Adunanza plenaria per le fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis
del d.P.R. 08.06.2001, n. 327, recante il Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica
utilità, l’illecito permanente dell’amministrazione viene meno nei casi da
esso previsti (l’acquisizione del bene o la sua restituzione), salva la
conclusione di un contratto traslativo tra le parti, di natura transattiva,
mentre la rinuncia abdicativa non può essere ravvisata.
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Espropriazione per pubblico interesse – Acquisizione sanante – Rinuncia
abdicativa – Esclusione
Per le fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis
TUEs., l’illecito permanente dell’Autorità viene meno nei casi da esso
previsti (l’acquisizione del bene o la sua restituzione), salva la
conclusione di un contratto traslativo tra le parti, di natura transattiva e
la rinuncia abdicativa non può essere ravvisata. (1)
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(1) I. – Con la sentenza in rassegna (analogamente alla n. 3 resa
in pari data), l’Adunanza plenaria ha ritenuto che, per le fattispecie
disciplinate dall’art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001, l’illecito
permanente dell’amministrazione viene meno nei casi da esso previsti
(acquisizione o restituzione del bene), salva la conclusione di un contratto
traslativo di natura transattiva tra le parti, e non può essere ravvisata la
rinuncia abdicativa.
II. – Nel caso esaminato dal collegio, l’appellante aveva proposto
ricorso al Tar deducendo che il decreto ministeriale, in base al quale erano
stati approvati i lavori di costruzione di un’opera pubblica e fissati i
termini per la realizzazione dei lavori e l’emanazione dei decreti di
esproprio, era stato annullato con sentenza del Consiglio di Stato.
Rappresentava, quindi, che, nel frattempo, l’opera pubblica era stata
integralmente realizzata e il terreno di sua proprietà era irreversibilmente
trasformato in assenza di un decreto di esproprio. Chiedeva la condanna
dell’amministrazione resistente al risarcimento del danno derivante dalla
illecita e illegittima apprensione del bene, essendo impossibile la sua
restituzione. Il Tar per la Puglia, Lecce, con sentenza 25.09.2007, n. 3373,
ravvisando un’ipotesi di occupazione acquisitiva, ha accolto l’eccezione,
sollevata dall’amministrazione, di prescrizione del diritto del ricorrente
al risarcimento del danno da occupazione acquisitiva, ritenendo decorso il
termine quinquennale previsto dall’art. 2947 c.c. tra la data in cui
l’occupazione d’urgenza sarebbe divenuta illegittima e la data di notifica
del ricorso di primo grado.
La parte ricorrente proponeva appello contestando la prescrizione del
diritto e deducendo che avrebbe perso il diritto di proprietà sul bene
interessato dall’occupazione, con contestuale acquisizione a titolo
originario della proprietà del suolo in capo alla p.a. Con sentenza parziale
e contestuale
ordinanza del 30.07.2019, n. 5391 (richiamata nella
News US n. 104 del 25.09.2019, alla quale si rinvia per ulteriori
approfondimenti, ma sulla quale si veda infra § h), il Consiglio di Stato,
dopo aver ritenuto che il Tar avesse erroneamente accolto l’eccezione di
prescrizione e aver individuato le ulteriori statuizioni da emanare per
definire la controversia (ordine all’amministrazione che utilizza il bene
pubblico di emanare un provvedimento che disponga l’acquisizione del bene al
suo patrimonio indisponibile o, in alternativa, la sua restituzione), ha
rimesso all’Adunanza plenaria due questioni giuridiche pregiudiziali alla
decisione dell’appello: se la domanda risarcitoria vada qualificata come
dichiarazione di rinuncia abdicativa del bene in questione; se, in caso
affermativo, una tale rinuncia abbia giuridica rilevanza.
III. – La plenaria ha osservato quanto segue:
a) la questione di diritto sottoposta al suo
esame riguarda esclusivamente la configurabilità, nella materia della
espropriazione, della rinuncia abdicativa quale atto implicito e implicato
nella proposizione, da parte di un privato illegittimamente espropriato,
della domanda di risarcimento del danno per equivalente monetario derivante
dall’illecito permanente, costituito dall’occupazione di un suolo da parte
della p.a., a fronte dell’irreversibile trasformazione del suolo;
b) la questione non riguarda, invece,
l’ammissibilità in generale dell’istituto della rinuncia abdicativa
nell’ordinamento giuridico:
b1) la rinuncia abdicativa è un
negozio giuridico unilaterale, non recettizio, con il quale il rinunciato
dismette una situazione giuridica di cui è titolare, senza che ciò comporti
il trasferimento del diritto in capo ad altro soggetto, né l’automatica
estinzione del diritto;
b2) gli ulteriori effetti,
estintivi o modificativi del rapporto, che possono incidere sui terzi, sono
conseguenze riflesse del negozio rinunziativo, non direttamente collegabili
all’intento negoziale e non correlate al contenuto causale dell’atto;
b3) la rinuncia abdicativa si
differenzia dalla rinuncia traslativa proprio in considerazione della
mancanza del carattere traslativo-derivativo dell’acquisto e per la mancanza
di natura contrattuale, con la conseguenza che l’effetto in capo al terzo si
produce ipso iure, a prescindere dalla volontà del rinunciante, quale
effetto di legge;
b4) per il suo perfezionamento
non è quindi richiesto l’intervento o l’espressa accettazione del terzo, né
che lo stesso ne sia a conoscenza;
c) la tesi della ammissibilità della rinuncia
abdicativa nella materia espropriativa è stata sostenuta sia dalla
giurisprudenza amministrativa che da quella civile di legittimità, si fonda
su vari argomenti e presenta effetti positivi per il privato sul piano
pratico in quanto:
c1) valorizza il principio di
concentrazione della tutela ricavabile dall’art. 111 Cost., quale corollario
del principio di ragionevole durata del processo, che sarebbe pregiudicato
dalla sua segmentazione in una fase amministrativistica relativa al giudizio
sulla legittimità degli atti espropriativi e in una fase civilistica per la
determinazione del quantum da corrispondere al soggetto espropriato;
c2) offre maggiori garanzie di
compensare integralmente il privato per il bene perduto, in quanto l’utilità
deve essere a questo corrisposta a titolo di risarcimento del danno e non a
titolo di indennizzo;
c3) poiché il risarcimento del
danno è connesso alla proposizione della domanda da parte del privato in
giudizio, che implica rinuncia abdicativa, è da tale momento che si verifica
un debito di valore, con tutte le implicazioni in tema di interessi legali e
rivalutazione;
d) la tesi della rinuncia abdicativa in materia
espropriativa non appare, tuttavia, condivisibile per diverse ragioni;
e) in primo luogo, non spiega esaurientemente la
vicenda traslativa in capo all’autorità espropriante:
e1) se l’atto abdicativo è
astrattamente idoneo a determinare la perdita della proprietà privata, non è
altrettanto idoneo a determinare l’acquisto della proprietà in capo all’ente
espropriante;
e2) nel diritto privato è
discusso se l’art. 827 c.c., in base al quale gli immobili che non sono in
proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello Stato, possa essere la base
legale di una dichiarazione di rinuncia del proprietario di un diritto reale
immobiliare, a parte i casi previsti dalla legge.
In ogni caso, tale acquisto, a titolo originario e non derivativo, si
realizzerebbe in capo allo Stato e non in capo all’autorità espropriante,
che sarebbe del tutto esclusa dalla vicenda giuridica pur avendone
costituito la causa efficiente tramite l’illecita apprensione del bene del
privato. “La spiegazione dell’effetto traslativo, pertanto, sarebbe del
tutto eccentrica rispetto al rapporto amministrativo che viene innescato
dall’Amministrazione espropriante, rendendo evidente l’artificiosità della
soluzione teorica proposta”;
e3) l’effetto traslativo non
può essere recuperato attraverso l’ordine di trascrizione della sentenza di
condanna al risarcimento del danno (e, quindi, della sua rinuncia abdicativa
implicita a favore dell’amministrazione espropriante), in quanto le vicende
della trascrizione si pongono solo sul piano dell’opponibilità verso terzi
degli atti giuridici dispositivi di diritti reali, ma non disciplinano la
validità e l’efficacia giuridica degli stessi. Pertanto, se l’atto non è
idoneo a determinare il passaggio del bene in capo all’amministrazione
espropriante non potrà essere trascrivibile e l’ordine del giudice contenuto
nella sentenza non potrebbe avere adeguata base legale;
f) in secondo luogo, la rinuncia viene
ricostruita quale atto implicito senza averne le caratteristiche essenziali,
in quanto:
f1) la rinuncia abdicativa, se
riferita al ricorso giurisdizionale, non viene effettuata dalla parte, né
personalmente, né attraverso un soggetto dotato di idonea procura;
f2) nel diritto amministrativo
è ammessa la sussistenza del provvedimento implicito quando
l’amministrazione, pur non adottando formalmente un provvedimento, ne
determina univocamente i contenuti sostanziali, o attraverso un
comportamento conseguente, ovvero determinandosi in una direzione, anche con
riferimento a fasi istruttorie coerentemente svolte, a cui non può essere
ricondotto altro volere che quello equivalente al contenuto del
provvedimento formale corrispondente, congiungendosi tra loro i due elementi
di una manifestazione chiara di volontà dell’organo competente e della
possibilità di desumere in modo non equivoco una specifica volontà
provvedimentale, nel senso che l’atto implicito deve essere l’unica
conseguenza possibile della presunta manifestazione di volontà.
Nella dogmatica degli atti impliciti nel diritto amministrativo emerge la
sussistenza di un atto formale, perfetto e validamente emanato che contiene
per implicito un’ulteriore volontà provvedimentale, oltre a quella espressa
nel testo del provvedimento medesimo.
In questa ricostruzione non si riscontrano violazioni del principio di
legalità dell’azione amministrativa perché la volontà amministrativa esiste
ed è contenuta in un atto avente tutte le caratteristiche previste dalla
legge per conferirle validità, con la peculiarità che detta volontà è
ricavabile da una interpretazione non meramente letterale dell’atto. Nel
caso di specie, la rinuncia abdicativa è totalmente estranea alla teorica
degli atti impliciti che riguarda solo gli atti amministrativi e non quelli
del privato;
f3) non sembra possibile utilizzare lo stesso paradigma dei provvedimenti
amministrativi impliciti per ricondurre la volontà di chiedere il
risarcimento del danno alla volontà di abdicare alla proprietà privata.
Sul piano sostanziale non sembra che da una domanda risarcitoria sia
possibile univocamente desumere la rinuncia del privato al diritto sul bene.
Sul piano formale la domanda di risarcimento del danno contenuta nel ricorso
giurisdizionale amministrativo è una domanda redatta e sottoscritta dal
difensore e non dalla parte proprietaria del bene che ne ha la disponibilità
e che è l’unico soggetto avente la legittimazione ad abdicarvi.
D’altro canto, nel mandato difensivo della parte al proprio difensore non
può rinvenirsi una procura a rinunciare alla proprietà del bene;
g) in terzo luogo, in senso decisivo e assorbente, la
ricostruzione della rinuncia abdicativa non è provvista di base legale in
ambito espropriativo, dove il rispetto del principio di legalità è
richiamato con forza a vari livelli;
g1) ai sensi dell’art. 42, commi 2 e 3, Cost. la proprietà privata è
riconosciuta e garantita dalla legge che ne determina i modi di acquisto e
può essere, nei casi previsti dalla legge e salvo indennizzo, espropriata
per motivi di interesse generale. La rinuncia abdicativa non costituisce uno
dei casi previsti dalla legge;
g2) l’istituto sembra inoltre presentare gli stessi problemi e dubbi
interpretativi che avevano caratterizzato l’occupazione acquisitiva, di cui
la Corte europea dei diritti dell’uomo ha evidenziato la contrarietà alla
convenzione europea. In particolare, la c.d. occupazione appropriativa o
acquisitiva, istituto di origine pretoria, determinava l’acquisizione della
proprietà del fondo a favore della pubblica amministrazione per accessione
invertita in caso di irreversibile trasformazione dell’area.
L’istituto risulta peraltro privo di base legale ed è stato pertanto
ritenuto illegittimo dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, con la
conseguenza che, attualmente, il mero fatto dell’intervenuta realizzazione
dell’opera pubblica non costituisce titolo di acquisto del diritto, non
determina il trasferimento della proprietà e non fa venire meno l’obbligo
dell’amministrazione di restituire al privato il bene illegittimamente
appreso;
g3) nel delineato contesto il legislatore nazionale è intervenuto per
regolare la fattispecie in esame, fornendo una base legale, sistematica e
coerente, dapprima con l’art. 43 del d.P.R. n. 327 del 2001 e, quindi, dopo
la dichiarazione di incostituzionalità della disposizione per eccesso di
delega, con l’art. 42-bis, il quale, tra l’altro: prevede che l’autorità che
utilizza sine titulo un bene immobile per scopi di interesse
pubblico, dopo aver valutato,
con un procedimento d’ufficio, gli interessi in conflitto, adotta un
provvedimento conclusivo del procedimento con cui sceglie se acquisire il
bene o restituirlo, al fine di adeguare la situazione di diritto a quella di
fatto; comporta che, nel caso di occupazione sine titulo, l’Autorità
commette un illecito di carattere permanente; esclude che il giudice possa
decidere la sorte del bene nel giudizio di cognizione instaurato dal
proprietario; non può che escludere che la ‘sorte’ del bene sia
decisa dal proprietario e che l’Autorità acquisti coattivamente il bene,
solo perché il proprietario dichiari di averlo perso o di volerlo perdere, o
di volere il controvalore del bene;
g4) “l’art. 42-bis ha, quindi, definito in maniera esaustiva la
disciplina della fattispecie, con una normativa autosufficiente, rispetto
alla quale non trovano spazio elaborazioni giurisprudenziali che, se forse
giustificate in assenza di una base legale, non si giustificano più una
volta che intervenga un’esplicita disciplina normativa, ritenuta conforme al
diritto europeo e alla Costituzione, che viene a costituire la base legale
espressa della fattispecie in questione”.
La disposizione non obbliga l’amministrazione ad acquisire il bene, ma
impone che la stessa eserciti il potere di valutare se apprendere il bene
definitivamente o restituirlo al soggetto privato, secondo una concezione di
doverosità delle funzioni amministrative che discende dai principi di
imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione;
g5) pertanto, per le fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis, una rigorosa
applicazione del principio di legalità richiede una base legale certa perché
si determini l’effetto dell’acquisto della proprietà in capo
all’espropriante;
g6) nessuna norma attribuisce al soggetto espropriato, pur a fronte
dell’illegittimità del titolo espropriativo, un diritto, sostanzialmente
potestativo, di determinare il trasferimento della proprietà
all’amministrazione espropriante, previa corresponsione del risarcimento del
danno. Al contrario, è stato introdotto nell’ordinamento giuridico un
istituto che attribuisce all’amministrazione una funzione autoritativa in
forza della quale essa può scegliere tra restituzione e acquisizione del
bene nel rispetto dei requisiti sostanziali e secondo le modalità ivi
previste;
g7) inoltre, poiché la disposizione in esame prevede che il titolo di
acquisto sia un atto espressione di scelta dell’autorità, alcun rilievo può
essere attribuito a tal fine a un atto diverso, ossia al successivo atto di
liquidazione del danno, peraltro emanato in esecuzione di una sentenza; “né
dall’art. 42-bis né da altra norma può ricavarsi l’attribuzione dell’effetto
giuridico di rinuncia abdicativa alla fattispecie complessa derivante dalla
coesistenza della sentenza di condanna e dell’atto di liquidazione del danno”;
h) pertanto, con riferimento alle scelte del
privato e dell’amministrazione:
h1) nel caso in cui
l’amministrazione non adotti l’atto discrezionale, il privato potrà esperire
gli ordinari rimedi di tutela, compreso quello restitutorio, non residuando
alcuno spazio per giustificare la perdurante inerzia dell’amministrazione;
h2) la scelta tra acquisizione e restituzione va effettuata
dall’amministrazione (o dal commissario ad acta nominato dal giudice
amministrativo, all’esito del giudizio di cognizione o del giudizio di
ottemperanza ai sensi dell’art. 34 o dell’art. 114 c.p.a.). In sede di
giurisdizione di legittimità, né il giudice amministrativo né il
proprietario possono sostituire le proprie valutazioni a quelle attribuite
alla competenza e alla responsabilità dell’autorità individuata dalla norma.
Il giudice amministrativo, in caso di inerzia dell’amministrazione e di
ricorso avverso il silenzio ai sensi dell’art. 117 c.p.a., può nominare il
commissario ad acta che provvederà a esercitare i poteri previsti
dalla disposizione o nel senso della acquisizione o nel senso della
restituzione del bene illegittimamente espropriato;
h3) qualora sia invocata la sola tutela risarcitoria o restitutoria prevista
dal codice civile, senza richiamare l’art. 42-bis, il giudice deve
pronunciarsi tenuto conto del quadro normativo delineato e del carattere
doveroso della funzione attribuita dalla disposizione in esame
all’amministrazione. Non sarebbe, quindi, ammissibile una richiesta solo
risarcitoria in quanto essa si porrebbe al di fuori dello schema legale
tipico previsto dalla legge per disciplinare la materia ponendosi anzi in
contrasto con lo stesso, anche se il giudice potrà, ove ne ricorrano i
presupposti, accogliere la domanda.
La domanda risarcitoria consiste essenzialmente nell’accertamento della
illegittimità degli atti della procedura espropriativa e nella scelta del
rimedio previsto dalla legge. Nel caso di espropriazione senza titolo
valido, la legge speciale prevede che il trasferimento del bene non avvenga,
per carenza di titolo, e il bene vada restituito al privato. La restituzione
può essere impedita dall’amministrazione, la quale è tenuta, nell’esercizio
di una funzione doverosa, a valutare se procedere alla restituzione del
bene, previa riduzione in pristino, o all’acquisizione del bene nel rispetto
di tutti i presupposti declinati dall’art. 42-bis e con la corresponsione di
un’indennità pari al valore del bene maggiorato del 10 per cento;
h4) in ogni caso il diritto
processuale amministrativo offre un adeguato strumentario per evitare, nel
corso del giudizio, che le domande proposte in primo grado, congruenti con
quello che allora appariva il vigente quadro normativo e l’orientamento
giurisprudenziale di riferimento siano di ostacolo alla formulazione di
istanze adeguate al diverso contesto normativo e giurisprudenziale vigente
al momento della decisione, quali la conversione della domanda, la
rimessione in termini per errore scusabile, l’invito alla precisazione della
domanda in relazione al definito quadro giurisprudenziale, in tutti i casi
previa sottoposizione della relativa questione processuale, in ipotesi
rilevata d’ufficio, al contraddittorio delle parti ex art. 73, comma 3,
c.p.a., a garanzia del diritto di difesa di tutte le parti processuali.
IV. – Per completezza si segnala quanto segue: i) con riferimento
al rapporto tra rinuncia abdicativa e art. 42-bis:
i1)
Cons. Stato, Ad. plen., 20.01.2020, n. 4 (oggetto di coeva News
US) ha pronunciato il seguente principio di diritto “Per le fattispecie
rientranti nell’ambito di applicazione dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001
la rinuncia abdicativa del proprietario del bene occupato sine titulo dalla
pubblica amministrazione, anche a non voler considerare i profili attinenti
alla forma, non costituisce causa di cessazione dell’illecito permanente
dell’occupazione senza titolo”, restituendo per il resto gli atti alla
sezione rimettente ai sensi dell’art. 99, comma 4, c.p.a.;
i2) le questioni esaminate
dalle citate decisioni dell’Adunanza plenaria sono state oggetto di tre
rimessioni:
Cons. Stato, sez. IV, 30.07.2019, n. 5400 (oggetto della citata
News US n. 104 del 25.09.2019, alla quale si rinvia specie con
riferimento ai precedenti giurisprudenziali sul tema, § t), con riferimento
alla sentenza n. 4 del 2020), nonché le nn. 5399 (sulla quale è intervenuta
la citata sentenza n. 3 del 2020 dell’Adunanza plenaria) e 5391 (sulla quale
è intervenuta la decisione in commento n. 2 del 2020) emesse in pari data,
che hanno deferito all’Adunanza plenaria le seguenti questioni:
“a) se per le fattispecie sottoposte all’esame del giudice amministrativo
e disciplinate dall’art. 42-bis del testo unico sugli espropri, l’illecito
permanente dell’Autorità viene meno solo nei casi da esso previsti
(l’acquisizione del bene o la sua restituzione), salva la conclusione di un
contratto traslativo tra le parti, di natura transattiva;
b) se, pertanto, la ‘rinuncia abdicativa’, salve le questioni concernenti le
controversie all’esame del giudice civile, non può essere ravvisata quando
sia applicabile l’art. 42-bis;
c) se, ove sia invocata la sola tutela restitutoria e/o risarcitoria
prevista dal codice civile e non sia richiamato l’art. 42-bis, il giudice
amministrativo può qualificare l’azione come proposta avverso il silenzio
dell’Autorità inerte in relazione all’esercizio dei poteri ex art. 42-bis;
d) se, in tale ipotesi, il giudice amministrativo può conseguentemente
fornire tutela all’interesse legittimo del ricorrente applicando la
disciplina di cui all’art. 42-bis e, eventualmente, nominando un Commissario
ad acta già in sede di cognizione;
e) se, nella specie, l’atto di acquisizione emesso da Roma Capitale in data
23.11.2018 vada considerato giuridicamente rilevante (ciò che dovrebbe
ammettersi, qualora si dovesse ritenere che l’Amministrazione solo con
l’emanazione dell’atto di data 23.11.2018 ha fatto venire meno l’illecito
permanente conseguente alla occupazione sine titulo)”;
j) sempre con riferimento all’art. 42-bis,
Cons. Stato, sez. IV, ordinanza 15.07.2019, n. 4950 (oggetto
della
News US n. 100 del 10.09.2019, alla quale si rinvia per ulteriori
approfondimenti, specie con riferimento al tema dell’overruling
processuale, § q)), ha deferito all’Adunanza plenaria le seguenti questioni:
“a) se il giudicato civile, sull’obbligo di restituire un’area al
proprietario da parte dell’Amministrazione occupante sine titulo, precluda o
meno l’emanazione di un atto di imposizione di una servitù di passaggio, col
mantenimento del diritto di proprietà in capo al suo titolare; b) se la
formazione del giudicato interno -sulla statuizione del TAR per cui il
giudicato civile consente l’attivazione di un ordinario procedimento
espropriativo– imponga nella specie di affermare che sussiste anche il
potere dell’Amministrazione di imporre la servitù di passaggio ex art.
42-bis, comma 6; c) se la preclusione del ‘giudicato restitutorio’ sussista
anche quando la sentenza (nella specie, del giudice civile) non abbia
espressamente precluso l’esercizio dei poteri previsti dall’art. 42-bis per
adeguare lo stato di fatto a quello di diritto; d) se la preclusione del
‘giudicato restitutorio’ sussista solo in relazione ai giudicati formatisi
dopo la pubblicazione della sentenza della Adunanza Plenaria n. 2 del 2016,
ovvero anche in relazione ai giudicati formatisi in precedenza”.
In particolare, con la citata ordinanza, il collegio ha deferito
all’Adunanza plenaria alcune questioni relative alla interpretazione
dell’art. 42-bis del TUEs, con particolare riferimento alla possibilità di
adottare un decreto di acquisizione sanante per la costituzione, in favore
di un Comune, di una servitù pubblica di passaggio per l’accesso ad un parco
pubblico, in presenza di un giudicato civile di restituzione del terreno,
conseguente non ad una procedura espropriativa illegittima ma alla
declaratoria di nullità di un contratto di compravendita con immissione
immediata nel possesso in favore del Comune resistente dinanzi al Tar;
k) di recente, Cass. civ., sez. un., 12.11.2019,
n. 29466, secondo un percorso logico antitetico a quello intrapreso dalla
Plenaria in commento, ha dato per assodato: l’esistenza dell’istituto della
rinuncia abdicativa sia per occupazione usurpativa che acquisitiva;
l’eccezionalità dello strumento previsto dall’art. 42-bis; l’inapplicabilità
in ambito espropriativo degli artt. 2058 e 2033 c.c.; che il giudicato sul
risarcimento del danno, anche per equivalente monetario, blocca l’emanazione
del provvedimento previsto dall’art. 42-bis ispirato a una logica
indennitaria; la necessità di una motivazione rafforzata per giustificare
l’adozione di una delle scelte di cui all’art. 42-bis da parte
dell’amministrazione; l’applicabilità dell’art. 21-octies al provvedimento
ex art. 42-bis. La Corte ha, in particolare, ritenuto che:
k1) il provvedimento di acquisizione
sanante, disciplinato dall’art. 42-bis, “costituisce l'esercizio di uno
speciale, autonomo ed eccezionale potere espropriativo, che è innestato su
un precedente procedimento espropriativo irrimediabilmente viziato o,
comunque, fondato su titolo astrattamente annullabile sub judíce, e che è
teso a sostituire il regolare procedimento ablativo, in quanto contiene uno
actu sia la dichiarazione di pubblica utilità, sia il decreto di esproprio”;
k2) “nel caso in esame, a
differenza che in quelli oggetto di tale orientamento, il giudicato attiene
bensì all'illegittimità della condotta della parte pubblica, ma non
comprende alcuna statuizione di risarcimento del danno per equivalente,
statuizione che presuppone, pur sempre, una rinuncia -espressa o implicita
nella richiesta risarcitoria- al diritto dominicale da parte del
proprietario”;
l) sul carattere permanente dell’illecito
dell’amministrazione in caso di utilizzo sine titulo di un bene
immobile per scopi di interesse pubblico, si veda tra le altre: Cons. Stato,
Ad. plen., 09.02.2016, n. 2 (in Foro it., 2016, III, 185; Corr. giur., 2016,
4, 498, con nota di CARBONE; Giur. it., 2016, 5, 1212, con nota di URBANI),
secondo cui “in linea generale, quale che sia la sua forma di
manifestazione (vie di fatto, occupazione usurpativa, occupazione
acquisitiva), la condotta illecita dell'amministrazione incidente sul
diritto di proprietà non può comportare l'acquisizione del fondo e configura
un illecito permanente ex art. 2043 c.c., con decorrenza del termine di
prescrizione quinquennale dalla proposizione della domanda basata
sull'occupazione contra ius, ovvero, dalle singole annualità per quella
basata sul mancato godimento del bene. Tale illecito viene a cessare solo in
conseguenza:
a) della restituzione del fondo;
b) di un accordo transattivo;
c) della rinunzia abdicativa da parte del proprietario implicita nella
richiesta di risarcimento del danno per equivalente monetario a fronte
dell'irreversibile trasformazione del fondo;
d) di una compiuta usucapione, ma solo a condizione che: - sia
effettivamente configurabile il carattere non violento della condotta; - si
possa individuare il momento esatto della interversio possesionis; - si
faccia decorrere la prescrizione acquisitiva dalla data di entrata in vigore
del D.P.R. n. 327/2001 (30.06.2003), per evitare che sotto mentite spoglie
(alleviare gli oneri finanziari altrimenti gravanti sull'Amministrazione
responsabile), si reintroduca una forma surrettizia di espropriazione
indiretta in violazione dell'art. 1 del Protocollo addizionale della Cedu;
e) di un provvedimento emanato ex art. 42-bis del D.P.R. n. 327/2001”;
m) sulla teoria dell’atto implicito nel diritto
amministrativo, si veda, tra le altre, Cons. Stato, sez. VI, 27.11.2014, n.
5887 (in Quotidiano giuridico, 2014) secondo cui “deve ammettersi, seppure
in via restrittiva, la sussistenza di un provvedimento implicito, quando
l'Amministrazione pur non adottando formalmente un provvedimento, ne
determina univocamente i contenuti sostanziali, o attraverso un
comportamento conseguente, ovvero determinandosi in una direzione, anche con
riferimento a fasi istruttorie coerentemente svolte, a cui non può essere
ricondotto altro volere che quello equivalente al contenuto del
provvedimento formale corrispondente. Si congiungono, infatti, i due
elementi di una manifestazione chiara di volontà dell'organo competente e
della possibilità di desumerne in modo non equivoco una specifica volontà
provvedimentale nel senso che l'atto implicito deve essere l'unica
conseguenza possibile della presunta manifestazione di volontà”;
n) la rassegna monotematica di giurisprudenza,
sia civile che amministrativa, a cura dell’Ufficio Studi, massimario e
formazione dal titolo “L’occupazione abusiva di immobili da parte della
pubblica amministrazione” (aggiornata al 02.09.2019, cui si rinvia per
ogni approfondimento anche di dottrina); ivi si mette in luce la maggiore
efficienza economica sottesa alla scelta del privato di rinunciare alla
proprietà del bene occupato nonché l’abbattimento del contenzioso invece
incrementato dalla attivazione del procedimento di cui all’art. 42-bis (che
potrà essere contestato innanzi al G.A. per i profili di legittimità e
davanti alla Corte d’appello per tutti i profili indennitari), specie se
emanato a seguito di un giudicato che accerti il silenzio-inadempimento
dell’Amministrazione sulla istanza del privato rivolta all’amministrazione;
è evidente che a fronte della possibilità, offerta dall’istituto della
rinuncia abdicativa, di definire in un unico giudizio innanzi al giudice
amministrativo (per le occupazioni comunque collegate ad una dichiarazione
di pubblica utilità) ovvero a quello civile (per le occupazioni ab
origine sine titulo c.d. usurpative pure) l’intera vicenda contenziosa,
il percorso procedimentale e processuale prescelto dalle Plenarie nn. 2, 3 e
4 dilata i tempi della definizione stabile dell’assetto dei contrapposti
interessi (sul punto cfr. in particolare i paragrafi 11 e da 14 a 21 della
Rassegna e la citata
News US n. 100 del 10.09.2019 relativa a
Cons. Stato, sez. IV, ordinanza 15.07.2019, n. 4950
sull’interpretazione dell’art. 42-bis del T.U. espropriazione in presenza di
un giudicato restitutorio del g.o.);
o) sui limiti alla conversione d’ufficio della
domanda risarcitoria in azione contro il silenzio per l’adozione del
provvedimento ex art. 42-bis, si vedano i principi in materia di conversione
dell’azione di annullamento in azione risarcitoria affermati da Cons. Stato,
Ad. plen., 13.04.2015, n. 4 (in Foro it., 2015, III, 265, con nota di TRAVI;
Urbanistica e appalti, 2015, 917, con nota di MANGANARO, MAZZA LABOCCETTA;
Giur. it., 2015, 1693, con nota di COMPORTI; Guida al dir., 2015, fasc. 20,
92, con nota di MASARACCHIA; Foro amm., 2015, 2206 (m), con nota di
SILVESTRI; Corriere giur., 2015, 1596, con nota di SCOCA; Dir. proc. amm.,
2016, 173, con nota di TURRONI), secondo cui posto che il processo
amministrativo è soggetto al principio della domanda, il giudice
amministrativo non può emettere d'ufficio una pronuncia di risarcimento del
danno, in presenza di una domanda di annullamento della parte ricorrente; si
veda altresì Cons. Stato, Ad. plen., 27.04.2015, n. 5 (in Foro it., 2015,
III, 265, con nota di TRAVI; Urbanistica e appalti, 2015, 1177, con nota di
VAIANO; Riv. neldiritto, 2015, 2084, con nota di COLASCILLA NARDUCCI; Riv.
dir. proc., 2015, 1256, con nota di FANELLI; Giur. it., 2015, 2192, con nota
di FOLLIERI; Dir. proc. amm., 2016, 205, con nota di PERFETTI, TROPEA; Dir.
proc. amm., 2016, 830, con nota di BERTONAZZI);
p) nel senso della improcedibilità della domanda
di risarcimento del danno (per equivalente) o di restituzione, se
sopravviene nel corso del giudizio il provvedimento ex art. 42-bis, è
unanime la giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 25.05.2018, n. 3148;
Cons. Stato, sez. IV, 09.05.2018, n. 2765; Cass. civ., sez. I, 31.05.2016,
n. 11258; sul punto si rinvia al § 9 della citata rassegna monotematica);
q) sulla immanenza del principio dispositivo che
caratterizza la giurisdizione amministrativa di legittimità, dovendosi
escludere per tale via suggestive ricostruzioni incentrate sull’indole
oggettiva di tale giurisdizione, cfr. da ultimo
Corte cost., 13.12.2019, n. 271 (oggetto della
News US n. 2 dell’08.01.2020 cui si rinvia per ogni
approfondimento sul punto)
(Consiglio di Stato, Adunanza
plenaria,
sentenza 20.01.2020 n. 2 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
anno 2019 |
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ESPROPRIAZIONE: Richiesta
di retrocessione di una parte di un terreno che la proprietà aveva venduto
prima della dichiarazione di pubblica utilità.
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Espropriazione per pubblica utilità – Cessione volontaria – Vendita
terreno – Antecedente l’apertura di una formale procedura ablatoria – Non è
tale.
La vendita di un terreno avvenuta prima della
apertura di una formale procedura ablatoria mediante dichiarazione di
pubblica utilità non può essere assimilata alla cessione volontaria prevista
dalla normativa sugli espropri, e ciò per la semplice ragione che l'atto
traslativo non potrebbe in tale caso espletare la sua funzione tipica di
strumento di acquisizione della proprietà immobiliare in capo
all’amministrazione espropriante alternativo rispetto al provvedimento
amministrativo autoritativo costituito dal decreto di esproprio (1).
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(1) Ha ricordato la Sezione che la cessione volontaria di cui
all’art. 12, l. n. 865 del 1971 costituisce un contratto ad oggetto pubblico
i cui elementi costituitivi, indispensabili per differenziarla da un normale
contratto di compravendita di diritto privato, sono:
a) l’inserimento del negozio nell’ambito di un procedimento di
espropriazione per pubblica utilità, nel cui contesto la cessione assolve
alla peculiare funzione dell’acquisizione del bene da parte
dell’espropriante, quale strumento alternativo all’ablazione d’autorità
mediante decreto di esproprio;
b) la preesistenza non solo di una dichiarazione di pubblica utilità ancora
efficace, ma anche di un subprocedimento di determinazione dell’indennità e
delle relative offerte ed accettazione, con la sequenza e le modalità
previste dall’art. 12, l. n. 865 del 1971;
c) il prezzo di trasferimento volontario correlato ai parametri di legge
stabiliti, inderogabilmente, per la determinazione dell’indennità di
espropriazione.
Ne consegue che, ove non siano riscontrabili tutti i requisiti sopra
indicati, non potendosi escludere che l’amministrazione abbia inteso
perseguire una finalità di pubblico interesse tramite un ordinario contratto
di compravendita, al negozio traslativo non possono collegarsi gli effetti
tipici della cessione volontaria disciplinata dall’art. 12 della legge n.
865 del 1971, ossia l’estinzione dei diritti reali o personali gravanti sul
bene acquisito dall’amministrazione (Cass. 22.01.2018, n. 1534; id.
22.05.2009, n. 11955;
Cons. St., sez. IV, 27.07.2016, n. 3391).
Pertanto, presupposto indispensabile perché si possa configurare la cessione
volontaria, e perché si possano produrre i suoi effetti tipici, è il
collegamento tra il rapporto contrattuale ed il procedimento amministrativo
di espropriazione per pubblica utilità che vi ha dato origine, il quale
funge da essenziale momento genetico e fondamentale presupposto del
trasferimento immobiliare. Senza l’apertura di una formale procedura
espropriativa non può esserci spazio per la cessione volontaria, e ciò per
la semplice ragione che la cessione non potrebbe in tale caso espletare la
sua funzione tipica di strumento di acquisizione della proprietà immobiliare
in capo all’amministrazione espropriante alternativo rispetto al
provvedimento amministrativo autoritativo costituito dal decreto di
esproprio (Cass. 29.03.2007, n. 7779).
La causa del contratto pubblicistico di cessione di cui all’art. 12, l. n.
865 del 1971 va quindi ricondotta ad una modalità alternativa di
realizzazione del procedimento espropriativo mediante l’utilizzo di uno
strumento privatistico, peraltro soggetto per taluni aspetti – tra cui la
determinazione del prezzo di cessione - alla disciplina contenuta in norme
di legge imperative (Cons.
Stato, sez. IV, 07.04.2015, n. 1768; id. 03.03.2015, n. 1035;
Cass., S.U., 13.02.2007, n. 3040).
Nell’ambito di questa cornice normativa, e nel rispetto dei presupposti su
indicati, la conclusione del contratto di cessione rimane comunque soggetta
alla disciplina del contratto privatistico, non essendo caratterizzata dalla
posizione di preminenza dell’amministrazione pubblica espropriante bensì
dall’incontro paritetico delle volontà (Cass. 17.11.2000, n. 14901).
Traslando i superiori principi all’odierno gravame, non può che rilevarsi
l’assenza di un requisito essenziale perché possa ritenersi integrata la
fattispecie tipica della cessione volontaria di cui all’art. 12, l. n. 865
del 1971, ovvero quel collegamento necessario tra una procedura
espropriativa per pubblica utilità e quella modalità alternativa di
conclusione della medesima procedura costituita dalla cessione volontaria
dell’immobile espropriando
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.10.2019 n. 7445 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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SENTENZA
2.3 La cessione volontaria di cui all’art. 12 della legge n. 865 del 1971
costituisce invero un contratto ad oggetto pubblico i cui elementi
costituitivi, indispensabili per differenziarla da un normale contratto di
compravendita di diritto privato, sono:
a) l’inserimento del negozio
nell’ambito di un procedimento di espropriazione per pubblica utilità, nel
cui contesto la cessione assolve alla peculiare funzione dell’acquisizione
del bene da parte dell’espropriante, quale strumento alternativo
all’ablazione d’autorità mediante decreto di esproprio;
b) la preesistenza
non solo di una dichiarazione di pubblica utilità ancora efficace, ma anche
di un subprocedimento di determinazione dell’indennità e delle relative
offerte ed accettazione, con la sequenza e le modalità previste dall’art. 12
della legge n. 865 del 1971;
c) il prezzo di trasferimento volontario
correlato ai parametri di legge stabiliti, inderogabilmente, per la
determinazione dell’indennità di espropriazione. Ne consegue che, ove non
siano riscontrabili tutti i requisiti sopra indicati, non potendosi
escludere che l’amministrazione abbia inteso perseguire una finalità di
pubblico interesse tramite un ordinario contratto di compravendita, al
negozio traslativo non possono collegarsi gli effetti tipici della cessione
volontaria disciplinata dall’art. 12 della legge n. 865 del 1971, ossia
l’estinzione dei diritti reali o personali gravanti sul bene acquisito
dall’amministrazione (cfr. Cass. 22.01.2018, n. 1534; Id. 22.05.2009, n. 11955; negli stessi termini, Cons. Stato, sez. IV, 27.07.2016,
n. 3391).
Pertanto, presupposto indispensabile perché si possa configurare la cessione
volontaria, e perché si possano produrre i suoi effetti tipici, è il
collegamento tra il rapporto contrattuale ed il procedimento amministrativo
di espropriazione per pubblica utilità che vi ha dato origine, il quale
funge da essenziale momento genetico e fondamentale presupposto del
trasferimento immobiliare.
Senza l’apertura di una formale procedura espropriativa non può esserci spazio per la cessione volontaria, e ciò per
la semplice ragione che la cessione non potrebbe in tale caso espletare la
sua funzione tipica di strumento di acquisizione della proprietà immobiliare
in capo all’amministrazione espropriante alternativo rispetto al
provvedimento amministrativo autoritativo costituito dal decreto di
esproprio (cfr. Cass. 29.03.2007, n. 7779).
La causa del contratto pubblicistico di cessione di cui all’art. 12 della
legge n. 865 del 1971 va quindi ricondotta ad una modalità alternativa di
realizzazione del procedimento espropriativo mediante l’utilizzo di uno
strumento privatistico, peraltro soggetto per taluni aspetti –tra cui la
determinazione del prezzo di cessione- alla disciplina contenuta in norme
di legge imperative (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 07.04.2015, n. 1768; Id. 03.03.2015, n. 1035; Cass. S.U. 13.02.2007, n. 3040).
Nell’ambito di questa cornice normativa, e nel rispetto dei presupposti
su indicati, la conclusione del contratto di cessione rimane comunque
soggetta alla disciplina del contratto privatistico, non essendo
caratterizzata dalla posizione di preminenza dell’amministrazione pubblica
espropriante bensì dall’incontro paritetico delle volontà (cfr. Cass. 17.11.2000, n. 14901). |
ESPROPRIAZIONE:
1.- Beni pubblici e privati – espropriazione per p.u. – retrocessione –
esproprio realizzato nell’ambito della riforma agraria – retrocessione – è
esclusa.
L’istituto della retrocessione –sia totale sia parziale–
non è applicabile nei casi in cui l’utilizzazione dell’immobile ablato
consegua alla semplice espropriazione dell’area, considerata in sé e per sé
ed indipendentemente dalla sua specifica destinazione.
Vi rientra (come nella specie) un’ipotesi di attuazione della riforma
fondiaria di cui alle leggi nn. 230 del 1950 e 841 del 1950: infatti,
l’espropriazione prevista dalla riforma agraria del secondo dopoguerra
realizza sempre e automaticamente almeno il ridimensionamento dei latifondi,
che rappresenta una delle finalità del legislatore (oltre alla
trasformazione e colonizzazione agraria), sicché la mancata utilizzazione
dei beni non può fondare alcuna retrocessione
(massima free tratta da www.giustamm.it).
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8. L’appello è infondato e deve essere respinto alla stregua delle
seguenti considerazioni in fatto e diritto.
9. Con riferimento al primo motivo di gravame, si rileva che del tutto
correttamente il Tar ha affermato che l’istituto della retrocessione –sia totale sia parziale– non è applicabile nelle ipotesi in cui
l’utilizzazione dell’immobile ablato consegua alla semplice espropriazione
dell’area, considerata in sé e per sé ed indipendentemente dalla sua
specifica destinazione. Tra queste ipotesi rientra certamente il caso di
specie, dove vi è stata un’attuazione della riforma fondiaria di cui alle
leggi nn. 230 del 1950 e 841 del 1950.
In sostanza, il collegio di primo grado ha ben chiarito che l’espropriazione
prevista dalla riforma agraria del secondo dopoguerra realizza sempre e
automaticamente almeno il ridimensionamento dei latifondi, che rappresenta
una delle finalità del legislatore (oltre alla trasformazione e
colonizzazione agraria), sicché la mancata utilizzazione dei beni non può
fondare alcuna retrocessione.
In tal senso si è espressa la Corte suprema di cassazione, con la sentenza
delle Sezioni unite, del 02.02.1963, n. 183, e in proposito non si è
mai successivamente prospettata in giurisprudenza una diversa lettura
ermeneutica.
Non rilevano nel caso de quo i richiami formulati dagli appellanti alla
successiva giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte europea
dei diritti dell’uomo in materia espropriativa nonché ai principi codificati
dal D.P.R. n. 327 del 2001, atteso che l’ablazione è avvenuta in un quadro
di legalità formale e sostanziale e che non è oggetto del presente giudizio
la quantificazione delle pretese indennitarie.
10. Circa il secondo motivo d’impugnazione, il Collegio considera legittima
la precisazione svolta dal Tar per cui la circostanza che sull’area
oggetto di causa sia stata attivata una nuova procedura ablatoria da parte
del Comune di Eboli (non preclusa dalle precedenti determinazioni e,
pertanto, non automaticamente illegittima) rende improcedibile il ricorso,
posto che l’ipotetico diritto di retrocessione si convertirebbe in un
diritto all’indennità.
Ad ogni modo, la valutazione svolta dal collegio di primo grado, nel secondo
paragrafo della parte motiva in diritto della pronuncia impugnata, sull’improcedibilità
del ricorso ha il valore di una motivazione addizionale non determinante
l’esito della lite, in quanto il ricorso non è stato dichiarato
improcedibile, bensì stato respinto nel merito, sulla base delle
considerazioni presenti nel paragrafo primo della medesima parte motiva,
cosicché una sua riforma non potrebbe incidere da sola sulla decisione di
rigetto.
11. In relazione ai motivi contenuti nel ricorso di primo grado e ai
successivi motivi aggiunti, si osserva che loro mera trascrizione,
effettuata con espresso riferimento sia ad una maggiore esplicitazione dei
motivi d’appello sia all’art. 346 c.p.c., allora regolante le decadenze in
appello nel processo amministrativo, non è di per sé sufficiente ad
integrare una rituale riproposizione delle contestazioni formulate in primo
grado, come più volte ribadito dalla giurisprudenza amministrativa (cfr.
Cons. Stato, sezione IV, sentenze 05.03.2015, 1115, 20.04.2006, n.
2233, 16.04.2010, n. 2178; Cons. Stato, sez. VI, sentenze 10.04.2012, n. 2060 e
07.02.2014, n. 590), trattandosi di una generica
modalità di reiterazione dei motivi, la quale fuoriesce dalla critica alla
sentenza impugnata, che costituisce il proprium dell’appello.
In ogni caso, le cennate censure non sono accoglibili, recando, in sostanza,
doglianze analoghe a quelle proposte con i due motivi d’impugnazione, che
sono stati valutati infondati. È, invece, meritevole di vaglio autonomo –seppur non necessario– soltanto il terzo motivo del ricorso di primo grado,
non esaminato dal Tar, con cui si è lamentata la violazione dell’art.
10-bis della legge n. 241 del 1990, per non aver l’amministrazione
comunicato agli interessati il preavviso di rigetto dell’istanza di
retrocessione parziale del fondo.
Al riguardo giova evidenziare che la giurisprudenza amministrativa
interpreta il citato art. 10-bis, così come le altre norme in materia di
partecipazione procedimentale, non in senso formalistico, bensì avendo
riguardo all’effettivo e oggettivo pregiudizio che la sua inosservanza abbia
causato alle ragioni del soggetto privato nello specifico rapporto con la
pubblica amministrazione. Ne deriva che l’omissione del preavviso di rigetto
non cagiona l’automatica illegittimità del provvedimento finale qualora
possa trova applicazione l’art. 21-octies della stessa legge, secondo cui
non è annullabile il provvedimento per vizi formali non incidenti sulla sua
legittimità sostanziale e il cui contenuto non avrebbe potuto essere
differente da quello in concreto adottato, poiché detto art. 21-octies,
attraverso la dequotazione dei vizi formali dell’atto, mira a garantire una
maggiore efficienza all’azione amministrativa, risparmiando antieconomiche
ed inutili duplicazioni di attività, laddove il riesercizio del potere non
potrebbe comunque portare all’attribuzione del bene della vita richiesto
dall’interessato (cfr. Cons. Stato, sezione III, sentenza 19.02.2019,
n. 1156; Cons. Stato, sezione IV, sentenze 11.01.2019, n. 256 e 27.09.2018, n. 5562).
Tanto chiarito, il Collegio ritiene che nel caso di specie un
contraddittorio sull’istanza dei privati non avrebbe potuto condurre ad un
diverso esito dell’azione amministrativa, poiché non sono emersi elementi
tali da far ritenere che il provvedimento regionale contestato avrebbe
potuto avere un contenuto differente qualora le odierne appellanti avessero
presentato ulteriori considerazioni, atteso, che –come già sopra analizzato– le decisione dell’amministrazione è legittima ed è stata adottata su una
completa conoscenza della situazione di fatto, che era già stata
precedentemente scandagliata in altri procedimenti, anche giudiziari.
12. In conclusione l’appello deve essere respinto
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 17.09.2019 n. 6209 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ESPROPRIAZIONE: Alla
Corte costituzionale la disciplina regionale sull’inserimento dell’opera nel
programma dei lavori pubblici e conseguente proroga del vincolo
espropriativo.
Il Tar per la Lombardia dubita della legittimità costituzionale dell’art. 9,
comma 12, della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005 (“Legge per
il governo del territorio”), nella parte in cui stabilisce che i vincoli
preordinati all’espropriazione, di durata quinquennale, non decadono quando
l’opera sia inserita, prima della scadenza del quinquennio, nel programma
triennale delle opere pubbliche e relativo aggiornamento.
Tale previsione sarebbe, infatti, violativa dei principi fondamentali della
materia e sarebbe stata dettata oltre i limiti della competenza concorrente
delle regioni a statuto ordinario, avendo essa dato luogo, in assenza di
indennizzo, ad un’ipotesi di attuazione del vincolo espropriativo –volta ad
impedirne la decadenza– difforme dalla disciplina statale la quale,
diversamente, ricollega tale effetto di mantenimento dell’efficacia del
vincolo ad un serio inizio della procedura espropriativa.
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Espropriazione per pubblico interesse – Vincolo preordinato all’esproprio
– Reiterazione – Regione Lombardia – Effetti della previsione dell’opera nel
piano triennale dei lavori pubblici – Questione non manifestamente infondata
di costituzionalità
È rilevante e non manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 12, della legge
regionale della Lombardia n. 12 del 2005, nella parte in cui, in violazione
dei limiti alla propria competenza legislativa concorrente definiti
dall’art. 117 Cost. e comunque dei principi fondamentali relativi ai limiti
del potere espropriativo discendenti dall’art. 42 Cost., attribuisce
all’inserimento della previsione della realizzazione di un’opera pubblica
nella programmazione triennale di cui all’art. 21 del d.lgs. n. 50 del 2016
l’effetto preclusivo della decadenza del vincolo quinquennale preordinato
all’esproprio per la sua esecuzione (1).
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(1) I. – Con
l’ordinanza in rassegna il Tar per la Lombardia dubita della legittimità
costituzionale –in relazione agli artt. 42 e 117 Cost., oltre che con
riferimento all’art. 1 del Primo protocollo della C.E.D.U.– dell’art. 9,
comma 12, l.r. Lombardia 11.03.2005, n. 12 nella parte in cui stabilisce che
l’inserimento dell’opera nel programma triennale dei lavori pubblici
previsto dall’art. 21 del d.lgs. n. 50 del 2016, ove intervenuto nel periodo
di efficacia quinquennale del vincolo, impedisce la decadenza dello stesso
vincolo. L’ordinanza evidenzia come la previsione di cui trattasi violerebbe
le regole che connotano l’esercizio del potere ablatorio, ivi compreso
l’obbligo di erogazione di un indennizzo in caso di espropriazione di
valore, fermo restando che il programma triennale dei lavori pubblici
sarebbe uno strumento inidoneo ad integrare il presupposto del “serio
avvio della procedura espropriativa” che la Corte costituzionale ha
considerato necessario per l’attuazione
del vincolo medesimo. Il Tar rimettente, adìto per l’annullamento degli atti
della procedura espropriativa, con sentenza non definitiva n. 736 del 2019
ha dichiarato talune doglianze in parte inammissibili e in parte infondate
ed ha riservato all’ordinanza in rassegna lo scrutinio dei dubbi di
legittimità costituzionale.
II. – Il ragionamento del Ter si articola nelle seguenti considerazioni:
a) il riparto di competenze tra disciplina
statale e disciplina regionale stabilito all’art. 117, terzo comma, Cost.,
non consentirebbe al legislatore regionale (e, segnatamente, a quello di una
regione a statuto ordinario) titolare della potestà legislativa concorrente,
di individuare ipotesi di “attuazione” del vincolo espropriativo
–idonee ad impedirne la decadenza per superamento del termine di efficacia
quinquennale– ulteriori rispetto a quelle dettate dalla disciplina statale;
b) l’assetto normativo statale ha mutuato le regole previgenti (già
contenute nella legge n. 1187 del 1968 in tema di durata dei vincoli) ed i
principi espressi da Corte cost. 20.05.1999, n. 179 (in Foro it., 1999, I,
1705, con nota di BENINI, all’esito di questioni sollevate da Cons. Stato,
ad. plen., 25.09.1996, n. 20, in Foro it., 1997, III, 4) in tema di
reiterazione del divieto di edificazione, così compendiati:
b1) il potere espropriativo è ammesso solo nei limiti in cui ciò sia
previsto dalla legge, a condizione che l’assoggettamento all’attività
ablatoria sia limitato nel tempo e che, a fronte di una pur possibile
indeterminatezza temporale del vincolo, il proprietario sia indennizzato per
la perdita, in via di fatto, della proprietà (Corte cost. 22.12.1989, n.
575, in Foro it., 1990, I, 1130);
b2) la decadenza del vincolo per superamento del quinquennio di efficacia è
preclusa dall’intervenire, prima della scadenza, dell’espropriazione ovvero
del “serio inizio dell’attività preordinata all’espropriazione”
(quale quella data dall’approvazione di un piano attuativo o di
provvedimento che dichiari la pubblica utilità dell’opera);
b3) la reiterazione del vincolo è ammessa all’esito di un procedimento che
preveda la garanzia partecipativa per i proprietari interessati e che sia
concluso con un provvedimento motivato che tenga conto, in particolar modo,
delle esigenze di soddisfacimento degli standard;
b4) la reiterazione del vincolo preordinato all’esproprio deve dar luogo ad
un indennizzo ancorché, come chiarito da Cons. Stato, ad. plen., n. 7 del
2007 (in Foro it., 2007, III, 350, con nota di TRAVI), per la legittimità
della reiterazione non sia necessaria la puntuale quantificazione, da parte
dell’Amministrazione, dell’effettivo danno subìto da parte del proprietario
inciso;
c) una previsione quale quella contenuta nell’art. 9, comma 12, l.r. cit.,
secondo cui “I vincoli preordinati all'espropriazione per la
realizzazione, esclusivamente ad opera della Pubblica Amministrazione, di
attrezzature e servizi previsti dal piano dei servizi hanno la durata di
cinque anni, decorrenti dall'entrata in vigore del piano stesso. Detti
vincoli decadono qualora, entro tale termine, l'intervento cui sono
preordinati non sia inserito, a cura dell'ente competente alla sua
realizzazione, nel programma triennale delle opere pubbliche e relativo
aggiornamento, ovvero non sia stato approvato lo strumento attuativo che ne
preveda la realizzazione […]”, violerebbe: I) le regole di riparto di
competenze costituzionalmente stabilite (art. 117 Cost.); II) l’art. 1 del
Primo protocollo della C.E.D.U. poiché integrerebbe l’ipotesi di una
espropriazione di valore non indennizzata;
III) i principi fondamentali in materia espropriativa dettati dall’art. 42
Cost. e dal d.P.R. n. 327 del 2001;
d) in particolare: la scelta del legislatore regionale di considerare
l’inserimento dell’opera –nel termine di efficacia del vincolo– nel piano
triennale dei lavori pubblici previsto dall’art. 21 del d.lgs. n. 50 del
2016 inteso quale strumento di attuazione della volontà espropriativa, per
un verso, non sarebbe conforme al perimetro della competenza legislativa
concorrente delle regioni a statuto ordinario e, per altro verso, non
sarebbe sincronizzabile con l’assetto dei principi statali posti alla base
dell’attribuzione del potere espropriativo per pubblica utilità;
e) in tal senso deve essere evidenziato che la legge regionale di cui
trattasi avrebbe previsto un “atipico” procedimento espropriativo
fondato su un potere ablatorio esercitabile con uno strumento –il programma
triennale dei lavori pubblici che preveda la realizzazione anche dell’opera
oggetto del vincolo in scadenza– inidoneo ad integrare il presupposto del “serio
inizio dell’attività preordinata all’espropriazione” in considerazione
che:
e1) le modalità di adozione, declinate da apposita normativa di dettaglio,
non garantiscono –malgrado l’obbligo della sua preliminare pubblicazione ai
sensi del predetto art. 21 d.lgs. n. 50 del 2016– l’esercizio di una vera e
propria partecipazione del privato al procedimento, in presenza di un atto
che, così come è configurato dalla legislazione regionale, dà l’avvio al
procedimento espropriativo;
e2) si tratterebbe di uno strumento –previsto dalla disciplina nazionale dei
contratti pubblici– la cui funzione è connessa fondamentalmente alla
programmazione finanziaria, di bilancio ed all’assetto organizzativo
dell’attività dell’ente chiamato alla realizzazione dell’opera;
e3) non offre alcuna garanzia circa il fatto che l’opera sia effettivamente
realizzata, non comportando alcun impegno di spesa e non essendo previsto
alcun termine di efficacia entro cui i lavori debbano essere conclusi;
e4) le previsioni del programma possono essere reiterate nel tempo senza
bisogno né di motivazione, né di indennizzo;
e5) conseguentemente, esso svuoterebbe, di fatto, completamente di contenuto
il diritto di proprietà;
e6) la connotazione attribuita al piano quale strumento di attuazione del
vincolo preordinato all’esproprio (ciò che, in realtà, non è come tale
neppure previsto dalla disciplina statale sulla programmazione dei lavori
pubblici), violerebbe anche il fondamentale presupposto, introdotto in
recepimento del principio individuato da Corte cost. n. 179 del 1999, cit.,
e trasfuso nell’art. 39 del d. P.R. n. 327 del 2001, secondo cui “nel
caso di reiterazione di un vincolo preordinato all’esproprio o di un vincolo
sostanzialmente espropriativo è dovuta al proprietario una indennità,
commisurata all’entità del danno effettivamente prodotto”.
III. – Si segnala per completezza quanto segue:
f) sui rapporti tra disciplina C.E.D.U. e ordinamento interno in materia
espropriativa: Corte cost., 24.10.2007, n. 348 (in Corriere giur., 2008,
185, con note di LUCIANI, CONTI; Immobili & dir., 2008, 1, 54, con nota di
SCAGLIONE; Giur. it., 2008, 565, con note di CONFORTI, CALVANO; Arch.
locazioni, 2008, 25, con nota di SCRIPELLITI; Urbanistica e appalti, 2008,
163 (m), con nota di MIRATE; Riv. giur. urbanistica, 2007, 356, con nota di
CORVAJA; Dir. uomo, 2007, 3, 105, con note di DONATI, GULLOTTA, SACCUCCI;
Giornale dir. amm., 2008, 25 (m), con note di RANDAZZO, MAZZARELLI, PACINI;
Riv. dir. internaz., 2008, 197, con note di GAJA, CANNIZZARO, PADELLETTI,
SACCUCCI; Resp. civ. e prev., 2008, 52, con nota di MIRATE; Giust. civ.,
2008, I, 51 (m), con nota di DUNI, STELLA) e 24.10.2007, n. 349 (in Foro it.
2008, I, 39);
g) sulla indeterminatezza temporale del vincolo espropriativo, v. Corte
cost. n. 575 del 1989, cit., secondo cui:
g1) “è propria della potestà pianificatoria la possibilità di rinnovare
illimitatamente nel tempo i vincoli su beni individuati, purché, come
ritenuto dalla giurisprudenza amministrativa, risulti adeguatamente motivata
in relazione alle effettive esigenze urbanistiche. Tale possibilità,
tuttavia, darebbe luogo ad un sistema non conforme ai principi affermati
nella richiamata sentenza n. 55 del 1968, qualora il vincolo venga protratto
a tempo indeterminato senza la previsione di indennizzo”;
g2) “i due requisiti della temporaneità e della indennizzabilità sono
difatti tra loro alternativi, per cui l'indeterminatezza temporale dei
vincoli, resa possibile dalla potestà di reiterarli indefinitamente nel
tempo anche se con diversa destinazione o con altri mezzi, é
costituzionalmente legittima a condizione che l'esercizio di detta potestà
non determini situazioni incompatibili con la garanzia della proprietà
secondo i principi affermati nelle sentenze n. 6 del 1966 e n. 55 del 1968”;
h) sulla possibilità per l’amministrazione espropriante di reiterare i
vincoli urbanistici scaduti:
h1) con riferimento all’obbligo di indennizzo: Corte cost. n. 179 del 1999,
cit. –e, in diretta linea di continuità con questa, 09.05.2003, n. 148 in
Foro it., 2003, I, 1955 con nota di BENINI e 18.12.2001, n. 411, id., 2002,
I, 2252, con nota di CIAMPA– secondo cui “E' costituzionalmente
illegittimo, per violazione dell'art. 42, comma terzo, Cost., il combinato
disposto degli artt. 7, numeri 2, 3 e 4, e 40 l. 17.08.1942, n. 1150 (Legge
urbanistica) e 2, comma 1, l. 19.11.1968, n. 1187 (Modifica ed integrazioni
alla legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150), nella parte in cui consente
all'Amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici scaduti, preordinati
all'espropriazione o che comportino l’inedificabilità, senza la previsione
di indennizzo, in quanto -posto che il problema di un indennizzo a seguito
di vincoli urbanistici (come alternativa non eludibile tra previsione di
indennizzo ovvero di un termine di durata massima dell'efficacia del
vincolo) si può porre sul piano costituzionale quando si tratta di vincoli
che a) siano preordinati all'espropriazione, ovvero abbiano carattere
sostanzialmente espropriativo, nel senso di comportare come effetto pratico
uno svuotamento, di rilevante entità ed incisività, del contenuto della
proprietà, mediante imposizione, immediatamente operativa, di vincoli a
titolo particolare su beni determinati, comportanti inedificabilità
assoluta, qualora non siano stati discrezionalmente delimitati nel tempo dal
legislatore dello Stato o delle Regioni, b) superino la durata che dal
legislatore sia stata determinata come limite, non irragionevole e non
arbitrario, alla sopportabilità del vincolo urbanistico da parte del singolo
soggetto titolare del bene determinato colpito dal vincolo, ove non
intervenga l'espropriazione, ovvero non si inizi la procedura attuativa
(preordinata all'esproprio) attraverso l'approvazione di piani
particolareggiati o di esecuzione, aventi a loro volta termini massimi di
attuazione fissati dalla legge, c) superino sotto un profilo quantitativo la
normale tollerabilità secondo una concezione della proprietà, che resta
regolata dalla legge per i modi di godimento ed i limiti preordinati alla
funzione sociale (art. 42, comma secondo, Cost.); che la reiterazione in via
amministrativa dei vincoli urbanistici decaduti (preordinati
all'espropriazione o con carattere sostanzialmente espropriativo) ovvero la
proroga in via legislativa o la particolare durata dei vincoli stessi
prevista in talune regioni a statuto speciale non sono fenomeni di per sé
inammissibili dal punto di vista costituzionale; che essi assumono, invece,
carattere certamente patologico, in assenza di previsione alternativa di
indennizzo e fermo che l'obbligo di indennizzo opera una volta superato il
periodo di durata (tollerabile) fissato dalla legge (periodo di franchigia),
quando vi sia una indefinita reiterazione o una proroga "sine die" o
all'infinito (attraverso la reiterazione di proroghe a tempo determinato che
si ripetano aggiungendosi le une alle altre), o quando il limite temporale
sia indeterminato, e cioè non sia certo, preciso e sicuro e, quindi, anche
non contenuto in termini di ragionevolezza; e che restano al di fuori
dell'ambito della indennizzabilità i vincoli incidenti con carattere di
generalità e in modo obiettivo su intere categorie di beni (ivi compresi i
vincoli ambientali-paesistici), i vincoli derivanti da limiti non ablatori
posti normalmente nella pianificazione urbanistica, i vincoli comunque
estesi derivanti da destinazioni realizzabili anche attraverso l'iniziativa
privata in regime di economia di mercato, i vincoli che non superano sotto
il profilo quantitativo la normale tollerabilità e i vincoli non eccedenti
la durata (periodo di franchigia) ritenuta ragionevolmente sopportabile- una
volta oltrepassato il periodo di durata temporanea (periodo di franchigia da
ogni indennizzo), il vincolo urbanistico, avente le anzidette
caratteristiche, se permane a seguito di reiterazione, non può essere
dissociato, in via alternativa all'espropriazione (o al serio inizio
dell’attività preordinata all'espropriazione stessa mediante approvazione
dei piani attuativi), dalla previsione di un indennizzo”;
h2) sulla alternatività tra temporaneità e indennizzabilità del vincolo
preordinato all’esproprio: Corte cost. 29.04.1982, n. 82 (in Regioni, 1982,
681, con nota di BARDUSCO e in Riv. giur. edilizia, 1982, I, 421, con nota
di ALPA) secondo cui, in linea con la sentenza n., 55 del 1968, è stata
posta un’alternativa nel senso che la Corte “ha ritenuto come necessaria
la previsione di un indennizzo ovvero quella di un termine di durata
dell'efficacia del vincolo. Data questa alternativa, pacificamente
riconosciuta in dottrina e giurisprudenza, il legislatore correttamente si è
limitato a fissare, per l'efficacia del vincolo, un termine massimo di
durata”;
h3) con riferimento all’obbligo di motivazione del provvedimento con cui è
reiterato il vincolo: Cons. Stato, Ad. plen. 24.05.2007, n. 7 (in Foro it.,
2007, III, 350 con nota di TRAVI; Guida al dir., 2007, 24, 73 con nota di
FORLENZA; Riv. amm., 2007, 5-6, 461 con nota di CACCIAVILLANI; Corriere
merito, 2007, 1092, con nota di VELTRI; Urbanistica e appalti, 2007, 1113,
con nota di CARBONELLI; Giornale dir. amm., 2007, 1174, con nota di
MAZZARELLI; Resp. e risarcimento, 2007, 7, 95, con nota di PAPPALARDO;
Quaderni centro documentaz., 2007, 3, 242, con nota di COLLACCHI ) secondo
cui:
I) “l'esercizio del potere di reiterazione di un vincolo preordinato
all'esproprio decaduto per decorrenza del termine quinquennale può essere
esercitato unicamente sulla base di una idonea istruttoria e di una adeguata
motivazione che escluda un contenuto vessatorio o comunque ingiusto dei
relativi atti”;
II) “per valutare l'adeguatezza della motivazione dei provvedimenti di
reiterazione di vincoli preordinati all'esproprio occorre distinguere se
questi riguardano o meno una pluralità di aree, se riguardano solo una parte
già incisa da vincoli decaduti, se, infine, la reiterazione sia disposta (o
meno) per la prima volta sull'area”;
III) “si ha adeguato supporto motivazionale dell'atto di reiterazione del
vincolo preordinato all'esproprio qualora l'amministrazione,
nell'evidenziare l'attualità dell'interesse pubblico da soddisfare, abbia a
seguito di specifica istruttoria, tenuto conto delle seguenti circostanze:
1) in caso di reiterazione disposta con riguardo o meno una
pluralità di aree, nell'ambito dell'adozione di una variante generale o
comunque riguardante una consistente parte del territorio comunale, si
devono distinguere le ipotesi in cui la reiterazione del vincolo riguardi
un'area ben specificata (per realizzare una singola opera pubblica o per
soddisfare i prescritti standard sui servizi pubblici o sul verde pubblico)
e quelle in cui la reiterazione riguardi una pluralità di aree per una
consistente parte del territorio comunale, a seguito della decadenza di uno
strumento urbanistico generale che abbia disposto una molteplicità di
vincoli preordinati all'esproprio (necessari per l'adeguamento degli
standard, a seguito della realizzazione di ulteriori manufatti). Tale
distinzione ha ragion d'essere perché solo nell'ipotesi in cui vengono
reiterati «in blocco» i vincoli decaduti, già riguardanti una pluralità di
aree, la sussistenza di un attuale specifico interesse pubblico risulta
dalla perdurante constatata insufficienza delle aree destinate a standard
(indispensabili per la vivibilità degli abitati), mentre l'assenza di un
intento vessatorio si evince dalla parità di trattamento che hanno tutti i
destinatari dei precedenti vincoli decaduti;
2) in caso di reiterazione disposta con riguardo solo ad una parte
delle aree già incise dai vincoli decaduti, mentre per l'altra parte non è
disposta la reiterazione in quanto il vincolo venga impresso su nuovi
terreni. Tale scelta, pur costituendo senz'altro un'anomalia della funzione
pubblica, deve fondarsi, pena il profilarsi di un intento vessatorio nei
confronti dei proprietari delle aree riassoggettate a vincolo, su una
motivazione da cui emergano le ragioni di interesse pubblico che
giustifichino il vantaggio di chi non è più coinvolto nelle determinazioni
di reperimento degli standard, a scapito di chi lo diventa, pur non essendo
stato destinatario di un precedente vincolo preordinato all'esproprio;
3) in caso di reiterazione disposta per la prima volta, può
ritenersi giustificato il richiamo alle originarie valutazioni; di converso,
quando il rinnovato vincolo sia a sua volta decaduto, l'autorità urbanistica
deve procedere con una ponderata valutazione degli interessi coinvolti,
evidenziano le ragioni, con riferimento al rispetto degli standard, alle
esigenze della spesa, agli specifici accadimenti riguardanti le precedenti
fasi procedimentali, che diano conto dell'attuale sussistenza dell'interesse
pubblico”;
IV) “secondo il quadro normativo vigente antecedentemente al
testo unico sugli espropri approvato con il d.P.R. n. 327 del 2001, valeva
il principio che, in caso di atti di reiterazione dei vincoli preordinati
all'esproprio, imponeva l'obbligo di un'adeguata motivazione (poi
espressamente disposto dall'art. 9, comma 4, d.P.R. cit.), nella quale
l'amministrazione doveva indicare la ragione che l'avevano indotta a
scegliere nuovamente proprio l'area sulla quale la precedente scelta si era
appuntata, evidenziando, a tal fine, l'attualità dell'interesse pubblico da
soddisfare, ciò in quanto tale specie di determinazione è destinata ad
incidere sulla sfera giuridica di un proprietario che già per un quinquennio
è stato titolare di un bene suscettibile di dichiarazione di pubblica
utilità e successivamente di esproprio”;
V) la deliberazione riguardante la reiterazione del vincolo
espropriativo non necessita di copertura finanziaria volta a garantire il
pagamento del corrispondente indennizzo (“la delibera impugnata in primo
grado non doveva essere preceduta dall’approvazione di un ‘piano finanziario’”);
h4) sulla copertura finanziaria dell’indennizzo: cfr. Tar per la Sicilia,
sez. III, 10.07.2012, n. 1464, secondo cui “La relazione
economico-finanziaria richiesta dall'art. 30 della legge 17.08.1942 n. 1150
non costituisce elemento essenziale del piano regolatore generale, potendo
essa sopravvenire in un momento successivo, e cioè allorché il Comune deve
deliberare circa l'espropriazione delle aree private ai sensi dell'art. 18
della legge citata; pertanto, è a fortiori pienamente valido il piano
regolatore generale che difetti di adeguate previsioni
economico-finanziarie. La previsione succitata deve essere ormai letta alla
luce dell’ordinamento finanziario e contabile degli enti locali introdotto
dapprima con il d.lgs. n. 77 del 1995 e, successivamente, con il d.lgs. n.
267 del 2000 (Testo unico degli enti locali), le cui disposizioni
costituiscono oggetto del rinvio cd. «dinamico» disposto dal legislatore
regionale con l’art. 1 della l.r. n. 48 del 1991. Ne deriva che ogni
preesistente previsione normativa di carattere finanziario e contabile deve
essere ricondotta al sistema ordinamentale che regola la spesa dell’ente
territoriale la quale, come è noto non prescinde da specifiche forma di
programmazione all’uopo previste (si pensi, fra tutte, al programma
triennale dei lavori pubblici ed all’elenco annuale dei lavori, i quali
contemplano strumenti progettuali e piani economici che involgono anche
spese per indennizzi espropriativi)";
h5) sull’inapplicabilità del criterio della edificabilità di fatto alle “aree
bianche” e relativo regime indennitario: Cass. civ., sez. I, 29.10.2015,
n. 22992 (in Foro it., 2015, 5, I, 1690) secondo cui “Ai fini della
determinazione dell'indennità, il regime urbanistico, nel senso dell'edificabilità
o inedificabilità, di un'area al momento del decreto di esproprio, è
definibile, nell'ipotesi in cui l'originario vincolo di inedificabilità sia
scaduto per decorso del termine quinquennale, tenendo conto della
reiterazione del vincolo, che può dare diritto ad una speciale indennità,
tuttavia distinta da quella di esproprio, restando inapplicabile il criterio
dell'edificabilità di fatto, riservato all'ipotesi in cui al momento del
concludersi della vicenda ablatoria persista, riguardo alla stessa area, una
situazione di carenza di pianificazione”;
i) sulla natura e finalità del programma triennale dei lavori pubblici: C.
conti, sez. contr. Reg. Campania, 06.06.2018, n. 77/18, secondo cui l’art.
21 del d.lgs. n. 50 del 2016 “pone a carico delle amministrazioni
aggiudicatrici l’obbligo di adottare il programma biennale degli acquisti
dei beni e dei servizi e il programma triennale dei lavori pubblici, nonché
i relativi aggiornamenti annuali. Tali programmi «sono approvati nel
rispetto dei documenti programmatori e in coerenza con il bilancio e, per
gli enti locali, secondo le norme che disciplinano la programmazione
economico-finanziaria degli enti»”; sulla correlazione tra programma
triennale e strumenti finanziari, v. Allegato n. 4/1 al d.lgs. n. 118 del
2011, “principio contabile applicato concernente la programmazione di
bilancio”, punti 5.4., 8.2., 9.8);
j) sul rapporto tra programma triennale dei lavori pubblici e vincoli
urbanistici: Tar per la Sicilia, sez. I, 30.09.2008, n. 1234, secondo cui “ai
sensi dell’art. 10 T.U. cit., qualora la realizzazione di un'opera pubblica
o di pubblica utilità non sia prevista dal piano urbanistico generale, il
vincolo preordinato all'esproprio può essere disposto, ove espressamente se
ne dia atto, su richiesta dell'interessato ai sensi dell' articolo 14, comma
4, della legge 07.08.1990, n. 241, ovvero su iniziativa dell'amministrazione
competente all'approvazione del progetto, mediante una conferenza di
servizi, un accordo di programma, una intesa ovvero un altro atto, anche di
natura territoriale, che in base alla legislazione vigente comporti la
variante al piano urbanistico. Ritiene il Collegio che l’approvazione del
piano triennale delle opere pubbliche di cui alla delibera del C.C. cit.
integri la previsione dell’ultima parte della normativa richiamata,
comportando la concretizzazione ad opera della P.A. della previsione
meramente conformativa prevista dal P.R.G. cui il privato, pur avendone il
potere, non ha dato seguito”;
k) sulla distinzione tra vincoli conformativi e vincoli espropriativi, preso
atto che nei casi “limite” la giurisprudenza non è univoca, si veda,
di recente:
k1) Cons. giust. amm. sic., sez. giur., 04.04.2018, n. 205, secondo cui il
vincolo posto dal piano regolatore per la realizzazione di attrezzature
pubbliche o ad uso pubblico deve essere qualificato come espropriativo e non
conformativo: “La decisione di primo grado, nella parte in cui ritiene
che la destinazione di tale terreno alla realizzazione di attrezzature
pubbliche e di uso pubblico possa «essere realizzata anche da un privato»,
pecca, in particolare, per astrattezza, dovendosi realizzare detta
destinazione in regime di libero mercato nel contesto economico sociale
tipico dei piccoli comuni della Sicilia”;
k2) Cons. giust. amm. sic., sez. giur., 24.09.2015 n. 610, secondo cui “Un
vincolo non può ritenersi conformativo ogni qualvolta le iniziative edilizie
consentite dallo strumento urbanistico non siano suscettibili di operare in
regime di libero mercato”, sicché va “condiviso- nel caso di specie- il
giudizio formulato dal primo Giudice circa la natura sostanzialmente
‘espropriativa’ dei vincoli urbanistici apposti sull’area di proprietà degli
odierni appellati. A nulla rilevando, nel senso ‘conformativo’ ex adverso
invocato dalla difesa dell’Amministrazione Comunale, il fatto che la
disposizione delle norme di attuazione consentiva la possibilità che la
scuola dell’obbligo, alla quale era destinata l’edificazione sull’area,
potesse essere realizzata anche da privati, considerato che la tipologia di
uso e/o di iniziativa economica che così viene individuata riguarda un’opera
per l’esercizio di un’ attività: quella relativa all’insegnamento
obbligatorio, che anche a voler comprendere forme di esercizio da parte di ‘privati’,
non manifesta -né allo stato, né entro un arco di tempo ragionevolmente
determinato- una elasticità e dinamicità della domanda tali da consentire al
privato, che non voglia esso stesso intraprendere l’iniziativa, di poter
disporre sul ‘mercato’ dell’area così destinata”;
k3) Cons. Stato, sez. IV, 23.04.2013, n. 2254, secondo cui “La
destinazione a verde pubblico attrezzato ha di regola natura conformativa
dovendo però verificarsi, caso per caso, alla stregua della concreta
disciplina urbanistica posta dallo strumento generale, se questa comporti la
preclusione pressoché totale di ogni attività edilizia, con conseguente
svuotamento sostanziale del diritto di proprietà: solo in tale ultima
ipotesi può affermarsi il suo carattere espropriativo”;
k4) Cons. giust. amm. sic., sez. giur., 19.12.2008, n. 1113, secondo cui
sono fuori dello schema ablatorio i vincoli che importano una destinazione
di contenuto specifico realizzabile ad iniziativa privata o promiscua (pubblico-privato)
che non comportino, quindi, necessariamente espropriazioni o interventi ad
esclusiva iniziativa pubblica.
“Nel sistema delineato dalla Costituzione e dalla C.E.D.U. la norma
conformatrice dello jus aedificandi non costituisce annullamento del diritto
di proprietà e dunque non è riguardata con sfavore (nei limiti della
ragionevolezza e del rispetto della natura stessa dei luoghi), mentre la
norma ablatoria è considerata eccezione di stretto diritto al principio
fondamentale della inviolabilità della proprietà. Tale eccezione è legata
alla sussistenza di motivi di interesse pubblico tali da necessitare una
deviazione dalla funzione propria della proprietà e quindi una
finalizzazione di essa a scopi non economica-mente conformi con tale
diritto.
Sotto questo profilo la distinzione tra norme conformative e norme ablatorie
non può più seguire i criteri tradizionali elaborati dalla giurisprudenza
amministrativa sino ad oggi. Si deve, infatti, avere riguardo al tasso di
deviazione dalla finalità ordinaria della area in questione rispetto alla
sua vocazione naturale, che è sicuramente quella di dare luogo ad un opus
economicamente e commercialmente idoneo a procurare il massimo profitto al
proprietario. La norma conformativa, che impone standard di distanze,
cubatura, altezza, tipologia etc., si inserisce in un mercato immobiliare
omogeneo, stabilendo restrizioni uguali per gli appartenenti alla classe
(proprietari della zona omogenea) e determinando, quindi, i parametri di
mercato (valore dell’immobile realizzabile e quindi dell’area edificabile)
in relazione alle restrizioni omogenee.
Si tratta, nel mercato che si crea, di vincoli economici esterni,
accettabili e compatibili con l’economia di mercato e con i principi di
uguaglianza, nella misura in cui operino, sostanzialmente, come limiti
esterni allo jus aedificandi. Non costituisce, giuridicamente, una
restrizione del diritto di proprietà la diminuzione di valore di un’area
sita, ad esempio, in zona umida e malsana, rispetto alla analoga area sita
in collina, o di un’area allocata distante dal mare rispetto ad una posta
nelle vicinanze della riva, atteso, appunto, che tali limitazioni sono
insite ed ontologicamente connaturate alle aree stesse.
Allo stesso modo, non costituisce restrizione al diritto di proprietà ed
allo jus aedificandi l’obbligo conformativo che opera quale limite generale,
quasi natura-le, alle facoltà della classe di aree insistenti in zona
omogenea. L’interesse pubblico, quindi, opera ab extrinseco non incidendo
sul diritto di proprietà, ma sulla sua valorizzazione di mercato, a fronte
di un potere conformativo, eccezionale ma accettabile, riconosciuto per il
bene della collettività.
Viceversa, ove ci si trovi innanzi ad una potestà conformativa che imponga
realizzazioni difformi dalla naturale destinazione dell’area, ne consegue,
di fatto, l’ablazione di una precisa facoltà inerente al diritto di
proprietà. In tal caso non giova la considerazione che l’opus necessario (ad
esempio un parcheggio) possa anche essere realizzato dal medesimo privato,
poiché è fin troppo evidente che la diminuzione di valore dell’opera
realizzabile non risponde ad una conformazione omogenea del mercato della
zona, ma ad un intervento autoritario del pubblico che si propone quale
terzo indefettibile del successivo rapporto.
In altri termini, se l’opera realizzabile, sia pure con le limitazioni
dovute alla conformazione, può comunque essere posta sul mercato scontando
il meccanismo usuale della do-manda ed offerta per la determinazione del
prezzo, la destinazione indefettibile ad opera o servizio pubblico
individua, necessariamente e senza possibilità di eccezione, il soggetto
(pubblico) cui l’opera stessa non potrà che essere destinata. In tal guisa
che l’opera non è finalizzata ad essere posta sul mercato, ma
necessariamente ad esser posta a disposizione di un solo soggetto. Ciò anche
nella ipotesi in cui l’opera sia realizzata dallo stesso privato, magari in
convenzione con il soggetto pubblico, poiché ciò che rileva non è chi
materialmente la realizzi (il privato o il pubblico dopo l’espropriazione),
ma chi concretamente può essere il solo destinatario della sua
utilizzazione.
Non vi è mercato, come è noto, quando uno dei contraenti si pone in
posizione di monopolio (nel caso monopolista per l’acquisto). Corollario di
questa impostazione è che l’area in questione, se effettivamente serve allo
scopo di realizzare gli standard urbanistici, non potrà, alla fine, che
essere espropriata, proprio in virtù del fatto che su di essa non può che
essere realizzata altro che l’opera in questione asservita ad un interesse
pubblico e riferita all’ente pubblico”;
k5) seguono un approccio parzialmente difforme: Cons. Stato, sez. IV,
07.01.2019, n. 112 secondo cui “La destinazione ad attrezzature
ricreative, sportive e a verde pubblico, data dal piano regolatore ad aree
di proprietà privata, non comporta l'imposizione di un vincolo espropriativo,
ma solo conformativo, conseguente alla zonizzazione effettuata dallo
strumento urbanistico per definire i caratteri generali dell'edificabilità
in ciascuna delle zone in cui è suddiviso il territorio comunale, ponendo
limitazioni in funzione dell'interesse pubblico generale che non danno
diritto ad indennizzo, trattandosi di limiti non ablatori, ma derivanti da
destinazioni realizzabili anche dall'iniziativa privata, in regime di
economia di mercato”;
l) in dottrina, si veda:
l1) sulla disciplina vincolistica: W. PELINO, A. BARTONE, I vincoli
sostanzialmente espropriativi: la prolungata compressione dello jus
aedificandi tra indennizzi, perequazione e compensazione, in Riv. amm.,
2000, 8, 2, 811-824; V. CARBONE, I. NASTI, Vincoli urbanistici speciali,
conformazione della proprietà ed espropriazioni anomale: un segnale dalle
Sezioni Unite, in Corriere giur., 2001, 869-874; R. CONTI, Occupazione
acquisitiva, usurpativa e reiterazione di vincoli espropriativi, in
Urbanistica e appalti, 2002, 12, 1437-1444; G. LAVITOLA, Urbanistica e
tutela della proprietà tra Corte Costituzionale, Consiglio di Stato e testo
unico sull'espropriazione, in Riv. giur. edilizia, 2002, 1, 3, 59-78; R.
IANNOTTA, (In tema di) vincoli espropriativi scaduti in mancanza di
previsione di durata e di indennizzo, in Foro amm.-Cons. Stato, 2003, 5,
1506; S. ANTONIAZZI, Le conseguenze della reiterazione di vincoli
espropriativi e di inedificabilità, secondo la più recente giurisprudenza
amministrativa: gli obblighi di motivazione e di indennizzo nonché di nuova
pianificazione dell'area priva di destinazione urbanistica, in Riv. giur.
edilizia, 2004, 6, 1, 1975-1984; P. LORO, Il risarcimento da reiterazione
dei vincoli secondo la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, in Riv. amm.,
2004, 7, 780-786; M. GHILONI, Nuovi strumenti di gestione del territorio:
riflessi sui vincoli espropriativi e sulla realizzazione dei servizi
pubblici, in Arch. giur. oo.pp., 2005, 68, 6, 679-689; M. M. CARBONELLI, La
reiterazione dei vincoli di pianificazione urbanistica: il paso doble di
Plenaria e Corte Costituzionale, in Urbanistica e appalti, 2007, 9,
1118-1125; F. G. SCOCA, Amministrazione pubblica e diritto amministrativo
nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Dir. amm., 2012, 1-2, 21
ss; G. PAGLIARI, M. SOLINI, G. FARRI, Regime della proprietà privata tra
vincoli e pianificazione dall'unità d'Italia ad oggi, in Riv. giur.
edilizia, 2015, 6, 282;
l2) sui termini per l‘adozione della dichiarazione di pubblica utilità: M.
BORGO, M. MORELLI, L’acquisizione e l’utilizzo di immobili da parte della
p.a., Milano, 2012, 55 ss.;
l3) sulle questioni di giurisdizione in materia espropriativa, ancorché
inerente alla disciplina anteriore al Codice del processo amministrativo: R.
VILLATA, Problemi attuali della giurisdizione amministrativa, Milano, 2009,
23 ss.;
l4) sul procedimento ablatorio nelle diverse disposizioni regionali: N.
CENTOFANTI, Diritto di costruire, pianificazione urbanistica,
espropriazione, Milano, 2010, I, 1635 ss.;
l5) sulla reiterazione del vincolo preordinato all’esproprio: G. CERISANO –
R. DAMONTE, in L’espropriazione per pubblica utilità nel nuovo testo unico
(a cura di F. CARINGELLA – G. DE MARZO, MILANO), 2005, 95 ss.; L. MARUOTTI,
Vincoli derivanti da piani urbanistici, in CARINGELLA – DE MARZO – DE
NICTOLIS – MARUOTTI, L’espropriazione per pubblica utilità, Milano, 2006,
155 ss.;
l6) sulla ratio, ruolo e finalità del programma triennale dei lavori
pubblici: L. PETRANGELI PAPINI, La programmazione e la progettazione dei
lavori pubblici, in Appalti urbanistica edilizia, 2000, 12, 643-662; G.
FORMICHELLA, Lavori pubblici. La programmazione dei lavori pubblici negli
Enti locali. I principi, le procedure, gli aspetti positivi e gli spunti
problematici, in Nuova rass., 2001, 17-18, 1857-1870; A. MATARAZZO, Lavori
pubblici. Brevi annotazioni operative in tema di programmazione dei lavori
pubblici, in Nuova rass., 2001, 17-18, 1871-1874; E. BARUSSO, Le competenze
degli organi dell’Ente Locale, Santarcangelo di Romagna, 2001, 127 ss.; G.
PESCE, Effetti del programma triennale delle opere pubbliche e valutazione
di fattibilità dell'intervento, in Urbanistica e appalti, 2003, 4, 442-447;
A. PAGANO, Programma triennale dei lavori pubblici, Commento a d.m.
Infrastrutture e trasporti 09.06.2005, in Urbanistica e appalti, 2005, 8,
914; D.GHIANDONI, E. MASINI, Le principali novità del programma oo.pp.
2019/2021, in Azienditalia, 2018, 10, 1247; P. LEONCINO, La
contabilizzazione delle opere pubbliche, in Azienditalia, 2019, 6, 885;
m) sui poteri regionali in materia espropriativa:
m1) in dottrina v.: G.
BERGONZINI, La potestà legislativa della Regione in tema di esproprio
finalizzato alla realizzazione di opere pubbliche di interesse regionale, in
Dir. regione, 2002, 2-3, 493-505; M. MUTI, Il testo unico
sull'espropriazione per pubblica utilità: prime riflessioni sul riparto di
competenze legislative alla luce della riforma del titolo V della
Costituzione, in Riv. amm., 2002, 3, 1, 169-204; N. MACCABIANI, La Corte “compone”
e “riparte” la competenza relativa al “governo del territorio”,
in Riv. giur. edilizia, 2005, 5, 209; G. CERISANO, in L’espropriazione, cit.,
14 ss.; R. DE NICTOLIS, in CARINGELLA – DE MARZO – DE NICTOLIS – MARUOTTI,
L’espropriazione per pubblica utilità, Milano, 2006, 22 ss.; V. LOPILATO,
Manuale di diritto amministrativo, Torino, 2019, 1091 ss., ove è evidenziato
che “le regole di riparto delle funzioni legislative tra Stato e Regione
sono modulate in ragione della particolare nozione […] di espropriazione
dettata dall’art. 42 Cost. […]. Quest’ultima, infatti, non costituisce una
materia inclusa negli elenchi dell’art. 117 Cost. Se, infatti, la materia si
identifica alla luce dell’oggetto e delle finalità perseguite dal
legislatore, risulta evidente come l’espropriazione non abbia un oggetto
definito, ma esso è individuato in relazione alla specifica finalità
perseguita. Si tratta, pertanto, di una «materia strumentale» che rientra
nelle altre materie di cui all’art. 117 Cost. a seconda dell’ambito in cui
il potere espropriativo è esercitato”.
Tale assetto è stato confermato dall’art. 5 del d.P.R. n. 327 del 2001 il
quale prevede che “Le Regioni a statuto ordinario esercitano la potestà
legislativa concorrente, in ordine alle espropriazioni strumentali alle
materie di propria competenza, nel rispetto dei principi fondamentali della
legislazione statale nonché dei principi generali dell'ordinamento giuridico
desumibili dalle disposizioni contenute nel testo unico”;
m2) in relazione ai poteri delle Regioni a statuto speciale in materia
espropriativa, v. M.T. SEMPREVIVA, Criteri indennitari e Regioni a statuto
speciale, in Urbanistica e appalti, 1999, 6, 610-612;
m3) secondo la giurisprudenza, le regioni a statuto speciale e le province
autonome di Trento e di Bolzano, esercitano “la propria potestà
legislativa in materia di espropriazione per pubblica utilità nel rispetto
dei rispettivi statuti e delle relative norme di attuazione, anche con
riferimento alle disposizioni del titolo V, parte seconda, della
Costituzione per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie
rispetto a quelle già attribuite” (Corte cost., 02.07.2014, n. 187, in
Foro it., 2015, I, 1175, con nota di MENTO), fermo restando l’obbligo delle
stesse di conformarsi ai principi che traggono supporto dal testo
fondamentale e caratterizzano l’ordinamento giuridico dello Stato (in tal
senso, Corte cost., 30.07.1984, n. 231, in Foro it., 1985, I, 46, con nota
di PIETROSANTI e in Regioni, 1984, 1413, con nota di SORACE)
(TAR Lombardia–Brescia, Sez. II,
ordinanza 14.08.2019 n. 740 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ESPROPRIAZIONE: Alla
Corte costituzionale la legge lombarda che prevede il potere ablatorio sia
esercitabile a tempo indeterminato in ragione dell’approvazione del Piano
triennale delle opere pubbliche.
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Espropriazione per pubblica utilità – Lombardia – Potere ablatorio è
esercitabile a tempo indeterminato – In ragione dell’approvazione del Piano
triennale delle opere pubbliche – Art. 9, comma 12, l. reg. n. 12 del 2005 –
Violazione artt. 42 e 117 Cost. – Rilevanza e non manifesta infondatezza.
E’ rilevante e non manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale dell’art.
9, comma 12, l.reg. Lombardia n. 12 del 2005, per violazione degli artt.
42 e 117 Cost., nella parte in cui prevede che il potere ablatorio è
esercitabile a tempo indeterminato, in ragione dell’approvazione del Piano
triennale delle opere pubbliche che preveda la realizzazione anche di quella
oggetto del vincolo in scadenza, la cui adozione non garantisce la
partecipazione procedimentale degli interessati e che può essere rinnovato
all’infinito senza bisogno né di motivazione né di indennizzo (1).
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(1) Ha chiarito il Tar che il legislatore lombardo ha derogato al
principio fondamentale affermato nella sentenza della Corte costituzionale
n. 179 del 1999, secondo cui, alla scadenza del termine di efficacia
quinquennale del vincolo preordinato all’esproprio esso decade a meno che
non ricorra una delle seguenti condizioni: a) il vincolo sia reiterato
seguendo l’apposito procedimento a tal fine previsto dalla legge, con le
conseguenti garanzie in termini di partecipazione al procedimento e di
indennizzo del danno conseguente; b) la sua decadenza sia preclusa
dall’intervenire, prima della scadenza, dell’espropriazione ovvero del “serio
inizio dell’attività preordinata all’espropriazione”.
Tale condizione è stata ravvisata dalla stessa sentenza in parola
nell’approvazione di un piano attuativo e poi dal legislatore del testo
unico del 2001 nell’approvazione del provvedimento che dichiara la pubblica
utilità dell’opera e, quindi, di un provvedimento che comunque garantisce la
partecipazione in chiave collaborativa al proprietario/espropriando e che
rappresenta il primo atto di un procedimento (quello espropriativo)
puntualmente cadenzato, che delimita nel tempo l’esercizio del potere
espropriativo, prevedendo che, in difetto di un più breve termine
espressamente previsto, il decreto d’esproprio debba intervenire entro
cinque anni decorrenti dal giorno in cui è divenuto efficace il
provvedimento dichiarativo della pubblica utilità.
Da tutto il quadro sin qui delineato emerge chiaramente come, nel corso del
tempo, sia stato chiarito che l’esercizio del potere ablatorio può essere
ritenuto conforme all’art. 42 della Costituzione (e oggi anche all’art. 1
del Primo protocollo allegato alla CEDU, dal momento che si è chiarito come
il rispetto della norma pattizia, quale è la Carta europea dei diritti
dell’uomo, pone dei precisi limiti alla potestà legislativa dello Stato e a
maggior ragione delle Regioni, la cui violazione genera questioni di
legittimità costituzionale attratte nella competenza della Corte
Costituzionale – cfr. le sentenze nn. 348 e 349 del 2007) se e in quanto
risulti limitato nel tempo e compensato dalla corresponsione di un equo
indennizzo.
Il legislatore regionale lombardo, quindi, risulta, a parere del Collegio,
aver disatteso i limiti imposti alla propria competenza legislativa,
violando l’art. 117 Cost., per aver, nell’esercizio di una competenza
legislativa concorrente, eluso i principi fondamentali della materia,
desumibili anche dall’art. 1 del Protocollo n. 1 della CEDU e affermati dal
legislatore statale nel T.U. delle espropriazioni, sulla scorta della
giurisprudenza costituzionale che li ha estrapolati dall’art. 42 Cost..
Più precisamente, la Regione Lombardia ha violato i limiti posti dall’art.
117 Cost., perché, esorbitando dalla propria competenza concorrente in
materia, ha introdotto una nuova ipotesi in cui il vincolo preordinato
all’esproprio si consolida, che per le ragioni che si andranno a meglio
evidenziare, non può rappresentare un “serio inizio della procedura
espropriativa”, condizione ritenuta essenziale dalla Corte
Costituzionale e la cui ricorrenza è stata individuata dal legislatore
nazionale solo nell’intervento del primo atto della procedura espropriativa
intesa in senso stretto, quale è stata qualificata la dichiarazione di
pubblica utilità.
Il Tar ritiene, dunque, che la Regione Lombardia abbia travalicato i limiti
della propria competenza legislativa, disciplinando una nuova ipotesi di “attuazione”
del vincolo espropriativo, in violazione dell’art. 117 Cost. che, riserva al
legislatore nazionale l’individuazione degli atti la cui adozione equivale
al serio avvio della procedura espropriativa, che la Corte Costituzionale ha
indicato come condizione necessaria per ritenere rispettato il principio
della temporaneità del potere espropriativo esercitabile su determinati
beni.
L’esercizio di questo potere pare, dunque, porsi, nella fattispecie in
esame, in contrasto con l’art. 42 Cost., da una corretta interpretazione del
quale discende, come già anticipato, che il potere espropriativo può essere
esercitato solo nei limiti in cui ciò sia previsto dalla legge e, come
evidenziato nella sentenza della Corte costituzionale n. 575 del 1989, a
condizione che l’assoggettamento al potere espropriativo sia limitato nel
tempo ovvero che, a fronte di una indeterminatezza temporale del vincolo, il
proprietario sia indennizzato per la perdita, in via di fatto, della
proprietà.
Ne discende che il vincolo preordinato all’esproprio, imposto mediante un
apposito procedimento che garantisca la partecipazione dell’interessato,
deve avere durata determinata nel tempo e nell’arco del periodo di efficacia
deve intervenire la dichiarazione di pubblica utilità, la quale, a sua
volta, è pronunciata a conclusione di un procedimento che garantisce la
partecipazione e deve essere attuata, con l’intervento del decreto di
esproprio, entro il termine all’uopo fissato dall’Amministrazione e comunque
non superiore ai cinque anni.
Nell’ipotesi di cui al
comma 12 dell’art. 9, l.reg. Lombarda n. 12 del 2005, invece, il
potere ablatorio finisce per essere esercitabile a tempo indeterminato, in
ragione di un provvedimento, l’approvazione del Piano triennale delle opere
pubbliche che preveda la realizzazione anche di quella oggetto del vincolo
in scadenza, la cui adozione non garantisce la partecipazione procedimentale
degli interessati e che può essere rinnovato all’infinito senza bisogno né
di motivazione, né di indennizzo
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
ordinanza 14.08.2019 n. 740 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it - si legga
anche TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
ordinanza 20.09.2019 n. 827).
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SENTENZA
1. Le società ricorrenti hanno impugnato l’atto recante la dichiarazione
di pubblica utilità e i successivi provvedimenti adottati nell’ambito del
procedimento espropriativo preordinato alla realizzazione della nuova strada
di collegamento tra la via Cattaneo e la via per Torbiato nel Comune di Adro,
la cui localizzazione è stata in parte prevista sulla proprietà della
società Te.Mo., destinata dalla società Be. alla coltivazione dell’uva per
la produzione di vino con denominazione “Franciacorta DOCG”.
Più precisamente, con il ricorso introduttivo, le società ricorrenti hanno
censurato la legittimità della dichiarazione di pubblica utilità, mentre con
il primo ricorso per motivi aggiunti hanno impugnato la successiva
deliberazione di approvazione di alcune modifiche progettuali e con il
secondo il decreto di esproprio.
Al fine di ottenere l’annullamento di detti provvedimenti, le ricorrenti
hanno formulato una pluralità di censure, con le quali sono stati dedotti
vizi procedurali (censure 1, 4 e 5 del ricorso introduttivo, 1, 2 e 3 del
primo ricorso per motivi aggiunti e 2 del secondo ricorso per motivi
aggiunti), oltre che la violazione dei principi posti a tutela del suolo
agricolo e l’eccesso di potere connesso alla scelta di realizzare un’opera
che, separata dalla più ampia opera di cui era originariamente parte (la
circonvallazione dell’abitato), avrebbe una pubblica utilità limitata,
recessiva rispetto alla conservazione della pregiata coltura in atto, nonché
l’illegittimità costituzionale della norma in ragione della quale è stata
ravvisata, nel 2018, la conformità urbanistica dell’opera prevista nel PGT
del 2012.
2. Con sentenza non definitiva n. 736/2019, questo Tribunale ha ritenuto che
le doglianze suddette fossero in parte inammissibili e in parte infondate,
con la sola esclusione della censura n. 2 del ricorso introduttivo,
riproposta anche nel primo ricorso per motivi aggiunti (e, in termini di
invalidità derivata, anche nel secondo ricorso per motivi aggiunti), avente
ad oggetto l’efficacia del presupposto essenziale del procedimento
espropriativo, rappresentato dal vincolo preordinato all’esproprio:
efficacia disciplinata dall’art.
9, comma 12, della legge regionale n. 12/2005,
sospettato di illegittimità costituzionale per contrasto con gli art. 3, 42,
comma 2, e 117, comma 3, della Costituzione.
3. Ad avviso del Collegio sussistono i presupposti per
sollevare la questione avanti alla Corte Costituzionale.
3.1. Sulla rilevanza della questione di costituzionalità.
Come noto, l’art. 23 della legge n. 87 del 1953 prevede che il giudice debba
sospendere il giudizio in corso e trasmettere gli atti alla Corte
Costituzionale quando il giudizio non possa essere risolto indipendentemente
dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale.
Tale condizione risulta ricorrere nella fattispecie, posto che, respinte
tutte le altre censure, il ricorso revoca in dubbio la legittimità
costituzionale della disposizione applicata nella fattispecie al fine di
sostenere la efficacia del vincolo preordinato all’esproprio sulla scorta
del quale è stata dichiarata la pubblica utilità dell’opera in questione,
così adottando il provvedimento che ha degradato il diritto di proprietà
rendendolo aggredibile con la procedura espropriativa.
Se il dubbio sollevato da parte ricorrente fosse fondato, dunque, il vincolo
espropriativo dovrebbe essere ritenuto decaduto, al momento dell’adozione
della dichiarazione di pubblica utilità, che, per ciò stesso, dovrebbe
essere dichiarata illegittima, perché priva del presupposto fondante
l’esercizio del potere ablatorio (cfr. la
lettera a) dell’art. 8 del DPR 327/2001, la quale afferma che il decreto
di esproprio può essere emanato qualora “l’opera da realizzare sia
prevista nello strumento urbanistico generale o in un atto di natura ed
efficacia equivalente e sul bene da espropriare sia stato apposto in vincolo
preordinato all’esproprio”).
Infatti, nel caso in esame, il vincolo preordinato all’esproprio è divenuto
efficace nel momento in cui ha acquistato efficacia il PGT del Comune di
Adro approvato nel 2012 e cioè il giorno 21.11.2012. Il primo comma dell’art.
9 del DPR 327/2001 prevede espressamente che “Un bene è
sottoposto al vincolo preordinato all’esproprio quando diventa efficace
l’atto di approvazione del piano urbanistico generale, ovvero una sua
variante, che prevede la realizzazione di un’opera pubblica o di pubblica
utilità”.
I successivi commi stabiliscono che “2. Il vincolo preordinato
all’esproprio ha la durata di cinque anni. Entro tale termine, può essere
emanato il provvedimento che comporta la dichiarazione di pubblica utilità
dell’opera. 3. Se non è tempestivamente dichiarata la pubblica utilità
dell’opera, il vincolo preordinato all’esproprio decade e trova applicazione
la disciplina dettata dall’articolo 9 del testo unico in materia edilizia
approvato con decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380. 4.
Il vincolo preordinato all’esproprio, dopo la sua decadenza, può essere
motivatamente reiterato, con la rinnovazione dei procedimenti previsti al
comma 1 e tenendo conto delle esigenze di soddisfacimento degli standard.”.
In base alla disposizione ora citata il vincolo sarebbe, dunque, venuto meno
il 21.11.2017, mentre la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera è
intervenuta solo il 15.02.2018.
Secondo la tesi del Comune, però, la sussistenza della necessaria conformità
urbanistica dell’opera rispetto allo strumento urbanistico sarebbe
garantita, nella fattispecie, come espressamente attestato nella
deliberazione del Consiglio comunale che ha approvato il progetto e
dichiarato la pubblica utilità, dalla vigenza dell’art.
9, comma 12, della legge regionale n. 12/2005, il quale recita: “I
vincoli preordinati all’espropriazione per la realizzazione, esclusivamente
ad opera della pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi previsti
dal piano dei servizi hanno la durata di cinque anni, decorrenti
dall’entrata in vigore del piano stesso. Detti vincoli decadono qualora,
entro tale termine, l’intervento cui sono preordinati non sia inserito, a
cura dell’ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale
delle opere pubbliche e relativo aggiornamento, ovvero non sia stato
approvato lo strumento attuativo che ne preveda la realizzazione.”.
Poiché, nella fattispecie, il piano triennale delle opere pubbliche
2017-2019 è stato approvato, prevedendo la realizzazione anche del
collegamento tra le via Cattaneo e per Torbiato, in data 06.04.2017 (con
deliberazione del consiglio comunale n. 12 del 2017) e, dunque, prima della
scadenza del quinquennio di efficacia del vincolo espropriativo, quest’ultimo
è stato dichiaratamente assunto quale presupposto della procedura
espropriativa avversata: circostanza, questa, rilevante ai fini
dell’ammissibilità sia della doglianza stessa, che della questione di
legittimità costituzionale.
Infatti, è pur vero che, lo stesso giorno in cui è stata dichiarata la
pubblica utilità, è stata anche adottata (con la deliberazione precedente,
recante il numero 10 del 2018) una variante urbanistica, poi approvata solo
con deliberazione del consiglio comunale n. 23 del 12.05.2018, con cui il
Comune di Adro ha preso atto della “conferma” dell’efficacia del
vincolo preordinato all’esproprio in ragione dell’inclusione dell’opera nel
Programma triennale delle opere pubbliche. Tale deliberazione ha un duplice
contenuto: da un lato reitera i vincoli preordinati all’esproprio
relativi ad alcune opere pubbliche per cui erano decaduti, dall’altro,
per una pluralità di opere pubbliche, tra cui il collegamento tra le vie
Cattaneo e per Torbiato in parola, dà atto dell’inserimento delle stesse nel
Programma triennale delle opere pubbliche e del conseguente effetto “confermativo”
dell’efficacia del vincolo, derivante dall’art.
9, comma 12, della LR 12/2005.
In tale seconda parte, il provvedimento risulta essere del tutto atipico
(dal momento che l’effetto della norma richiamata è automatico) e, dunque,
al più, sostanzialmente ricognitivo. L’assenza di contenuto dispositivo,
innovativo dell’ordinamento, congiuntamente con la considerazione del fatto
che la statuizione contenuta in tale atipica variante urbanistica è divenuta
efficace ben dopo la dichiarazione di pubblica utilità, rende,
contrariamente a quanto sostenuto dal Comune, irrilevante la sua mancata
impugnazione. Non appare, infatti, revocabile in dubbio il fatto che, nella
fattispecie, la dichiarazione di pubblica utilità sia intervenuta sulla base
di un vincolo preordinato all’esproprio divenuto efficace più di cinque anni
prima dell’approvazione del progetto, la cui efficacia risulta prorogata
automaticamente per effetto dell’inclusione dell’opera nel Programma delle
opere pubbliche triennale, a prescindere da ogni motivazione circa
l’interesse pubblico alla reiterazione, da ogni garanzia partecipativa per
il proprietario e dalla corresponsione di un adeguato indennizzo (così come,
invece, previsto dall’art.
39 del T.U. DPR 327/2001), così come puntualmente rappresentato
nella stessa dichiarazione di pubblica utilità dell’opera.
A nulla rileva che di tale effetto si sia preso atto in un provvedimento
successivo alla dichiarazione di pubblica utilità stessa, privo di capacità
innovativa circa l’efficacia del vincolo, il quale, per ciò stesso,
risulterebbe inevitabilmente ed automaticamente travolto dall’eventuale
declaratoria di illegittimità costituzionale della norma che ne rappresenta
il presupposto.
Considerato, dunque, che, data la sua formulazione, la disposizione non
risulta suscettibile di un’interpretazione costituzionalmente orientata,
rispettosa dei precetti costituzionali, così come enunciati nel ricordato
articolo 9 del DPR 327/2001, il Collegio ravvisa la necessità, ai
fini della risoluzione della controversia, di accertare se nell’approvare l’art.
9 della L.R della Lombardia n. 12/2005, la Regione abbia violato i
principi fondamentali della materia espropriativa e, dunque, non solo l’art.
42 della Costituzione, ma anche l’art. 1 del Primo protocollo della CEDU,
nonché i limiti della potestà legislativa regionale di cui all’art. 117
della Costituzione.
Solo l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale
consentirebbe, infatti, al Collegio di annullare i provvedimenti impugnati.
3.2. Sulla non manifesta infondatezza della questione.
Ritiene il Collegio che l’art.
9, comma 12, della legge regionale lombarda n. 12/2005 violi gli
art. 117 e 42 della Costituzione, per le ragioni che si andranno ad
esplicitare.
Con
sentenza n. 575 del 1989, la Corte Costituzionale, pur rigettando
la questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione alla
violazione dell’articolo 42 della Costituzione, affermò che
l’indeterminatezza temporale del vincolo espropriativo (da non confondersi
con il ben diverso vincolo conformativo) desse luogo a una situazione di
incompatibilità con la garanzia della proprietà privata e, di fatto, a
un’espropriazione di valore, con conseguente necessità della previsione di
un indennizzo.
Più precisamente, il giudice delle leggi, ha affermato che “è
propria della potestà pianificatoria la possibilità di rinnovare
illimitatamente nel tempo i vincoli su beni individuati, purché, come
ritenuto dalla giurisprudenza amministrativa, risulti adeguatamente motivata
in relazione alle effettive esigenze urbanistiche. Tale possibilità,
tuttavia, darebbe luogo ad un sistema non conforme ai principi affermati
nella richiamata sentenza n. 55 del 1968, qualora il vincolo venga protratto
a tempo indeterminato senza la previsione di indennizzo. Come si evince
dalla stessa sentenza e come e stato ribadito più di recente (sent. n. 82
del 1982), i due requisiti della temporaneità e della indennizzabilità sono
difatti tra loro alternativi, per cui l'indeterminatezza temporale dei
vincoli, resa possibile dalla potestà di reiterarli indefinitamente nel
tempo anche se con diversa destinazione o con altri mezzi, é
costituzionalmente legittima a condizione che l'esercizio di detta potestà
non determini situazioni incompatibili con la garanzia della proprietà
secondo i principi affermati nelle sentenze n. 6 del 1966 e n. 55 del 1968.”
Sulla scorta di tale pronuncia, il legislatore, nel modificare l’articolo 2
della legge 19.11.1968, n. 1187, stabilì la durata quinquennale del vincolo
preordinato all’esproprio, subordinandone la reiterazione alla
rappresentazione di una debita motivazione fondata sulla presenza di un
elemento di novità che la giustificasse.
A seguito del dubbio di costituzionalità anche in relazione a tale
disposizione (sollevato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con
ordinanza n. 20/1996), con
sentenza n. 179 del 20.05.1999, il giudice delle leggi dichiarò
l’incostituzionalità del combinato disposto degli artt. 7, numeri 2, 3 e 4,
e 40 della legge 17.08.1942, n. 1150 (Legge urbanistica) e 2, primo comma,
della legge 19.11.1968, n. 1187 (Modifiche ed integrazioni alla legge
urbanistica 17.08.1942, n. 1150) “nella parte in cui
consente all’Amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici scaduti,
preordinati all’espropriazione o che comportino l’inedificabilità senza la
previsione di indennizzo”.
In altri termini, si legge ancora nella sentenza “una
volta oltrepassato il periodo di durata temporanea (periodo di franchigia da
ogni indennizzo), il vincolo urbanistico (avente le anzidette
caratteristiche), se permane a seguito di reiterazione, non può essere
dissociato, in via alternativa all’espropriazione (o al serio inizio
dell’attività preordinata all’espropriazione stessa mediante approvazione
dei piani attuativi) dalla previsione di un indennizzo”.
Tempestivamente il legislatore del 2001 fece propri tali principi e
introdusse, nel testo unico delle espropriazioni approvato con DPR 327/2001:
a) la previsione della durata quinquennale del vincolo preordinato
all’esproprio;
b) la possibilità della reiterazione del vincolo seguendo un
procedimento che prevede la garanzia partecipativa per i proprietari
interessati e si conclude con un provvedimento motivato che deve tenere
conto, in particolar modo, delle esigenze di soddisfacimento degli standard;
c) l’obbligo della corresponsione, nel caso di reiterazione, di un
indennizzo, ancorché, come chiarito con sentenza dell’Adunanza plenaria n.
7/2007, per la legittimità della reiterazione non sia necessaria la puntuale
definizione dell’indennizzo da parte dell’Amministrazione, subordinata alla
prova, da parte del proprietario inciso, dell’effettivo danno subìto e alla
sua esatta quantificazione.
Venendo alla previsione regionale sospetta di incostituzionalità, il
legislatore lombardo ha, a parere del Collegio, derogato al principio
fondamentale affermato nella
sentenza della Corte Costituzionale n. 179/1999, secondo cui,
alla scadenza del termine di efficacia quinquennale del vincolo preordinato
all’esproprio esso decade a meno che non ricorra una delle seguenti
condizioni:
A. il vincolo sia reiterato seguendo l’apposito procedimento a tal
fine previsto dalla legge, con le conseguenti garanzie in termini di
partecipazione al procedimento e di indennizzo del danno conseguente;
B. la sua decadenza sia preclusa dall’intervenire, prima della
scadenza, dell’espropriazione ovvero del “serio inizio dell’attività
preordinata all’espropriazione”. Tale condizione è stata ravvisata dalla
stessa sentenza in parola nell’approvazione di un piano attuativo e poi dal
legislatore del testo unico del 2001 nell’approvazione del provvedimento che
dichiara la pubblica utilità dell’opera e, quindi, di un provvedimento che
comunque garantisce la partecipazione in chiave collaborativa al
proprietario/espropriando e che rappresenta il primo atto di un procedimento
(quello espropriativo) puntualmente cadenzato, che delimita nel tempo
l’esercizio del potere espropriativo, prevedendo che, in difetto di un più
breve termine espressamente previsto, il decreto d’esproprio debba
intervenire entro cinque anni decorrenti dal giorno in cui è divenuto
efficace il provvedimento dichiarativo della pubblica utilità.
Da tutto il quadro sin qui delineato emerge chiaramente
come, nel corso del tempo, sia stato chiarito che l’esercizio del potere
ablatorio può essere ritenuto conforme all’art. 42 della Costituzione (e
oggi anche all’art. 1 del Primo protocollo allegato alla CEDU, dal momento
che si è chiarito come il rispetto della norma pattizia, quale è la Carta
europea dei diritti dell’uomo, pone dei precisi limiti alla potestà
legislativa dello Stato e a maggior ragione delle Regioni, la cui violazione
genera questioni di legittimità costituzionale attratte nella competenza
della Corte Costituzionale – cfr. le sentenze nn. 348 e 349 del 2007) se e
in quanto risulti limitato nel tempo e compensato dalla corresponsione di un
equo indennizzo.
Il legislatore regionale lombardo, quindi, risulta,
a parere del Collegio, aver disatteso i limiti imposti alla
propria competenza legislativa, violando l’art. 117 della Costituzione, per
aver, nell’esercizio di una competenza legislativa concorrente, eluso i
principi fondamentali della materia, desumibili anche dall’art. 1 del
Protocollo n. 1 della CEDU e affermati dal legislatore statale nel T.U.
delle espropriazioni, sulla scorta della giurisprudenza costituzionale che
li ha estrapolati dall’art. 42 della Costituzione.
Più precisamente, la Regione Lombardia ha violato i limiti
posti dall’art. 117 della Costituzione, perché, esorbitando dalla propria
competenza concorrente in materia, ha introdotto una nuova ipotesi in cui il
vincolo preordinato all’esproprio si consolida, che per le ragioni che si
andranno a meglio evidenziare, non può rappresentare un “serio inizio
della procedura espropriativa”, condizione ritenuta essenziale dalla
Corte Costituzionale e la cui ricorrenza è stata individuata dal legislatore
nazionale solo nell’intervento del primo atto della procedura espropriativa
intesa in senso stretto, quale è stata qualificata la dichiarazione di
pubblica utilità.
Il Collegio ritiene,
dunque, che la Regione Lombardia abbia travalicato i limiti
della propria competenza legislativa, disciplinando una nuova ipotesi di “attuazione”
del vincolo espropriativo, in violazione dell’art. 117 della Costituzione
che, riserva al legislatore nazionale l’individuazione degli atti la cui
adozione equivale al serio avvio della procedura espropriativa, che la Corte
Costituzionale ha indicato come condizione necessaria per ritenere
rispettato il principio della temporaneità del potere espropriativo
esercitabile su determinati beni.
L’esercizio di questo potere pare, dunque, porsi,
nella fattispecie in esame, in contrasto con l’art. 42
della Costituzione, da una corretta interpretazione del quale discende,
come già anticipato, che il potere espropriativo può essere
esercitato solo nei limiti in cui ciò sia previsto dalla legge e,
come evidenziato nella
sentenza della Corte Costituzionale n. 575/1989 già ricordata, a
condizione che l’assoggettamento al potere espropriativo sia limitato nel
tempo ovvero che, a fronte di una indeterminatezza temporale del vincolo, il
proprietario sia indennizzato per la perdita, in via di fatto, della
proprietà.
Ne discende che il vincolo preordinato all’esproprio,
imposto mediante un apposito procedimento che garantisca la partecipazione
dell’interessato, deve avere durata determinata nel tempo e nell’arco del
periodo di efficacia deve intervenire la dichiarazione di pubblica utilità,
la quale, a sua volta, è pronunciata a conclusione di un procedimento che
garantisce la partecipazione e deve essere attuata, con l’intervento del
decreto di esproprio, entro il termine all’uopo fissato dall’Amministrazione
e comunque non superiore ai cinque anni.
Nell’ipotesi di cui al
comma 12 dell’art. 9 della Legge regionale lombarda n. 12/2005,
invece, il potere ablatorio finisce per essere esercitabile a tempo
indeterminato, in ragione di un provvedimento, l’approvazione del Piano
triennale delle opere pubbliche che preveda la realizzazione anche di quella
oggetto del vincolo in scadenza, la cui adozione non garantisce la
partecipazione procedimentale degli interessati e che può essere rinnovato
all’infinito senza bisogno né di motivazione, né di indennizzo.
L’art. 21 del codice degli appalti, infatti, disciplina l’approvazione del
piano triennale delle opere pubbliche senza particolari formalità che
garantiscano la partecipazione al procedimento dei soggetti interessati
dalla realizzazione delle opere in esso inserite, anche in considerazione
della sua funzione prettamente programmatica, strettamente connessa alla
programmazione finanziaria e di bilancio e alla sua natura organizzativa
dell’attività dell’ente, individuando le opere da eseguirsi con priorità.
Tant’è che anche a seguito dell’entrata in vigore del D.M. 16.01.2018, n.
14, recante il regolamento relativo alle procedure e schemi tipo per la
redazione e la pubblicazione del piano triennale dei lavori pubblici, pur
essendo ribadita la necessità della pubblicazione del piano, la garanzia
partecipativa risulta essere minima, dal momento che l’art. 5 prevede che
l’amministrazione “possa” consentire la presentazione delle
osservazioni entro trenta giorni dalla pubblicazione, facendo ricorso a un
subprocedimento che la norma definisce come “consultazioni”, che,
quindi, è eventuale, rimesso alla scelta dell’ente e può concludersi senza
che sul Comune gravi un preciso onere motivazionale, nel caso in cui le
prospettazioni del privato vengano disattese.
Inoltre, nessuna disposizione normativa limita la possibilità di riproporre,
negli aggiornamenti annuali, il mantenimento delle previsioni di
realizzazione della stessa opera, che, dunque, potrebbe essere procrastinata
all’infinito, di fatto svuotando completamente di contenuto il diritto di
proprietà e, così, espropriando il suo titolare, cui è preclusa ogni
utilizzazione che non sia quella per la coltivazione agricola, pur in
assenza di alcun indennizzo.
In questo modo si finisce per eludere sia il principio
della temporaneità del potere espropriativo, sia quello dell’indennizzabilità
in caso di un potere che si consolidi nel tempo pur non essendo intervenuta
l’espropriazione, espressamente indicati come alternativi dal giudice delle
leggi nelle sentenze già più volte ricordate.
L’inserimento nel piano triennale delle opere pubbliche, infatti:
- se da un lato non può essere qualificato come un serio
inizio della procedura espropriativa, in quanto non offre alcuna garanzia
circa il fatto che l’opera sia effettivamente realizzata, non comportando
alcun impegno di spesa e non essendo previsto alcun termine di efficacia
entro cui i lavori debbono essere conclusi;
- dall’altro, viola anche il fondamentale presupposto,
introdotto dal legislatore in recepimento del principio individuato dalla
Corte Costituzionale nella citata
sentenza n. 179/1999 e
trasfuso nel primo comma dell’art.
39 del T.U. DPR 327/2001, secondo cui “nel caso di
reiterazione di un vincolo preordinato all’esproprio o di un vincolo
sostanzialmente espropriativo è dovuta al proprietario una indennità,
commisurata all’entità del danno effettivamente prodotto.”.
4. In conclusione questo Tribunale ritiene che l’art.
9, comma 12, della legge regionale della Lombardia n. 12/2005 sia
costituzionalmente illegittimo laddove ricollega all’inserimento dell’opera
pubblica nella programmazione triennale prevista dalla normativa in materia
di lavori pubblici, l’effetto preclusivo della decadenza del vincolo
preordinato all’esproprio.
5. Ciò premesso, questo Tribunale solleva la questione di
legittimità costituzionale dell’art.
9, comma 12, della legge regionale della Lombardia n. 12/2005,
nella parte in cui, in violazione dei limiti alla propria competenza
legislativa concorrente definiti dall’art. 117 Cost. e comunque dei principi
fondamentali relativi ai limiti del potere espropriativo discendenti
dall’art. 42 Cost., attribuisce all’inserimento della previsione della
realizzazione di un’opera pubblica nella programmazione triennale di cui
all’art. 21 del d.lgs. 50/2016 l’effetto preclusivo della decadenza del
vincolo quinquennale preordinato all’esproprio per la sua esecuzione,
secondo i profili e per le ragioni sopra indicate,
con sospensione del giudizio fino alla pubblicazione nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica Italiana della decisione della Corte
Costituzionale sulle questioni indicate, ai sensi e per gli effetti di cui
agli artt. 79 ed 80 del c.p.a. e art. 295 c.p.c..
Riserva al definitivo la decisione nel merito e sulle spese.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di
Brescia (Sezione Seconda), ritenuta la rilevanza e la non
manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art.
9, comma 12, della legge regionale della Lombardia n. 12/2005,
per violazione degli artt. 42 e 117 della Costituzione, dispone la
sospensione del giudizio e la trasmissione degli atti alla Corte
Costituzionale (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. II,
ordinanza 14.08.2019 n. 740 - link a www.giustizia-amministrartiva.it
- si legga anche TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
ordinanza 20.09.2019 n. 827). |
ESPROPRIAZIONE: Richiesta
risarcimento danni per equivalente pari al valore del fondo formulata in
costanza di occupazione acquisitiva.
---------------
●
Risarcimento danni - Espropriazione per pubblica utilità – Richiesta di
risarcimento danni per equivalente pari al valore del fondo – Formulata in
costanza di occupazione acquisitiva – Riconoscimento risarcimento danni da
occupazione illegittima – Possibilità.
●
Espropriazione per pubblica utilità - Occupazione acquisitiva - Possesso ad
usucapionem – Esclusione – Conseguenza.
●
Non viola il principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato la
sentenza che, a fronte della richiesta del danno per equivalente pari al
valore del fondo formulata allorché l'ordinamento contemplava l'istituto
dell'occupazione acquisitiva, abbia disposto il solo danno da occupazione
illegittima, nel presupposto della permanente proprietà del cespite in capo
al privato: la tutela giurisdizionale, infatti, deve essere modulata in base
all'assetto esegetico generalmente condiviso al momento della pronuncia (1).
●
Nel periodo di tempo in cui trovava applicazione l'istituto
dell'occupazione acquisitiva non è in radice ravvisabile alcun possesso ad
usucapionem, di talché non può ipotizzarsi l'acquisto in capo a terzi (nella
specie, assegnatari di alloggi di edilizia residenziale pubblica) della
proprietà del bene ai sensi dell'art. 1159 c.c. (cd. "usucapione
abbreviata") allorché il decennio sia maturato in costanza dell'indirizzo
giurisprudenziale che riconosceva l'occupazione acquisitiva (2).
---------------
(1) Ha chiarito la Sezione che la richiesta di giustizia avanzata
dall’appellante aveva come causa petendi la posizione dominicale
illo tempore incisa dall’indebita occupazione del bene da parte
dell’Amministrazione e ne chiedeva la tutela nell’ambito dei rimedi allora
considerati rilevanti dalle Corti.
Correttamente, dunque, il Tribunale ha fatto riferimento alla (diversa)
tutela contemplata dall’attuale diritto vivente, che ha espunto
dall’ordinamento, per insuperabile contrasto con superiori principi
sovranazionali cui la Repubblica è costituzionalmente tenuta a conformarsi,
l’istituto dell’occupazione acquisitiva.
Più in particolare, venuto meno il riconoscimento della valenza acquisitiva
dei comportamenti di apprensione materiale del bene posti in essere sine
titulo dall’Amministrazione, il Tribunale ha ricondotto la domanda
nell’alveo dell’ordinario illecito aquiliano ed ha, pertanto, condannato
l’Ente al risarcimento del solo danno (“a carattere permanente”) da
perdita della disponibilità materiale del bene, specificando che la
proprietà è rimasta in capo ai ricorrenti.
(2)
Cons. St., A.P., 09.02.2016, n. 2; id.,
sez. IV, 01.08.2017, n. 3838; id.
30.08.2017, n. 4106 (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 13.08.2019 n. 5703 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ESPROPRIAZIONE: Torna
alla Adunanza plenaria l’interpretazione dell’art. 42-bis del T.U.
espropriazione in relazione all’istituto della c.d. rinuncia abdicativa.
---------------
Espropriazione per pubblico interesse – Acquisizione sanante – Rinuncia
abdicativa – Configurabilità – Deferimento all’Adunanza plenaria.
Vanno deferite all'Adunanza plenaria del Consiglio
di Stato, le seguenti questioni:
a) se per le fattispecie sottoposte all’esame del giudice
amministrativo e disciplinate dall’art. 42-bis del testo unico sugli
espropri, l’illecito permanente dell’Autorità viene meno solo nei casi da
esso previsti (l’acquisizione del bene o la sua restituzione), salva la
conclusione di un contratto traslativo tra le parti, di natura transattiva;
b) se, pertanto, la ‘rinuncia abdicativa’, salve le questioni
concernenti le controversie all’esame del giudice civile, non può essere
ravvisata quando sia applicabile l’art. 42-bis;
c) se, ove sia invocata la sola tutela restitutoria e/o
risarcitoria prevista dal codice civile e non sia richiamato l’art. 42 bis,
il giudice amministrativo può qualificare l’azione come proposta avverso il
silenzio dell’Autorità inerte in relazione all’esercizio dei poteri ex art.
42-bis;
d) se, in tale ipotesi, il giudice amministrativo può
conseguentemente fornire tutela all’interesse legittimo del ricorrente
applicando la disciplina di cui all’art. 42-bis e, eventualmente, nominando
un Commissario ad acta già in sede di cognizione;
e) se, nella specie, l’atto di acquisizione emesso da Roma Capitale
in data 23.11.2018 vada considerato giuridicamente rilevante (ciò che
dovrebbe ammettersi, qualora si dovesse ritenere che l’Amministrazione solo
con l’emanazione dell’atto di data 23.11.2018 ha fatto venire meno
l’illecito permanente conseguente alla occupazione sine titulo). (1)
---------------
(1) I. – Con l’ordinanza in rassegna (che segue due analoghe
ordinanze di rimessione, la n. 5399 e la n. 5391 in pari data) la Quarta
sezione del Consiglio di Stato ha deferito all’Adunanza plenaria la
questione della ammissibilità della rinuncia abdicativa nei giudizi dinanzi
al giudice amministrativo, sollecitando una rimeditazione dei principi
affermati in tema dalla Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con
sentenza n. 2 del 2016 (in Foro it., 2016, III, 185 con note di TRAVI,
BARILA’ e PARDOLESI ).
In primo grado il Tar escludeva la configurabilità di una “rinunzia
abdicativa” e riteneva applicabile l’art. 42-bis del testo unico sugli
espropri, con conseguente legittimità del provvedimento poi effettivamente
adottato da Roma capitale resistente in primo grado.
Tale capo della sentenza veniva appellato dagli interessati i quali
prospettavano di non essere più proprietari da tempo, in conseguenza di una
loro “rinunzia abdicativa”.
La Quarta sezione, evidenziava la possibile inefficacia dell’atto di
acquisizione sanante in conseguenza dell’intervenuto acquisto della
proprietà da parte di Roma Capitale in forza della allegata rinuncia
abdicativa da parte degli originari proprietari che avrebbe determinato il
venir meno dell’oggetto del provvedimento di acquisizione; pertanto riteneva
di deferire alla Adunanza plenaria la questione se l’atto di acquisizione,
emesso da Roma Capitale, dovesse essere considerato autoritativo ed efficace
(con la conseguente improcedibilità dei ricorsi di primo grado, quanto meno
parziale) oppure inefficace, o perché non seguito dal pagamento di quanto
dovuto entro i successivi trenta giorni, o perché emesso quando
l’Amministrazione era da considerarsi già proprietaria, potendosi ipotizzare
in tal caso l’applicazione dell’art. 21-septies, comma 1, della legge n. 241
del 1990, avendo l’atto di acquisizione per oggetto un bene di cui
l’Autorità risultava già proprietaria in forza della intervenuta rinuncia
abdicativa.
La rimessione veniva prospettata sulla scorta delle seguenti considerazioni
tese ad escludere la configurabilità di una rinunzia abdicativa, sia nel
caso di specie che in via generale:
a) negli anni susseguenti all’entrata in vigore del testo unico, il
Consiglio di Stato non ha affrontato funditus la questione se la
volontà del proprietario possa comportare la perdita del suo diritto e una
sua pretesa di ottenere il controvalore del bene;
b) tale possibilità è stata ammessa dalla giurisprudenza della Corte di
cassazione (Cass. civ., sez. un., 19.01.2015, n. 735 in Foro it., 2015, I,
436, n. PARDOLESI R., in Corriere giur., 2015, 314, con nota di CONTI; in
Nuova giur. civ., 2015, I, 632, con nota di IMBRENDA; in Urbanistica e
appalti, 2015, 413, con nota di BARILÀ; in Riv. neldiritto, 2015, 220 (m),
con nota di IANNONE; in Nuove autonomie, 2015, 187 (m), con nota di RUSSO),
per i casi devoluti alla giurisdizione del giudice civile, nei giudizi
instaurati prima della entrata in vigore della legge n. 205 del 2000, che ha
previsto la giurisdizione amministrativa esclusiva in materia espropriativa.
A tale giurisprudenza ha poi fatto richiamo il § 5.3. della sentenza della
Adunanza plenaria n. 2 del 2016;
c) il principio affermato dalle sezioni unite –che hanno annoverato la “rinuncia
abdicativa” tra i modi con i quali viene meno l’occupazione sine
titulo- è applicabile per le controversie devolute al giudice civile
(quelle sorte prima della entrata in vigore della legge n. 205 del 2000, che
ha previsto la giurisdizione esclusiva in materia espropriativa, nonché
quelle sorte successivamente in tema di “sconfinamento”, qualora si
ritenga irrilevante la giurisdizione esclusiva);
d) la stessa sentenza delle sezioni unite ha dato atto dei dubbi
interpretativi sulla applicabilità dapprima dell’art. 43 e poi dell’art.
42-bis per le occupazioni senza titolo poste in essere prima della loro
entrata in vigore, poste all’esame del giudice civile;
e) la sentenza n. 735 del 2015 non si è quindi occupata dei casi in cui
sussiste la giurisdizione amministrativa esclusiva, né delle implicazioni
sistematiche che discendono dalla applicazione dell’art. 42-bis del testo
unico espropriazione, ritenuto non applicabile al caso al suo esame;
f) di conseguenza, tenuto conto dei principi affermati dalle sezioni unite
(per le controversie devolute al giudice civile) e delle disposizioni del
testo unico espropriazione (applicabili per le controversie proposte in sede
di giurisdizione esclusiva), si potrebbe escludere che la “rinuncia
abdicativa” possa avere giuridica rilevanza innanzi al giudice
amministrativo;
g) infatti, per i casi di occupazione sine titulo di un fondo da
parte della Autorità (devoluti alla cognizione del giudice amministrativo),
è in vigore la specifica disciplina prevista dall’art. 42-bis del testo
unico sugli espropri, che ha in dettaglio individuato i poteri e i doveri
della medesima Autorità, nonché i poteri del giudice amministrativo;
h) in particolare l’art. 42-bis:
h1) prevede che l’Autorità che utilizza sine titulo un bene immobile
per scopi di interesse pubblico debba valutare, con un procedimento
d’ufficio (che può essere sollecitato dalla parte in caso di inerzia), “gli
interessi in conflitto”, adottando un provvedimento conclusivo con cui
sceglie se acquisire il bene o restituirlo, per adeguare la situazione di
diritto a quella di fatto; in altri termini, vincola l’Amministrazione
occupante all’esercizio del potere ed attribuisce alla stessa un potere
discrezionale in ordine alla scelta finale, all’esito della comparazione e
della valutazione degli interessi;
h2) comporta che nel caso di occupazione sine titulo l’Autorità
commette un illecito di carattere permanente;
h3) esclude che il giudice decida la “sorte” del bene nel giudizio di
cognizione instaurato dal proprietario;
h4) a maggior ragione, non può che escludere che la “sorte” del bene
sia decisa dal proprietario e che l’Autorità acquisti coattivamente il bene,
sol perché il proprietario dichiari di averlo perso o di volerlo perdere, o
di volere il controvalore del bene;
h5) l’art. 42-bis ha esaurito la disciplina della fattispecie, con una
normativa “autosufficiente”, rispetto alla quale non dovrebbero
rilevare “prassi” ulteriori, limitative dell’applicazione della
legge;
i) per le fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis vi dovrebbe essere una
rigorosa applicazione del principio di legalità, in materia affermato
dall’art. 42 della Costituzione e rimarcato dalla Corte Europea dei diritti
dell’uomo in tema di assenza della base legale delle prassi sulla “espropriazione
indiretta”: nessuna norma ha indicato i requisiti formali necessari per
la validità della “rinuncia abdicativa”, né ha precisato quali
effetti si producano;
j) nel diritto privato, è discusso se l’art. 827 del codice civile sia la
base legale di una dichiarazione di rinuncia del proprietario di un diritto
reale immobiliare, a parte i casi previsti dalla legge;
k) è molto dubbio che le sue disposizioni prevalgano su quelle dell’art.
42-bis, che attribuisce all’Autorità e non al proprietario la possibilità di
decidere quale sia il regime del bene: nel vigore dell’art. 42-bis, non vi è
alcuna lacuna normativa da colmare;
l) per l’art. 42-bis l’Autorità può acquisire il bene con un atto
discrezionale, in assenza del quale vi sono gli ordinari rimedi di tutela,
anche quello della restituzione;
m) la scelta, di acquisizione del bene o della sua restituzione, va
effettuata esclusivamente dall’Autorità (o dal commissario ad acta
nominato dal giudice amministrativo, all’esito del giudizio di cognizione o
del giudizio d’ottemperanza, ai sensi dell’art. 34 o dell’art. 114 del
c.p.a.): in sede di giurisdizione di legittimità, né il giudice
amministrativo né il proprietario possono sostituire le proprie valutazioni
a quelle attribuite alla competenza e alle responsabilità dell’Autorità
individuata dall’art. 42-bis;
n) l’art. 827 c.c. si riferisce alla titolarità del bene da parte dello
Stato, sicché esso non è neanche in astratto rilevante quando l’illecito sia
stato commesso da una Autorità non statale;
o) il comma 1 dell’art. 42-bis ha attribuito al proprietario un peculiare
interesse legittimo a che l’Amministrazione adegui la situazione di diritto
a quella di fatto -acquisendo essa stessa la titolarità del bene
illecitamente occupato e corrispondendo le relative somme nelle misure
previste dalla legge, ovvero restituendo il bene al legittimo proprietario-
che può essere azionato per costringere anche in tempi rapidi l’Autorità a
provvedere attraverso il ricorso avverso il silenzio ai sensi dell’art. 117
c.p.a.;
p) nel tutelare tale interesse legittimo, il comma 1 “paralizza
temporaneamente” l’accoglibilità della domanda del proprietario di
ottenere senz’altro il risarcimento o la restituzione del suo bene, poiché:
p1) se l’Autorità –d’ufficio o
su sollecitazione di parte– dispone l’acquisizione, all’ex proprietario
spetta l’indennizzo per la cui quantificazione, in caso di contestazione,
sussiste la giurisdizione del giudice civile;
p2) se l’Autorità invece decide di non acquisire il bene, solo allora il
giudice amministrativo può applicare le disposizioni del codice civile;
p3) il giudice amministrativo, in caso di inerzia dell’amministrazione e di
ricorso avverso il silenzio ex art. 117 c.p.a., può nominare già in sede di
cognizione il commissario ad acta, che provvederà ad esercitare i
poteri di cui all’art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001 o nel senso della
acquisizione o nel senso della restituzione;
q) qualora sia invocata solo la tutela (restitutoria e risarcitoria)
prevista dal codice civile e non si richiami l’art. 42-bis il giudice,
qualificata l’azione come proposta avverso il silenzio, si potrebbe
pronunciare ai sensi dell’art. 117 c.p.a.;
r) in definitiva:
r1) per le fattispecie sottoposte all’esame del giudice amministrativo e
disciplinate dall’art. 42-bis del testo unico sugli espropri, l’illecito
permanente dell’Autorità viene meno nei casi da esso previsti
(l’acquisizione del bene o la sua restituzione), salva la conclusione di un
contratto traslativo tra le parti, di natura transattiva;
r2) la “rinuncia abdicativa”, salve le questioni concernenti le
controversie all’esame del giudice civile, non può essere ravvisata quando
sia applicabile l’art. 42-bis.
II. – Per completezza sull’argomento si segnala:
s) la rassegna monotematica di giurisprudenza,
sia civile che amministrativa, a cura dell’Ufficio Studi, massimario e
formazione dal titolo “L’occupazione abusiva di immobili da parte della
pubblica amministrazione” (aggiornata al 02.09.2019, cui si rinvia per
ogni approfondimento anche di dottrina; ivi si mette in luce la maggiore
efficienza economica sottesa alla scelta del privato di rinunciare alla
proprietà del bene occupato nonché l’abbattimento del contenzioso invece
incrementato dalla attivazione del procedimento di cui all’art. 42-bis
specie se promosso a seguito di un giudicato che accerti il silenzio
inadempimento dell’Amministrazione; cfr. in particolare i paragrafi § 11 e
da 14 a 21) e la
News US n. 100 del 10.09.2019 relativa a
Cons. Stato, sez. IV, ordinanza 15.07.2019, n. 4950
sull’interpretazione dell’art. 42-bis del T.U. espropriazione in presenza di
un giudicato restitutorio del g.o.;
t) tra le più recenti pronunce in tema si segnalano:
t1) Cass. civ., sez. un., n. 3517 del 2019 (in Foro it., 2019, I, 1644, con
nota di BARILÀ dal titolo “La partecipazione del privato al procedimento
di acquisizione sanante”), resa in materia di impugnazione di un atto di
asservimento coattivo in sanatoria ex art. 42-bis T.U. espropriazione, la
quale, ribadendo principi consolidati ed in dichiarata adesione a quanto
espresso dalla Adunanza plenaria n. 2 del 2016, afferma che “L'atto di
acquisizione sanante è, dunque, volto a ripristinare la legalità
amministrativa con effetto non retroattivo, attraverso «una sorta di
procedimento espropriativo semplificato», di carattere eccezionale,
innestato su un precedente procedimento espropriativo irrimediabilmente
viziato o, comunque, fondato su titolo astrattamente annullabile sub iudice”;
t2) sul tema della ammissibilità della rinuncia abdicativa cfr. Cons. Stato,
sez. IV, 24.05.2018, n. 3105 (favorevole); Cons. Stato, sez. IV, 20.04.2018,
n. 2396 (favorevole); Tar per il Piemonte; sez., I, 28.03.2018, n. 368
(contraria, con ampia motivazione) tutte in Foro it., 2018, III, 403 con
nota redazionale di C. BONA contenente una puntuale rassegna delle posizioni
dottrinali sul tema. Favorevoli alla rinuncia abdicativa sono anche Cass.
civ., sez. I, 24.05.2018, n. 12961 in Foro it., 2018, I, 2363, nonché Cass.
civ., sez. I, 07.03.2017, n. 5686 in Foro it., 2017, I, 1992 con
approfondita nota redazionale di E Barilà; nello stesso senso si veda Corte
appello Genova 27.11.2018 (che ammette la trascrivibilità dell'atto di
rinuncia abdicativo) e Tribunale civile Genova 01.03.2018, in Foro it.,
2019, I, 308, con nota di richiami;
u) sui limiti alla conversione d’ufficio della domanda risarcitoria in
azione contro il silenzio per l’adozione del provvedimento ex art. 42-bis,
si vedano i principi in materia di conversione dell’azione di annullamento
in azione risarcitoria affermati da Cons. Stato, Ad. plen., 13.04.2015, n. 4
(in Foro it., 2015, III, 265, con nota di TRAVI; in Urbanistica e appalti,
2015, 917, con nota di MANGANARO, MAZZA LABOCCETTA; in Giur. it., 2015, 1693
(m), con nota di COMPORTI; in Guida al dir., 2015, fasc. 20, 92, con nota di
MASARACCHIA; in Foro amm., 2015, 2206 (m), con nota di SILVESTRI; in
Corriere giur., 2015, 1596, con nota di SCOCA; in Dir. proc. amm., 2016,
173, con nota di TURRONI) secondo cui posto che il processo amministrativo è
soggetto al principio della domanda, il giudice amministrativo non può
emettere d'ufficio una pronuncia di risarcimento del danno, in presenza di
una domanda di annullamento della parte ricorrente; si veda altresì Cons.
Stato, Ad. plen., 27.04.2015, n. 5 in Foro it., 2015, III, 265, con nota di
TRAVI; in Urbanistica e appalti, 2015, 1177, con nota di VAIANO; in Riv.
neldiritto, 2015, 2084, con nota di COLASCILLA NARDUCCI; in Riv. dir. proc.,
2015, 1256, con nota di FANELLI; in Giur. it., 2015, 2192 (m), con nota di
FOLLIERI; in Dir. proc. amm., 2016, 205, con nota di PERFETTI, TROPEA; in
Dir. proc. amm., 2016, 830 (m), con nota di BERTONAZZI;
v) nel senso della improcedibilità della domanda di risarcimento del danno
(per equivalente) o di restituzione se sopravviene nel corso del giudizio il
provvedimento ex art. 42-bis, è unanime la giurisprudenza (cfr. Cons. Stato,
sez. IV, n. 3148 del 2018; sez. IV, n. 2765 del 2018; Cass. civ., sez. I, n.
5686 del 2017; sez. I, n. 11258 del 2016; sul punto si rinvia al § 9 della
citata rassegna monotematica);
w) per quanto concerne la ipotetica nullità del
provvedimento emanato ex art. 42-bis, perché privo di oggetto secondo una
certa lettura della norma sancita dall’art. 21-septies l. n. 241 del 1990
(secondo questa ricostruzione, infatti, l’immobile, a seguito di rinuncia
abdicativa, sarebbe già transitato nel patrimonio dell’ente occupante, da
qui l’impossibilità giuridica di farne il presupposto per l’esercizio del
potere di acquisizione ex post) si segnala l’opinione contraria
espressa, in linea generale, dalla giurisprudenza:
w1) per
Cass. civ., sez. un., 05.03.2018, n. 5097 (in Riv. giur.
edilizia, 2018, I, 636, nonché oggetto della
News US 14.03.2018 cui si rinvia per ogni approfondimento di
dottrina e giurisprudenza ivi compresa quella amministrativa), solo il
difetto assoluto di attribuzione (ovvero l’assenza in astratto di
qualsivoglia norma giuridica attributiva del potere esercitato con il
provvedimento amministrativo) radica la nullità ex art. 21-septies, l comma
1, l. n. 241 del 1990);
w2) nella stessa direzione appare muoversi
Corte cost. 02.05.2019, n. 106 (in Foro it., 2019, I, 1829 nonché
oggetto della
News US n. 57 del 14.05.2019 cui si rinvia per ogni
approfondimento), secondo cui sarebbe impossibile configurare la nullità del
provvedimento ex art. 21-septies cit., sempre e comunque a seguito della
declaratoria di incostituzionalità della norma sottoposta al sindacato del
giudice delle leggi, dovendosi ravvisare il più radicale dei vizi dell’atto
solo quando la norma illegittima attenga al fondamento del potere e non alle
sue modalità di esercizio
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
ordinanza 30.07.2019 n. 5400 -
tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ESPROPRIAZIONE Torna
alla Adunanza plenaria l’interpretazione dell’art. 42-bis del T.U. espropri
in presenza di un giudicato restitutorio del g.o..
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Espropriazione per pubblico
interesse – Acquisizione sanante – Applicabilità alla costituzione di una
servitù pubblica in presenza di giudicato civile restitutorio – Deferimento
all’Adunanza plenaria
Vanno deferite all'Adunanza plenaria del Consiglio di
Stato, le seguenti questioni:
a) se il giudicato civile, sull’obbligo di restituire un’area al
proprietario da parte dell’Amministrazione occupante sine titulo, precluda o
meno l’emanazione di un atto di imposizione di una servitù di passaggio, col
mantenimento del diritto di proprietà in capo al suo titolare;
b) se la formazione del giudicato interno -sulla statuizione del
TAR per cui il giudicato civile consente l’attivazione di un ordinario
procedimento espropriativo– imponga nella specie di affermare che sussiste
anche il potere dell’Amministrazione di imporre la servitù di passaggio ex
art. 42-bis, comma 6;
c) se la preclusione del ‘giudicato restitutorio’ sussista anche
quando la sentenza (nella specie, del giudice civile) non abbia
espressamente precluso l’esercizio dei poteri previsti dall’art. 42-bis per
adeguare lo stato di fatto a quello di diritto;
d) se la preclusione del ‘giudicato restitutorio’ sussista solo in relazione
ai giudicati formatisi dopo la pubblicazione della sentenza della Adunanza
Plenaria n. 2 del 2016, ovvero anche in relazione ai giudicati formatisi in
precedenza (1).
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(1) I. – Con l’ordinanza in rassegna la quarta sezione del
Consiglio di Stato ha deferito all’Adunanza plenaria alcune questioni
relative alla interpretazione dell’art. 42-bis del t.u. espropri, con
particolare riferimento alla possibilità di adottare un decreto di
acquisizione sanante per la costituzione, in favore di un Comune, di una
servitù pubblica di passaggio per l’accesso ad un parco pubblico, in
presenza di un giudicato civile di restituzione del terreno, conseguente non
ad una procedura espropriativa illegittima ma alla declaratoria di nullità
di un contratto di compravendita con immissione immediata nel possesso in
favore del Comune resistente dinanzi al Tar.
In primo grado il Tar per le Marche ha accolto il ricorso proposto dai
proprietari del terreno, gravato dalla servitù pubblica, in dichiarata
applicazione dei principi espressi dalla Adunanza plenaria del Consiglio di
Stato con sentenza n. 2 del 2016 (in Foro it., 2016, III, 185) che ha
escluso la possibilità, in presenza di un giudicato civile restitutorio
conseguente a procedura espropriativa illegittima, di adottare il decreto di
acquisizione sanante.
La quarta sezione, adita dalla contro interessata che beneficiava della
servitù pubblica di passaggio, ha ritenuto di deferire nuovamente alla
Adunanza plenaria la questione del rapporto tra giudicato civile
restitutorio e decreto di acquisizione sanante, sulla scorta delle seguenti
considerazioni:
a) è opinabile, rispetto a quanto osservato dal
Tar, che nella specie si ravvisi una vicenda di mero rilievo privatistico,
su cui non potrebbe ‘interferire’ il potere pubblicistico;
b) l’art. 42-bis t.u. espropri si applica infatti testualmente ad ogni caso
in cui –per qualsiasi ragione– un bene immobile altrui sia utilizzato
dall’Amministrazione per scopi di interesse pubblico, senza che abbiano
rilievo le circostanze che hanno condotto alla occupazione sine titulo e
alla riconducibilità di tali circostanze a vicende di natura privatistica o
pubblicistica;
c) in particolare la parola ‘anche’ evidenzia la natura meramente
esemplificativa dei casi indicati dal comma 2 dell’art. 42-bis (annullamento
dell’atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all’esproprio, dell’atto
che abbia dichiarato la pubblica utilità di un’opera o del decreto di
esproprio);
d) peraltro, nel caso di specie, per escludere un mero rilievo
‘privatistico’ della vicenda, la sezione sottolinea come l’Amministrazione –con la stipula del contratto poi dichiarato nullo– ha invero attuato le
previsioni dell’allora vigente programma di fabbricazione, sicché il
medesimo contratto avrebbe sostanzialmente la natura di accordo di cessione
del bene espropriando, attuativo dello strumento urbanistico;
e) quanto al limite del giudicato restitutorio, enunciato da Corte cost., 30.04.2015, n. 71 (in Foro it., 2015, I, 2629 con nota di R. PARDOLESI
“Acquisizione sanante: ansia di riscatto e violenza latente”) e ribadito da Cons. Stato, Ad. plen.,
09.02.2016, n. 2 cit., si tratta di principio
affermato con specifico riferimento alla emanazione dell’atto di
acquisizione “in proprietà” mentre nel caso di specie il Comune si è
limitato a costituire una servitù di passaggio, ai sensi dell’art. 42-bis,
comma 6, sicché il suddetto principio non dovrebbe ritenersi ostativo;
f) la costituzione di una servitù, in luogo della acquisizione della
proprietà, sarebbe decisiva per differenziare la presente fattispecie dal
principio affermato dalla Corte costituzionale e dalla Adunanza plenaria in
quanto il Comune ha mantenuto ferma (ed ha riconosciuto) la titolarità del
diritto di proprietà in capo agli appellati e –nel contemperare gli
interessi in conflitto– ha imposto la servitù per una parte delimitata
dell’area, in ragione dello specifico interesse pubblico, riferito alla
migliore utilizzabilità del ‘fondo dominante’ (costituito dal vicino parco
pubblico), oltre che alla razionalità dell’assetto viario;
g) inoltre la formazione del giudicato interno sulla statuizione del Tar
per cui il giudicato restitutorio consente comunque l’attivazione di un
ordinario procedimento espropriativo volto all’acquisto della proprietà,
dovrebbe indurre a concludere nel senso che sussiste anche il potere
dell’Amministrazione di imporre la servitù di passaggio ex art. 42-bis,
comma 6;
h) la sezione pone altresì la questione se la preclusione del ‘giudicato restitutorio’ sussista anche quando la sentenza del giudice civile non abbia
espressamente precluso l’esercizio dei poteri previsti dall’art. 42-bis per
adeguare lo stato di fatto a quello di diritto; la sussistenza del
‘giudicato restitutorio’ potrebbe essere affermata solo quando la relativa
sentenza abbia ritenuto di escludere l’applicabilità della normativa
pubblicistica, introdotta dal legislatore proprio per consentire
l’adeguamento della situazione di fatto a quella di diritto; non v’è dubbio
infatti che proprio a seguito dell’annullamento degli atti del procedimento
ablatorio da parte del g.a. si possano esercitare i poteri previsti
dall’art. 42-bis: allo stesso modo, il giudice civile –nell’emettere
unicamente le statuizioni prettamente civilistiche conseguenti alla
declaratoria della nullità del contratto- non va ad incidere sull’ambito di
applicabilità del medesimo articolo;
i) occorre dunque chiarire se il principio enunciato dalla Adunanza plenaria
n. 2 del 2016 sia applicabile ai soli casi in cui il ‘giudicato restitutorio’ sia caratterizzato dalla espressa statuizione sulla
inapplicabilità dell’art. 42-bis, ovvero anche ai casi in cui l’ordine di
restituzione sia stato emesso –come nella specie, dal giudice civile-
senza alcun richiamo alla normativa pubblicistica applicabile in materia;
j) per l’ipotesi in cui si ritenga che la sentenza del giudice civile sia
tale da comportare un ‘giudicato restitutorio preclusivo’ con conseguente
inapplicabilità dell’art. 42-bis, la sezione chiede alla plenaria di
modulare la portata temporale della regola affermata dalla precedente
sentenza n. 2 del 2016 ritenendola applicabile solo ai giudicati formatisi
successivamente, evidenziando che il ‘giudicato restitutorio’ –disposto
dalla sentenza della Corte d’appello di Ancona nel 2014– si è formato prima
della enunciazione del principio di diritto da parte dell’Adunanza plenaria,
e dunque quando il Comune –anche per l’assenza di una statuizione del
giudice civile sulla impossibilità di esercitare i poteri pubblicistici–
non poteva percepire la gravità delle conseguenze che sarebbero derivate dal
suo passaggio in giudicato;
k) diversamente, come osservato dalla
Adunanza plenaria con sentenza 22.12.2017, n. 13 (in Foro
it., 2018, III, 145 con nota critica di M. CONDORELLI “Il nuovo prospective
overruling, «dimenticando» l'adunanza plenaria n. 4 del 2015” oggetto della
News US del 08.01.2018, con ampi richiami di dottrina e di
giurisprudenza), vi sarebbe una ‘notevole compromissione’ degli interessi
pubblici coinvolti –oltre
che una lesione del legittimo affidamento dell’Amministrazione- se si
dovesse ritenere che ai giudicati restitutori ‘antecedenti’ alle statuizioni
della Adunanza plenaria vada attribuito un rilievo assolutamente preclusivo
dell’esercizio del potere previsto dall’art. 42-bis, col conseguente obbligo
dell’Amministrazione di restituire ineluttabilmente le aree, previa la loro
restitutio in integrum;
l) rileva al riguardo anche il principio di certezza del diritto, per il
quale, sempre secondo la richiamata pronuncia n. 13 del 2017, si può
limitare “la possibilità per gli interessati di far valere la norma
giuridica come interpretata, se vi è il rischio di ripercussioni economiche
o sociali gravi, dovute, in particolare, all’elevato numero di rapporti
giuridici costituiti in buona fede sulla base di una diversa interpretazione
normativa, sempre che risulti che i destinatari del precetto erano stati
indotti ad un comportamento non conforme alla normativa in ragione di una
obiettiva e rilevante incertezza circa la portata delle disposizioni”;
m) in materia di occupazione sine titulo solo la citata sentenza della Corte
costituzionale ha fugato i dubbi interpretativi sulla legittimità
costituzionale dell’art. 42-bis ed ha sottolineato il rilievo ostativo del
‘giudicato restitutorio’, al quale ha operato il suo richiamo l’Adunanza
plenaria;
n) è pertanto comprensibile che prima di tali pronunce le Amministrazioni –per lo più indotte a non emettere il provvedimento di acquisizione dal
timore di non incorrere in responsabilità e dalla scarsità delle risorse
economiche- non abbiano avuto nemmeno adeguata contezza dell’impatto
innovativo delle ‘nuove’ disposizioni e delle preclusioni che sarebbero
state desunte in sede interpretativa.
II. – Per completezza sull’argomento si segnala:
o) la rassegna monotematica di giurisprudenza, sia civile che
amministrativa, a cura dell’Ufficio studi, massimario e formazione dal
titolo “L’occupazione abusiva di immobili da parte della pubblica
amministrazione” (aggiornata al 02.09.2019, cui si rinvia per ogni
approfondimento anche di dottrina in relazione all’istituto della rinuncia abdicativa);
p) tra le più recenti pronunce in tema si vedano:
p1) Cass. civ., sez. un., n.
3517 del 2019 (in Foro it., 2019, I, 1644, con nota di BARILÀ dal titolo “La
partecipazione del privato al procedimento di acquisizione sanante”), resa
in materia di impugnazione di un atto di asservimento coattivo in sanatoria
ex art. 42-bis t.u. espropri, la quale, ribadendo principi consolidati ed in
dichiarata adesione a quanto espresso dalla Adunanza plenaria n. 2 del 2016,
afferma che “L'atto di acquisizione sanante è, dunque, volto a ripristinare
la legalità amministrativa con effetto non retroattivo, attraverso «una
sorta di procedimento espropriativo semplificato», di carattere eccezionale,
innestato su un precedente procedimento espropriativo irrimediabilmente
viziato o, comunque, fondato su titolo astrattamente annullabile sub iudice”;
p2) sul tema connesso della ammissibilità della rinuncia abdicativa cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 24.05.2018, n. 3105 (favorevole); Cons. Stato,
sez. IV, 20.04.2018, n. 2396 (favorevole); Tar per il Piemonte; sez,
I; 28.03.2018, n. 368 (contraria, con ampia motivazione) tutte in Foro it., 2018, III, 403 con nota redazionale di C. BONA contente una puntuale
rassegna delle posizioni dottrinali sul tema. Favorevoli alla rinuncia
abdicativa sono anche Cass. civ., sez. I, 24.05.2018, n. 12961 in Foro it., 2018, I, 2363 nonché Cass. civ., sez. I,
07.03.2017, n. 5686 in Foro it., 2017, I, 1992 con approfondita nota redazionale di BARILÀ; nello stesso
senso si veda Corte appello Genova 27.11.2018 (che ammette la trascrivibilità dell'atto di rinuncia abdicativo) e Tribunale civile Genova
01.03.2018, in Foro it., 2019, I, 308 con nota di richiami;
q) sul tema dell’overruling processuale e sostanziale si veda:
q1) Cass. civ., sez. un., n. 4135 del 2019, in Foro it., 2019, I, 1623 con
nota di CAPASSO la quale ha ribadito che il prospective overruling è
limitato alle norme di carattere processuale e serve a tutelare “la parte
che vedrebbe frustrato il proprio legittimo affidamento nell'interpretazione
resa dalla Suprema corte nel momento in cui ha tenuto la condotta
processuale, qualora fosse esposta agli effetti processuali pregiudizievoli
(nullità, decadenze, preclusioni, inammissibilità) derivanti dal successivo revirement giurisprudenziale, ma pur sempre riconducibili alle disposizioni
processuali vincolanti per tutti i giudici, soggetti solo alla legge (art.
101, 2° comma, Cost.)”.
Ha inoltre ribadito che un orientamento del giudice
della nomofilachia cessa di essere retroattivo, come, invece, dovrebbe
essere in forza della natura formalmente dichiarativa degli enunciati
giurisprudenziali, e può quindi parlarsi di prospective overruling, a
condizione che ricorrano cumulativamente i seguenti presupposti:
che si verta in materia di mutamento della giurisprudenza di legittimità
su norme regolatrici del processo, non anche su disposizioni di natura
sostanziale;
che tale mutamento sia stato imprevedibile o quantomeno inatteso e privo
di preventivi segnali anticipatori del suo manifestarsi, in ragione del
carattere consolidato nel tempo del pregresso indirizzo, tale, cioè, da
indurre la parte a un ragionevole affidamento su di esso, ipotesi non
ravvisabile in presenza di preesistenti contrasti interpretativi o di
incertezza interpretativa delle norme processuali ad opera della Corte di
cassazione in assenza di un orientamento consolidato della stessa Corte
o nel caso in cui la parte abbia confidato nell'orientamento che non è
prevalso;
che l'overruling sia causa diretta ed esclusiva di un effetto preclusivo
del diritto di azione o di difesa della parte, ponendosi esso quale causa di
sopravvenuta inammissibilità, improcedibilità, decadenze o preclusioni, in
ragione della diversità delle forme e dei termini da osservare sulla base
dell'orientamento sopravvenuto alla proposizione del ricorso, che abbia reso
impossibile una decisione sul merito della pretesa azionata in giudizio;
q2)
Corte cost., 25.06.2019, n. 160 (oggetto della
News US n. 79 del 08.07.2019) secondo cui solo la legge può
modulare gli effetti della tutela costitutiva d’annullamento.
Se è infatti
indiscutibile che i principi fondamentali del nostro sistema costituzionale
espressi dagli artt. 24 e 113 Cost. devono trovare applicazione rigorosa a
garanzia delle posizioni giuridiche dei soggetti che ne sono titolari, “ciò
non significa che l’art. 113 Cost., correttamente interpretato sia diretto
ad assicurare in ogni caso e incondizionatamente una tutela giurisdizionale
illimitata e invariabile contro l’atto amministrativo, spettando invece al
legislatore ordinario un certo spazio di valutazione nel regolarne modi ed
efficacia”; il “secondo comma dell’art. 113 non può essere interpretato
senza collegarlo col comma che lo segue immediatamente e che contiene la
norma, secondo la quale la legge può determinare quali organi di
giurisdizione possano annullare gli atti della pubblica Amministrazione nei
casi e con gli effetti previsti dalla legge medesima. Il che sta a
significare che codesta potestà di annullamento non è riconosciuta a tutti
indistintamente gli organi di giurisdizione, né è ammessa in tutti i casi, e
non produce in tutti i casi i medesimi effetti”; nella stessa direzione si
muovono anche le considerazioni sviluppate da
Corte di giustizia dell’UE, 29.07.2019, C-411/17, ASBL (Newsletter
n. 32 del 02.09.2019), secondo cui, in buona sostanza, in
presenza della violazione del diritto europeo da parte di misure
amministrative:
gli Stati membri (inclusi gli apparati giudiziari) sono tenuti, in linea
generale e tendenzialmente inderogabile, a rimuovere le conseguenze
dell’illecito europeo ex tunc, sospendendo ovvero annullando il relativo
provvedimento;
solo la Corte di giustizia può acconsentire, a determinate condizioni, che
i giudici nazionali (incluse le Corti costituzionali), per esigenze
imperative ed in via del tutto eccezionale, modulino gli effetti nel tempo
della declaratoria di illegittimità della disposizione sottoposta a
controllo, in presenza di una previsione nazionale espressa;
per tale via sarebbe possibile applicare la disposizione nazionale che
consente espressamente di mantenere determinati effetti di un atto nazionale
annullato;
q3)
Cons. Stato, Ad. plen., 23.02.2018, n. 1 (oggetto
della News US del 27.02.2018 nonché
in Foro it., 2018, III, 193), la quale ha escluso che il principio di
diritto affermato (concernente il divieto di cumulo tra risarcimento del
danno ed emolumenti di carattere indennitario erogati da enti pubblici)
possa ritenersi applicabile soltanto a rapporti futuri e non anche a quelli
in corso, avendo gli enunciati giurisprudenziali natura formalmente
dichiarativa.
Rammenta al riguardo che la diversa opinione «finisce per
attribuire alla esegesi valore ed efficacia normativa in contrasto con la
logica intrinseca della interpretazione e con il principio costituzionale
della separazione dei poteri venendosi a porre in sostanza come una fonte di
produzione» (Cons. Stato, Ad. plen., 02.11.2015, n. 9 in Foro it.,
2016, III, 65; Riv. neldiritto, 2016, 93; Riv. neldiritto, 2016, 285, con
nota di BRICI; Foro amm., 2015, 2747; Contratti Stato e enti pubbl., 2015,
fasc. 4, 87, con nota di VESPIGNANI; Urbanistica e appalti, 2016, 167, con
nota di GASTALDO, LONGO, CANZONIERI; Giornale dir. amm., 2016, 365 (m), con
nota di GALLI, CAVINA; Riv. giur. edilizia, 2015, I, 1138; Nuovo dir. amm.,
2016, fasc. 3, 53, con nota di NARDOCCI);
q4) di segno opposto è invece Cons. Stato, Ad. plen., 22.12.2017, n.
13 cit., richiamata dalla ordinanza in rassegna, in materia di ultrattività
delle proposte di vincolo paesaggistico, che ha ritenuto ammissibile
l’istituto dell’overruling anche su questione di diritto sostanziale, su cui
si veda: ANTONIO VACCA, Adunanza Plenaria, ius dicere e creazione del
diritto (commento a Cons. Stato, Ad. Plenaria, sent. 22.12.2017 n. 13)
in Lexitalia, 05.01.2018, secondo il quale la limitazione pro futuro
degli effetti della sentenza interpretativa dell’Adunanza plenaria
equivarrebbe alla creazione di una norma transitoria, in funzione para
normativa, e può integrare un’ipotesi di diniego di giurisdizione in danno
della parte ricorrente, suscettibile di ricorso per cassazione ex art. 111 Cost.; D. PAGANO, L'Adunanza Plenaria n. 13/20017:
summum jus, summa iniura?,
ibidem, 22.02.2018. Ampi approfondimenti sul tema sono contenuti anche nella
News US in data 08.01.2018 cit. cui si rinvia
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
ordinanza 15.07.2019 n. 4950 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Riparto di giurisdizione in materia di retrocessione.
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Giurisdizione – Espropriazione per pubblica utilità – Retrocessione –
Giurisdizione giudice amministrativo – Condizione.
In presenza di una controversia che involga la
retrocessione totale di un fondo, la potestas dedicendi del giudice
amministrativo, in funzione di giurisdizione esclusiva di cui all’art. 133,
comma 1, lett. g) c.p.a., sussisterà non solo se la richiesta di
retrocessione totale sia avanzata nello stesso giudizio innanzi al giudice
amministrativo in uno alla domanda di retrocessione parziale (1).
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(1) Ha chiarito il Tar che sebbene si registri una successiva
decisione della Suprema Corte, che si conforma al diverso e tradizionale
orientamento interpretativo (Corte di Cassazione, Sez. II, 17.10.2017, n.
24485), l’innovativa opzione ermeneutica è stata ribadita in via incidentale
da altra ordinanza delle Sezioni Unite, in cui è statuito che “in tema di
espropriazione per pubblica utilità, sussiste la giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. g), dell'all.
1 al d.lgs. n. 104 del 2010, allorquando il comportamento della P.A., cui si
ascrive la lesione, sia la conseguenza di un assetto di interessi conformato
da un originario provvedimento ablativo, legittimo o illegittimo, ma
comunque espressione di un potere amministrativo (in concreto) esistente,
cui la condotta successiva si ricollega in senso causale. Pertanto, poiché,
diversamente dalla mancata retrocessione del fondo occupato, l'eventuale
usucapione della proprietà di quest'ultimo non è immediatamente
riconducibile al pregresso esercizio del potere espropriativo, ma ne
costituisce una conseguenza meramente occasionale …, il relativo suo
accertamento appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario” (Corte
di Cassazione, Sezioni Unite, 11.07.2017, n. 17110).
Sulla scorta del revirement operato in argomento dalle Sezioni Unite
della Corte di Cassazione, pertanto, in presenza di una controversia che
involga la retrocessione totale di un fondo, la potestas dedicendi
del g.a., in funzione di giurisdizione esclusiva di cui all’art. 133, comma
1, lett. g) c.p.a., sussisterà non solo, come già affermato in passato, se
la richiesta di retrocessione totale sia avanzata nello stesso giudizio
innanzi al g.a. in uno alla domanda di retrocessione parziale (ex multis,
Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 27.01.2014, n. 1520) ma anche ove
proposta in via autonoma
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 16.05.2019 n. 990 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - ESPROPRIAZIONE: L'inclusione
del terreno espropriato in una fascia di rispetto stradale vale a
qualificarlo come non edificabile, ai fini della determinazione
dell'indennità di espropriazione, trattandosi di una limitazione legale
della proprietà, concretante il divieto assoluto di edificazione sancito
nell'interesse pubblico, avente carattere generale, in quanto concernente,
sotto il profilo soggettivo, tutti i cittadini proprietari di determinati
beni che si trovino nella medesima situazione e, sotto il profilo oggettivo,
beni immobili individuati a priori per categoria derivante dalla loro
posizione o localizzazione rispetto a un'opera pubblica stradale o
ferroviaria, non rilevando in senso contrario che il terreno sia collocato
all'interno di un piano di insediamento industriale (P.I.P.) o di un piano
di edilizia economica e popolare (P.E.E.P.).
Tali vincoli imposti sulle aree in fasce di rispetto della sede stradale o
autostradale, in conseguenza della destinazione di interesse pubblico, non
arrecano alla parte sottratta al privato alcun deprezzamento, del quale
debba tenersi conto in sede di determinazione del valore dell'immobile,
facendo difetto il nesso di causalità sia con l'ablazione e sia con
l'esercizio del pubblico servizio cui l'opera è destinata.
La predetta disciplina non può essere derogata neppure da parte degli
strumenti generali di pianificazione del territorio, i quali, in quanto
provvedimenti amministrativi, sono assoggettati pur essi al rispetto delle
norme di legge che impongono limitazioni legali di carattere assoluto.
Ne consegue che al giudice, in sede di valutazione dell'indennità di
occupazione, non è consentito prescinderne, dovendo egli limitarsi a
prendere atto del regime direttamente stabilito dal legislatore.
---------------
4.4. L'art. 16 del d.lgs. 30/04/1992 n. 285, recante il Codice della strada,
in tema di «Fasce di rispetto in rettilineo ed aree di visibilità nelle
intersezioni fuori dei centri abitati» vieta ai proprietari o aventi
diritto dei fondi confinanti con le proprietà stradali fuori dei centri
abitati, tra l'altro, di costruire, ricostruire o ampliare, lateralmente
alle strade, edificazioni di qualsiasi tipo e materiale; il successivo art.
18, in tema di « Fasce di rispetto ed aree di visibilità nei centri
abitati», impone nei centri abitati, per le nuove costruzioni,
ricostruzioni ed ampliamenti, le fasce di rispetto a tutela delle strade,
misurate dal confine stradale, di dimensioni non inferiori a quelle indicate
nel regolamento in relazione alla tipologia delle strade. Gli artt. 26 e 28
del regolamento di cui al d.P.R. 485 del 16/12/1992 dettano la misura
precisa delle distanze da rispettare.
4.5. Secondo la giurisprudenza consolidata della Corte, l'inclusione del
terreno espropriato in una fascia di rispetto stradale vale a qualificarlo
come non edificabile, ai fini della determinazione dell'indennità di
espropriazione, trattandosi di una limitazione legale della proprietà,
concretante il divieto assoluto di edificazione sancito nell'interesse
pubblico, avente carattere generale, in quanto concernente, sotto il profilo
soggettivo, tutti i cittadini proprietari di determinati beni che si trovino
nella medesima situazione e, sotto il profilo oggettivo, beni immobili
individuati a priori per categoria derivante dalla loro posizione o
localizzazione rispetto a un'opera pubblica stradale o ferroviaria, non
rilevando in senso contrario che il terreno sia collocato all'interno di un
piano di insediamento industriale (P.I.P.) o di un piano di edilizia
economica e popolare (P.E.E.P.) (Sez. 1, 06/06/2018, n. 14632; Sez. 1,
21/12/2015, n. 25668; Sez. 1, 04/12/2013, n. 27114).
Tali vincoli imposti sulle aree in fasce di rispetto della sede stradale o
autostradale, in conseguenza della destinazione di interesse pubblico, non
arrecano alla parte sottratta al privato alcun deprezzamento, del quale
debba tenersi conto in sede di determinazione del valore dell'immobile,
facendo difetto il nesso di causalità sia con l'ablazione e sia con
l'esercizio del pubblico servizio cui l'opera è destinata. La predetta
disciplina non può essere derogata neppure da parte degli strumenti generali
di pianificazione del territorio, i quali, in quanto provvedimenti
amministrativi, sono assoggettati pur essi al rispetto delle norme di legge
che impongono limitazioni legali di carattere assoluto. Ne consegue che al
giudice, in sede di valutazione dell'indennità di occupazione, non è
consentito prescinderne, dovendo egli limitarsi a prendere atto del regime
direttamente stabilito dal legislatore (Sez. 1, 17/12/2012, n. 23210; Sez.
1, 13/04/2012, n. 5875)
(Corte di Cassazione, Sez. I civile,
ordinanza
11.04.2019 n. 10223). |
ESPROPRIAZIONE:
A differenza dell’annullamento di atti presupposti o
prodromici, di cui può predicarsi l’eventuale effetto caducante o
invalidante degli atti successivi,
l’annullamento di un atto a valle non inficia la validità
degli atti precedenti che conservano la loro validità ed
efficacia in applicazione del principio generale di
conservazione previsto dall’art. 159, comma 1, c.p.c..
---------------
L.2. Anche il secondo motivo di ricorso deve essere
rigettato.
E invero, il decreto di espropriazione, costituendo l’atto
conclusivo del procedimento espropriativo, può essere
riemesso, in vigenza dell’originaria dichiarazione di
pubblica utilità, non necessitando la rinnovazione
dell’intero iter.
A differenza dell’annullamento di atti presupposti o
prodromici (cui rimanda la giurisprudenza citata in seno al
ricorso introduttivo), di cui può predicarsi l’eventuale
effetto caducante o invalidante degli atti successivi,
l’annullamento di un atto a valle non inficia la validità
degli atti precedenti che conservano la loro validità ed
efficacia in applicazione del principio generale di
conservazione previsto dall’art. 159, comma 1, c.p.c.
Inoltre, deve evidenziarsi come il provvedimento n. 611 del
19.08.2010 ha solo parzialmente annullato il precedente
decreto di esproprio in relazione all’esatta individuazione
delle aree oggetto del procedimento di espropriazione per
pubblica utilità confermandone la persistente validità per
la restante parte anche in relazione alla determinazione
dell’indennità provvisoria
Ne consegue che il provvedimento impugnato con il presente
ricorso, nel richiamare gli effetti prodotti dall’originario (TAR
Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 27.03.2019 n. 904 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Nell’impianto normativo dell’espropriazione per
pubblica utilità così come configurata dal Dpr n. 327/2001,
la dichiarazione di pubblica utilità (d.p.u), disciplinata
dall’art. 12, pur differenziandosi dalla d.p.u. disciplinata
dalla legge n. 2359/1865, sostanzialmente rappresenta il
necessario presupposto del decreto di esproprio, tale per
cui il riconoscimento dell’assenza di una valida
dichiarazione di pubblica utilità o il suo annullamento in
sede giurisdizionale ha un effetto caducante e non meramente
viziante sul decreto di esproprio, che, pertanto, resta
travolto, come tutti gli altri atti della procedura
espropriativa, senza necessità della loro impugnativa.
Si invera, cioè, un effetto automaticamente caducante,
derivante dalla invalidità degli atti presupposti, senza che
si possa configurare a carico della parte interessata un
onere di impugnazione del decreto finale di esproprio.
---------------
6.- Ad ogni buon fine, anche a volere –in tesi– aderire alla
difesa attorea radicata all’insussistenza di un
controinteressato in materia espropriativa, il ricorso deve
ritenersi, comunque, inammissibile anche per mancata
impugnazione della dichiarazione di pubblica utilità nel
termine di decadenza.
6.1.- Gioverà ricordare che parte ricorrente, con la memoria
finale, al fine di neutralizzare l’eccezione di
inammissibilità del ricorso per tardiva impugnazione della
d.p.u., ha rimarcato che “non ha denunciato
l’illegittimità della dichiarazione di pubblica utilità si
da imporre l’impugnazione del provvedimento nei termini
prescritti dall’art. 29 del CPA… (bensì) ha evidenziato
l’inefficacia ex lege della dichiarazione di p.u. per
l’insussistenza a monte di un efficace vincolo espropriativo
e, comunque, la sua sopravvenuta inidoneità a costituire
presupposto legittimante l’adozione del decreto di esproprio
per decorso del termine quinquennale prescritto dall’art.
13, comma 4, del Testo Unico”.
E ciò in quanto sarebbe scaduta sia la dichiarazione di
pubblica utilità, contenuta nella deliberazione consiliare
n. 103 del 17.12.1996 di approvazione del Piano di
lottizzazione della Maglia C1-n. 16, per decorso del
decennio ex art. 28 l. n. 1150/1942; sia la d.p.u. di cui
alla successiva deliberazione giuntale n. 124 del
14.07.2005, essendo decorso, ai sensi del combinato disposto
dei commi 4 e 6 dell’art. 13 dpr n. 327/01, il quinquennio
entro il quale deve essere adottato il decreto di esproprio;
non risultando utile a tal fine la determinazione
dirigenziale n. 585 del 29.04.2014 di approvazione del
progetto esecutivo, non potendo la d.p.u. essere ricollegata
a siffatto livello di approfondimento, risultando detta
determina anche priva degli elementi essenziali a valere
quale d.p.u. (estremi dell’atto impositivo del vincolo
preordinato all’esproprio ex art. 17 dpr 327/2001;
indicazione dei termini iniziali e finali per l’avvio ed il
compimento dei lavori e delle occupazioni).
L’abile difesa attorea, per quanto pregevolmente costruita,
non risulta condivisibile.
6.2.- Nell’impianto normativo dell’espropriazione per
pubblica utilità così come configurata dal Dpr n. 327/2001,
la dichiarazione di pubblica utilità (d.p.u), disciplinata
dall’art. 12, pur differenziandosi dalla d.p.u. disciplinata
dalla legge n. 2359 del 1865, sostanzialmente rappresenta il
necessario presupposto del decreto di esproprio, tale per
cui il riconoscimento dell’assenza di una valida
dichiarazione di pubblica utilità o il suo annullamento in
sede giurisdizionale ha un effetto caducante e non meramente
viziante sul decreto di esproprio, che, pertanto, resta
travolto, come tutti gli altri atti della procedura
espropriativa, senza necessità della loro impugnativa (ex
multis Cons. St. Sez. IV 03.10.2012 n. 5189).
Si invera, cioè, un effetto automaticamente caducante,
derivante dalla invalidità degli atti presupposti, senza che
si possa configurare a carico della parte interessata un
onere di impugnazione del decreto finale di esproprio (Cons.
Stato Sez. IV 29.01.2008 n. 258; idem 30.12.2003 n. 9155 e
30.06.2003 n. 3896) (TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 01.02.2019 n. 155 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
La rimozione delle determinazioni che ab origine hanno dato l’abbrivio alla procedura ablatoria produce un effetto “domino”, con l’invalidazione
dei successivi atti del procedimento espropriativo ivi
compreso quello conclusivo, rappresentato dal decreto finale
di esproprio che viene anch’esso travolto. Si invera, in tali casi, un
effetto automaticamente caducante e non meramente viziante,
derivante dalla invalidità degli atti presupposti, senza che
si possa configurare a carico della parte interessata un
onere di impugnazione del decreto finale di esproprio.
Sulla base di tale esegesi, non può essere sic et
simpliciter condivisa la prospettazione dell’appellante secondo cui
il decreto di esproprio, seppure atto consequenziale alla
dichiarazione di pubblica utilità, sarebbe sempre dotato di
una sua precisa autonomia e lesività, in quanto segna la
conclusione del procedimento ed è in grado di realizzare il
definitivo trasferimento del titolo di proprietà.
Va da sé, peraltro, che l’adozione di un decreto di
esproprio in pendenza di un giudizio di impugnazione dei
suoi atti presupposti, in quel momento efficaci, potrebbe
condurre, anche dopo un considerevole intervallo di tempo,
al travolgimento del decreto stesso a seguito
dell’annullamento degli atti a “monte”, per cui tale
efficacia caducante, e non meramente viziante, può inverarsi
solo in ragione di un rigoroso ed esaustivo accertamento del
nesso di presupposizione necessaria che deve sussistere tra
gli atti annullati e quelli “travolti” a prescindere da una
loro impugnazione, atteso che, viceversa, si avrebbe
un’ingiustificata violazione dell’onere di tempestiva
impugnazione dei provvedimenti amministrativi nei termini decadenziali, posto a presidio della acquisizione di una
sollecita certezza in ordine alle situazioni giuridiche
afferenti l’esercizio del potere pubblico.
La presupposizione necessaria cui va ricondotta la figura
dell’invalidità derivata con effetto caducante sull’atto a
“valle” si ravvisa nelle ipotesi in cui gli atti annullati
in sede giurisdizionale costituiscono il presupposto unico
ed imprescindibile dei successivi atti che, in quanto tali,
sono meramente consequenziali.
---------------
3.3.5. La giurisprudenza di questa Sezione ha già avuto modo
di porre in rilievo che la rimozione delle determinazioni
che ab origine hanno dato l’abbrivio alla procedura ablatoria produce un effetto “domino”, con l’invalidazione
dei successivi atti del procedimento espropriativo ivi
compreso quello conclusivo, rappresentato dal decreto finale
di esproprio che viene anch’esso travolto (cfr., ex multis,
Cons. Stato, IV, 4193 del 2015 e Cons. Stato, IV, 5189 del
2012). Si invera, in tali casi, un effetto automaticamente caducante e non
meramente viziante, derivante dalla
invalidità degli atti presupposti, senza che si possa
configurare a carico della parte interessata un onere di
impugnazione del decreto finale di esproprio (cfr., altresì,
Cons. Stato, IV, 29.01.2008 n. 258; idem 30.12.2003, n. 9155 e 30.06.2003, n. 3896).
Sulla base di tale esegesi, non può essere sic et
simpliciter condivisa la prospettazione dell’appellante -pur basata sul fondamentale principio della esigenza di
certezza delle situazioni e dei rapporti giuridici, cui è
ispirata la previsione del termine decadenziale di
impugnativa dei provvedimenti amministrativi- secondo cui
il decreto di esproprio, seppure atto consequenziale alla
dichiarazione di pubblica utilità, sarebbe sempre dotato di
una sua precisa autonomia e lesività, in quanto segna la
conclusione del procedimento ed è in grado di realizzare il
definitivo trasferimento del titolo di proprietà.
Va da sé, peraltro, che l’adozione di un decreto di
esproprio in pendenza di un giudizio di impugnazione dei
suoi atti presupposti, in quel momento efficaci, potrebbe
condurre, anche dopo un considerevole intervallo di tempo,
al travolgimento del decreto stesso a seguito
dell’annullamento degli atti a “monte”, per cui tale
efficacia caducante, e non meramente viziante, può inverarsi
solo in ragione di un rigoroso ed esaustivo accertamento del
nesso di presupposizione necessaria che deve sussistere tra
gli atti annullati e quelli “travolti” a prescindere da una
loro impugnazione, atteso che, viceversa, si avrebbe
un’ingiustificata violazione dell’onere di tempestiva
impugnazione dei provvedimenti amministrativi nei termini decadenziali, posto a presidio della acquisizione di una
sollecita certezza in ordine alle situazioni giuridiche
afferenti l’esercizio del potere pubblico.
La presupposizione necessaria cui va ricondotta la figura
dell’invalidità derivata con effetto caducante sull’atto a
“valle” si ravvisa nelle ipotesi in cui gli atti annullati
in sede giurisdizionale costituiscono il presupposto unico
ed imprescindibile dei successivi atti che, in quanto tali,
sono meramente consequenziali (cfr., in argomento, ex multis,
Cons. Stato, VI, 20.03.2018, n. 1777; Cons. Stato, II,
parere del 27.08.2014, n. 2957) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 21.01.2019 n. 510 - link a
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anno 2018 |
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ESPROPRIAZIONE: Decreto
di esproprio pronunciato al di là dei
termini della dichiarazione di pubblica
utilità.
Il decreto di esproprio
pronunciato al di là dei termini della
dichiarazione di pubblica utilità non può
considerarsi nullo, ma deve qualificarsi
come illegittimo, con conseguente necessità
d’impugnazione entro i termini di decadenza.
Invero, “laddove esista una norma
attributiva del potere di emettere l'atto
autoritativo, ma questo venga emanato senza
rispettare i presupposti previsti da essa
per la corretta esplicazione del potere
conferito, si configuri una violazione di
legge. Questa sussiste tutte le volte in cui
venga violata una qualsivoglia regola posta
dall'ordinamento giuridico e va qualificata
quale vizio di legittimità dell'atto
amministrativo unitamente ed al pari
dell'incompetenza o dell'eccesso di potere.
La previsione, ex art. 13 della l.
25.06.1865 n. 2359, di termini per
l'emanazione del decreto di esproprio,
configura un precetto posto dalla legge ed
indirizzato all'amministrazione pubblica al
fine di porre un vincolo alla
discrezionalità dei suoi poteri.
La sua violazione, pertanto, va qualificata
come violazione di legge ossia come vizio di
legittimità dell'atto amministrativo. Se il
mancato rispetto dei presupposti a cui la
norma riconnette la corretta esplicazione
del potere configura un vizio di legittimità
dell'atto e la previsione dei termini ex
art. 13 cit. altro non è se non presupposto
per la legittima esplicazione del potere, è
evidente che il precipitato logico del
ragionamento seguito consiste nella
qualificabilità della violazione dei termini
fissati per l'emanazione del decreto di
esproprio quale vizio dell'atto da farsi
valere negli ordinari termini decadenziali,
pena la inoppugnabilità dello stesso ed il
divieto, per il Giudice Amministrativo, di
disapplicazione”.
---------------
Il ricorso è in parte infondato e in parte
irricevibile.
Dato per pacifico tra le parti –oltre agli
ulteriori fatti sopra specificati- che il
decreto di esproprio di data 01.03.1999 è
stato assunto tardivamente rispetto ai
termini indicati nella dichiarazione di
pubblica utilità del 20.10.1992, si osserva
che non può trovare accoglimento la domanda
di accertamento della nullità del suddetto
decreto.
Non ignora il Collegio l’esistenza di alcune
pronunce che affermano che il decreto di
esproprio, ove emesso oltre la scadenza del
termine finale per il completamento della
procedura espropriativa, debba essere
dichiarato tardivo e tamquam non esset
(TAR Lazio, Latina, sez. I, 12.05.2015, n.
383), ma ritiene di aderire al consolidato
orientamento giurisprudenziale –dal quale
non sussistono valide ragioni per
discostarsi- secondo cui, al contrario, il
decreto di esproprio pronunciato al di là
dei termini della dichiarazione di pubblica
utilità non può considerarsi nullo, ma deve
qualificarsi come illegittimo, con
conseguente necessità d’impugnazione entro i
termini di decadenza (ex multis,TAR
Campania, Napoli, sez. V, 23.01.2016, n.
1494).
Invero, come è stato con divisibilmente
osservato, “laddove esista una norma
attributiva del potere di emettere l'atto
autoritativo, ma questo venga emanato senza
rispettare i presupposti previsti da essa
per la corretta esplicazione del potere
conferito, si configuri una violazione di
legge. Questa sussiste tutte le volte in cui
venga violata una qualsivoglia regola posta
dall'ordinamento giuridico e va qualificata
quale vizio di legittimità dell'atto
amministrativo unitamente ed al pari
dell'incompetenza o dell'eccesso di potere.
La previsione, ex art. 13 della l.
25.06.1865 n. 2359, di termini per
l'emanazione del decreto di esproprio,
configura un precetto posto dalla legge ed
indirizzato all'amministrazione pubblica al
fine di porre un vincolo alla
discrezionalità dei suoi poteri. La sua
violazione, pertanto, va qualificata come
violazione di legge ossia come vizio di
legittimità dell'atto amministrativo. Se il
mancato rispetto dei presupposti a cui la
norma riconnette la corretta esplicazione
del potere configura un vizio di legittimità
dell'atto e la previsione dei termini ex
art. 13 cit. altro non è se non presupposto
per la legittima esplicazione del potere, è
evidente che il precipitato logico del
ragionamento seguito consiste nella
qualificabilità della violazione dei termini
fissati per l'emanazione del decreto di
esproprio quale vizio dell'atto da farsi
valere negli ordinari termini decadenziali,
pena la inoppugnabilità dello stesso ed il
divieto, per il Giudice Amministrativo, di
disapplicazione” (in tal senso TAR
Calabria, Reggio Calabria, 12.05.2008, n.
248, espressamente richiamata da TAR Puglia,
Bari, sez. III, 06.04.2017, n. 375; nello
stesso senso anche Consiglio di Stato, sez.
IV, 18.11.2016, n. 4799; TAR Umbria,
21.04.2015, n. 189; TAR Lazio, Roma, sez.
II-bis, 04.03.2015, n. 3710; TAR Sicilia,
Palermo, sez. I, 28.02.2013, n. 453).
La domanda di accertamento della nullità del
decreto di esproprio va, dunque,
respinta.(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 29.11.2018 n. 1130 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Possibilità di abdicare al diritto di proprietà di un fondo
occupato ma poi non espropriato.
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Espropriazione per pubblica utilità – Occupazione –
Omessa espropriazione – Abdicazione diritto di proprietà –
Esclusione.
Il privato il cui fondo sia stato
occupato per la realizzazione di un’opera pubblica o di
pubblica utilità e che poi non sia stato espropriato nelle
forme legislativamente previste, non può unilateralmente
abdicare al diritto di proprietà vantato sul fondo medesimo
(1).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che alla base di tale conclusione ci sono
due ordini di ragioni.
Va rilevato, in primo luogo, che l’art. 42-bis, d.P.R.
08.06.2001, n. 327 consente di regolarizzare le predette
occupazioni illegittime mercé l’adozione del c.d. “decreto
di acquisizione sanante”, e tanto con riferimento a
qualsiasi fattispecie di occupazione illegittima, futura o
passata, sia essa connotata, o meno, da una rinuncia
abdicativa del privato; inoltre, non è prevista la
possibilità che il “decreto di acquisizione sanante”
abbia come destinatario un soggetto diverso dal proprietario
del fondo occupato né che esso possa avere effetti diversi
da quelli traslativi della proprietà.
L’art. 42-bis, d.P.R. n. 327 del 2001, in definitiva,
sottende che il bene immobile illegittimamente occupato per
la realizzazione di un’opera di pubblica utilità rimane
sempre di proprietà del soggetto che risulta esserne
proprietario al momento della occupazione, fino a che la
proprietà venga ceduta alla amministrazione occupante (o a
terzi) nei modi previsti dalla legge. Pertanto si può
affermare che l’art. 42-bis, d.P.R. n. 327 del 2001 ha
definitivamente certificato l’impossibilità per il privato
di rinunciare unilateralmente al diritto di proprietà di un
fondo illegittimamente occupato per scopi di pubblica
utilità
In secondo luogo, ed a prescindere dalle considerazioni che
possono trarsi dalla disciplina specifica afferente le
occupazioni illegittime per causa di pubblica utilità, va
rilevato che nel nostro ordinamento giuridico la rinunzia
abdicativa (e non traslativa) ad un diritto reale può
ritenersi consentita solo nei casi tipici previsti dal
codice civile, tra i quali non è inclusa la rinunzia
abdicativa al diritto di proprietà esclusiva su bene
immobile: una tale rinunzia, pertanto, non può essere
validamente esercitata né tramite atto unilaterale espresso,
ancorché rogato da notaio, né implicitamente, mediante
domanda giudiziale tendente al riconoscimento
dell’equivalente monetario del bene immobile oggetto della
rinunzia abdicativa.
Diversamente opinando –e cioè ammettendo che il privato
possa abdicare unilateralmente alla proprietà di un bene
immobile, occupato o meno per scopi di pubblica utilità- si
perviene a risultati paradossali ed estremamente dannosi per
la finanza pubblica.
A livello generale va rilevato che la rinunzia abdicativa
alla proprietà esclusiva di beni immobili renderebbe i beni
stessi privi di proprietario e, come tali, devoluti al
patrimonio dello Stato ai sensi dell’art. 827 c.c.: per
effetto di ciò lo Stato diventerebbe proprietario di un
numero indefinito di beni immobili con riferimento ai quali
dovrebbe assicurare la custodia e la manutenzione, rimanendo
contestualmente privato del relativo gettito tributario:
tali effetti, di tutta evidenza estremamente gravosi per le
finanze dello Stato, si produrrebbero ex lege ed a
prescindere dalla conoscenza effettiva che lo Stato abbia
dell’acquisto della proprietà di immobili per effetto di
rinunzia abdicativa.
Con riferimento specifico alla occupazione illegittima di
fondi finalizzata alla realizzazione di opere di pubblica
utilità, premesso e ricordato che risulta ormai
completamente superato l’insegnamento pretorio secondo il
quale il privato perderebbe la proprietà del bene immobile
occupato per scopi di pubblica utilità quale effetto della
trasformazione impressa dalla attività manipolatrice della
amministrazione occupante, e rammentato altresì che in
giurisprudenza –soprattutto quella amministrativa– si è
progressivamente consolidato il principio secondo cui la
restituzione del bene al privato deve ritenersi sempre
possibile, e doverosa, perché in realtà nulla, se non
fattori di natura meramente economica, impedisce il
ripristino del bene allo stato originario e la restituzione
di esso, si deve constatare che:
a) non si giustifica (più) la corresponsione, al privato, del
risarcimento del danno commisurato al valore venale del bene
immobile, stante che tale bene non è estinto e viene
restituito al legittimo proprietario, virtualmente
arricchito del valore dell’opera pubblica che su di esso è
stata realizzata, che il privato volendo può ritenere e
sfruttare;
b) ammettendo che il privato, il cui bene sia stato
illegittimamente occupato per scopi di pubblica utilità,
possa unilateralmente rinunziare, a titolo “abdicativo”
(e non “traslativo”) alla proprietà del bene
medesimo, condizionando tale rinunzia al risarcimento del
danno commisurato al valore venale di esso, si ha che
l’amministrazione “occupante” rimane gravata
dell’onere di corrispondere un risarcimento privo (ormai) di
valida giustificazione giuridica e pur senza divenire
proprietaria del fondo sul quale ha realizzato l’opera di
pubblica utilità (giacché l’unico effetto immediato della
rinunzia “abdicativa” consiste nella dismissione del
bene dal patrimonio del privato, la cui proprietà sarebbe
semmai devoluta allo Stato ai sensi dell’art. 827 c.c.)
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 28.03.2018 n. 368
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
1. La ricorrente era proprietaria in Comune di Cherasco
di un terreno di circa 1.200 mq censito al locale Catasto
terreni al Foglio 8, mapp. 93, avente destinazione agricola.
2. Il terreno in questione è adiacente alla strada “frazione
Veglia”, in relazione alla quale il Comune di Cherasco, con
delibera della Giunta municipale n. 118 del 28/08/2007, ha
approvato un progetto esecutivo per la realizzazione di
lavori di ampliamento e sistemazione, provvedendo dipoi a
contattare tutti i proprietari interessati per verificare la
possibilità di addivenire a cessione bonaria: tra essi anche
la ricorrente, il cui fondo sopra indicato è adiacente alla
strada comunale e del quale in base al progetto esecutivo il
Comune doveva acquisire una porzione.
3. Nel frangente la ricorrente ha firmato una sorta di
pre-accordo con il quale dimostrava la disponibilità alla
cessione gratuita “per l’asservimento dell’area necessaria
ad ampliare la strada fino ad ottenere una larghezza
dell’asfalto a 6 metri. La proprietaria richiede che in
occasione della prossima variante al PRGC venga inserita la
possibilità di realizzare un piccolo fabbricato
residenziale”, possibilità fino a quel momento non esistente
attesa la destinazione agricola del fondo.
4. Accordi bonari sono stati stipulati dal Comune anche con
gli altri proprietari, come risulta dalla delibera di Giunta
Municipale impugnata, n. 13 del 24.01.2008, oggetto di
gravame, nella quale vengono anche esplicitati i criteri di
indennizzo e laddove, nella lista dei proprietari
interessati, accanto al nome della ricorrente non è indicato
alcun indennizzo.
5. L’Amministrazione, senza dover disporre l’occupazione
d’urgenza degli immobili, ha quindi preso possesso delle
aree necessarie, ha iniziato i lavori nel febbraio 2008 e li
ha terminati nel settembre 2009.
6. Dopo di ciò, constatata l’effettiva superficie occupata a
danno di ciascuno dei proprietari interessati, il Comune ha
determinato le relative indennità di espropriazione: la
ricorrente, tuttavia, secondo quanto il Comune ha riferito
nella nota di chiarimenti acquisita in corso di causa, in
realtà non è mai stata contattata a tale scopo poiché
l’Amministrazione riteneva che essa avesse acconsentito alla
cessione a titolo gratuito.
7. Il decreto di esproprio, con riguardo al fondo della
ricorrente, non è mai stato emesso né è stato stipulato
alcun atto comportante traslazione della proprietà.
8. La ricorrente nel 2009, a lavori ultimati, tramite il
proprio difensore ha formulato richiesta di restituzione del
fondo o, in difetto, di risarcimento del danno: ne è seguita
una trattativa che non è andata a buon fine.
9. La ricorrente si è pertanto indotta ad impugnare la
delibera di Giunta n. 13 del 24.01.2008, che essa
asserisce di aver conosciuto solo nel 2010, lesiva nella
misura in cui non riconosce ad essa alcun indennizzo:
nell’atto introduttivo del giudizio essa ha pertanto chiesto
al Tribunale di annullare la delibera medesima e, in via
risarcitoria, di “accertare e dichiarare tenuta
l’Amministrazione comunale alla reintegrazione in forma
specifica del danno patito dalla ricorrente con conseguente
restituzione della parte di terreno acquisita dal Comune di Cherasco senza titolo, ovvero, in subordine, condannare
l’Amministrazione al risarcimento del danno per equivalente
monetario in misura non inferiore ad E. 5848,00 oltre
interessi dal giorno della occupazione illegittima al saldo,
oltre alla rivalutazione monetaria.”
10. Nessuno si è costituito in giudizio per il Comune di
Cherasco.
11. Con atto depositato il 07.04.2011 la ricorrente,
premesso di aver ricevuto dalla Amministrazione comunale una
comunicazione nella quale si faceva presente che
l’occupazione del terreno della signora Ta. era
legittima, che essa aveva manifestato la disponibilità a
cederlo gratuitamente, che la richiesta formulata dalla
medesima risultava eccessiva e che peraltro il Comune era
disponibile ad acquistare l’appezzamento di 90 mq. di
proprietà della medesima, utilizzato per l’ampliamento della
strada, al prezzo di Euro 2,74 mq., tanto premesso la
signora Ta. ha dichiarato di rinunciare alla domanda di
annullamento dell’atto impugnato, insistendo solo per le
domande risarcitorie.
12. Il ricorso è stato chiamato alla pubblica udienza del 25.01.2017, allorché il Collegio ha chiesto alla
Amministrazione di depositare una nota di chiarimenti,
adempimento al quale il Comune ha provveduto: dalla nota
risulta quanto sopra riferito nonché il fatto che con rogito
dell’11.10.2011 la ricorrente ha venduto la restante
parte del fondo interessato dall’esproprio, per una
superficie di 1.117 mq.. La ricorrente, peraltro, ha
prodotto in giudizio copia dell’atto di vendita, dal quale
risulta che il corrispettivo pattuito per la vendita è pari
ad Euro 4.500,00, corrispondente ad E. 4,02 al mq.
13. Il ricorso è quindi tornato per la discussione del
merito alla pubblica udienza del 07.06.2017, allorché è
stato introitato a decisione.
14. Il Collegio ritiene preliminarmente di dover precisare
che, limitatamente alla domanda di annullamento, esso va
dichiarato improcedibile per sopravvenuto difetto di
interesse, per quanto dichiarato da parte ricorrente
nell’atto depositato il 07.04.2011.
15. Resta da decidere la domanda risarcitoria, in relazione
alla quale il Collegio deve pregiudizialmente verificare la
propria giurisdizione, tenuto conto del fatto che viene in
considerazione una ipotesi di occupazione di terreno privato
non assistita da decreto di esproprio o decreto che ha
disposto la occupazione d’urgenza, finalizzata però alla
realizzazione di un’opera pubblica.
15.1. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, già con
sentenza n. 2688/2007, hanno affermato il principio, in
seguito sempre ribadito (si veda ancora la pronuncia di
Cassazione civile, sez. un., 23/03/2015, n. 5744), secondo
cui “In materia espropriativa, sussiste la giurisdizione del
Giudice Amministrativo nei casi in cui l’occupazione e la
irreversibile trasformazione del fondo siano avvenute anche
in assenza o a seguito dell’annullamento del decreto di
esproprio ma in presenza di una dichiarazione di pubblica
utilità, anche se questa sia poi stata annullata in via
giurisdizionale o di autotutela (c.d. occupazione usurpativa
spuria), mentre spetta al Giudice Ordinario la
giurisdizione nei casi in cui l’occupazione e la
irreversibile trasformazione del fondo siano avvenute in
assenza della dichiarazione di pubblica utilità e nelle
ipotesi di sopravvenuta inefficacia della dichiarazione di
pubblica utilità (fattispecie di c.d. occupazione usurpativa
pura”.
Nel caso che occupa l’Amministrazione comunale ha
approvato il progetto esecutivo di ampliamento e
sistemazione della strada con delibera di Giunta Municipale
del 28.08.2007, e tale progetto, ai sensi dell’art. 12,
comma 1, lett. a), del D.P.R. n. 327/2001, equivale a
dichiarazione di pubblica utilità dell’opera. Inoltre, ai
sensi di quanto previsto dal combinato disposto dei comma 3
e 6 dell’art. 13 del D.P.R. 327/2001, la dichiarazione di
pubblica utilità ha una efficacia di cinque anni, dal che
consegue che le opere realizzate nel predetto periodo di
tempo debbono ritenersi assistite da una valida
dichiarazione di pubblica utilità.
15.2. Nel caso di specie i lavori sono iniziati nel 2008 e
portati a termine nel 2009: pertanto si versa certamente in
una ipotesi di occupazione “appropriativa”, e non già
“usurpativa”, con conseguente sussistenza della
giurisdizione del Giudice Amministrativo sulla domanda
risarcitoria formulata da parte ricorrente, la quale nella
memoria depositata il 22.12.2016 ha precisato le
conclusioni chiedendo il riconoscimento del danno:
a)
rapportato al periodo di illegittima occupazione del terreno
e da quantificarsi in misura corrispondente agli interessi
legali sul valore del bene;
b) all’equivalente del valore
della porzione di terreno illegittimamente occupata: sul
punto parte ricorrente invoca espressamente l’insegnamento
di cui alla pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione n. 735/2015, secondo la quale la perdita della
proprietà di un bene, a carico di un privato, può
verificarsi anche in dipendenza della c.d. rinunzia abdicativa al diritto dominicale, rinunzia che può anche
ravvisarsi mediante la richiesta di tutela risarcitoria.
16. Prima di passare alla disamina del
merito delle domande formulate dalla ricorrente, il Collegio ritiene opportuno
ripercorrere, sia pure per sommi capi, la giurisprudenza
venutasi a formare nel corso degli ultimi decenni con
riferimento alla sorte della proprietà dei fondi privati
occupati da una pubblica amministrazione per la
realizzazione di opere di pubblica utilità, con riferimento
ai casi in cui detta occupazione non sia stata seguita dalla
emissione, nei termini di legge, del decreto di esproprio.
16.1. Con la storica sentenza della Corte di Cassazione n.
1464/1983 si inaugurò l’orientamento giurisprudenziale che
annetteva alla irreversibile e totale trasformazione di un
fondo connessa alla realizzazione di un’opera di pubblica
utilità la acquisizione della proprietà del sedime
interessato in capo alla Pubblica Amministrazione
committente tale opera. Detto istituto, di pura creazione
pretoria, è stato denominato nel corso del tempo prima
accessione invertita e poi occupazione acquisitiva o
appropriativa o espropriativa; esso si fondava, secondo
l’originario disegno di cui alla sentenza delle Sezioni
Unite n. 1464/1983, poi confermato dalla sentenza, sempre
delle Sezioni Unite, n. 12546 del 1992, sulla constatazione
che laddove la realizzazione di un’opera pubblica implichi
una irreversibile trasformazione del fondo privato,
l’originario diritto di proprietà sullo stesso viene
totalmente svuotato e dunque si estingue; contestualmente la
azione manipolatrice-distruttrice della Amministrazione crea
un quid novi di cui la Amministrazione medesima acquista la
proprietà a titolo originario, con esclusione, dunque, di
una fattispecie di tipo traslativo; al proprietario privato
del suo diritto per effetto della azione
manipolatrice-distruttrice della Amministrazione, è dovuto
un risarcimento del danno.
16.2. Nel contesto di questo orientamento il titolo in base
al quale la Amministrazione acquisiva la proprietà del bene
risultante dalla sua azione manipolatrice/distruttrice del
fondo privato, non è sempre stato individuato in modo
univoco: dall’originario richiamo all’istituto della
accessione di cui all’art. 938 c.c., effettuato nella
ricordata sentenza delle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione, la Giurisprudenza è poi passata attraverso il
richiamo all’istituto della usucapione, alla tesi
dell’attrazione dell’opera al regime dei beni pubblici per
giungere a fondare l’acquisto della proprietà del fondo e
dell’opera pubblica sullo stesso realizzata in virtù del
collegamento tra l’opera e la dichiarazione di pubblica
utilità. Allo stesso modo non era univocamente individuata
la causa della perdita del diritto di proprietà in capo al
privato, che infatti già la sentenza della Corte di
cassazione, Sez. II, n. 3872 del 04.04.1987 affermava
permanere, nonostante l’irreversibile trasformazione ed
utilizzazione del bene, sino a che il privato non avesse
chiesto a titolo risarcitorio il valore integrale
dell’immobile, esprimendo in tal modo la volontà di
abbandonare il diritto di proprietà del suolo in favore
dell’occupante.
16.3. Si deve ricordare, peraltro, che a partire dalla metà
degli anni Novanta la Cassazione (Sez. I n. 12841 del
15.12.1995; SS.UU. n. 1907 del 4.3.1997; n. 148 del
10.01.1998), anche per il fatto che l’art. 5-bis della L.
359/1992 fissava l’indennizzo per le occupazioni illegittime
“per causa di pubblica utilità”, ha cominciato a distinguere
i casi in cui la attività manipolatrice del fondo privato,
da parte della amministrazione, risultava assistita da una
precedente dichiarazione di pubblica utilità dell’opera e
quelli in cui una tale dichiarazione mancava ab origine o
era venuta meno successivamente, stabilendo che in questa
seconda fattispecie, poi denominata “occupazione
usurpativa”, non sussistevano gli estremi per ritenere
operante il meccanismo acquisitivo del bene realizzato dalla
amministrazione, che non poteva dirsi rispondente a fini
pubblici; conseguentemente e correlativamente neppure si
verificava l’effetto estintivo del diritto di proprietà del
privato, che poteva chiedere la restituzione del bene.
Con
riferimento alle fattispecie in esame, allora, la perdita
della proprietà in capo al privato si determinava non per
effetto dello “svuotamento” del diritto bensì per effetto
della (eventuale) domanda risarcitoria con la quale il
privato chiedeva di essere risarcito del valore del terreno,
stante che una simile domanda conteneva e comportava una
implicita rinuncia al diritto dominicale con valenza
meramente abdicativa e non traslativa del diritto, dovendosi
conseguentemente escludere che effetto automatico di tale
rinuncia fosse costituito dall’acquisto del fondo in capo
all’ente pubblico occupante (Cass. Civ. Sez. I n. 9173 del
03.05.2005, che ha escluso -essendo la rinuncia alla
proprietà atto abdicativo e non traslativo- che vi fosse
contraddizione tra le statuizioni del giudice di merito di
riconoscere, per un verso, al proprietario il risarcimento
integrale per la perdita della proprietà e di negare, per
altro verso, l'acquisizione della proprietà stessa in capo
all'ente pubblico occupante; Cass. Civ. Sez. I n. 184 del
18.02.2000; n. 6515 del 16.07.1997).
Ed in tal caso il
risarcimento, proprio perché non collegato alla necessità di
realizzare una finalità pubblica, doveva essere liquidato
secondo i criteri ordinari, e non secondo i criteri indicati
dall’art. 5-bis della L. 359/1992, avuto riguardo alla
circostanza che la avvenuta realizzazione dell’opera
pubblica da parte della amministrazione occupante comportava
una tale ed irreversibile trasformazione del fondo da far
ritenere di fatto il bene originario irrecuperabile: si
legge infatti nella storica sentenza della Suprema Corte n.
1907/1997 che “poiché la valenza restitutoria dell'azione
del privato potrebbe trovare ostacolo o nell'eccessiva
onerosità di essa per il debitore (art. 2058, comma 2, c.c.)
o nel pregiudizio per l'economia nazionale (art. 2933, comma
2 c.c.) come espressamente rilevano le S.U. nella sentenza
3963/89, o essere irragionevolmente antieconomica a cagione
della irreversibilità -anche soltanto materiale- della
trasformazione del fondo, non si vede perché il privato non
dovrebbe essere ammesso a formulare la sua pretesa in
termini di risarcimento del danno per la perdita del bene”.
E’ dunque importante sottolineare e ricordare, ai fini di
quanto infra si dirà, che storicamente la ragione per cui al
privato è stata riconosciuta la possibilità di chiedere, in
caso di occupazione non preceduta da valida dichiarazione di
pubblica utilità, una tutela risarcitoria per equivalente
commisurata al valore venale del bene, anziché la sola
tutela restitutoria, riposa sul fatto che in allora la
giurisprudenza riteneva che la manipolazione del bene
connessa alla realizzazione dell’opera da parte della
Amministrazione pubblica ne comportasse la inutilizzabilità,
e quindi, in sostanza, la perdita.
16.4. Il ricordato orientamento giurisprudenziale si è
consolidato ed ha trovato costante applicazione per circa un
ventennio, durante il quale il legislatore non è mai
intervenuto riconoscendo esplicitamente ed in via generale,
alla fattispecie in esame, valenza acquisitiva della
proprietà del bene in favore della Amministrazione
“occupante” e tanto meno valenza estintiva del diritto di
proprietà del privato.
16.4.1. Con l’art. 3 della legge n. 458/1988, il legislatore
ha riconosciuto che “il proprietario del terreno utilizzato
per finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata e
convenzionata, ha diritto al risarcimento del danno causato
da provvedimento espropriativo dichiarato illegittimo con
sentenza passata in giudicato, con esclusione della
retrocessione del bene”; l’art. 11, comma 5 e 7, della L.
413/1991 ha stabilito che il risarcimento conseguito dal
privato in dipendenza di “occupazioni illegittime”, concorre
alla formazione del reddito imponibile ai fini IRPEF; l’art.
10 del D.L. 444/1995 ha previsto per gli enti locali e loro
consorzi la possibilità di chiedere mutui alla Cassa
Depositi e Prestiti “a copertura dei maggiori oneri
ricadenti sui bilanci………… in dipendenza dell'acquisizione di
aree per la realizzazione di opere di urbanizzazione
primaria e secondaria e di altre opere pubbliche dichiarate
di pubblica utilità..”; l’art. 3, comma 6, della L. 662/1996
ha introdotto nel corpo dell’art. 5-bis del D.L. 333/1992,
convertito nella L. 359/1992, il comma 7-bis, che per la prima
volta ha legislativamente disciplinato in via generale il
risarcimento del danno dovuto al privato proprietario in
dipendenza da “occupazioni illegittime”, disponendo che esso
dovesse computarsi in ragione della media tra il valore
venale del bene ed il coacervo del reddito dominicale degli
ultimi dieci anni, maggiorato del 10%.
16.4.2. Ebbene: nessuna delle dianzi ricordate disposizioni
menziona esplicitamente l’acquisizione della proprietà del
sedime in capo alla Amministrazione “occupante” e
l’estinzione del diritto di proprietà del privato quali
effetti della fattispecie complessa risultante dalla
occupazione del fondo privato, dalla illecita trasformazione
dello stesso conseguente alla realizzazione di un’opera di
pubblica utilità e dalla concorrente richiesta del privato
di essere risarcito del valore del bene, da quegli non più
utilizzabile; né, tampoco, le dianzi citate norme collegano
il diritto del privato a conseguire il “risarcimento del
danno” ad una manifestazione dello stesso di “abdicare” alla
proprietà vantata sul fondo illegittimamente occupato per la
realizzazione di un’opera di pubblica utilità.
Ancora va
sottolineato che tutte le ricordate norme –le quali, se il
Collegio non è in errore, esauriscono il panorama delle
norme che in qualche modo alludono alle fattispecie in
argomento- non danno una chiara definizione del concetto di
“occupazione illegittima” e non contengono una organica
disciplina dell’istituto: sul punto merita sottolineare che
anche l’art. 3 della L. 458/1988, nel riconoscere il diritto
del privato a conseguire il risarcimento del danno
conseguente ad una procedura espropriativa illegittima,
limita tale istituto alle sole espropriazioni finalizzate
alla realizzazione di edilizia residenziale pubblica, ed
alle ipotesi in cui sia già stato emanato un decreto di
esproprio illegittimo; nelle ipotesi divisate da tale norma,
dunque, l’acquisizione della proprietà del bene in capo alla
amministrazione espropriante si collega ad un titolo
ablativo tipico, e l’originalità della disciplina risiede
piuttosto nel fatto che alla declaratoria di illegittimità
del decreto di esproprio non ne consegue l’annullamento,
spiegandosi così la mancata retrocessione del bene,
espressamente vietata dalla norma.
La Corte di Cassazione,
per il vero, con la sentenza n. 735 del 19.01.2015 -di
cui si dirà infra–ha dato una diversa lettura della norma
in esame, affermando che essa “presuppone evidentemente che
alla trasformazione irreversibile dell'area consegua
necessariamente l'acquisto della stessa da parte chi ha
realizzato le opere”, ma come sopra precisato il Collegio
non crede che questa possa essere l’unica lettura possibile,
ritenendo invece che la mancata retrocessione –id est:
restituzione– del bene nella specie consegue non già al
fatto che esso è già stato, in precedenza, acquisito in
proprietà in capo alla p.a., quanto piuttosto al fatto che è
il legislatore a vietarlo.
16.4.2.1. Si consideri, del resto, che la stessa Corte di
Cassazione SS.UU., con la sentenza n. 12546 del 25.11.1992, ha escluso che la fattispecie disciplinata dall’art. 3
della L. 458/1988 possa riferirsi all’istituto della
occupazione appropriativa, difettando alcuni requisiti
fondamentali.
16.4.2.2. Va inoltre sottolineato che sino a che è stato in
vigore, l’art. 3 della L. 458/1988 ha sempre vietato la
retrocessione delle aree illegittimamente espropriate per
edilizia residenziale pubblica senza distinzione alcuna, e
cioè sia nei casi di occupazione acquisitiva che usurpativa:
si vuol dire, cioè, che ove fosse stato così chiaro il
meccanismo estintivo/acquisitivo disegnato dalla ricordata
giurisprudenza, il legislatore non avrebbe avuto necessità
di tenere fermi gli effetti dei “provvedimenti
espropriativi” indicati dalla norma, accertati illegittimi
con sentenza passata in giudicato, stante che in tali casi
avrebbe potuto agevolmente trovare applicazione il ricordato
orientamento, implicante comunque l’acquisto della proprietà
dell’opera pubblica e del sedime pertinenziale a favore
della Amministrazione.
Il legislatore, tra l’altro, non ha
ritenuto di dover modificare la norma neppure dopo che, a
partire dal 1997, la Corte di Cassazione ha escluso
l’operatività del meccanismo estintivo/acquisitivo alle
occupazioni “usurpative”, non assistite da valida
dichiarazione di pubblica utilità: il Collegio si domanda
allora per quale ragione il legislatore, all’indomani della
ricordata precisazione giurisprudenziale, non abbia pensato
di modificare l’art. 3 della L. 458/1988 limitando la
esclusione della retrocessione (e quindi il mantenimento in
vita dei provvedimenti espropriativi illegittimi) alle sole
occupazioni usurpative, giungendo alla conclusione che il
legislatore stesso, per il quale l’edilizia residenziale
pubblica costituiva evidentemente una assoluta priorità, ha
ritenuto che gli interessi della amministrazione non
potessero essere adeguatamente tutelati dall’istituto della
“occupazione acquisitiva”, che di fatto non ha riconosciuto.
L’art. 3 della L. 458/1988 rappresenta dunque, ad avviso del
Collegio, un indice della diffidenza e del non
riconoscimento, da parte del legislatore, dell’istituto
pretorio di cui si discorre: disconoscimento, dunque, sia
della rilevanza della azione manipolatrice della
amministrazione ai fini di determinare la estinzione del
diritto di proprietà del privato, sia della eventuale
volontà abdicativa del proprio diritto manifestata dal
privato.
16.4.3. Nella ricordata pronuncia n. 735/2015 la Suprema
Corte analizza le ulteriori norme sopra ricordate, da taluni
reputate quale indice del recepimento, da parte del
legislatore, dell’istituto della occupazione appropriativa,
giungendo a conclusioni simili a quelle testé enunciate:
l’art. 11, comma 5 e 7, della L. 413/1991 è norma a valenza
meramente fiscale; mentre l’art. 55 del D.P.R. 327/2001 -ma
le medesime considerazioni valgono anche per l’art, 5-bis
del D.L. 662/1996- è norma che “pur avendo storicamente
presupposto una occupazione acquisitiva, non richiede
necessariamente un contesto nel quale l'occupazione dia
luogo all'acquisizione del terreno alla mano pubblica con
esclusione (della) restituzione al proprietario. La norma,
infatti, prende in considerazione il risarcimento del danno
eventualmente spettante al proprietario in caso di illecita
utilizzazione del suo terreno, ma non esclude affatto la
possibilità di una restituzione del bene illecitamente
utilizzato dall'Amministrazione.
In altre parole, la
disposizione in esame, sebbene vista in passato come
copertura normativa dell'istituto creato dalla
giurisprudenza, può e deve essere letta oggi come sganciata
dall'occupazione acquisitiva e perciò come se in essa fosse
presente l'inciso "ove non abbia luogo la restituzione non
più, secondo la lettura data in precedenza, come se in essa
fosse presente l'inciso "non essendo possibile la
restituzione".
16.4.4. Di guisa che l’impressione che si trae è quella che
il legislatore, lungi dal recepire a livello di diritto
positivo l’istituto di creazione pretoria in argomento,
abbia semplicemente inteso prendere atto della esistenza
dell’orientamento giurisprudenziale che l’ha elaborato ed
abbia voluto dotare le amministrazioni pubbliche di
strumenti idonei a fronteggiare i debiti derivanti dalle
condanne risarcitorie già pronunciate relativamente a
fattispecie di “occupazioni illegittime” nonché a contenere
l’entità delle condanne future fondate sulla stessa causale,
nella consapevolezza che simili provvedimenti giudiziali
avrebbero potuto ancora intervenire: conferma della valenza
sostanzialmente “emergenziale” delle su ricordate norme si
trae, del resto, anche dalla constatazione che esse sono per
lo più contenute in testi di legge di valenza finanziaria,
con la sola eccezione della L. 458/1988, che però, come già
precisato, ha un ambito di applicazione assolutamente
limitato alla utilizzazione dei suoli per finalità di
edilizia residenziale pubblica.
16.4.5. E’ utile ancora ricordare che nella sentenza della
Corte Costituzionale n. 369/1996 -che dichiarò la
illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis, comma 6, del
D.L. 333/1992, siccome da interpretarsi, secondo il diritto in
allora vivente, nel senso che la misura della indennità di
esproprio ivi contemplata (semisomma del valore di mercato e
del reddito dominicale, con riduzione del 40%, evitabile
solo con la cessione volontaria del bene) dovesse applicarsi
sia alle espropriazioni rituali che al risarcimento del
danno dovuto in conseguenza di occupazioni illegittime– è
richiamata “la natura innegabilmente risarcitoria delle
conseguenze patrimoniali ricollegate dall'ordinamento
all'attuarsi della occupazione privativa-acquisitiva o c.d.
"accessione invertita" (che, in dipendenza della
irreversibile destinazione del suolo occupato all'opera
pubblica, spiega all'un tempo l'effetto estintivo,
dell'originario diritto di proprietà, e quello acquisitivo,
dell'immobile così trasformato, alla pubblica
amministrazione): qualificazione, che è, in tali termini,
ormai consolidata da tempo nella giurisprudenza della
Cassazione ed in quella conforme dei giudici di merito; ha
superato anche il vaglio di costituzionalità con la recente
sentenza n. 188 del 1995, ed ha trovato parallela ricezione,
infine, sul piano normativo, negli artt. 11, commi 5 e 7,
della legge 30.12.1991, n. 413, e 10, co. 3-bis, del
decreto-legge 27.10.1995, n. 444 , convertito in legge
20.12.1995, n. 539.”.
E’ opinione del Collegio che con
l’inciso in questione la Consulta ha inteso affermare che
ciò che ha trovato esplicito riconoscimento nelle norme e
precedenti giurisprudenziali citati non è l’istituto nel
complesso, ossia la valenza estintiva/acquisitiva della
azione manipolatrice della Amministrazione posta in essere
su fondi privati non ritualmente espropriati, quanto
piuttosto la sola qualificazione in termini di risarcimento
delle conseguenze patrimoniali che si determinano a favore
del privato, leso dalla trasformazione del fondo: ciò spiega
come la Corte Costituzionale abbia potuto menzionare le
norme esaminate nei paragrafi che precedono, le quali – come
si è visto - nulla dicono in ordine alla valenza
estintiva/acquisitiva delle occupazioni illegittime, tra
quelle che avrebbero recepito la qualificazione risarcitoria
delle conseguenze patrimoniali ridondanti a carico della
amministrazione responsabile della occupazione illegittima e
della successiva azione manipolatrice. Si vuol qui
sottolineare che le norme citate se incontestabilmente
alludono ad una responsabilità risarcitoria, che peraltro
non avrebbe potuto essere disconosciuta dal legislatore in
quanto per definizione generata da un comportamento
connotato da illegittimità, a prescindere dalla estinzione
del diritto di proprietà del privato, d’altro canto nulla
provano in ordine al recepimento dell’istituto da parte del
legislatore.
Quanto al richiamo alla sentenza n. 188/1995
della medesima Corte Costituzionale, osserva il Collegio che
in quella sede la Consulta era chiamata a valutare la
legittimità costituzionale dell’art. 2043 c.c. siccome
interpretato dal diritto vivente, e cioè nella misura in cui
accordava al privato proprietario, leso da una occupazione
illegittima, un risarcimento conseguente ad un illecito
istantaneo (e non permanente), soggetto pertanto ad una
prescrizione quinquennale (e non decennale, non venendo in
considerazione una obbligazione indennitaria), decorrente
dal momento in cui si verificava la irreversibile
trasformazione del fondo: la Corte Costituzionale in quella
sede si è limitata a prendere atto –conformemente al
proprio ruolo, che non è quello di interprete delle leggi–
dell’orientamento giurisprudenziale in parola, costituente
diritto vivente, dal quale ha tratto le debite conclusioni
in ordine alle caratteristiche delle conseguenze di natura
patrimoniale nascenti a favore del privato nonché in ordine
alla conformità alla Costituzione di esse.
Va sottolineato,
dunque, che anche nella sentenza n. 188/1995 la Corte
Costituzionale ha esaminato solo i profili di natura
patrimoniale che le occupazioni illegittime facevano sorgere
a favore del privato proprietario, e che, ad ogni buon
conto, Essa non ha espresso alcuna valutazione in ordine
all’essere, l’indirizzo giurisprudenziale in parola,
conforme, o meno, a Costituzione o ad altre norme
dell’ordinamento giuridico.
16.4.6. Il Collegio reputa conclusivamente che
l’orientamento giurisprudenziale dianzi esaminato -che
attribuisce alle occupazioni illegittime di fondi privati
seguite dalla realizzazione dell’opera pubblica, valenza
contestualmente estintiva del diritto di proprietà del
privato e acquisitiva di un diverso diritto a favore della
Amministrazione– ha costituito certamente diritto vivente
sino alla prima metà degli anni 2000, ma non ha ricevuto
alcun avallo diretto a livello normativo, essendo anzi
contraddetto dall’art. 3 della L. 458/1988, come sopra
interpretato.
17. Nel contesto del ricordato orientamento
giurisprudenziale si è inserito l’art. 43 del D.P.R.
327/2001, entrato in vigore il 30/06/2003, il quale
sottendeva il principio per cui il diritto di proprietà, sul
fondo illegittimamente occupato ed utilizzato per la
realizzazione di un’opera di pubblica utilità, può
estinguersi, in mancanza di decreto di esproprio o di
cessione spontanea, solo per effetto del decreto di
acquisizione contemplato dalla norma, la quale costituiva, a
livello di diritto positivo, una risposta concreta del
legislatore italiano all’orientamento assunto in materia
dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
17.1. Quest’ultima, pronunciatasi su molti casi di
occupazione acquisitiva, ha affermato che la perdita della
proprietà al di fuori di uno schema ablatorio-espropriativo
legislativamente disciplinato, pur se finalizzata a scopi di
pubblica utilità deve ritenersi illegittima in quanto non
consente al cittadino di prevedere il risultato e così di
aver contezza della vicenda, dal momento che gli effetti che
derivano dalla occupazione diventano palesi solo con la
sentenza che definisce il procedimento. Il meccanismo della
occupazione acquisitiva (o appropriativa), quindi, secondo
la Corte Europea dei Diritti Umani integra(va) una
illegittima compromissione del diritto di proprietà nonché
violazione dell’art. 1 del protocollo addizionale n. 1: in
conseguenza di ciò lo Stato è tenuto a risarcire il
cittadino leso per effetto di tale comportamento consumato
ai suoi danni, preferibilmente mediante restituzione del
bene utilizzato per scopi di pubblica utilità (sentenza
Carbonara e Ventura c. Stato Italiano), ovvero a mezzo di
risarcimento per equivalente tale da eliminare totalmente le
conseguenze subìte in esito alla occupazione illegittima.
17.2. La fermezza con la quale la Corte di Strasburgo ha
continuato a denunciare la contrarietà della occupazione
acquisitiva alla Convenzione E.D.U. ha indotto il
legislatore italiano a porre rimedio alla situazione
venutasi a creare, e tanto mediante l’introduzione, nel T.U.
Espropriazioni, dell’art. 43 sopra ricordato, il quale, sul
presupposto che la perdita della proprietà in capo al
privato non può, nelle ipotesi in esame, collegarsi se non
ad un atto di natura consensuale o autoritativa ( fatti
salvi gli effetti della usucapione ordinaria), introduceva
un meccanismo finalizzato, per così dire, a mettere ordine
in tutte quelle situazioni caratterizzate dalla sostanziale
perdita della disponibilità del bene in capo ad un privato,
a favore di una pubblica amministrazione che lo utilizzava
per scopi di pubblica utilità senza averne acquisito la
proprietà nei modi ordinari.
Così, nel sistema delineato
dall’art. 43, in presenza di determinate condizioni la
Pubblica Amministrazione “che utilizza(va) il bene” poteva
emettere il decreto di acquisizione “sanante” previsto dal
comma 1, dal quale soltanto derivava il trasferimento di
proprietà del bene a favore della Pubblica Amministrazione
procedente. E l’eventuale richiesta di restituzione del
bene, formulata dal privato in sede giudiziale, secondo
quanto esplicitamente previsto dall’art. 43 avrebbe potuto
essere bloccata solo da una richiesta della Amministrazione,
rivolta al giudice della causa, di disporre il risarcimento
del danno con esclusione della restituzione senza limiti di
tempo: in particolare, secondo quanto previsto dal comma 4
dell’art. 43, in tale eventualità “l’autorità che ha
disposto l’occupazione dell’area emana l’atto di
acquisizione, dando atto dell’avvenuto risarcimento del
danno….”.
17.3. L’art. 43 presupponeva, dunque, la perdurante
sussistenza e sopravvivenza del diritto di proprietà
privata; correlativamente l’acquisizione di esso a favore
della Amministrazione interessata era collegata unicamente
alla emissione del decreto di acquisizione sanante, al punto
che in mancanza di esso ed in conseguenza della condanna
risarcitoria il giudice della causa doveva escludere la
restituzione senza limiti di tempo. Dunque, anche la domanda
risarcitoria formulata dal privato doveva ritenersi inidonea
a determinare l’estinzione del proprio diritto, segnatamente
quale effetto di un atto di natura abdicativa.
17.4. Tali principi, già enunciati nella relazione della
Adunanza Generale del Consiglio di Stato 29/03/2001, sono
poi stati ribaditi dalla sentenza della Adunanzia Plenaria
n. 2/2005, e dipoi richiamati anche dalla sentenza della
sezione IV n. 2582 del 21/05/2007.
17.5. Come noto, la Corte Costituzionale, con sentenza n.
293 dell’08.10.2010 ha dichiarato la illegittimità
costituzionale dell’art. 43 del D.P.R. 327/2001. Tale
pronuncia -che tra l’altro ha richiamato l’orientamento del
Consiglio di Stato di cui alle pronunce della Sez. IV, 26.03.2010, n. 1762 e
08.06.2009, n. 3509, della Ad. Plen.
29.04.2005, n. 2 e della Sez. IV, 16.11.2007, n.
5830, da considerarsi “diritto vivente”, secondo il quale la
norma in questione doveva ritenersi applicabile a tutte le
occupazioni illegittime ed a tutte le procedure di
acquisizione in sanatoria, ancorché relative ad occupazioni
poste in essere prima della entrata in vigore del D.P.R.
327/2001- è pervenuta alla declaratoria di
incostituzionalità dell’art. 43 citato per eccesso di
delega, rilevando che nella legge delega, n. 59 del 1997,
non era dato rinvenire alcuna disposizione che legittimasse
il legislatore delegato ad introdurre nell’ordinamento
interventi volti a sanare difetti delle procedure ablative
già intraprese; che la “acquisizione sanante”, così come
congegnata dalla norma censurata, in realtà non risultava
affatto coerente con gli orientamenti di giurisprudenza che,
elaborando gli istituti della occupazione “acquisitiva” ed
“usurpativa”, avevano cercato di porre rimedio alle gravi ed
innumerevoli patologie riscontrate in un gran numero di
procedimenti espropriativi; e che il legislatore delegato
era dunque andato, con l’art. 43 del D.P.R. 327/2001, ben al
di là del compito affidatogli e consistente nel mero
“coordinamento formale relativo a disposizioni vigenti”.
Né
l’istituto disegnato dalla nuova norma poteva -secondo la
Corte Costituzionale- giustificarsi con la necessità di
adeguare l’ordinamento ai rilievi provenienti dalla
giurisprudenza della Corte EDU, giurisprudenza che non
imponeva affatto la adozione della soluzione in concreto
adottata e che, inoltre, aveva già lasciato intendere di
ritenere illegittima qualsiasi “espropriazione indiretta” -ancorché fondata su una norma, come l’art. 43- “in quanto
tale forma di espropriazione non può comunque costituire
un'alternativa ad un'espropriazione adottata secondo «buona
e debita forma» (Causa Sciarrotta ed altri c. Italia - Terza
Sezione - sentenza 12.01.2006 - ricorso n. 14793/02).”; una simile procedura crea inoltre il rischio di un
risultato arbitrario ed imprevedibile, in violazione del
principio di certezza del diritto, e “tende a ratificare una
situazione di fatto derivante dalle azioni illegali commesse
dall’amministrazione, tende a risolverne le conseguenze a
livello sia privato che amministrativo e permette
all’amministrazione di trarre beneficio dal proprio
comportamento illegale” (sentenza Dominici c/ Gov. Italiano
n. 64111/00 del 15.11.2005).
17.6. Con D.L. n. 98/2011 è stato introdotto, nel corpo del
D.P.R. 327/2001, l’art. 42-bis, il quale prevede la
possibilità per “l'autorità che utilizza un bene immobile
per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un
valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo
della pubblica utilità”, di “disporre che esso sia
acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio
indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un
indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non
patrimoniale…”: la norma precisa, inter alia, che “Il
provvedimento di acquisizione può essere adottato anche
quando sia stato annullato l'atto da cui sia sorto il
vincolo preordinato all'esproprio, l'atto che abbia
dichiarato la pubblica utilità di un'opera o il decreto di
esproprio. Il provvedimento di acquisizione può essere
adottato anche durante la pendenza di un giudizio per
l'annullamento degli atti di cui al primo periodo del
presente comma, se l'amministrazione che ha adottato l'atto
impugnato lo ritira.”; l’art. 42-bis prevede inoltre che le
relative disposizioni “...trovano altresì applicazione ai
fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se vi è già stato un provvedimento di acquisizione successivamente
ritirato o annullato, ma deve essere comunque rinnovata la
valutazione di attualità e prevalenza dell'interesse
pubblico a disporre l'acquisizione; in tal caso, le somme
già erogate al proprietario, maggiorate dell'interesse
legale, sono detratte da quelle dovute ai sensi del presente
articolo”.
17.7. Il ricordato art. 42-bis, escludendo che l’acquisto
della proprietà del sedime interessato possa verificarsi ex tunc, precisando che il ristoro economico dovuto al privato
sia commisurato all’intero danno patrimoniale e non
patrimoniale subìto dal privato, ed infine stabilendo che la
relativa disciplina trova applicazione anche ai fatti
anteriori alla entrata in vigore del D.L. 98/2011, ha inteso
conformarsi alle indicazioni provenienti dalla Corte di
Strasburgo, la quale, nella sentenza 06.03.2007 n. 43662/98
(Scordino c/ Italia), ha ribadito l’illegittimità della
“espropriazione indiretta” ed ha indicato anche le misure
idonee per conformarsi alle sue pronunce in materia e cioè:
a) evitare occupazioni sino a che non siano stati approvati
il progetto e gli atti espropriativi, verificando la
copertura finanziaria per procedere ad un celere indennizzo;
b) abolire gli ostacoli di carattere giuridico che
impediscono la restituzione del bene trasformato, in assenza
di decreto di esproprio;
c) scoraggiare le pratiche non
conformi, perseguendo anche i responsabili di tali
procedure.
17.8. Ciò nonostante anche l’art. 42-bis è stato fatto
oggetto di rimessione alla Corte Costituzionale. Le Sezioni
Unite della Corte di Cassazione, con ordinanza n. 442/2014,
hanno sottolineato che il provvedimento che dispone
l’acquisizione ai sensi della norma censurata ha comunque
valenza “sanante”, nel senso che legittima ex post una
occupazione d’urgenza che non avrebbe mai dovuto aver luogo,
integrando così uno strumento che autorizza la
Amministrazione a non restituire il fondo illegittimamente
occupato e/o a non ridurlo nello stato originario, e ciò
anche a dispetto di un giudicato che abbia ordinato alla
Amministrazione la restituzione del bene al privato.
La
Corte di Cassazione si è quindi interrogata sulla
legittimità costituzionale di una norma che di fatto
consente alla Amministrazione “di mutare, successivamente
all'evento dannoso prodotto nella sfera giuridica altrui e
per effetto di una propria unilaterale manifestazione di
volontà, il titolo e l'ambito della responsabilità, nonché
il tipo di sanzione/ristoro (da risarcimento ad in
indennizzo), stabiliti in via generale dal precetto del neminem laedere per qualunque soggetto dell'ordinamento”,
pervenendo così alla “legalizzazione dell’illegale”,
legalizzazione che “non è conclusivamente consentita dalla
giurisprudenza di Strasburgo neppure ad una norma di legge,
né tanto meno ad un provvedimento amministrativo di essa
attuativo, quale è quello che disponga l'acquisizione
sanante (Ucci, 22.06.2006; Cerro sas, 23.05.2006; De Sciscio, 20.04.2006; Dominici, 15.02.2006; Serrao,
13.01.2006; Sciarrotta, 12.01.2006; Carletta, 15.07.2005; Scordino, 17.05.2005” .
17.8.1. Ha osservato in particolare l’ordinanza in esame che
il principio di legalità non potrebbe ritenersi recuperato
in forza dei bilanciamenti e delle comparazioni tra
interessi pubblici e privati devoluti dalla norma
all'autorità amministrativa che dispone l'acquisizione,
perché un tale bilanciamento di opposti interessi deve
ritenersi ammissibile, alla luce della giurisprudenza della
Corte EDU, solo allorché effettuati nel contesto di una
procedura legittima e non arbitraria, ed inoltre perché
l’art. 42-bis attribuisce il compito di effettuare siffatto
bilanciamento di contrapposti interessi alla Amministrazione
responsabile dell’illecito, chiamata ad effettuare una
scelta unilaterale e fondamentalmente imprevedibile, con il
risultato che anche il nuovo regime autorizza la
compromissione della proprietà privata all’esito di un
procedimento non caratterizzato da un sufficiente grado di
certezza e prevedibilità.
Inoltre il regime introdotto
dall’art. 42-bis, essendo applicabile anche a fatti
anteriori alla entrata in vigore della norma, finisce per
influire sull’andamento di processi iniziati ed impostati
secondo diversi presupposti normativi “sì da incorrere anche
nella violazione dell'art. 6, par. 1, della Convenzione per
il mutamento "delle regole in corsa": risultando sotto tale
profilo in contrasto anche con l'art. 111 Cost., commi 1 e
2, nella parte in cui, disponendo l'applicabilità ai giudizi
in corso delle regole sull'acquisizione coattiva sanante in
seguito ad occupazione illegittima, viola i principi del
giusto processo, in particolare le condizioni di parità
delle parti davanti al giudice, che risultano lese
dall'intromissione del potere legislativo
nell'amministrazione della giustizia allo scopo di influire
sulla risoluzione di una circoscritta e determinata
categoria di controversie; ed appare, quindi, anche sotto
questo profilo, nuovamente in contrasto con i vincoli
derivanti dagli obblighi internazionali (art. 117 Cost.).”.
Infine le Sezioni Unite hanno rilevato che il sistema
disegnato dall’art. 42-bis determinerebbe un differente
trattamento tra proprietari vittime di analoghi
comportamenti illeciti posti in essere da una
Amministrazione pubblica, tra i quali proprietari quelli
destinatari di un decreto di acquisizione sanante non
potrebbero aspirare alla tutela restitutoria congiunta al
risarcimento del danno ex art. 2043 c.c. e sarebbero
destinatari di un indennizzo di misura addirittura inferiore
all’indennizzo spettante in caso di espropriazione
legittima, non soggetto a rivalutazione monetaria (in quanto
connesso ad una obbligazione indennitaria di valuta e non ad
una obbligazione risarcitoria di valore), con impossibilità
di valorizzare la perdita di valore del fondo residuo che
permane in proprietà al privato.
17.9. Con sentenza n. 71/2015, del 30.04.2015, la Corte
Costituzionale ha dichiarato non fondate le varie questioni
di legittimità costituzionale prospettate nei confronti
dell’art. 42-bis, sottolineando: la differente disciplina di
tale istituto rispetto a quello disegnato dall’art. 43; la
necessità che il decreto che dispone l’acquisizione ex art.
42-bis sia motivato in modo stringente sia in ordine ai
motivi imperativi di interesse generale che determinano la
necessità di acquisire il bene, sia con riferimento alla
impossibilità di ricorrere a soluzioni alternative; la
decorrenza ex nunc della acquisizione, con conseguente
impossibilità di adottare il provvedimento in esame quando
la restituzione del fondo al privato sia già stata disposta
con sentenza passata in giudicato.
Per quanto di interesse
ai fini della presente decisione va sottolineato che l’art.
42-bis ha superato il vaglio di legittimità costituzionale
anche nella parte in cui esso prevede che la norma debba
trovare applicazione a tutti fatti precedenti alla sua
entrata in vigore: tale previsione implica, in guisa di
presupposto logico, che secondo il legislatore tutte le
occupazioni illegittime consumate prima del 06.07.2011
(data di entrata in vigore della norma), ancorché tradottesi
in “irreversibili trasformazioni” del fondo privato o
ancorché precedute da richieste risarcitorie giudiziali
formulate dal privato con chiaro intento abdicativo, non
possono avere l’effetto di estinguere il diritto di
proprietà del privato, e proprio per tale ragione
all’occorrenza possono essere sanate mediante l’adozione di
un decreto di acquisizione sanante.
17.10. Si deve quindi riconoscere che allo stato attuale del
diritto positivo la occupazione illegittima di un fondo per
scopi di pubblica utilità, seguita dalla effettiva
realizzazione di opere riconosciute di pubblica utilità, non
solo non produce ex se, a favore della Amministrazione che
ha occupato il fondo, l’acquisizione della proprietà
dell’opera e del fondo sul quale l’opera insiste, ma neppure
può essere all’origine della estinzione del diritto di
proprietà vantato dal privato sul fondo oggetto di
occupazione, ancorché nel frattempo questi abbia manifestato
l’intenzione di volervi “abdicare”.
Tutta la disciplina
dell’art. 42-bis D.P.R. 327/2001 sottende infatti che il
decreto di acquisizione “sanante” viene sempre emesso nei
confronti del privato proprietario, e tale aspetto si
evince, in particolare, dal comma 4, il quale stabilisce che
“Il provvedimento di acquisizione, recante l'indicazione
delle circostanze che hanno condotto alla indebita
utilizzazione dell'area e se possibile la data dalla quale
essa ha avuto inizio, è specificamente motivato in
riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse
pubblico che ne giustificano l'emanazione, valutate
comparativamente con i contrapposti interessi privati ed
evidenziando l'assenza di ragionevoli alternative alla sua
adozione; nell'atto è liquidato l'indennizzo di cui al
comma 1 e ne è disposto il pagamento entro il termine di
trenta giorni. L'atto è notificato al proprietario e
comporta il passaggio del diritto di proprietà sotto
condizione sospensiva del pagamento delle somme dovute ai
sensi del comma 1, ovvero del loro deposito effettuato ai
sensi dell'articolo 20, comma 14; è soggetto a trascrizione
presso la conservatoria dei registri immobiliari a cura
dell'amministrazione procedente ed è trasmesso in copia
all'ufficio istituito ai sensi dell'articolo 14, comma 2.”:
ebbene, non si comprende quale logica possa giustificare il
fatto che al decreto di acquisizione sanante si attribuisca
la capacità di trasferire la proprietà e che poi esso sia
invariabilmente, e senza eccezione alcuna, notificato al
proprietario, subordinato al pagamento al medesimo del
risarcimento e dipoi trascritto nei di lui confronti, se non
per la ragione che il privato proprietario non ne perde mai
la proprietà.
Considerato poi che l’art. 42-bis non contiene
una disciplina derogatoria o specifica con riferimento ai
casi in cui il privato abbia precedentemente manifestato, in
sede giudiziale o stragiudiziale, la volontà di rinunciare
alla proprietà del bene, non si può che concludere che tutto
l’art. 42-bis sottende che il proprietario il cui fondo sia
utilizzato “per scopi di interesse pubblico” non perde la
proprietà ancorché possa aver manifestato di non avervi più
interesse.
18. Nonostante tutto quanto sopra rilevato sopravvive
tuttavia, in giurisprudenza, l’affermazione secondo cui la
domanda del privato che chieda in giudizio il risarcimento
del danno conseguente ad una occupazione illegittima,
commisurando il danno medesimo al valore del fondo oggetto
di tale occupazione, deve qualificarsi come manifestazione
della volontà di rinunciare alla proprietà del fondo: tale
affermazione si ritrova, in particolare, proprio nella
sentenza della Corte di Cassazione n. 735/2015, la quale,
pur dopo essere giunta alla conclusione che l’espunzione
della occupazione appropriativa dall’ordinamento giuridico,
voluta dalla Corte Europea dei Diritti Umani, non si poneva
in contrasto con il diritto positivo (difettando, per le
ragioni sopra dette, indici normativi del recepimento di
esso da parte del legislatore), ha affermato: “In
conclusione, alla luce della costante giurisprudenza della
Corte Europea dei diritti dell'uomo, quando il decreto di
esproprio non sia stato emesso o sia stato annullato,
l'occupazione e la manipolazione del bene immobile di un
privato da parte dell'Amministrazione si configurano,
indipendentemente dalla sussistenza o meno di una
dichiarazione di pubblica utilità, come un illecito di
diritto comune, che determina non il trasferimento della
proprietà in capo all'Amministrazione, ma la responsabilità
di questa per i danni. In particolare, con riguardo alle
fattispecie già ricondotte alla figura dell'occupazione
acquisitiva, viene meno la configurabilità dell'illecito
come illecito istantaneo con effetti permanenti e,
conformemente a quanto sinora ritenuto per la c.d.
occupazione usurpativa, se ne deve affermare la natura di
illecito permanente, che viene a cessare solo per effetto
della restituzione, di un accordo transattivo, della
compiuta usucapione da parte dell'occupante che lo ha
trasformato, ovvero della rinunzia del proprietario al suo
diritto, implicita nella richiesta di risarcimento dei danni
per equivalente. A tale ultimo riguardo, dissipando i dubbi
espressi dall'ordinanza di rimessione, si deve escludere che
il proprietario perda il diritto di ottenere il controvalore
dell'immobile rimasto nella sua titolarità. Infatti, in
alternativa alla restituzione, al proprietario è sempre
concessa l'opzione per una tutela risarcitoria, con una
implicita rinuncia al diritto dominicale sul fondo
irreversibilmente trasformato (cfr. ex plurimis, in tema di
occupazione c.d. usurpativa, Cass. 28.03.2001, n. 4451 e
Cass. 12.12.2001, n. 15710); tale rinuncia ha
carattere abdicativo e non traslativo: da essa, perciò, non
consegue, quale effetto automatico, l'acquisto della
proprietà del fondo da parte dell'Amministrazione (Cass. 03.05.2005, n. 9173; Cass. 18.02.2000 n. 1814). La
cessazione dell'illecito può aversi, infine, per effetto di
un provvedimento di acquisizione reso dall'Amministrazione,
ai sensi dell'art. 42-bis del t.u. di cui al D.P.R. n. 327
del 2001, con l'avvertenza che per le occupazioni anteriori
al 30.06.2003 l'applicabilità dell'acquisizione sanante
richiede la soluzione positiva della questione, qui non
rilevante, sopra indicata al punto n. 4 della motivazione.”
19. Il Collegio non condivide l’affermazione, che si legge
nella ricordata pronuncia, secondo cui “in alternativa alla
restituzione, al proprietario è sempre concessa l'opzione
per una tutela risarcitoria, con una implicita rinuncia al
diritto dominicale sul fondo irreversibilmente trasformato
(cfr. ex plurimis, in tema di occupazione c.d. usurpativa,
Cass. 28.03.2001, n. 4451 e Cass. 12.12.2001, n.
15710); tale rinuncia ha carattere abdicativo e non
traslativo: da essa, perciò, non consegue, quale effetto
automatico, l'acquisto della proprietà del fondo da parte
dell'Amministrazione (Cass. 03.05.2005, n. 9173; Cass. 18.02.2000 n. 1814)”.
20. Come sopra precisato la possibilità che un privato
possa, nelle fattispecie di che trattasi, unilateralmente e
legittimamente rinunciare alla proprietà del bene,
acquisendo il diritto ad ottenere un risarcimento
commisurato al valore venale del bene anche a prescindere
dalla adozione di un decreto di acquisizione sanante, deve
escludersi alla luce della disciplina positiva contenuta
nell’art. 42-bis, di cui sopra si è dato conto.
20.1. Merita ricordare, a questo punto, che proprio con
riferimento alla disciplina di cui all’art. 43 D.P.R.
327/2001 ed alla circostanza che essa –come l’art. 42-bis–
risultava applicabile anche alle occupazioni pregresse, la
Corte di Cassazione, con sentenza n. 11096 del 11/06/2004,
ha argomentato l’obbligo di “disapplicare” i principi
giurisprudenziali formatisi in materia di occupazione appropriativa, a favore della sopravvenuta disciplina di cui
all’art. 43 (in allora non ancora dichiarato
incostituzionale), affermando che “La funzione
giurisdizionale è necessariamente applicativa delle
disposizioni vigenti (che il giudice interpreta con
incondizionata autonomia, accertando e dichiarando la
volontà della legge in relazione al caso concreto), per cui,
se la legge muta o se, con un'ulteriore legge, viene
attribuito a precedenti disposizioni un determinato
significato, il giudice non può non essere vincolato dalla
volontà del legislatore, anche perché le pronunce della
Suprema Corte, se anche espressione della funzione nomofilattica, non possono assurgere a fonti di diritto,
onde, con riguardo all'istituto dell'occupazione
appropriativa, inizialmente affermatasi nell'applicazione
giurisprudenziale, e successivamente regolata dalla legge,
non è concettualmente configurabile un conflitto di
attribuzione, per cui si debba investire la Corte
costituzionale, fra potere giudiziario e potere legislativo,
né è concepibile uno straripamento di quest'ultimo, per
essere intervenuto a regolare un istituto di origine
giurisprudenziale.” .
20.2. Orbene, il Collegio non vede per quale ragione questo
cristallino ragionamento, che è espressione del ben noto
principio secondo cui il giudice è sottoposto (solo) alla
legge, che è tenuto ad applicare, non sia predicabile anche
nel caso in esame, dovendosi già per questa via pervenire
alla affermazione secondo la quale nelle fattispecie di
occupazione appropriativa ed usurpativa l’eventuale rinuncia
del privato alla proprietà del fondo è priva di qualsiasi
effetto abdicativo o traslativo: a tale conclusione –si
ribadisce– è d’obbligo pervenire a fronte della
constatazione che il decreto ex art. 42-bis:
a) può essere
emesso a fronte di qualsiasi tipologia di “occupazione per
scopi di pubblico interesse”, non prevedendosi alcun
trattamento specifico per l’ipotesi in cui il privato abbia
manifestato di voler rinunciare alla proprietà del fondo;
b)
non è prevista la possibilità che esso abbia come
destinatario un soggetto diverso dal proprietario del fondo
occupato né che esso possa avere effetti diversi da quelli
traslativi della proprietà;
c) richiede una motivazione che
giustifichi la preminenza del pubblico interesse rispetto
alle esigenze del privato proprietario, esigenze -queste
ultime– che non avrebbe senso tenere in considerazione ove
il privato avesse perso/potesse perdere la proprietà del
bene con una semplice manifestazione unilaterale;
d) può
essere emesso anche con riferimento a occupazioni poste in
essere in epoca anteriore alla entrata in vigore del D.P.R.
327/2001 o dello stesso art. 42-bis.
20.3. Non stupisce, del resto, che il legislatore possa aver
consapevolmente inteso precludere al proprietario di
rinunciare alla proprietà del fondo. Ove una tale rinuncia
“abdicativa” fosse possibile e sortisse gli effetti
preconizzati dalla giurisprudenza che qui si contesta, le
amministrazioni pubbliche si troverebbero esposte al rischio
di dover corrispondere un risarcimento commisurato al valore
venale del bene occupato anche nei casi in cui il fondo
stesso e l’opera che su di esso insiste non siano più
rispondenti a “scopi di pubblico interesse”, poiché
l’obbligo di corrispondere un tale risarcimento verrebbe in
tal caso a dipendere unicamente dalla illegittima
occupazione del fondo da parte della amministrazione e dalla
unilaterale reazione del privato, prescindendo totalmente da
valutazioni afferenti l’utilità pubblica del bene: orbene,
pare evidente al Collegio che ove l’art. 42-bis dovesse
essere letto nel senso che non include anche le situazioni
in cui il privato abbia manifestato l’intenzione di
rinunciare alla proprietà del bene esso si presterebbe a
censure di incostituzionalità per manifesta
irragionevolezza, stante l’evidente sottovalutazione dei
danni alla finanza pubblica che un tale “vuoto normativo”
potrebbe comportare, tanto più ove si consideri che la
rinuncia “abdicativa” del diritto di proprietà manifestata
dal privato non farebbe automaticamente acquisire la
proprietà del fondo alla amministrazione occupante –particolare questo ben specificato nella pronuncia della
Suprema Corte n. 735/2015– e che dunque essa
amministrazione sarebbe paradossalmente tenuta a
corrispondere al privato un risarcimento commisurato
all’intero valore venale del terreno senza, tuttavia,
poterne acquisire contestualmente la proprietà.
20.4. Di contro, letto l’art. 42-bis nel senso che esso si
applica, come già precisato, anche alle occupazioni che
abbiano ad oggetto beni rispetto ai quali il proprietario
abbia già manifestato una rinuncia “abdicativa”, esso
risulta al riparo da censure di incostituzionalità: non solo
perché le esigenze di finanza pubblica risultano
salvaguardate dalla necessità che il decreto di acquisizione
dia conto degli “scopi di pubblico interesse” ai quali
l’acquisizione è funzionale, ma anche per la ragione che nel
caso in cui l’amministrazione si risolva nel senso di non
acquisire la proprietà del bene, questo va restituito ed al
privato è dovuto il risarcimento riferito all’intero periodo
di occupazione senza titolo, senza contare il fatto che in
base al principio superficies solo cedit il privato si
ritrova ad essere proprietario anche della opera pubblica
che sul fondo insiste, la quale rappresenta un valore e che
molte volte può essere sfruttata economicamente anche dallo
stesso privato proprietario (l’attività di un ospedale o di
una scuola, ad esempio, può anche essere esercitata da un
soggetto privato, come anche privato può essere un
parcheggio per auto aperto al pubblico; esistono persino
casi di strade private, che attraversano proprietà
interamente private, che collegano viabilità pubbliche e la
cui percorribilità è consentita al pubblico previo pagamento
di un pedaggio): l’opzione per la rimessione in pristino,
spesso chiesta dai privati insieme alla restituzione, anche
se riguardata solo dal punto di vista del privato –tralasciando cioè la valutazione dell’inevitabile spreco di
risorse pubbliche che essa determina- non costituisce
dunque una scelta necessitata né sempre avveduta.
20.5. Va peraltro sottolineato che la sentenza n. 735/2015
della Corte di Cassazione, di cui sopra si è dato conto e
che viene espressamente invocata dalla ricorrente a
fondamento della domanda risarcitoria, è stata pubblicata
prima della sentenza della Corte Costituzionale n. 71/2015,
che ha dichiarato non fondate le censure di costituzionalità
prospettate contro l’art. 42-bis, tra le quali v’era anche
quella afferente la applicabilità della disciplina in esso
contenuta anche alle occupazioni poste in essere in epoca
anteriore alla entrata in vigore della norma nonché allo
stesso D.P.R. 327/2001: tenuto conto del fatto che al punto
4 della motivazione la pronuncia citata sostiene che “l'art.
42-bis, non può essere individuato come la causa
dell'espunzione dall'ordinamento dell'istituto
dell'occupazione acquisitiva e si apre, invece, il diverso
problema, non rilevante in questa sede, se per effetto
dell'espunzione dell'istituto, determinata da una diversa
causa, possa ipotizzarsi, alla stregua dei principi in tema
di applicazione della legge ai fatti anteriori alla sua
entrata in vigore ed ai rapporti da tali fatti generati, un
ampliamento temporale del campo di applicazione dell'art. 42-bis, che non troverebbe più il limite derivante da
situazioni in cui è già avvenuta l'acquisizione alla mano
pubblica, ma eventualmente il limite, da verificare,
dell'irretroattività della nuova disciplina oltre la
decorrenza da essa desumibile e come sopra individuata”, si
deve credere che la pronuncia medesima, laddove ha affermato
la possibilità che il privato può sempre rinunciare al
diritto dominicale sul fondo irreversibilmente trasformato
con un atto a carattere abdicativo e non traslativo, si sia
fondata su una interpretazione dell’art. 42-bis che ne
escludeva l’applicabilità alle occupazioni anteriori alla
sua entrata in vigore e che, pertanto, consentiva di
salvaguardare le “rinunce abdicative” manifestate dai
privati relativamente alle occupazioni pregresse.
La
possibilità di adottare il decreto di acquisizione sanante
con riferimento a qualsiasi fattispecie di occupazione
illegittima, futura o passata, connotata da una rinuncia abdicativa del privato o meno, consente invece di affermare
che l’art. 42-bis ha definitivamente certificato
l’impossibilità per il privato di rinunciare unilateralmente
al diritto di proprietà di un fondo illegittimamente
occupato per scopi di pubblica utilità, di guisa che la
contraria opzione accreditata dalla sentenza n. 735/2015
potrebbe e dovrebbe, all’attualità, ritenersi superata.
20.6. Del resto, ove così non fosse, e cioè ammettendo che
in tali casi il privato possa ancora oggi sempre, ed
efficacemente, rinunziare al proprio diritto di proprietà
sull’immobile oggetto di occupazione –con le conseguenze
gravissime di cui si dirà nei paragrafi 24, 25 e 26– si
finisce per attribuirgli un abnorme potere di determinare in
via unilaterale e, soprattutto, non necessariamente
prevedibile l’andamento della procedura e le sorti del bene
occupato, e si tratterebbe di un potere squilibrato: perché
foriero di gravi danni per la amministrazione occupante, la
quale ciò nonostante nulla di concreto potrebbe opporre per
bloccarlo, stanti gli effetti automatici ex lege che la
rinunzia abdicativa produrrebbe.
La situazione che si
verrebbe/viene a creare, ammettendo la rinunzia abdicativa
del privato alla proprietà del bene illegittimamente
occupato, sarebbe quindi caratterizzata, questa volta a
scapito della amministrazione, da quella stessa incertezza
che ha indotto la Corte di Strasburgo a bocciare l’istituto
della occupazione appropriativa e proprio tale constatazione
induce il Collegio ad affermare che la rinunzia abdicativa
alla proprietà su un bene immobile, quantomeno se riferita
ad un bene illegittimamente occupato per scopi di pubblica
utilità, non può essere consentita.
21. Ferme restando le dianzi esposte considerazioni, di per
sé sufficienti a sostenere l’affermazione secondo cui gli
atti di rinuncia ad una proprietà immobiliare sono privi di
effetti allorquando abbiano ad oggetto fondi occupati
illegittimamente per scopi di pubblica utilità, il Collegio
ritiene che la domanda risarcitoria formulata dalla attrice
possa essere respinta anche sulla base di ulteriori
argomenti, ed in particolare per la ragione che la rinuncia abdicativa
della proprietà immobiliare deve ritenersi dall’ordinamento
giuridico non consentita, e come tale priva di effetti, non
solo se manifestata in occasione ed in conseguenza di una
occupazione illegittima posta in essere per scopi di
pubblica utilità, ma anche a prescindere da una simile
cornice fattuale, sempre che non ricorra una delle
fattispecie specificamente previste dal Codice civile.
21.1. In particolare ritiene il Collegio che il contestato
principio affermato da Cass. Civ. n. 735/2015 -che peraltro
costituisce solo il precedente più recente, ma certamente
non l’unico- non sia condivisibile perché, inesattamente ad
avviso del Collegio, si fonda sull’esistenza, nel nostro
ordinamento, della rinunzia abdicativa del diritto di
proprietà su un immobile quale istituto di carattere
generale.
21.2. La rinunzia c.d. abdicativa, é generalmente
qualificata dalla dottrina come un negozio consistente nella
dismissione di un diritto dal patrimonio del rinunciante: è
un negozio unilaterale, perché il titolare del diritto se ne
priva limitandosi a dismetterlo senza trasferirlo ad altri;
è un negozio non recettizio, perché non ha un destinatario
immediato e qualora produca un accrescimento del patrimonio
di altro soggetto tale accrescimento non costituisce un
effetto conseguente in via diretta alla manifestazione di
volontà e non può essere lo scopo del rinunciante; ha
efficacia immediata (salvo la presenza di condizioni) e, per
questo, è normalmente irrevocabile (tranne la rinuncia
all’eredità); opera ex nunc, comportando la dismissione di
un diritto già acquistato.
21.3. Tali caratteri della rinunzia abdicativa sono stati
ricavati dalla dottrina dallo studio delle figure tipiche di
tale istituto, disciplinate dal codice civile: la rinuncia
alla eredità, la rinuncia al credito, la rinuncia ad alcuni
diritti reali minori espressamente contemplata dal codice
civile, che invece non fa menzione della rinuncia al diritto
di proprietà immobiliare.
21.4. Dalla rinunzia abdicativa si distingue, pertanto, la
rinunzia c.d. traslativa, che comporta il trasferimento del
diritto e che suppone l’esistenza di un contratto in quanto
in tal caso la rinunzia costituisce il mezzo per effettuare
a favore di un determinato soggetto, scelto dal rinunziante
e non dalla legge, la traslazione di un diritto, traslazione
che costituisce pertanto un effetto preveduto e voluto dal
rinunziante.
21.5. Numerose sono le disposizioni del codice civile che
fanno riferimento alla rinunzia: se ne parla con riguardo
all'eredità e al legato (art. 478, 519 ss., 649, 650 c.c.),
alle cause di estinzione dei diritti reali di godimento,
specificamente in tema di enfiteusi (art. 963 c.c.) e di
servitù (art. 1070 c.c.); la rinuncia è espressamente
considerata dal legislatore in materia di garanzie
dell'obbligazione (art. 1238, 1240 c.c.), di prescrizione e
decadenza (art. 2937, 2968 c.c.), in materia di ipoteca
(art. 2878, 2879 c.c.), di contratto di mandato (art. 1722,
1727 c.c.), e in materia di rapporto di lavoro (art. 2113
c.c. come novellato dall'art. 6 l. 11.08.1973, n. 533);
la rinunzia “liberatoria” riferita alla proprietà
immobiliare è poi ammessa dal codice civile nell’art. 1104,
con riferimento ai diritti del comunista sulla cosa comune,
nonché all’art. 882 c.c., con riferimento ai diritti di
comproprietà sul muro comune; essa è invece espressamente
esclusa dall’art. 1118, comma 2, con riferimento ai diritti
del condomino sulle cose comuni.
21.6. Argomentando dalle su ricordate norme, in dottrina si
è formato un orientamento, anche abbastanza sostenuto, che
ammette la possibilità, per un privato, di esercitare la
rinunzia abdicativa ai diritti di proprietà immobiliare non
solo nelle ipotesi specificamente menzionate dal codice
civile ma in qualsiasi situazione, facendo assumere
all’istituto un carattere generale anche con riferimento
alla proprietà immobiliare.
21.6.1. In particolare l’argomento principe utilizzato per
ammettere la rinunzia abdicativa al diritto di proprietà
immobiliare fa leva sull’art. 827 c.c., il quale afferma che
“I beni immobili che non sono di proprietà di alcuno
spettano al patrimonio dello Stato”, e che pertanto –secondo tale dottrina- implicitamente ammette che possano
esistere beni immobili acefali, cioè privi di un
proprietario. Questa dottrina fa anche leva sull’art. 1350
n. 5 e sull’art. 2643 n. 5.
La prima norma contempla “gli
atti di rinunzia ai diritti indicati ai numeri precedenti”,
tra i quali figura anche il diritto oggetto di “contratti
che trasferiscono la proprietà di beni immobili”. L’art.
2643 n. 5 contempla invece “gli atti tra vivi di rinunzia ai
diritti menzionati nei numeri precedenti”, tra i quali
figura, ancor qui, il diritto oggetto dei “contratti che
trasferiscono la proprietà di beni immobili”.
Tali norme
sarebbero, secondo la dottrina in esame, ricognitive della
generale possibilità riconosciuta dall’ordinamento, di
rinunziare unilateralmente, con atto non traslativo e non recettizio, al diritto di proprietà su beni immobili, e tale
manifestazione di volontà dovrebbe comportare che il bene
immobile oggetto della rinunzia diviene acefalo per poi
entrare a far parte, un istante dopo, del patrimonio dello
Stato quale effetto ex lege, in virtù di quanto stabilito
dall’art. 827 c.c.
21.6.2. Altra norma sulla quale fa leva la dottrina per
ammettere, in via generale, la rinunzia abdicativa alla
proprietà immobiliare sarebbe costituita dall’art. 1118,
comma 2, il quale, escludendo che il condomino possa
rinunziare ai suoi diritti sulle parti comuni,
implicitamente sottenderebbe la possibilità di effettuare
tale rinunzia, constatazione questa che spiegherebbe per
quale ragione il codice avrebbe sentito la necessità di
intervenire espressamente per escludere la rinunziabilità
del diritto sulle parti comuni.
22. Non si può negare che il richiamo, effettuato dalle
dianzi ricordate norme del codice civile, agli atti di
rinunzia che hanno ad oggetto il diritto di proprietà su
beni immobili è molto suggestivo; tuttavia a parere del
Collegio esse non forniscono argomenti risolutivi che
consentano di affermare l’esistenza, nel nostro ordinamento,
della rinunzia abdicativa quale istituto di carattere
generale, specialmente con riferimento ai beni immobili.
22.1. L’art. 1350 è la prima norma del capitolo che tratta
specificamente “Della forma del contratto”, e quindi si
riferisce ai contratti, cioè ad atti che per definizione
intercorrono tra due o più persone: di conseguenza vi è
motivo per credere che il n. 5 di tale disposizione si
riferisca comunque ad accordi che abbiano ad oggetto atti di
trasferimento di beni immobili, ai quali le parti
rinunziano, con la conseguenza che alla rinunzia al diritto
di proprietà su un immobile manifestata da una parte va a
corrispondere il riacquisto, automatico, del diritto
medesimo in capo al soggetto che prima l’aveva trasferito al
rinunziante. Si tratterebbe dunque, più propriamente, di una
rinunzia traslativa, alla quale le parti possono ricorrere
sia in esecuzione della concordata risoluzione di un
precedente contratto traslativo della proprietà su beni
immobili –dalla quale consegue il venir meno delle
obbligazioni contrattuali per entrambe le parti-, sia in
esecuzione di una pattuizione che preveda il venir meno
degli effetti del contratto precedentemente concluso per una
sola delle parti, in questo caso del solo rinunziante
22.2. Considerazioni analoghe valgono per l’art. 2643 n. 5:
nei numeri da 1 a 4 l’art. 2643 contempla infatti i
“contratti” che abbiano ad oggetto determinati diritti
reali, tra i quali anche la proprietà immobiliare; sembra
quindi ragionevole supporre che il n. 5, richiamando “i
diritti menzionati ai numeri precedenti” non intenda
semplicemente richiamare i diritti in sé, ma i diritti
nascenti da determinati contratti: tale considerazione
conferma, ad avviso del Collegio che “gli atti tra vivi di
rinunzia” di cui al n. 5 sono finalizzati, semplicemente, a
far venir meno l’efficacia, in tutto o in parte, di
precedenti contratti che hanno costituito, modificato o
trasferito diritti reali immobiliari, conseguendo in
particolare da tali atti di rinunzia che la proprietà su un
certo immobile torna nella disponibilità del dante causa del
rinunziante.
22.3. Gli articoli 1350 n. 5 e 2643 n. 5, insomma,
contemplano, ad avviso del Collegio, degli atti di rinunzia
traslativa nonché, al limite, gli atti di rinunzia a diritti
reali immobiliari espressamente disciplinati dal codice
civile.
22.4. Tale lettura dell’art. 2643 n. 5 consente inoltre di
superare le incongruenze che sono state rilevate,
relativamente alla rinunzia a diritti immobiliari, rispetto
a quelli che l’art. 2644 c.c. indica essere gli effetti
conseguenti, e cioè: “Gli atti indicati nell’articolo
precedente non hanno effetto riguardo ai terzi che a
qualunque titolo hanno acquistato diritti sugli immobili in
base ad un atto trascritto o iscritto anteriormente alla
trascrizione degli atti medesimi. Seguita la trascrizione,
non può avere effetto contro colui che ha trascritto alcuna
trascrizione o iscrizione di diritti acquistati verso il suo
autore, quantunque l’acquisto risalga a data anteriore.”
22.4.1. E’ stato infatti osservato che, non essendo la
rinunzia abdicativa un atto recettizio e comportando essa un
acquisto ex lege a titolo originario, e non derivativo -a
favore del soggetto di volta in volta indicato dalla legge
(nudo proprietario, concedente, comproprietari pro-indiviso,
lo Stato ex art. 827)-, a rigore non sarebbe stato
necessario prevedere che la rinunzia ai diritti immobiliari
fosse inopponibile ai terzi acquirenti in buona fede di
diritti sugli immobili oggetto di rinunzia, sulla base di
atti trascritti in data anteriore alla trascrizione della
rinunzia stessa: venendo in considerazione un acquisto ex lege che si verifica automaticamente in conseguenza della
rinunzia abdicativa, nessun eventuale atto dispositivo
posteriore alla rinunzia potrebbe mai risultare opponibile
all’ “acquirente ex lege”. Così, al fine di risolvere
l’indicata incongruenza, autorevole dottrina ha ritenuto che
la pubblicità della rinunzia ai diritti immobiliari
troverebbe ragion d’essere sostanzialmente nella necessità
di notiziare il terzo “acquirente ex lege” della avvenuta
rinunzia e, quindi, dell’acquisto in suo favore.
22.4.2. A parere del Collegio, tuttavia, il tenore l’art.
2644 è chiaro nel sottendere un conflitto che possa essere
generato e correlato all’atto di rinunzia; non può quindi
trattarsi di norma “pensata”, semplicemente o anche, per
pubblicizzare atti dai quali un simile conflitto non può
conseguire. Si trae da ciò una ulteriore conferma del fatto
che gli atti menzionati dall’art. 2643 n. 5 possono essere,
in realtà:
a) vuoi atti di rinunzia di natura traslativa e
non abdicativa, previamente concordati tra le parti,
costituenti in sé atti di disposizione rispetto ai quali è
possibile concepire un possibile conflitto con eventuali
terzi acquirenti;
b) vuoi atti di rinunzia abdicativa ai
diritti immobiliari specificamente indicati dal codice
(diritti reali minori; comproprietà pro-indiviso), i quali
non lasciano mai –come infra meglio si dirà– il diritto
“acefalo”, determinando automaticamente l’accrescimento del
patrimonio di terzi per effetto della c.d. elasticità della
proprietà: è quindi possibile che tali atti di rinunzia
possano generare un conflitto tra il rinunziante, e/o i
creditori di costui, ed il terzo il cui diritto si espande
automaticamente per effetto della rinuncia e/o i creditori
di questo ultimo.
L’art. 2643 n. 5 non fa, inoltre, alcun
riferimento a specifici effetti conseguenti ad atti di
rinunzia abdicativa.
22.4.3. Tutto ciò considerato il Collegio, anche in
applicazione del canone interpretativo “in claris non fit
interpretatio”, non crede che l’art. 2644 c.c. possa essere
letto nel senso, che invero neppure é esplicitato, per cui
la pubblicità degli atti di rinunzia abdicativa avrebbe
valenza meramente informativa dell’acquisto a favore
dell’acquirente ex lege. E del resto una simile
interpretazione dell’art. 2644 c.c. rimane inevitabilmente
frustrata dalla dottrina e dalla prassi notarile, che
ritengono che la rinunzia abdicativa a diritti reali debba
essere presa “contro” il rinunziante –il che appare cosa
ovvia– ma “a favore” di nessuno, e ciò proprio sul
presupposto che la rinunzia abdicativa di per sé stessa non
determina l’accrescimento dell’altrui patrimonio, che
eventualmente consegue quale effetto indiretto ex lege.
Tale
essendo il meccanismo della pubblicità immobiliare, segue
che essa giammai potrebbe consentire ad un soggetto di
verificare se il proprio patrimonio si sia accresciuto per
effetto della rinunzia abdicativa ad un diritto reale da
parte di un terzo soggetto (ad esempio -seguendo la
prospettiva che qui si contesta- lo Stato in relazione alla
proprietà immobiliare; il nudo proprietario con riferimento
all’immobile gravato da usufrutto, uso, abitazione, servitù;
il proprietario del fondo dominante con riguardo alla
rinunzia liberatoria che abbia ad oggetto il fondo servente;
il proprietario pro-quota indivisa con riguardo alla
rinunzia di altro comproprietario alla rispettiva quota), il
che conferma che verosimilmente il legislatore, quando ha
prefigurato la trascrizione degli atti di rinunzia ai sensi
dell’art. 2643 n. 5 c.c. pensava piuttosto ad atti di
rinunzia traslativa o comunque ad atti di rinunzia dai quali
conseguano immediati effetti ampliativi del patrimonio
altrui, che dunque giustifichino una contestuale
trascrizione “a favore” di un soggetto determinato e che
possano ingenerare conflitti che possano trovare definizione
in applicazione del principio “prior in tempore potior in
jure”.
22.5. Dirimente non è, ad avviso del Collegio, neppure la
previsione di cui all’art. 1118, comma 2, cod. civ.. Il fatto
che la norma preveda espressamente che al condomino è
vietato di poter rinunziare al suo diritto sulle cose comuni
si spiega con il fatto che in materia di proprietà comune
vige, in generale, il principio opposto, questo chiaramente
enunciato all’art. 1104, comma 1: “Ciascun partecipante deve
contribuire nelle spese necessarie per la conservazione ed
il godimento della cosa comune e nelle spese deliberate
dalla maggioranza, salva la facoltà di liberarsene con la
rinunzia al suo diritto”, principio che si trova ribadito
anche dall’art. 882, comma 2 c.c., in tema di rinuncia alla
comproprietà del muro comune.
In giurisprudenza si è
affermato (Cass. Civ. Sez. 2, Sentenza n. 3931 del
23/08/1978) che per effetto della c.d. “rinuncia
liberatoria”, in esame, il bene immobile oggetto di rinunzia
non rimarrebbe acefalo perché si determinerebbe l’automatico
accrescimento del diritto dei comproprietari, sui quali,
correlativamente aumenterebbe anche il carico delle spese
relative alla manutenzione della cosa o del muro comune. Nel
silenzio delle due norme si ritiene che tale forma di
rinuncia sarebbe non recettizia e proprio per tale ragione
l’accrescimento della proprietà dei comproprietari
costituirebbe un effetto legale. Il Collegio nutre qualche
perplessità in ordine al fatto che la rinuncia al diritto di
comproprietà costituisca atto non recettizio.
E’ fuor di
dubbio, comunque, che l’accrescimento del diritto degli
altri comproprietari si collega alla natura stessa della
proprietà comune, che è una proprietà pro indiviso, la quale
si estende all’intero bene, consentendo di fatto a ciascun
“comunista” il godimento del bene nella sua interezza, sia
pure con i limiti che derivano dalla necessità di assicurare
anche agli altri comproprietari un godimento della medesima
natura. Ad avviso del Collegio, allora, l’accrescimento del
diritto dei comproprietari pro-indiviso, a fronte della
rinunzia al proprio diritto manifestata da uno di essi
costituisce un effetto naturale che si collega alla c.d.
“elasticità” del diritto di proprietà, e proprio per tale
ragione si tratta di una rinunzia che non crea alcun tipo di
scompenso: il bene immobile non rimane “acefalo”,
continuando ad identificarsi uno o più soggetti responsabili
della custodia e delle obbligazioni di vario tipo connesse
alla proprietà di quel bene.
22.5.1. Di conseguenza, il fatto che l’art. 1118 escluda,
per il condomino, la possibilità di rinunciare al suo
diritto sulle cose comuni nulla prova in ordine alla
esistenza, nel nostro ordinamento, della rinunzia abdicativa
della proprietà immobiliare anche al di fuori delle ipotesi
espressamente disciplinate dal codice. Sembra chiaro,
peraltro, che la disciplina di cui all’art. 1118, comma 2, si
giustifica con il fatto che nel condominio di edifici i
singoli proprietari neppure volendo possono sottrarsi
all’uso di determinate cose comuni, tra le quali –come noto– rientrano le mura perimetrali, il tetto di copertura, il
suolo sul quale sorge l’edificio, le scale ed i portoni di
ingresso, e così via dicendo.
Sarebbe dunque manifestamente
ingiusto, oltre che foriero di gravi problematiche, se i
vari proprietari delle singole unità immobiliari potessero a
piacimento sottrarsi, mediante rinunzia al proprio diritto
di comproprietà, all’obbligo di pagare le spese per la
manutenzione di parti comuni, delle quali essi comunque sono
obbligati ad usufruire: e che la ratio della norma sia
questa è confermato dal fatto che l’art. 1118 u.c. consente
ai singoli proprietari di scollegarsi dai soli impianti di
riscaldamento e condizionamento centralizzati, del cui
utilizzo essi possono effettivamente fare a meno.
22.6. Considerazioni simili possono svolgersi con
riferimento a tutte le varie tipologie di rinunzia, che il
codice civile ammette espressamente con riferimento ai
diritti immobiliari, che in realtà esso non qualifica e che
da molti sono ritenute di natura “abdicativa”, ma si tratta
in realtà di una opzione non unanimemente condivisa.
22.6.1. Ai sensi dell’art. 963 c.c., è possibile rinunziare
alla enfiteusi, ma solo quando il fondo perisca
parzialmente: in tal caso, l’enfiteuta “secondo le
circostanze può chiedere una congrua riduzione del canone o
rinunziare al suo diritto, restituendo il fondo al
concedente, salvo il diritto al rimborso dei miglioramenti
sulla parte residua”, e l’esercizio della facoltà di
rinunzia non è più possibile decorso l’anno. Il legislatore
ha dunque limitato in maniera assai precisa la possibilità
di rinunziare al diritto di enfiteusi, e tale constatazione,
unita alla considerazione che l’enfiteusi è un istituto che
persegue non solo l’interesse dell’enfiteuta ma anche quello
del proprietario al miglioramento del fondo, induce ad
escludere che l’enfiteuta possa abdicare al proprio diritto,
come sostengono coloro che, invece, valorizzano anche le
previsioni di cui all’art. 1350 n. 5 e 2643 n. 5.
22.6.2. La rinuncia all’usufrutto è specificamente
menzionata dall’art. 2814 c.c., a mente del quale l’ipoteca
costituita sul diritto di usufrutto perdura, nonostante la
rinunzia, sino a che non si verifichi l’evento che avrebbe
altrimenti prodotto l’estinzione dell’usufrutto:
l’ammissibilità della rinunzia all’usufrutto, a prescindere
da un atto di adesione del nudo proprietario, in questo caso
poggia su una norma chiara, che sembra dare quasi per
scontata tale eventualità; è dubbio tuttavia se si tratti di
rinunzia abdicativa, poiché non vi è alcun indizio nel
codice in tal senso; si può tuttavia rilevare che, anche se
abdicativa la rinunzia, all’usufrutto non comporta per il
nudo proprietario svantaggi assolutamente estranei alla di
lui sfera giuridica o imprevedibili, e del resto, se per
effetto della rinuncia all’usufrutto sul nudo proprietario
tornano a gravare tutte le responsabilità ordinarie (per
imposte, custodia, etc. etc.), tuttavia esse sono compensate
dalla disponibilità dei frutti del bene. Dunque la rinunzia
all’usufrutto, contrariamente alla rinunzia alla enfiteusi,
non presenta particolari controindicazioni alla rinunzia,
anche se abdicativa.
22.6.3. Quanto ai diritti di uso ed abitazione, la dottrina
ne ammette la rinunzia proprio sulla constatazione che il
codice ammette la rinunzia al più ampio diritto di
usufrutto.
22.6.4. Discorso diverso va effettuato con riferimento alla
servitù, dal momento che il –codice, mentre non menziona
chiaramente la rinunzia alla servitù –se non indirettamente
nei più volte citati articoli 1350 n. 5 e 2643 n. 5–
stabilisce invece espressamente, all’art. 1070, che il
proprietario del fondo servente si può sempre liberare
dall’obbligo di pagare le spese necessarie per l’uso o per
la conservazione della servitù “rinunziando alla proprietà
del fondo servente a favore del proprietario del fondo
dominante”. In giurisprudenza ed in dottrina si trovano sia
l’orientamento che ammette la rinunzia alla sola servitù ma
solo in via bilaterale, sia l’orientamento che ammette anche
la rinunzia alla servitù di natura abdicativa: in entrambi i
casi si perviene ad ammettere la rinunzia alla servitù
facendo leva, sostanzialmente, sulla considerazione che si
tratta pur sempre di un diritto disponibile.
Tuttavia a
parere del Collegio, proprio il fatto che il legislatore ha
disciplinato la diversa ipotesi di cui all’art. 1070 c.c.
induce a dubitare della possibilità di rinunziare,
quantomeno in via unilaterale, alla sola servitù: e la
spiegazione potrebbe risiedere nel fatto che la servitù non
è posta e non esiste solo a vantaggio di un soggetto, bensì
di un fondo, il quale, venendo meno la servitù, potrebbe
risultare non più adeguatamente sfruttabile o rimanerne
comunque svalorizzato. In questa prospettiva il fatto che il
fondo servente venga “abbandonato” specificamente a favore
del proprietario del fondo dominante consente di
raggiungere, al medesimo tempo, sia lo scopo di sollevare il
proprietario del fondo servente da un peso di duplice
natura, sia quello di mantenere in buono stato manutentivo
le opere attraverso le quali la servitù può essere
esercitata, e, con esse, la godibilità del fondo dominante.
22.7. Il Collegio considera, a questo punto, che tutti i
casi in cui il codice civile ha espressamente ammesso la
rinunzia ad un diritto reale risultano accomunati dal fatto
che a fronte della rinuncia la proprietà immobiliare non
rimane “acefala”, perché in tali casi la rinunzia provoca
l’estinzione del diritto reale minore e la correlativa riespansione della piena proprietà; ovvero, trattandosi di
diritti reali minori in comunione, provoca l’accrescimento
delle quote altrui sul diritto reale minore. In nessun caso,
comunque, si viene ad avere un bene immobile privo di
proprietario.
Tutte queste fattispecie inoltre, in ultima
analisi sono accomunate anche dal fatto che consentono una
migliore gestione del bene immobile in tutti i casi in cui
il titolare del diritto oggetto di rinunzia sia, per
qualsiasi ragione, riottoso al pagamento delle spese
necessarie per mantenere il bene immobile nelle condizioni
ottimali: tanto si apprezza nella disciplina della rinuncia
alla quota in comproprietà indivisa, alla rinuncia
liberatoria alla proprietà del fondo servente, ed alla
rinuncia alla enfiteusi, che peraltro è rigidamente
disciplinata all’evidente fine di evitare che colui che si è
impegnato a produrre un determinato miglioramento del fondo,
possa sottrarsi a tale obbligo a piacimento. Solo la
rinunzia all’usufrutto sembra derogare da questa logica; ma
la realtà è che la rinuncia all’usufrutto -come del resto
la rinuncia al diritto di piena proprietà su un bene–
assume un senso solo ipotizzando che il titolare non voglia
o non sia in grado di sopportare i pesi connessi al fondo,
che la legge pone a carico dell’usufruttuario.
E’ quindi
ragionevole l’ipotesi secondo cui anche la rinunzia
all’usufrutto è consentita dal legislatore per favorire la
corretta gestione del bene immobile ogni qualvolta
l’usufruttuario non voglia o non possa continuare a farsi
carico del bene oggetto di usufrutto.
22.7.1. Perciò, in definitiva, il fatto che la rinunzia ai
diritti reali sia espressamente ammessa dal codice civile
solo con riferimento a taluni diritti reali ed alla quota di
comproprietà indivisa, non consente di presumere che la
rinunzia abdicativa ai diritti reali costituisca un istituto
generale, disciplinato in talune situazioni solo per
esplicitarne gli effetti, essendo molto più logica la
contraria opzione, secondo la quale il legislatore avrebbe
ammesso la rinunzia a diritti reali solo nei casi in cui
essa risulta funzionale alla corretta gestione ed alla
valorizzazione del bene immobile.
22.8. Le dianzi esposte considerazioni appaiono del resto
coerenti con la funzione sociale che l’art. 42 della
Costituzione assegna alla proprietà privata, la quale è
riconosciuta a garantita a tutti i cittadini non solo per
soddisfare bisogni egoistici ma anche per la soddisfazione
di interessi generali: il mantenimento in buono stato di un
bene immobile, dunque, costituisce non solo esplicazione
delle facoltà inerenti alla proprietà, ma anche un dovere,
la cui violazione, quando non ingeneri situazioni di per sé
foriere di responsabilità, viene scoraggiata dal legislatore
in vari modi: ad esempio con la possibilità di espropriare
le relative aree per assicurarne la riconversione a nuovi
utilizzi; oppure, più semplicemente, consentendo che altri
acquisiscano la proprietà del bene per usucapione.
22.9. La ammissione generalizzata della possibilità di
abdicare alla proprietà esclusiva, anche solo di tipo
superficiario, di un bene immobile, va invece in segno
diametralmente opposto, poiché non incoraggia i proprietari
ad interessarsi e ad occuparsi in maniera diligente ed
attiva dei beni, sul presupposto che di essi sarebbe sempre
possibile disfarsi mediante una rinunzia abdicativa.
22.10 Ad avviso del Collegio neppure l’art. 827 c.c. offre
validi e risolutivi argomenti a sostegno del recepimento
generalizzato, nel nostro ordinamento, della rinunzia
abdicativa alla proprietà immobiliare. Tale norma infatti,
nella sua laconicità, sembra essere stata introdotta nel
codice civile semplicemente quale disposizione di
“chiusura”, ad evitare che possano esistere beni immobili
acefali e come tali acquisibili per “occupazione” da parte
di chiunque: del resto l’occupazione della res nullius è un
modo di acquisto della proprietà valevole solo per i beni
mobili (art. 923 c.c.) e tutta la disciplina codicistica
riguardante i modi di acquisto della proprietà in realtà
dimostra che il legislatore ha cercato di evitare le
situazioni in cui beni immobili possano venire a trovarsi
privi di un proprietario. In quest’ottica la previsione di
cui all’art. 827 c.c. dovrebbe servire non già a far
acquisire al patrimonio dello Stato la proprietà di una gran
moltitudine di beni oggetto di rinunzia da parte dei
rispettivi proprietari, bensì, unicamente a dare una
proprietà a quei beni immobili rispetto ai quali non sia
possibile risalire ai proprietari dai registri immobiliari e
catastali ovvero a dare “copertura” a fattispecie
imprevedibili ed estreme, non riconducibili ad alcuna delle
ipotesi di acquisto della proprietà già previste dal codice:
ad esempio il caso di emersione di una nuova isola in acque
territoriali, che non è contemplata dagli articoli 922 e
seguenti c.c., la cui proprietà è acquisita automaticamente
al patrimonio dello Stato proprio in forza di quanto
previsto dall’art. 827 c.c.
22.11. Ma soprattutto, contro l’argomento secondo il quale
lo Stato recupererebbe automaticamente la proprietà dei beni
immobili la cui proprietà sia stata abdicata dal
proprietario, milita la considerazione che un tale sistema
mal si concilia con la nozione moderna della proprietà
privata, come diritto che ab origine è attribuito a
cittadini privati, ad enti o allo Stato, risultando
piuttosto coerente con quella concezione del diritto di
proprietà –ancor oggi vivente nei paesi di common law e che
negli Stati europei caratterizzava invece il diritto feudale
della proprietà– secondo cui esso fa capo unicamente allo
Stato o al suo rappresentante, potendo soggetti diversi
goderne, sia pure per periodi lunghissimi e con amplissime
facoltà, solo in forza di una sorta di concessione.
22.12. Del resto, salvo errore da parte del Collegio,
l’unico caso in cui in giurisprudenza si è dato ingresso
alla rinunzia abdicativa alla proprietà immobiliare è
costituito proprio dalla rinunzia al bene illegittimamente
occupato da una amministrazione per la realizzazione di un
bene di pubblica utilità: tale orientamento, enunciato nella
celebre sentenza della Corte di Cassazione n. 1907/1997,
poggia sulla mera considerazione che il fatto che il privato
non perda la proprietà del bene, laddove non risulti
operante una valida dichiarazione di pubblica utilità, “non
esclude peraltro la possibilità dell'interessato di
avvalersi, come nella specie si è avvalso, di un'azione di
risarcimento del danno per perdita definitiva del bene,
ponendo in essere un meccanismo abdicatorio che non manca di
riscontri nel nostro ordinamento positivo (artt. 1070, 1104,
550 c.c.).”, considerazione che al Collegio non pare frutto
di una meditazione particolarmente approfondita.
23. Il Collegio considera pertanto che dalle dianzi
esaminate disposizioni non si trova alcun argomento “forte”
che confermi, al di fuori delle ipotesi tipiche disciplinate
dal codice civile, la possibilità di rinunciare al diritto
di proprietà su di un bene immobile senza che
contestualmente tale diritto non si trasferisca o non si
consolidi in capo a terzi quale effetto voluto dal
rinunziante (e non dalla legge). Al contrario si constata
che né tali norme, né altre che disciplinano la forma e la
pubblicità degli atti e negozi giuridici, prevedono
espressamente la rinunzia unilaterale al diritto di
proprietà su un bene immobile.
24. Il Collegio si chiede, allora, per quale ragione, ove la
rinunzia abdicativa alla proprietà di un bene immobile,
intesa come negozio unilaterale non recettizio, costituisse
un istituto generalmente ammesso nel nostro ordinamento, il
legislatore non ha ritenuto di ammetterla esplicitamente e
di disciplinarla espressamente, tenuto conto del fatto che
se ammissibile essa sarebbe, per lo Stato, causa di acquisto
della proprietà di beni immobili di incidenza infinitamente
maggiore rispetto ai casi disciplinati agli articoli 922 e
seguenti, e considerato altresì il fatto che la proprietà di
beni immobili, ed in special modo di fabbricati, comporta
una responsabilità per custodia che il Collegio dubita
fortemente il legislatore abbia inteso addossare allo Stato
mediante la previsione di cui all’art. 827 c.c., senza
ulteriori e più specifiche norme e senza che
l’Amministrazione statale abbia la possibilità di esprimere
il proprio consenso né di venirne a conoscenza: si pensi
alla responsabilità legata alla proprietà di un terreno
franoso che sia prospiciente una via pubblica o un centro
abitato; o la responsabilità connessa alla proprietà di un
edificio in stato fatiscente, che possa crollare sulla via
pubblica o all’interno del quale chiunque possa penetrare;
responsabilità che l’Amministrazione statale farebbe fatica
a prevenire, avuto riguardo al fatto che -come già
precisato– la trascrizione della rinunzia abdicativa
sarebbe verosimilmente eseguita solo “contro” il rinunziante
ma non anche “a favore” dello Stato, che pertanto non
sarebbe neppure in grado di venire a conoscenza di eventuali
nuovi “acquisti” verificando periodicamente le trascrizioni
“a favore”. Salvo sostenere che, proprio per tale ragione,
lo Stato è impossibilitato ad esercitarne la custodia in
maniera diligente, con il risultato paradossale che tutto
questo patrimonio immobiliare continuerebbe, lecitamente, a
rimanere incustodito, improduttivo ed inutilizzato,
fatiscente e fonte di pericolo per la incolumità pubblica.
25. Si consideri ancora che la rinunzia abdicativa alla
proprietà immobiliare comporterebbe il venir meno, in capo
al privato, dell’obbligo di pagare le varie imposte
(fondiarie, imu, tari, etc. etc.) collegate alla proprietà
del bene oggetto di rinunzia, evenienza, questa, che
ugualmente si può dubitare fortemente costituisca una
conseguenza preveduta ed accettata dal legislatore quale
effetto dell’enunciato contenuto nell’art. 827.
26. Né si può trascurare di rilevare che gli effetti
conseguenti alla dottrina di cui sopra si è dato conto
risultano, se possibile, ancor più paradossali e dannosi
proprio con riferimento alle occupazioni illegittime, per la
già accennata ragione che, ammettendo in dette fattispecie
che il privato abbia la possibilità di rinunziare alla
proprietà vantata sul bene occupato divenendo
contestualmente titolare del diritto ad essere risarcito del
valore venale dell’immobile, si finisce per gravare
l’amministrazione “occupante” di un obbligo risarcitorio al
quale però non fa da contraltare l’acquisto della proprietà
del bene, il quale, per effetto di questa rinunzia
“atipica”, passerebbe invece a far parte del patrimonio
dello Stato ex lege, ai sensi dell’art. 827 c.c..
Vale la
pena precisare, sul punto, che non vi sono ragioni per
pensare che tale norma alluda allo “Stato” inteso come
insieme delle Amministrazioni pubbliche che ne sono
espressione, derivazione o che comunque coesistono sul
territorio nazionale. Infatti, anche in altri casi, e con
riferimento a settori in cui non si dubita che la norma
alluda allo Stato-persona, il codice civile lo indica
semplicemente come “Stato” (ad es. all’art. 586) senza
ulteriori specificazioni; in giurisprudenza, inoltre, la
norma è stata interpretata nel senso che essa allude al
patrimonio dello Stato (persona) e non di altre
Amministrazioni pubbliche (cfr. Cass. Civ. n. 2862/1995).
Infine merita ricordare che con l’art. 1, comma 260, della L.
296/2006 il legislatore ha confermato la spettanza allo
Stato (persona) dei beni “vacanti” e di quelli relativi alle
eredità giacenti, stabilendo che con decreto
interministeriale (peraltro ad oggi non ancora emanato)
dovessero essere indicati i criteri utili ad individuare
tali beni.
26.1. Risulta quindi non condivisibile quanto afferma la
pronuncia del Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 4636 del 07.11.2016, secondo la quale “Con riferimento alla
specifica ipotesi in cui il proprietario formuli non già
domanda di restituzione ovvero di riduzione in pristino del
proprio bene illecitamente occupato dall'amministrazione,
bensì di risarcimento del danno patito (con effetti
abdicativi del diritto di proprietà), muovendo da tali
principi, occorre ancora affermare che: a) stante la natura abdicativa e non traslativa dell'atto di rinuncia, il
provvedimento con il quale l'amministrazione procede alla
effettiva liquidazione del danno -rappresentando il mancato inveramento della condizione risolutiva implicitamente
apposta dal proprietario al proprio atto abdicativo che di
esso rappresenta il presupposto- costituisce atto da
trascriversi ai sensi degli artt. 2643, primo comma, n. 5 e
2645 cod. civ., anche al fine di conseguire gli effetti
della acquisizione del diritto di proprietà in capo
all'amministrazione, a far data dal negozio unilaterale di
rinuncia”: non è condivisibile, a tacer d’altro, per
l’intrinseca contraddizione insita nell’affermazione secondo
cui la rinunzia avrebbe carattere abdicativo e tuttavia
l’acquisto del bene oggetto di rinunzia dovrebbe avvenire in
capo alla amministrazione che liquida il danno, e cioè alla
amministrazione occupante, e non già in capo allo Stato.
26.1.1. Infatti -si ricorda- la giurisprudenza della Corte
di Cassazione ha sempre qualificato la rinunzia del privato
alla proprietà del bene occupato come rinunzia abdicativa,
ma da essa consegue –secondo la ricostruzione che qui si
avversa- che il bene occupato a seguito della rinunzia
rimane per un istante senza proprietario, res nullius per
poi entrare nel patrimonio dello Stato, e non già nel
patrimonio di altra amministrazione; e la stessa sentenza
della Corte di Cassazione n. 735/2015 afferma espressamente
che l’amministrazione occupante non acquista il bene
occupato per effetto della rinunzia, trattandosi di rinunzia
abdicativa e non traslativa.
26.1.2. Quanto affermato dal Consiglio di Stato
nella sopra ricordata pronuncia risulta dunque non
condivisibile non solo perché, in conformità con
l’orientamento in questo momento prevalente, ammette la
possibilità di esercitare la rinunzia abdicativa della
proprietà immobiliare anche al di fuori dei casi ammessi dal
codice civile, ma prima ancora perché afferma, erroneamente
ad avviso del Collegio, che la proprietà del bene rinunziato
viene acquisita in capo alla amministrazione occupante.
26.2. La giurisprudenza, sia della Corte di Cassazione che
quella del Consiglio di Stato, non sembra essersi
interrogata circa le incongruenze che derivano
dall’ammettere che il privato possa rinunziare
unilateralmente al proprio diritto di proprietà facendo
conseguire da tale manifestazione di volontà l’obbligo della
amministrazione occupante di risarcire il privato di un
valore commisurato all’intero valore del bene.
26.2.1. Dal momento che l’amministrazione occupante non
diventa proprietaria del bene non si comprende, anzitutto,
per quale ragione essa debba corrispondere un danno
commisurato all’intero valore venale del bene, stante che il
bene stesso non viene distrutto. Sul punto mette conto
sottolineare che a seguito della evoluzione di cui sopra si
è dato conto e che ha portato a riconoscere che il privato
non perde la proprietà del bene per effetto della
trasformazione impressa dalla attività manipolatrice della
amministrazione occupante, in giurisprudenza –soprattutto
quella amministrativa– si è progressivamente consolidato il
principio secondo cui la restituzione del bene deve
ritenersi sempre possibile, e doverosa, perché in realtà
nulla, se non fattori di natura meramente economica,
impedisce il ripristino del bene allo stato originario e la
restituzione di esso (C.d.S. Sez. IV, n. 1466/2015, punto
2.1., con la giurisprudenza ivi richiamata; C.d.S., Sez. IV
- sentenza 02.09.2011 n. 4970; C.d.S. Sez. IV -
sentenza 15.09.2014, n. 4696; C.d.S. Sez. IV -
sentenza 29.04.2014, n. 2232).
Né si deve trascurare di
considerare che il privato, rimanendo proprietario del fondo
occupato diventa automaticamente proprietario anche
dell’opera che su di esso è stata realizzata, opera che il
più delle volte può essere sfruttata economicamente anche da
privati e che pertanto costituisce per il privato una fonte
di arricchimento, più che di impoverimento. Dipoi si deve
considerare che, anche ammessa la possibilità per il privato
di abdicare unilateralmente al proprio diritto, il bene esce
dal di lui patrimonio per effetto di una manifestazione di
volontà unilaterale di quest’ultimo, manifestazione che, per
definizione, non è qualificata da un vizio di volontà, ed in
particolare da coartazione.
Quindi non si comprende proprio
per quale motivo, a fronte della manifestazione di una
volontà abdicativa del proprio diritto di proprietà, al
proprietario dovrebbe sempre ed invariabilmente essere
riconosciuto il diritto ad ottenere un risarcimento
commisurato, sostanzialmente, al valore venale di un bene
che non ha mai perso, che ha diritto a vedersi restituire
allo stato originario (fatte salve eventuali valutazioni in
senso contrario nelle situazioni rilevanti ai sensi
dell’art. 2933 c.c.) e che molte volte vede il suo valore
economico accresciuto rispetto al momento della occupazione.
Né pare possibile che la domanda risarcitoria possa
condizionare la rinunzia abdicativa manifestata dal privato,
la quale reca in sé la non onerosità e la rinuncia del
privato rinunziante a pretendere qualsivoglia corrispettivo,
proprio perché si tratta di rinunzia che non ha un
destinatario e che non vuole conseguire altro scopo se non
quello di dismettere la proprietà del bene.
26.2.2. In secondo luogo si deve sottolineare che non esiste
una norma specifica che obblighi lo Stato a ritrasferire
alla amministrazione occupante, gratuitamente o anche solo
ad un prezzo simbolico, il bene occupato, alla cui proprietà
il privato ha rinunziato e che per tale ragione sarebbe
entrato a far parte del patrimonio dello Stato: le
amministrazioni occupanti, quindi, a fronte della
unilaterale rinunzia manifestata dal privato si trovano
onerate dall’obbligo di sborsare una somma commisurata al
valore del bene, corrisposta al privato, oltre all’obbligo
di sborsare una ulteriore somma danaro necessaria per
riacquistare il bene dallo Stato: il Collegio non ignora che
esiste una normativa che ad alcune condizioni consente, tra
amministrazioni pubbliche, di effettuare trasferimenti di
proprietà a prezzi significativamente inferiori a quelli di
mercato, ma anche così lo Stato potrebbe pretendere il
pagamento di un prezzo, che si aggiungerebbe al risarcimento
già corrisposto al privato, salvo che lo Stato e
l’amministrazione occupante non si accordino, su base
totalmente volontaria, per attuare il trasferimento
dell’immobile ad un prezzo simbolico o a titolo di donazione
o comunque ad un titolo che non comporti corresponsione di
prezzo alcuno.
27. Come si vede sono numerose e gravi le conseguenze insite
nell’ammettere che il privato possa sempre rinunziare
unilateralmente al proprio diritto di proprietà su un bene
immobile, e tali conseguenze sono ancor più gravi ove
oggetto di rinunzia sia un bene occupato e trasformato per
realizzarvi un’opera di pubblica utilità: si tratta in tutti
i casi di conseguenze che, sia pure in modi diversi, vanno a
gravare sulla finanza pubblica.
27.1. Che si tratti di un problema molto sentito nella
prassi e, quindi, possibilmente foriero di conseguenze
incalcolabili, o quasi, è testimoniato dal fatto sono sempre
più numerosi i casi in cui privati proprietari manifestano
l’intenzione di voler abdicare, con atto notarile, al
proprio diritto di proprietà su un immobile, esattamente
allo scopo di sottrarsi agli obblighi fiscali nonché agli
obblighi di custodia e manutenzione che la proprietà di un
bene immobile comporta, al punto che la questione è stata
fatta oggetto dello studio civilistico n. 216-2014/C
dell’Ufficio Studi del Consiglio Nazionale del Notariato, il
quale nella premessa spiega che “Il presente studio nasce a
seguito di molteplici quesiti pervenuti all’Ufficio studi
aventi ad oggetto la possibilità da parte del Notaio di
ricevere atti di rinunzia ai diritti reali, nonché la
disciplina e gli effetti dei medesimi. Il tema in esame
risulta essere particolarmente interessante, sia da un punto
di vista prettamente teorico e dogmatico, sia da un punto di
vista pratico, tanto più in un contesto socio-economico,
quale quello attuale, in cui atti del genere possono
risultare frequenti, stante la crisi economica e la forte
pressione fiscale. Spesso infatti le fattispecie in cui può
emergere la volontà rinunziativa della parte hanno ad
oggetto beni e diritti dei quali non si vuole più sostenere
l’onere tributario, ovvero che non sono più di interesse, in
quanto di scarso valore e praticamente ingestibili (si pensi
ad un piccolo fabbricato fatiscente inservibile ovvero alla
quota di comproprietà su un piccolo terreno infruttuoso sito
in una località molto distante da quella di residenza). Le
fattispecie più rilevanti, tra quelle esaminate, sembrano
essere quella della rinunzia al diritto di proprietà nonché
alla quota indivisa di comproprietà, forse anche perché
ritenute le più inconsuete, tanto da dubitarsi –almeno nel
sentire comune– persino della loro ammissibilità. La
dottrina che se ne è occupata in passato, del resto, le ha
quasi sempre considerate come ipotesi di scuola, oggetto di
un interesse prettamente teorico, ma che oggi possono
divenire concretamente praticabili.”.
L’indicato studio
conclude nel senso della ammissibilità della rinunzia abdicativa alla proprietà esclusiva di un bene immobile, e
quindi è prevedibile che nella prassi tali rinunzie
cominceranno ad aumentare e a diventare numerose.
28. Tali considerazioni convincono definitivamente il
Collegio che occorre grande prudenza prima di affermare che
nel nostro ordinamento la rinunzia abdicativa ai diritti
reali, ed in particolare alla proprietà esclusiva su un bene
immobile, sia un istituto generalmente ammesso dal
legislatore: la considerazione delle gravi conseguenze, per
la finanza pubblica, derivanti dall’ammettere senza limiti
la rinunzia abdicativa ai diritti reali immobiliari, anche
fuori dai casi contemplati dal codice, avrebbe dovuto
spingere il legislatore ad esprimersi con norme chiare e
specifiche, ciò che non é.
29. Per le ragioni esposte nei paragrafi che precedono
il
Collegio non crede che il corredo normativo esistente, di
cui sopra si è dato conto, giustifichi la affermazione
secondo cui la rinunzia abdicativa è ammessa in via generale
dal nostro ordinamento e che, conseguentemente, può essere
esercitata anche fuori dalle ipotesi disciplinate dal codice
civile, segnatamente con riferimento al diritto di proprietà
su beni immobili.
Essa rinunzia non può essere desunta in
via interpretativa da norme che disciplinano casi specifici
di rinunzia abdicativa, dalle quali semmai si dovrebbe
ricavare che il legislatore ha voluto ammettere solo casi
tipici. Né essa rinunzia si può evincere, in maniera chiara,
senza ricorso a forzature interpretative e senza pretendere
di “riempire” vuoti normativi, dalle ulteriori norme codicistiche che sopra sono state esaminate: gli articoli
1350 n. 5 e 2643 n. 5, in particolare, facendo riferimento
alla rinunzia ai diritti immobiliari possono e debbono
interpretarsi, prima di tutto, nel senso che si riferiscono
ai casi di rinunzia a diritti reali espressamente
disciplinati dal codice (ad esempio: la rinunzia a diritti
reali minori; la rinunzia alla quota di proprietà pro
indiviso) ovvero, comunque, a casi di rinunzia traslativa, e
non abdicativa; d’altro canto l’art. 827 c.c. non contiene
alcun riferimento alla rinunzia abdicativa a diritti
immobiliari e segnatamente alla rinunzia al diritto di
proprietà, né, peraltro, tale norma contiene riferimento
alcuno agli atti e fatti giuridici che possono aver dato
luogo alla esistenza di beni immobili privi di proprietario.
Valga infine la considerazione che tutti i casi di rinunzia
a diritti reali contemplati dal codice civile, che la
dottrina per lo più qualifica come ipotesi di rinunzia non ricettizia, facendone discendere la natura abdicativa, non
rendono mai il bene oggetto del diritto rinunziato privo di
proprietario, a differenza di quanto accadrebbe ammettendo
che il proprietario singolo di un bene possa unilateralmente
abdicare alla proprietà di esso: è quindi lecito presumere
che il legislatore abbia ammesso (solo) quelle fattispecie
di rinunzia abdicativa a diritti immobiliari che non
determinano una “vacatio” nella titolarità del bene, il che
conferma, semmai ve ne fosse ancora bisogno, che la rinunzia abdicativa a diritti reali non può considerarsi ammessa in
via generale, con conseguente nullità degli atti che ne
costituiscono espressione.
30. Il Collegio ritiene, conclusivamente, di doversi
discostare dal pressoché unanime e costante orientamento
della giurisprudenza civile ed amministrativa che ancora
oggi ammette la possibilità, per il privato, il cui bene
immobile sia stato illegittimamente occupato per la
realizzazione di un’opera di pubblica utilità, di abdicare
unilateralmente alla proprietà di esso: ciò in primo luogo
perché deve ritenersi non consentita dal nostro ordinamento
giuridico la rinunzia abdicativa alla proprietà esclusiva su
beni immobili; in secondo luogo perché una tale rinunzia
abdicativa all’attualità deve comunque ritenersi non
consentita con riferimento a beni immobili illegittimamente
occupati per scopi di pubblica utilità.
31. La domanda risarcitoria formulata dalla ricorrente per
vedersi indennizzare della perdita del valore dell’intero
terreno deve pertanto essere respinta.
32. La ricorrente resta però proprietaria della porzione di
terreno che risulta occupata dalla strada, e di essa,
conformemente alla giurisprudenza che si era ormai
consolidata a partire dalla fine degli anni 2000 e che
prevede che i beni non espropriati debbono essere restituiti
ovvero acquisiti in proprietà nelle forme previste
dall’ordinamento (compravendita; esproprio; acquisizione ex
art. 42-bis), la ricorrente può chiedere ed ottenere la
restituzione, ciò che non ha fatto nel presente giudizio.
Il
Collegio non può quindi disporre la restituzione, a meno di
incorrere nella violazione del principio di corrispondenza
tra il chiesto ed il pronunciato. La ricorrente potrà agire
in separata sede per ottenere tale restituzione, fermo
restando, tuttavia, che anche dopo la restituzione il Comune
di Cherasco manterrà la facoltà di acquisire il bene nelle
forme dianzi indicate.
33. Relativamente al danno conseguente al periodo di
occupazione, conformemente ai più recenti approdi
giurisprudenziali va riconosciuto alla ricorrente il danno
conseguente al non aver potuto disporre della porzione di sedime occupata: “posto che la proprietà è la facoltà di
godere e disporre del bene, la privazione della facoltà di
godimento lascia presumere la lesione del diritto reale,
peraltro caratterizzato, a differenza dei diritti relativi,
da una atipicità delle possibili forme d'uso. Il
proprietario, pertanto, non deve dimostrare positivamente il
danno; grava, viceversa, sull'occupante l'onere della prova
circa il fatto che il dominus si sia consapevolmente
disinteressato dell'immobile ed abbia omesso di esercitare
su di esso ogni pur ridotta forma di utilizzazione (cfr., da
ultimo, Cass., Sez. 3, 09.08.2016, n. 16670; Sez. 2, 15.10.2015, n. 20823; Sez. 2,
07.08.2012, n. 14222;
Cons. Stato, Sez. IV, 27.02.2017, n. 897)”: così
C.d.S. Sez. IV n. 5574 del 28/11/2017 (pronuncia dalla quale
il Collegio evidentemente si discosta, invece, per le sopra
esposte ragioni, in punto ammissibilità della rinunzia
abdicativa della proprietà da parte del privato e della
correlativa domanda risarcitoria da questi formula).
34. Il Collegio ritiene di poter procedere equitativamente
alla liquidazione del danno, dal momento che, in ragione
della modesta superficie occupata, una verificazione sul
punto sarebbe antieconomica. Tenuto conto del fatto che la
ricorrente nel 2011 ha venduto la residua parte del terreno
al prezzo di E. 4.02/mq, assumendo che tale prezzo sia
frutto di una svalutazione dovuta alla occupazione, il
Collegio ritiene che esso possa rappresentare il valore
venale del bene nel 2008, al momento della apprensione. Alla
ricorrente spetta dunque un danno “da sottrazione” del bene
che va quantificato, per ogni anno di occupazione, in
ragione del 5% del valore venale del bene occupato, ovvero
il 5% annuo di Euro 361,80 (Euro 4,02/mq x 90 mq.) dal
momento della occupazione (01.02.2008) al momento
della notificazione della domanda giudiziale (16.02.2011). A detta somma devono aggiungersi la rivalutazione
monetaria e gli interessi al tasso legale computati sulla
somma anno per anno rivalutata sino al soddisfo.
35. La complessità dei temi trattati giustifica la
compensazione delle spese.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte
(Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso,
come in epigrafe proposto, ogni diversa domanda rigettata
così provvede:
- dichiara improcedibile la domanda di annullamento del
provvedimento in epigrafe indicato;
- accoglie la domanda risarcitoria limitatamente al danno mancato
godimento del sedime di terreno oggetto di illegittima
occupazione, nei limiti indicati al paragrafo 33.1.;
- per l’effetto condanna il Comune di Cherasco al pagamento, in
favore della ricorrente, delle somme indicate al paragrafo
34. |
ESPROPRIAZIONE:
Interesse ad impugnare la revoca della procedura
espropriativa.
---------------
Espropriazione per pubblica utilità – Revoca –
Impugnazione – Interesse all’annullamento – Individuazione.
L’effettivo interesse azionato dal
soggetto che impugna la revoca della procedura di esproprio,
chiedendo che il procedimento si svolga fino all’esito
dell’espropriazione delle aree di proprietà, è relativo agli
effetti patrimoniale della procedura, e cioè alla
riscossione dell’intera indennità di esproprio e al
risarcimento dei danni che l’interessato pretende gli siano
fin qui derivati (1).
---------------
(1)
Ha ricordato il Tar che i provvedimenti di revoca si
configurano in generale come tipici atti di natura
discrezionale, come tali sindacabili solo per vizi esterni e
la discrezionalità in merito dell’Amministrazione risulta
ancor più ampia quando la revoca va ad incidere su rapporti
non ancora consolidati.
Ciò posto, se del tutto ragionevolmente e legittimamente è
stata disposta la revoca, anche il recupero di quanto già
liquidato, deciso dall’amministrazione con il provvedimento
impugnato in principalità risulta coerente con il diritto di
ripetere il pagamento eseguito a favore del privato a titolo
di indennità di espropriazione A tale proposito valgono,
infatti, le regole della ripetizione dell'indebito, essendo
l'art. 2033 c.c., applicabile anche nel caso di
sopravvenienza della causa che rende indebito il pagamento
(Cass., s.u., nn. 5624 e 14886 del 2009).
Quanto, poi, alla doglianza relativa alla mancata
previsione, nell’impugnato provvedimento di revoca,
dell’indennizzo che l’art. 21-quinquies, comma 1, ultima
parte, l. 07.08.1990, n.241 stabilisce quale obbligo a
carico dell’amministrazione, vale innanzitutto premettere
che la revoca che non prevede l’indennizzo non è
illegittima, non avendo tale omissione effetto viziante o
invalidante della revoca, ma semplicemente legittimando il
privato ad azionare in giudizio la pretesa patrimoniale.
In disparte il fatto che l’indennizzo, quale rimedio a
valenza latu sensu risarcitoria è per sua natura
connesso alla revoca di provvedimenti favorevoli, mentre,
come si è premesso, nella fattispecie viene revocato un atto
di una procedura tipicamente sfavorevole, vale, tuttavia,
fin d’ora anche puntualizzare che la revoca in esame incide,
come si è detto, in una fase del procedimento di esproprio
non ancora concluso con il provvedimento finale (TRGA
Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 02.03.2018 n. 50
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2017 |
|
ESPROPRIAZIONE:
Come noto, la dichiarazione di pubblica utilità è
correlata all’approvazione del progetto definitivo
dell’opera pubblica (cfr. al riguardo il consolidato
orientamento giurisprudenziale, formatosi sulla scorta della
decisioni dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con
le decisioni 15.09.1999, n. 14, 24.01.2000, n.
2, del 20.12.2002 n. 8, secondo il quale al privato
proprietario di un'area destinata all'espropriazione,
siccome interessata dalla realizzazione di un'opera
pubblica, dev'essere garantita, mediante la formale
comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento, la
possibilità di interloquire con l'amministrazione procedente
sulla sua localizzazione e, quindi, sull'apposizione del
vincolo, prima della dichiarazione di pubblica utilità,
indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell'approvazione del
progetto definitivo).
Ciò posto, il Collegio esprime l’avviso che, sebbene
la giurisprudenza sul punto non sia unanime, il
riconoscimento dell’assenza di una valida dichiarazione di
pubblica utilità o il suo annullamento in sede
giurisdizionale abbia un effetto caducante e non meramente
viziante sul decreto di esproprio che pertanto resta
travolto, come del resto tutti gli altri atti della
procedura espropriativa, senza necessità della loro
impugnativa.
La rimozione delle determinazioni che ab origine hanno dato
l'abbrivio alla procedura ablatoria oltre a comportare
l’illegittimità dell'occupazione dei suoli avvenuta sine
titulo produce un effetto "domino", con l'invalidazione dei
successivi atti del procedimento espropriativo ivi compreso
quello conclusivo, rappresentato dal decreto finale di
esproprio che viene anch'esso travolto.
Pertanto non rileva la circostanza che parte ricorrente non
abbia eventualmente impugnato tempestivamente il decreto di
esproprio, in quanto il venire meno della dichiarazione di
pubblica utilità –nell’ipotesi di specie a seguito della
sentenza di questa Sezione, confermata dal Consiglio di
Stato– determina un effetto automaticamente caducante,
derivante dalla invalidità degli atti presupposti, senza che
si possa configurare a carico della parte interessata un
onere di impugnazione del decreto finale di esproprio.
Tra la dichiarazione di pubblica utilità e il decreto di
esproprio infatti corre un rapporto di necessaria
presupposizione, tale per cui l'annullamento del primo non
ha sul secondo effetti meramente vizianti, bensì caducanti.
Vero è, infatti, che il decreto di esproprio può essere
adottato solo in presenza di una valida dichiarazione di
pubblica utilità. Conseguentemente, l'annullamento
giurisdizionale della dichiarazione di p.u. comporta
l'automatica caducazione degli effetti del decreto di
esproprio nel frattempo emesso, anche laddove non
tempestivamente e ritualmente impugnato.
Si è infatti osservato che l'atto dichiarativo della
pubblica utilità, implicito nella delibera di approvazione
del progetto di opera pubblica, determina l'affievolimento a
interesse legittimo del diritto soggettivo del proprietario
espropriando e la costituzione, in capo all'Amministrazione,
del potere espropriativo, con conseguente onere per il
primo, in ragione del carattere immediatamente lesivo
dell'atto in questione, di tempestiva impugnazione dello
stesso anche ai fini dell'eventuale annullamento, in virtù
dell'effetto caducante determinato dalla sua eliminazione
dal mondo della realtà giuridica, del decreto di
espropriazione successivamente adottato, che deve risultare
sorretto da valida ed efficace dichiarazione di pubblica
utilità.
---------------
14.1. Pertanto occorre rilevare che la citata sentenza di annullamento
non ha riguardato soltanto, contrariamente a quanto
osservato dalla difesa del Comune, gli atti relativi
all’occupazione d’urgenza, ma gli stessi atti fondanti della
procedura espropriativa di cui è causa ed in primis il
decreto del commissario delegato dalla P.C.M., Prefetto di
Napoli, n. P/15544/DIS del 30/09/1995 di approvazione del
progetto esecutivo per la realizzazione di una discarica
alla località “Masseria del Pozzo” del Comune di Giugliano.
Risulta pertanto evidente come la pronuncia di annullamento
abbia riguardato anche la dichiarazione di pubblica utilità
dell’opera di cui è causa.
Infatti, come noto, la dichiarazione di pubblica utilità è
correlata all’approvazione del progetto definitivo
dell’opera pubblica (cfr. al riguardo il consolidato
orientamento giurisprudenziale, formatosi sulla scorta della
decisioni dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con
le decisioni 15.09.1999, n. 14, 24.01.2000, n.
2, del 20.12.2002 n. 8, secondo il quale al privato
proprietario di un'area destinata all'espropriazione,
siccome interessata dalla realizzazione di un'opera
pubblica, dev'essere garantita, mediante la formale
comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento, la
possibilità di interloquire con l'amministrazione procedente
sulla sua localizzazione e, quindi, sull'apposizione del
vincolo, prima della dichiarazione di pubblica utilità,
indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell'approvazione del
progetto definitivo; per tutte Consiglio di Stato, IV, 11.11.2014, n. 5525).
14.2. Ciò posto, il Collegio esprime l’avviso che, sebbene
la giurisprudenza sul punto non sia unanime, il
riconoscimento dell’assenza di una valida dichiarazione di
pubblica utilità o il suo annullamento in sede
giurisdizionale abbia un effetto caducante e non meramente
viziante sul decreto di esproprio che pertanto resta
travolto, come del resto tutti gli altri atti della
procedura espropriativa, senza necessità della loro
impugnativa (Cons. St., sez. IV, n. 4193 del 2015; Cons.
Stato, sez. IV, 03/10/2012, n. 5189; Cons. Stato, Sez. IV,
29/01/2008, n. 258; TAR Sardegna, sez. II, 18/04/2005, n.
776; TAR Napoli, sez. IV n. 385/2014).
La rimozione delle determinazioni che ab origine hanno dato
l'abbrivio alla procedura ablatoria oltre a comportare
l’illegittimità dell'occupazione dei suoli avvenuta sine
titulo produce un effetto "domino", con l'invalidazione dei
successivi atti del procedimento espropriativo ivi compreso
quello conclusivo, rappresentato dal decreto finale di
esproprio che viene anch'esso travolto.
Pertanto non rileva la circostanza che parte ricorrente non
abbia eventualmente impugnato tempestivamente il decreto di
esproprio, in quanto il venire meno della dichiarazione di
pubblica utilità –nell’ipotesi di specie a seguito della
sentenza di questa Sezione, confermata dal Consiglio di
Stato– determina un effetto automaticamente caducante,
derivante dalla invalidità degli atti presupposti, senza che
si possa configurare a carico della parte interessata un
onere di impugnazione del decreto finale di esproprio (Cons.
Stato, sez. IV, 03/10/2012, n. 5189; Cons. Stato Sez. IV,
29/01/2008 n. 258; Cons. Stato, Sez. IV, 30/12/2003 n. 9155;
Cons. Stato Sez. IV, 30/06/2003 n. 3896).
Tra la dichiarazione di pubblica utilità e il decreto di
esproprio infatti corre un rapporto di necessaria
presupposizione, tale per cui l'annullamento del primo non
ha sul secondo effetti meramente vizianti, bensì caducanti.
Vero è, infatti, che il decreto di esproprio può essere
adottato solo in presenza di una valida dichiarazione di
pubblica utilità. Conseguentemente, l'annullamento
giurisdizionale della dichiarazione di p.u. comporta
l'automatica caducazione degli effetti del decreto di
esproprio nel frattempo emesso, anche laddove non
tempestivamente e ritualmente impugnato (TAR Bolzano,
(Trentino-Alto Adige), sez. I, 12/09/2016, n. 394; Cons.
St., sez. IV, n. 4193 del 2015; id., n. 5189 del 2012).
Si è infatti osservato che l'atto dichiarativo della
pubblica utilità, implicito nella delibera di approvazione
del progetto di opera pubblica, determina l'affievolimento a
interesse legittimo del diritto soggettivo del proprietario
espropriando e la costituzione, in capo all'Amministrazione,
del potere espropriativo, con conseguente onere per il
primo, in ragione del carattere immediatamente lesivo
dell'atto in questione, di tempestiva impugnazione dello
stesso anche ai fini dell'eventuale annullamento, in virtù
dell'effetto caducante determinato dalla sua eliminazione
dal mondo della realtà giuridica, del decreto di
espropriazione successivamente adottato, che deve risultare
sorretto da valida ed efficace dichiarazione di pubblica
utilità (Consiglio di Stato, sez. IV, 16/03/2010, n. 1540).
14.2.1. Pertanto il ricorso, nella sua parte impugnatoria è
fondato, a prescindere dalla tempestività della notifica del
ricorso e dalla delibazione delle censure articolate in
ricorso, in quanto, come osservato del resto da parte
ricorrente nelle memorie successivamente depositate nel
corso del giudizio, l’intera procedura ablatoria, culminata
poi nel decreto di esproprio oggetto di impugnativa nella
presente sede, deve intendersi travolta, a seguito del
giudicato formatosi sulla sentenza di questa Sezione n.
243/1997.
La domanda impugnatoria, in quanto volta ad evidenziare il
vizio genetico, con effetto caducante, dell’intera
procedura, va pertanto accolta e per l’effetto va annullato
il Decreto prot. n. P/38455/DIS del 16/11/1998, con il quale
il Prefetto di Napoli, Commissario delegato ex OPCM
07/10/1994 ha pronunciato l’espropriazione definitiva a
favore del Comune di Giugliano in Campania dei beni immobili
di proprietà della società EC. srl siti nel Comune di
Giugliano in Campania in località Masseria del Pozzo,
determinando le relative indennità (TAR Campania-Napoli,
Sez. V,
sentenza 21.11.2017 n. 5479 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Le pronunce di incostituzionalità delle leggi -come noto- hanno effetto erga omnes, a nulla valendo la
circostanza che parte ricorrente non sia stata parte del
giudizio a quo, né rileva che la stessa non sia stata parte
dei giudizi impugnatori avverso la procedura espropriativa,
in quanto con la declaratoria di incostituzionalità della
citata L.R. è venuta meno la dichiarazione di pubblica
utilità che costituisce il fondamento di tutta l’unitaria
procedura espropriativa, con effetto pertanto caducante
della medesima.
---------------
Sebbene la giurisprudenza sul punto non sia unanime, il
riconoscimento dell’assenza di una valida dichiarazione di
pubblica utilità o il suo annullamento in sede
giurisdizionale abbia un effetto caducante e non meramente
viziante sul decreto di esproprio che pertanto resta
travolto, come del resto tutti gli altri atti della
procedura espropriativa, senza necessità della loro
impugnativa.
La rimozione delle determinazioni che ab origine hanno dato
l'abbrivio alla procedura ablatoria oltre a comportare
l’illegittimità dell'occupazione dei suoli avvenuta sine
titulo produce un effetto "domino", con l'invalidazione dei
successivi atti del procedimento espropriativo ivi compreso
quello conclusivo, rappresentato dal decreto finale di
esproprio che viene anch'esso travolto, come ritenuto
nell’ipotesi di specie, in relazione alla procedura de qua,
dalla sentenza di questa Sezione, n. 8904/2008, con la quale
si è annullato il decreto di esproprio a seguito della
cennata pronuncia della Corte Costituzionale.
Peraltro non rileva la circostanza che parte ricorrente non
sia stata parte dei giudizi impugnatori in quanto il venire
meno della dichiarazione di pubblica utilità –nell’ipotesi
di specie a seguito della pronuncia della Consulta–
determina un effetto automaticamente caducante, derivante
dalla invalidità degli atti presupposti, senza che si possa
configurare a carico della parte interessata un onere di
impugnazione del decreto finale di esproprio.
---------------
11.1. Entrambi gli assunti non colgono nel segno.
Ed invero, le pronunce di incostituzionalità delle leggi
-come noto- hanno effetto erga omnes, a nulla valendo la
circostanza che parte ricorrente non sia stata parte del
giudizio a quo, né rileva che la stessa non sia stata parte
dei giudizi impugnatori avverso la procedura espropriativa,
in quanto con la declaratoria di incostituzionalità della
citata L.R. è venuta meno la dichiarazione di pubblica
utilità che costituisce il fondamento di tutta l’unitaria
procedura espropriativa, con effetto pertanto caducante
della medesima.
Al riguardo Collegio esprime infatti l’avviso che, sebbene
la giurisprudenza sul punto non sia unanime, il
riconoscimento dell’assenza di una valida dichiarazione di
pubblica utilità o il suo annullamento in sede
giurisdizionale abbia un effetto caducante e non meramente
viziante sul decreto di esproprio che pertanto resta
travolto, come del resto tutti gli altri atti della
procedura espropriativa, senza necessità della loro
impugnativa (Cons. Stato, sez. IV, 03/10/2012, n. 5189; Cons.
Stato, Sez. IV, 29/01/2008, n. 258; TAR Sardegna, sez. II,
18/04/2005, n. 776; TAR Napoli, sez. IV n. 385/2014).
La rimozione delle determinazioni che ab origine hanno dato
l'abbrivio alla procedura ablatoria oltre a comportare
l’illegittimità dell'occupazione dei suoli avvenuta sine
titulo produce un effetto "domino", con l'invalidazione dei
successivi atti del procedimento espropriativo ivi compreso
quello conclusivo, rappresentato dal decreto finale di
esproprio che viene anch'esso travolto, come ritenuto
nell’ipotesi di specie, in relazione alla procedura de qua,
dalla sentenza di questa Sezione, n. 8904/2008, con la quale
si è annullato il decreto di esproprio a seguito della cennata pronuncia della Corte Costituzionale.
Peraltro non rileva la circostanza che parte ricorrente non
sia stata parte dei giudizi impugnatori in quanto il venire
meno della dichiarazione di pubblica utilità –nell’ipotesi
di specie a seguito della pronuncia della Consulta–
determina un effetto automaticamente caducante, derivante
dalla invalidità degli atti presupposti, senza che si possa
configurare a carico della parte interessata un onere di
impugnazione del decreto finale di esproprio (Cons. Stato,
sez. IV, 03/10/2012, n. 5189; Cons. Stato Sez. IV, 29/01/2008
n. 258; Cons. Stato, Sez. IV, 30/12/2003 n. 9155; Cons. Stato
Sez. IV, 30/6/2003 n. 3896) (TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 02.11.2017 n. 5109 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Legittimato passivo della pretesa risarcitoria da
occupazione illegittima nel caso di successione a titolo
particolare tra enti.
---------------
•
Espropriazione per pubblica utilità – Indennità di esproprio
– Creazione nuovo ente locale per effetto di distacco di una
parte del territorio di un altro preesistente – Transito
debito indennitario – Esclusione.
•
Espropriazione per pubblica utilità – Occupazione
illegittima – Risarcimento danni - Conseguente rinuncia alla
proprietà del bene.
•
In tema di procedure ablative, nel caso di
creazione di un ulteriore ente locale mediante distacco di
una parte del territorio di un altro preesistente, non è
possibile far transitare nel patrimonio del nuovo il debito
indennitario già sorto a carico del vecchio per effetto di
un decreto di esproprio emesso prima della sua istituzione;
invece, il debito maturato successivamente alla creazione
dell’ente grava su quest’ultimo, in quanto titolare dei
relativi poteri, oltre che soggetto beneficiario
dell’espropriazione, la quale non può che avvenire in suo
favore, una volta che il bene è entrato a far parte del
territorio del nuovo ente (1).
•
Il privato, che abbia subito un’occupazione illegittima,
fermo restando il diritto alla restituzione del bene, può
chiedere il solo risarcimento del danno subito, rinunciando
in tal modo alla proprietà del bene ed alla sua restituzione
(in quanto non interessato a quest’ultima) (2).
---------------
(1)
Ha chiarito il Tar che occorre, al fine di accertare quale
sia il soggetto legittimato passivo della pretesa
risarcitoria da occupazione illegittima nel caso di
successione a titolo particolare tra enti, indagare sul
momento in cui è sorto il debito risarcitorio.
Quanto alla questione della decorrenza del termine
prescrizionale a fronte dell’illecito da occupazione
illegittima, specificando che: appare palese la natura
permanente dell'illecito della P.A. finché dura
l’illegittima occupazione del bene in assenza di un valido
titolo che determini il trasferimento della proprietà in
capo ad essa, onde non si configura alcuna prescrizione del
relativo diritto al risarcimento; il termine quinquennale di
detta prescrizione non decorre finché v’è tal illecito ed al
più esso inizia a farlo solo dalla proposizione della
domanda per quanto riguarda la reintegrazione per
equivalente o dalle singole annualità relativamente alla
domanda risarcitoria sul mancato godimento del bene (Cons.
St., sez. IV, n. 4636 del 2016; id.
n. 5364 del 2016); la domanda a cui si fa riferimento,
ai fini della cessazione dell’illecito e quindi della
decorrenza della detta prescrizione, non può certo essere
una generica domanda di pagamento di indennità di esproprio,
sulla quale, peraltro, l’amministrazione nega la propria
legittimazione passiva, occorrendo, piuttosto, una rinuncia
abdicativa (implicita alla richiesta di risarcimento dei
danni per equivalente), capace di determinare la cessazione
dell’illecito ed in cui la liquidazione del danno da parte
dell’amministrazione rappresenta il mancato inveramento
della condizione risolutiva implicitamente apposta al
proprietario al proprio atto abdicativo, che di esso
rappresenta il presupposto; il che comporta la sussistenza
di elementi nel caso non riscontrati.
(2)
Cons. St., sez. IV, 30.06.2017, n. 3234.
Ha chiarito il Tar che la rinuncia alla proprietà del bene
ha carattere meramente abdicativo e non traslativo, con la
conseguenza che da essa non può conseguire, quale effetto
automatico, l’acquisto della proprietà del fondo da parte
dell’Amministrazione; in tale ipotesi il provvedimento con
il quale l’amministrazione procede alla effettiva
liquidazione del danno, rappresentando il mancato
inveramento della condizione risolutiva implicitamente
apposta dal proprietario al proprio atto abdicativo, che di
esso rappresenta il presupposto, costituisce atto da
trascriversi ai sensi degli artt. 2643, comma 1, n. 5 e 2645
cod. civ., anche al fine di conseguire gli effetti
dell’acquisizione del diritto di proprietà in capo
all’amministrazione, a far data dal negozio unilaterale di
rinuncia (Cons.
St., sez. IV, n. 4636 del 2016) (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 20.07.2017 n. 1170
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
1.1. Va premesso che, contrariamente a quanto ritenuto da
parte ricorrente, l’eccezione sollevata dalla Provincia di
Catanzaro non è tardiva, atteso che il difetto di
legittimazione passiva può essere dedotto in ogni stato e
grado del processo, senza limiti di decadenza; essa, però,
parimenti a quella sollevata dalla Provincia di Vibo
Valentia, è infondata.
1.2. A questo riguardo, conviene innanzitutto ricordare che,
proprio in tema di procedure ablative, la Suprema Corte ha
in più occasioni affermato (v. C. Cass. 1999/398, 2001/7258
e 2002/11045) che, nel caso di creazione di un ulteriore
ente locale mediante distacco di una parte del territorio di
un altro preesistente, non è possibile far transitare nel
patrimonio del nuovo il debito indennitario già sorto a
carico del vecchio per effetto di un decreto di esproprio
emesso prima della sua istituzione (v., negli stessi
termini, anche C. Cass. 1983/6106, peraltro pronunciata in
un'ipotesi di accessione invertita); nel caso, invece, di
debito maturato successivamente alla creazione dell’ente,
esso grava su quest’ultimo, in quanto titolare dei relativi
poteri, oltre che soggetto beneficiario dell’espropriazione,
la quale non può che avvenire in suo favore, una volta che
il bene è entrato a far parte del territorio del nuovo ente.
Occorre, quindi, al fine di accertare quale sia il soggetto
legittimato passivo della pretesa risarcitoria in questione
(essendo quella indennitaria, giova ricordare, stata rimessa
alla giurisdizione del giudice ordinario, per come esposto
in fatto), indagare sul momento in cui è sorto il debito
risarcitorio, ossia se in epoca anteriore o successiva alla
costituzione della Provincia di Vibo Valentia.
...
2. Va rigettata, poi, l’eccezione di prescrizione sollevata
dalla Provincia di Catanzaro nei propri confronti, a fronte
di un illecito permanente, qual è quello in questione, con
le dovute conseguenze sul piano della prescrizione, come
meglio specificate al successivo punto 3.
Nel caso, comunque, innanzi ai detti decreti di occupazione
(del 17/02/1986 e del 20/03/1990), come prorogati in forza
dell’art. 14, comma 2, d.l. n. 534/1987 e art. 22 L.
n. 158/1991, è incontestato che i ricorrenti hanno richiesto
all’amministrazione provinciale (con note del 19.01.2000 e del
02.04.2001) il pagamento della somma dovuta e
che, con atto di citazione, notificato il 15/12/2005, hanno
intrapreso nei suoi confronti la causa innanzi al giudice
ordinario, di modo che la relativa eccezione non appare in
alcun modo fondata.
3. Anche la Provincia di Vibo Valentia solleva eccezione di
prescrizione.
Sostiene la Provincia che, ai sensi della sentenza 09.02.2016, n. 2, dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di
Stato, il termine di prescrizione quinquennale decorrerebbe
dalla proposizione della domanda basata sull’occupazione
contra ius ovvero dalle singole annualità per quella
basata sul mancato godimento del bene, con la conseguenza
che, avendo parte ricorrente presentato la domanda
risarcitoria all’amministrazione provinciale di Vibo
Valentia in data 19.01.2000 (come allegato nel
fascicolo principale di parte ricorrente), sarebbero venuti
meno gli effetti permanenti dell’illecito e,
conseguentemente, l’atto di integrazione del contraddittorio
sarebbe stato notificato (il 20.06.2017) quando oramai
il relativo diritto si era prescritto.
3.1. Il Collegio ritiene che anche questa eccezione sia
infondata.
La questione è quella di stabilire quando decorra il termine
prescrizionale a fronte dell’illecito permanente in
questione e se, nel caso, possa dirsi il diritto
risarcitorio prescritto, potendo decorrere il termine
quinquennale dalla nota indicata dalla Provincia di Vibo
Valentia (del 19.01.2000), con la quale la parte
ricorrente chiede alla stessa, per quanto di spettanza, il
pagamento delle indennità di esproprio in questione.
3.1.1. Secondo la sentenza n. 2 del 2016 Ad, Pl. cit,.
in
linea generale, quale che sia la sua forma di manifestazione
(vie di fatto, occupazione usurpativa, occupazione
acquisitiva), la condotta illecita della P.A. incidente sul
diritto di proprietà non può comportare l’acquisizione del
fondo e configura un illecito permanente ex art. 2043 c.c. –con la conseguente decorrenza del termine di prescrizione
quinquennale dalla proposizione della domanda basata
sull’occupazione contra ius, ovvero, dalle singole annualità
per quella basata sul mancato godimento del bene– che viene
a cessare solo in conseguenza:
a) della restituzione del
fondo;
b) di un accordo transattivo;
c) della rinunzia abdicativa (e non traslativa, secondo una certa
prospettazione delle SS.UU.) da parte del proprietario
implicita nella richiesta di risarcimento del danno per
equivalente monetario a fronte della irreversibile
trasformazione del fondo;
d) di una compiuta usucapione, ma
solo nei ristretti limiti perspicuamente individuati dal
Consiglio di Stato allo scopo di evitare che sotto mentite
spoglie (i.e. alleviare gli oneri finanziari altrimenti
gravanti sull’Amministrazione responsabile), si reintroduca
una forma surrettizia di espropriazione indiretta in
violazione dell’art. 1 del Protocollo addizionale della Cedu;
e) di un provvedimento emanato ex art. 42-bis del D.P.R. 08.06.2001, n. 327 (T.U. espropriazione per p.u.).
3.2. Orbene, ritiene il Collegio che:
- appare palese la natura permanente dell'illecito della
P.A. finché dura l’illegittima occupazione del bene in
assenza di un valido titolo che determini il trasferimento
della proprietà in capo ad essa, onde non si configura
alcuna prescrizione del relativo diritto al risarcimento;
- il termine quinquennale di detta prescrizione non decorre
finché v’è tal illecito ed al più esso inizia a farlo solo
dalla proposizione della domanda per quanto riguarda la
reintegrazione per equivalente o dalle singole annualità
relativamente alla domanda risarcitoria sul mancato
godimento del bene (cfr. Cons. St., IV, n. 4636 del 2016; IV,
n. 5364 del 2016);
- la domanda a cui si fa riferimento, ai fini della
cessazione dell’illecito e quindi della decorrenza della
detta prescrizione, non può certo essere una generica
domanda di pagamento di indennità di esproprio, sulla quale,
peraltro, l’amministrazione nega la propria legittimazione
passiva, occorrendo, piuttosto, una rinuncia abdicativa
(implicita alla richiesta di risarcimento dei danni per
equivalente), capace di determinare la cessazione
dell’illecito ed in cui la liquidazione del danno da parte
dell’amministrazione rappresenta il mancato inveramento
della condizione risolutiva implicitamente apposta al
proprietario al proprio atto abdicativo, che di esso
rappresenta il presupposto; il che comporta la sussistenza
di elementi nel caso non riscontrati.
Alla luce di tali principi, la domanda risarcitoria non può
dirsi prescritta nemmeno nei confronti della Provincia di
Vibo Valentia.
4. Nel merito il ricorso è fondato nei termini che seguono.
A fronte di un’occupazione illegittima e della mancanza di
un legittimo atto di acquisizione (come nel caso ove a
seguito della dichiarazione di p.u. non ha fatto seguito il
decreto di espropriazione nei termini), il proprietario,
fermo restando il diritto alla restituzione del bene
occupato, può formulare una domanda di mero risarcimento del
danno per equivalente a fronte dell’irreversibile
trasformazione del fondo.
Ritiene, infatti, il Collegio, aderendo ai recenti e oramai
consolidati approdi giurisprudenziali (confermati da ultimo
con la sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, 30.06.2017 n. 3234),
che il privato, che abbia subito
un’occupazione illegittima, fermo restando il diritto alla
restituzione del bene, non costituendo la realizzazione
dell’opera pubblica un impedimento alla possibilità di
restituire l’area illegittimamente appresa (cfr. C. Cost.
04.10.2010 n. 293; Cons. Stato, Sez. V, 02.11.2011 n.
5844), ben può chiedere il solo risarcimento del danno
subito, rinunciando in tal modo alla proprietà del bene ed
alla sua restituzione (in quanto non interessato a
quest’ultima).
Va specificato che la rinuncia abdicativa su suolo
irreversibilmente trasformato, che muove la presente
richiesta risarcitoria, ha carattere meramente abdicativo
(Cass. S.U. 19.01.2015, n. 735, Cons. St. Ad. Pl.
n. 2/2016) e non traslativo, donde da essa non può
conseguire, quale effetto automatico, l’acquisto della
proprietà del fondo da parte dell’Amministrazione; in tale
ipotesi il provvedimento con il quale l’amministrazione
procede alla effettiva liquidazione del danno, come sopra
detto, rappresentando il mancato inveramento della
condizione risolutiva implicitamente apposta dal
proprietario al proprio atto abdicativo, che di esso
rappresenta il presupposto, costituisce atto da trascriversi
ai sensi degli artt. 2643, primo comma, n. 5 e 2645 cod. civ.,
anche al fine di conseguire gli effetti dell’acquisizione
del diritto di proprietà in capo all’amministrazione, a far
data dal negozio unilaterale di rinuncia (Cons. St. sez. IV,
4636 del 2016).
4.1. Risulta agli atti che, permanendo l’occupazione anche
in data successiva alla scadenza dell’efficacia dei
provvedimenti legittimanti l’immissione in possesso,
l’occupazione dei terreni di proprietà di parte ricorrente
si sia protratta illegittimamente, con efficacia lesiva
della situazione giuridica fatta valere in questa sede; deve
pertanto riconoscersi alla parte ricorrente il risarcimento
del danno per la mancata disponibilità del bene per tutto il
periodo di occupazione sine titulo oltre che il danno per
equivalente per la perdita del bene, cui parte ricorrente ha
implicitamente rinunciato, da calcolarsi secondo i criteri
che di seguito vengono indicati ex art. 34, co. 4, c.p.a.
(condivisi dalla recente giurisprudenza in tema: cfr.
Consiglio di Stato, sez. IV, 07.11.2016 n. 4636; TAR
Lazio Roma, sez. II, 12.06.2017 n. 6894):
a) in ordine alla determinazione del quantum del
risarcimento, questo va commisurato al valore venale del
bene al momento in cui si perfeziona la rinuncia abdicativa
del proprietario al proprio diritto reale, e, trattandosi di
debito di valore, con rivalutazione ed interessi al tasso
legale, da calcolarsi fino al momento dell’effettivo
soddisfo, tenendo presente che in materia di occupazione
acquisitiva di un terreno, il risarcimento del danno è
calcolato esclusivamente sul suo valore al momento in cui si
è verificata la perdita del diritto di proprietà e
l’ammontare del danno deve poi essere rivalutato e devono
essere corrisposti gli interessi legali semplici applicati
al capitale progressivamente rivalutato, non potendo essere
riconosciute ulteriori ragioni di danno (cfr. Corte europea
diritti dell’uomo, 22.12.2009, Guiso–Gallisay c.
Italia; successivamente Cass. civ., sez. I, 09.07.2014,
n. 14604);
b) quanto alla determinazione del risarcimento del danno per
mancato godimento del bene a cagione dell’occupazione
illegittima (per il periodo antecedente al momento abdicativo del diritto di proprietà), questo può essere
calcolato –ai sensi dell’art. 34, co. 4, c.p.a., in assenza
di opposizione delle parti e in difetto della prova rigorosa
di diversi ulteriori profili di danno– facendo
applicazione, in via equitativa, dei criteri risarcitori
dettati dall’art. 42-bisu. espr. (cfr. da ultimo sul punto
Cons. Stato, sez. IV, 23.09.2016 n. 3929; 28.01.2016 n. 329;
02.11.2011 n. 5844), e dunque in una somma
pari al 5% annuo del valore del terreno;
c) non spetta, invece, in difetto di prova specifica, alcuna
liquidazione in misura forfettaria del danno non
patrimoniale sia in quanto ciò è previsto, dall’art. 42-bis, co. 1 e 5, t.u. espr. solo per il caso di correlativa
acquisizione del bene con decreto della pubblica
amministrazione (e non già in presenza di un negozio
abdicativo del privato), sia in quanto –con riferimento non
già alla perdita del diritto di proprietà ma solo con
riferimento alla compressione delle facoltà di godimento–
la misura del risarcimento disposta in via equitativa è da
ritenersi omnicomprensiva di ogni ulteriore posta, ivi
compresi gli accessori (interessi legali e rivalutazione
monetaria);
d) quanto alla prescrizione del diritto al risarcimento del
danno da mancato godimento, occorre precisare che esso
cessa, come è evidente, nel momento stesso in cui si
verifichi la perdita del diritto di proprietà e dunque, nel
caso di specie, nel momento in cui risulta perfezionata la
rinuncia a tale diritto, implicita nella proposizione della
domanda di risarcimento del danno in sede giudiziaria;
pertanto, la prescrizione quinquennale ex art. 2947, co. 1,
c.c. (trattandosi di illecito extracontrattuale), avuto
riguardo al mancato godimento del bene (e cioè alla mancata
percezione di un reddito annuo derivante dall’utilizzazione
giuridicamente legittima del terreno occupato), decorre
dalle singole annualità e fino al momento di perdita del
diritto di proprietà. |
ESPROPRIAZIONE:
Giurisdizione giudice ordinario sull'accertamento tecnico
preventivo finalizzato ad operazioni di occupazione
d'urgenza non preordinate a decreto di esproprio.
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Giurisdizione – Espropriazione per pubblica utilità –
Accertamento tecnico preventivo – Finalizzato ad operazioni
di occupazione d'urgenza non preordinate a decreto di
esproprio – Controversia – giurisdizione giudice ordinario.
Rientra nella giurisdizione del
giudice ordinario la controversia avente ad oggetto il
ricorso volto all’accertamento tecnico preventivo in vista
di operazioni di occupazione d'urgenza collegate, ma non
finalizzate, ad un provvedimento di espropriazione; ed
infatti, l’accertamento tecnico preventivo, attesa la sua
valenza cautelare e conservativa, è intimamente connesso al
giudizio di merito nel quale la prova avrebbe dovuto essere
acquisita in via ordinaria, con la conseguenza che il
Giudice adito è tenuto a verificare preliminarmente se la
futura ed eventuale domanda di merito, cui accede la domanda
di accertamento tecnico preventivo, rientri o meno nella
propria giurisdizione (1).
----------------
(1) Il Tar ha richiamato
il recente arresto delle Sezioni unite della cassazione (ord.,
09.02.2011, n. 3167) secondo cui le controversie concernenti
l’occupazione temporanea di aree funzionale alla corretta
esecuzione dei lavori, disposte ai sensi dell’art. 49,
d.P.R. 08.06.2001, n. 327, non avendo ad oggetto atti o
provvedimenti in materia ablatoria e rimanendo estranee alla
materia espropriativa vera e propria, rientrano nella
giurisdizione del giudice ordinario, purché la domanda sia
limitata a far valere l’illecito protrarsi dell’occupazione
temporanea, senza lamentare vizi di legittimità di
provvedimenti amministrativi.
Nello stesso senso si è espresso il giudice amministrativo
(Tar Umbria 16.01.2014, n. 49) con riferimento ad una
controversia nella quale la parte ricorrente non si doleva
della legittimità di provvedimenti o comportamenti in
materia espropriativa, né dell’occupazione sine titulo
preordinata all’espropriazione, bensì chiedeva la condanna
dell’amministrazione al risarcimento dei danni subiti in
occasione dell’occupazione temporanea del proprio fondo,
asseritamente in carenza di potere (TRGA
Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 13.06.2017 n. 198
- link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
7. Ancor prima di procedere all’esame delle eccezioni
processuali sollevate dall’amministrazione resistente con la
memoria depositata in data 31.05.2017, giova rammentare che,
secondo la giurisprudenza (TAR Lazio Roma, Sez. II,
29.03.2016, n. 3846), «l’esperibilità dell’accertamento
tecnico preventivo nell’ambito del processo amministrativo
-prima riconosciuta in via giurisprudenziale nel solco di
una lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni
concernenti i mezzi probatori sperimentabili nel processo
amministrativo, alla stregua dei principi del giusto
processo, del diritto di difesa e di conservazione dei
valori giuridici- trova espresso riconoscimento nell’art.
53, comma 5, del c.p.a., laddove espande espressamente l’esperibilità
dei mezzi di prova nel processo amministrativo a tutti
quelli previsti dal codice del processo civile con formula
che esclude soltanto l’interrogatorio formale ed il
giuramento. La ratio dell’accertamento tecnico preventivo,
regolato dall’art. 696 c.p.c., è quella di ovviare al
pericolo della dispersione della prova prima che la parte
interessata attivi un giudizio di merito ovvero definisca
con un accordo un procedimento contenzioso già iniziato.
Presupposto essenziale di tale strumento di acquisizione
della prova è la sussistenza di un’urgenza concreta di far
verificare, ante causam, lo stato dei luoghi, ovvero la
qualità o la condizione di una cosa, in chiara correlazione
con un’esigenza di tipo cautelare che è resa evidente
dall’incipit della norma».
8. Si deve poi evidenziare che
l’accertamento tecnico
preventivo, attesa la sua valenza cautelare e conservativa,
è intimamente connesso al giudizio di merito nel quale la
prova avrebbe dovuto essere acquisita in via ordinaria
(Consiglio di Stato, Sez. IV, 27.10.2011, n. 5769),
con
l’ulteriore conseguenza che il Giudice adito è tenuto a
verificare preliminarmente se la futura ed eventuale domanda
di merito, cui accede la domanda di accertamento tecnico
preventivo, rientri o meno nella propria giurisdizione.
9. Passando all’eccezione di difetto di giurisdizione di
questo Tribunale, il Collegio ritiene che la stessa debba
essere accolta.
Come ha puntualizzato il Giudice regolatore
della giurisdizione (Cass. civ., Sez. Un., ord. 09.02.2011,
n. 3167),
le controversie come quella per cui è causa,
concernenti l’occupazione temporanea di aree funzionale alla
corretta esecuzione dei lavori, disposte ai sensi dell’art.
49 del D.P.R. n. 327/2001, non avendo ad oggetto atti o
provvedimenti in materia ablatoria e rimanendo estranee alla
materia espropriativa vera e propria, rientrano nella
giurisdizione del giudice ordinario, purché la domanda sia
limitata a far valere l’illecito protrarsi dell’occupazione
temporanea, senza lamentare vizi di legittimità di
provvedimenti amministrativi.
Nello stesso senso si è espresso il giudice amministrativo
(TAR Umbria Perugia, Sez. I, 16.01.2014, n. 49) con
riferimento ad una controversia nella quale la parte
ricorrente non si doleva della legittimità di provvedimenti
o comportamenti in materia espropriativa, né
dell’occupazione sine titulo preordinata
all’espropriazione, bensì chiedeva la condanna
dell’amministrazione al risarcimento dei danni subiti in
occasione dell’ occupazione temporanea del proprio fondo,
asseritamente in carenza di potere.
Ciò posto, con riferimento alla fattispecie in esame è
sufficiente evidenziare che:
A) l’occupazione di cui trattasi -che avrebbe cagionato i danni
lamentati, per il suo protrarsi oltre il termine previsto- è
stata disposta con la determinazione dirigenziale n. 862 del
28.10.2008 ai sensi dell’art. 28 della legge provinciale n.
6/1993 (disposizione questa che, come quella dell’art. 49
del D.P.R. n. 327/2001, risponde alla sola finalità di
disciplinare l’occupazione temporanea dell’area
interessata);
B) la società ricorrente non lamenta alcun vizio della predetta
determinazione dirigenziale n. 862 del 28.10.2008, né della
successiva determinazione dirigenziale n. 706 del
23.11.2016, limitandosi a richiedere il risarcimento dei
danni derivanti dalla pretesa occupazione abusiva dell’area
successivamente al 31.05.2009 e dall’allagamento dell’area
di sua proprietà, con conseguente richiesta di ripristino
dello stato dei luoghi. |
anno 2016 |
|
ESPROPRIAZIONE:
Le Sezioni unite civili attribuiscono al giudice ordinario
tutte le controversie comunque concernenti la determinazione
e la corresponsione delle indennità previste dall’art.
42-bis t.u. espropriazioni (Corte di Cassazione, Sezz. unite
civili,
sentenza 25.07.2016 n. 15283).
---------------
Espropriazione – Acquisizione ex art.
42-bis d.P.R. 08.06.2001, n. 327 – Indennizzo –
Giurisdizione ordinaria – Competenza – Corte d’appello.
Le controversie aventi ad oggetto la determinazione e la
corresponsione di tutte le indennità previste dall’art.
42-bis, d.P.R. 08.06.2001, n. 327 sono devolute alla
giurisdizione del giudice ordinario ed alla competenza in
unico grado della Corte di appello. (1)
---------------
(1) Le Sezioni unite hanno formulato il principio di cui in
massima portando a compimento, dal punto di vista logico e
sistematico, il percorso esegetico intrapreso dalla Corte
costituzionale (30.04.2015, n. 71, in Foro it., 2015, I,
2629, con ampia nota di richiami di R. Pardolesi) e dalle
stesse Sezioni unite (29.10.2015, n. 22096, id., 2016, I,
593, con ampia nota di richiami di E. Barila’).
Anche il Consiglio di Stato è pervenuto alle medesime
conclusioni in punto di giurisdizione (cfr. A.P.,
09.02.2016, n. 2, ibidem, III, 185, con note di
approfondimenti di E. Barilà e R. Pardolesi, sia pure con
una affermazione incidentale rispetto all’oggetto principale
di quel giudizio; sez. IV, 12.05.2016, n. 1910 che ha,
invece, analizzato funditus l’intera tematica).
...
Questi i passaggi logici essenziali della decisione in
commento:
a) il provvedimento di acquisizione previsto dall’art. 42-bis, t.u.
espropriazione ha natura espropriativa;
b) tutte le voci di danno menzionate nei commi 1, 3, 4 e 5,
dell’art. 42-bis, sono oggetto di un’unica previsione
indennitaria, ivi compresa quella relativa al periodo di
occupazione senza titolo subita dal proprietario,
espressamente contemplata dal comma 3, ultimo periodo;
c) la locuzione <<a titolo risarcitorio>> contenuta nel
menzionato comma 3, ultimo periodo, è una mera improprietà
lessicale in cui è caduto il legislatore che, in quanto
tale, non consente di superare gli obbiettivi (e principi
esegetici ispiratori) di concentrazione ed effettività della
tutela giurisdizionale che risulterebbero vulnerati da una
interpretazione letterale che frazionasse la tutela
affidando al G.A. la cognizione del danno da occupazione
senza titolo ed al G.O. le altre poste di danno menzionate
dal medesimo art. 42-bis;
d) conseguentemente, trovano applicazione le norme enucleabili dal
combinato disposto degli artt. 133, comma 1, lett. g),
c.p.a., nonché 53 e 54 t.u. espropriazione, che assegnano
alla giurisdizione esclusiva del G.A. le controversie,
incluse quelle risarcitorie, aventi ad oggetto atti, accordi
e comportamenti espressione di esercizio della funzione
pubblica in materia espropriativa, riservando al G.O. –e per
esso alla competenza generale in materia della Corte
d’appello- le sole controversie riguardanti determinazione e
corresponsione delle indennità (tratto da
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Va
dichiarato il difetto di giurisdizione sulla richiesta di
condanna dell’amministrazione al pagamento di un indennizzo
o al risarcimento del danno per il mancato godimento del
bene conseguito al vincolo espropriativo rimasto ineseguito.
Ed infatti, secondo condivisa giurisprudenza, "i profili
attinenti alla spettanza o meno di un indennizzo per la
compromissione delle facoltà di godimento del proprietario,
laddove non si contesti la legittimità dei provvedimenti
impositivi o reiterativi di vincoli di contenuto
espropriativo, esulano dalla cognizione del giudice adito,
in quanto riguardano questioni di carattere patrimoniale
devolute alla cognizione della giurisdizione civile (art.
39, I, D.P.R. n. 327 del 2001, T.U. Espropriazione per p.u.)".
I profili attinenti la spettanza o meno di un indennizzo o
del risarcimento del danno non attengono, infatti, alla
legittimità del procedimento, ma riguardano questioni di
carattere patrimoniale devolute alla cognizione della
giurisdizione civile.
Sulla base di quanto esposto, va, quindi, dichiarato il
difetto di giurisdizione del giudice adito, salva la
possibilità di riassumere il ricorso innanzi al competente
giudice ordinario nel termine perentorio di tre mesi dal
passaggio in giudicato della presente decisione, ai sensi e
per gli effetti dell'articolo 11, comma 2, del codice del
processo amministrativo.
---------------
... per l'annullamento ex art. 116 c.p.a. del provvedimento
di diniego formatosi a seguito del silenzio serbato
sull'istanza volta a richiedere l'ostensione dei documenti
di seguito precisati;
nonché:
- per l’accertamento ex art. 117 c.p.a. dell’illegittimità
del silenzio serbato dall’amministrazione comunale
sull’istanza trasmessa a mezzo pec in data 01.09.2015 per
l’indennizzo e/o il risarcimento dell’importo quantificato
in € 21.505,90 per il pregiudizio sofferto in ragione
dell’ingiustificato peso protrattosi per anni in assenza di
esecuzione del p.i.p.;
- per l’accertamento della fondatezza, ai sensi dell’art.
31, comma 3 c.p.a., delle pretese azionate e
dell’ingiustificato peso subito dal diritto di proprietà in
assenza di una pronta e tempestiva esecuzione del piano;
...
2. Preliminarmente, come da rilievo d’ufficio ai sensi
dell’art. 73, comma 3 c.p.a., va dichiarato il difetto di
giurisdizione sulla richiesta di condanna
dell’amministrazione al pagamento di un indennizzo o al
risarcimento del danno per il mancato godimento del bene
conseguito al vincolo espropriativo rimasto ineseguito.
Ed infatti, secondo condivisa giurisprudenza, "i profili
attinenti alla spettanza o meno di un indennizzo per la
compromissione delle facoltà di godimento del proprietario,
laddove non si contesti la legittimità dei provvedimenti
impositivi o reiterativi di vincoli di contenuto
espropriativo, esulano dalla cognizione del giudice adito,
in quanto riguardano questioni di carattere patrimoniale
devolute alla cognizione della giurisdizione civile (art.
39, I, D.P.R. n. 327 del 2001, T.U. Espropriazione per p.u.)"
(Cons. di St., sez. IV, 14.04.2015, n. 1887).
I profili attinenti la spettanza o meno di un indennizzo o
del risarcimento del danno non attengono, infatti, alla
legittimità del procedimento, ma riguardano questioni di
carattere patrimoniale devolute alla cognizione della
giurisdizione civile.
Sulla base di quanto esposto, va, quindi, dichiarato il
difetto di giurisdizione del giudice adito, salva la
possibilità di riassumere il ricorso innanzi al competente
giudice ordinario nel termine perentorio di tre mesi dal
passaggio in giudicato della presente decisione, ai sensi e
per gli effetti dell'articolo 11, comma 2, del codice del
processo amministrativo
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 13.04.2016 n. 1793
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
L’art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001
configura un procedimento ablatorio sui generis,
caratterizzato da una precisa base legale, semplificato
nella struttura (uno actu perficitur), complesso negli
effetti (che si producono sempre e comunque ex nunc), il cui
scopo non è (e non può essere) quello di sanatoria di un
precedente illecito perpetrato dall’Amministrazione (perché
altrimenti integrerebbe una espropriazione indiretta per ciò
solo vietata), bensì quello autonomo, rispetto alle ragioni
che hanno ispirato la pregressa occupazione contra ius,
consistente nella soddisfazione di imperiose esigenze
pubbliche, redimibili esclusivamente attraverso il
mantenimento e la gestione di qualsiasi opera
dell’infrastruttura realizzata sine titulo.
----------------
1. L’ OGGETTO DEL PRESENTE GIUDIZIO.
1.1. L’oggetto del presente giudizio è costituito dal
provvedimento reso dal commissario ad acta -nominato in
sede di esecuzione di un giudicato- recante, nella
sostanza, l’emanazione di un decreto di acquisizione ex art.
42-bis d.P.R. 08.06.2011, n. 327 -Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia di
espropriazione per pubblica utilità– (in prosieguo t.u. espr.), in danno della odierna ricorrente.
1.2. Più in dettaglio viene in rilievo la domanda di
esecuzione del giudicato formatosi sulla sentenza
irrevocabile del Tar per la Puglia - sede staccata di
Lecce, Sezione I, n. 3342 del 19.11.2008 che, in
accoglimento del ricorso proposto dalla Signora Ca.Ma.:
a) ha preso atto della irreversibile trasformazione di un
appezzamento di terreno (di proprietà dell’istante) in
giardino pubblico ad opera del comune di Villa Castelli che,
sebbene avesse disposto l’occupazione d’urgenza dell’area,
non aveva emanato il successivo decreto di esproprio;
b) ha condannato il comune a restituire l’area, ovvero a
concludere un accordo transattivo, o, in alternativa, ad
emanare un provvedimento di acquisizione ai sensi
dell’allora vigente art. 43, t.u. espr.;
c) ha scandito dettagliatamente la tempistica di ciascuna
fase ed i relativi adempimenti, formulando minute
prescrizioni anche in ordine ai criteri di liquidazione, per
equivalente monetario, del danno derivante dalla perdita
della proprietà e del possesso sine titulo, oltre che degli
accessori;
d) ha espressamente stabilito che, trascorsi i termini
concessi per ciascuno degli alternativi adempimenti, la
parte privata avrebbe potuto agire in giudizio per
l’esecuzione della decisione;
e) ha condannato il comune alla refusione delle spese di
lite.
...
4. L’ORDINANZA DI RIMESSIONE DELLA CAUSA ALL’ADUNANZA
PLENARIA ED I SUCCESSIVI SVILUPPI PROCESSUALI.
4.1. Con ordinanza n. 3347 del 03.07.2014, la IV Sezione
del Consiglio di Stato:
a) ha ricostruito, in chiave storica e sistematica,
l’istituto dell’acquisizione disciplinato prima dall’art. 43
e poi dall’art. 42-bis, t.u. espr.;
b) ha dato atto del contrasto registratosi nella
giurisprudenza del Consiglio di Stato circa la possibilità
che in sede di esecuzione del giudicato il giudice
amministrativo, direttamente o per il tramite
dell’intervento del commissario ad acta, possa o meno
ordinare alla P.A. di adottare un provvedimento ex art.
42-bis, ovvero limitarsi a sollecitare l’esercizio di tale
potere, fissando all’uopo un termine, scaduto il quale non
rimarrebbe che assicurare la sola tutela restitutoria;
c) ha rilevato la pendenza della questione di legittimità
costituzionale dell’art. 42-bis t.u. espr. sollevata dalle
Sezioni unite della Corte di cassazione (cfr. ordinanze 13.01.2014, nn. 441 e 442);
d) all’esplicito scopo di meglio garantire l’armonico
coordinamento (ed il rispetto) dei principi della
effettività della tutela giurisdizionale, da un lato, e
dell’autorità del giudicato, dall’altro, ha sottoposto
all’Adunanza planaria la seguente questione ovvero <<se
nella fase di ottemperanza –con giurisdizione, quindi,
estesa al merito– ad una sentenza avente ad oggetto una
domanda demolitoria di atti concernenti una procedura
espropriativa, rientri o meno tra i poteri sostitutivi del
giudice, e per esso, del commissario ad acta, l’adozione
della procedura semplificata di cui all’art. 42-bis t.u.
espr.>>.
4.2. Con ordinanza dell’Adunanza plenaria -n. 28 del 15.10.2014– è stato sospeso il presente giudizio in
attesa della definizione delle sollevate questioni di
legittimità costituzionale.
4.3. Con sentenza parzialmente interpretativa di rigetto n.
71 del 30.03.2015 -pubblicata nella G.U., 1° s.s., 06.05.2015 n. 18– la Corte costituzionale, in relazione ai
vari parametri evocati, ha dichiarato in parte
inammissibile, in parte infondata, ed in parte non fondata
ai sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità
costituzionale del più volte menzionato art. 42-bis.
4.4. Il giudizio è stato ritualmente proseguito con
l’istanza depositata in data 01.06.2015 dalla difesa
della signora Ma. ed alla camera di consiglio dell’08.10.2015 la causa è stata trattenuta in decisione.
5. LA NATURA GIURIDICA, I PRESUPPOSTI APPLICATIVI E GLI
EFFETTI DELLA ACQUISIZIONE EX ART. 42-BIS T.U. ESPR.
5.1. Si riporta per comodità di lettura il più volte
menzionato art. 42-bis, t.u. espr. -Utilizzazione senza
titolo di un bene per scopi di interesse pubblico– come
introdotto dall’art. 34, comma 1, d.l. n. 98 del 2011
convertito con modificazioni nella l. n. 111 del 2011: <<1.
Valutati gli interessi in conflitto, l'autorità che utilizza
un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato
in assenza di un valido ed efficace provvedimento di
esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può
disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al
suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia
corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e
non patrimoniale, quest'ultimo forfetariamente liquidato
nella misura del dieci per cento del valore venale del bene.
2. Il provvedimento di acquisizione può essere adottato
anche quando sia stato annullato l'atto da cui sia sorto il
vincolo preordinato all'esproprio, l'atto che abbia
dichiarato la pubblica utilità di un'opera o il decreto di
esproprio. Il provvedimento di acquisizione può essere
adottato anche durante la pendenza di un giudizio per
l'annullamento degli atti di cui al primo periodo del
presente comma, se l'amministrazione che ha adottato l'atto
impugnato lo ritira. In tali casi, le somme eventualmente
già erogate al proprietario a titolo di indennizzo,
maggiorate dell'interesse legale, sono detratte da quelle
dovute ai sensi del presente articolo.
3. Salvi i casi in cui la legge disponga altrimenti,
l'indennizzo per il pregiudizio patrimoniale di cui al comma
1 è determinato in misura corrispondente al valore venale
del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e, se
l'occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base
delle disposizioni dell'articolo 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7.
Per il periodo di occupazione senza titolo è computato a
titolo risarcitorio, se dagli atti del procedimento non
risulta la prova di una diversa entità del danno,
l'interesse del cinque per cento annuo sul valore
determinato ai sensi del presente comma.
4. Il provvedimento di acquisizione, recante l'indicazione
delle circostanze che hanno condotto alla indebita
utilizzazione dell'area e se possibile la data dalla quale
essa ha avuto inizio, è specificamente motivato in
riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse
pubblico che ne giustificano l'emanazione, valutate
comparativamente con i contrapposti interessi privati ed
evidenziando l'assenza di ragionevoli alternative alla sua
adozione; nell'atto è liquidato l'indennizzo di cui al comma
1 e ne è disposto il pagamento entro il termine di trenta
giorni. L'atto è notificato al proprietario e comporta il
passaggio del diritto di proprietà sotto condizione
sospensiva del pagamento delle somme dovute ai sensi del
comma 1, ovvero del loro deposito effettuato ai sensi
dell'articolo 20, comma 14; è soggetto a trascrizione presso
la conservatoria dei registri immobiliari a cura
dell'amministrazione procedente ed è trasmesso in copia
all'ufficio istituito ai sensi dell'articolo 14, comma 2.
5. Se le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 4 sono
applicate quando un terreno sia stato utilizzato per
finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata o
convenzionata, ovvero quando si tratta di terreno destinato
a essere attribuito per finalità di interesse pubblico in
uso speciale a soggetti privati, il provvedimento è di
competenza dell'autorità che ha occupato il terreno e la
liquidazione forfetaria dell'indennizzo per il pregiudizio
non patrimoniale è pari al venti per cento del valore venale
del bene.
6. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano,
in quanto compatibili, anche quando è imposta una servitù e
il bene continua a essere utilizzato dal proprietario o dal
titolare di un altro diritto reale; in tal caso l'autorità
amministrativa, con oneri a carico dei soggetti beneficiari,
può procedere all'eventuale acquisizione del diritto di
servitù al patrimonio dei soggetti, privati o pubblici,
titolari di concessioni, autorizzazioni o licenze o che
svolgono servizi di interesse pubblico nei settori dei
trasporti, telecomunicazioni, acqua o energia.
7. L'autorità che emana il provvedimento di acquisizione di
cui al presente articolo né dà comunicazione, entro trenta
giorni, alla Corte dei conti mediante trasmissione di copia
integrale.
8. Le disposizioni del presente articolo trovano altresì
applicazione ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore
ed anche se vi è già stato un provvedimento di acquisizione
successivamente ritirato o annullato, ma deve essere
comunque rinnovata la valutazione di attualità e prevalenza
dell'interesse pubblico a disporre l'acquisizione; in tal
caso, le somme già erogate al proprietario, maggiorate
dell'interesse legale, sono detratte da quelle dovute ai
sensi del presente articolo.>>
5.2. Prima di procedere alla risoluzione del quesito
sottoposto all’Adunanza plenaria, è indispensabile
ricostruire (limitandosi a quanto di interesse) il quadro
dei condivisibili principi che, successivamente
all’ordinanza di rimessione della IV Sezione, sono stati
elaborati dalla Corte costituzionale (cfr. sentenza n. 71
del 2015 cit.), dalle Sezioni unite della Corte di
cassazione (cfr. decisioni n. 735 del 19.01.2015 e n.
22096 del 29.10.2015) e dal Consiglio di Stato (cfr.
sentenze Sez. IV, n. 4777 del 19.10.2015; n. 4403 del
21.09.2015; n. 3988 del 26.08.2015; n. 2126 del
27.04.2015; n. 3346 del 03.07.2014), all’interno
della consolidata cornice di tutele delineata dalla Corte
europea dei diritti dell’uomo per contrastare il deprecato
fenomeno delle <<espropriazioni indirette>> del diritto di
proprietà o di altri diritti reali (cfr., ex plurimis e da
ultimo, con riferimento all’ordinamento italiano, Corte
europea dei diritti dell’uomo, Sez. II, 03.06.2014, Rossi
e Variale; Sez. II, 14.01.2014, Pascucci; Sez. II, 05.06.2012, Immobiliare Cerro; Grande Camera, 22.12.2009, Guiso; Sez. II,
06.03.2007, Scordino; Sez. III, 12.01.2006, Sciarrotta; Sez. II, 17.05.2005, Scordino;
Sez. II, 30.05.2000, Soc. Belvedere alberghiera; Sez. II,
30.05.2000, Carbonara e Ventura).
5.3. In linea generale, quale che sia la sua forma di
manifestazione (vie di fatto, occupazione usurpativa,
occupazione acquisitiva), la condotta illecita
dell’amministrazione incidente sul diritto di proprietà non
può comportare l’acquisizione del fondo e configura un
illecito permanente ex art. 2043 c.c. –con la conseguente
decorrenza del termine di prescrizione quinquennale dalla
proposizione della domanda basata sull’occupazione contra ius, ovvero, dalle singole annualità per quella basata sul
mancato godimento del bene- che viene a cessare solo in
conseguenza:
a) della restituzione del fondo;
b) di un accordo transattivo;
c) della rinunzia abdicativa (e non traslativa, secondo una
certa prospettazione delle SS.UU.) da parte del proprietario
implicita nella richiesta di risarcimento del danno per
equivalente monetario a fronte della irreversibile
trasformazione del fondo;
d) di una compiuta usucapione, ma solo nei ristretti limiti
perspicuamente individuati dal Consiglio di Stato allo scopo
di evitare che sotto mentite spoglie (i.e. alleviare gli
oneri finanziari altrimenti gravanti sull’Amministrazione
responsabile) si reintroduca una forma surrettizia di
espropriazione indiretta in violazione dell’art. 1 del
Protocollo addizionale della Cedu (Sez. IV, n. 3988 del 2015
e n. 3346 del 2014); dunque a condizione che:
I) sia effettivamente configurabile il carattere non violento della
condotta;
II) si possa individuare il momento esatto della interversio
possesionis;
III) si faccia decorrere la prescrizione acquisitiva dalla data di
entrata in vigore del t.u. espr. (30.06.2003) perché
solo l’art. 43 del medesimo t.u. aveva sancito il
superamento dell’istituto dell’occupazione acquisitiva e
dunque solo da questo momento potrebbe ritenersi
individuato, ex art. 2935 c.c., il <<….giorno in cui il
diritto può essere fatto valere>>;
e) di un provvedimento emanato ex art. 42-bis t.u. espr.
5.4. Chiarito che l’acquisizione ex art. 42-bis cit.
costituisce una delle possibili cause legali di estinzione
di un fatto illecito e che essa trova legittima applicazione
anche alle situazioni prodottesi prima della sua entrata in
vigore (§ 6.9.1. della sentenza della Corte cost. n. 71 del
2015 cit., che ha così definitivamente fugato i dubbi
adombrati dalle Sezioni unite al § 4 della sentenza n. 735
del 2015 cit.), giova evidenziare che:
a) la disposizione introduce una norma di natura
eccezionale; tale conclusione è coerente con l’impostazione
tradizionale che considera a tale stregua le norme
limitatrici della sfera giuridica dei destinatari, con
particolare riguardo a quelle che attribuiscono alla P.A. un
potere ablatorio.
Un atto definibile come espropriazione in sanatoria stricto
sensu, e basato sulla illiceità dell’occupazione di un bene
altrui, infatti, segnerebbe una interruzione della
consequenzialità logica della disciplina generale (europea e
nazionale) di riferimento in materia di acquisizione
coattiva della proprietà privata, ponendosi in contrasto con
essa attraverso una discriminazione –pure sancita dalla
legge- del trattamento giuridico di situazioni soggettive
che altrimenti sarebbero destinatarie della disciplina
generale; da qui l’indefettibile necessità, ex art. 14, disp.
prel. c.c., di una esegesi rigorosa della norma medesima che
sia, ad un tempo, conforme al sistema di tutela della
proprietà privata disegnato dalla CEDU ma rispettosa del
valore costituzionale della funzione sociale della proprietà
privata sancito dall’art. 42, co. 2, Cost. (che costituisce
il fondamento del potere attribuito alla P.A.), secondo un
approccio metodologico basato su una visione sistemica,
multilivello e comparata della tutela dei diritti, a sua
volta incentrata sulla considerazione dell’ordinamento nel
suo complesso, quale risultante dalla interazione fra norme
(interne e internazionali) e principi delle Corti (interne e
sovranazionali);
b) l’art. 42-bis, invece, configura un procedimento ablatorio
sui generis, caratterizzato da una precisa base
legale, semplificato nella struttura (uno actu perficitur),
complesso negli effetti (che si producono sempre e comunque
ex nunc), il cui scopo non è (e non può essere) quello di
sanatoria di un precedente illecito perpetrato
dall’Amministrazione (perché altrimenti integrerebbe una
espropriazione indiretta per ciò solo vietata), bensì quello
autonomo, rispetto alle ragioni che hanno ispirato la
pregressa occupazione contra ius, consistente nella
soddisfazione di imperiose esigenze pubbliche, redimibili
esclusivamente attraverso il mantenimento e la gestione di
qualsiasi opera dell’infrastruttura realizzata sine titulo;
c) un tale obbiettivo istituzionale, inoltre, deve emergere
necessariamente da un percorso motivazionale -rafforzato,
stringente e assistito da garanzie partecipativo rigorose–
basato sull’emersione di ragioni attuali ed eccezionali che
dimostrino in modo chiaro che l’apprensione coattiva si pone
come extrema ratio (perché non sono ragionevolmente
praticabili soluzioni alternative e che tale assenza di
alternative non può mai consistere nella generica
<<…eccessiva difficoltà ed onerosità dell’alternativa a
disposizione dell’amministrazione..>>), per la tutela di
siffatte imperiose esigenze pubbliche;
d) sono coerenti con questa impostazione:
I) le importanti guarentigie previste per il destinatario dell’atto
di acquisizione sotto il profilo della misura
dell’indennizzo (avente natura indennitaria secondo Cass.
civ., Sez. un., n. 2209 del 2015 cit.), valutato a valore
venale (al momento del trasferimento, alla stregua del
criterio della taxatio rei, senza che, dunque, ci siano
somme da rivalutare ma, in ogni caso, tenuto conto degli
ulteriori parametri individuati dagli artt. 33 e 40 t.u. espr.), maggiorato della componente non patrimoniale
(dieci per cento senza onere probatorio per l’espropriato),
e con salvezza della possibilità, per il proprietario, di
provare autonome poste di danno;
II) la previsione del coinvolgimento obbligatorio della Corte dei
conti in una vicenda che produce oggettivamente (e
indipendentemente dagli eventuali profili soggettivi di
responsabilità da accertarsi nelle competenti sedi) un
aggravio sensibile degli esborsi a carico della finanza
pubblica;
e) per evitare che l’eccezionale potere ablatorio previsto
dall’art. 42-bis possa essere esercitato sine die in
violazione dei valori costituzionali ed europei di certezza
e stabilità del quadro regolatorio dell’assetto dei
contrapposti interessi in gioco, la disciplina ivi dettata è
inserita in (ed arricchita da) un più ampio contesto
ordinamentale che -in ragione della sussistenza
dell’obbligo della P.A. di valutare se emanare un atto
tipico sull’adeguamento della situazione di fatto a quella
di diritto- prevede per il proprietario strumenti adeguati
di reazione all’inerzia della P.A., esercitabili davanti al
giudice amministrativo, sia attraverso il c.d. “rito
silenzio” (artt. 34 e 117 c.p.a.), sia in sede di ordinario
giudizio di legittimità avente ad oggetto il procedimento
ablatorio sospettato di illegittimità (o altro giudizio
avente ad oggetto la tutela reipersecutoria, come
verificatosi nel caso di specie), secondo le coordinate
esegetiche esplicitamente stabilite dalla sentenza n. 71 del
2015 (in particolare § 6.6.3.);
f) assume un rilievo centrale (in particolare ai fini della
risoluzione del quesito sottoposto all’Adunanza plenaria,
come si vedrà meglio in prosieguo) un ulteriore elemento
caratterizzante l’istituto in esame, ovvero l’impossibilità
che l’Amministrazione emani il provvedimento di acquisizione
in presenza di un giudicato che abbia disposto la
restituzione del bene al proprietario; tale elemento –valorizzato dalla sentenza n. 71 del 2015 in coerenza coi
principi elaborati dalla Corte di Strasburgo- si desume
implicitamente dalla previsione del comma 2 dell’art. 42-bis
nella parte in cui consente all’autorità di adottare il
provvedimento durante la pendenza del giudizio avente ad
oggetto l’annullamento della procedura ablatoria (ovvero nel
corso del successivo eventuale giudizio di ottemperanza), ma
non oltre, e quindi dopo che si sia formato un eventuale
giudicato non soltanto cassatorio ma anche esplicitamente
restitutorio (come meglio si dirà in prosieguo);
g) ne consegue che la scelta che l’amministrazione è tenuta
ad esprimere nell’ipotesi in cui si verifichi una delle
situazioni contemplate dai primi due commi dell’art. 42-bis,
non concerne l’alternativa fra l’acquisizione autoritativa e
la concreta restituzione del bene, ma quella fra la sua
acquisizione e la non acquisizione, in quanto la concreta
restituzione rappresenta un semplice obbligo civilistico —cioè una mera conseguenza legale della decisione di non
acquisire l’immobile assunta dall’amministrazione in sede
procedimentale— ed essa non costituisce, né può costituire,
espressione di una specifica volontà provvedimentale
dell’autorità, atteso che, nell’adempiere gli obblighi di
diritto comune, l’amministrazione opera alla stregua di
qualsiasi altro soggetto dell’ordinamento e non agisce
iure auctoritatis;
h) per concludere sul punto utilizzando un argomento
esegetico caro all’analisi economica del diritto, può dirsi
che la nuova disposizione, in buona sostanza, ha evitato che
si riproducesse il vulnus arrecato dal superato art. 43 t.u. espr., ovvero la possibilità, accordata dalla norma
all’epoca vigente, di far regredire la property rule (che
dovrebbe assistere il privato titolare della risorsa), a
liability rule (con facoltà della pubblica amministrazione
di acquisire a propria discrezione l’altrui bene con il solo
pagamento di una compensazione pecuniaria), introducendo
pragmaticamente una regola di second best, da un lato,
riducendo al minimo l’ambito applicativo dell’appropriazione
coattiva, dall’altro, evitando che tale strumento divenga di
uso routinario –causa maggiori costi, responsabilità
erariale, impossibilità di far valere l’onerosità della
restituzione quale giusta causa di acquisizione del bene,
partecipazione rafforzata del proprietario alla scelta
finale, motivazione esigente e rigorosa sulla impossibilità
di configurare soluzioni diverse- configurandosi come una
normale alternativa all’espropriazione ordinaria: in
quest’ottica la procedura prevista dall’art. 42-bis non
rappresenta più (per usare il linguaggio della Corte di
Strasburgo) il punto di emersione di una defaillance
structurelle dell’ordinamento italiano (rispetto a
quello europeo) ma costituisce, essa stessa, espropriazione
adottata secondo il canone della <<buona e debita forma>>
predicato dal paradigma europeo (Consiglio
di Stato, Adunanza Plenaria,
sentenza 09.02.2016 n. 2 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
L'occupazione usurpativa.
DOMANDA:
Negli anni 70 il Comune realizzò una strada comunale su
parte di terreno di proprietà privata, allargando
l'esistente sedime stradale verso le adiacenti proprietà
private. L'allora Sindaco con una semplice lettera al
proprietario si impegnava all'esecuzione dei lavori stradali
cercando di occupare il minor spazio possibile e
promettendo, al fine di evitarne l'esproprio, un compenso di
Lire 500/mq per il terreno occupato.
Ora l'erede chiede una definizione della pratica con la
presa in carico da parte dell'Ente dell'area privata
occupata dal sedime stradale ed il riconoscimento
dell'indennità. Quanto sopra, posto che la citata "promessa"
risulta essere alquanto anomala, vista la totale assenza di
un atto di cessione bonaria dell'immobile, e l'assenza di un
eventuale provvedimento deliberativo di Giunta o di
Consiglio in merito, se non per l'affidamento dei lavori.
Rilevato che ai sensi della L. 448/1998 l'accorpamento
gratuito al demanio non è da intendersi possibile in quanto
non vi è la disponibilità del proprietario, si chiede in che
modo possa essere eventualmente riconosciuto il diritto
rivendicato dal richiedente, considerata anche la
rivalutazione della somma "promessa"
nell'eventualità, ad avviso dello scrivente alquanto remota,
che tutto ciò sia possibile.
RISPOSTA:
Il caso prospettato può essere inquadrato all'interno della
fattispecie dell’occupazione usurpativa in quanto avvenuta
in assenza di un valido titolo espropriativo. Secondo quanto
disposto dalla giurisprudenza prevalente, tale fenomeno
realizza un’ipotesi di fatto illecito generatore di danno ex
art. 2043 cod. civ. (Cass. SU 10962/2005, Cons. Stato
2285/2005). Per tali ragioni, l’erede dell’originario
proprietario avrebbe effettivamente il diritto a veder
risarcito il danno derivante dalla costruzione della strada
comunale su parti di terreno di sua proprietà.
Tuttavia, l’azione per rivendicare tale diritto è sottoposta
alla prescrizione quinquennale: l’art. 2947 cod. civ.
rubricato "Prescrizioni del diritto al risarcimento del
danno" afferma che tale diritto si prescrive in cinque
anni dal giorno in cui il fatto si è verificato. In tal
caso, sarà necessario, dunque, accertare il momento di
avvenuta conclusione dei lavori di costruzione della strada
(momento conclusivo a partire dal quale è possibile
stabilire l’intervenuta mutazione dei luoghi), e, inoltre,
il compimento di eventuali atti interruttivi della
prescrizione da parte del danneggiato (atti di diffida ecc).
Qualora questi non fossero rinvenuti e l’ultimazione dei
lavori fosse avvenuta in un tempo superiore ai cinque anni
da quando l’erede ha fatto valere il suo diritto, questo non
potrebbe rivendicare alcuna pretesa nei confronti del comune
a causa della maturazione del tempo della prescrizione.
Anche a voler superare le considerazioni relative alla
prescrizione del risarcimento del danno, nel caso in cui
l’ente comunale volesse sanare ex post tale e
volesse, quindi, acquisire le parti di terreno occupate
durante la costruzione della strada comunale, potrebbe
ricorrere all'istituto della cessione volontaria ai sensi
della normativa vigente.
È importante valutare con attenzione tale opzione in quanto
–risultando ormai perfezionata l’occupazione acquisitiva– la
corresponsione di un’indennità (qualunque sia la misura)
potrebbe configurare fattispecie di responsabilità erariale
ex art. 1, c. 4, della Legge n. 20/1994 (link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA - ESPROPRIAZIONE - LAVORI PUBBLICI -
URBANISTICA:
Con l’accordo di programma decide il Tar. Sezioni
Unite. La competenza delle cause del privato che vi aderisce
è del giudice amministrativo.
Più agevole trovare
il giudice cui rivolgersi nella gestione del territorio: con
una prima pronuncia (sentenza
07.01.2016 n. 64) le Sezioni unite civili della Corte
di Cassazione chiariscono cosa accada quando più enti
pubblici (Comune, Provincia e Regione) stipulino un accordo
di programma e un privato vi aderisca, lamentandosi poi dei
danni subiti per ritardi ed inadempimenti dei soggetti
pubblici.
Con altra
sentenza
07.01.2016 n. 67, la stessa Corte
chiarisce in dettaglio cosa capiti quando, nel determinare
l’indennità di esproprio, il giudice venga tratto in errore
da una consulenza tecnica imprecisa.
La pronuncia che riguarda gli accordi di programma si
riferisce a un intervento di bonifica e recupero di una zona
industriale: Comune, Provincia e Regione avevano previsto
obblighi reciproci, dando il via ad una società privata cui
spettava la realizzazione e gestione di un interporto.
Ritardi e inadempimenti hanno poi generato una richiesta di
risarcimento danni che dapprima è stato deciso in sede
arbitrale, per poi tornare, a distanza di 10 anni, dinanzi
un diverso giudice. Il principio espresso dalla Cassazione è
che la presenza di un “accordo” tra amministrazioni,
condiviso da privati, ha l’effetto di spostare tutte le
eventuali controversie dinanzi al giudice amministrativo.
Esiste infatti una norma specifica (articolo 11 legge
241/1990) che affida a Tar e Consiglio di Stato tutte le
questioni che possano scaturire da accordi,
indipendentemente dalla materia del contendere. Nel caso
specifico, poiché la società privata aveva realizzato
interventi di bonifica e recupero subendo notevoli ritardi
causati da pubbliche amministrazioni, il relativo
contenzioso comunque era riconducibile all’accordo di
programma.
La società esecutrice danneggiata, pur essendosi
limitata a «prendere formale conoscenza» del contenuto
dell’accordo di programma tra gli enti pubblici, di tale
accordo era parte determinante essendosi impegnata a
progettare, eseguire, pagare indennizzi di esproprio,
realizzare infrastrutture ed assumere personale. Anche se
l’accordo era stato stipulato solo tra Pa per coordinare gli
impegni assunti da tali enti pubblici, tutte le liti
riconducibili alla esecuzione di detto accordo subiscono lo
stesso regime, e cioè spettano al giudice amministrativo.
Stesso del ragionamento del, del resto, è stato applicato
per obblighi di privati assunti con accordi con soggetti
pubblici, per risanare aree inquinate (nella zona
industriale di Trieste, Cassazione 18192/2013) o per una
convenzione di lottizzazione (732/2005) o per contestazioni
sull'esecuzione di parcheggi pubblici (15608/2001).
Con la stessa logica, di assoluta semplificazione, le
Sezioni unite hanno deciso la sorte di un’indennità di
esproprio, a valle di una procedura di pianificazione.
Nella sentenza n. 67 del 07.01.2016 è stata decisa la sorte
di un indennizzo calcolato equivocando sulla collocazione di
un’area: questo errore del consulente tecnico non riguarda
il ragionamento del giudice, che ha pronunciato una sentenza
correttamente argomentata.
In sintesi, sia le controversie che riguardano il momento
iniziale dell’esecuzione di opere pubbliche (accordi) sia
quelle sugli aspetti di dettaglio (stime dei suoli), esigono
particolare attenzione al fine di evitare errori di giudici
e di consulenti (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.01.2016). |
anno 2015 |
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ESPROPRIAZIONE: Esproprio con permuta limitato. Strumento applicabile solo
per interventi di riabilitazione urbana.
Tar Puglia. Bocciato lo scambio forzoso di un terreno nel
caso di un Consorzio che voleva inglobare un’area.
Più difficile
imporre permute di terreni per attuare progetti di interesse
generale: lo sottolinea il TAR Puglia-Bari, Sez. III, con
sentenza 03.12.2015 n. 1590,
relativa al caso di un Consorzio che aveva necessità di
inglobare una piccola area.
Il proprietario di un lotto (208 metri quadrati), era stato
espropriato ricevendo come indennizzo un’area, in permuta,
di 733 metri quadrati. Ciò perché il Comune, superando il
meccanismo normale di indennizzo in moneta (articolo 36
Testo unico 327/2001, pagamento del valore venale), aveva
applicato una norma speciale che consente permute di
immobili.
L’ente locale, infatti, su richiesta di altri proprietari
consorziati che intendevano realizzare un ampio piano
urbanistico, aveva applicato l’articolo 27 della legge 166
del 2001, che consente alla maggioranza assoluta
(catastalmente determinata) dei proprietari, di espropriare
le aree dei consorziati in disaccordo, ricorrendo a permute
per gli indennizzi.
La decisione del Tribunale
Su ricorso dell’espropriato, il Tar ha adottato
un’interpretazione restrittiva della norma sulle permute,
ritenendola applicabile solo nel caso dei piani di
«riabilitazione urbana». Secondo i giudici, solo quando si
tende alla riqualificazione di immobili ed attrezzature, al
miglioramento dell’accessibilità e mobilità urbana,
riordinando reti di trasporto e infrastrutture (Legge
166/2001) è possibile imporre le permute, mentre negli altri
casi chi perde l’area ha diritto a un corrispettivo in
denaro.
Nel caso esaminato in Puglia, si discuteva di un piano di
lottizzazione e quindi si era al di fuori del regime della
legge 166 sulla riabilitazione urbana. Esclusa la permuta,
rimangono, tuttavia, strade diverse dal pagamento in danaro:
ad esempio è possibile stipulare un accordo a norma della
legge 241/1990, modificando destinazioni e volumetrie
(articolo 5 Dpr 447/1998, per le iniziative produttive),
oppure fruire di meccanismi di densificazione urbana
(articolo 17, comma 4-bis, Testo unico Edilizia, introdotto
dal decreto legge 133/2014) o contributi al Comune in cambio
del maggior valore dovuto a varianti.
La perequazione
In sede di pianificazione generale, può operare poi il
principio della perequazione, modificando gli indici di
edificabilità per trovare spazio e risorse economiche utili
all’esecuzione di interventi pubblici (Consiglio di Stato
4545/2010, sul Piano regolatore generale di Roma).
Prende
piede quindi una “moneta parallela” per gli scambi in
materia urbanistica, con accordi agevolati da una sorta di
“proibizionismo” iniziato nel 2011, quando il legislatore ha
fortemente scoraggiato gli acquisti immobiliari delle
pubbliche amministrazioni (articolo 12, comma 1-quater,
decreto legge 98/2011).
Permute consensuali
Se gli acquisti sono possibili solo in caso di “assoluta
convenienza” (codificati nel decreto ministeriale
14.02.2014), è la stessa Corte dei conti
(Sezione Toscana, delibera 125/2013;
Liguria, delibera 9/2013) a suggerire il
ricorso a figure parallele di scambio,
comprese le permute. Figure, queste ultime,
che il Tar Bari vuole sempre, tuttavia,
consensuali, senza quindi la possibilità di
imporre d’autorità uno scambio di beni (articolo Il Sole 24 Ore del
17.12.2015). |
ESPROPRIAZIONE:
Espropri, accessione invertita contraria alla
Convenzione dei diritti dell'uomo.
L'occupazione acquisitiva è contraria alla convenzione
europea dei diritti dell'uomo come tutte le forme di
espropriazione indiretta elaborate nell'ordinamento italiano
anche e soprattutto in sede giurisprudenziale: il fatto che
sul terreno sia stata ormai realizzata l'opera pubblica non
può fare acquisire il bene all'amministrazione laddove
l'acquisizione del diritto di proprietà, ricorda Strasburgo,
non può mai conseguire a un illecito.
Non conta che sia intervenuta la dichiarazione di pubblica
utilità. Ecco allora che il proprietario del terreno deve
ottenere la restituzione o il risarcimento del danno e il
suo diritto non decorre dalla ormai risalente trasformazione
irreversibile del fondo: il termine quinquennale scatta
dalle singole annualità, quanto al danno per la perdita del
godimento, e dalla data della domanda, quanto alla
reintegrazione per equivalente.
Lo stabiliscono le Sezioni unite civili della Corte di
Cassazione con la
sentenza 19.01.2015
n. 735 che risolve un contrasto di giurisprudenza.
Illecito permanente
Accolto il ricorso degli eredi del de cuius: si
riapre una controversia cominciata nel lontano 1953 con
l'esproprio di un terreno da parte del Comune che ha
realizzato soltanto nel '60 sul fondo espropriato la scuola
di cui aveva tanto bisogno.
Trova ingresso la censura secondo cui l'accessione invertita
non può essere applicata perché è contraria al principio di
legalità affermato dalla Convenzione europea dei diritti
dell'uomo: il diritto al risarcimento del proprietario,
dunque, deriva da un illecito permanente com'è appunto
l'occupazione illegittima del terreno da parte di un ente
pubblico.
La giurisprudenza di Strasburgo sottolinea che «lo stato
dovrebbe, prima di tutto, adottare misure tendenti a
prevenire ogni occupazione fuori legge dei terreni, che si
tratti d'occupazione senza titolo dall'inizio o di
occupazione inizialmente autorizzata e divenuta senza titolo
successivamente» (nella specie l'occupazione di urgenza
dell'area diventa illegittima perché il decreto di esproprio
non interviene entro il biennio successivo).
La contrarietà alla Cedu esclude che l'istituto sopravviva
nel nostro ordinamento. Parola al giudice del rinvio
(articolo ItaliaOggi del 20.01.2015). |
ESPROPRIAZIONE:
L’illecito spossessamento del privato da parte
della p.a. e l’irreversibile trasformazione del suo terreno
per la costruzione di un’opera pubblica non danno luogo,
anche quando vi sia stata dichiarazione di pubblica utilità,
all’acquisto dell’area da parte dell’Amministrazione ed il
privato ha diritto a chiederne la restituzione salvo che non
decida di abdicare al suo diritto e chiedere il risarcimento
del danno.
Il privato, inoltre, ha diritto al risarcimento dei danni
per il periodo, non coperto dall’eventuale occupazione
legittima, durante il quale ha subito la perdita delle
utilità ricavabili dal terreno e ciò sino al momento della
restituzione ovvero sino al momento in cui ha chiesto il
risarcimento del danno per equivalente, abdicando alla
proprietà del terreno.
Ne consegue che la prescrizione quinquennale del diritto al
risarcimento dei danni decorre dalle singole annualità,
quanto al danno per la perdita del godimento, e dalla data
della domanda, quanto alla reintegrazione per equivalente.
Il primo motivo è fondato con conseguente assorbimento del secondo
motivo.
L’occupazione acquisitiva (o espropriativa o appropriativa)
è, come è noto, istituto di creazione giurisprudenziale
risalente nella prima compiuta formulazione alla sentenza
Cass. s.u. 26.02.1983, n. 1464, ma con un
significativo precedente in Cass. 08.06.1979, n. 3243.
Tale pronunzia -affrontando il caso, non disciplinato dalla
legge, di una occupazione protrattasi oltre i previsti
termini di occupazione legittima e contrassegnata dalla
irreversibile trasformazione del fondo per la costruzione di
un’opera dichiarata di pubblica utilità– è stata il frutto
della dichiarata ricerca di un punto di equilibrio tra la
tutela dell’azione amministrativa (assicurata dall’acquisto
a titolo originario in capo alla pubblica amministrazione
della proprietà del suolo illegittimamente occupato e
trasformato) e la tutela della proprietà privata (assicurata
dall’obbligo dell’amministrazione occupante di risarcire
integralmente il danno arrecato, sulla base, almeno sino
all’entrata in vigore del comma 7-bis dell’art. 5-bis del
d.l. n. 333/1992, del valore venale del bene).
Tale
pronunzia, inoltre, ha segnato il superamento del precedente
orientamento in base al quale, nel caso in esame, il privato
restava proprietario del bene occupato, aveva diritto
soltanto al risarcimento del danno determinato dalla perdita
di utilità ricavabili dalla cosa e restava soggetto alla
tardiva sopravvenienza del decreto di espropriazione,
ritenuto idoneo a ricollocare la fattispecie su un piano di
legittimità con l’attribuzione al privato soltanto di un
indennizzo (all’epoca non commisurato al valore venale del
bene) (ex plurimis Cass. 02.06.1977, n. 2234; Cass. 26.09.1978, n. 4323).
La giurisprudenza successiva, dopo la composizione (ad opera
di Cass. s.u. 25.11.1992, n. 12546) del contrasto
insorto circa il termine di prescrizione del diritto al
risarcimento del danno, si è dovuta confrontare con il
problema della compatibilità (o meglio del contrasto)
dell’istituto dell’occupazione acquisitiva con l’art. 1 del
protocollo addizionale alla Convenzione EDU, come
interpretato dalla Corte EDU.
In particolare, la Corte di
Strasburgo ha censurato le forme di ‘espropriazione
indiretta’ elaborate nell’ordinamento italiano anche e
soprattutto in sede giurisprudenziale (come nel caso
dell’occupazione acquisitiva) e le ha configurate come
illecito permanente perpetrato nei confronti di un diritto
fondamentale dell’uomo, garantito dall’art. 1 citato, senza
che alcuna rilevanza possa assumere in contrario il dato
fattuale dell’intervenuta realizzazione di un’opera pubblica
sul terreno interessato, affermando che l’acquisizione del
diritto di proprietà non può mai conseguire a un illecito
(v., tra le tante, le sentenze Carbonara& Ventura c. Italia,
30.05.2000; Scordino c. Italia, 15 e 29.07.2004; Acciardi c. Italia, 19.05.2005; De Angelis c. Italia, 21.12.2006; Pasculli c. Italia,
04.12.2007).
In
un’altra sentenza (Scordino c. Italia n. 3, 06.03.2007) la
Corte di Strasburgo ha affermato che “lo Stato dovrebbe,
prima di tutto, adottare misure tendenti a prevenire ogni
occupazione fuori legge dei terreni, che si tratti
d’occupazione sine titulo dall’inizio o di occupazione
inizialmente autorizzata e divenuta sine titulo
successivamente… Inoltre lo Stato convenuto deve scoraggiare
le pratiche non conformi alle norme delle espropriazioni
lecite, adottando disposizioni dissuasive e ricercando le
responsabilità degli autori di tali pratiche. In tutti i
casi in cui un terreno è già stato oggetto d’occupazione
senza titolo ed è stato trasformato in mancanza di decreto
d’espropriazione, la Corte ritiene che lo Stato convenuto
dovrebbe eliminare gli ostacoli giuridici che impediscono
sistematicamente e per principio la restituzione del
terreno” (il medesimo concetto è espresso nella sentenza Carletta c. Italia, 15.07.2005 “il meccanismo
dell’espropriazione indiretta permette in generale
all’amministrazione di passare oltre le regole fissate in
materia di espropriazione, col rischio di un risultato
imprevedibile o arbitrario per gli interessati, che si
tratti di un’illegalità dall’inizio o di un’illegalità
sopraggiunta in seguito”).
La Corte Europea (v. anche le
sentenze Sciarrotta c. Italia, 12.01.2006; Serrao c.
Italia, 13.01.2006; Dominici c. Italia, 15.02.2006; Sciselo c. Italia, 20.04.2006; Cerro s.a.s. c.
Italia, 23.05.2006) si dice anche “convinta che
l’esistenza in quanto tale di una base legale non basti a
soddisfare il principio di legalità”, non potendo
l’espropriazione indiretta comunque costituire
un’alternativa ad un’espropriazione “in buona e dovuta
forma”.
La giurisprudenza di questa Corte successiva alle citate
pronunzie della Corte EDU si è in larga parte orientata non
verso l’abbandono dell’istituto dell’occupazione
acquisitiva, nel frattempo presupposta, come si vedrà meglio
in seguito, da alcune disposizioni di legge, ma verso la
ricerca del superamento dei punti di criticità della
disciplina dell’istituto rispetto ai principi affermati
dalla Convenzione EDU.
In questa prospettiva si collocano, anzitutto, le decisioni
tese ad affermare la compatibilità dell’istituto
dell’occupazione acquisitiva con il principio sancito
dall’art. 1 del protocollo addizionale alla Convenzione EDU,
come interpretato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo;
a tal fine si sottolinea che l’istituto non solo ha una base
legale nei principi generali dell’ordinamento, ma ha trovato
previsione normativa espressa prima (settoriale) con l’art.
3 della legge n. 458/1988 e, successivamente, con il comma 7-bis dell’art. 5-bis del d.l. n. 333/1992 (introdotto
dall’art. 3, comma 65, della legge n. 662/1996) e, quindi,
risulta ormai basato su regole sufficientemente accessibili,
precise e prevedibili, ancorate a norme giuridiche che hanno
superato il vaglio di costituzionalità ed hanno recepito
(confermandoli) principi enucleati dalla costante
giurisprudenza (Cass. s.u. 14.04.2003, n. 5902; Cass. s.u. 06.05.2003, n. 6853).
Altre decisioni si sono preoccupate di fissare il dies a quo
del termine di prescrizione nel momento dell’emersione certa
a livello legislativo dell’istituto e cioè a partire dalla
legge n. 458/1988, ritenendo in tal modo soddisfatto il
necessario ossequio al principio di legalità affermato in
materia dalla Corte EDU (Cass. 28.07.2008, n. 20543;
Cass. 05.10.21203; Cass. 22.04.2010, n. 9620; Cass.
26.05.2010, n. 12863; Cass. 26.03.2013, n. 7583;
Cass. 18.09.2013, n. 21333).
Nello stesso orientamento conservativo dell’istituto si
collocano le decisioni che hanno attribuito rilievo, ai fini
dell’interruzione della prescrizione del diritto al
risarcimento del danno, all’offerta ed al deposito
dell’indennità di espropriazione (Cass. 16.01.2013, n.
923) ovvero alla richiesta di versamento del prezzo di una
progettata cessione volontaria del fondo e alla richiesta
dell’indennità di occupazione (Cass. 14.02.2008, n.
3700).
Infine, sempre nell’ambito dell’orientamento conservativo,
il problema della tutela del privato, rispetto alla
incertezza del dies a quo di un termine di prescrizione
collegato all’irreversibile trasformazione, è stato
definitivamente superato affermando sia che detto termine
inizia a decorrere dal momento in cui il trasferimento della
proprietà venga o possa essere percepito dal proprietario
come danno ingiusto ed irreversibile sia che la relativa
prova incombe sull’Amministrazione (Cass. 17.04.2014, n.
8965).
Nel senso del superamento dell’istituto dell’occupazione
acquisitiva si sono pronunciate Cass. 14.01.2013, n.
705 e Cass. 28.01.2013, n. 1804. Tali decisioni hanno
fondato le loro conclusioni non solo sulle pronunzie della
Corte di Strasburgo, ma anche sull’art. 42-bis del d.p.r. 08.06.2001, n. 327 (testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia di espropriazione per
pubblica utilità), sostenendo che tale norma sia applicabile
anche ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore e
disciplini in modo esclusivo, e perciò incompatibile con
l’occupazione acquisitiva, le modalità attraverso le quali,
a fronte di un’utilizzazione senza titolo di un bene per
scopi di pubblico interesse, è possibile –con l’esercizio
di un potere basato su una valutazione degli interessi in
conflitto– pervenire ad un’acquisizione non retroattiva
della titolarità del bene al patrimonio indisponibile della
P.A., sotto condizione sospensiva del pagamento, al soggetto
che perde il diritto di proprietà, di un importo a titolo di
indennizzo.
Si deve escludere che la questione della sopravvivenza o
meno dell’istituto dell’occupazione acquisitiva per le
fattispecie anteriori all’entrata in vigore del testo unico
di cui al d.p.r. n. 327/2001 possa essere decisa, come
ritenuto dalle citate Cass. nn. 705/2013 e 1804/2013,
l’argomento della retroattività dell’art. 42-bis dello
stesso d.p.r.. Al riguardo, si deve rammentare che l’articolo
in questione è stato aggiunto dall’articolo 34, comma 1, dei
d.l. n. 98/2011, dopo che la Corte costituzionale, con la
sentenza n. 293/2010, aveva dichiarato l’illegittimità, per
eccesso di delega, dell’art. 43 del tu., che aveva dettato
una prima regolamentazione dell’acquisizione sanante.
In tale contesto deve essere letto il comma 8 dell’art. 42-bis, secondo cui “le disposizioni del presente articolo
trovano altresì applicazione ai fatti anteriori alla sua
entrata in vigore ed anche se vi è già stato un
provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o
annullato, ma deve essere comunque rinnovata la valutazione
di attualità e prevalenza dell’interesse pubblico a disporre
l’acquisizione; in tal caso, le somme già erogate al
proprietario, maggiorate dell’interesse legale, sono
detratte da quelle dovute ai sensi del presente articolo”.
È
vero che la lettera della norma non pone limitazioni di
sorta all’applicazione della stessa a fatti anteriori alla
sua entrata in vigore. L’interpretazione logica suggerisce,
tuttavia, un diverso approdo. Come si è detto, l’art. 42-bis
ha sostituito l’art. 43 del testo unico di cui al d.p.r. n.
327/2001, che aveva introdotto nel nostro ordinamento
l’istituto dell’acquisizione sanante e che era stato espunto
per eccesso di delega dalla Corte costituzionale.
È
evidente, pertanto, la preoccupazione del legislatore del
2011 di assicurare alla nuova disposizione la stessa
applicazione temporale già prevista per quella dettata
dall’art. 43, che si inseriva in un sistema organico di
norme destinato a superare l’istituto dell’occupazione
acquisitiva, ma soltanto dopo il 30.06.2003 (data di
entrata in vigore dei testo unico), come confermato
dall’assenza in quella norma della previsione di una
applicabilità anche ai fatti anteriori alla sua entrata in
vigore. Tale preoccupazione emerge, in particolare, laddove
nel comma ottavo dell’art. 42-bis è stata specificamente
prevista e disciplinata l’ipotesi della avvenuta emissione
di un provvedimento di acquisizione ai sensi del precedente
art. 43.
Distinte considerazioni devono essere fatte per l’art. 55
del t.u. che, con riferimento al periodo anteriore al 30.09.1996 (per quello successivo l’esclusione dal campo
di applicazione dell’art. 5-bis, comma 7-bis, del d.l. n.
333/1992 era già sufficiente ad assicurare il risarcimento
del danno secondo il criterio venale e senza riduzioni),
disciplina il risarcimento dei danni per il caso di
utilizzazione di un suolo edificabile per scopi di pubblica
utilità in assenza di un valido ed efficace provvedimento di
esproprio.
L’art. 55, nell’intenzione del legislatore ed
indipendentemente dalla diversa lettura che se ne dovrà dare
(v. infra punto n. 6 della motivazione), presupponeva
l’applicabilità dell’istituto dell’occupazione acquisitiva,
che è evidentemente incompatibile con l’istituto
dell’acquisizione sanante, poiché questa parte dalla
premessa che una acquisizione alla mano pubblica non si sia
già verificata. Pertanto, solo con il superamento
dell’occupazione acquisitiva, e perciò solo per il periodo
successivo all’entrata in vigore del testo unico, poteva
trovare applicazione il nuovo istituto, disciplinato prima
dall’art. 43 e, poi, dall’art. 42-bis.
È chiaro, tuttavia,
che l’originaria incompatibilità, storicamente certa, tra la
disciplina dettata dall’art. 42-bis e quella dettata
dall’art. 55, è destinata a venire meno con una diversa
lettura di quest’ultima disposizione suggerita, come si dirà
tra breve, dal contrasto dell’occupazione acquisitiva con i
principi affermati dall’art. 1 del protocollo addizionale
alla Convenzione EDU.
Resta però il fatto che l’art. 42-bis
non può essere individuato come la causa dell’espunzione
dall’ordinamento dell’istituto dell’occupazione acquisitiva
e si apre, invece, il diverso problema, non rilevante in
questa sede, se per effetto dell’espunzione dell’istituto,
determinata da una diversa causa, possa ipotizzarsi, alla
stregua dei principi in tema di applicazione della legge ai
fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed ai rapporti da
tali fatti generati, un ampliamento temporale del campo di
applicazione dell’art. 42-bis, che non troverebbe più il
limite derivante da situazioni in cui è già avvenuta
l’acquisizione alla mano pubblica, ma eventualmente il
limite, da verificare, dell’irretroattività della nuova
disciplina oltre la decorrenza da essa desumibile e come
sopra individuata.
Il contrasto dell’istituto dell’occupazione acquisitiva con
l’art. 1 del protocollo addizionale alla Convenzione EDU è
sufficiente per escluderne la sopravvivenza nel nostro
ordinamento.
La sussistenza di tale contrasto è stata già riconosciuta da
queste Sezioni unite con le ordinanze nn. 441 e 442 del 13.01.2014 con cui è stata ritenuta rilevante e non
manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale del citato art. 42 bis in relazione agli
artt. 3, 24, 42, 97, 111 e 117 Cost., anche alla luce
dell’art. 6 e dell’art. 1 del protocollo addizionale della
Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali. In tali ordinanze, infatti, questa Corte ha
dato atto che la Corte EDU ha dichiarato più volte “in
radicale contrasto con la Convenzione il principio
dell1espropriazione indiretta, con la quale il trasferimento
della proprietà del bene dal privato alla p.a. avviene in
virtù della constatazione della situazione di illegalità o
illiceità commessa dalla stessa Amministrazione, con
l’effetto di convalidarla; di consentire a quest’ultima di
trame vantaggio; nonché di passare oltre le regole fissate
in materia di espropriazione, con il rischio di un risultato
imprevedibile o arbitrario per gli interessati. E nella
categoria suddetta la Corte ha sistematicamente inserito…
l’ipotesi corrispondente alla c.d. occupazione
espropriativa… ritenendo ininfluente che una tale vicenda
sia giustificata soltanto dalla giurisprudenza, ovvero sia
consentita mediante disposizioni legislative, come è
avvenuto con la L. n. 458 del 1988”.
Tale contrasto deve essere qui ribadito, sottolineando che
il contrario orientamento conservativo ha eliminato nel
tempo i punti di criticità connessi alla prescrizione del
diritto al risarcimento del danno, ma nulla poteva fare
rispetto alla esclusione del diritto alla restituzione,
portato intrinseco dell’istituto dell’occupazione
acquisitiva, che la Corte di Strasburgo, come sopra riferito
(v sopra n. 2), ha ritenuto incompatibile con l’art. 1 della
Convenzione EDU, affermando che lo Stato “dovrebbe eliminare
gli ostacoli giuridici che impediscono sistematicamente e
per principio la restituzione del terreno” (Scordino c.
Italia n. 3, 06.03.2007; Sciarrotta c. Italia, 12.01.2006; Carletta c. Italia, 15.07.2005).
Il contrasto, del
resto, è stato affermato anche dalla Corte costituzionale
con la sentenza 08.10.2010, n. 293, rilevando –anche se
solo in un obiter dictum, considerato che l’illegittimità
dell’art. 43 del d.p.r. n. 327/2001 è stata dichiarata per
eccesso di delega– che la Corte di Strasburgo, “sia pure
incidentalmente, ha precisato che l’espropriazione indiretta
si pone in violazione del principio di legalità, perché non
è in grado di assicurare un sufficiente grado di certezza e
permette all’amministrazione di utilizzare a proprio
vantaggio una situazione di fatto derivante da azioni
illegali, e ciò sia allorché essa costituisca conseguenza di
un’interpretazione giurisprudenziale, sia allorché derivi da
una legge –con espresso riferimento all’articolo 43 del
t.u. qui censurato-, in quanto tale forma di espropriazione
non può comunque costituire un’alternativa ad
un’espropriazione adottata secondo buona e debita forma
(causa Sciarrotta ed altri c. Italia – Terza Sezione –
sentenza 12.01.2006 – ricorso n. 14793/02)”.
Le conseguenze della contrarietà dell’istituto
dell’occupazione acquisitiva con i principi affermati
dall’art. 1 del protocollo addizionale alla Convenzione EDU
devono essere individuate sulla base di quanto stabilito
dalla Corte costituzionale con le sentenze nn. 348 e 349 del
2007 e 338 del 2011: le norme interne in contrasto gli
obblighi internazionali sanciti dall’art. 1 del primo
protocollo addizionale alla CEDU, che il legislatore è
tenuto a rispettare in forza dell’art. 117, primo comma,
Cost., non possono essere disapplicate dal giudice nazionale
che deve verificare la possibilità di risolvere il problema
in via interpretativa, rimettendo, in caso contrario, la
questione alla Corte costituzionale.
Orbene, nella specie, come chiarito in precedenza,
l’istituto dell’occupazione acquisitiva è stato elaborato
dalla giurisprudenza e, successivamente, è stato presupposto
da diverse disposizioni di legge. Pertanto, una volta
accertata la contrarietà dell’istituto con i principi della
Convenzione EDU, occorre stabilire, da un lato, se
l’interpretazione della giurisprudenza sulle conseguenze
dell’illecita utilizzazione sia o meno la sola consentita
dal sistema e, dall’altro, se le norme che hanno dato
‘copertura’ all’istituto possano o meno essere ‘sganciate’
da questo ed essere oggetto di una diversa interpretazione.
Al primo interrogativo si deve dare certamente risposta
positiva poiché la c.d. accessione invertita rappresenta una
eccezione rispetto alla normale disciplina degli effetti di
una occupazione illegittima cui consegue ordinariamente il
diritto del soggetto spossessato di richiedere la
restituzione. Tale eccezione si fondava sulla esistenza,
affermata in via interpretativa, di un principio generale,
del quale sarebbero stati espressione gli artt. 936 ss. cod.
civ., in base al quale, nel caso di opere fatte da un terzo
su un terreno altrui, la proprietà sia del suolo sia della
costruzione viene attribuita al soggetto portatore
dell’interesse ritenuto prevalente, con la precisazione che
il principio opera anche in caso di attività illecita posta
in essere dalla P.A. e che quest’ultima deve essere
individuata come il soggetto portatore dell’interesse
prevalente quando viene realizzata un’opera dichiarata di
pubblica utilità.
La giurisprudenza della Corte EDU fa,
tuttavia, cadere il presupposto della possibilità di
affermare in via interpretativa che da una attività illecita
della P.A. possa derivare la perdita del diritto di
proprietà da parte del privato. Caduto tale presupposto,
diviene applicabile lo schema generale degli artt. 2043 e
2058 c.c., il quale non solo non consente l’acquisizione
autoritativa del bene alla mano pubblica, ma attribuisce al
proprietario, rimasto tale, la tutela reale e cautelare
apprestata nei confronti di qualsiasi soggetto
dell’ordinamento (restituzione, riduzione in pristino stato
dell’immobile, provvedimenti di urgenza per impedirne la
trasformazione ecc), oltre al consueto risarcimento del
danno, ancorato ai parametri dell’art. 2043 c.c.:
esattamente come sinora ritenuto per la c.d. occupazione
usurpativa (ex plurimis Cass. s.u. 19.05.1982; Cass. s.u.
04.03.1997, n. 1907; Cass. 12.12.2001, n. 15710;
Cass. 03.05.2005, n. 9173; Cass. 15.09.2005, n.
18239; Cass. s.u. 25.06.2009, n. 14886; Cass. 25.01.2012, n. 1080).
Con riferimento al secondo interrogativo si devono prendere
in considerazione le seguenti disposizioni:
- art. 3, comma 1, della legge n. 458/1988: “il proprietario
del terreno utilizzato per finalità di edilizia residenziale
pubblica, agevolata e convenzionata, ha diritto al
risarcimento del danno causato da provvedimento
espropriativo dichiarato illegittimo con sentenza passata in
giudicato, con esclusione della retrocessione del bene”
(disposizione che la Corte costituzionale, con la sentenza
27.12.1991, n. 486, ha esteso al proprietario del
terreno utilizzato per finalità di edilizia residenziale
pubblica senza che sia stato emesso alcun provvedimento di
esproprio);
- art. 11, commi 5 e 7, della legge n. 413/1991 che, ai fini
della determinazione della base imponibile per l’imposta sul
reddito, prendono in considerazione, rispettivamente, “le
plusvalenze conseguenti alla percezione, da parte di
soggetti che non esercitano imprese commerciali, di somme
comunque dovute per effetto di acquisizione coattiva
conseguente ad occupazioni di urgenza divenute illegittime”
e il “risarcimento danni da occupazione acquisitiva”;
- art. 5-bis, comma 7-bis, del d.l. n. 333/1992: “in caso di
occupazioni illegittime di suoli per causa di pubblica
utilità, intervenute anteriormente al 30.09.1996, si
applicano, per la liquidazione del danno, i criteri di
determinazione dell’indennità di cui al comma 1, con
esclusione della riduzione del 40 per cento. In tal caso
l’importo del risarcimento è altresì aumentato del 10 per
cento. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano
anche ai procedimenti in corso non definiti con sentenza
passata in giudicato” (comma dichiarato costituzionalmente
illegittimo da Corte cost. n. 349/2007);
- art. 55, comma 1, del d.p.r. n. 327/2001: “nel caso di
utilizzazione di un suolo edificabile per scopi di pubblica
utilità, in assenza del valido ed efficace provvedimento di
esproprio alla data del 30.09.1996, il risarcimento
del danno è liquidato in misura pari al valore venale del
bene” [comma introdotto dall’art.2, comma 89, lettera e),
della legge n. 244/2007 dopo che la Corte costituzionale,
con la citata decisione n. 349/2007, presupponendo
implicitamente esistente e costituzionalmente legittima la
c.d. occupazione acquisitiva, aveva dichiarato
l’illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis, comma 7-bis,
del d.l. n. 333/1992, che determinava il risarcimento del
danno in misura inferiore al valore venale del bene];
La prima delle menzionate disposizioni, escludendo la
retrocessione (da intendersi nel senso di restituzione, come
precisato da Cass. 03.04.1990, n. 2712), presuppone
evidentemente che alla trasformazione irreversibile
dell’area consegua necessariamente l’acquisto della stessa
da parte chi ha realizzato le opere. La disposizione,
tuttavia, non ha carattere generale, essendo limitata alla
utilizzazione dei suoli per finalità di edilizia
residenziale pubblica, agevolata e convenzionata.
La
disposizione, inoltre, come chiarito da Cass. s.u. 25.11.1992, n. 12546, si riferisce ad una fattispecie che
non può ricondursi all’istituto dell’occupazione
acquisitiva, mancando due caratteri fondamentali di questa e
cioè sia l’irreversibile destinazione del suolo privato a
parte integrante di un’opera pubblica (bene demaniale o
patrimoniale indisponibile) sia l’appartenenza a un soggetto
pubblico. Ovviamente, non ci si può nascondere che tale
disposizione è stata ritenuta, sinora, il punto di emersione
a livello normativo del fenomeno dell’occupazione
acquisitiva, del quale il legislatore avrebbe preso atto,
estendendone il campo di applicazione.
Tuttavia, nel momento
in cui deve essere verificata la possibilità di risolvere in
via interpretativa il contrasto tra l’istituto
dell’occupazione acquisitiva ed i principi dettati dall’art.
1 del protocollo addizionale alla Convenzione EDU, non si
può non rilevare che la lettera della disposizione (abrogata
dall’art. 58 del d.p.r. 327/2001 a decorrere dall’entrata in
vigore dello stesso d.p.r. e, per questo, ancora applicabile
alle espropriazioni la cui dichiarazione di pubblica utilità
è anteriore al 30.06.2003) si riferisce soltanto alle
utilizzazioni per finalità di edilizia residenziale
pubblica, agevolata e convenzionata, ipotesi non solo nella
specie non ricorrente, ma non rientrante neppure, come si è
detto, nell’ambito della figura dell’occupazione acquisitiva
elaborata dalla giurisprudenza.
Ne consegue,
indipendentemente dalla configurabilità o meno in relazione
a dette finalità di una funzione sociale della proprietà da
valutare alla luce dell’art. 42 Cost., l’irrilevanza nel
caso in esame di una questione di legittimità costituzionale
dell’art. 3, comma 1, della legge n. 458/1988, in relazione
al disposto dell’art. 117, comma 1, Cost..
Le sopra riportate disposizioni tributarie non disciplinano
l’istituto dell’occupazione acquisitiva, ma le conseguenze
sul piano fiscale della erogazione del risarcimento. Il che
significa che il fisco prende in considerazione soltanto
‘dall’esterno’, come un dato di fatto, le erogazioni
derivanti da una occupazione, che solo a fini descrittivi
della fattispecie viene qualificata come acquisitiva, senza
che le predette disposizioni ne disciplinino gli elementi
costitutivi e l’effetto della c.d. accessione invertita. Ne
consegue che l’espunzione dell’istituto dall’ordinamento non
contrasta con dette disposizioni, che restano applicabili
per il solo fatto che, su domanda del danneggiato e con
implicita rinunzia al diritto di proprietà, via sia stata
l’erogazione del risarcimento.
Per quanto concerne l’art. 55 del d.p.r. n. 327/2001 (non
occorre invece considerare l’art. 5-bis, comma 7-bis, del
d.l. n. 333/1992 in quanto, come si è detto, dichiarato
costituzionalmente illegittimo, ma per il quale varrebbe lo
stesso ragionamento), si deve osservare che tale
disposizione, pur avendo storicamente presupposto una
occupazione acquisitiva, non richiede necessariamente un
contesto nel quale l’occupazione dia luogo all’acquisizione
del terreno alla mano pubblica con esclusione restituzione
al proprietario.
La norma, infatti, prende in considerazione
il risarcimento del danno eventualmente spettante al
proprietario in caso di illecita utilizzazione del suo
terreno, ma non esclude affatto la possibilità di una
restituzione del bene illecitamente utilizzato
dall’Amministrazione. In altre parole, la disposizione in
esame, sebbene vista in passato come copertura normativa
dell’istituto creato dalla giurisprudenza, può e deve essere
letta oggi come sganciata dall’occupazione acquisitiva e
perciò come se in essa fosse presente l’inciso ‘ove non
abbia luogo la restituzione’ e non più, secondo la lettura
data in precedenza, come se in essa fosse presente l’inciso
‘non essendo possibile la restituzione’.
In conclusione, alla luce della costante giurisprudenza
della Corte Europea dei diritti dell’uomo, quando il decreto
di esproprio non sia stato emesso o sia stato annullato,
l’occupazione e la manipolazione del bene immobile di un
privato da parte dell’Amministrazione si configurano,
indipendentemente dalla sussistenza o meno di una
dichiarazione di pubblica utilità, come un illecito di
diritto comune, che determina non il trasferimento della
proprietà in capo all’Amministrazione, ma la responsabilità
di questa per i danni. In particolare, con riguardo alle
fattispecie già ricondotte alla figura dell’occupazione
acquisitiva, viene meno la configurabilità dell’illecito
come illecito istantaneo con effetti permanenti e,
conformemente a quanto sinora ritenuto per la c.d.
occupazione usurpativa, se ne deve affermare la natura di
illecito permanente, che viene a cessare solo per effetto
della restituzione, di un accordo transattivo, della
compiuta usucapione da parte dell’occupante che lo ha
trasformato, ovvero della rinunzia del proprietario al suo
diritto, implicita nella richiesta di risarcimento dei danni
per equivalente.
A tale ultimo riguardo, dissipando i dubbi
espressi dall’ordinanza di rimessione, si deve escludere che
il proprietario perda il diritto di ottenere il controvalore
dell’immobile rimasto nella sua titolarità. Infatti, in
alternativa alla restituzione, al proprietario è sempre
concessa l’opzione per una tutela risarcitoria, con una
implicita rinuncia al diritto dominicale sul fondo
irreversibilmente trasformato (cfr. ex plurimis, in tema di
occupazione c.d. usurpativa, Cass. 28.03.2001, n. 4451 e
Cass. 12.12.2001, n. 15710); tale rinuncia ha
carattere abdicativo e non traslativo: da essa, perciò, non
consegue, quale effetto automatico, l’acquisto della
proprietà del fondo da parte dell’Amministrazione (Cass. 03.05.2005, n. 9173; Cass. 18.02.2000 n. 1814).
La cessazione dell’illecito può aversi, infine, per effetto
di un provvedimento di acquisizione reso
dall’Amministrazione, ai sensi dell’art. 42-bis del t.u. di
cui al d.p.r. n. 327/2001, con l’avvertenza che per le
occupazioni anteriori al 30.06.2003 l’applicabilità
dell’acquisizione sanante richiede la soluzione positiva
della questione, qui non rilevante, sopra indicata al punto
n. 4 della motivazione.
Per quanto sinora detto, in accoglimento del primo motivo di
ricorso, la sentenza impugnata deve essere cassata con
rinvio alla Corte di appello di Reggio Calabria che dovrà
attenersi al seguente principio di diritto: “l’illecito
spossessamento del privato da parte della p.a. e
l’irreversibile trasformazione del suo terreno per la
costruzione di un’opera pubblica non danno luogo, anche
quando vi sia stata dichiarazione di pubblica utilità,
all’acquisto dell’area da parte dell’Amministrazione ed il
privato ha diritto a chiederne la restituzione salvo che non
decida di abdicare al suo diritto e chiedere il risarcimento
del danno. Il privato, inoltre, ha diritto al risarcimento
dei danni per il periodo, non coperto dall’eventuale
occupazione legittima, durante il quale ha subito la perdita
delle utilità ricavabili dal terreno e ciò sino al momento
della restituzione ovvero sino al momento in cui ha chiesto
il risarcimento del danno per equivalente, abdicando alla
proprietà del terreno. Ne consegue che la prescrizione
quinquennale del diritto al risarcimento dei danni decorre
dalle singole annualità, quanto al danno per la perdita del
godimento, e dalla data della domanda, quanto alla
reintegrazione per equivalente” (Corte
di Cassazione, Sezz. unite civili,
sentenza 19.01.2015 n. 735
-
link a http://renatodisa.com). |
anno 2014 |
|
ESPROPRIAZIONE:
Condannati Sindaco e responsabile ufficio tecnico
che non concludono l'esproprio.
I giudici contabili fanno chiarezza sulla condotta omissiva
dell'Amministrazione.
Una procedura espropriativa ha causato un danno consistente
alla casse comunali. La giunta municipale aveva deciso di
iniziare i lavori di una strada ma poi non aveva concluso
l’iter con l’adozione del provvedimento di esproprio.
Il proprietario del terreno, vista la trasformazione
irreversibile del suolo, adiva il Tribunale civile per
essere risarcito. Il processo si concludeva con una sentenza
di condanna per l’Amministrazione comunale pari a €
21.150,00.
Secondo quanto affermato dalla Procura presso la Corte dei
Conti il pagamento di questa somma poteva essere evitato e,
pertanto, si configura un danno erariale indiretto
imputabile al Sindaco e al responsabile dell’ufficio
tecnico.
A nulla sono valse le argomentazioni difensive dei
convenuti. Infatti, affermano i giudici contabili, l’ipotesi
di mancato espletamento della procedura espropriativa rende
responsabile il Sindaco che ha la potestà provvedimentale in
materia. Il capo dell’Amministrazione e, come tale,
responsabile diretto degli affari del comune, è “titolare
di un dovere di sovrintendenza sul funzionamento dei servizi
e degli uffici”.
Così anche l’Ufficio tecnico ha “l’indubbio compito di
curare tutti gli aspetti tecnico-amministrativi relativi
alle procedure espropriative (redigere lo stato di
consistenza, i decreti, le occupazioni definitive e le
retrocessioni, i frazionamenti e gli accatastamenti). In
particolare, è l’apparato cui è affidato l’espletamento di
tutta l’attività strumenta e propedeutica all’adozione, da
parte dell’organo politico, del provvedimento finale
d’esproprio”.
Nella vicenda in esame quindi vi sono stati inadempimenti
rispetto a doveri normativamente previsti.
La condotta omissiva del Sindaco –secondo i giudici
contabili– è “manifestazione di grave trascuratezza e non
curanza” ed ancora di un “disinteresse totale degli obblighi
e dei doveri istituzionali”. Il primo cittadino, con
questo comportamento, ha violato i doveri di attenzione
sugli affari del Comune, trascurando in maniera grave “i
principi normativi di buon andamento dell’azione
amministrativa e, soprattutto una marcata inosservanza delle
norme specifiche in materia di espropriazione”.
Pertanto, con la
sentenza 15.10.2014
n. 238, la Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. per la
Regione Calabria, ha condannato sia il Sindaco (nella quota
del 60%) a risarcire il danno per una somma pari a € 1.800
che il responsabile tecnico per € 253, per quest’ultimo
nella quantificazione del danno si è tenuto conto dei giorni
(563) in cui svolse l’attività lavorativa (commento tratto
da www.ilquotidianodellapa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Occupazione di terreno al giudice ordinario.
Una sentenza sulla liquidazione dell'indennità spettante.
Spetta al giudice ordinario decidere sulla domanda volta
alla liquidazione dell'indennità spettante per il periodo di
occupazione legittima del terreno, trovando applicazione
l'art. 53, comma 2, del dlgs n. 325 del 2001, come
modificato dal dlgs n. 104 del 2010.
Ad affermarlo sono stati i giudici della II Sez. del TAR Calabria-Catanzaro con
sentenza
17.07.2014 n. 1190.
I giudici amministrativi calabresi, in ossequio anche con
una consolidata giurisprudenza, hanno osservato che: «ricade
pressoché interamente nella giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo ex art. 133, lett. f), c.p.a., che
devolve a quest'ultimo le controversie, anche risarcitorie,
[le questioni] che abbiano a oggetto un'occupazione
originariamente legittima, che sia poi divenuta sine titulo
a causa del decorso dei termini di efficacia della
dichiarazione di pubblica utilità senza il sopravvenire di
un valido decreto di esproprio, trattandosi non già di meri
comportamenti materiali, ma di condotte costituenti
espressione di un'azione originariamente riconducibile
all'esercizio del potere autoritativo della p.a. e che solo
per accidenti successivi hanno perso la propria connotazione
eminentemente pubblicistica».
Esclude la possibilità di una condanna puramente
risarcitoria a carico dell'amministrazione -hanno, poi,
sostenuto i giudici del Tar- l'ordinamento sovranazionale
recepito dalla Repubblica italiana, anche a fronte della
sopravvenuta irreversibile trasformazione del suolo per
effetto della realizzazione di un'opera pubblica
astrattamente riconducibile al compendio demaniale
necessario.
Né la realizzazione dell'opera pubblica rappresenta un
impedimento alla possibilità di restituire l'area
illegittimamente appresa, e ciò indipendentemente dalle
modalità -occupazione acquisitiva od usurpativa- di
acquisizione del terreno (si veda C. cost. 04.10.2010 n.
293; Cons. stato, Sez.
V, 02.11.2011 n. 5844).
Pertanto è sempre necessario «un passaggio intermedio,
finalizzato all'acquisto della proprietà del bene da parte
dell'ente espropriante (cfr. Cons. stato, Sez. IV, 16.11.2007 n. 5830; Tar Campania, Salerno, Sez. II, 14.01.2011 n. 43)» (articolo ItaliaOggi Sette del 18.08.2014). |
ESPROPRIAZIONE:
L'articolo 1158 del
codice civile prevede che “La proprietà dei beni immobili e
gli altri diritti reali di godimento sui beni medesimi si
acquistano in virtù del possesso continuato per venti anni”.
Orbene, nelle vicende come quelle in esame, in cui sia
avviato ma non concluso un procedimento espropriativo,
l’inizio della situazione giuridica utile per l’usucapione,
ossia la trasformazione della mera detenzione in possesso,
si verifica subito dopo la scadenza del termine massimo di
occupazione legittima del bene, atteso che l’apprensione e
la detenzione dello stesso in virtù di provvedimento di
occupazione di urgenza (che comporta la corresponsione di
una indennità in favore del privato), implicando il
riconoscimento del diritto dominicale di quest’ultimo, non
integra l’elemento possessorio necessario per l’acquisto
della proprietà.
---------------
La giurisprudenza ha avuto modo di precisare che, in virtù
del rinvio fatto dall’articolo 1165 cc all’art. 2943 cc,
risultano tassativamente elencati gli atti interruttivi del
possesso, onde non è consentito attribuire efficacia
interruttiva ad atti diversi da quelli stabiliti dalla
legge, con la conseguenza che tale efficacia può
riconoscersi solo ad atti che comportino, per il possessore,
la perdita materiale del potere di fatto sulla cosa, oppure
ad atti giudiziali diretti ad ottenere ope iudicis la
privazione del possesso nei confronti del possessore
usucapente, come la notifica dell’atto di citazione con il
quale venga richiesta la materiale consegna di tutti i beni
immobili in ordine ai quali si vanti un diritto dominicale.
---------------
Si è, poi, affermato:
- che gli atti di diffida e messa in mora sono idonei ad
interrompere la prescrizione dei diritti di obbligazione, ma
non anche il termine utile per usucapire, potendosi
esercitare il relativo possesso anche in aperto e dichiarato
contrasto con la volontà del titolare del diritto reale;
- che in tema di atti interruttivi del termine per
usucapire, non è sufficiente un mero atto o fatto che
evidenzi la consapevolezza del possessore circa la spettanza
ad altri del diritto da lui esercitato come proprio, ma si
richiede che il possessore, per il modo in cui questa
conoscenza è rivelata o per fatti in cui essa è implicita,
esprima la volontà non equivoca di attribuire il diritto
reale al suo titolare;
- che gli atti interruttivi dell’usucapione, posti in essere
nei confronti di uno dei compossessori, non hanno effetto
interruttivo nei confronti degli altri, in quanto il
principio di cui all’art. 1310 cc trova applicazione in
materia di diritti di obbligazione e non di diritti reali,
per i quali non sussiste vincolo di solidarietà, dovendosi
invece farsi riferimento ai singoli comportamenti dei
compossessori, che giovano o pregiudicano solo coloro che li
hanno (o nei cui confronti sono stati) posti in essere.
Ciò posto, si osserva che l’articolo 1158 del
codice civile prevede che “La proprietà dei beni immobili e
gli altri diritti reali di godimento sui beni medesimi si
acquistano in virtù del possesso continuato per venti anni”.
Orbene, nelle vicende come quelle in esame, in cui sia
avviato ma non concluso un procedimento espropriativo,
l’inizio della situazione giuridica utile per l’usucapione,
ossia la trasformazione della mera detenzione in possesso,
si verifica subito dopo la scadenza del termine massimo di
occupazione legittima del bene, atteso che l’apprensione e
la detenzione dello stesso in virtù di provvedimento di
occupazione di urgenza (che comporta la corresponsione di
una indennità in favore del privato), implicando il
riconoscimento del diritto dominicale di quest’ultimo, non
integra l’elemento possessorio necessario per l’acquisto
della proprietà (cfr. TAR Puglia, Lecce, II, 02.11.2011, n.
1913; CGA Sicilia, 14.01.2013, n. 9).
Nella vicenda in esame la scadenza del termine di
occupazione legittima si colloca alla data del 30.12.1989,
come accertato sia dal Tribunale di Vallo della Lucania (con la sentenza n. 33 del 2003) sia dalla Corte di Appello
di Salerno ( con la sentenza n. 761/2011) nel giudizio
civile svoltosi tra il Torrusio ed il Comune di Vallo della
Lucania, avente ad oggetto il risarcimento del danno da
occupazione appropriativa e conclusosi con il rigetto della
domanda attorea.
Di conseguenza, risultando il 31.12.1989 il dies a quo per
il calcolo del possesso ventennale ad usucapionem, la
maturazione del termine previsto dall’articolo 1958 c.c. si
è verificata in data 01.01.2010, dunque in epoca ben anteriore
alla proposizione del presente ricorso, notificato solo il
19.01.2012.
Né, d’altra parte, vengono dedotti in giudizio elementi
utili a ritenere che, durante il suddetto arco temporale, la
pubblica amministrazione non abbia avuto, in relazione al
suolo per cui è causa, un possesso non interrotto,
pacifico, pubblico e non equivoco.
Invero, nel ricorso introduttivo si precisa che, a seguito
del decreto sindacale di occupazione del 25.11.1983, lo IACP
prendeva possesso del fondo in data 30.12.1983 e che “i
successivi lavori di realizzazione dell’intervento di
edilizia popolare venivano appaltati alla CoGePa e
collaudati in data 02.03.1989… e che pertanto alla scadenza
del termine di fine lavori indicato nella delibera 1666 del
22.11.1983 dello IACP di Salerno ( 5 anni dalla presa di
possesso delle aree, avvenuta il 30.12.1983) si era già
verificata l’irreversibile trasformazione del bene”.
Ritiene, di poi, il Tribunale che dagli atti depositati in
giudizio e dalle emergenze di causa non emerge l’esistenza
di atti interruttivi del predetto termine ventennale utile
all’acquisto della proprietà per usucapione.
Con riferimento a tale questione, invero, la giurisprudenza
ha avuto modo di precisare che, in virtù del rinvio fatto
dall’articolo 1165 cc all’art. 2943 cc, risultano
tassativamente elencati gli atti interruttivi del possesso,
onde non è consentito attribuire efficacia interruttiva ad
atti diversi da quelli stabiliti dalla legge (cfr. Cass.
civ. II, 20.01.2014, n. 1071), con la conseguenza che tale
efficacia può riconoscersi solo ad atti che comportino, per
il possessore, la perdita materiale del potere di fatto
sulla cosa, oppure ad atti giudiziali diretti ad ottenere
ope iudicis la privazione del possesso nei confronti del
possessore usucapente, come la notifica dell’atto di
citazione con il quale venga richiesta la materiale consegna
di tutti i beni immobili in ordine ai quali si vanti un
diritto dominicale (cfr. Cass. civ., II, 06.05.2014, n.
9682).
Si è, poi, affermato:
- che gli atti di diffida e messa in mora sono idonei ad
interrompere la prescrizione dei diritti di obbligazione, ma
non anche il termine utile per usucapire, potendosi
esercitare il relativo possesso anche in aperto e dichiarato
contrasto con la volontà del titolare del diritto reale (Cass. II, n. 9682/2014);
- che in tema di atti interruttivi del termine per usucapire,
non è sufficiente un mero atto o fatto che evidenzi la
consapevolezza del possessore circa la spettanza ad altri
del diritto da lui esercitato come proprio, ma si richiede
che il possessore, per il modo in cui questa conoscenza è
rivelata o per fatti in cui essa è implicita, esprima la
volontà non equivoca di attribuire il diritto reale al suo
titolare (cfr. Cass. civ., II, 28.11.2013, n. 26641);
- che gli atti interruttivi dell’usucapione, posti in essere
nei confronti di uno dei compossessori, non hanno effetto
interruttivo nei confronti degli altri, in quanto il
principio di cui all’art. 1310 cc trova applicazione in
materia di diritti di obbligazione e non di diritti reali,
per i quali non sussiste vincolo di solidarietà, dovendosi
invece farsi riferimento ai singoli comportamenti dei
compossessori, che giovano o pregiudicano solo coloro che li
hanno (o nei cui confronti sono stati) posti in essere (cfr. Cass. civ., II,
25.10.2013, n. 24165)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 10.07.2014 n. 1247 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: L’evoluzione
subita dall’istituto dell’occupazione acquisitiva e il suo
superamento da parte dell’ordinamento portano al risultato
che le occupazioni illegittimamente disposte
dall’Amministrazione, seppure accompagnate
dall’irreversibile trasformazione dei beni occupati, non
comportano la perdita della proprietà in capo ai privati e
la sua acquisizione alla mano pubblica.
Nell’attuale quadro normativo, l’Amministrazione ha
l’obbligo giuridico di fare venire meno, in ogni caso,
l’occupazione “sine titulo” e, quindi, di adeguare comunque
la situazione di fatto a quella di diritto. In tal senso, la
P.A. ha due sole alternative: o deve restituire i terreni ai
titolari, demolendo quanto realizzato e disponendo la
completa riduzione in pristino allo “status quo ante”,
oppure deve attivarsi perché vi sia un titolo di acquisto
dell’area da parte del soggetto attuale possessore.
Non è, pertanto, possibile per le Amministrazioni restare
inerti a fronte di situazioni di illecito permanente
connesso con le occupazioni usurpative. Ne consegue che, in
assenza di legittimi provvedimenti ablatori o di contratti
di acquisto delle relative aree o di provvedimenti di
acquisizione ex art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, deve
affermarsi il potere dovere di far luogo alla materiale
rimozione delle opere che risultano senza titolo e alla
restituzione ai proprietari.
Ciò posto, ferma la natura discrezionale del provvedimento
di cui all’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, che ha previsto
un meccanismo, postumo, di acquisizione coattiva del bene,
per cui è prevista una valutazione degli “interessi in
conflitto”, il privato può legittimamente domandare
l’emissione del provvedimento di acquisizione o, in difetto,
la restituzione del fondo con la sua riduzione in pristino e
l’Amministrazione ha, a fronte dell’istanza del privato,
l’obbligo di provvedere.
A prescindere dall'esistenza di una specifica disposizione
normativa, l'obbligo di provvedere sussiste in tutte quelle
fattispecie particolari nelle quali ragioni di giustizia ed
equità impongano l'adozione di un provvedimento, cioè in
tutte quelle ipotesi in cui, in relazione al dovere di
correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica,
sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere
il contenuto e le ragioni delle determinazioni di
quest'ultima.
Ora, essendo trascorsi i termini per la conclusione del
procedimento, l’Amministrazione è venuta meno al proprio
dovere di concludere il procedimento con atto espresso e
motivato come disposto dall’art. 2 della l. n. 241/1990.
... per l'accertamento dell’illegittimità del silenzio
serbato dal Comune di Avetrana avverso l'atto di diffida
presentato dalla ricorrente in data 03.05.2013 per la
restituzione delle particelle del foglio di mappa 26 di cui
è proprietaria: ...
...
Il ricorso è fondato.
L'inerzia serbata dal Comune sulla richiesta della
ricorrente non risulta giustificata.
L’evoluzione subita dall’istituto dell’occupazione
acquisitiva e il suo superamento da parte dell’ordinamento
portano al risultato che le occupazioni illegittimamente
disposte dall’Amministrazione, seppure accompagnate
dall’irreversibile trasformazione dei beni occupati, non
comportano la perdita della proprietà in capo ai privati e
la sua acquisizione alla mano pubblica (Cass. Civ., II, 14.01.2013, n. 705).
Nell’attuale quadro normativo, l’Amministrazione ha
l’obbligo giuridico di fare venire meno, in ogni caso,
l’occupazione “sine titulo” e, quindi, di adeguare comunque
la situazione di fatto a quella di diritto. In tal senso, la
P.A. ha due sole alternative: o deve restituire i terreni ai
titolari, demolendo quanto realizzato e disponendo la
completa riduzione in pristino allo “status quo ante”,
oppure deve attivarsi perché vi sia un titolo di acquisto
dell’area da parte del soggetto attuale possessore. Non è,
pertanto, possibile per le Amministrazioni restare inerti a
fronte di situazioni di illecito permanente connesso con le
occupazioni usurpative. Ne consegue che, in assenza di
legittimi provvedimenti ablatori o di contratti di acquisto
delle relative aree o di provvedimenti di acquisizione ex
art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, deve affermarsi il potere
dovere di far luogo alla materiale rimozione delle opere che
risultano senza titolo e alla restituzione ai proprietari
(Cons. St., IV, 26.03.2013, n. 1713).
Ciò posto, ferma la natura discrezionale del
provvedimento di cui all’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, che
ha previsto un meccanismo, postumo, di acquisizione coattiva
del bene, per cui è prevista una valutazione degli
“interessi in conflitto”, il privato può legittimamente
domandare l’emissione del provvedimento di acquisizione o,
in difetto, la restituzione del fondo con la sua riduzione
in pristino e l’Amministrazione ha, a fronte dell’istanza
del privato, l’obbligo di provvedere.
A prescindere dall'esistenza di una specifica disposizione
normativa, l'obbligo di provvedere sussiste in tutte quelle
fattispecie particolari nelle quali ragioni di giustizia ed
equità impongano l'adozione di un provvedimento, cioè in
tutte quelle ipotesi in cui, in relazione al dovere di
correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica,
sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere
il contenuto e le ragioni delle determinazioni di
quest'ultima.
Ora, essendo trascorsi i termini per la conclusione del
procedimento, l’Amministrazione è venuta meno al proprio
dovere di concludere il procedimento con atto espresso e
motivato come disposto dall’art. 2 della l. n. 241/1990.
Il ricorso va pertanto accolto e per l’effetto dichiarata
l’illegittimità del silenzio serbato dall’Amministrazione
comunale
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 26.02.2014 n. 669 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Dall'art.
3 DPR n. 327/2001 consegue che, in linea generale, non
possono essere prospettate violazioni delle norme afferenti
alla comunicazione degli atti espropriativi e, quindi,
violazione del principio di partecipazione al procedimento
amministrativo, una volta che l'amministrazione abbia
effettivamente disposto le comunicazioni in favore dei
proprietari risultanti dai registri catastali, salvo che
l'amministrazione non abbia "notizia dell'eventuale diverso
proprietario effettivo".
Quanto a tale "notizia" -che, ai sensi dell'art. 3, comma 2,
DPR n. 327/2001, ove sussistente, impone all'amministrazione
di procedere alla comunicazione non già al proprietario
"catastale" (secondo la regola generale) ma a quello
"effettivo", essendo quest'ultimo da essa conosciuto-
occorre osservare che essa non può essere rappresentata, o
essere comunque desunta, da un qualsivoglia atto che, in
tempi ed in procedimenti diversi, sia comunque pervenuto
alla pubblica amministrazione, ma deve essere correttamente
intesa come una notizia recante l'emersione del "vero"
proprietario, acquisita dalla pubblica amministrazione
nell'ambito della medesima o in diversa procedura
espropriativa, o nel corso delle attività a questa
propedeutiche.
Occorre, quindi, una conoscenza dell'effettivo proprietario
che sia certa (incombendo l'onere della prova della
conoscenza su chi eccepisce l'illegittimità delle
comunicazioni effettuate al proprietario "catastale"), e non
solo astrattamente desumibile dalla presenza di un
qualsivoglia atto, prodotto o acquisito in tempi e
procedimenti diversi da quello espropriativo, cui l'obbligo
di comunicazione degli atti afferisce.
Occorre innanzi tutto ricordare che l'art. 3 DPR
n. 327/2001, prevede, per quel che interessa nella presente
sede: (comma 2) "Tutti gli atti della procedura
espropriativa, ivi incluse le comunicazioni ed il decreto di
esproprio, sono disposti nei confronti del soggetto che
risulti proprietario secondo i registri catastali, salvo che
l'autorità espropriante non abbia tempestiva notizia
dell'eventuale diverso proprietario effettivo. Nel caso in
cui abbia avuto notizia della pendenza della procedura
espropriativa dopo la comunicazione dell'indennità
provvisoria al soggetto che risulti proprietario secondo i
registri catastali, il proprietario effettivo può, nei
trenta giorni successivi, concordare l'indennità ai sensi
dell' articolo 45, comma 2." (comma 3) "Colui che
risulta proprietario secondo i registri catastali e riceva
la notificazione o comunicazione di atti del procedimento
espropriativo, ove non sia più proprietario è tenuto di
comunicarlo all'amministrazione procedente entro trenta
giorni dalla prima notificazione, indicando altresì, ove ne
sia a conoscenza, il nuovo proprietario, o comunque fornendo
copia degli atti in suo possesso utili a ricostruire le
vicende dell'immobile.".
In sensi analoghi (considerando, cioè, il proprietario
risultante dai registri catastali) già disponeva anche
l'art. 10 l. n. 865/1971.
Dall'art. 3 DPR n. 327/2001 cit., consegue che, in linea
generale, non possono essere prospettate violazioni delle
norme afferenti alla comunicazione degli atti espropriativi
e, quindi, violazione del principio di partecipazione al
procedimento amministrativo, una volta che l'amministrazione
abbia effettivamente disposto le comunicazioni in favore dei
proprietari risultanti dai registri catastali (Cons. Stato,
sez. IV, 26.02.2008 n. 677), salvo che
l'amministrazione non abbia "notizia dell'eventuale diverso
proprietario effettivo".
Quanto a tale "notizia" -che, ai sensi dell'art. 3, comma
2, DPR n. 327/2001, ove sussistente, impone
all'amministrazione di procedere alla comunicazione non già
al proprietario "catastale" (secondo la regola generale) ma
a quello "effettivo", essendo quest'ultimo da essa
conosciuto- occorre osservare che essa non può essere
rappresentata, o essere comunque desunta, da un qualsivoglia
atto che, in tempi ed in procedimenti diversi, sia comunque
pervenuto alla pubblica amministrazione, ma deve essere
correttamente intesa come una notizia recante l'emersione
del "vero" proprietario, acquisita dalla pubblica
amministrazione nell'ambito della medesima o in diversa
procedura espropriativa, o nel corso delle attività a questa
propedeutiche. Occorre, quindi, una conoscenza
dell'effettivo proprietario che sia certa (incombendo
l'onere della prova della conoscenza su chi eccepisce
l'illegittimità delle comunicazioni effettuate al
proprietario "catastale"), e non solo astrattamente
desumibile dalla presenza di un qualsivoglia atto, prodotto
o acquisito in tempi e procedimenti diversi da quello
espropriativo, cui l'obbligo di comunicazione degli atti
afferisce.
Da quanto ora esposto, consegue che –in carenza di tale
prova della conoscenza del proprietario effettivo– bene
l’Amministrazione ebbe a comunicare gli avvisi agli
intestatari catastali (in termini, ex aliis, Consiglio di
Stato sez. IV 16.09.2011 n. 5233)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.02.2014 n. 505 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Il
termine previsto per la conclusione della procedura
ablatoria, coincidente con la data di adozione del
conclusivo provvedimento che pronuncia l’esproprio assume i
connotati della perentorietà di guisa l’inutile decorso del
termine de quo comporta la inefficacia della dichiarazione
di pubblica utilità e la illegittimità dell’intera procedura
espropriativa per cattivo esercizio del potere ablatorio da
parte della P.A..
Questo Consiglio di Stato ha più volte statuito
il principio per cui il termine previsto per la conclusione
della procedura ablatoria, coincidente con la data di
adozione del conclusivo provvedimento che pronuncia
l’esproprio assume i connotati della perentorietà di guisa
l’inutile decorso del termine de quo comporta la inefficacia
della dichiarazione di pubblica utilità e la illegittimità
dell’intera procedura espropriativa per cattivo esercizio
del potere ablatorio da parte della P.A. (ex multis, Cons.
Stato Sez. Sez. V 18.03.2002 n. 1562; Sez. VI 07/09/2006
n. 5190)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.02.2014 n. 495 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: In
tema di espropriazione per p.u., gli immobili costruiti
abusivamente non sono suscettibili di indennizzo, a meno che
alla data dell'evento ablativo non risulti già rilasciata la
concessione in sanatoria.
Per essi, quindi, la liquidazione non può avvenire sulla
scorta del valore venale complessivo dell'edificio e del
suolo su cui il medesimo insiste ma sulla sola area, per
evitare che l'abusività degli insediamenti possa concorrere
(anche in via indiretta) ad accrescere il valore del fondo.
La medesima regola vale anche per le ipotesi di cd.
"espropriazione larvata" previste dall'art. 46 della L. n.
2359/1865, atteso il necessario raccordo tra indennizzo
previsto da tale norma e indennità di espropriazione (anche
se regolata da leggi speciali): questo, anche se il danno
lamentato consiste proprio nella diminuzione di godimento
dell'immobile abusivo, poiché è principio di carattere
generale desumibile dalla normativa -sia urbanistica, che
espropriativa (cfr. art. 16, comma 9, L. n. 865/1971)-
quello per cui il proprietario non può trarre beneficio
alcuno dalla sua attività illecita.
---------------
Il manufatto edificato illegittimamente, per l’ordinamento
giuridico, non può essere fonte alcuna di locupletazione, in
nessun caso, almeno sino a quando non sia stato sanato,
secondo il consolidato principio (questo sì obliato dal Tar)
che qui in re illicita versatur tenetur etiam pro casu.
Il manufatto abusivo è nella sostanza incommerciabile ("la
nullità prevista dalla legge 28.02.1985, n. 47, di cui
all'art. 40, comma 2, per omessa dichiarazione degli estremi
della concessione edilizia dell' immobile oggetto della
compravendita, ovvero degli estremi della domanda di
concessione in sanatoria, assolve la sua funzione di tutela
dell'affidamento sanzionando specificamente la sola
violazione di un obbligo formale, imposto al venditore al
fine di porre l'acquirente di un immobile in condizione di
conoscere lo stato del bene acquistato e di effettuare gli
accertamenti sulla regolarità del bene attraverso il
confronto tra la sua consistenza reale e quella risultante
dalla concessione edilizia ovvero dalla domanda di
concessione in sanatoria. Da ciò consegue che, in presenza
della dichiarazione, nessuna invalidità deriva al contratto
dalla concreta difformità della realizzazione edilizia dalla
concessione o dalla sanatoria e, in generale, dal difetto di
regolarità sostanziale del bene sotto il profilo del
rispetto delle norme urbanistiche.”);
- la eventuale alienazione a terzi di esso non incide sulla
oggettiva abusività del bene medesimo e sulla necessità che
sia demolito;
- esso non dovrebbe esistere: ove vi sia, ciò significa che
si versa in stato di irregolarità, posto che invece, il
manufatto avrebbe già dovuto essere abbattuto.
Non è azzardato ritenere che, quanto alla possibilità che il
proprietario del medesimo se ne avvantaggi in qualsiasi
modo, essa è radicalmente esclusa dall’ordinamento, tanto da
potere assimilare il manufatto abusivo, a tali limitati,
fini, ad una res nullius (arg. ex art. 17 della legge n.
47/1985: oggi: art. 46 del dPR n. 380/2001).
Detta situazione di illecito (di natura permanente: "il
carattere permanente degli abusi edilizi -d.P.R. n. 380 del
2001 - T.U. Edilizia- comporta che il decorso del tempo non
spieghi alcuna efficacia sanante nei confronti degli abusi
stessi”, ma si veda anche tutta la costante elaborazione
giurisprudenziale penalistica) preesisteva al fatto
occupativo/espropriativo illegittimo, e detta sopravvenienza
non può integrare una inammissibile “interversione” tale da
far considerare risarcibile ciò che certamente non lo era.
Ciò posto, il Collegio richiama, in proposito,
il consolidato orientamento della Corte di Cassazione (Cass.
civ. Sez. I Sent., 14.12.2007, n. 26260) di recente ribadito
dal giudice di legittimità (Cass. civ. Sez. I, 18.07.2013,
n. 17604) secondo il quale
“in tema di espropriazione per p.u., gli immobili costruiti
abusivamente non sono suscettibili di indennizzo, a meno che
alla data dell'evento ablativo non risulti già rilasciata la
concessione in sanatoria. Per essi, quindi, la liquidazione
non può avvenire sulla scorta del valore venale complessivo
dell'edificio e del suolo su cui il medesimo insiste ma
sulla sola area, per evitare che l'abusività degli
insediamenti possa concorrere (anche in via indiretta) ad
accrescere il valore del fondo. La medesima regola vale
anche per le ipotesi di cd. "espropriazione larvata"
previste dall'art. 46 della L. n. 2359/1865, atteso il
necessario raccordo tra indennizzo previsto da tale norma e
indennità di espropriazione (anche se regolata da leggi
speciali): questo, anche se il danno lamentato consiste
proprio nella diminuzione di godimento dell'immobile
abusivo, poiché è principio di carattere generale desumibile
dalla normativa -sia urbanistica, che espropriativa (cfr.
art. 16, comma 9, L. n. 865/1971)- quello per cui il
proprietario non può trarre beneficio alcuno dalla sua
attività illecita" (Cass. nn. 17881/2004; 26260/ 2009;
4206/2011; Sez. Un. n. 9341/2003).
---------------
Il manufatto
edificato illegittimamente, per l’ordinamento giuridico, non
può essere fonte alcuna di locupletazione, in nessun caso,
almeno sino a quando non sia stato sanato, secondo il
consolidato principio (questo sì obliato dal Tar) che qui in
re illicita versatur tenetur etiam pro casu.
Il manufatto abusivo è nella sostanza incommerciabile (ex aliis, arg. Cass. civ. Sez. II, 05.10.2012, n. 17028: “la
nullità prevista dalla legge 28.02.1985, n. 47, di cui
all'art. 40, comma 2, per omessa dichiarazione degli estremi
della concessione edilizia dell' immobile oggetto della
compravendita, ovvero degli estremi della domanda di
concessione in sanatoria, assolve la sua funzione di tutela
dell'affidamento sanzionando specificamente la sola
violazione di un obbligo formale, imposto al venditore al
fine di porre l'acquirente di un immobile in condizione di
conoscere lo stato del bene acquistato e di effettuare gli
accertamenti sulla regolarità del bene attraverso il
confronto tra la sua consistenza reale e quella risultante
dalla concessione edilizia ovvero dalla domanda di
concessione in sanatoria. Da ciò consegue che, in presenza
della dichiarazione, nessuna invalidità deriva al contratto
dalla concreta difformità della realizzazione edilizia dalla
concessione o dalla sanatoria e, in generale, dal difetto di
regolarità sostanziale del bene sotto il profilo del
rispetto delle norme urbanistiche.”);
-
la eventuale alienazione a terzi di esso non incide sulla
oggettiva abusività del bene medesimo e sulla necessità che
sia demolito (ex aliis ancora di recente Cass. pen. Sez.
III Sent., 29.03.2007, n. 22853);
-
esso non dovrebbe esistere: ove vi sia, ciò significa che si
versa in stato di irregolarità, posto che invece, il
manufatto avrebbe già dovuto essere abbattuto.
Non è azzardato ritenere che, quanto alla possibilità che il
proprietario del medesimo se ne avvantaggi in qualsiasi
modo, essa è radicalmente esclusa dall’ordinamento, tanto da
potere assimilare il manufatto abusivo, a tali limitati,
fini, ad una res nullius (arg. ex art. 17 della legge n.
47/1985: oggi: art. 46 del dPR n. 380/2001).
Detta situazione di illecito (di natura permanente: si veda
ex aliis Cons. Stato Sez. VI, 18.09.2013, n. 4651 “il
carattere permanente degli abusi edilizi -d.P.R. n. 380 del
2001 - T.U. Edilizia- comporta che il decorso del tempo non
spieghi alcuna efficacia sanante nei confronti degli abusi
stessi”, ma si veda anche tutta la costante elaborazione
giurisprudenziale penalistica) preesisteva al fatto occupativo/espropriativo illegittimo, e detta
sopravvenienza non può integrare una inammissibile
“interversione” tale da far considerare risarcibile ciò che
certamente non lo era.
L’illecito sopravvenuto, in altre parole, non vale a
trasformare in diritto necessitante riparazione ciò che tale
non era; che tale non era sotto il profilo oggettivo; che
non rilevava in nessun senso per l’ordinamento giuridico.
A maggiore chiarificazione, si ricorrerà ad un esempio: la
eventualità di accordare il risarcimento del danno per la
(illegittima, certamente, ciò non può negarsi) demolizione
di immobili abusivamente edificati e non ancora sanati,
equivarrebbe ad ipotizzare la possibilità che colui il quale
si sia indebitamente impossessato di un portafogli altrui
(art. 624 cp) ove a propria volta derubato, possa chiedere
il risarcimento del danno al (secondo) ladro (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.01.2014 n. 46 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2013 |
|
ESPROPRIAZIONE:
C. Benetazzo,
Occupazione “espropriativa”, acquisizione “amministrativa”
ed usucapione come rimedio “alternativo”
all’applicazione dell’art. 42-bis del d.P.R. n. 327/2001:
ambito e limiti dei poteri cognitori del giudice
amministrativo (18.12.2013
- link a www.federalismi.it). |
ESPROPRIAZIONE:
L. M. Musso,
Occupazione appropriativa, occupazione acquisitiva e
accessione invertita: la fine di un'epoca (11.12.2013
- link a www.diritto.it). |
ESPROPRIAZIONE: Cassazione. Le Sezioni unite chiariscono che le date da
rispettare devono essere definite prima dell'inizio della
procedura
Termini più certi sugli espropri.
Scatta il risarcimento se la scadenza non è rispettata, ma
sarà possibile la proroga.
Si può espropriare un terreno per realizzare una strada, ma
i termini per procedere devono esser definiti fin
dall'inizio.
Questo è il principio espresso dalla Sezioni
unite civili della Corte di Cassazione nella
sentenza 29.11.2013 n.
26778, relativa a un intervento in un Comune lombardo.
Alcuni privati lamentavano di aver perso un'area occupata
abusivamente da una strada: l'opera, prevista da una
convenzione di lottizzazione, non era stata infatti
preceduta da una specifica indicazione di un progetto con
termini per l'esecuzione degli espropri.
Questi termini, secondo il Comune chiamato in giudizio,
erano desumibili dalla convenzione di lottizzazione e
comunque erano coerenti all'insediamento urbanistico da
realizzare. Ma questa tesi dell'ente locale non è stata
condivisa dalle Sezioni unite, le quali hanno sottolineato
che in materia di esecuzione di opere pubbliche la proprietà
privata viene meno solo se il potere di esproprio ha termini
certi, relativi all'inizio e compimento delle procedure.
Se tali termini vengono violati, decorrendo inutilmente
senza che l'opera venga eseguita o l'espropriazione ultimata
con il passaggio di proprietà, viene meno la pubblica
utilità dell'opera e l'area va restituita al precedente
proprietario.
Se i termini sono fissati e sono insufficienti, prima della
loro scadenza possono essere motivatamente prorogati (ad
esempio per difficoltà di esecuzione), ma con termini già
scaduti non è più possibile ritenere legittima
l'espropriazione e il privato ha diritto al risarcimento del
danno.
Quando le opere pubbliche avevano uno specifico progetto
approvato (una strada, un canale eccetera) i termini per
l'esproprio e l'ultimazione dei lavori erano agevolmente
individuabili negli atti progettuali. Quando invece le
singole opere pubbliche sono inserite in disegni più ampi,
che comprendono edifici, urbanizzazioni, parchi, parcheggi,
diventa complesso individuare in quale provvedimento
amministrativo inserire i termini per le espropriazioni.
La difficoltà sorge in quanto da un lato alcune opere (ad
esempio una strada) sono indispensabili, ma dall'altro non
vi è certezza sui tempi dei finanziamenti e quindi
sull'effettiva eseguibilità dei lavori. Per opere pubbliche
quindi inserite in più ampi contesti, i termini per le
espropriazioni sono desumibili dall'atto di pianificazione
generale (un tracciato ferroviario, un'opera idraulica, un
parco tematico); ma quando il contesto generale è a sua
volta indefinito, viene meno la certezza dei termini e
quindi l'esproprio diventa un rischio per le pubbliche
amministrazioni.
Appunto ciò è quanto avvenuto nel Comune lombardo, in cui
alcuni privati avevano ottenuto l'approvazione di una
convenzione, impegnandosi a eseguire anche una strada: i
tempi per la realizzazione dell'intervento edilizio,
comprensivo della viabilità, non erano tuttavia certi,
perché il piano di lottizzazione era stato più volte
variato.
Il privato proprietario dell'area diventata strada, ha
quindi visto riconosciuto il proprio diritto ad ottenere il
risarcimento del danno, facendo cadere il procedimento
espropriativo per mancanza di termini certi di esproprio (articolo Il Sole 24 Ore del
30.11.2013). |
ESPROPRIAZIONE:
Di Giulio Veltri,
LA TUTELA RESTITUTORIA IN MATERIA ESPROPRIATIVA: LO STATO
DELLA GIURISPRUDENZA ED I NODI ANCORA IRRISOLTI (novembre
2013 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Quanto al fatto che a seguito della convalida il
procedimento non sia stato rinnovato o quantomeno retrocesso
alla fase delle osservazioni da parte dei privati, va detto
che la rinnovazione integrale di un procedimento
espropriativo si impone quando si renda necessaria la
rinnovazione di una dichiarazione di pubblica utilità
scaduta o comunque privata di efficacia ovvero quando
sopravvengano modifiche tali da stravolgere la fisionomia e
la natura dell’opera stessa, anche perché in tal caso
l’opera non potrebbe più dirsi assistita da una valida
dichiarazione di pubblica utilità.
Quanto al
fatto che a seguito della convalida il procedimento non sia
stato rinnovato o quantomeno retrocesso alla fase delle
osservazioni da parte dei privati, va detto che la
rinnovazione integrale di un procedimento espropriativo si
impone quando si renda necessaria la rinnovazione di una
dichiarazione di pubblica utilità scaduta o comunque privata
di efficacia (C.d.S. Sez. IV n. 39 del 13.01.2010)
ovvero quando sopravvengano modifiche tali da stravolgere la
fisionomia e la natura dell’opera stessa, anche perché in
tal caso l’opera non potrebbe più dirsi assistita da una
valida dichiarazione di pubblica utilità (TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 09.10.2013 n. 1065 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Il
combinato disposto dell'art. 5-bis, comma 4, del d.l. n.
333/1992, convertito con modificazioni nella legge n.
359/1992 e dell'art. 16, commi 5 e 6, della legge 22.10.1971
n. 865 sono ormai definitivamente espunte dall'ordinamento
per effetto della declaratoria d'incostituzionalità di cui
alla sentenza della Corte Costituzionale n. 181 del
10.06.2011.
La Consulta ha infatti considerato l'illegittimità
costituzionale delle suddette disposizioni per contrasto con
l'art. 117, comma 1, cost., in relazione all'art. 1 del
primo protocollo addizionale della convenzione europea dei
diritti dell'uomo, nell'interpretazione datane dalla Corte
di Strasburgo, nonché con l'art. 42, comma 3, cost., perché
il c.d. v.a.m. (valore agricolo medio) "...prescinde
dall'area oggetto del procedimento espropriativo ed ignora
ogni dato valutativo inerente ai requisiti specifici del
bene. Restano così trascurate le caratteristiche di
posizione del suolo, il valore intrinseco del terreno (che
non si limita alle colture in esso praticate, ma consegue
anche alla presenza di elementi come l'acqua, l'energia
elettrica, l'esposizione), la maggiore o minore perizia
nella conduzione del fondo e quant'altro può incidere sul
valore venale di esso. Il criterio, dunque, ha un carattere
inevitabilmente astratto che elude il ragionevole legame con
il valore di mercato del bene ablato, prescritto dalla
giurisprudenza della Corte di Strasburgo e coerente, del
resto, con il serio ristoro richiesto dalla consolidata
giurisprudenza costituzionale. Fermo restando che il
legislatore non ha il dovere di commisurare integralmente
l'indennità di espropriazione al valore di mercato e che non
sempre é garantita dalla Cedu una riparazione integrale,
l'esigenza di effettuare una valutazione di congruità
dell'indennizzo espropriativo, determinato applicando
eventuali meccanismi di correzione sul valore di mercato,
impone che quest'ultimo sia assunto quale termine di
riferimento dal legislatore, in guisa da garantire il giusto
equilibrio tra l'interesse generale e gli imperativi della
salvaguardia dei diritti fondamentali degli individui".
Ne consegue che, sempre in tema d'indennità di esproprio,
l'inapplicabilità del v.a.m. (valore agricolo medio),
ovviamente nei rapporti non esauriti, implica il necessario
riferimento "... al valore venale pieno, potendo
l'interessato anche dimostrare che il fondo è suscettibile
di uno sfruttamento ulteriore e diverso da quello agricolo,
pur senza raggiungere il livello dell'edificatorietà e che,
quindi, ha una valutazione di mercato che rispecchia
possibilità di utilizzazione intermedie tra l'agricola e
l'edificatoria".
Orbene, è evidente che se ai fini dell'indennità
d'esproprio, che deve rappresentare comunque un serio
ristoro, non può aversi riguardo al valore agricolo medio, a
fortiori non può tenersi conto del medesimo a fini
risarcitori, dovendosi invece far riferimento al valore
venale in comune commercio, considerate tutte le
caratteristiche del suolo, ivi compresa la sua ubicazione
più o meno interna o esterna a centri abitati, la presenza
di opere urbanizzative e di altre infrastrutture, senza
naturalmente poterne considerare potenzialità edificatorie
inesistenti e/o precluse dalla sua destinazione urbanistica.
E' fondato il primo motivo d'appello, relativo
alla commisurazione del risarcimento del danno al criterio
del valore agricolo medio.
Il giudice amministrativo pugliese ha osservato al riguardo
che:
"...trattandosi di terreno a destinazione puramente agricola
(e di cui non risulta acquisita la prova della sussistenza
di <<possibilità legali ed effettive di edificazione
esistenti al momento dell'apposizione del vincolo
preordinato all'esproprio>>), devono poi trovare
applicazione, ai fini della quantificazione
dell’obbligazione risarcitoria, <<le norme di cui al titolo II della legge 22.10.1971, n. 865, e successive
modificazioni ed integrazioni>> richiamate dall’art. 5-bis,
comma 4, del d.l. 11.07.1992, n. 333, conv. in l. 08.08.1992, n. 359 (il necessario riferimento al criterio
dell’effettivo valore venale dell’area reintrodotto da Corte
cost., 24.10.2007, n. 349 trova, infatti, applicazione
con riferimento ai suoli forniti di suscettibilità
edificatoria e non ai suoli a destinazione puramente
agricola, come nel caso di specie)".
Sennonché, come esattamente evidenziato dagli appellanti
nella memoria difensiva depositata il 09.10.2012, il
combinato disposto dell'art. 5-bis, comma 4, del d.l. n.
333/1992, convertito con modificazioni nella legge n.
359/1992 e dell'art. 16, commi 5 e 6, della legge 22.10.1971 n. 865 (ossia delle norme di cui al titolo II della
predetta legge cui il primo rinviava) sono ormai
definitivamente espunte dall'ordinamento per effetto della
declaratoria d'incostituzionalità di cui alla sentenza della
Corte Costituzionale n. 181 del 10.06.2011.
La Consulta ha infatti considerato l'illegittimità
costituzionale delle suddette disposizioni per contrasto con
l'art. 117, comma 1, cost., in relazione all'art. 1 del
primo protocollo addizionale della convenzione europea dei
diritti dell'uomo, nell'interpretazione datane dalla Corte
di Strasburgo, nonché con l'art. 42, comma 3, cost., perché
il c.d. v.a.m. (valore agricolo medio) "...prescinde
dall'area oggetto del procedimento espropriativo ed ignora
ogni dato valutativo inerente ai requisiti specifici del
bene. Restano così trascurate le caratteristiche di
posizione del suolo, il valore intrinseco del terreno (che
non si limita alle colture in esso praticate, ma consegue
anche alla presenza di elementi come l'acqua, l'energia
elettrica, l'esposizione), la maggiore o minore perizia
nella conduzione del fondo e quant'altro può incidere sul
valore venale di esso. Il criterio, dunque, ha un carattere
inevitabilmente astratto che elude il ragionevole legame con
il valore di mercato del bene ablato, prescritto dalla
giurisprudenza della Corte di Strasburgo e coerente, del
resto, con il serio ristoro richiesto dalla consolidata
giurisprudenza costituzionale. Fermo restando che il
legislatore non ha il dovere di commisurare integralmente
l'indennità di espropriazione al valore di mercato e che non
sempre é garantita dalla Cedu una riparazione integrale,
l'esigenza di effettuare una valutazione di congruità
dell'indennizzo espropriativo, determinato applicando
eventuali meccanismi di correzione sul valore di mercato,
impone che quest'ultimo sia assunto quale termine di
riferimento dal legislatore, in guisa da garantire il giusto
equilibrio tra l'interesse generale e gli imperativi della
salvaguardia dei diritti fondamentali degli individui".
Ne consegue che, sempre in tema d'indennità di esproprio,
l'inapplicabilità del v.a.m., ovviamente nei rapporti non
esauriti, implica il necessario riferimento "... al valore
venale pieno, potendo l'interessato anche dimostrare che il
fondo è suscettibile di uno sfruttamento ulteriore e diverso
da quello agricolo , pur senza raggiungere il livello dell'edificatorietà
e che, quindi, ha una valutazione di mercato che rispecchia
possibilità di utilizzazione intermedie tra l'agricola e
l'edificatoria" (Cass. Civ., Sez. I, 17.10.2011, n.
21386).
Orbene, è evidente che se ai fini dell'indennità
d'esproprio, che deve rappresentare comunque un serio
ristoro, non può aversi riguardo al valore agricolo medio,
a
fortiori non può tenersi conto del medesimo a fini
risarcitori, dovendosi invece far riferimento al valore
venale in comune commercio, considerate tutte le
caratteristiche del suolo, ivi compresa la sua ubicazione
più o meno interna o esterna a centri abitati, la presenza
di opere urbanizzative e di altre infrastrutture, senza
naturalmente poterne considerare potenzialità edificatorie
inesistenti e/o precluse dalla sua destinazione urbanistica
(tipizzata in gran parte come E1 fascia di rispetto stradale
e per piccola porzione come E2 aree per attrezzature
esistenti e di progetto)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.09.2013 n. 4871 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Per i terzi creditori difficile intervenire
nell'espropriazione. Uno studio del
Notariato con precisazioni in tema di diritto di abitazione.
Una serie di precisazioni in tema di diritto di abitazione
sono state proposte dal Consiglio nazionale del notariato
con lo
studio
16.09.2013 n. 21-2013/E. In
particolare ci si è soffermati su quello costituito per
contratto e dei suoi rapporti con l'espropriazione forzata
del bene che ne è oggetto.
Le considerazioni offerte dallo studio sono, come viene
sottolineato dai notai stessi, l'esito anche di una
riflessione che tiene conto delle esigenze sollevate
dall'esperienza pratica.
Il Cnn osserva, innanzitutto, che il diritto di abitazione è
insuscettibile di autonoma espropriazione, pertanto
consequenziale alla sua insuscettibilità di ipoteca è
l'opinione secondo cui il diritto di abitazione non può
essere oggetto di sequestro o di pignoramento.
Si può, quindi, affermare, sottolinea il Consiglio, che il
creditore del titolare del diritto di abitazione non può
sottoporre ad espropriazione forzata il diritto di
abitazione spettante al proprio debitore.
È stato inoltre osservato che il titolare del diritto di
abitazione deve, in ogni caso, essere messo in condizione di
partecipare al procedimento. Se non gli sia stato notificato
un pignoramento dovrà, quanto meno, essere chiamato a
partecipare all'espropriazione ai sensi dell'art. 498 c.p.c.,
per far valere le proprie ragioni sul ricavato della
vendita.
Per quanto poi riguarda la pubblicità immobiliare, secondo
il Cnn: «Se si esclude che sia il pignoramento a dover dar
conto della libertà della proprietà dei beni sottoposti ad
esecuzione forzata (ricollegando la vendita forzata
all'ipoteca anteriore), risulta evidente che l'unico atto,
destinato alla pubblicità nei Registri Immobiliari (ex art.
2643 n. 6 c.c.) in cui poter dar conto della richiesta da
parte del creditore ipotecario anteriore di far vendere il
bene come libero e ricollegare la vendita forzata
all'ipoteca anteriore, è il decreto di trasferimento dei
beni in esito al procedimento di vendita».
Circa il momento in cui possa intendersi verificata
l'estinzione del diritto di abitazione, i notai hanno
sottolineato che non può essere altro che l'emissione del
decreto di trasferimento se si ritiene, con la
giurisprudenza consolidata ed uniforme, che il trasferimento
(appunto) dei diritti pignorati all'aggiudicatario si
perfezioni con il provvedimento finale in esito al sub
procedimento di vendita forzata e dell'estinzione è
certamente opportuno dar conto nel decreto di trasferimento.
Interessante è la nota di chiusura dello studio, in cui si
osserva che i terzi creditori del titolare del diritto di
abitazione che non abbiano iscritto un'ipoteca in data
anteriore alla trascrizione del trasferimento della
proprietà o non abbiano ottenuto una revocatoria dell'atto
traslativo della proprietà «non sembra (...) abbiano
alcun titolo per intervenire nell'espropriazione forzata
promossa contro un soggetto terzo nei cui confronti non
siano dotati di un diverso titolo esecutivo»
(articolo ItaliaOggi Sette del
30.09.2013). |
ESPROPRIAZIONE:
La necessità dell'avviso
di avvio del procedimento amministrativo è affermazione
pacifica e consolidata nella giurisprudenza amministrativa.
La preventiva comunicazione di avvio del procedimento
rappresenta un principio generale dell'agere amministrativo.
La materia relativa alle procedure di espropriazione per
pubblica utilità non costituisce certo eccezione a detto
approdo della giurisprudenza: ed anzi, come è noto, un
indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato, dal quale non
si ravvisano ragioni per discostarsi, ha affermato il
principio, generale ed inderogabile, per cui al privato
proprietario di un'area destinata all'espropriazione,
siccome interessata dalla realizzazione di un'opera
pubblica, deve essere garantita, mediante la formale
comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento, la
possibilità di interloquire con l'amministrazione procedente
sulla sua localizzazione e, quindi, sull'apposizione del
vincolo, prima della dichiarazione di pubblica utilità,
indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell'approvazione del
progetto definitivo.
Con più stringente riferimento alla fattispecie per cui è
causa, poi, di recente la giurisprudenza di questa Sezione
del Consiglio di Stato ha avuto modo di ribadire il detto
principio, essendosi affermato che costituisce principio
generale ed inderogabile dell'ordinamento vigente che al
privato, proprietario di un'area sottoposta a procedimento
espropriativo per la realizzazione di un'opera pubblica,
deve essere garantita, mediante la formale comunicazione
dell'avviso di avvio del procedimento, la possibilità di
interloquire con l'amministrazione procedente sulla sua
localizzazione e, quindi, sull'apposizione del vincolo,
prima della dichiarazione di pubblica utilità,
indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell'approvazione del
progetto definitivo, né sarebbe invocabile, come esimente
dal dovere in questione, il disposto dell'art. 13, comma 1,
l. 07.08.1990 n. 241, in quanto detta norma si riferisce ai
soli atti a contenuto generale, mentre l'intesa tra lo Stato
e la Regione sulla localizzazione di un'opera di interesse
statale non consiste in un documento di pianificazione
territoriale, ma produce l'effetto puntuale e specifico
dell'individuazione dell'ubicazione dell'intervento (oltre a
valere come dichiarazione di pubblica utilità) e si rivela,
come tale, idonea ad incidere, in maniera immediata, sugli
interessi dei soggetti proprietari del terreno interessato
dalla sua realizzazione, con evidenti implicazioni sulla
partecipazione di questi al relativo procedimento.
---------------
Costituisce principio a più riprese affermato dalla
giurisprudenza quello per cui sussiste la responsabilità
solidale dell'ente espropriante-appaltante e
dell'appaltatore ogni quale volta entrambi abbiano concorso
a determinare l'evento dannoso".
Ed anche alla luce delle vigenti prescrizioni normative va
ribadita la permanente vigenza del principio per cui, anche
laddove ci si trovi al cospetto dell’utilizzo dell'istituto
della delega, l’amministrazione è responsabile dell'operato
del delegato (poiché la legge dispone che l'espropriazione
si svolge non soltanto "in nome e per conto" del delegante,
ma anche "d'intesa" con quest'ultimo, che conserva ogni
potere di controllo e di stimolo, il cui mancato esercizio è
fonte di corresponsabilità con il delegato per i danni da
questi materialmente arrecati, senza che assuma rilievo
-qualora sia, comunque, avvenuta la radicale trasformazione
del fondo in difetto di tempestiva emanazione del decreto di
esproprio- la natura del negozio intercorso tra delegante e
delegato.
Contrariamente a quanto
sostenutosi nell’appello, una imponente produzione
giurisprudenziale amministrativa ha sempre costantemente
affermato che la necessità dell'avviso di avvio del
procedimento amministrativo (nel caso di specie si trattava
dell’adozione di provvedimenti di annullamento) è
affermazione pacifica e consolidata nella giurisprudenza
amministrativa. La preventiva comunicazione di avvio del
procedimento rappresenta un principio generale dell'agere
amministrativo (TAR Campania Salerno Sez. I, 12.07.2011,
n. 1276).
La materia relativa alle procedure di espropriazione per
pubblica utilità non costituisce certo eccezione a detto
approdo della giurisprudenza: ed anzi, come è noto, un
indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato (cfr. Ad. Plen.
20.12.2002, n. 8; 24.01.2000, n. 2; 15.09.1999, n. 14), dal quale non si ravvisano ragioni per
discostarsi, ha affermato il principio, generale ed
inderogabile, per cui al privato proprietario di un'area
destinata all'espropriazione, siccome interessata dalla
realizzazione di un'opera pubblica, deve essere garantita,
mediante la formale comunicazione dell'avviso di avvio del
procedimento, la possibilità di interloquire con
l'amministrazione procedente sulla sua localizzazione e,
quindi, sull'apposizione del vincolo, prima della
dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed
urgenza e, quindi, dell'approvazione del progetto
definitivo.
Con più stringente riferimento alla fattispecie per cui è
causa, poi, di recente la giurisprudenza di questa Sezione
del Consiglio di Stato ha avuto modo di ribadire il detto
principio, essendosi affermato che (Cons. Stato Sez. IV,
09.12.2010, n. 8688) costituisce principio generale ed
inderogabile dell'ordinamento vigente che al privato,
proprietario di un'area sottoposta a procedimento
espropriativo per la realizzazione di un'opera pubblica,
deve essere garantita, mediante la formale comunicazione
dell'avviso di avvio del procedimento, la possibilità di
interloquire con l'amministrazione procedente sulla sua
localizzazione e, quindi, sull'apposizione del vincolo,
prima della dichiarazione di pubblica utilità,
indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell'approvazione del
progetto definitivo, né sarebbe invocabile, come esimente
dal dovere in questione, il disposto dell'art. 13, comma 1,
l. 07.08.1990 n. 241, in quanto detta norma si riferisce
ai soli atti a contenuto generale, mentre l'intesa tra lo
Stato e la Regione sulla localizzazione di un'opera di
interesse statale non consiste in un documento di
pianificazione territoriale, ma produce l'effetto puntuale e
specifico dell'individuazione dell'ubicazione
dell'intervento (oltre a valere come dichiarazione di
pubblica utilità) e si rivela, come tale, idonea ad
incidere, in maniera immediata, sugli interessi dei soggetti
proprietari del terreno interessato dalla sua realizzazione,
con evidenti implicazioni sulla partecipazione di questi al
relativo procedimento.
Analoghe conclusioni si traggono dalle disposizioni
specifiche contenute nel TU espropriazioni.
Sotto il profilo strettamente letterale, infatti, le
espresse disposizioni di cui agli artt. 11 (“1. Al
proprietario del bene sul quale si intende apporre il
vincolo preordinato all'esproprio, va inviato l'avviso
dell'avvio del procedimento:
a) nel caso di adozione di una variante al piano regolatore
per la realizzazione di una singola opera pubblica, almeno
venti giorni prima della delibera del consiglio comunale;
b) nei casi previsti dall'articolo 10, comma 1, almeno venti
giorni prima dell'emanazione dell'atto se ciò risulti
compatibile con le esigenze di celerità del procedimento.
2. L'avviso di avvio del procedimento è comunicato
personalmente agli interessati alle singole opere previste
dal piano o dal progetto. Allorché il numero dei destinatari
sia superiore a 50, la comunicazione è effettuata mediante
pubblico avviso, da affiggere all'albo pretorio dei Comuni
nel cui territorio ricadono gli immobili da assoggettare al
vincolo, nonché su uno o più quotidiani a diffusione
nazionale e locale e, ove istituito, sul sito informatico
della Regione o Provincia autonoma nel cui territorio
ricadono gli immobili da assoggettare al vincolo. L'avviso
deve precisare dove e con quali modalità può essere
consultato il piano o il progetto. Gli interessati possono
formulare entro i successivi trenta giorni osservazioni che
vengono valutate dall'autorità espropriante ai fini delle
definitive determinazioni.
3. La disposizione di cui al comma 2 non si applica ai fini
dell'approvazione del progetto preliminare delle
infrastrutture e degli insediamenti produttivi ricompresi
nei programmi attuativi dell'articolo 1, comma 1, della
legge 21.12.2001, n. 443.
4. Ai fini dell'avviso dell'avvio del procedimento delle
conferenze di servizi in materia di lavori pubblici, si
osservano le forme previste dal decreto del Presidente della
Repubblica 21.12.1999, n. 554.
5. Salvo quanto previsto dal comma 2, restano in vigore le
disposizioni vigenti che regolano le modalità di
partecipazione del proprietario dell'area e di altri
interessati nelle fasi di adozione e di approvazione degli
strumenti urbanistici.”). e 16 comma 4 (“Al proprietario
dell'area ove è prevista la realizzazione dell'opera è
inviato l'avviso dell'avvio del procedimento e del deposito
degli atti di cui al comma 1, con l'indicazione del
nominativo del responsabile del procedimento”) del D.P.R.
08.06.2001 n. 327 congiurano nel fare ritenere il detto
obbligo assolutamente cogente ed inderogabile, in armonia
con i principi affermati dalla Cedu e ben recepiti a più
riprese da questo Consiglio di Stato.
Non appare il caso di immorare vieppiù sul punto, se non per
rimarcare, a fini di coerenza sistematica, che (d.lgs.
12.04.2006 n. 163, art. 166) il detto obbligo è prescritto
anche nel caso di opere strategiche, per cui esso
costituisce principio non dequotabile (comma 2 della in
ultimo citata disposizione: “l’avvio del procedimento di
dichiarazione di pubblica utilità è comunicato dal soggetto
aggiudicatore, o per esso dal concessionario o contraente
generale, ai privati interessati alle attività espropriative
ai sensi della legge 07.08.1990, n. 241, e successive
modificazioni; la comunicazione è effettuata con le stesse
forme previste per la partecipazione alla procedura di
valutazione di impatto ambientale dall'articolo 5 del
decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 10.08.1988, n. 377. Nel termine perentorio di sessanta giorni
dalla comunicazione di avvio del procedimento, i privati
interessati dalle attività espropriative possono presentare
osservazioni al soggetto aggiudicatore, che dovrà valutarle
per ogni conseguente determinazione. Le disposizioni del
presente comma derogano alle disposizioni degli articoli 11
e 16 del decreto del Presidente della Repubblica 08.06.2001, n. 327.”).
---------------
Neppure
accoglimento meritano le ulteriori censure prospettate
dall’amministrazione regionale: quanto alla tesi per cui
l’avviso sarebbe stato validamente omesso in quanto gli espopriandi erano in numero superiore a 50, quest’ultima è
stata soltanto labialmente affermata, non è stata né
allegata né provata e, inoltre, non v’è traccia in atti
delle supposte modalità alternative di pubblicità
eventualmente esperite.
Né l’amministrazione ha fatto
espresso riferimento alla notifica da effettuarsi “nelle
forme degli atti processuali civili” e neppure ha mai
dichiarato (né disposto) di procedere alla pubblicazione di
alcun atto avvalendosi del disposto di cui all’art. 16, comma
5, ed 11, comma 2, del dPR n. 327/2001 (Consiglio di Stato
Sez. IV, sent. n. 408 del 27.01.2012: ”in tema di
espropriazione per pubblica utilità l'avviso di cui all'art.
11 D.P.R. n. 327/2001 -T.U. espropriazione per p.u.- deve
contenere, per essere legittimo, l'indicazione delle
particelle e dei nominativi, quali indefettibili elementi
diretti ad individuare i soggetti espropriandi ed i beni
oggetto del procedimento amministrativo, e ciò sia che la
comunicazione avvenga personalmente, sia che essa avvenga in
forma collettiva mediante avviso pubblico. E' evidente che
le modalità di comunicazione, seppur semplificate nella
forma e nel numero, devono in ogni caso essere idonee a
raggiungere lo scopo della effettiva conoscenza, di guisa
che il proprietario inciso sia posto in grado di optare o
meno per la partecipazione procedimentale in chiave
difensiva).
Essa tesi appare al Collegio unicamente un espediente
processuale confusorio, e come tale va disattesa.
Quanto all’assunto secondo il quale l’unico responsabile
avrebbe dovuto essere il concessionario, essa collide con il
consolidato orientamento, secondo il quale “costituisce
principio a più riprese affermato dalla giurisprudenza
quello per cui sussiste la responsabilità solidale dell'ente
espropriante-appaltante e dell'appaltatore ogni quale volta
entrambi abbiano concorso a determinare l'evento dannoso"
(Cass. civ. Sez. I, 17.10.2008, n. 25369); ed anche alla
luce delle vigenti prescrizioni normative va ribadita la
permanente vigenza del principio per cui, anche laddove ci
si trovi al cospetto dell’utilizzo dell'istituto della
delega, l’amministrazione è responsabile dell'operato del
delegato (poiché la legge dispone che l'espropriazione si
svolge non soltanto "in nome e per conto" del
delegante, ma anche "d'intesa" con quest'ultimo, che
conserva ogni potere di controllo e di stimolo, il cui
mancato esercizio è fonte di corresponsabilità con il
delegato per i danni da questi materialmente arrecati, senza
che assuma rilievo -qualora sia, comunque, avvenuta la
radicale trasformazione del fondo in difetto di tempestiva
emanazione del decreto di esproprio- la natura del negozio
intercorso tra delegante e delegato (si veda: Cass. civ.
Sez. I, 27.05.2011, n. 11800)
(Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 21.08.2013
n. 4230 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Espropri previa consultazione. Il proprietario deve poterne
discutere con la p.a.. Il Consiglio
di stato definisce i vincoli dell'azione
dell'amministrazione pubblica.
Al privato proprietario di un'area destinata
all'espropriazione, siccome interessata dalla realizzazione
di un'opera pubblica, deve essere garantita, mediante la
formale comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento,
la possibilità di interloquire con l'amministrazione
procedente sulla sua localizzazione e, quindi,
sull'apposizione del vincolo, prima della dichiarazione di
pubblica utilità, indifferibilità e urgenza e, quindi,
dell'approvazione del progetto definitivo.
Questo ha affermato la IV Sez. del Consiglio di Stato
con
sentenza 21.08.2013 n. 4229.
I giudici di palazzo Spada hanno sottolineato come una
imponente produzione giurisprudenziale amministrativa abbia,
in diversi momenti storici, costantemente affermato la
necessità dell'avviso di avvio del procedimento
amministrativo.
La preventiva comunicazione di avvio del procedimento
rappresenta un principio generale dell'agire amministrativo
(tra le altre Tar Campania Salerno Sez. I, 12/07/2011, n.
1276).
È pacifico che la materia relativa alle procedure di
espropriazione per pubblica utilità non costituisce certo
eccezione a detto approdo della giurisprudenza.
I giudici hanno poi ribadito come non sarebbe invocabile
come esimente dal dovere in questione in capo alla p.a. il
disposto dell'art. 13, comma 1, legge 07.08.1990 n. 241,
in quanto detta norma si riferisce ai soli atti a contenuto
generale, mentre l'intesa tra lo Stato e la Regione sulla
localizzazione di un'opera di interesse statale non consiste
in un documento di pianificazione territoriale, ma produce
l'effetto puntuale e specifico dell'individuazione
dell'ubicazione dell'intervento (oltre a valere come
dichiarazione di pubblica utilità) e si rivela, come tale,
idonea ad incidere, in maniera immediata, sugli interessi
dei soggetti proprietari del terreno interessato dalla sua
realizzazione, con evidenti implicazioni sulla
partecipazione di questi al relativo procedimento.
L'avviso di avvio del procedimento è comunicato
personalmente agli interessati alle singole opere previste
dal piano o dal progetto. Allorché il numero dei destinatari
sia superiore a 50, la comunicazione è effettuata mediante
pubblico avviso, da affiggere all'albo pretorio dei comuni
nel cui territorio ricadono gli immobili da assoggettare al
vincolo, nonché su uno o più quotidiani a diffusione
nazionale e locale e, ove istituito, sul sito informatico
della regione o provincia autonoma nel cui territorio
ricadono gli immobili da assoggettare al vincolo. L'avviso
deve precisare dove e con quali modalità può essere
consultato il piano o il progetto. Gli interessati possono
formulare entro i successivi trenta giorni osservazioni che
vengono valutate dall'autorità espropriante ai fini delle
definitive determinazioni.
Il Consiglio di stato ha poi ribadito che costituisce
principio a più riprese affermato dalla giurisprudenza
quello per cui sussiste la responsabilità solidale dell'ente
espropriante-appaltante e dell'appaltatore ogni quale volta
entrambi abbiano concorso a determinare l'evento dannoso (si
veda Cass. civ. Sez. I, 17/10/2008, n. 25369) e anche alla
luce delle vigenti prescrizioni normative va ribadita la
permanente vigenza del principio secondo il quale anche
laddove ci si trovi al cospetto dell'utilizzo «dell'istituto
della delega, l'amministrazione è responsabile dell'operato
del delegato, poiché la legge dispone che l'espropriazione
si svolge non soltanto “in nome e per conto” del delegante,
ma anche “d'intesa” con quest'ultimo, che conserva ogni
potere di controllo e di stimolo, il cui mancato esercizio è
fonte di corresponsabilità con il delegato per i danni da
questi materialmente arrecati, senza che assuma rilievo
-qualora sia, comunque, avvenuta la radicale trasformazione
del fondo in difetto di tempestiva emanazione del decreto di
esproprio- la natura del negozio intercorso tra delegante e
delegato (cfr. Cass. civ. Sez. I, 27/05/2011, n. 11800)» (articolo
ItaliaOggi Sette del 09.09.2013). |
ESPROPRIAZIONE:
Anche a seguito
dell'entrata in vigore dell'art. 22-bis , d.P.R. 08.06.2001
n. 327, l'ordinanza di occupazione d'urgenza riguarda una
fase puramente attuativa di quella riguardante la
dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed
urgenza dei lavori, con la conseguenza che è sufficiente la
motivazione dell'ordinanza di occupazione che si limiti a
richiamare espressamente tale dichiarazione, costituente
l'unico presupposto della stessa e che consenta di rilevare
l'urgenza della realizzazione delle opere previste nella
dichiarazione di p.u..
A sua volta, la dichiarazione di pubblica utilità,
conseguendo "ex lege" all'approvazione del progetto
definitivo, non abbisogna di una particolare motivazione.
La società
ricorrente contesta la delibera impugnata perché non
sussistevano le condizioni per procedere all’occupazione
d’urgenza, ai sensi dell’art. 22 d.p.r. 327/2001.
Questo Tar ha già chiarito che anche a seguito dell'entrata
in vigore dell'art. 22-bis , d.P.R. 08.06.2001 n. 327,
l'ordinanza di occupazione d'urgenza riguarda una fase
puramente attuativa di quella riguardante la dichiarazione
di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza dei lavori,
con la conseguenza che è sufficiente la motivazione
dell'ordinanza di occupazione che si limiti a richiamare
espressamente tale dichiarazione, costituente l'unico
presupposto della stessa e che consenta di rilevare
l'urgenza della realizzazione delle opere previste nella
dichiarazione di p.u..
A sua volta, la dichiarazione di pubblica utilità,
conseguendo "ex lege" all'approvazione del progetto
definitivo, non abbisogna di una particolare motivazione
(cfr., TAR Milano, Lombardia, sez. III, 02.07.2012, n. 1874)
(TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 05.08.2013 n. 2061 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Acquisizione sanante di un immobile per pubblico
interesse: chi deve decidere?
Il provvedimento con cui l’Ente locale ha disposto
l’acquisizione al patrimonio indisponibile comunale di un
bene utilizzato per scopi di interesse pubblico, importando
l’acquisto della proprietà immobiliare che richiede una
formale e specifica espressione di volontà, deve essere
adottato necessariamente dal Consiglio comunale.
Il TAR Lecce ha stabilito che il dirigente comunale è
incompetente ad adottare un provvedimento di acquisizione
sanante di un bene immobile occupato d’urgenza dalla P.A.,
in assenza del relativo decreto di esproprio e che al
proprietario del bene illegittimamente acquisito al
patrimonio dell’Ente deve essere riconosciuto il diritto al
risarcimento del danno subito.
Analisi del caso
Il proprietario di un terreno ha subìto il provvedimento di
occupazione d’urgenza, per la durata quinquennale dalla data
di immissione in possesso, relativamente a una porzione del
medesimo terreno, per l’esecuzione di lavori di
riqualificazione del sistema viario e dei parcheggi
circostanti al centro abitato; l’Amministrazione ha preso
possesso dell’immobile oggetto di occupazione, ma non ha mai
provveduto a emettere il decreto di esproprio.
A distanza di molti anni dalla scadenza del termine
dell’occupazione d’urgenza (5 anni), il proprietario ha
chiesto al competente G.A. la restituzione del terreno
oppure il risarcimento del danno. Nelle more, un dirigente
del Comune ha disposto l’acquisizione del bene in questione;
avverso tale atto, con motivi aggiunti, il ricorrente ha
dedotto l’incompetenza dell’organo che ha adottato il
provvedimento e la violazione e falsa applicazione degli
artt. 42, 48 e 107 del D.Lgs. n. 267/2000.
Con controricorso, la civica P.A. ha rilevato che il
progetto di opera pubblica in ragione di cui era stata
disposta l’occupazione d’urgenza era stato approvato
dall’organo consiliare e che, pertanto, il provvedimento
dovesse considerarsi in mera attuazione di
quell’approvazione.
La soluzione
Il Tribunale amministrativo ha ricordato che l’art. 42,
comma 2, lett. l), D.Lgs. n. 267/2000 stabilisce
testualmente che rientrano nella competenza del Consiglio
gli “… acquisti e alienazioni immobiliari, relative permute,
appalti e concessioni che non siano previsti espressamente
in atti fondamentali del Consiglio o che non ne
costituiscano mera esecuzione…”: tra questi, ha desunto,
rientra sicuramente anche l’acquisto mediante l’istituto
della c.d. “acquisizione sanante” (Cons. Stato, Sez. V, 13.10.2010, n. 7472).
L’atto di acquisizione sanante, infatti, per i profili di
discrezionalità che lo caratterizzano, esorbita dalla
competenza dell’ufficio per le espropriazioni e rientra
nelle attribuzioni del Consiglio comunale (Cons. Stato, Sez.
III, 31.08.2010, n. 775).
Né poteva ritenersi, ha proseguito l’adito Collegio, che il
dirigente avesse dato mera attuazione alla volontà comunale
come espressa in precedenti provvedimenti deliberativi –in
particolare quello di inizio della procedura espropriativa–
stante la particolare natura di tale acquisizione (Cons.
Stato n. 775/2010 cit.); parimenti non ha condiviso che tale
atto potesse qualificarsi come previsto in atti
fondamentali, ricordando la forte caratterizzazione
discrezionale dell’acquisizione.
Il giudicante ha così escluso, richiamando anche la
giurisprudenza comunitaria, che la mera trasformazione del
suolo con la realizzazione di un’opera pubblica costituisca
circostanza idonea a trasferire la proprietà del bene, in
assenza di un regolare provvedimento espropriativo; il
comportamento della P.A., dunque, costituisce un illecito
“permanente” al quale deve conseguire l’obbligo di far
cessare la indebita compromissione del diritto di proprietà
del privato mediante la restituzione o il risarcimento del
danno.
Con riferimento al risarcimento del danno, il T.A.R.
pugliese ha precisato che esso opera in relazione
all’illegittima occupazione a far data dalla scadenza del
termine quinquennale dall’immissione in possesso d’urgenza e
sino alla regolarizzazione, ossia la restituzione, il
perfezionamento di un valido atto di acquisto della
proprietà (anche l’usucapione, cfr. TAR Puglia, Lecce,
Sez. III, 19.06.2013, n. 1423), ovvero il ricorso, in
via postuma allo strumento acquisitivo di cui all’art. 42-bis D.P.R. n. 327/2001.
Avuto riguardo a tale contesto temporale, il G.A. salentino
ha condannato il Comune al pagamento in favore del
ricorrente di una somma quantificata nel 5% annuo sul valore
del bene illegittimamente occupato, oltre interessi legali,
da calcolarsi sulla somma annualmente rivalutata, ai sensi
del citato art. 42-bis, comma 3, D.P.R. n. 327/2001.
I precedenti e i possibili impatti
pratico-operativi
Sono molteplici i precedenti giurisprudenziali in materia.
Su tutti, e tra i più recenti, particolarmente connotanti
risultano Cons. Stato, Sez. IV, 08.05.2013, n. 2481 e la
pronuncia del TAR Puglia, Bari, Sez. I, 03.05.2013, n.
684 che ha qualificato il comportamento dell’Amministrazione
come un vero e proprio illecito “permanente” con conseguente
imprescrittibilità dell’azione per l’illegittimo
impossessamento (cfr. TAR Sicilia, Catania, Sez. III, 26.04.2013, n. 1199 e anche lo stesso TAR Puglia, Lecce,
Sez. III, 19.06.2013, n. 1423 cit.) e l’obbligo per il
Giudice di rivalutare le somme da liquidare, in quanto
derivanti da debito di valore.
L’impatto pratico della decisione sembra nel senso di
obbligare la P.A. comunale ad agire con maggior rigore nelle
procedure ablatorie, rispettandone i termini e il riparto di
competenza, senza abusare degli strumenti sananti
(re)introdotti nell’ordinamento: è di tutta evidenza,
invero, che l’intento del legislatore del 2011, che ha
concepito l’art. 42-bis, D.P.R. n. 327/2001, non era quello
di far rivivere l’istituto dichiarato costituzionalmente
illegittimo di cui all’abrogato art. 43 del decreto citato,
ma quello di regolare i possibili contrasti tra l’interesse
privato del proprietario e quello pubblico di cui è
portatrice la P.A., nel senso di contemperare il miglior
esercizio del potere pubblico col minimo sacrificio del
soggetto privato (tratto da www.ipsoa.it - TAR Puglia-Lecce,
Sez. I,
sentenza 21.06.2013 n. 1500 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI - ESPROPRIAZIONE:
Competenze del consiglio comunale.
L’atto adottato ex art. 43, d.P.R. n.
327 del 2001 di acquisizione al patrimonio indisponibile
comunale di beni utilizzati per scopi di interesse pubblico
deve essere assunto dal Consiglio comunale, trattandosi
dell’acquisto di un diritto immobiliare che richiede
l’espressione formale di una specifica autonoma volontà.
L’art. 42, comma 2, lett. l), T.U. enti locali, stabilisce
che rientrano nelle competenze consiliari gli “acquisti e
alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e
concessioni che non siano previsti espressamente in atti
fondamentali del consiglio o che non ne costituiscano mera
esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria
amministrazione di funzioni e servizi di competenza della
giunta, del segretario o di altri funzionari”. Tra questi
rientra sicuramente anche l’acquisto di un bene tramite
l’istituto della c.d. acquisizione sanante.
L’atto di acquisizione sanante ex art. 43 d.P.R. n. 327 del
2001, per i profili di discrezionalità che lo
caratterizzano, esorbita dall'ambito della competenza
dell’ufficio per le espropriazioni e, comunque, degli uffici
comunali per rientrare nelle attribuzioni del Consiglio
comunale in materia di acquisti ed alienazioni immobiliari,
di cui all'art. 42 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267.
---------------
La giurisprudenza ha precisato che “l’istituto della
“acquisizione sanante” ex art. 43 T.U. n. 327/2001 è di
competenza del Consiglio comunale, stante anche la
particolare natura di tale acquisizione di cui l’A.P. di
questo Consiglio ha fornito una puntuale illustrazione,
chiarendo che non risulta possibile qualificare la scelta di
farvi ricorso come meramente esecutiva di atti presupposti o
rientrante tra le ordinarie funzioni della giunta, del
segretario o di altri funzionari, onde tale scelta deve
essere ricondotta all’esclusiva competenza dell’organo
elettivo consiliare, ai sensi dell’art. 42, comma 2, lett.
l, del T.U.E.L.”.
La natura discrezionale dell’atto di acquisizione sanante
esclude, poi, che lo stesso possa qualificarsi come previsto
in atti fondamentali del consiglio o mera esecuzione degli
stessi, sicché si deve escludere anche per tal verso la
riconduzione dell’atto alla competenza dei dirigenti.
Il ricorso è
fondato.
In particolare, è fondata la dedotta incompetenza del
dirigente comunale ad adottare un provvedimento di
acquisizione sanante.
L’atto adottato ex art. 43, d.P.R. n. 327 del 2001 di
acquisizione al patrimonio indisponibile comunale di beni
utilizzati per scopi di interesse pubblico deve essere
assunto dal Consiglio comunale, trattandosi dell’acquisto di
un diritto immobiliare che richiede l’espressione formale di
una specifica autonoma volontà.
L’art. 42, comma 2, lett. l), T.U. enti locali, stabilisce
che rientrano nelle competenze consiliari gli “acquisti e
alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e
concessioni che non siano previsti espressamente in atti
fondamentali del consiglio o che non ne costituiscano mera
esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria
amministrazione di funzioni e servizi di competenza della
giunta, del segretario o di altri funzionari”. Tra
questi rientra sicuramente anche l’acquisto di un bene
tramite l’istituto della c.d. acquisizione sanante. (Cons.
St., sez. V, 13.10.2010, n. 7472).
L’atto di acquisizione sanante ex art. 43 d.P.R. n. 327 del
2001, per i profili di discrezionalità che lo
caratterizzano, esorbita dall'ambito della competenza
dell’ufficio per le espropriazioni e, comunque, degli uffici
comunali per rientrare nelle attribuzioni del Consiglio
comunale in materia di acquisti ed alienazioni immobiliari,
di cui all'art. 42 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267 (Cons. St.,
sez. III, 31.08.2010, n. 775).
Non può poi ritenersi, come sostiene la difesa del Comune,
che il Dirigente ha semplicemente dato attuazione alla
volontà comunale espressa in precedenti atti deliberativi,
in particolare nella delibera che iniziava la procedura
espropriativa.
A tale proposito, la giurisprudenza ha precisato che “l’istituto
della “acquisizione sanante” ex art. 43 T.U. n. 327/2001 è
di competenza del Consiglio comunale, stante anche la
particolare natura di tale acquisizione di cui l’A.P. di
questo Consiglio ha fornito una puntuale illustrazione,
chiarendo che non risulta possibile qualificare la scelta di
farvi ricorso come meramente esecutiva di atti presupposti o
rientrante tra le ordinarie funzioni della giunta, del
segretario o di altri funzionari, onde tale scelta deve
essere ricondotta all’esclusiva competenza dell’organo
elettivo consiliare, ai sensi dell’art. 42, comma 2, lett.
l, del T.U.E.L.” (Cons. St., sez. III, 31.08.2010, n.
775).
La natura discrezionale dell’atto di acquisizione sanante
esclude, poi, che lo stesso possa qualificarsi come previsto
in atti fondamentali del consiglio o mera esecuzione degli
stessi, sicché si deve escludere anche per tal verso la
riconduzione dell’atto alla competenza dei dirigenti
(TAR Puglia-Lecce,
Sez. I,
sentenza 21.06.2013 n. 1500
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI - ESPROPRIAZIONE:
E' fondata la dedotta
incompetenza del dirigente comunale ad adottare un
provvedimento di acquisizione sanante.
Invero, l’atto adottato ex art. 43, d.P.R. n. 327 del 2001
di acquisizione al patrimonio indisponibile comunale di beni
utilizzati per scopi di interesse pubblico deve essere
assunto dal Consiglio comunale, trattandosi dell’acquisto di
un diritto immobiliare che richiede l’espressione formale di
una specifica autonoma volontà.
L’art. 42, comma 2, lett. l), T.U. enti locali, stabilisce
che rientrano nelle competenze consiliari gli “acquisti e
alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e
concessioni che non siano previsti espressamente in atti
fondamentali del consiglio o che non ne costituiscano mera
esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria
amministrazione di funzioni e servizi di competenza della
giunta, del segretario o di altri funzionari”. Tra questi
rientra sicuramente anche l’acquisto di un bene tramite
l’istituto della c.d. acquisizione sanante.
L’atto di acquisizione sanante ex art. 43 d.P.R. n. 327 del
2001, per i profili di discrezionalità che lo
caratterizzano, esorbita dall'ambito della competenza
dell’ufficio per le espropriazioni e, comunque, degli uffici
comunali per rientrare nelle attribuzioni del Consiglio
comunale in materia di acquisti ed alienazioni immobiliari,
di cui all'art. 42 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267.
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L’istituto della “acquisizione sanante” ex art. 43 T.U. n.
327/2001 è di competenza del Consiglio comunale, stante
anche la particolare natura di tale acquisizione di cui
l’A.P. di questo Consiglio ha fornito una puntuale
illustrazione, chiarendo che non risulta possibile
qualificare la scelta di farvi ricorso come meramente
esecutiva di atti presupposti o rientrante tra le ordinarie
funzioni della giunta, del segretario o di altri funzionari,
onde tale scelta deve essere ricondotta all’esclusiva
competenza dell’organo elettivo consiliare, ai sensi
dell’art. 42, comma 2, lett. l, del T.U.E.L..
La natura discrezionale dell’atto di acquisizione sanante
esclude, poi, che lo stesso possa qualificarsi come previsto
in atti fondamentali del consiglio o mera esecuzione degli
stessi, sicché si deve escludere anche per tal verso la
riconduzione dell’atto alla competenza dei dirigenti.
Il ricorso è fondato.
In particolare, è fondata la dedotta incompetenza del
dirigente comunale ad adottare un provvedimento di
acquisizione sanante.
L’atto adottato ex art. 43, d.P.R. n. 327 del 2001 di
acquisizione al patrimonio indisponibile comunale di beni
utilizzati per scopi di interesse pubblico deve essere
assunto dal Consiglio comunale, trattandosi dell’acquisto di
un diritto immobiliare che richiede l’espressione formale di
una specifica autonoma volontà.
L’art. 42, comma 2, lett. l), T.U. enti locali, stabilisce
che rientrano nelle competenze consiliari gli “acquisti e
alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e
concessioni che non siano previsti espressamente in atti
fondamentali del consiglio o che non ne costituiscano mera
esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria
amministrazione di funzioni e servizi di competenza della
giunta, del segretario o di altri funzionari”. Tra
questi rientra sicuramente anche l’acquisto di un bene
tramite l’istituto della c.d. acquisizione sanante (Cons.
St., sez. V, 13.10.2010, n. 7472).
L’atto di acquisizione sanante ex art. 43 d.P.R. n. 327 del
2001, per i profili di discrezionalità che lo
caratterizzano, esorbita dall'ambito della competenza
dell’ufficio per le espropriazioni e, comunque, degli uffici
comunali per rientrare nelle attribuzioni del Consiglio
comunale in materia di acquisti ed alienazioni immobiliari,
di cui all'art. 42 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267 (Cons. St.,
sez. III, 31.08.2010, n. 775).
Non può poi ritenersi, come sostiene la difesa del Comune,
che il Dirigente ha semplicemente dato attuazione alla
volontà comunale espressa in precedenti atti deliberativi,
in particolare nella delibera che iniziava la procedura
espropriativa.
A tale proposito, la giurisprudenza ha precisato che “l’istituto
della “acquisizione sanante” ex art. 43 T.U. n. 327/2001 è
di competenza del Consiglio comunale, stante anche la
particolare natura di tale acquisizione di cui l’A.P. di
questo Consiglio ha fornito una puntuale illustrazione,
chiarendo che non risulta possibile qualificare la scelta di
farvi ricorso come meramente esecutiva di atti presupposti o
rientrante tra le ordinarie funzioni della giunta, del
segretario o di altri funzionari, onde tale scelta deve
essere ricondotta all’esclusiva competenza dell’organo
elettivo consiliare, ai sensi dell’art. 42, comma 2, lett.
l, del T.U.E.L.” (Cons. St., sez. III, 31.08.2010, n.
775).
La natura discrezionale dell’atto di acquisizione sanante
esclude, poi, che lo stesso possa qualificarsi come previsto
in atti fondamentali del consiglio o mera esecuzione degli
stessi, sicché si deve escludere anche per tal verso la
riconduzione dell’atto alla competenza dei dirigenti.
Stabilita l’illegittimità dell’atto di acquisizione sanante,
è indubbio il comportamento illegittimo dell’amministrazione
che, a seguito della scadenza dei termini di occupazione
d’urgenza e stante il mancato perfezionamento del
procedimento di esproprio, detiene sine titulo il
terreno di parte ricorrente sul quale ha proceduto a
realizzare l’opera pubblica, così com’è indubbia l’esistenza
di un ingiusto pregiudizio in capo al privato che ha perso
la disponibilità del terreno.
Dovendosi escludere che la mera trasformazione irreversibile
di un suolo con la realizzazione di un'opera pubblica
costituisca circostanza idonea a trasferire in capo
all’Amministrazione la proprietà delle aree in assenza di un
regolare provvedimento di esproprio, e ciò sia nel caso di
occupazione del terreno ab origine sine titolo sia
nel caso di un'occupazione iniziata in forza di un
provvedimento legittimo poi scaduto (cfr. sentenze CEDU nei
casi Scordino/Italia, Belvedere Alberghiera c/Italia, Prena
c/Italia), il comportamento della Pubblica Amministrazione
costituisce un illecito permanente, al quale consegue
l’obbligo di far cessare la illegittima compromissione del
diritto di proprietà mediante la restituzione del bene alla
ricorrente, dato che questa non ha perduto la proprietà del
bene ed ha titolo a riaverlo.
Con riferimento all’ulteriore domanda risarcitoria proposta
dalla ricorrente, il risarcimento deve operare in relazione
all’illegittima occupazione del bene, e deve pertanto
coprire le voci di danno per il mancato godimento del bene,
dal momento del perfezionamento della fattispecie illecita
sino al giorno della sua giuridica regolarizzazione, ossia
sino all’effettiva restituzione del bene; ciò salva la
possibilità per l’amministrazione di perfezionare valido
atto di acquisto del bene (con il consenso dei ricorrenti),
ovvero di avvalersi in via postuma dello strumento
acquisitivo della proprietà di cui all’art. 42-bis d.p.r. n.
327/2001.
In particolare, il termine iniziale va identificato in
quello in cui l’occupazione dell’area è divenuta
illegittima, mentre il termine finale va individuato in
quello in cui il Comune resistente disporrà la restituzione
dell’area, salva la sua legittima acquisizione, per
contratto ovvero con lo strumento di cui all’art. 42-bis
d.p.r. n. 327/2001.
Con riferimento a tale contesto temporale, il Comune va
condannato a corrispondere ai ricorrenti, a titolo
risarcitorio, una somma da quantificare sulla base del
criterio normativo di cui all’art. 42-bis, co. 3, vale a
dire il 5% annuo sul valore dell’area nel periodo
considerato.
Trattandosi di debito di valore, la somma dovrà essere
rivalutata alla data della presente sentenza e sono inoltre
dovuti gli interessi al tasso legale, da calcolarsi sulla
base della somma annualmente rivalutata, con applicazione
degli indici di rivalutazione dei prezzi al consumo, e ciò
sino all’effettivo soddisfo (TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 21.06.2013 n. 1500 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
La realizzazione di
un'opera pubblica su fondo illegittimamente occupato, ovvero
legittimamente occupato ma non espropriato nei termini di
legge, non è di per sé in grado di determinare il
trasferimento della proprietà del bene a favore della
Amministrazione: deve infatti ritenersi ormai superato
l'orientamento che riconnetteva alla costruzione dell'opera
pubblica e alla irreversibile trasformazione del fondo che a
essa conseguiva effetti preclusivi o limitativi della tutela
in forma specifica del privato, dovendo invece affermarsi
che la suddetta trasformazione su fondo illegittimamente
occupato integra un mero fatto non in grado di assurgere a
titolo d'acquisto.
Il diritto di proprietà, d'altro canto, non può essere fatto
oggetto di atti abdicativi, e quindi anche la richiesta di
risarcimento formulata dal privato, finalizzata a ottenere
il mero controvalore del fondo compromesso dalla
realizzazione dell'opera pubblica, ancorché interpretata
quale manifestazione della volontà di rinunciare alla
proprietà del fondo, non può valere a determinare in capo al
privato la perdita di proprietà del fondo illegittimamente
occupato dall'opera pubblica.
Discende da quanto sopra che in tali casi solo un formale
atto di acquisizione del fondo riconducibile a un negozio
giuridico, ovvero al provvedimento ex art. 42-bis D.P.R.
327/2001 può precludere la restituzione del bene: di guisa
che in assenza di un tale atto è obbligo primario della
Amministrazione quello di restituire il fondo
illegittimamente appreso.
Correlativamente, mantenendo il privato la proprietà di
questo ultimo, egli non ha alcun titolo per chiedere un
risarcimento commisurato alla perdita della proprietà del
fondo, potendo invece agire per la restituzione di esso e
per il risarcimento del danno conseguente al mancato
godimento del bene durante il periodo di occupazione
illegittima.
Secondo la
meno recente giurisprudenza della Corte di Cassazione (tra
le ultime di quell’orientamento: Sez. Un. Civili, 23.05.2008, n. 13358) "si ha occupazione acquisitiva o appropriativa quando il fondo occupato nell'ambito di una
procedura espropriativa ha subito una irreversibile
trasformazione in esecuzione di un'opera di pubblica utilità
senza che sia intervenuto il decreto di esproprio o altro
atto idoneo a produrre l'effetto traslativo della proprietà.
In tale ipotesi il trasferimento del diritto di proprietà in
capo alla mano pubblica si realizza con l'irreversibile
trasformazione del fondo -con destinazione ad opera
pubblica o di uso pubblico- ed il proprietario di esso può
chiedere unicamente la tutela per equivalente, cioè il
risarcimento del danno. Infatti è dal momento
dell'irreversibile trasformazione del bene e della sua
destinazione ad opera pubblica che si verifica l'estinzione
del diritto di proprietà in capo al titolare ed il
contestuale acquisto dello stesso diritto, a titolo
originario, da parte dell'ente pubblico."
Tale orientamento è stato messo in discussione dalla Corte
europea dei diritti dell'uomo, che lo ha ritenuto non
aderente alla Convenzione europea (sent. 30.05.2000, rich. n. 24638/94, Carbonara e Ventura, e 30.05.2000, rich. n. 31524/96, Società Belvedere Alberghiera) in quanto
un comportamento illecito o illegittimo non può essere posto
a base dell'acquisto di un diritto, per cui l'accessione
invertita contrasta con il principio di legalità, inteso
come preminenza del diritto sul fatto; ne consegue che la
realizzazione dell'opera pubblica non costituisce di per se
impedimento alla restituzione dell'area illegittimamente
occupata.
Successivamente l'articolo 43 del d.p.r. n. 327 del 2001 ha
stabilito al primo comma che: "valutati gli interessi in
conflitto, l'autorità che utilizza un bene immobile per
scopi di interesse pubblico, in assenza del valido ed
efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della
pubblica utilità, può disporre che esso vada acquisito al
suo patrimonio indisponibile e che al proprietario vadano
risarciti i danni."
Tale articolo è stato poi dichiarato incostituzionale con
sentenza della Corte Costituzionale n. 293/2010 e
successivamente è entrato in vigore l'art. 34, comma 1, del
decreto legge 06.07.2011, n. 98, convertito nella legge
15.07.2011, n. 111, che ha colmato il vuoto normativo
formatosi a seguito della richiamata sentenza della Corte
Costituzionale, inserendo nel testo unico sugli espropri
l'art. 42-bis, il quale ha previsto al comma 1 che, in caso
di occupazione senza titolo del bene privato per scopi di
pubblica utilità, l'Amministrazione "valutati gli interessi
in conflitto" può disporre, con formale provvedimento,
l'acquisizione del bene al suo patrimonio indisponibile, con
la corresponsione al privato di un indennizzo per il
pregiudizio subito, patrimoniale e non patrimoniale, e al
comma 8 che le sue disposizioni "trovano altresì
applicazione ai fatti anteriori".
Quanto all’orientamento giurisprudenziale formatosi di
recente sul punto, è ormai consolidato in giurisprudenza il
principio per cui la realizzazione di un'opera pubblica su
fondo illegittimamente occupato, ovvero legittimamente
occupato ma non espropriato nei termini di legge, non è di
per sé in grado di determinare il trasferimento della
proprietà del bene a favore della Amministrazione: deve
infatti ritenersi ormai superato l'orientamento che
riconnetteva alla costruzione dell'opera pubblica e alla
irreversibile trasformazione del fondo che a essa conseguiva
effetti preclusivi o limitativi della tutela in forma
specifica del privato, dovendo invece affermarsi che la
suddetta trasformazione su fondo illegittimamente occupato
integra un mero fatto non in grado di assurgere a titolo
d'acquisto (TAR Puglia-Bari sez. III n. 2131/2008; TAR
Puglia-Bari sez. I n. 3402/2010, confermata da C.d.S. sez. IV n. 4590/2011; C.d.S. sez. IV n. 4970/2011; C.d.S. sez. IV
n. 3331/2011).
Il diritto di proprietà, d'altro canto, non può essere fatto
oggetto di atti abdicativi (TAR Puglia-Bari sez. III n.
2131/08, par. 6.1.2), e quindi anche la richiesta di
risarcimento formulata dal privato, finalizzata a ottenere
il mero controvalore del fondo compromesso dalla
realizzazione dell'opera pubblica, ancorché interpretata
quale manifestazione della volontà di rinunciare alla
proprietà del fondo, non può valere a determinare in capo al
privato la perdita di proprietà del fondo illegittimamente
occupato dall'opera pubblica.
Discende da quanto sopra che in tali casi solo un formale
atto di acquisizione del fondo riconducibile a un negozio
giuridico, ovvero al provvedimento ex art. 42-bis D.P.R.
327/2001 può precludere la restituzione del bene: di guisa che
in assenza di un tale atto è obbligo primario della
Amministrazione quello di restituire il fondo
illegittimamente appreso (C.d.S. n. 4970/2011).
Correlativamente, mantenendo il privato la proprietà di
questo ultimo, egli non ha alcun titolo per chiedere un
risarcimento commisurato alla perdita della proprietà del
fondo, potendo invece agire per la restituzione di esso e
per il risarcimento del danno conseguente al mancato
godimento del bene durante il periodo di occupazione
illegittima (TAR Puglia-Bari sez. II n. 2131/2008)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 22.05.2013 n. 1174 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
E. I. Blasco,
La (non agevole) applicazione della normativa sulla
trasparenza ai procedimenti espropriativi - Il problema
della pubblicità delle indennità d'esproprio (L'ufficio
tecnico n. 4/2013). |
ESPROPRIAZIONE:
Il procedimento ablatorio disciplinato dal d.p.r.
n. 327/2001 può colpire non solo il diritto di proprietà ma
anche, in modo autonomo, un diritto reale minore, come
avviene nell’ipotesi dell’imposizione di servitù. Invero
l’art. 1 del d.p.r. n. 327/2001, analogamente al previgente
art. 1 della legge n. 2359/1865, assume ad oggetto
dell’espropriazione sia la piena proprietà, sia singoli
diritti relativi ad immobili.
Pertanto, le fasi del procedimento espropriativo, indicate
nell’art. 8 del d.p.r. n. 327/2001 e articolate
nell’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio,
nella dichiarazione di pubblica utilità dell’opera e nella
determinazione dell’indennità, riguardano i provvedimenti
impugnati, preordinati alla imposizione di una servitù
permanente e quindi all’espropriazione di un diritto reale
minore, il cui procedimento è inderogabilmente sottoposto
alla disciplina contenuta nelle norme evocate dalla
ricorrente.
Il procedimento
ablatorio disciplinato dal d.p.r. n. 327/2001 può colpire
non solo il diritto di proprietà ma anche, in modo autonomo,
un diritto reale minore, come avviene nell’ipotesi
dell’imposizione di servitù. Invero l’art. 1 del d.p.r. n.
327/2001, analogamente al previgente art. 1 della legge n.
2359/1865, assume ad oggetto dell’espropriazione sia la
piena proprietà, sia singoli diritti relativi ad immobili
(Cons. Stato, A.P., 18.07.1983, n. 21; Cons. Stato, A.G.,
29.03.2001, n. 4; TAR Campania, Napoli, II, 23.11.1998, n.
3562).
Pertanto, le fasi del procedimento espropriativo, indicate
nell’art. 8 del d.p.r. n. 327/2001 e articolate
nell’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio,
nella dichiarazione di pubblica utilità dell’opera e nella
determinazione dell’indennità, riguardano i provvedimenti
impugnati, preordinati alla imposizione di una servitù
permanente e quindi all’espropriazione di un diritto reale
minore, il cui procedimento è inderogabilmente sottoposto
alla disciplina contenuta nelle norme evocate dalla
ricorrente.
Nel caso di specie, in violazione del citato art. 8, la
dichiarazione di pubblica utilità non è stata preceduta
dalla necessaria apposizione del vincolo espropriativo, il
quale avrebbe dovuto essere introdotto mediante variante
urbanistica, secondo quanto statuito dagli artt. 9 e 10 del
d.p.r. n. 327 del 2001; tali norme precisano quali sono gli
atti attraverso i quali può essere disposto il vincolo
stesso, individuati nella approvazione di uno strumento
urbanistico generale o sua variante (che preveda la
realizzazione dell’opera pubblica), ovvero nella conferenza
di servizi, accordo di programma o altra intesa che comporti
la variante al piano urbanistico (TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza 21.03.2013 n. 433 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: L'omessa
notifica degli atti espropriativi ai proprietari non
risultanti dagli atti catastali non assume né carattere
invalidante di detti atti espropriativi, né legittima una
difesa tardiva in sede giurisdizionale, ovvero in sede
amministrativa, essendo comunque onere del privato
interessato curare l'esatta corrispondenza delle risultanze
catastali alla reale situazione giuridica del bene oggetto
della procedura ablatoria.
Ciò perché è da evitare che "...le negligenze dell'avente
titolo possano andare a discapito del buon andamento
dell'azione amministrativa, a tutela del quale può dirsi
anche posto il principio della certezza delle situazioni
giuridiche dell'attività della Pubblica Amministrazione...".
Come noto la giurisprudenza del Consiglio
di Stato è costante nel ritenere che l'omessa notifica degli
atti espropriativi ai proprietari non risultanti dagli atti
catastali non assume né carattere invalidante di detti atti
espropriativi, né legittima una difesa tardiva in sede
giurisdizionale, ovvero in sede amministrativa, essendo
comunque onere del privato interessato curare l'esatta
corrispondenza delle risultanze catastali alla reale
situazione giuridica del bene oggetto della procedura ablatoria.
Ciò perché è da evitare che "...le negligenze
dell'avente titolo possano andare a discapito del buon
andamento dell'azione amministrativa, a tutela del quale può
dirsi anche posto il principio della certezza delle
situazioni giuridiche dell'attività della Pubblica
Amministrazione..." (Cfr. Consiglio di Stato, sentenza
n. 3690 del 2010 e sentenza n. 7014 del 2006)
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 18.03.2013 n. 182 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Sulla vexata quaestio della tutela del privato in
presenza di occupazioni che, per quanto in origine
legittime, siano divenute sine titulo per mancata
adozione, nei termini di legge, di rituale misura ablatoria.
Va ricordato il consolidato
orientamento che attribuisce alla giurisdizione
amministrativa le controversie, anche risarcitorie, che
abbiano a oggetto un'occupazione originariamente legittima,
e che sia poi divenuta sine titulo a causa del decorso dei
termini di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità
senza il sopravvenire di un valido decreto di esproprio,
trattandosi non già di meri comportamenti materiali, ma di
condotte costituenti espressione di un'azione
originariamente riconducibile all'esercizio del potere
autoritativo della p.a., e che solo per accidenti successivi
-come avviene anche per l'ipotesi di successivo annullamento
giurisdizionale degli atti ablatori- hanno perso la propria
connotazione eminentemente pubblicistica.
Esula, peraltro, dalla giurisdizione amministrativa, per
spettare a quella del giudice ordinario, la domanda tesa ad
ottenere il riconoscimento degli indennizzi per il periodo
di occupazione legittima in relazione alla quale continua a
valere a tutti gli effetti la riserva disposta dall'art. 53,
comma 2, d.P.R. n. 327 del 2001 (ora, art. 133 comma 1,
lett. g, c.p.a.).
---------------
Va, in proposito, osservato:
a) che, in caso occupazione originariamente valida non
seguita, peraltro, da tempestiva adozione del decreto di
esproprio, il decorso del termine ventennale utile ad
usucapionem prende avvio solo dal momento in cui
l’occupazione diventa contra legem, con il decorso del
termine quinquennale;
b) che, ai fini interruttivi, appaiono idonee (in virtù del
combinato disposto degli artt. 1965 e 2943 c.c.)
esclusivamente iniziative giudiziali in funzione
recuperatoria del possesso, e non già intese alla mera
condanna al risarcimento del danno;
c) che, per comune intendimento, la maturata usucapione fa
venir meno (non soltanto, come è ovvio, la facoltà di
esperire le tutele reali e recuperatorie, stante la
correlativa perdita della situazione dominicale, ma anche)
l'elemento costitutivo della fattispecie risarcitoria
(nonché, deve ritenersi, di quella indennitaria),
consistente nell'illiceità della condotta lesiva della
situazione giuridica soggettiva dedotta, non solo per il
periodo successivo al decorso del termine, ma anche per
quello anteriore, in virtù della retroattività degli effetti
dell'acquisto, stabilita per garantire, alla scadenza del
termine necessario, la piena realizzazione dell'interesse
all'adeguamento della situazione di fatto a quella di
diritto;
d) che neppure, del resto, risulta concretamente possibile,
ad usucapione maturata, condanna alla adozione (ad esito
alternativo discrezionalmente apprezzabile) di provvedimento
ex art. 42-bis del T.U. n. 327/2001, per la preclusiva
ragione che l’usucapione costituisce già autonomo titolo di
acquisto della proprietà e non potrebbe, con ogni evidenza,
procedersi all’acquisto di cosa propria.
Il ricorso è, nei sensi delle
considerazioni che seguono, infondato e merita di essere
correlativamente respinto.
Va, liminarmente, respinta l’articolata eccezione di difetto
di giurisdizione alla luce del consolidato orientamento che
attribuisce alla giurisdizione amministrativa le
controversie, anche risarcitorie, che abbiano a oggetto
un'occupazione originariamente legittima, e che sia poi
divenuta sine titulo a causa del decorso dei termini di
efficacia della dichiarazione di pubblica utilità senza il
sopravvenire di un valido decreto di esproprio, trattandosi
non già di meri comportamenti materiali, ma di condotte
costituenti espressione di un'azione originariamente
riconducibile all'esercizio del potere autoritativo della
p.a., e che solo per accidenti successivi -come avviene
anche per l'ipotesi di successivo annullamento
giurisdizionale degli atti ablatori- hanno perso la propria
connotazione eminentemente pubblicistica (cfr., da ultimo,
Cons. Stato, sez. IV, 28.11.2012, n. 6012 e già Cons.
Stato, Ad. Pl., 22.10.2007, n. 12).
Esula, peraltro, dalla giurisdizione amministrativa, per
spettare a quella del giudice ordinario, la domanda tesa ad
ottenere il riconoscimento degli indennizzi per il periodo
di occupazione legittima in relazione alla quale continua a
valere a tutti gli effetti la riserva disposta dall'art. 53,
comma 2, d.P.R. n. 327 del 2001 (ora, art. 133 comma 1,
lett. g, c.p.a.): in termini, da ultimo TAR Campania
Napoli, sez. V, 14.06.2012, n. 2831.
In termini generale, giova premettere che la
controversia in esame attiene alla vexata quaestio della
tutela del privato in presenza di occupazioni che, per
quanto in origine legittime, siano divenute sine titulo per
mancata adozione, nei termini di legge, di rituale misura
ablatoria.
Va osservato, sul punto, che i percorsi di tutela della
proprietà privata a fronte dell’illegittimo esercizio del
potere espropriativo –oscillanti tra azione restitutoria,
azione risarcitoria per equivalente e (attualmente) potere
pubblicistico di acquisizione sanante ai sensi del vigente
art. 42-bis del t.u. n. 327/2001– sono oggetto (anche, vale
soggiungere, indipendentemente dai persistenti dubbi di
compatibilità costituzionale e di conformità alla
convenzione EDU del citato art. 42-bis, che Cons. Stato,
sez. IV, 27.01.2012, n. 427 ha, peraltro, inteso
senz’altro fugare) di perdurante dibattito dottrinale e di
non sopiti contrasti giurisprudenziali.
I punti di partenza della questione sono, alquanto
paradossalmente, del tutto perspicui:
a) la c.d. occupazione appropriativa per trasformazione
irreversibile dell'immobile, come modo di acquisto della
proprietà a titolo originario, fondato sul principio della
accessione c.d. invertita mutuato per analogia dall’art. 938
c.c., dopo una (fin troppo nota e travagliata) vicenda
segnata dal progressivo affinamento del formante
giurisprudenziale, è stata ormai inesorabilmente espunta dal
nostro ordinamento, in virtù delle reiterate e decisive
pronunzie della Corte di Strasburgo (v., in termini
perspicui, Cons. Stato, ad. plen., 29.04.2005, n. 2, cui
giova complessivamente rinviare);
b) di conseguenza, ricondotta la vicenda della occupazione
illegittima ad una “ordinaria” ipotesi di illecita ingerenza
nella sfera dominicale altrui, al proprietario leso
spetteranno (ove si prescinda, per un momento, dalla già
ventilata possibilità che l’ente espropriante eserciti il
distinto potere di cui all’attuale art. 42-bis, di cui si
dirà) tutte le ordinarie azioni a difesa della proprietà e
del possesso, non potendo godere la pubblica amministrazione
di uno status privilegiato se non in presenza di poteri
esercitati in conformità del paradigma legale di
riferimento.
È, peraltro, evidente che –in mancanza di un idoneo titolo
giuridico che valga a trasferire la proprietà in capo alla
pubblica amministrazione– il privato resta, a fronte della
illecita ingerenza, proprietario del bene, con la
conseguenza che può, anzitutto, attivare (a parte,
ovviamente, il risarcimento del danno per il periodo di
occupazione) la tutela restitutoria, previa ripristino dello
status quo ante: al che non può costituire impedimento (una
volta venuta meno la “costruzione“ concettuale della
occupazione acquisitiva) né la avvenuta trasformazione delle
aree né la realizzazione dell’opera pubblica (quella che, in
passato, si definiva sintomaticamente trasformazione
“irreversibile”, che tale era peraltro, con evidente
circuito logico, solo in quanto scattasse il postulato
meccanismo acquisitivo a titolo originario), in quanto, per
un verso, il limite della eccessiva onerosità è codificato,
dal’art. 2058 c.c., in relazione alla tutela risarcitoria
(in forma specifica) e non per quella restitutoria (che
trova fondamento negli artt. 948 ss. ed è preordinata alla
tutela reale della proprietà) e, per altro verso,
l’ulteriore limite di cui all’art. 2933 c.c. (relativo alla
riduzione in pristino di quanto sia stato realizzato in
violazione dell’obbligo di non fare) si riferisce solo alla
ricorrenza di pregiudizi per l’intera economia nazionale e
non a quello “localizzato” (in termini, da ultimo, Cass.
sez. I, 23.08.2012, n. 14609).
Per la stessa ragione, di conserva, al privato dovrebbe, in
principio, ritenersi preclusa la tutela risarcitoria
(naturalmente diversa da quella relativa alla mera
occupazione, finché la stessa sia di fatto durata),
difettando –ai fini del riconoscimento del diritto al
rivendicato controvalore venale del bene– il presupposto
della perdita della proprietà (non potendosi,
incidentalmente, ritenere –secondo un ragionamento
speciosamente formulato in passato, ma privo di basi ed oggi
espressamente ripudiato non meno dal giudice ordinario che
da quello amministrativo– che la formulazione della domanda
risarcitoria implicasse di per sé l’implicita volontà dismissiva della proprietà, alla stregua di una sorta di
“abbandono liberatorio”).
Una importante e paradossale conseguenza è, allora, che le
domande risarcitorie (anche quelle proposte quando nessuno,
né tantomeno gli odierni ricorrenti, aveva plausibile
ragione di dubitare del regime della occupazione
acquisitiva, magari giunte alla attuale cognizione del
giudice amministrativo –oggi attributario, come è noto,
della giurisdizione esclusiva in materia, giusta l’art. 34
del d.lgs. n. 80/1998, trasfuso nell’art. 133 c.p.a.– per
via di translatio judicii in esito a declinatoria della
giurisdizione, e salva la possibilità di formulare in
proposito una auspicabile emendatio libelli: cfr., in tal
senso, Cons. Stato, sez. IV, 01.06.2011, n. 3331)
dovrebbero essere senz’altro respinte in quanto non fondate
(per carenza del fatto costitutivo del diritto azionato).
Che è esito, va riconosciuto, nel complesso indubbiamente
insoddisfacente non solo per l’Amministrazione espropriante
(che vede, di fatto, in generale potenzialmente pregiudicato
l’interesse pubblico dalla doverosità ed automaticità della
reintegrazione della proprietà privata, anche in casi di
trasformazione delle aree e di avvenuta realizzazione delle
opere pubbliche, potendo solo riattivare ab ovo la procedura ablatoria), ma anche per lo stesso privato (che, più spesso
di quanto non si possa immaginare, annette in concreto
maggior interesse alla pronta liquidazione del bene secondo
il suo valore venale che al ripristino dello status quo ante
e che, in ogni caso, ha potuto ragionevolmente optare,
diversamente da quanto occorso nella fattispecie in esame,
per l’attivazione, in via esclusiva, della via risarcitoria
di fatto preclusa da inopinati overruling pretori).
A fronte di ciò, può ritenersi in generale sostanzialmente
appagante l’eventualità (non verificatasi, peraltro, nel
caso di specie nonostante lo spatium deliberandi di fatto
concesso dalla ordinanza collegiale evocata in narrativa)
che l’Amministrazione adotti l’autonomo potere ablatorio
codificato dall’art. 42-bis del t.u. n. 327/2001, in quanto:
a) per un verso, la legalità dell’azione amministrativa
viene, in certo modo, “recuperata” dalla creazione di un
(nuovo ed autonomo) titulus adquirendi di natura
provvedimentale, munito di idonea base legale e frutto di
doverosa e rigorosa ponderazione comparativa degli interessi
in gioco, complessivamente intesa alla salvaguardia di
quello pubblico concretamente preminente (così superando la
logica, stigmatizzata in sede CEDU, dell’occupazione
acquisitiva, che consentiva l’acquisto in virtù di un mero
comportamento di fatto, per di più concretante fattispecie
di illecito);
b) per altro verso, si garantisce al privato
una tutela piena e satisfattiva (in prospettiva
dichiaratamente “indennitaria” piuttosto che “risarcitoria”,
non trattandosi, nell’auspicio “ricostruttivo”, per quanto
valer possa l’intento qualificatorio trasfuso nella norma,
dei conditores, di non più plausibile acquisto ex re illicita, come ancora autorizzava a ritenere la formulazione
del previgente art. 43) al conseguimento dell’integrale
valore del bene (per giunta maggiorato –a dire il vero, non
senza una sottile contraddizione “sistematica”– del
pregiudizio non patrimoniale forfetizzato, oltre che,
naturalmente, del danno da occupazione), senza neppure
precludergli (in tesi astratta) la possibilità di impugnare
(se interessato soprattutto alla reintegra) il
provvedimento.
Il problema si pone, allora, essenzialmente per l’ipotesi
(peraltro praticamente più frequente) di inerzia (o
addirittura di silenzio) dell’ente espropriante: inerzia e
silenzio che, per quanto si è detto, appaiono in grado di
condizionare lo spettro delle tutele a disposizione del
privato, di fatto conservandone lo status non sempre gradito
(e, nella specie, addirittura prospetticamente suscettibile
di azzerare le forme di tutela azionate) di proprietario dei
beni.
Un primo tentativo di soluzione del problema è stato
offerto da quella giurisprudenza che –muovendosi sul piano
schiettamente civilistico (l’unico, peraltro, possibile in
difetto di esercizio di legittime potestà pubblicistiche):
a) o ha ritenuto (così TAR Lecce, sez. I, 24.11.2010,
n. 2683) che l’irreversibile trasformazione del bene
continui a rappresentare fatto idoneo a far acquistare la
proprietà alla pubblica amministrazione (non già, peraltro,
per il principio dell’accessione invertita, ma in virtù
della c.d. specificazione ex art. 940 c.c., consistente
nella utilizzazione della altrui “materia” per realizzare
una “nuova cosa”): tesi rimasta, peraltro, del tutto
isolata, se non altro per il rilievo che la specificazione,
quale modo civilistico di acquisto della proprietà a titolo
originario, si attaglia alle cose mobili e non a quelle
immobili);
b) ovvero –con esito del tutto opposto– ha
ventilato l’applicazione della regola (ordinaria e
tradizionale) della accessione ex art. 934 c.c., in forza
della quale non solo (come è pacifico) il proprietario delle
aree occupate non perde il proprio diritto in conseguenza
dell’altrui ingerenza, ma diventa anche il proprietario
degli immobili realizzati sul proprio suolo: con il che
peraltro –del tutto paradossalmente– il privato sarebbe
esposto anche ad un arricchimento “imposto” ed una
consequenziale obbligazione indennitaria a suo danno.
Si è anche formato un orientamento giurisprudenziale
volto, per altra via, ad aggirare la difficoltà ed a
raggiungere comunque l'obiettivo perseguito dal legislatore:
già nella vigenza dell'art. 43 si era, invero, statuito che,
a fronte della domanda risarcitoria, la P.A. avrebbe potuto
(alternativamente ma doverosamente) pervenire ad un accordo
transattivo ovvero emettere un formale e motivato decreto,
con cui disporre o la restituzione dell'area a suo tempo
occupata, previa ripristino dello status quo ante, ovvero
l'acquisizione coattiva: con il che, in caso di inerzia
conseguente al giudicato “ad esito alternativo”,
l'interessato avrebbe potuto chiedere, in sede di
ottemperanza, l'esecuzione della decisione, per la adozione
delle misure consequenziali (rientrando nei poteri del
giudice, in tal caso estesi come è noto al merito, la nomina
di un commissario ad acta per l’adozione della scelta più
opportuna): così Cons. Stato, sez. IV, 21.05.2007, n.
2582, seguito, tra le altre, da TAR Campania Napoli, sez. V,
28.05.2009).
È evidente che, in tale prospettiva, il processo azionato
dal privato diventa indirettamente strumento per imporre
alla P.A. di attivarsi per comporre la vicenda, senza ancora
pregiudicare le diverse opzioni, ma sull'implicito
presupposto pratico che l'ipotesi della restituzione rimanga
puramente teorica. Perciò, con l’introduzione dell'art. 42-bis, questo orientamento ha ripreso vigore, specie nella
giurisprudenza di prime cure (ed è stato accolto, per
esempio, da questo Tribunale: cfr, in tal senso, TAR
Campania Salerno, sez. II, 11.01.2012, n. 28),
puntando, da fatto, più seccamente sulla ineludibile
alternativa tra restituzione e acquisizione sanante, mentre
passano in secondo piano altre soluzioni che erano emerse,
come l'accordo transattivo o la rinnovazione del
procedimento espropriativo (la prima, ovviamente, sempre
possibile ma non certo in forza di una statuizione
giudiziaria impositiva di un obbligo, sia pure alternativo,
a contrarre, privo, come tale, di idonea base positiva; la
seconda anch’essa, beninteso, sempre possibile, ma
chiaramente disfunzionale ed onerosa, in presenza di una
facoltà acquisitiva autonoma ex art. 42-bis).
Va, peraltro, rammentato come altra impostazione abbia
inteso andare oltre il prospettato esito decisionale,
escludendo ogni alternativa, anche quella della
restituzione, e rendendo non più nascosto ma esplicito e
vincolante l'obiettivo di addivenire all'acquisizione: se il
provvedimento di acquisizione è (o si vuole che sia) l'unico
modo per sistemare la vicenda e la P.A. rimane inerte, vorrà
dire che a tale provvedimento si dovrà ineludibilmente
pervenire per ordine del giudice, con eventuale esercizio di
poteri sostitutivi in sede di esecuzione: in tal caso
l'accoglimento del ricorso si risolve, direttamente, in una
condanna specifica ad adottare il provvedimento di
acquisizione ai sensi dell'art. 42-bis.
Con questa sorta di mutatio officiosa della domanda (peraltro, di dubbia
compatibilità con il canone della corrispondenza tra chiesto
e pronunziato ex art. 112 c.p.c.), la ''sostanza'' cui,
iussu proprie iudicis, si perviene è che, da un lato, si è
trasferita la proprietà e si è evitata la restituzione,
d'altro lato, si è concesso indirettamente il risarcimento
del danno per equivalente al privato: il provvedimento di
acquisizione contiene infatti ex lege l'indennizzo per la
perdita della proprietà (in tali sensi, tra le altre, TAR
Campania Napoli, Sez. V, 13.01.2012, n. 176, la quale,
peraltro, ha “differito” l’esame della domanda risarcitoria
all’esito della adozione del provvedimento acquisitivo,
laddove altro modulo decisionale, seguito inter alia da
TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 23.02.2012, n. 428, da TAR Lombardia Brescia, Sez. II, 26.01.2012, n.
115 e da TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 17.02.2012,
n. 195, ritiene “assorbita” la domanda risarcitoria,
sull’assunto che, adottato il provvedimento ex art. 42-bis,
la disputa sul quantum della riconosciuta indennità
spetterebbe ad altra sede e, plausibilmente, ad altra
giurisdizione).
L'orientamento in questione e la prospettiva della condanna
a provvedere ex art. 42-bis consentono in realtà, a favore
del privato, di superare in radice ogni problematico rilievo
del distinguo tra domanda restitutoria e domanda di
risarcimento per equivalente, poiché, quale che sia l'esatto
contenuto della domanda, soltanto nella suddetta condanna
può risolversi il processo. Non a caso, possono ravvisarsi
pronunce che hanno statuito la condanna a provvedere ex art.
42-bis non perché mosse dalla necessità di aggirare la
domanda restitutoria (concretamente non inclusa nel petitum
immediato), ma a partire dalla mera azione risarcitoria,
pervenuta, magari tramite translatio judicii, al giudice
amministrativo.
Il descritto escamotage giurisprudenziale (va, invero,
onestamente riconosciuto che di questo si tratta) consente,
quindi, di raggiungere l'obiettivo dell'art. 42-bis, con
indubbi vantaggi anche per la tutela effettiva del privato,
ma, specialmente nella versione della condanna specifica e
non alternativa all'acquisizione sanante, al costo di
un'interpretazione che porta a dissolvere anche un'apparenza
di conformità ai principi europei: e ciò perché si finisce
pregiudizialmente per escludere sempre e comunque la
concessione della (primaria ed indefettibile) tutela
restitutoria.
In tale contesto, una più recente (e, sia pure solo in
parte, alternativa) pronunzia del Consiglio di Stato (la n.
1514 del 16.03.2012, resa dalla sez. IV) ha piuttosto (e,
c’è da riconoscere, con maggior “franchezza”) argomentato
nel senso:
a) che al privato è preclusa (in assenza di
adozione del provvedimento acquisitivo) la tutela
risarcitoria, in quanto anche l’irreversibile trasformazione
delle aree non determina, come ampiamente chiarito, la
perdita del diritto di proprietà;
b) nondimeno –e qui sta
la novità della pronuncia– neppure può darsi luogo (quando,
ovviamente, richiesta) alla tutela restitutoria: la quale,
in thesi, eliderebbe di per sé ed automaticamente il potere
(discrezionale e non conculcabile) di acquisizione sanante
ex art. 42-bis (non esistendo più la c.d. acquisizione
giudiziale consentita dal previgente art. 43, che
autorizzava l’Amministrazione ad invocare ope exceptionis la
limitazione della domanda alla erogazione del risarcimento
del danno, nella prospettiva della futura e “preannunziata”
determinazione acquisitiva);
c) di conseguenza la domanda
(comunque formulata) è ritenuta accoglibile (avuto riguardo
al c.d. principio di atipicità scolpito dall’art. 34 c.p.a.)
nei (soli) sensi dalla condanna all’obbligo generico di
provvedere ex art. 42-bis, restando impregiudicata la scelta
discrezionale tra acquisizione sanante (unita al ristoro per
la perdita della proprietà e per il periodo di occupazione
illegittima) e restituzione (preceduta dalla restitutio in
integrum e dal ristoro del solo periodo di occupazione
illegittima).
Insomma: da un lato, l'accoglimento della mera
azione risarcitoria si scontra con il mancato trasferimento
della proprietà, d'altro lato, l'art. 42-bis avrebbe
inequivocabilmente attribuito alla P.A. il potere
discrezionale, valutati gli interessi in conflitto, di
pervenire o meno al provvedimento di acquisizione, e
siffatto potere (peraltro non già facoltativo, nella
consueta guisa del procedimenti di secondo grado orientati
alla sanatoria, sebbene doveroso nell’an giusta il principio
generale scolpito all’art. 2 della l. n. 241/1990, in quanto
preordinato alla salvaguardia, in prospettiva comparativa,
di rilevanti interessi delle controparti private) non
potrebbe essere preventivamente intaccato e vanificato
(stante l’attuale impossibilità, a differenza del previgente
art. 43, di attivazione post litem judicatam) da un vincolo
giurisdizionale conseguente all’accoglimento della domanda
restitutoria (né –è da precisare– da una condanna a
provvedere tout court all’adozione del provvedimento
acquisitivo, che lederebbe e pregiudicherebbe in altra
direzione la discrezionalità della P.A. di scegliere,
valutati gli interessi in conflitto, tra acquisizione e
restituzione del bene).
La soluzione de qua (per quanto non esente da perplessità,
di fatto disconoscendosi la tutela restitutoria nella
immediatezza della sua sede naturale, id est nel giudizio di
cognizione, di fatto condizionato dal successivo ed
eventuale esercizio del potere amministrativo di
acquisizione) ha trovato nondimeno apprezzamento in
dottrina, poiché attenua, in qualche misura, il conflitto
con i principi della CEDU, lasciando quantomeno
''astrattamente'' aperta la porta alla possibilità della
restituzione. Anche se –si è criticamente osservato non
senza qualche ragione– non deve dimenticarsi che nel nuovo
art. 42-bis non è stata, come si ripete, riprodotta la
facoltà processuale della P.A. di paralizzare la
restituzione (di cui all'originario art. 43), proprio per
ragioni di compatibilità con i principi europei, risultando
così alquanto paradossale che si evochi proprio l'art. 42-bis per pervenire ad un opposto e ancor più estremo
risultato, cioè di un'azione restitutoria che ex lege viene
paralizzata d'ufficio dal giudice. Perplessità, come è
ovvio, che non può sorgere quando la domanda sia formulata
in termini risarcitori.
Va da sé, sulle esposte coordinate dogmatiche, che (una
volta ritenuta, nei chiariti sensi, la “doverosità” di
attivazione del procedimento di acquisizione sanante ex art.
42-bis) sarebbe preferibile strutturare recta via la tutela
del privato nei sensi della condanna (pura) a provvedere,
nelle forme del rito avverso il silenzio (in tal senso, per
esempio, TAR Campania Napoli, sez. V, 11.01.2012, n.
86, confermata da Cons. Stato, sez. IV, 08.10.2012, n.
5207): il risultato —condanna generica a provvedere— è
ovviamente del tutto identico a quello scaturente
dall’orientamento precedente, ma con ulteriori apprezzabili
conseguenze sia per il privato, sia per la stessa P.A:
a)
dal punto di vista del privato, vi sono palesi vantaggi sui
“'tempi” di definizione della vicenda (non essendo anzitutto
da escludere che la P.A., sollecitata dall'istanza, decida
senz’altro di provvedere, ed in ogni caso, di fronte
all'inerzia, si potrà ottenere quel risultato della condanna
generica a provvedere attraverso il rito “acceleratorio” del
silenzio, in luogo delle lungaggini di un'azione
risarcitoria);
b) per la stessa P.A., non è certo
trascurabile che l'indotto accorciamento dei “tempi” eviterà
un aggravamento degli oneri risarcitori per l'occupazione
illegittima, interrotta dalla restituzione, che fa venir
meno l'occupazione stessa, o dal provvedimento di
acquisizione, che ne fa venir meno l'illegittimità;
c) in
ogni caso, nell'ottica europea, si toglierebbe la
giurisprudenza dall'imbarazzo di non poter direttamente
accogliere le azioni restitutorie o di dover affermare, come
l’orientamento illustrato precedentemente, che il giudice
non può elidere il potere amministrativo di decidere o meno
l'acquisizione del bene (e ciò in quanto la questione
dell'esercizio di siffatto potere non costituirebbe più un
impedimento paralizzante nel momento della tutela
processuale dell'azione del proprietario, ma si consumerebbe
a monte e in un percorso prima amministrativo e poi
processuale, quello del silenzio, dall'oggetto limitato, che
rimane estraneo formalmente all'esperimento in via
principale della tutela dominicale, per quanto nella
''sostanza'' indirettamente già idoneo a soddisfare la
pretesa risarcitoria o restitutoria).
La dottrina si è addirittura spinta a prospettare (ed
auspicare) de jure condendo (pur nella consapevolezza della
sua problematicità anche in termini costituzionali,
trattandosi in tesi di strutturare tutele c.d. condizionate)
l’introduzione del previo esperimento dell'istanza a
provvedere ex art. 42-bis e dell'eventuale tutela
giurisdizionale avverso il silenzio quali condizioni di
procedi-bilità delle domande risarcitorie e/o restitutorie.
Tutto ciò premesso, va peraltro esaminata –sia in
quanto espressamente formulata da parte resistente al
preordinato fine di argomentare l’infondatezza della domanda
risarcitoria formulata ex adverso, sia in quanto
prospetticamente idonea ad evocare, ove fondata, ragione
pregiudizialmente preclusiva, in presenza di idoneo titulus adquirendi originario a favore dell’Amministrazione,
dell’esercizio del potere acquisitivo ex art. 42-bis T.U. n.
327/2001, stante la correlata carenza del relativo
presupposto dell’alienità del bene ad acquisirsi (cfr., da
ultimo, Cass., sez. I, 04.07.2012, n. 11147, riferita ad
un caso di occupazione usurpativa ma con argomento
generalizzabile)– l’eccezione intesa a valorizzare
l’intervenuta usucapione delle aree oggetto del contestato
intervento, che sarebbe maturata a favore
dell’Amministrazione espropriante in virtù del possesso
ultraventennale, non idoneamente interrotto da opportune e
tempestive iniziative giudiziali in funzione recuperatoria.
L’eccezione di intervenuta usucapione (che questo giudice
può accertare in via incidentale ex art. 8 c.p.a,. in quanto
logicamente concretante questione pregiudiziale) è fondata.
Va, in proposito, osservato:
a) che, in caso occupazione originariamente valida non
seguita, peraltro, da tempestiva adozione del decreto di
esproprio, il decorso del termine ventennale utile ad usucapionem prende avvio solo dal momento in cui
l’occupazione diventa contra legem, con il decorso del
termine quinquennale (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. V, 08.10.2012, n. 4030 e TAR Salerno, sez. II,
09.07.2012,
n. 1374): nella specie, a far data dal 15.03.1988 (con
maturazione al 15.03.2008);
b) che, ai fini interruttivi, appaiono idonee (in virtù del
combinato disposto degli artt. 1965 e 2943 c.c.)
esclusivamente iniziative giudiziali in funzione
recuperatoria del possesso, e non già intese alla mera
condanna al risarcimento del danno: cfr., in termini, Cass.
SS.UU. 19.10.2011, n. 21575, proprio argomentando dalla
possibilità, per il privato, di attivarsi nel senso della
reintegrazione del possesso indipendentemente dalla (non
rilevante) trasformazione del bene ablato: con il che, nel
caso di specie, non può dirsi giovevole alla ricorrente
l’azione risarcitoria in concreto attivata dinanzi al
giudice ordinario, con citazione notificata il 23.11.1999, conclusasi con statuizione declinatoria della
giurisdizione depositata in data 16.09.2002, versata
in atti;
c) che, per comune intendimento, la maturata usucapione
(della quale ricorrono, in concreto, tutti i presupposti,
avuto segnatamente riguardo al possesso ultraventennale non
interrotto) fa venir meno (non soltanto, come è ovvio, la
facoltà di esperire le tutele reali e recuperatorie, stante
la correlativa perdita della situazione dominicale, ma
anche) l'elemento costitutivo della fattispecie risarcitoria
(nonché, deve ritenersi, di quella indennitaria),
consistente nell'illiceità della condotta lesiva della
situazione giuridica soggettiva dedotta, non solo per il
periodo successivo al decorso del termine, ma anche per
quello anteriore, in virtù della retroattività degli effetti
dell'acquisto, stabilita per garantire, alla scadenza del
termine necessario, la piena realizzazione dell'interesse
all'adeguamento della situazione di fatto a quella di
diritto (cfr. Cass., 19.10.2011, n. 21575; Cass.. sez.
III. 26.06.2008, n. 17570; Cass. 08.09.2006, n.
19294; merita, peraltro, soggiungere che la soluzione sul
punto non potrebbe essere diversa anche ad accogliere il
minoritario orientamento, essenzialmente dottrinario, inteso
ad argomentare l’irretroattività dell’effetto acquisitivo
conseguente alla maturata usucapione);
d) che neppure, del resto, risulta concretamente possibile,
ad usucapione maturata, condanna alla adozione (ad esito
alternativo discrezionalmente apprezzabile) di provvedimento
ex art. 42-bis del T.U. n. 327/2001 (giusta la regola
decisoria prospettata in subiecta materia da Cons. Stato,
sez. IV, 16.03.2012, n. 1514 sull’assunto della
doverosità nell’an della attivazione del relativo
procedimento), per la preclusiva ragione che l’usucapione
costituisce già autonomo titolo di acquisto della proprietà
e non potrebbe, con ogni evidenza, procedersi all’acquisto
di cosa propria (Cass., sez. I, 04.07.2012, n. 11147)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 31.01.2013 n. 298 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Presupposto legittimante la domanda di
risarcimento del danno da c.d. occupazione espropriativa è
che il bene irreversibilmente trasformato nell’ambito di una
procedura ablativa non abbia mai costituito oggetto di un
decreto di esproprio.
Infatti, l’esistenza di un decreto di esproprio preclude al
proprietario ogni pretesa di carattere risarcitorio e gli
consente di ristorarsi solo mediante l’indennizzo
determinato nelle forme di legge, sindacabile tramite
giudizio di opposizione alla stima, da proporsi dinanzi alla
Corte d’appello competente per territorio.
Presupposto legittimante la domanda di risarcimento del
danno da c.d. occupazione espropriativa è che il bene
irreversibilmente trasformato nell’ambito di una procedura
ablativa non abbia mai costituito oggetto di un decreto di
esproprio.
Infatti, l’esistenza di un decreto di esproprio preclude al
proprietario ogni pretesa di carattere risarcitorio e gli
consente di ristorarsi solo mediante l’indennizzo
determinato nelle forme di legge, sindacabile tramite
giudizio di opposizione alla stima, da proporsi dinanzi alla
Corte d’appello competente per territorio.
Per contro, nella fattispecie in esame risulta che, in
relazione al fondo della ricorrente, il comune di Vallata ha
adottato il decreto di esproprio 14.05.2009 n. 18,
formalmente comunicato il 12.06.2009.
Ciò rende inammissibile il ricorso per risarcimento del
danno.
Né può valere in senso contrario la richiesta,
tuzioristicamente effettuata nelle sole conclusioni del
ricorso, di “previo annullamento del decreto di
espropriazione innanzi analiticamente indicato”.
Tale domanda, infatti, va ritenuta tamquam non esset, in
mancanza dei requisiti essenziali della stessa, in primis la
prospettazione delle specifiche censure di legittimità da
cui l’atto sarebbe affetto (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 11.01.2013 n. 59 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
L’ordinamento
sovranazionale recepito dalla Repubblica, anche a fronte
della sopravvenuta irreversibile trasformazione del suolo
per effetto della realizzazione di un’opera pubblica
astrattamente riconducibile al compendio demaniale
necessario e nonostante l’espressa domanda in tal senso di
parte ricorrente, esclude la possibilità di una condanna
puramente risarcitoria a carico dell’amministrazione, poiché
una tale pronuncia postula l’avvenuto trasferimento della
proprietà del bene, per fatto illecito, dalla sfera
giuridica del ricorrente, originario proprietario, a quella
della P.A. che se ne è illecitamente impossessata; esito,
questo (comunque sia ricostruito in diritto: rinuncia
abdicativa implicita nella domanda solo risarcitoria, ovvero
accessione invertita), vietato dal primo protocollo
addizionale della Convenzione europea dei diritti dell’uomo
e dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti
dell’uomo.
Né la realizzazione dell’opera pubblica può costituire
impedimento alla restituzione dell’area illegittimamente
appresa e ciò indipendentemente dalle modalità -occupazione
acquisitiva od usurpativa- di acquisizione del terreno.
Donde la necessità in ogni caso di un passaggio intermedio
finalizzato all’acquisto della proprietà del bene da parte
dell’ente espropriante.
Nel merito della controversia, occorre muovere dal mancato
perfezionamento della procedura espropriativa nel termine
dato e dall’irreversibile trasformazione dei beni occupati,
denunciata sin dal momento introduttivo del giudizio dinanzi
al giudice ordinario.
Orbene, osserva il collegio che l’ordinamento sovranazionale
recepito dalla Repubblica, anche a fronte della sopravvenuta
irreversibile trasformazione del suolo per effetto della
realizzazione di un’opera pubblica astrattamente
riconducibile al compendio demaniale necessario e nonostante
l’espressa domanda in tal senso di parte ricorrente, esclude
la possibilità di una condanna puramente risarcitoria a
carico dell’amministrazione, poiché una tale pronuncia
postula l’avvenuto trasferimento della proprietà del bene,
per fatto illecito, dalla sfera giuridica del ricorrente,
originario proprietario, a quella della P.A. che se ne è
illecitamente impossessata; esito, questo (comunque sia
ricostruito in diritto: rinuncia abdicativa implicita nella
domanda solo risarcitoria, ovvero accessione invertita),
vietato dal primo protocollo addizionale della Convenzione
europea dei diritti dell’uomo e dalla giurisprudenza della
Corte europea dei diritti dell’uomo (cfr. Cons. Stato, Sez.
IV, 03.10.2012 n. 5189).
Né la realizzazione dell’opera pubblica può costituire
impedimento alla restituzione dell’area illegittimamente
appresa e ciò indipendentemente dalle modalità -occupazione
acquisitiva od usurpativa- di acquisizione del terreno
(cfr. C. cost. 04.10.2010 n. 293; Cons. Stato, Sez. V, 02.11.2011 n. 5844).
Donde la necessità in ogni caso di un passaggio intermedio
finalizzato all’acquisto della proprietà del bene da parte
dell’ente espropriante (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 16.11.2007 n. 5830; TAR Campania, Salerno, Sez. II, 14.01.2011 n. 43).
Tale passaggio, allo stato della legislazione vigente, è
costituito dall’art. 42-bis del T.U. 08.06.2001 n. 327
(rubricato: “utilizzazione senza titolo di un bene per scopi
di interesse pubblico”), introdotto dall’art. 34 del
decreto-legge 06.07.2011 n. 98, che così recita:
“1. Valutati gli interessi in conflitto, l’autorità che
utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico,
modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento
di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può
disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al
suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia
corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e
non patrimoniale, quest’ultimo forfetariamente liquidato
nella misura del dieci per cento del valore venale del bene.
2. Il provvedimento di acquisizione può essere adottato
anche quando sia stato annullato l’atto da cui sia sorto il
vincolo preordinato all’esproprio, l’atto che abbia
dichiarato la pubblica utilità di un’opera o il decreto di
esproprio. Il provvedimento di acquisizione può essere
adottato anche durante la pendenza di un giudizio per
l’annullamento degli atti di cui al primo periodo del
presente comma, se l’amministrazione che ha adottato l’atto
impugnato lo ritira. In tali casi, le somme eventualmente
già erogate al proprietario a titolo di indennizzo,
maggiorate dell’interesse legale, sono detratte da quelle
dovute ai sensi del presente articolo.
3. Salvi i casi in cui la legge disponga altrimenti,
l’indennizzo per il pregiudizio patrimoniale di cui al comma
1 è determinato in misura corrispondente al valore venale
del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e, se
l’occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base
delle disposizioni dell’articolo 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7.
Per il periodo di occupazione senza titolo è computato a
titolo risarcitorio, se dagli atti del procedimento non
risulta la prova di una diversa entità del danno,
l’interesse del cinque per cento annuo sul valore
determinato ai sensi del presente comma.
4. Il provvedimento di acquisizione, recante l’indicazione
delle circostanze che hanno condotto alla indebita
utilizzazione dell’area e se possibile la data dalla quale
essa ha avuto inizio, è specificamente motivato in
riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse
pubblico che ne giustificano l’emanazione, valutate
comparativamente con i contrapposti interessi privati ed
evidenziando l’assenza di ragionevoli alternative alla sua
adozione; nell’atto è liquidato l’indennizzo di cui al comma
1 e ne è disposto il pagamento entro il termine di trenta
giorni. L’atto è notificato al proprietario e comporta il
passaggio del diritto di proprietà sotto condizione
sospensiva del pagamento delle somme dovute ai sensi del
comma 1, ovvero del loro deposito effettuato ai sensi
dell’articolo 20, comma 14; è soggetto a trascrizione presso
la conservatoria dei registri immobiliari a cura
dell’amministrazione procedente ed è trasmesso in copia
all’ufficio istituito ai sensi dell’articolo 14, comma 2.
5 Se le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 4 sono applicate
quando un terreno sia stato utilizzato per finalità di
edilizia residenziale pubblica, agevolata o convenzionata,
ovvero quando si tratta di terreno destinato a essere
attribuito per finalità di interesse pubblico in uso
speciale a soggetti privati, il provvedimento è di
competenza dell’autorità che ha occupato il terreno e la
liquidazione forfetaria dell’indennizzo per il pregiudizio
non patrimoniale è pari al venti per cento del valore venale
del bene.
6. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano,
in quanto compatibili, anche quando è imposta una servitù e
il bene continua a essere utilizzato dal proprietario o dal
titolare di un altro diritto reale; in tal caso l’autorità
amministrativa, con oneri a carico dei soggetti beneficiari,
può procedere all’eventuale acquisizione del diritto di
servitù al patrimonio dei soggetti, privati o pubblici,
titolari di concessioni, autorizzazioni o licenze o che
svolgono servizi di interesse pubblico nei settori dei
trasporti, telecomunicazioni, acqua o energia.
7. L’autorità che emana il provvedimento di acquisizione di
cui al presente articolo né dà comunicazione, entro trenta
giorni, alla Corte dei conti mediante trasmissione di copia
integrale.
8. Le disposizioni del presente articolo trovano altresì
applicazione ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore
ed anche se vi è già stato un provvedimento di acquisizione
successivamente ritirato o annullato, ma deve essere
comunque rinnovata la valutazione di attualità e prevalenza
dell’interesse pubblico a disporre l’acquisizione; in tal
caso, le somme già erogate al proprietario, maggiorate
dell’interesse legale, sono detratte da quelle dovute ai
sensi del presente articolo”.
Ed allora, affinché l’interesse primario della parte lesa
possa essere soddisfatto, deve imporsi all’amministrazione
di rinnovare, entro trenta giorni dalla notificazione della
presente sentenza, la valutazione di attualità e prevalenza
dell’interesse pubblico all’eventuale acquisizione dei fondi
per cui è causa, adottando, all’esito di essa, un
provvedimento col quale gli stessi, in tutto od in parte,
siano alternativamente:
a) acquisiti non retroattivamente al patrimonio
indisponibile comunale;
b) restituiti in tutto od in parte al legittimo proprietario
entro novanta giorni, previo ripristino dello stato di fatto
esistente al momento dell’apprensione.
Nel primo caso, il provvedimento di acquisizione:
- dovrà specificare se interessa l’intero compendio occupato
o solo parte di esso, disponendo la restituzione del fondo
rimanente entro novanta giorni, previo ripristino dello
stato di fatto esistente al momento dell’apprensione;
- dovrà prevedere che, entro il termine di trenta giorni, ai
proprietari in solido sia corrisposto il valore venale del
bene, nonché un indennizzo per il pregiudizio non
patrimoniale, forfetariamente liquidato nella misura del
dieci per cento del medesimo valore venale;
- dovrà recare l’indicazione delle circostanze che hanno
condotto all’indebita utilizzazione dell’area e la data
dalla quale essa ha avuto inizio e dovrà specificamente
motivare sulle attuali ed eccezionali ragioni di interesse
pubblico che ne giustificano l’emanazione, valutate
comparativamente con i contrapposti interessi privati ed
evidenziando l’assenza di ragionevoli alternative alla sua
adozione;
- dovrà essere notificato ai proprietari e comporterà il
passaggio del diritto di proprietà sotto condizione
sospensiva del pagamento delle somme dovute, ovvero del loro
deposito effettuato ai sensi dell’art. 20, comma 14, D.P.R.
08.06.2001 n. 327;
- sarà soggetto a trascrizione presso la conservatoria dei
registri immobiliari a cura dell’amministrazione procedente
e sarà trasmesso in copia all’ufficio istituito ai sensi
dell’art. 14, comma 2, D.P.R. 08.06.2001 n. 327, nonché
comunicato, entro trenta giorni, alla Corte dei conti,
mediante trasmissione di copia integrale.
Resta inteso che i predetti termini, disposti nell’esclusivo
interesse del ricorrente, potranno essere aumentati su
autorizzazione scritta da parte di questi ed inoltre che
tutte le questioni che dovessero insorgere nella fase di
conformazione alla presente decisione potranno formare
oggetto di incidente di esecuzione e risolte, se del caso,
tramite commissario ad acta.
Sia nel caso a) che nel caso b), il provvedimento da
emanarsi dovrà contenere la liquidazione, in favore dei
ricorrenti ed a titolo risarcitorio, di una somma in denaro
pari all’applicazione del saggio di interesse del cinque per
cento annuo sul valore venale dell’intero bene occupato per
tutto il periodo di occupazione senza titolo, che decorre
dalla scadenza del termine finale per l’espropriazione (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 11.01.2013 n. 58 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2012 |
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ESPROPRIAZIONE:
In seno al procedimento
espropriativo, che la mancata impugnazione dell’atto
impositivo del vincolo, come della dichiarazione di pubblica
utilità, preclude la possibilità di farne valere
l’illegittimità derivata in sede di impugnativa del
provvedimento finale o dei successivi atti della sequenza
procedimentale, trattandosi di atti direttamente lesivi.
Nell’ambito del procedimento ablatorio, l’ordinamento
riconosce e valorizza le garanzie partecipative dei
proprietari espropriandi sia in riferimento alla fase
iniziale di apposizione del vincolo, sia a quella di
dichiarazione della pubblica utilità (sia essa esplicita od
implicita) in considerazione dell’ampia discrezionalità di
cui dispone l’Amministrazione nella localizzazione, oltre
che della lesività dell’effetto finale, consistente nella
definitiva privazione del diritto di proprietà.
L’art. 11 del vigente t.u. in materia di espropriazioni per
pubblica utilità, approvato con d.p.r. 08.06.2001 n. 327,
coerentemente del resto con il fondamentale arresto
dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 19.06.1986 n.
6, richiede sia garantita mediante la formale comunicazione
dell'avviso di avvio del procedimento, la possibilità di
interloquire con l'amministrazione procedente sulla
localizzazione dell’opera e, quindi, sull'apposizione del
vincolo, prima della dichiarazione di pubblica utilità,
indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell'approvazione del
progetto definitivo.
---------------
E’ innegabile che parte della giurisprudenza, partendo
dall’espresso riferimento contenuto nel citato art. 22-bis a
“decreto motivato”, opina nel senso della necessità della
sussistenza di una urgenza qualificata, da indicare
adeguatamente in motivazione .
Diversamente, l’orientamento dominante, seppur non pacifico,
invalso presso il Consiglio di Stato, ritiene che in
presenza della preventiva apposizione del vincolo,
unitamente all’approvazione della dichiarazione di pubblica
utilità, l’autorità espropriante ben può immettersi
senz'altro nel possesso dell'area in esecuzione della
suddetta ordinanza, per realizzare le opere per le quali vi
è stata l'approvazione del progetto e lo stanziamento delle
relative risorse, “atteso che nel sistema del testo unico è
divenuta irrilevante una specifica dichiarazione di
indifferibilità ed urgenza, rilevante nel precedente sistema
per ragioni storiche, ma di per sé già sussistente "in re
ipsa”.
Tali considerazioni interpretative sono state più volte
ribadite, confermando che l'ordinanza di occupazione
d'urgenza riguarda una fase puramente attuativa di quella
riguardante la dichiarazione di pubblica utilità,
indifferibilità e urgenza dei lavori, “con la conseguenza
che è sufficiente che la motivazione dell'ordinanza di
occupazione si limiti a richiamare espressamente tale
dichiarazione, che ne costituisce l'unico presupposto e che
consenta di rilevare l'urgenza della realizzazione delle
opere previste nella dichiarazione di pubblica utilità”.
Costituisce principio pacifico, in seno al procedimento
espropriativo, che la mancata impugnazione dell’atto
impositivo del vincolo, come della dichiarazione di pubblica
utilità, preclude la possibilità di farne valere
l’illegittimità derivata in sede di impugnativa del
provvedimento finale o dei successivi atti della sequenza
procedimentale, trattandosi di atti direttamente lesivi (ex multis TAR Piemonte 21.05.2010, n. 2438; Consiglio di
Stato sez. IV 15.05.2008, n. 2246).
La mancata rituale impugnazione del suddetto provvedimento
di vincolo rende pertanto inammissibile il gravame per
difetto di interesse, poiché la ricorrente si duole, sotto
il profilo sostanziale, della illegittimità degli atti
impugnati proprio in relazione alla irragionevolezza e al
difetto di proporzionalità della scelta localizzativa -che
a suo dire avrebbero potuto condurre l’autorità espropriante
ad una diversa scelta del tracciato viario- scelta tuttavia
già espressa stante la perdurante efficacia dell’inoppugnata
deliberazione C.C. n. 112/2002, resa intangibile dalla
mancata tempestiva impugnazione.
Invero, è innegabile che, nell’ambito del procedimento
ablatorio, l’ordinamento riconosce e valorizza le garanzie
partecipative dei proprietari espropriandi sia in
riferimento alla fase iniziale di apposizione del vincolo,
sia a quella di dichiarazione della pubblica utilità (sia
essa esplicita od implicita) in considerazione dell’ampia
discrezionalità di cui dispone l’Amministrazione nella
localizzazione, oltre che della lesività dell’effetto
finale, consistente nella definitiva privazione del diritto
di proprietà (ex multis Consiglio di Stato sez. VI 11.02.2003, n. 736; id. IV 30.07.2002, n. 4077; id. IV 26.09.2001 n. 5070; id. IV 15.04.2008 n. 2249;
id. IV 29.07.2008 n. 3760; TAR Puglia-Bari sez. III
24.06.2010, n. 2665).
L’art. 11 del vigente t.u. in materia di espropriazioni per
pubblica utilità, approvato con d.p.r. 08.06.2001 n. 327,
coerentemente del resto con il fondamentale arresto
dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 19.06.1986
n. 6, richiede sia garantita mediante la formale
comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento, la
possibilità di interloquire con l'amministrazione procedente
sulla localizzazione dell’opera e, quindi, sull'apposizione
del vincolo, prima della dichiarazione di pubblica utilità,
indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell'approvazione del
progetto definitivo (ex multis Consiglio Stato, sez. IV, 29.07.2008, n. 3760).
---------------
Ad avviso della
ricorrente il procedimento di occupazione d’urgenza -speciale e del tutto autonomo rispetto all’ordinario modello
procedimentale ablatorio (Consiglio di Stato sez IV, 08.07.2011, n. 3500; id. IV 30.01.2006 n. 293; TAR
Sicilia Palermo sez. III 08.05.2008, n. 609; TAR
Campania Napoli sez. V 24.01.2008, n. 384)- necessita,
ai sensi del disposto di cui all’art. 22-bis del t.u., di
congrua motivazione circa le specifiche ragioni d’urgenza
qualificata.
E’ innegabile che parte della giurisprudenza, partendo
dall’espresso riferimento contenuto nel citato art. 22-bis a
“decreto motivato” (così come del resto lo stesso art. 15, c.
1-bis, L.R. Puglia 22.02.2005 n. 3), opina nel senso
della necessità della sussistenza di una urgenza
qualificata, da indicare adeguatamente in motivazione (ex plurimis TAR Campania Salerno, sez. II,
07.05.2009,
n. 1829).
Diversamente, l’orientamento dominante, seppur non pacifico,
invalso presso il Consiglio di Stato, ritiene che in
presenza della preventiva apposizione del vincolo,
unitamente all’approvazione della dichiarazione di pubblica
utilità, l’autorità espropriante ben può immettersi
senz'altro nel possesso dell'area in esecuzione della
suddetta ordinanza, per realizzare le opere per le quali vi
è stata l'approvazione del progetto e lo stanziamento delle
relative risorse, “atteso che nel sistema del testo unico è
divenuta irrilevante una specifica dichiarazione di
indifferibilità ed urgenza, rilevante nel precedente sistema
per ragioni storiche, ma di per sé già sussistente "in re ipsa” (Consiglio Stato sez. IV, 29.05.2009, n. 3350; id.
sez IV, 24.12.2009, n. 8756; id. sez. IV, 27.06.2007 n. 3696; così anche TAR Campania Salerno, sez. I, 30.01.2006, n. 23).
Tali considerazioni interpretative sono state più volte
ribadite, confermando che l'ordinanza di occupazione
d'urgenza riguarda una fase puramente attuativa di quella
riguardante la dichiarazione di pubblica utilità,
indifferibilità e urgenza dei lavori, “con la conseguenza
che è sufficiente che la motivazione dell'ordinanza di
occupazione si limiti a richiamare espressamente tale
dichiarazione, che ne costituisce l'unico presupposto e che
consenta di rilevare l'urgenza della realizzazione delle
opere previste nella dichiarazione di pubblica utilità”
(Consiglio di Stato sez IV, 24.12.2009 n. 8756)
(TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 06.12.2012 n. 2064 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
L’A.N.A.S. non è soltanto società concessionaria
del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, ma
soggetto espressamente individuato dal legislatore a
svolgere i compiti e le funzioni di interesse pubblico di
cui all’art. 2, lett. da a) a g), nonché 1), del d.lgs.
26.02.1994, n. 143, ivi compreso il potere di procedere alle
espropriazioni che si rendano necessarie, di tal che la
stessa è pienamente legittimata a delegare, ai sensi
dell’art. 6, comma 8, DPR 327/2001, le funzioni
espropriative a soggetti terzi.
Valga, in proposito, osservare:
a) che l’A.N.A.S. non è soltanto società concessionaria del
Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, ma soggetto
espressamente individuato dal legislatore a svolgere i
compiti e le funzioni di interesse pubblico di cui all’art.
2, lett. da a) a g), nonché 1), del d.lgs. 26.02.1994, n.
143, ivi compreso il potere di procedere alle espropriazioni
che si rendano necessarie, di tal che la stessa è pienamente
legittimata a delegare, ai sensi dell’art. 6, comma 8, DPR
327/2001, le funzioni espropriative a soggetti terzi, cosi
come è avvenuto con la convenzione stipulata con Autostrade
Meridionali spa (cfr., in proposito, TAR Piemonte, Sez. I,
03.05.2010 n. 2286): con il che non hanno ragion d’essere le
ventilate perplessità in ordine alla competenza ad adottare
i provvedimenti impugnati (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 01.10.2012 n. 1764 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
G. G.A. Dato,
Le garanzie nel procedimento di reiterazione dei vincoli
espropriativi -
L’amministrazione nel reiterare i vincoli scaduti deve
accertare che l’interesse pubblico sia ancora attuale
(Diritto e Pratica Amministrativa n. 9/2012). |
ESPROPRIAZIONE: INDENNITA' DI ESPROPRIO.
Nei giudizi aventi ad oggetto la determinazione dell’indennità
di espropriazione, relativi a procedimenti in cui
la dichiarazione di pubblica utilità sia stata emessa prima
del 30.06.2003, data di entrata in vigore del
D.P.R. 08.06.2001 n. 327, una volta venuto meno -a
seguito della sentenza n. 348 del 2007 della Corte
costituzionale- il criterio di indennizzo di cui all’art. 5-bis
D.L. 11.07.1992 n. 333, conv., con modif., nella L. 08.08.1992 n. 359, trova applicazione il criterio del
valore
venale del bene previsto dall’art. 39 L. 25.06.1865 n. 2359, e non si applica l’art. 2, comma 89, lett. a),
L. 24.12.2007 n. 244 che, avendo introdotto modifiche
all’art. 37, commi 1 e 2, D.P.R. 08.06.2001 n.
327, segue la disciplina transitoria prevista dall’art. 57
D.P.R. cit., ed è quindi inapplicabile nei procedimenti
espropriativi in cui la dichiarazione di pubblica utilità
sia
stata emessa prima del 30.06.2003, mentre la norma
intertemporale di cui all’art. 2, comma 90, L. n. 244
cit. prevede la retroattività della nuova disciplina di
determinazione
dell’indennità espropriativa solo per i procedimenti
espropriativi in corso, e non anche per i giudizi.
La sentenza in rassegna, occupandosi della controversia
insorta
in ordine alla determinazione dell’indennità d’esproprio
di un fondo, avente in parte destinazione edificabile e in
parte
destinazione non edificabile, si è collocata, con
riferimento
alla prima, nel solco dell’orientamento espresso da Cass.
n. 11480 del 2008, n. 28341 del 2008 e n. 13479 del 2012, a
mente del quale nei giudizi aventi ad oggetto la
determinazione
dell’indennità di espropriazione, relativi a procedimenti
in cui la dichiarazione di pubblica utilità sia stata
emessa prima
del 30.06.2003, data di entrata in vigore del D.P.R. 08.06.2001 n. 327, una volta venuto meno -a seguito della
sentenza n. 348 del 2007 della Corte costituzionale- il
criterio
di indennizzo di cui all’art. 5-bis D.L. 11.07.1992 n.
333, conv., con modif., nella L. 08.08.1992 n. 359, trova
applicazione il criterio del valore venale del bene previsto
dall’art. 39 L. 25.06.1865 n. 2359, e non si applica
l’art.
2, comma 89, lett. a), L. 24.12.2007 n. 244 che,
avendo
introdotto modifiche all’art. 37, commi 1 e 2, D.P.R. 08.06.2001 n. 327, segue la disciplina transitoria prevista
dall’art. 57 D.P.R. cit., ed è quindi inapplicabile nei
procedimenti
espropriativi in cui la dichiarazione di pubblica utilità
sia stata emessa prima del 30.06.2003, mentre la norma
intertemporale di cui all’art. 2, comma 90, L. n. 244 cit.
prevede la retroattività della nuova disciplina di
determinazione
dell’indennità espropriativa solo per i procedimenti
espropriativi
in corso, e non anche per i giudizi.
Con riferimento alla parte di suolo non edificabile, la
Corte è
giunta alla stessa conclusione, valorizzando l’orientamento
confermato da Cass. n. 2998 del 2012, secondo il quale,
qualora l’espropriato contesti, seppur limitatamente al
presupposto
della natura agricola o non edificatoria del terreno,
la stima operata dalla corte di appello con il criterio del
VAM
(valore agricolo medio) previsto dagli artt. 16 della L. n.
865
del 1971 e 5-bis, comma 4, della L. n. 359 del 1992 e
dichiarato
incostituzionale dalla sopravvenuta sentenza della Corte
costituzionale n. 181 del 2011, la stima dell’indennità dev’essere
effettuata applicando il criterio generale del valore venale
pieno, potendo l’interessato anche dimostrare che il
fondo è suscettibile di uno sfruttamento ulteriore e
diverso
da quello agricolo, pur senza raggiungere il livello dell’edificatorietà
e che, quindi, ha una valutazione di mercato che rispecchia
possibilità di utilizzazione intermedie tra l’agricola e
l’edificatoria (ad esempio, parcheggi, depositi, attività
sportive
e ricreative, chioschi per la vendita di prodotti) (Corte
di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 21.09.2012 n.
16103 - tratto
da Urbanistica e appalti n. 12/2012). |
ESPROPRIAZIONE:
La dichiarazione di pubblica utilità priva di
termini iniziali e finali per l'avvio e compimento dei
lavori e delle occupazioni è da ritenere radicalmente nulla,
onde l'occupazione costituisce mero comportamento materiale
in nessun modo ricollegabile ad un esercizio abusivo dei
poteri della Pubblica amministrazione; di conseguenza spetta
al giudice ordinario la giurisdizione sulla domanda
risarcitoria proposta dal privato perché in tal caso essa è
da ritenere emessa in carenza ovvero in difetto assoluto di
attribuzione del potere stesso, che comporta nullità del
provvedimento dichiarativo della pubblica utilità e degli
atti conseguenti della procedura ablatoria.
---------------
Prima dell’entrata in vigore del T.U. sulle espropriazioni
non esisteva alcuna norma che consentisse alla PA, in caso
di illegittimità della procedura espropriativa e di
realizzazione dell’opera pubblica, di evitare la
restituzione dell’area.
L’istituto giurisprudenziale dell’accessione avvertita,
creato dalla Cassazione per colmare tale lacuna
nell’ordinamento giuridico allora vigente, non può più
essere condiviso, per contrasto con il principio di
legalità, come ripetutamente affermato anche dalla Corte
CEDU in numerose sentenze, tra le quali la n. 36813/1597 del
2006 (Scordino c. Italia) non potendo la giurisprudenza
consentire l’acquisto della proprietà sulla base di un fatto
illecito.
In ogni caso, l’accertamento dell’irreversibile
trasformazione del suolo e della perdita del diritto di
proprietà privata in favore della PA, dovrebbe essere
riservato al Giudice e non certo alla pubblica
amministrazione, alla quale non è mai stato attribuito né
dalla legge, né tanto meno dalla giurisprudenza, tale,
inesistente, potere.
---------------
L'intervenuta realizzazione dell'opera pubblica non fa
venire meno l'obbligo dell'amministrazione di restituire al
privato il bene illegittimamente appreso. Ciò sulla base di
un superamento dell'interpretazione, prima richiamata, che
riconnetteva alla costruzione dell'opera pubblica e
all'irreversibile trasformazione del suolo effetti
preclusivi o limitativi della tutela in forma specifica del
privato.
Partendo dall'esame della giurisprudenza della Corte Europea
dei diritti dell'uomo, il Consiglio di Stato ha ritenuto che
il quadro normativo e giurisprudenziale nazionale previgente
non fosse aderente alla Convenzione europea e, in
particolare, al Protocollo addizionale n. 1. La Corte aveva
ritenuto che la realizzazione dell'opera pubblica non fosse
di impedimento alla restituzione dell'area illegittimamente
espropriata, e ciò indipendentemente dalle modalità
-occupazione acquisitiva o usurpativa- di acquisizione del
terreno. Per tali ragioni, il proprietario del fondo
illegittimamente occupato dall'amministrazione, ottenuta la
declaratoria di illegittimità dell'occupazione e
l'annullamento dei relativi provvedimenti, può
legittimamente domandare sia il risarcimento, sia la
restituzione del fondo e la sua riduzione in pristino.
La realizzazione dell'opera pubblica sul fondo
illegittimamente occupato è, dunque, in sé un mero fatto,
non in grado di assurgere a titolo dell'acquisto, come tale
inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà, per
cui solo il formale atto di acquisizione
dell'amministrazione può essere in grado di limitare il
diritto alla restituzione, non potendo rinvenirsi atti
estintivi (rinunziativi o abdicativi, che dir si voglia)
della proprietà in altri comportamenti, fatti o contegni.
---------------
Nessun risarcimento è dovuto per il periodo di occupazione
legittima del suolo, in quanto, sebbene il procedimento
espropriativo non sia stato definito nel termine previsto,
la fase relativa all'occupazione risulta legittima ed
efficace sino alla scadenza del termine previsto nei singoli
decreti di occupazione; infatti l'iniziale occupazione,
qualora non siano stati annullati tutti gli atti a decorrere
dalla dichiarazione di pubblica utilità, diviene illegittima
solo dopo la scadenza del proprio termine di efficacia ed in
ragione di ulteriori vizi del procedimento, normalmente
collegati alla mancata tempestiva emanazione del decreto di
esproprio; ne consegue che per il periodo di occupazione
legittima spetta al ricorrente, non il risarcimento del
danno, ma l'ordinaria tutela indennitaria, su cui, peraltro,
sussiste la giurisdizione del giudice ordinario, confermata
dall'art. 53, comma 2, t.u. 08.06.2001 n. 327.
Come ritenuto da recente e condivisibile giurisprudenza, la dichiarazione
di pubblica utilità priva di termini iniziali e finali per
l'avvio e compimento dei lavori e delle occupazioni è da
ritenere radicalmente nulla, onde l'occupazione costituisce
mero comportamento materiale in nessun modo ricollegabile ad
un esercizio abusivo dei poteri della Pubblica
amministrazione; di conseguenza spetta al giudice ordinario
la giurisdizione sulla domanda risarcitoria proposta dal
privato perché in tal caso essa è da ritenere emessa in
carenza ovvero in difetto assoluto di attribuzione del
potere stesso, che comporta nullità del provvedimento
dichiarativo della pubblica utilità e degli atti conseguenti
della procedura ablatoria (Consiglio di Stato sez. IV, 28.02.2012, n. 1133).
---------------
Prima dell’entrata in
vigore del T.U. sulle espropriazioni (DPR 327 del 2001, il
cui termine di entrata in vigore è stato prorogato prima al
30.06.2002, dall'art. 5, D.L. 23.11.2001, n. 411,
poi al 31.12.2002 dall'art. 5, comma 3, L. 01.08.2002, n. 166 e successivamente ulteriormente prorogato al 30.06.2003 dall'art. 3, D.L. 20.06.2002, n. 122, nel
testo modificato dalla relativa legge di conversione) non
esisteva alcuna norma che consentisse alla PA, in caso di
illegittimità della procedura espropriativa e di
realizzazione dell’opera pubblica, di evitare la
restituzione dell’area (Consiglio di Stato, Ad. Plen. N. 2
del 2005).
L’istituto giurisprudenziale dell’accessione avvertita,
creato dalla Cassazione per colmare tale lacuna
nell’ordinamento giuridico allora vigente, non può più
essere condiviso, per contrasto con il principio di
legalità, come ripetutamente affermato anche dalla Corte
CEDU in numerose sentenze, tra le quali la n. 36813/1597 del
2006 (Scordino c. Italia) non potendo la giurisprudenza
consentire l’acquisto della proprietà sulla base di un fatto
illecito.
In ogni caso, anche secondo l’orientamento giurisprudenziale
richiamato, l’accertamento dell’irreversibile trasformazione
del suolo e della perdita del diritto di proprietà privata
in favore della PA, dovrebbe essere riservato al Giudice e
non certo alla pubblica amministrazione, alla quale non è
mai stato attribuito né dalla legge, né tanto meno dalla
giurisprudenza, tale, inesistente, potere.
---------------
Deve premettersi che la
giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, sez. IV,
02.09.2011, n. 4970) ha più volte chiarito che
l'intervenuta realizzazione dell'opera pubblica non fa
venire meno l'obbligo dell'amministrazione di restituire al
privato il bene illegittimamente appreso. Ciò sulla base di
un superamento dell'interpretazione, prima richiamata, che
riconnetteva alla costruzione dell'opera pubblica e
all'irreversibile trasformazione del suolo effetti
preclusivi o limitativi della tutela in forma specifica del
privato.
Partendo dall'esame della giurisprudenza della Corte Europea
dei diritti dell'uomo, il Consiglio di Stato ha ritenuto che
il quadro normativo e giurisprudenziale nazionale previgente
non fosse aderente alla Convenzione europea e, in
particolare, al Protocollo addizionale n. 1 (sentenza 30.05.2000, ric. 31524/96, Società Belvedere Alberghiera).
Nella sentenza citata, la Corte aveva ritenuto che la
realizzazione dell'opera pubblica non fosse di impedimento
alla restituzione dell'area illegittimamente espropriata, e
ciò indipendentemente dalle modalità -occupazione
acquisitiva o usurpativa- di acquisizione del terreno. Per
tali ragioni, il proprietario del fondo illegittimamente
occupato dall'amministrazione, ottenuta la declaratoria di
illegittimità dell'occupazione e l'annullamento dei relativi
provvedimenti, può legittimamente domandare sia il
risarcimento, sia la restituzione del fondo e la sua
riduzione in pristino.
La realizzazione dell'opera pubblica sul fondo
illegittimamente occupato è, dunque, in sé un mero fatto,
non in grado di assurgere a titolo dell'acquisto, come tale
inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà, per
cui solo il formale atto di acquisizione
dell'amministrazione può essere in grado di limitare il
diritto alla restituzione, non potendo rinvenirsi atti
estintivi (rinunziativi o abdicativi, che dir si voglia)
della proprietà in altri comportamenti, fatti o contegni.
---------------
Nessun risarcimento,
infatti, è dovuto per il periodo di occupazione legittima
del suolo, in quanto, sebbene il procedimento espropriativo
non sia stato definito nel termine previsto, la fase
relativa all'occupazione risulta legittima ed efficace sino
alla scadenza del termine previsto nei singoli decreti di
occupazione; infatti l'iniziale occupazione, qualora non
siano stati annullati tutti gli atti a decorrere dalla
dichiarazione di pubblica utilità, diviene illegittima solo
dopo la scadenza del proprio termine di efficacia ed in
ragione di ulteriori vizi del procedimento, normalmente
collegati alla mancata tempestiva emanazione del decreto di
esproprio (TAR Catania Sicilia sez. II, 28.05.2012,
n. 1350); ne consegue che per il periodo di occupazione
legittima spetta al ricorrente, non il risarcimento del
danno, ma l'ordinaria tutela indennitaria, su cui, peraltro,
sussiste la giurisdizione del giudice ordinario, confermata
dall'art. 53, comma 2, t.u. 08.06.2001 n. 327 (TAR
Catanzaro , sez. II, 01.02.2012, n. 132)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 10.09.2012 n. 923 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Ai fini delle procedure espropriative,
l'Amministrazione non è tenuta ad alcuna indagine ulteriore
finalizzata ad accertare l'identità di coloro che sono
effettivamente proprietari dei terreni, ma deve limitarsi a
prendere in considerazione quanto viene indicato nei
registri catastali, senza che per ciò risulti compromessa la
legittimità della procedura.
Il principio, invero pacifico, trova oggi conferma nell'art.
3 del D.P.R. n. 327 del 2001. Il soggetto passivo della
procedura è sempre l'intestatario catastale del bene, in
quanto la necessità di provvedere celermente
all'approvazione del progetto ed all'acquisizione dell'area
mal si concilia con le indagini sulla proprietà effettiva, e
ciò tanto più vale quando si rendano necessari complessi
accertamenti sulla successione ereditaria, come nella
fattispecie.
Dispone in proposito l’art. 3, comma 2, del TU
espropriazioni, che «Tutti gli atti della procedura
espropriativa, ivi incluse le comunicazioni ed il decreto di
esproprio, sono disposti nei confronti del soggetto che
risulti proprietario secondo i registri catastali, salvo che
l'autorità espropriante non abbia tempestiva notizia
dell'eventuale diverso proprietario effettivo…»; l’art. 25,
comma 2, dello stesso TU dispone poi che «Le azioni reali e
personali esperibili sul bene espropriando non incidono sul
procedimento espropriativo e sugli effetti del decreto di
esproprio…».
Sul punto, condivisibilmente, la giurisprudenza
amministrativa ha avuto modo di affermare che
«…L'Amministrazione non è infatti tenuta ad alcuna indagine
ulteriore finalizzata ad accertare l'identità di coloro che
sono effettivamente proprietari dei terreni, ma deve
limitarsi a prendere in considerazione quanto viene indicato
nei registri catastali, senza che per ciò risulti
compromessa la legittimità della procedura (si veda, tra
molte, Cons. Stato, sez. V, 10.07.2000, n. 3850; Id.,
sez. IV, 28.02.2002, n. 1200; Id., sez. IV, 30.11.2006, n.
7014). Il principio, invero pacifico, trova oggi conferma
nell'art. 3 del D.P.R. n. 327 del 2001. Il soggetto passivo
della procedura è sempre l'intestatario catastale del bene,
in quanto la necessità di provvedere celermente
all'approvazione del progetto ed all'acquisizione dell'area
mal si concilia con le indagini sulla proprietà effettiva, e
ciò tanto più vale quando si rendano necessari complessi
accertamenti sulla successione ereditaria, come nella
fattispecie…» (TAR Puglia–Bari, Sez. I, 05.04.2011, n.
548; sul punto, anche Cass. civ. Sez. I, 06.07.2012, n.
11407) (TAR Sicilia-Catania, Sez. II,
sentenza 05.09.2012 n. 2099 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Occupazione usurpativa e azione
restitutoria.
In tema di occupazione usurpativa, qualora il proprietario
del bene illecitamente occupato domandi la restituzione,
ancorché accompagnata dalla richiesta di riduzione
in pristino, non sono predicabili i limiti intrinseci alla
disciplina risarcitoria, come l’eccessiva onerosità
prevista
dall’art. 2058, comma 2, c.c.; né può farsi ricorso alla
previsione del comma 2 dell’art. 2933 c.c., ove non risulti
che la distruzione della res indebitamente edificata sia
di pregiudizio all’intera economia del Paese, ma abbia,
al contrario, riflessi di natura individuale o locale.
La proprietaria di un immobile aveva convenuto in giudizio
dinanzi al tribunale l’Amministrazione comunale e, premesso:
- che era stata disposta e realizzata l’occupazione di un bene
di sua proprietà, costituito da un terreno con sovrastante
fabbricato, successivamente sottoposto ad irreversibile
trasformazione,
mediante demolizione della costruzione per la
realizzazione di una strada di accesso alla piazza destinata
allo
svolgimento del mercato settimanale;
- che il procedimento
era illegittimo per assenza, nella relativa delibera, dei
termini
iniziali e finali dell’espropriazione e di inizio e fine dei
lavori,
chiedeva, in via principale, la rimessione in pristino dei
luoghi
di sua proprietà e, in via subordinata, il risarcimento dei
danni.
Il tribunale adito, dato atto dell’illegittimità
dell’occupazione,
posta in essere in carenza di una valida dichiarazione di
pubblica utilità, nonché dell’intervenuta manipolazione
irreversibile
del fondo dell’attrice, aveva ritenuto che all’accoglimento
della domanda di riduzione in pristino era ostativo il
pregiudizio
che dal suo accoglimento sarebbe derivato all’economia
nazionale, con conseguente applicabilità della disposizione
contenuta nell’art. 2933, comma, 2, c.c. Esso aveva
accolto la domanda di risarcimento per equivalente,
determinandosi
in euro 20.508,50 l’importo a tale titolo dovuto all’attrice
al cui pagamento, oltre alle spese di lite nella misura di
due terzi veniva condannato, in favore della stessa, il
Comune
convenuto.
La Corte di appello, pronunciando sugli appelli proposti in
via
principale dall’attrice, la quale si doleva principalmente
del
mancato accoglimento della domanda di riduzione in pristino
dei luoghi, nonché dal Comune, che contestava l’entità
della
somma attribuita a titolo di risarcimento del danno,
ritenuta
incongrua per eccesso, aveva dichiarati non dovuti gli
interessi
anatocistici attribuiti con la sentenza di primo grado,
rilevando
la riferibilità dell’art. 1283 c.c. alle sole obbligazioni
pecuniarie.
La S.C. ha accolto il ricorso proposto dalla proprietaria,
iniziando
col ricordare che, con la prima decisione che ha definito
in maniera chiara i contorni della figura dell’occupazione
usurpativa (Cass. 18.02.2000, n. 1814), la stessa
Corte,
ripercorrendo le tappe del percorso giurisprudenziale
inerente
alla cd. occupazione espropriativa, ha posto in evidenza
l’esigenza di approfondire i meccanismi di tutela del
proprietario
nell’ipotesi in cui non sussista, come avviene nella
fattispecie testé richiamata, una valida dichiarazione di
pubblica
utilità.
Movendo da precedenti arresti (fra i quali Cass.,
Sez. Un., 04.03.1997, n. 1907), nei quali si era affermata
la possibilità per il proprietario di optare, anziché per
la tutela
restitutoria, per quella risarcitoria, si è pervenuti alla
conclusione,
che «nell’occupazione che, per convenzione, potremmo
definire usurpativa, il giudice si occupa della domanda
risarcitoria
del proprietario sotto l’aspetto delle non consentite
trasformazioni che l’occupante abusivo abbia apportato al
fondo. Ma l’acquisizione del bene alla mano pubblica resta
estranea alla fattispecie, e dipendendo da una scelta del
proprietario
usurpato, è inquadrabile in una vicenda logicamente
e temporalmente successiva alla definitiva trasformazione
del fondo, e se può ipotizzarsi un modo di acquisto della
proprietà
a titolo originario, esso non ha carattere accessivo
(artt. 934 c.c.), ma semmai occupatorio in relazione ad un
bene che è un novum nella realtà giuridica (in analogia
all’art.
942 c.c.), ove non rileva la destinazione a soddisfare una
pubblica utilità giacché qui neppure può porsi questione
di
bilanciamento di interessi».
L’occupazione sine titulo del fondo, in altri termini, non
può
comportare, soprattutto in assenza di una scelta abdicativa
del proprietario (sulla cui conformità ai principi della
CEDU
cfr. la recente Cass. 19.10.2011, n. 21639), la perdita
della proprietà del fondo da parte del soggetto che subisce
l’occupazione, con la conseguenza che «l’assenza
dell’indefettibile
presupposto del riconoscimento, da parte degli organi
competenti, della pubblica utilità dell’opera comporta
che il privato, durante l’illegittima occupazione, possa
fruire
dei rimedi reipersecutori a tutela della non perduta
proprietà» (Cass. n. 1814/2000 cit.).
La Corte ha, pertanto, sottolineato, anche sulla base dei
criteri
testé richiamati (per altro costantemente ribaditi ed
applicati
con sempre maggiore rigore, anche nell’occupazione
cd. espropriativa: cfr. Cass., Sez. Un., 31.05.2011, n.
11963, in merito alla possibilità di chiedere la
restituzione
della porzione del bene originariamente occupata e non
oggetto
di irreversibile trasformazione), che il principio di
effettività
della tutela del diritto del proprietario, essendo
insussistente
la dichiarazione di pubblica utilità, non possa soffrire
di alcuna limitazione. In particolare, non può escludersi
la tutela
reale, soprattutto quando manchi, da parte del titolare
del diritto, qualsiasi atto abdicativo, ancorché implicito,
mentre
al contrario, come nella fattispecie in esame, venga
espressamente esercitata l’azione restitutoria.
Tale
conclusione,
del resto, è conforme ai principi affermati, in più
occasioni,
dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la quale (a
partire dalla nota decisione Belvedere Alberghiera c/Stato
It. del 30.05.2000, proprio in tema di occupazione
usurpativa)
ha escluso che l’autorità pubblica possa acquisire la
proprietà di beni privati nel disprezzo delle regole
formali previste
per l’espropriazione, e senza che assuma immediata rilevanza
il fine di pubblica utilità (cfr. anche Cass. 11.06.2006, n. 11096, nella cui motivazione si esamina la
compatibilità
dell’occupazione espropriativa e, per quanto qui interessa,
di quella usurpativa, con i principi affermati dalla Cedu
con le note decisioni Belvedere Alberghiera e Carbonara e
Ventura).
Nell’ambito dell’invocata tutela di natura reale non possono
trovare applicazione le disposizioni contenute negli artt.
2933, comma 2, e 2058, comma 2, c.c.
Quanto al primo articolo, la sentenza impugnata aveva
affermato
l’applicabilità della disposizione contenuta nell’art.
2933, comma 2, c.c., già ritenuta operante in primo grado
ai
fini della verifica della fondatezza della domanda di
riduzione
in pristino, ritenendo, senza altro aggiungere, che il suo
accoglimento
«risulterebbe di pregiudizio all’economia nazionale»; a prescindere dalla riferibilità della norma in
questione
agli obblighi di non fare (e quindi, ai soli aspetti che
riguardano
la manipolazione del bene e non l’azione restitutoria), la
S.C. ha rilevato che non era dato di comprendere quale
legame
possa sussistere fra la celebrazione del mercatino
settimanale
del Comune e le sorti dell’economia di un intero
Paese: la giurisprudenza formatasi in relazione alla norma
teste richiamata è costantemente orientata nel ritenere che la
stessa debba essere interpretata in senso restrittivo,
riferendosi
alle cose insostituibili ovvero di eccezionale importanza
per l’economia nazionale, con conseguente inapplicablità
qualora il pregiudizio riguardi interessi individuali e
locali
(Cass. 17.02.2004, n. 3004; Cass. 25.05.2012, n.
8358).
Quanto al secondo riferimento normativo, la giurisprudenza
di legittimità ha avuto modo di affermare che la tutela
riservata
ai diritti reali non consente l’applicabilità dell’art.
2058
c.c. nel caso di azioni volte, appunto, a far valere uno di
tali
diritti, atteso il carattere assoluto degli stessi (Cass.,
Sez.
Un., 10.05.1995, n. 5113; Cass. 29.10.1997, n.
10694; Cass. 18.08.2003, n. 11744; Cass. 16.01.2007, n. 866), salvo che sia la stessa parte danneggiata a
chiedere la condanna per equivalente. Non potendosi omettere
di rilevare che non possono ritenersi applicabili i limiti
inerenti alla regolamentazione del risarcimento del danno
alla
tutela reale, che, oltre a trovare la propria disciplina
specifica
negli artt. 948 e 949 c.c., «esige la rimozione del fatto
lesivo» (Cass. 04.11.1993, n. 10932), la Corte di
Cassazione
ha richiamato il dibattito culturale che la dottrina negli
ultimi tempi ha dedicato al tema della collocazione o meno
della reintegrazione in forma specifica nell’area come
modalità
del risarcimento del danno, ovvero come tutela del tutto
autonoma e da esso distinta.
La prima soluzione,
maggiormente
condivisa, appare preferibile, anche sulla scorta
degli argomenti fondati sulla collocazione della norma,
sulla
sua portata letterale e su una nozione di danno ampia, ossia
non riferibile al solo nocumento di natura patrimoniale, ma
anche all’alterazione, sul piano fenomenico, come
conseguenza
dell’atto illecito, dell’integrità e della consistenza del
bene.
Se dunque, la disciplina complessivamente dettata
dall’art. 2058 c.c. appartiene alla materia del risarcimento
del
danno, erroneamente essa è applicata quando venga
esercitata,
come nel caso, la tutela restitutoria (cfr., in tal senso,
anche, in motivazione, Cons. Stato, Ad. Plen., 29.04.2005, n. 2)
(Corte di
Cassazione, Sez. I civile, sentenza 23.08.2012 n. 14609
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 10/2012). |
ESPROPRIAZIONE: Secondo
una giurisprudenza risalente, nel
caso di irreversibile utilizzazione del
suolo per finalità pubbliche avvenuta, come
pacificamente nella specie, in pendenza
della occupazione legittima (non seguita da
rituale e tempestiva espropriazione) il
dato temporale di riferimento, per la
collocazione dell'effetto appropriativo e
per la conseguente determinazione del valore
del bene ai fini risarcitori della
correlativa perdita da parte del
proprietario, è non già legato al momento
della irreversibile trasformazione
dell'immobile sebbene a quello successivo di
scadenza del termine di occupazione
legittima.
L’altro orientamento, di più recente
emersione, sostiene che la permanenza della
situazione di abusiva occupazione impedisce
di determinare puntualmente il dies a quo di
un’eventuale prescrizione. Tale termine
inizierà a decorrere a seguito dell’adozione
di un formale provvedimento espropriativo o
di specifico accordo traslativo o di
apposita acquisizione sanante. Nel caso di
specie, non essendo intervenuto nessuno di
questi tre atti, il termine di prescrizione
non è iniziato a decorrere.
---------------
La realizzazione dell'opera pubblica sul
fondo illegittimamente occupato è in sé un
mero fatto, non in grado di assurgere a
titolo dell'acquisto, come tale inidoneo a
determinare il trasferimento della
proprietà, per cui solo il formale atto di
acquisizione dell'amministrazione può essere
in grado di limitare il diritto alla
restituzione, non potendo rinvenirsi atti
estintivi (rinunziativi o abdicativi, che
dir si voglia) della proprietà in altri
comportamenti, fatti o contegni.
A tale riguardo la giurisprudenza ha
affermato che il proprietario del fondo
illegittimamente occupato, ottenuta la
declaratoria di illegittimità
dell'occupazione e l'annullamento dei
relativi provvedimenti, può legittimamente
domandare sia il risarcimento, sia la
restituzione, previa riduzione in pristino,
e che solo il formale atto di acquisizione
dell'amministrazione, ora ai sensi dell'art.
42-bis D.P.R. 327/2001, può limitarne il
diritto alla restituzione, non potendo
rinvenirsi atti estintivi della proprietà in
altri comportamenti, fatti o contegni.
Detta disposizione, sul presupposto che la
perdita della proprietà non possa collegarsi
se non ad un atto di natura contrattuale o
autoritativa, attribuisce
all'Amministrazione, qualora si sia
verificata una sostanziale perdita della
disponibilità del bene in capo al privato,
il potere di acquisire la proprietà
dell'area con un atto formale di natura
ablatoria e discrezionale (in sostanziale
sanatoria), al termine del procedimento
legale nel corso del quale vanno
motivatamente valutati gli interessi in
conflitto.
Nel caso in esame, il Comune non ha ritenuto
di acquisire la proprietà dell’area
illegittimamente trasformata mediante
formale atto di acquisizione sanante a mente
del citato art. 42-bis D.P.R. 327/2001.
In conclusione, affinché possa perfezionarsi
il trasferimento della proprietà del fondo
occupato sine titulo, su cui è stata
realizzata un'opera pubblica, e che
costituisce la sola condizione legittimante
la mancata restituzione, è necessario che
l'Amministrazione si avvalga dell'art.
42-bis del T.U.E., fatto sempre salvo il
ricorso alternativo ai possibili strumenti
di natura privatistica, come la stipula di
un contratto di acquisto avente anche
funzione transattiva, ovvero con la
riattivazione del procedimento espropriativo
in sanatoria con le relative garanzie
Sulla decorrenza del termine prescrizionale
del diritto al risarcimento del danno da
occupazione sine titulo, si registrano
sostanzialmente due orientamenti assunti
dalla giurisprudenza amministrativa, la cui
applicazione, nel caso di specie, esclude la
prescrizione dell’azione risarcitoria.
Secondo una giurisprudenza risalente “-nel
caso di irreversibile utilizzazione del
suolo per finalità pubbliche avvenuta, come
pacificamente nella specie, in pendenza
della occupazione legittima (non seguita da
rituale e tempestiva espropriazione)- il
dato temporale di riferimento, per la
collocazione dell'effetto appropriativo e
per la conseguente determinazione del valore
del bene ai fini risarcitori della
correlativa perdita da parte del
proprietario, è non già legato al momento
della irreversibile trasformazione
dell'immobile sebbene a quello successivo di
scadenza del termine di occupazione
legittima” (Cons. stato sez. IV 26.09.2008 n. 4660; Cons. Stato 10.11.2003
n. 7135; Cass. n. 6825/1994).
Nel caso di specie l’irreversibile
trasformazione del fondo deve presumersi
avvenuta in data 24.06.1997, per quanto
emerge dal certificato di ultimazione dei
lavori dell’impresa Spizzirri con cui si
attestava la realizzazione delle opere di
urbanizzazione primaria stradale e
dell’impianto sportivo in via Sicilia e via
Montevideo. Orbene tale ultimazione si
colloca durante il periodo di occupazione
legittima del bene, avvenuta con decreto di
urgenza del 15.04.1996 e avente durata di
cinque anni. Il dies a quo del termine di
prescrizione, dunque, ha inizio con la
scadenza del termine di occupazione
legittima ovvero il 15.04.2001, mentre
l’atto di citazione è stato notificato in
data 26.11.2004, quindi, entro il
termine quinquennale di prescrizione.
L’altro orientamento, di più recente
emersione, sostiene che la permanenza della
situazione di abusiva occupazione impedisce
di determinare puntualmente il dies a quo
di un’eventuale prescrizione. Tale termine
inizierà a decorrere a seguito dell’adozione
di un formale provvedimento espropriativo o
di specifico accordo traslativo o di
apposita acquisizione sanante (C.G.A.
20.11.2008 n. 946; Cons. Stato sez IV n.
258272007). Nel caso di specie, non essendo
intervenuto nessuno di questi tre atti, il
termine di prescrizione non è iniziato a
decorrere.
---------------
Occorre
innanzitutto premettere che la realizzazione
dell'opera pubblica sul fondo
illegittimamente occupato è in sé un mero
fatto, non in grado di assurgere a titolo
dell'acquisto, come tale inidoneo a
determinare il trasferimento della
proprietà, per cui solo il formale atto di
acquisizione dell'amministrazione può essere
in grado di limitare il diritto alla
restituzione, non potendo rinvenirsi atti
estintivi (rinunziativi o abdicativi, che
dir si voglia) della proprietà in altri
comportamenti, fatti o contegni.
A tale
riguardo la giurisprudenza, dalla quale il
Collegio non ha ragione di discostarsi, ha
affermato che il proprietario del fondo
illegittimamente occupato, ottenuta la
declaratoria di illegittimità
dell'occupazione e l'annullamento dei
relativi provvedimenti, può legittimamente
domandare sia il risarcimento, sia la
restituzione, previa riduzione in pristino,
e che solo il formale atto di acquisizione
dell'amministrazione, ora ai sensi dell'art.
42-bis D.P.R. 327/2001, può limitarne il
diritto alla restituzione, non potendo
rinvenirsi atti estintivi della proprietà in
altri comportamenti, fatti o contegni (Cons.
Stato sez. IV 4833/2011).
Detta disposizione, sul presupposto che la
perdita della proprietà non possa collegarsi
se non ad un atto di natura contrattuale o
autoritativa, attribuisce
all'Amministrazione, qualora si sia
verificata una sostanziale perdita della
disponibilità del bene in capo al privato,
il potere di acquisire la proprietà
dell'area con un atto formale di natura
ablatoria e discrezionale (in sostanziale
sanatoria), al termine del procedimento
legale nel corso del quale vanno
motivatamente valutati gli interessi in
conflitto.
Nel caso in esame, il Comune di Cosenza non
ha ritenuto di acquisire la proprietà
dell’area illegittimamente trasformata
mediante formale atto di acquisizione
sanante a mente del citato art. 42-bis
D.P.R. 327/2001.
In conclusione, affinché possa perfezionarsi
il trasferimento della proprietà del fondo
occupato sine titulo, su cui è stata
realizzata un'opera pubblica, e che
costituisce la sola condizione legittimante
la mancata restituzione, è necessario che
l'Amministrazione si avvalga dell'art.
42-bis del T.U.E., fatto sempre salvo il
ricorso alternativo ai possibili strumenti
di natura privatistica, come la stipula di
un contratto di acquisto avente anche
funzione transattiva, ovvero con la
riattivazione del procedimento espropriativo
in sanatoria con le relative garanzie (Cons.
Stato, sez. V 31.10.2011 n. 5813)
(TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 03.08.2012 n. 857 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: La
proroga dei termini previsti dall'art. 13 l.
n. 2359 del 1865 è considerata istituto di
carattere eccezionale finalizzato ad evitare
di mantenere i beni espropriabili in stato
di soggezione a tempo indeterminato e a
tutelare l'interesse pubblico a che l'opera
venga eseguita in un congruo arco di tempo,
tale da giustificare le ragioni di serietà
dell'azione amministrativa.
Da tale pacifica affermazione
discende primariamente la conseguenza della
necessaria individuazione di cause di forza
maggiore indipendenti dalla volontà dei
concessionari che giustifichino la proroga
ed in assenza delle quali deve ritenersi
vulnerato il principio di legalità che
informa l'attività dell'amministrazione
nella materia dell'espropriazione per
pubblica utilità.
---------------
L'obbligo di motivazione del provvedimento
di proroga del termine per la conclusione
della procedura espropriativa risulta
adeguatamente assolto con il richiamo al
ritardo degli organi pubblici preposti nella
definizione delle procedure di esproprio,
che costituisce fatto estraneo alla sfera di
disponibilità dell'ente concessionario dei
lavori e, quindi, riconducibile nei
presupposti per l'adozione dell'atto di
proroga del termine quali identificati
dall'art. 13 l. n. 2359 del 1865.
La normativa di
riferimento, costituita dall’evocato art. 13
della legge sull’espropriazione del 1865,
oggi abrogata dal testo unico sulle
procedure espropriative, ma rilevante ratione temporis per il presente appello,
prevedeva, al comma 1, che nell’atto che
dichiara la pubblica utilità di un’opera
fossero indicati i termini “entro i quali
dovranno cominciarsi e compiersi le
espropriazioni e i lavori”, mentre al
successivo comma 2 prevedeva che “l’autorità
che stabilì i suddetti termini li può
prorogare per casi di forza maggiore o per
altre cagioni indipendenti dalla volontà dei
concessionari, ma sempre con determinata prefissione di tempo”.
Dalla lettura giurisprudenziale data al
complesso normativo, emerge come la proroga
dei termini previsti dall'art. 13 l. n. 2359
del 1865 sia considerata istituto di
carattere eccezionale finalizzato ad evitare
di mantenere i beni espropriabili in stato
di soggezione a tempo indeterminato e a
tutelare l'interesse pubblico a che l'opera
venga eseguita in un congruo arco di tempo,
tale da giustificare le ragioni di serietà
dell'azione amministrativa (da ultimo,
Consiglio di Stato, sez. VI, 10.10.2002
n. 5443).
Da tale pacifica affermazione
discende primariamente la conseguenza della
necessaria individuazione di cause di forza
maggiore indipendenti dalla volontà dei
concessionari che giustifichino la proroga
ed in assenza delle quali deve ritenersi
vulnerato il principio di legalità che
informa l'attività dell'amministrazione
nella materia dell'espropriazione per
pubblica utilità.
...
Quindi, anche nel procedimento civile, è
emersa l’oggettiva complessità della vicenda
catastale della particella, elemento questo
a fondare la ragione giustificativa della
proroga, atteso che l'obbligo di motivazione
del provvedimento di proroga del termine per
la conclusione della procedura espropriativa
risulta adeguatamente assolto con il
richiamo al ritardo degli organi pubblici
preposti nella definizione delle procedure
di esproprio, che costituisce fatto estraneo
alla sfera di disponibilità dell'ente
concessionario dei lavori e, quindi,
riconducibile nei presupposti per l'adozione
dell'atto di proroga del termine quali
identificati dall'art. 13 l. n. 2359 del
1865 (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. VI,
22.06.2005 n. 3298)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.07.2012 n. 4301 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Nella
materia dei procedimenti di espropriazione
per pubblica utilità, ad eccezione delle
ipotesi in cui l’Amministrazione
espropriante abbia agito nell’assoluto
difetto di una potestà ablativa come
mancanza di qualunque facultas
agendi vincolata o discrezionale di elidere
o comprimere detto diritto –devolute come
tali alla giurisdizione ordinaria- sono
devolute alla giurisdizione amministrativa
esclusiva le controversie nelle quali si
faccia questione -anche ai fini
complementari della tutela risarcitoria- di
attività di occupazione e trasformazione di
un bene conseguenti ad una dichiarazione di
pubblica utilità e con essa congruenti,
anche se il procedimento all'interno del
quale sono state espletate non sia sfociato
in un tempestivo e formale atto traslativo
della proprietà ovvero sia caratterizzato
dalla presenza di atti poi dichiarati
illegittimi, purché vi sia un collegamento
all’esercizio della pubblica funzione.
---------------
Già a partire nella legge fondamentale sulle
espropriazioni n. 2359 del 1865, così come
nella successiva legislazione in materia di
lavori pubblici, si rinviene il principio
cardine secondo cui l’attività espropriativa
deve articolarsi in una pluralità di fasi,
le quali devono garantire la partecipazione
degli interessati ed il contraddittorio con
i soggetti coinvolti dall’azione
amministrativa.
Detti principi, di pubblicità e
partecipazione, -diretti non solo a scopo
difensivo, bensì in stretta correlazione con
i canoni di rango costituzionale
dell’imparzialità e del buon andamento
dell’azione amministrativa– sono stati
cristallizzati dalla legge n. 241 del 1990
per tutti i procedimenti amministrativi;
essi peraltro giocano un ruolo
particolarmente significativo nei
procedimenti espropriativi, essendo questi
ultimi, per definizione, quelli più
gravemente invasivi della sfera dei privati.
Questa premessa fa da sfondo
all’affermazione dell’indirizzo secondo cui
la dichiarazione di pubblica utilità, anche
ove implicita nell’approvazione di un
progetto di opera pubblica deve essere
preceduta da comunicazione di avvio del
procedimento rivolta ai soggetti
interessati.
In punto di giurisdizione, la
Sezione ritiene di non aver motivo per
discostarsi, nella circostanza, dall’ormai
consolidato indirizzo giurisprudenziale
secondo il quale, nella materia dei
procedimenti di espropriazione per pubblica
utilità, ad eccezione delle ipotesi in cui
l’Amministrazione espropriante abbia agito
nell’assoluto difetto di una potestà
ablativa come mancanza di qualunque facultas
agendi vincolata o discrezionale di elidere
o comprimere detto diritto –devolute come
tali alla giurisdizione ordinaria- sono
devolute alla giurisdizione amministrativa
esclusiva le controversie nelle quali si
faccia questione -anche ai fini
complementari della tutela risarcitoria- di
attività di occupazione e trasformazione di
un bene conseguenti ad una dichiarazione di
pubblica utilità e con essa congruenti,
anche se il procedimento all'interno del
quale sono state espletate non sia sfociato
in un tempestivo e formale atto traslativo
della proprietà ovvero sia caratterizzato
dalla presenza di atti poi dichiarati
illegittimi, purché vi sia un collegamento
all’esercizio della pubblica funzione (C.D.S.,
sez. IV, del 04.04.2011, n.2113; C.D.S.,
Ad.Pl. del 30.07.2007, n. 9 e 22.10.2007, n.
12; Tar Lombardia, Brescia, sez. I, del
18.12.2008, n.1796; 01.06.2007, n. 466; Tar
Basilicata, 22.02.2007, n. 75; Tar. Puglia,
Bari, sez. III, del 09.02.2007, n. 404; Tar
Lombardia, Milano, sez. II, del 18.12.2007,
n. 6676; Tar Lazio, Roma, sez. II, del
03.07.2007, n. 5985; Tar Toscana, I, del
14.09.2006, n. 3976; Cass., SS.UU.,
20.12.2006, nn. 27190, 27191 e 27193).
Inoltre, mentre le domande risarcitorie e
restitutorie relative a fattispecie di
occupazione usurpativa rientrano nella
giurisdizione ordinaria, viceversa sussiste
la giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo in caso di danni conseguenti
all’annullamento della dichiarazione di
pubblica utilità e, in generale, di un
provvedimento amministrativo in tema di
espropriazione per pubblica utilità.
---------------
Nel
merito, occorre evidenziare come, già a
partire nella legge fondamentale sulle
espropriazioni n. 2359 del 1865, così come
nella successiva legislazione in materia di
lavori pubblici, si rinviene il principio
cardine secondo cui l’attività espropriativa
deve articolarsi in una pluralità di fasi,
le quali devono garantire la partecipazione
degli interessati ed il contraddittorio con
i soggetti coinvolti dall’azione
amministrativa.
Detti principi, di
pubblicità e partecipazione, -diretti non
solo a scopo difensivo, bensì in stretta
correlazione con i canoni di rango
costituzionale dell’imparzialità e del buon
andamento dell’azione amministrativa– sono
stati cristallizzati dalla legge n. 241 del
1990 per tutti i procedimenti
amministrativi; essi peraltro giocano un
ruolo particolarmente significativo nei
procedimenti espropriativi, essendo questi
ultimi, per definizione, quelli più
gravemente invasivi della sfera dei privati.
Questa premessa fa da sfondo
all’affermazione dell’indirizzo secondo cui
la dichiarazione di pubblica utilità, anche
ove implicita nell’approvazione di un
progetto di opera pubblica deve essere
preceduta da comunicazione di avvio del
procedimento rivolta ai soggetti interessati
(C.D.S., Ad.Pl. 14/1999; C.D.S., sez. IV,
n. 1668/2007; C.D.S. n. 8259/2006; C.D.S.
n. 5352/2005; C.D.S., sez. VI, n. 736/2003)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
26.07.2012 n.
2096 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Risarcimento danni per occupazione abusiva:
dipende dalla colpa della PA.
L'azione di risarcimento conseguente all'annullamento in
sede giurisdizionale di un provvedimento illegittimo implica
la valutazione dell'elemento psicologico della colpa, alla
luce dei vizi che inficiavano il provvedimento stesso e
della gravità delle violazioni imputabili
all'Amministrazione.
Con
sentenza 10.07.2012 n. 4089, la IV Sez. del
Consiglio di Stato ha affermato i seguenti principi.
L'azione di risarcimento conseguente all'annullamento in
sede giurisdizionale di un provvedimento illegittimo implica
la valutazione dell'elemento psicologico della colpa, alla
luce dei vizi che inficiavano il provvedimento stesso e
della gravità delle violazioni imputabili
all'Amministrazione, secondo l'ampiezza delle valutazioni
discrezionali rimesse all' organo amministrativo, nonché
delle condizioni concrete in cui ha operato la P.A, non
essendo il risarcimento una conseguenza automatica della
pronuncia del giudice della legittimità.
Affinché possa configurarsi la responsabilità della pubblica
amministrazione è sufficiente la colpa, anche lieve,
dell'apparato amministrativo.
Ai fini della responsabilità risarcitoria
dell'Amministrazione a seguito di annullamento di un
provvedimento amministrativo illegittimo, il privato
danneggiato può invocare l'illegittimità del provvedimento
quale indice presuntivo della colpa o anche allegare
circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che si è trattato
di un errore non scusabile, spettando poi
all'Amministrazione dimostrare che si è invece trattato di
errore scusabile.
Il giudice investito della domanda per il conseguimento del
risarcimento del danno da fatto illecito non può condannare
il convenuto al pagamento di un indennizzo per atto
legittimo, in quanto in tal modo non si opera una mera
qualificazione della domanda, ma si pronuncia su domanda
diversa per "causa petendi" e "petitum",
tenendo presente che il potere-dovere del giudice di
qualificare correttamente la domanda non consente di
sostituire la domanda proposta con una diversa, fondata su
altra "causa petendi", e dunque di introdurre nel
tema controverso nuovi elementi di fatto, trattandosi di
passare da una fattispecie incentrata sul fatto colposo o
doloso a una riguardante un fatto esente da colpa.
In caso di danno illegittimo per spossessamento di un bene,
rileva l’elemento soggettivo della condotta, tenendo
presente che nella materia non vige un sistema
indifferenziato di responsabilità, tale per cui si può
giungere alla qualificazione del fatto generatore del danno
quale illecito prescindendosi, al contempo dall’accertamento
del requisito della colpa ai fini della risarcibilità del
medesimo, dovendosi precisare che il principio contenuto
nell'art. 1147 Cod. civ., in forza del quale la buona fede è
presunta, vige in tema di responsabilità contrattuale ma non
nell'ipotesi di danno da occupazione appropriativa, con
conseguente trasformazione del bene del privato, che
costituisce fatto illecito e conseguente operatività delle
regole della responsabilità extracontrattuale le quali
implicano che:
a) provata l’illegittimità della condotta, debba, tuttavia,
sussistere anche la prova dell’elemento soggettivo;
b) la prova è “facilitata” dalla oggettiva
circostanza dell’avvenuto illegittimo spossessamento, ed al
privato danneggiato non pertiene l’onere di dimostrare che
l’amministrazione abbia agito con negligenza, imprudenza
imperizia;
c) tuttavia, in ossequio ai principi generale espresso
dall'art. 2043 Cod. civ. la stessa Amministrazione può non
soggiacere a conseguenze risarcitorie laddove dimostri che
nessuna ipotesi di condotta colposa può esserle ascritta
(commento tratto da www.ipsoa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI - ESPROPRIAZIONE:
L'adozione del decreto di
occupazione temporanea e d'urgenza, emanato
dopo l'entrata in vigore dell'art. 45,
D.Lgs. 31.03.1998 n. 80, è di competenza del
funzionario dirigente dell'Ufficio tecnico
dell'amministrazione procedente, atteso che
detta norma attribuisce alla dirigenza la
competenza ad adottare tutti gli atti di
gestione, inclusi quelli che impegnano
l'amministrazione verso l'esterno.
---------------
La mancata determinazione della indennità di
esproprio (così come la mancata
corresponsione effettiva) non costituisce
requisito di validità o di legittimità del
decreto di esproprio e non può costituire in
alcun modo vizio invalidante la procedura
espropriativa.
Il
provvedimento è stato legittimamente
adottato dal Dirigente, con conseguente
infondatezza della censura di incompetenza:
difatti, l'adozione del decreto di
occupazione temporanea e d'urgenza, emanato
dopo l'entrata in vigore dell'art. 45, D.Lgs. 31.03.1998 n. 80, è di competenza
del funzionario dirigente dell'Ufficio
tecnico dell'amministrazione procedente,
atteso che detta norma attribuisce alla
dirigenza la competenza ad adottare tutti
gli atti di gestione, inclusi quelli che
impegnano l'amministrazione verso l'esterno
(Consiglio di Stato, Sez. IV, 09.11.2005 n. 6259; TAR Campania, Salerno, 30.06.2006 n. 897).
---------------
Infine,
la mancata determinazione della indennità di
esproprio (così come la mancata
corresponsione effettiva) non costituisce
requisito di validità o di legittimità del
decreto di esproprio e non può costituire in
alcun modo vizio invalidante la procedura
espropriativa (Consiglio di Stato, Sez. IV,
30.06.2010 n. 4176).
Peraltro, dalla
documentazione versata agli atti di causa
dalla intimata amministrazione emerge che la
contestazione è infondata in fatto in
quanto, con nota prot. 13938 del 23.10.2007 (indirizzata anche al ricorrente) il
Comune ha determinato tale indennità
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 03.07.2012 n. 3156 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Nella materia dei procedimenti di
espropriazione per pubblica utilità, ad
eccezione delle ipotesi in cui manchi del
tutto una dichiarazione di pubblica utilità
dell’opera e l’Amministrazione espropriante
abbia agito nell’assoluto difetto di una
potestà ablativa come mancanza di qualunque facultas
agendi vincolata o discrezionale di elidere
o comprimere detto diritto –devolute come
tali alla giurisdizione ordinaria, sono
devolute alla giurisdizione amministrativa
esclusiva le controversie nelle quali si
faccia questione -anche ai fini
complementari della tutela risarcitoria- di
attività di occupazione e trasformazione di
un bene conseguenti ad una dichiarazione di
pubblica utilità e con essa congruenti,
anche se il procedimento all'interno del
quale sono state espletate non sia sfociato
in un tempestivo e formale atto traslativo
della proprietà ovvero sia caratterizzato
dalla presenza di atti poi dichiarati
illegittimi, purché vi sia un collegamento
all’esercizio della pubblica funzione.
---------------
L’art. 53 del DPR n. 327/2001, per come
ispirato al principio di concentrazione dei
giudizi, ha attribuito rilevanza decisiva ai
provvedimenti che impongono il vincolo
preordinato all’esproprio e a quelli che
dispongono la dichiarazione di pubblica
utilità: una volta attivato il procedimento
caratterizzato dall’esercizio del pubblico
potere, sussiste la giurisdizione
amministrativa esclusiva in relazione a
tutti i conseguenti atti e comportamenti e
ad ogni controversia che sorga su di essi,
anche quando trattasi di procedimenti
espropriativi diretti alla esecuzione dei
lavori per la realizzazione o la
modificazione di un’opera pubblica e di atti
strumentali alla realizzazione di detta
finalità pubblica.
Si è dunque in presenza di una fattispecie
riconducibile alla giurisdizione esclusiva
del giudice amministrativo, per come
derivante da esercizio di un pubblico
potere, anche nel caso in cui si lamenti
formalmente l’occupazione di aree non
comprese nell’ambito della procedura
espropriativa, ma in realtà si abbia
riguardo al decreto di esproprio, cioè alla
determinazione del suo effettivo contenuto,
per la dedotta occupazione di una superficie
superiore a quella presa in considerazione
da una precedente ordinanza di occupazione
d’urgenza, poiché ai fini della liceità o
meno va verificato lo specifico contenuto
degli atti e degli accordi posti in essere
nel corso del procedimento ablatorio.
---------------
Il comportamento tenuto dalla
Amministrazione, la quale abbia emanato una
valida dichiarazione di pubblica utilità ed
un legittimo decreto di occupazione
d'urgenza senza tuttavia emanare il
provvedimento definitivo di esproprio nei
termini previsti dalla legge, deve essere,
poi, qualificato come "illecito permanente",
nella cui vigenza non decorre la
prescrizione, ciò perché in questo caso
manca un effetto traslativo della proprietà,
stante la mancanza del provvedimento di
esproprio, connesso alla mera irrevocabile
modifica dei luoghi.
Per questo motivo, salva restando la
possibilità di optare per le differenti
forme "risarcitorie" che l'ordinamento
appresta (restituzione del bene ovvero
risarcimento del danno per equivalente), il
soggetto privato del possesso può agire nei
confronti dell'ente pubblico senza dover
sottostare al termine prescrizionale
quinquennale decorrente dalla trasformazione
irreversibile del bene, con l’unico limite
temporale rinvenibile nell’acquisto della
proprietà, per usucapione ventennale del
bene, eventualmente maturata dall’ente
pubblico.
Tali principi sono stati peraltro codificati
in termini di giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo ex art. 133, comma 1,
lett. f), del Codice del processo
amministrativo (allegato 1 del D.Lgs.
02.07.2010 n. 104) nell’ipotesi di
comportamento dell’Amministrazione
riconducibile all’esercizio del pubblico
potere che si sia manifestato per il tramite
della dichiarazione di pubblica utilità
della quale non risulta dimostrata la
perdita d'efficacia, nonché nelle
controversie aventi ad oggetto atti,
provvedimenti e comportamenti della P.A. in
materia di espropriazioni per pubblica
utilità di cui alla successiva lett. g) del
citato art. 133 ove si è espressamente
contemplata la giurisdizione esclusiva di
questo giudice, ferma la giurisdizione del
giudice ordinario per le ipotesi di
determinazione e corresponsione delle
indennità in conseguenza dell’adozione di
atti di natura espropriativa o ablativa.
---------------
Quanto ai “principi-cardine” che regolano la
materia dell’espropriazione:
a) i termini per l’inizio e la conclusione
delle procedure espropriative devono essere
fissati fin dall’atto con cui si dichiara la
pubblica utilità dell’opera (o con cui si
approva il progetto che dà avvio alla
procedura stessa). In mancanza di ciò
l’espropriazione è illegittima;
b) l’inutile decorso dei termini fissati
dall’Amministrazione per l’avvio e per la
conclusione delle procedure espropriative
determina l’inefficacia della originaria
dichiarazione di pubblica utilità, con
conseguente illegittimità del decreto di
espropriazione (che si ritiene adottato,
anch’esso, fuori termine);
c) se l’Amministrazione intende prorogare il
termine (per l’avvio o per la conclusione
della procedura espropriativi) può farlo,
purché prima che il termine sia ormai
scaduto, “motivando” in ordine alle ragioni
che rendono necessaria la proroga e sempre
che il ritardo non sia dipeso da cause ad
essa imputabili, ma da fatti dipendenti da
forza maggiore o, comunque, di altre ragioni
non dipendenti dalla sua volontà;
d) la proroga non può che essere accordata
dallo stesso Organo che ha fissato il
termine originario;
e) la proroga va notificata o comunque
comunicata ai soggetti espropriandi, i quali
devono essere coinvolti nel sub-procedimento
che si innesta su quello principale e posto
nelle condizioni di interloquire;
f) se il termine per l’avvio o per la
conclusione della procedura espropriativa è
inesorabilmente scaduto e non appare
prorogabile (per mancanza dei presupposti
sopra indicati), l’Amministrazione ben può
rinnovare l’intera procedura, ma per farlo
deve ricominciare (ex novo) dalla
“dichiarazione di pubblica utilità”, non
potendo ritenere ancora efficace quella
concernente il procedimento estintosi per
inutile decorso dei termini.
Quanto sopra è peraltro condiviso dalla
giurisprudenza, la quale ha ritenuto:
► quanto al principio enunciato sub a):
- che “la mancata indicazione dei termini
per la conclusione dei lavori e della
procedura espropriativa, di cui all'art. 13
della Legge n. 2359 del 1865 determina
l'illegittimità ab origine dell'occupazione
di urgenza e l'illiceità permanente
dell'opera pubblica, dovendosi escludere che
vi possano essere successive indicazioni di
detti termini ovvero atti di sanatoria della
dichiarazione di pubblica utilità in cui
essi siano omessi";
- che “la mancata indicazione dei termini
per l'inizio e la conclusione della
procedura espropriativa e dei lavori nella
delibera consiliare di avvio della procedura
espropriativa, vizia "in radice" il
provvedimento ablatorio";
- che “dall'annullamento giurisdizionale
della delibera di proroga dei termini per il
compimento delle operazioni espropriative
deriva in via immediata e diretta
l'illegittimità del decreto di
espropriazione per caducazione dell'atto
presupposto, ovvero dell'atto di proroga
dell'efficacia della dichiarazione di
pubblica utilità”;
- che “nella dichiarazione di pubblica
utilità dell'opera devono essere
espressamente indicati, oltre ai termini di
inizio e di conclusione della procedura
espropriativa, anche quelli concernenti
l'avvio ed il compimento dei lavori”;
- che “la necessità di prefissione di
termini delle procedure di espropriazione
risponde alla necessità di carattere
costituzionale di limitare il potere
discrezionale delle p.a. al fine di evitare
che i beni dei privati siano sottoposti ad
uno stato di soggezione per un tempo
indeterminato”);
- che “l'indicazione dei termini entro i
quali dovranno cominciarsi e concludersi le
espropriazioni ed i lavori, ai sensi
dell'art. 13 l. n. 2359 del 1865, deve
figurare nell'atto con il quale si dichiara
un'opera di pubblica utilità,
indifferibilità ed urgenza, all'evidente
fine di far sì che la P.A., che decida di
disporre della proprietà privata con
l'espropriazione, ponga essa stessa dei
limiti temporali per l'inizio e la
conclusione dell'opera che poi dovrà
rispettare”;
► quanto al principio enunciato sub b):
- che “l'art. 13 l. n. 2359 del 1865 dispone
che il decreto dichiarativo della pubblica
utilità deve contenere anche i termini entro
i quali devono iniziarsi e completarsi le
espropriazioni ed i lavori; scaduti tali
termini, la dichiarazione di pubblica
utilità diviene inefficace e non può
procedersi all'espropriazione se non in base
ad una nuova dichiarazione di pubblica
utilità";
- che “qualora siano scaduti i termini
fissati per il compimento
dell'espropriazione, nel provvedimento che
ha dichiarato la pubblica utilità dell'opera
e debba escludersi una valida proroga degli
stessi (…) cessa la legittima occupazione
dell'area destinata all'espropriazione e
diviene irrilevante qualunque proroga del
periodo d'occupazione successivamente
disposta per legge";
► quanto al principio enunciato sub c):
- che “il prolungamento dell'efficacia di un
termine presuppone necessariamente che il
termine da prorogare non sia ancora scaduto,
per cui i termini fissati nella
dichiarazione di pubblica utilità dall'art.
13 della Legge n. 2359 del 1865 possono
essere prorogati dall'amministrazione al
fine di prolungare l'efficacia della
dichiarazione di pubblica utilità stessa, a
condizione che la proroga si perfezioni
prima della scadenza del termine che si
intende prorogare”;
- che “l'istituto della proroga del termine,
che per il suo carattere generale deve
trovare applicazione anche ai termini
stabiliti nelle ipotesi di pubblica utilità
"ex lege", potrà operare solo se la proroga
venga disposta prima della scadenza del
triennio per l'inizio dei lavori, senza che
possa attribuirsi alcun rilievo
all'eventuale maggior termine ancora in
corso fissato per l'ultimazione dell'opera,
che comporta a sua volta l'inefficacia della
dichiarazione di pubblica utilità se i
lavori, iniziati tempestivamente, non
vengono ultimati nel maggiore termine
fissato all'atto dell'approvazione del
progetto”;
- che “… il provvedimento di proroga deve
essere motivato e non è sufficiente
l'indicazione che il protrarsi delle
procedure non consente il rispetto dei
termini originariamente fissati circostanza
quest'ultima che potrebbe essere imputabile
all'amministrazione”;
- che “(…) … l'istituto della proroga
riveste caratteri eccezionali e la sua
operatività deve essere giustificata dalla
reale sussistenza di oggettive difficoltà al
compimento di atti espropriativi, e comunque
non dipendenti dalla volontà dell’Ente
espropriante”;
- che “in base all'art. 13 della Legge n.
2359 del 1865 (…) non costituisce valida
ragione giustificativa la generica
motivazione relativa al protrarsi delle
procedure espropriative, che non abbia
consentito il rispetto dei termini
originariamente fissati”;
- che “è illegittimo il provvedimento con
cui l'amministrazione dispone la proroga dei
predetti termini, limitandosi a dare atto
dell'impossibilità di concludere le
procedure per l'esistenza di un contenzioso
(non meglio specificato nel contesto del
provvedimento), trattandosi di circostanza
non riconducibile al concetto di forza
maggiore o di impedimento obiettivo ed
insuperabile”;
► quanto al principio enunciato sub d):
- che “qualora siano scaduti i termini
fissati per il compimento
dell'espropriazione”, la proroga -ove possa
essere disposta- “… deve provenire dalla
stessa autorità che ha dichiarato la
pubblica utilità ed ha fissato i termini
originari …”;
- che "è illegittima la proroga dei termini
per la conclusione delle espropriazione che
non sia stabilita dalla medesima autorità
che ha dichiarato di pubblica utilità";
► quanto al principio enunciato sub e):
- che “quando un sub-procedimento non fa
parte dell'ordinaria sequenza
procedimentale, come nel caso in cui
riguardi la proroga dei termini per il
completamento dei lavori di un'opera
pubblica e della dichiarazione di pubblica
utilità, l'amministrazione deve inviare ai
diretti interessati un apposito avviso di
inizio del procedimento ex art. 7 l. n. 241
del 1990”;
- che “la comunicazione di avvio del
procedimento è stata ritenuta necessaria
anche nel procedimento finalizzato a
prorogare i termini del provvedimento di
dichiarazione di pubblica utilità, stante la
sua natura di sub procedimento autonomo
all'interno di quello più generale volto
alla dichiarazione di pubblica utilità,
anche se implicito, nell'approvazione del
progetto di opera pubblica. (…) Del resto la
proroga è un provvedimento discrezionale,
rispetto al quale la partecipazione del
privato non è inutile e può servire ad
evidenziare la sussistenza degli eccezionali
presupposti per l'adozione del
provvedimento";
- che “è illegittima la proroga dei termini
della dichiarazione di pubblica utilità non
preceduta dalla comunicazione di avvio del
procedimento”;
- che “nell'ambito di un procedimento
espropriativo il provvedimento che proroga i
termini per l'intervento ablativo
costituisce il frutto di un autonomo sub
procedimento eventuale e straordinario
rispetto al procedimento tipico; pertanto,
in tal caso, l'amministrazione ha l'obbligo
di comunicare l'avvio del sub procedimento
col quale si proroga il termine di
assoggettamento del bene privato
all'intervento ablativo”;
- che “anche in relazione al procedimento di
proroga dei termini per l'espropriazione
deve essere consentita la partecipazione
degli eventuali interessati, potendo l'atto
di proroga influire su diversi aspetti, tra
cui quello del momento del pagamento
dell'indennità”;
► quanto al principio enunciato sub f):
- che “è illegittimo il provvedimento che,
in luogo di rimuovere l'intera procedura,
disponga la proroga dei termini per l'inizio
della procedura espropriativa stabiliti nel
decreto di dichiarazione di pubblica utilità
in sanatoria dell'avvenuta scadenza di
termini stessi”;
- che “la rinnovazione della procedura
espropriativa a differenza dell'istituto
della proroga dei termini - opera sempre in
soluzione di continuità rispetto alla
pregressa fase, alla quale non ha la
possibilità di raccordarsi con effetti "ex
tunc"; conseguentemente è necessario che
alla data di adozione del provvedimento di
riapprovazione sussistano le condizioni di
attualità e concretezza dell'interesse
pubblico che si intendono conseguire con la
realizzazione dell'opera”;
- che “l'art. 13 l. n. 2359 del 1865 dispone
che il decreto dichiarativo della pubblica
utilità deve contenere anche i termini entro
i quali devono iniziarsi e completarsi le
espropriazioni ed i lavori; scaduti tali
termini, la dichiarazione di pubblica
utilità diviene inefficace e non può
procedersi all'espropriazione se non in base
ad una nuova dichiarazione di pubblica
utilità”;
- che “seppure è in facoltà
dell'espropriante condurre a realizzazione
un progetto di opera pubblica, di cui siano
scaduti i termini obbligatoriamente indicati
per il compimento dei lavori, è necessario
che la riapprovazione dia luogo ad una nuova
dichiarazione di pubblica utilità, con un
nuovo avvio del procedimento finalizzato a
tale dichiarazione e con una nuova
fissazione dei termini, essendo
insufficiente la mera proroga dei termini
originariamente fissati”.
In punto di giurisdizione la
Sezione ritiene di non aver motivo per
discostarsi nella circostanza dall’ormai
consolidato indirizzo giurisprudenziale
secondo il quale, nella materia dei
procedimenti di espropriazione per pubblica
utilità, ad eccezione delle ipotesi in cui
manchi del tutto una dichiarazione di
pubblica utilità dell’opera e
l’Amministrazione espropriante abbia agito
nell’assoluto difetto di una potestà
ablativa come mancanza di qualunque facultas
agendi vincolata o discrezionale di elidere
o comprimere detto diritto –devolute come
tali alla giurisdizione ordinaria, sono
devolute alla giurisdizione amministrativa
esclusiva le controversie nelle quali si
faccia questione -anche ai fini
complementari della tutela risarcitoria- di
attività di occupazione e trasformazione di
un bene conseguenti ad una dichiarazione di
pubblica utilità e con essa congruenti,
anche se il procedimento all'interno del
quale sono state espletate non sia sfociato
in un tempestivo e formale atto traslativo
della proprietà ovvero sia caratterizzato
dalla presenza di atti poi dichiarati
illegittimi, purché vi sia un collegamento
all’esercizio della pubblica funzione (Cons.
Stato, IV, 04.04.2011, n. 2113; TAR
Lombardia, Brescia, I, 18.12.2008, n. 1796;
01.06.2007, n. 466; Cons. Stato, A.P.
30.07.2007, n. 9 e 22.10.2007, n. 12; TAR
Basilicata, 22.02.2007, n. 75; TAR Puglia,
Bari, III, 9.02.2007, n. 404; TAR
Lombardia, Milano, II, 18.12.2007, n. 6676;
TAR Lazio, Roma, II, 03.07.2007, n. 5985;
TAR Toscana, I, 14.09.2006, n. 3976; Cass.
Civ., SS.UU., 20.12.2006, nn. 27190, 27191 e
27193).
Mentre le domande risarcitorie e
restitutorie relative a fattispecie di
occupazione usurpativa rientrano nella
giurisdizione ordinaria, così come il
giudice amministrativo -nello stabilire
l’importo del danno da ablazione illegittima- non può includervi anche quanto dovuto per
il periodo di occupazione legittima, la cui
valutazione pure è di spettanza del giudice
ordinario a norma degli artt. 53, comma 3 e
54 T.U. 08.06.2001, n. 327, viceversa
sussiste la giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo in caso di danni
conseguenti all’annullamento della
dichiarazione di pubblica utilità e, in
generale, di un provvedimento amministrativo
in tema di espropriazione per pubblica
utilità.
Peraltro di recente si è affermato
(Cons. Stato, IV, 02.03.2010, n. 1222) che
l’art. 53 del DPR n. 327/2001, per come
ispirato al principio di concentrazione dei
giudizi, ha attribuito rilevanza decisiva ai
provvedimenti che impongono il vincolo
preordinato all’esproprio e a quelli che
dispongono la dichiarazione di pubblica
utilità: una volta attivato il procedimento
caratterizzato dall’esercizio del pubblico
potere, sussiste la giurisdizione
amministrativa esclusiva in relazione a
tutti i conseguenti atti e comportamenti e
ad ogni controversia che sorga su di essi,
anche quando trattasi di procedimenti
espropriativi diretti alla esecuzione dei
lavori per la realizzazione o la
modificazione di un’opera pubblica e di atti
strumentali alla realizzazione di detta
finalità pubblica (Cass. Civ., SS. UU.,
ord.za 16.12.2010, n. 25393).
Si è dunque in
presenza di una fattispecie riconducibile
alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo, per come derivante da
esercizio di un pubblico potere, anche nel
caso in cui si lamenti formalmente
l’occupazione di aree non comprese
nell’ambito della procedura espropriativa,
ma in realtà si abbia riguardo al decreto di
esproprio, cioè alla determinazione del suo
effettivo contenuto, per la dedotta
occupazione di una superficie superiore a
quella presa in considerazione da una
precedente ordinanza di occupazione
d’urgenza, poiché ai fini della liceità o
meno va verificato lo specifico contenuto
degli atti e degli accordi posti in essere
nel corso del procedimento ablatorio.
Ritenuta dunque la giurisdizione sulla
domanda di reintegra nel possesso proposta
da parte ricorrente, resta da stabilire se
le forme di tutela siano quelle previste
dall’art 703 c.p.c., che rinvia agli art.
669 bis e ss. c.p.c., oppure quelle proprie
del processo amministrativo. Ritiene il
Collegio di seguire la seconda impostazione,
poiché, come ha rilevato la Corte
Costituzionale –investita di una questione
di legittimità con riferimento
all’inesistenza di un tutela cautelare ante causam avanti al g.a.– l’applicazione di
istituti processual-civilistici non è
giustificabile qualora le esigenze ad essi
sottese vengano effettivamente tutelate da
istituti propri del processo amministrativo
(idem TAR Umbria, 04.09.2002, n. 652). Nel
caso in esame l’esigenza di tutela
immediata, soddisfatta dagli artt. 703 - 669-bis e ss. c.p.c., è efficacemente garantita
mediante il procedimento di cui all’art
23-bis della Legge n. 1034/1971 (ora art. 119
del Decr. Legisl. 02/07/2010, n. 104 di
riordino del processo amministrativo), di
cui sussistono tutti i presupposti
applicativi (essendo, in particolare, la
controversia oggetto del presente giudizio
contemplata dalla lettera b) del medesimo
articolo).
Il comportamento tenuto dalla
Amministrazione, la quale abbia emanato una
valida dichiarazione di pubblica utilità ed
un legittimo decreto di occupazione
d'urgenza senza tuttavia emanare il
provvedimento definitivo di esproprio nei
termini previsti dalla legge, deve essere,
poi, qualificato come "illecito permanente",
nella cui vigenza non decorre la
prescrizione, ciò perché in questo caso
manca un effetto traslativo della proprietà,
stante la mancanza del provvedimento di
esproprio, connesso alla mera irrevocabile
modifica dei luoghi. Per questo motivo,
salva restando la possibilità di optare per
le differenti forme "risarcitorie" che
l'ordinamento appresta (restituzione del
bene ovvero risarcimento del danno per
equivalente), il soggetto privato del
possesso può agire nei confronti dell'ente
pubblico senza dover sottostare al termine
prescrizionale quinquennale decorrente dalla
trasformazione irreversibile del bene, con
l’unico limite temporale rinvenibile
nell’acquisto della proprietà, per
usucapione ventennale del bene,
eventualmente maturata dall’ente pubblico
(cfr. TAR Sicilia, Palermo, 01.02.2011, n.
175).
Tali principi sono stati peraltro codificati
in termini di giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo ex art. 133, comma 1,
lett. f), del Codice del processo
amministrativo (allegato 1 del D.Lgs. 02.07.2010 n. 104) nell’ipotesi di
comportamento dell’Amministrazione
riconducibile all’esercizio del pubblico
potere che si sia manifestato per il tramite
della dichiarazione di pubblica utilità
della quale non risulta dimostrata la
perdita d'efficacia, nonché nelle
controversie aventi ad oggetto atti,
provvedimenti e comportamenti della P.A. in
materia di espropriazioni per pubblica
utilità di cui alla successiva lett. g) del
citato art. 133 ove si è espressamente
contemplata la giurisdizione esclusiva di
questo giudice, ferma la giurisdizione del
giudice ordinario per le ipotesi di
determinazione e corresponsione delle
indennità in conseguenza dell’adozione di
atti di natura espropriativa o ablativa.
---------------
La
Sezione come in recente precedente
(07.02.2012, n. 613) osserva quanto ai
“principi-cardine” che regolano la materia
dell’espropriazione che:
a)
i termini per l’inizio e la conclusione
delle procedure espropriative devono essere
fissati fin dall’atto con cui si dichiara la
pubblica utilità dell’opera (o con cui si
approva il progetto che dà avvio alla
procedura stessa). In mancanza di ciò
l’espropriazione è illegittima;
b)
l’inutile decorso dei termini fissati
dall’Amministrazione per l’avvio e per la
conclusione delle procedure espropriative
determina l’inefficacia della originaria
dichiarazione di pubblica utilità, con
conseguente illegittimità del decreto di
espropriazione (che si ritiene adottato,
anch’esso, fuori termine);
c)
se l’Amministrazione intende prorogare il
termine (per l’avvio o per la conclusione
della procedura espropriativi) può farlo, purché prima che il termine sia ormai
scaduto, “motivando” in ordine alle ragioni
che rendono necessaria la proroga e sempre
che il ritardo non sia dipeso da cause ad
essa imputabili, ma da fatti dipendenti da
forza maggiore o, comunque, di altre ragioni
non dipendenti dalla sua volontà;
d)
la proroga non può che essere accordata
dallo stesso Organo che ha fissato il
termine originario;
e)
la proroga va notificata o comunque
comunicata ai soggetti espropriandi, i quali
devono essere coinvolti nel sub-procedimento
che si innesta su quello principale e posto
nelle condizioni di interloquire;
f)
se il termine per l’avvio o per la
conclusione della procedura espropriativa è
inesorabilmente scaduto e non appare
prorogabile (per mancanza dei presupposti
sopra indicati), l’Amministrazione ben può
rinnovare l’intera procedura, ma per farlo
deve ricominciare (ex novo) dalla
“dichiarazione di pubblica utilità”, non
potendo ritenere ancora efficace quella
concernente il procedimento estintosi per
inutile decorso dei termini.
Quanto sopra è peraltro condiviso dalla
giurisprudenza, la quale ha ritenuto:
►
quanto al
principio enunciato sub a):
- che “la mancata indicazione dei termini per la conclusione dei
lavori e della procedura espropriativa, di
cui all'art. 13 della Legge n. 2359 del 1865
determina l'illegittimità ab origine
dell'occupazione di urgenza e l'illiceità
permanente dell'opera pubblica, dovendosi
escludere che vi possano essere successive indicazioni di
detti termini ovvero atti di sanatoria della
dichiarazione di pubblica utilità in cui
essi siano omessi” (Cass. Civ., SS. UU.,
30.03.2007, n. 7881);
- che “la mancata
indicazione dei termini per l'inizio e la
conclusione della procedura espropriativa e
dei lavori nella delibera consiliare di
avvio della procedura espropriativa, vizia
"in radice" il provvedimento ablatorio"
(Cons. Stato, IV, 20.03.2000, n. 1498);
- che
“dall'annullamento giurisdizionale della
delibera di proroga dei termini per il
compimento delle operazioni espropriative
deriva in via immediata e diretta
l'illegittimità del decreto di
espropriazione per caducazione dell'atto
presupposto, ovvero dell'atto di proroga
dell'efficacia della dichiarazione di
pubblica utilità” (Cons. Stato, IV,
31.07.2000, n.4215”;
- che “nella dichiarazione
di pubblica utilità dell'opera devono essere
espressamente indicati, oltre ai termini di
inizio e di conclusione della procedura
espropriativa, anche quelli concernenti
l'avvio ed il compimento dei lavori” (Cons.
Stato, V, 18.3.2002, n.1561);
- che “la
necessità di prefissione di termini delle
procedure di espropriazione risponde alla
necessità di carattere costituzionale di
limitare il potere discrezionale delle p.a.
al fine di evitare che i beni dei privati
siano sottoposti ad uno stato di soggezione
per un tempo indeterminato” (Cons. Stato, VI,
04.04.2003, n. 1768);
- che “l'indicazione dei
termini entro i quali dovranno cominciarsi e
concludersi le espropriazioni ed i lavori,
ai sensi dell'art. 13 l. n. 2359 del 1865,
deve figurare nell'atto con il quale si
dichiara un'opera di pubblica utilità,
indifferibilità ed urgenza, all'evidente
fine di far sì che la P.A., che decida di
disporre della proprietà privata con
l'espropriazione, ponga essa stessa dei
limiti temporali per l'inizio e la
conclusione dell'opera che poi dovrà
rispettare” (TAR Lazio, Roma, II,
10.05.2005, n. 3484; 21.06.2007, n. 5656;
TAR Campania, Salerno, I, 08.09.2006,
n. 1330; 11.06.2002, n. 457; TAR Abruzzo
L’Aquila, 20.05.2002, n. 302; Cons. Stato, V,
25.01.2002, n. 399; IV, 17.04.2000, n. 2283; V,
11.01.1999, n. 1758; TAR Veneto, I,
25.06.1998, n. 1206; Cons. Stato, IV,
27.11.1997, n. 1326);
►
quanto al principio enunciato sub b):
- che
“l'art. 13 l. n. 2359 del 1865 dispone che
il decreto dichiarativo della pubblica
utilità deve contenere anche i termini entro
i quali devono iniziarsi e completarsi le
espropriazioni ed i lavori; scaduti tali
termini, la dichiarazione di pubblica
utilità diviene inefficace e non può procedersi all'espropriazione se non in base
ad una nuova dichiarazione di pubblica
utilità" (TAR Lazio, Roma, II, 10.05.2005,
n. 3484; Cons. Stato, VI, 10.10.2002, n.
5443);
- che “qualora siano scaduti i termini
fissati per il compimento
dell'espropriazione, nel provvedimento che
ha dichiarato la pubblica utilità dell'opera
e debba escludersi una valida proroga degli
stessi (…) cessa la legittima occupazione
dell'area destinata all'espropriazione e
diviene irrilevante qualunque proroga del
periodo d'occupazione successivamente
disposta per legge" (Cass. Civ., I,
17.07.2001, n. 9700);
- quanto al principio enunciato sub c):
- che
“il prolungamento dell'efficacia di un
termine presuppone necessariamente che il
termine da prorogare non sia ancora scaduto,
per cui i termini fissati nella
dichiarazione di pubblica utilità dall'art.
13 della Legge n. 2359 del 1865 possono
essere prorogati dall'amministrazione al
fine di prolungare l'efficacia della
dichiarazione di pubblica utilità stessa, a
condizione che la proroga si perfezioni
prima della scadenza del termine che si
intende prorogare” (Cons. Stato, VI,
23.12.2008, n. 6516; IV, 22.05.2006, n. 3025;
TAR Lazio, Roma, II, 10.05.2005, n. 3484;
TAR, Sardegna, II, 13.07.2007, n. 1618;
TAR Lazio, Roma, II, 13.10.2006, n. 10374;
TAR Toscana, III, 05.03.2003, n. 857; Cons.
Stato, IV, 22.12.2003, n. 8462);
- che
“l'istituto della proroga del termine, che
per il suo carattere generale deve trovare
applicazione anche ai termini stabiliti
nelle ipotesi di pubblica utilità "ex lege",
potrà operare solo se la proroga venga
disposta prima della scadenza del triennio
per l'inizio dei lavori, senza che possa
attribuirsi alcun rilievo all'eventuale
maggior termine ancora in corso fissato per
l'ultimazione dell'opera, che comporta a sua
volta l'inefficacia della dichiarazione di
pubblica utilità se i lavori, iniziati
tempestivamente, non vengono ultimati nel
maggiore termine fissato all'atto
dell'approvazione del progetto” (Cass. Civ.,
I, 08.05.2003, n. 6979);
- che “… il
provvedimento di proroga deve essere
motivato e non è sufficiente l'indicazione
che il protrarsi delle procedure non
consente il rispetto dei termini
originariamente fissati circostanza
quest'ultima che potrebbe essere imputabile
all'amministrazione” (Cons. Stato, VI,
10.10.2002, n. 5443; TAR Lazio, Roma, II,
10.05.2005, n. 3484);
- che “(…) … l'istituto
della proroga riveste caratteri eccezionali
e la sua operatività deve essere
giustificata dalla reale sussistenza di
oggettive difficoltà al compimento di atti
espropriativi, e comunque non dipendenti
dalla volontà dell’Ente espropriante” (Cons.
Stato, VI, 04.04.2003, n. 1768; 10.10.2002,
n. 5443; IV, 28.12.2000, n. 6997; 23.11.2000,
n. 6221; TAR Calabria, Reggio Calabria,
08.03.2001, n. 213);
- che “in base all'art. 13
della Legge n. 2359 del 1865 (…) non
costituisce valida ragione giustificativa la
generica motivazione relativa al protrarsi
delle procedure espropriative, che non abbia
consentito il rispetto dei termini
originariamente fissati” (TAR Toscana, III,
05.03.2003, n. 857; Cons. Stato, VI,
04.04.2003, n. 1768; IV, 28.12.2000, n.
6997);
- che “è illegittimo il provvedimento con cui
l'amministrazione dispone la proroga dei
predetti termini, limitandosi a dare atto
dell'impossibilità di concludere le
procedure per l'esistenza di un contenzioso
(non meglio specificato nel contesto del
provvedimento), trattandosi di circostanza
non riconducibile al concetto di forza
maggiore o di impedimento obiettivo ed
insuperabile” (TAR Calabria, Reggio
Calabria, 08.03.2001, n. 213);
►
quanto al principio enunciato sub d):
- che
“qualora siano scaduti i termini fissati per
il compimento dell'espropriazione”, la
proroga -ove possa essere disposta- “…
deve provenire dalla stessa autorità che ha
dichiarato la pubblica utilità ed ha fissato
i termini originari …” (Cass. Civ., I,
17.07.2001, n. 9700);
- che "è illegittima la
proroga dei termini per la conclusione delle
espropriazione che non sia stabilita dalla
medesima autorità che ha dichiarato di
pubblica utilità" (Cons. Stato, VI, 02.05.2006,
n. 2423);
►
quanto al principio enunciato sub e):
- che
“quando un sub-procedimento non fa parte
dell'ordinaria sequenza procedimentale, come
nel caso in cui riguardi la proroga dei
termini per il completamento dei lavori di
un'opera pubblica e della dichiarazione di
pubblica utilità, l'amministrazione deve
inviare ai diretti interessati un apposito
avviso di inizio del procedimento ex art. 7
l. n. 241 del 1990” (Cons. Stato, IV,
16.03.2001, n. 1578);
- che “la comunicazione di
avvio del procedimento è stata ritenuta
necessaria anche nel procedimento
finalizzato a prorogare i termini del
provvedimento di dichiarazione di pubblica
utilità, stante la sua natura di sub
procedimento autonomo all'interno di quello
più generale volto alla dichiarazione di
pubblica utilità, anche se implicito,
nell'approvazione del progetto di opera
pubblica. (…) Del resto la proroga è un
provvedimento discrezionale, rispetto al
quale la partecipazione del privato non è
inutile e può servire ad evidenziare la
sussistenza degli eccezionali presupposti
per l'adozione del provvedimento" (Cons.
Stato, VI, 10.10.2002, n. 5443);
- che “è
illegittima la proroga dei termini della
dichiarazione di pubblica utilità non
preceduta dalla comunicazione di avvio del
procedimento” (Cons. Stato, VI, 10.10.2002,
n. 5443);
- che “nell'ambito di un procedimento
espropriativo il provvedimento che proroga i
termini per l'intervento ablativo
costituisce il frutto di un autonomo sub
procedimento eventuale e straordinario
rispetto al procedimento tipico; pertanto,
in tal caso, l'amministrazione ha l'obbligo
di comunicare l'avvio del sub procedimento
col quale si proroga il termine di
assoggettamento del bene privato
all'intervento ablativo” (TAR Lazio,
Roma, II, 13.10.2006, n. 10374);
- che “anche
in relazione al procedimento di proroga dei
termini per l'espropriazione deve essere
consentita la partecipazione degli eventuali
interessati, potendo l'atto di proroga
influire su diversi aspetti, tra cui quello
del momento del pagamento dell'indennità”
(Cons. Stato, VI, 05.12.2007, n. 6183);
►
quanto al principio enunciato sub f):
- che
“è illegittimo il provvedimento che, in
luogo di rimuovere l'intera procedura,
disponga la proroga dei termini per l'inizio
della procedura espropriativa stabiliti nel
decreto di dichiarazione di pubblica utilità
in sanatoria dell'avvenuta scadenza di
termini stessi” (Cons. Stato, IV,
23.11.2000, n. 6221);
- che “la rinnovazione
della procedura espropriativa a differenza
dell'istituto della proroga dei termini -
opera sempre in soluzione di continuità
rispetto alla pregressa fase, alla quale non
ha la possibilità di raccordarsi con effetti
"ex tunc"; conseguentemente è necessario che
alla data di adozione del provvedimento di
riapprovazione sussistano le condizioni di
attualità e concretezza dell'interesse
pubblico che si intendono conseguire con la
realizzazione dell'opera” (Cons. Stato, IV,
24.07.2003, n. 4239);
- che “l'art. 13 l. n.
2359 del 1865 dispone che il decreto
dichiarativo della pubblica utilità deve
contenere anche i termini entro i quali
devono iniziarsi e completarsi le
espropriazioni ed i lavori; scaduti tali
termini, la dichiarazione di pubblica
utilità diviene inefficace e non può procedersi all'espropriazione se non in base
ad una nuova dichiarazione di pubblica
utilità” (Cons. Stato, VI, 02.05.2006, n.
2423; 10.10.2002 n. 5443; TAR Lazio,
Roma, II, 10.05.2005, n. 3484; Cons. Stato, IV, 23.11.2000, n. 6221; 24.07.2003, n. 4239;
TAR Toscana, III, 13.11.2002, n. 2699;
Cons. Stato, VI, 10.10.2002, n. 5443);
- che
“seppure è in facoltà dell'espropriante
condurre a realizzazione un progetto di
opera pubblica, di cui siano scaduti i
termini obbligatoriamente indicati per il
compimento dei lavori, è necessario che la riapprovazione dia luogo ad una nuova
dichiarazione di pubblica utilità, con un
nuovo avvio del procedimento finalizzato a
tale dichiarazione e con una nuova
fissazione dei termini, essendo
insufficiente la mera proroga dei termini
originariamente fissati” (Cass. Civ., SS. UU.,
26.04.2007, n. 10024) (TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 02.07.2012 n. 3127 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Sulla
cosiddetta “espropriazione
indiretta” o “sostanziale” in assenza di un
idoneo titolo previsto dalla legge.
Ai fini
dell’annullamento dell’atto oggetto di
impugnazione, occorre poi tener conto
dell’orientamento comunitario (Corte Europea
Diritti Uomo, 06.03.2007, n. 43662) che
preclude di ravvisare una “espropriazione
indiretta” o “sostanziale” in assenza di un
idoneo titolo previsto dalla legge.
Il T.U. n. 327/2001, attraverso la
disciplina contenuta nell’art. 43, aveva
originariamente introdotto un meccanismo che
attribuiva all’Amministrazione il potere di
acquisire la proprietà dell’area con un atto
formale di natura ablatoria e discrezionale
al termine del procedimento nel corso del
quale vanno motivatamente valutati gli
interessi in conflitto; il citato art. 43
era stato in definitiva emesso dal
Legislatore delegato per consentire
all'Amministrazione di adeguare la
situazione di fatto a quella di diritto
quando il bene fosse stato <modificato per
scopi di interesse pubblico> (fermo restando
il diritto del proprietario di ottenere il
risarcimento del danno).
La Corte
Costituzionale, però, con sentenza n. 293
dell’08.10.2010, ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale del cennato
art. 43: muovendo dalla contrapposizione tra
la Corte di Cassazione, che esclude
l’ammissibilità dell’adozione di un
provvedimento di acquisizione sanante ex
art. 43 con riguardo alle occupazioni appropriative verificatesi prima
dell’entrata in vigore del D.P.R. n. 327 del
2001, e il Consiglio di Stato, secondo il
quale «la procedura di acquisizione in
sanatoria di un’area occupata sine titulo,
descritta dal citato articolo 43, trova una
generale applicazione anche con riguardo
alle occupazioni attuate prima dell’entrata
in vigore della norma», la Consulta ha
affrontato la possibilità di acquisire alla
mano pubblica un bene privato, in precedenza
occupato e modificato per la realizzazione
di un’opera di interesse pubblico, anche nel
caso in cui l’efficacia della dichiarazione
di pubblica utilità sia venuta meno, con
effetto retroattivo, in conseguenza del suo
annullamento o per altra causa, o anche in
difetto assoluto di siffatta dichiarazione.
Preso atto che la delega riguardava il
«riordino» delle norme elencate
nell’allegato I alla legge n. 59 del 1997
ed, in particolare, il «procedimento di
espropriazione per causa di pubblica utilità
e altre procedure connesse: legge 25.06.1865, n. 2359; legge 22.10.1971, n.
865», il giudice delle leggi ha affermato la
necessità che, in ogni caso, si faccia
riferimento alla ratio della delega, si
tenga conto della possibilità di introdurre
norme che siano un coerente sviluppo dei
principi fissati dal legislatore delegato e
detta discrezionalità venga esercitata
nell’ambito dei limiti stabiliti dai
principi e criteri direttivi.
In definitiva l’istituto previsto e
disciplinato dall’art. 43 era connotato da
numerosi aspetti di novità, rispetto sia
alla disciplina espropriativa oggetto delle
disposizioni espressamente contemplate dalla
legge-delega, sia agli istituti di matrice
prevalentemente giurisprudenziale, specie
nel momento in cui si era introdotta la
possibilità per l’Amministrazione e per chi
utilizza il bene di chiedere al giudice
amministrativo, in ogni caso e senza limiti
di tempo, la condanna al risarcimento in
luogo della restituzione; nel regime
risultante dalla norma impugnata, inoltre,
si era previsto un generalizzato potere di
sanatoria, attribuito alla stessa
Amministrazione che aveva commesso
l'illecito, a dispetto di un giudicato che
disponeva il ristoro in forma specifica del
diritto di proprietà violato. Il Legislatore
delegato, in definitiva, non poteva innovare
del tutto e derogare ad ogni vincolo alla
propria discrezionalità esplicitamente
individuato dalla legge-delega, dovendo
piuttosto limitarsi a disciplinare in modi
diversi la materia e ad espungere del tutto
la possibilità di acquisto connesso
esclusivamente a fatti occupatori,
garantendo la restituzione del bene al
privato in analogia con altri ordinamenti
europei.
A seguito dell’eliminazione dal mondo
giuridico dell'istituto della cd.
“acquisizione sanante” di cui all'art. 43
D.P.R. n. 327 del 2001, la Sezione (a
partire dalle pronunce nn. 261 e 262 del 18.01.2011) ha ritenuto che in siffatte
ipotesi il comportamento tenuto
dall’Amministrazione dovesse essere
qualificato non già come illecito, bensì
come illegittimo; si trattava di
un’illegittimità a cui non poteva porsi
rimedio neppure riesumando l'istituto di
origine giurisprudenziale della cosiddetta
“espropriazione sostanziale” -nelle due
ipotesi alternative della occupazione
acquisitiva o usurpativa- perché tale
istituto era stato ritenuto in contrasto con
l'ordinamento comunitario (cfr.: TAR
Sicilia Palermo I, 01.02.2011 n. 175; idem III,
21.01.2011 n. 115).
Del resto in nessun caso
-neppure a fronte della sopravvenuta
irreversibile trasformazione del suolo per
effetto della realizzazione dell’opera
pubblica- era possibile giungere ad una
condanna puramente risarcitoria a carico
dell’Amministrazione, poiché una tale
pronuncia presupponeva in ogni caso
l’avvenuto trasferimento della proprietà del
bene per fatto illecito dalla sfera
giuridica di parte ricorrente, originaria
proprietaria, a quella della P.A. che se ne
è illecitamente impossessata, esito, questo,
non consentito dal primo protocollo
addizionale della Convenzione Europea dei
diritti dell’uomo e dalla giurisprudenza
della Corte Europea dei diritti dell’uomo
(cfr. TAR Calabria, Catanzaro, I, 01.07.2010, n. 1418).
Pertanto, ricorrendone i
presupposti le Amministrazioni sono state
condannate alla restituzione a parte
ricorrente degli immobili in ragione
dell’accertato utilizzo degli stessi per
come materialmente appresi sia pure per fini
pubblicistici, atteso l’irrilevanza,
nell’ottica di una eventuale traslazione
della proprietà della res, che fosse stata
realizzata l’opera pubblica nella misura in
cui questa aveva modificato la destinazione
originaria del cespite e recato un
pregiudizio patrimoniale e non a carico di
parte ricorrente. Tale statuizione era
peraltro compatibile con la restituzione dei
cespiti e facoltà dello ius tollendi
concessa al proprietario dei manufatti alle
condizioni previste dall'art. 935 c.c.,
comma 1 e art. 937 c.c., laddove il diritto
al risarcimento e l’applicabilità
dell’art.2058 c.c. sarebbero entrati in
discussione ove si fosse rientrati nella
materia risarcitoria.
In costanza di vuoto normativo, le
Sezioni Unite della Corte di Cassazione
(31.05.2011, n. 11963) hanno affermato che
l’irreversibile trasformazione, anche
parziale, del fondo determina l’acquisto
della proprietà del bene, nei limiti della
parte trasformata, da parte
dell’Amministrazione che aveva dato corso al
processo espropriativo, mentre l’eventuale
domanda di risarcimento in forma specifica
sarebbe ordinariamente destinata ad avere
esito negativo, dovendo trovare prioritario
soddisfacimento l’interesse posto a base
della realizzazione dell’opera pubblica.
Dal
canto suo, a titolo esemplificativo, la
giurisprudenza amministrativa (TAR
Emilia-Romagna, Parma, I, 12.07.2011, n 245)
ha ritenuto che, proprio a seguito del
citato vuoto normativo, ove il privato
avesse chiesto unicamente il risarcimento
del danno per equivalente in ragione
dell’irreversibile trasformazione del bene,
detta richiesta andava considerata come
rinuncia alla restituito in integrum;
comunque la richiesta del solo risarcimento
per equivalente non determinerebbe un
effetto abdicativo della proprietà
all’Amministrazione occorrendo piuttosto un
accordo transattivo tra le parti (Cons.
Stato, IV, 13.06.2011, n. 3561; 01.06.2011,
n. 3331; 28.01.2011, n. 676), mentre se il
privato dovesse insistere per la tutela
restitutoria la stessa andrebbe disposta
eccezion fatta per la ricorrenza dei
presupposti per l’applicazione degli
artt. 2933, comma 2, o 2058 c.c. Di recente si
è poi affermato (Cons. Stato, IV, 29.08.2011,
n. 4833) che, essendo venuto meno il
procedimento espropriativo accelerato di cui
al citato art. 43, la P.A. avrebbe potuto
apprendere il bene facendo uso unicamente
del contratto tramite l’acquisizione del
consenso della controparte, ovvero del
provvedimento anche in assenza del consenso
ma con riedizione del procedimento
espropriativo con le sue garanzie.
Ad oltre nove mesi dalla sentenza di
incostituzionalità dell’originario art. 43,
con l’art. 34 del Decreto-Legge 06.07.2011,
n. 98 convertito in Legge 15.07.2011, n. 111
(in materia di misure urgenti per la
stabilizzazione finanziaria) è stato
reintrodotto attraverso l’art. 42-bis
l’istituto dell’acquisizione coattiva
dell’immobile del privato utilizzato
dall’Amministrazione per fini di interesse
pubblico, potendosi acquisire al suo
patrimonio indisponibile il bene del privato allorché la sua utilizzazione risponde a
“scopi di interesse pubblico” nonostante
difetti un valido ed efficace provvedimento
di esproprio o dichiarativo della pubblica
utilità.
Dunque anche nell’attuale quadro
normativo l’Amministrazione ha l’obbligo
giuridico di far venire meno l’occupazione
sine titulo e deve adeguare la situazione di
fatto a quella di diritto, o attraverso la
restituzione dei terreni ai titolari con
demolizione di quanto realizzato e relativa
riduzione in pristino (affrontando le
relative spese), ovvero attivandosi perché
vi sia un titolo d’acquisto dell’area da
parte del soggetto attuale possessore e che
sia demolito, paradossalmente, quanto
altrimenti risulterebbe meritevole di essere
ricostruito (Cons. Stato, VI, 01.12.2011,
n. 6351).
A seguito di un siffatto
provvedimento autoritativo sopravvenuto la
domanda di restituzione dell’area diventa
improcedibile, mentre l’obbligo
motivazionale ai sensi del nuovo comma 4
impone di dare conto dell’assenza di
ragionevoli alternative alla adozione del
nuovo provvedimento, che entro trenta giorni
va anche comunicato alla Corte dei Conti
(comma 7); ancora nella nuova versione
(commi 1, 2, 3 e 4) si fa riferimento
all’indennizzo, piuttosto che al
risarcimento del danno, quale corrispettivo
dell’attività posta in essere
dall’Amministrazione, ciò forse per la
liceità dell’attività, non retroattiva,
posta in essere dall’Autorità agente.
Laddove prima, anche in sede di contenziosi
diretti alla restituzione di un bene
utilizzato per scopi di interesse pubblico,
la P.A. poteva chiedere che il giudice
amministrativo disponesse la condanna al
risarcimento del danno, con esclusione della
restituzione, e successiva adozione del
provvedimento sanante dall’Amministrazione
interessata, ora (comma 2) il provvedimento
di acquisizione può essere adottato anche in
corso di giudizio di annullamento previo
ritiro dell’atto impugnato; il potere
acquisitivo dell’Amministrazione è
esercitabile anche in presenza di una
pronunzia giurisdizionale passata in
giudicato che abbia annullato il
provvedimento che costituiva titolo per
l’utilizzazione dell’immobile da parte della
stessa Amministrazione, atteso che il
giudicato è intervenuto sull’atto annullato
e non sul rapporto tra privato ed
Amministrazione.
Il nuovo atto, che
l’Amministrazione è legittimata ad adottare finché perdura lo stato di utilizzazione pur
se illegittima del bene del privato, è
distinto da quello annullato, tant’è che non
opera con efficacia retroattiva e non ha una
funzione sanante del provvedimento
annullato; in ogni caso la P.A. deve porre
in essere tutte le iniziative necessarie per
porre fine alla perdurante situazione di
illiceità, restituendo il bene al privato
solo quando siano cessate le ragioni di
pubblico interesse che avevano comportato
l’utilizzazione del suolo, dovendo in caso
contrario acquisire al suo patrimonio
indisponibile il bene su cui insiste o dovrà
essere realizzata l’opera pubblica o di
pubblico interesse.
Va poi preso atto che la
Corte di Strasburgo non si è pronunciata più
in senso critico nei confronti dell’istituto
originariamente disciplinato dal citato
art. 43, mentre la previsione di una “legale
via d’uscita” con l’esercizio di un potere
basato sull’accertamento dei fatti e sulla
valutazione degli interessi in conflitto
appare immune da questioni di
costituzionalità (Cons. Stato, VI,
15.03.2012, n. 1438) in quanto conforme alle
disposizioni della CEDU ed alla
giurisprudenza della Corte di Strasburgo che
in passato ha condannato la Repubblica
italiana proprio perché i giudici nazionali
avevano riscontrato la perdita della
proprietà in assenza di un valido
provvedimento motivato.
Premesso che in ogni caso non sarà possibile
la restituzione della nuda proprietà
superficiaria al privato, atteso che ciò che
rileva è appunto l’idoneità del bene del
privato a soddisfare, attraverso la sua
trasformazione fisica, l’interesse pubblico
perseguito dall’Amministrazione, la prima
giurisprudenza (TAR Sicilia, Catania, III,
19.08.2001, n. 2102) successiva all’entrata in
vigore del nuovo art. 42-bis ha ritenuto che
il giudice amministrativo, anche
nell’esercizio dei propri poteri equitativi
e nella logica di valorizzare la ratio della
novella legislativa di far sì che
l’espropriazione della proprietà privata per
scopi di pubblica utilità non si trasformi
in un danno ingiusto a carico del cittadino
e che gli effetti indennitari e/o
risarcitori conseguano necessariamente ad un
formale provvedimento della PA, possa
accogliere la domanda risarcitoria derivante
dall’occupazione senza titolo di un bene
privato per scopi di interesse pubblico, se
irreversibilmente trasformato, differendone
però gli effetti all’emissione di un formale
provvedimento acquisitivo ai sensi dello
stesso art. 42-bis
(TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 02.07.2012 n. 3127 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Espropriazione parziale.
In sede di opposizione alla stima per l’espropriazione
parziale di un terreno, va esclusa la risarcibilità del
danno
alle particelle rese inagibili o inutilizzabili a seguito
dell’opera pubblica, poiché trattasi di voce ricompresa
nell’indennità di espropriazione, che per definizione
riguarda
l’intera diminuzione patrimoniale subita dal soggetto
passivo.
Decidendo sull’impugnazione proposta avverso una decisione
del Tribunale superiore delle acque pubbliche, le Sezioni
Unite hanno, in primo luogo, rigettato il motivo di censura
con il quale i ricorrenti avevano censurato l’impugnata
sentenza
nella parte in cui aveva ritenuto che l’indennità di
esproprio copre anche il danno subito dall’espropriato alle
zone attigue.
La Corte ha ritenuto che correttamente il TSAP aveva escluso
la risarcibilità del danno alle particelle rese inagibili o
inutilizzabili
a seguito dell’opera pubblica, poiché trattasi di voce
ricompresa nell’indennità di espropriazione, che per
definizione
riguarda l’intera diminuzione patrimoniale subita dal
soggetto passivo.
Il deprezzamento, che abbiano subito le parti residue del
bene
espropriato, è da considerare voce ricompresa nell’indennità
di espropriazione, che per definizione riguarda l’intera
diminuzione
patrimoniale subita dal soggetto passivo del provvedimento
ablativo, ivi compresa la perdita di valore della
porzione residua derivata dalla parziale ablazione del fondo
(Cass. 21.11.2001, n. 14640; 06.06.2003, n.
9096), sia essa agricola o edificabile (Cass. 05.06.2001,
n. 7590), non essendo concepibili, in presenza di un’unica
vicenda
espropriativa, due distinte somme, imputate l’una a titolo
di indennità di espropriazione e l’altra a titolo di
risarcimento
del danno per il deprezzamento subito dai residui terreni
(Cass. 10.03.2000, n. 2737).
Ne consegue che qualora il giudice accerti, anche d’ufficio,
che la parte residua del fondo sia intimamente collegata con
quella espropriata da un vincolo strumentale ed oggettivo
(tale, cioè, da conferire all’intero immobile unità
economica
e funzionale), e che il distacco di parte di esso influisca
oggettivamente
(con esclusione, dunque, di ogni valutazione
soggettiva) in modo negativo sulla parte residua -e tale
indagine
resta nell’ambito della determinazione dell’indennità,
venendo in considerazione il pregiudizio di quella porzione
residua non a fini risarcitori, ma come parametro
indennitario,
e dunque non soggetto a particolare onere di allegazione- deve, per l’effetto, riconoscere al proprietario il
diritto ad
un’unica indennità, consistente nella differenza tra il
giusto
prezzo dell’immobile prima dell’occupazione ed il giusto
prezzo (potenziale) della parte residua dopo l’occupazione
dell’espropriante (Cass. 27.09.2002, n. 14007).
Di nessun rilievo, ai fini dell’affermazione di un diverso
principio, è la circostanza che detti effetti negativi si siano
realizzati
su zone comunque estranee alla dichiarazione di pubblica
utilità, una volta ritenuto che le opere accessorie
eseguite,
che determinarono il fatto dell’interclusione dei terreni
residui
degli attori, erano previste e conformi al progetto
dell’opera
pubblica.
Come hanno rilevato le stesse Sezioni Unite (08.04.2008,
n. 9041), nell’espropriazione parziale regolata dalla L. 25.06.1865, n. 2359, art. 40 va compresa ogni ipotesi di
diminuzione di valore (nella specie interclusione) della
parte non
interessata dall’espropriazione, con necessario riferimento
al
concetto unitario di proprietà ed al nesso di funzionalità
tra
ciò che è stato oggetto del provvedimento ablativo e ciò
che è rimasto nella disponibilità dell’espropriato, tanto più
ove si
tratti di suoli a destinazione agricola, in cui rileva l’unitarietà
costituita dalla destinazione a servizio dell’azienda
agricola.
I profili irreversibili di danno subiti dalla parte residua
della
proprietà, a causa dell’interclusione della medesima dopo
l’espropriazione, non possono che trovare riconoscimento
nei concetti di espropriazione ed occupazione parziale.
Nella
fattispecie regolata dall’art. 40, va ricompresa ogni
ipotesi di
diminuzione di valore della parte non interessata
dall’espropriazione,
per cui, contrariamente a quanto rilevato dai ricorrenti, è ininfluente che la parte residua danneggiata non sia
compresa nella dichiarazione di pubblica utilità, ai fini
dell’espropriazione.
Infatti nella valutazione del danno da espropriazione
parziale ex art. 40 cit. si prescinde dal dato catastale
della particella, essendo necessario riferirsi al concetto
di
proprietà e al nesso funzionale tra ciò che è stato
oggetto
del provvedimento ablativo e ciò che è rimasto nella disponibilità
dell’espropriato (Cass. 24.09.2007, n. 19570),
tanto più ove si tratti di suoli a destinazione agricola,
in cui rileva
l’unitarietà costituita dalla destinazione a servizio
dell’azienda
agricola (Cass. 14.05.1998, n. 4848; 15.07.1977, n. 4404).
E'
stato invece accolto il motivo con il quale i ricorrenti
censuravano
l’impugnata sentenza per aver ritenuto che fosse
giuridicamente corretto l’operato del TRAP, che aveva
determinato
l’indennità annuale da occupazione provvisoria legittima
in un dodicesimo dell’indennità di esproprio, senza tener
conto della maggiorazione per il consenso alla
determinazione
di tale indennità.
La sentenza in rassegna ha ricordato che le stesse Sezioni
Unite (18.12.2010, n. 24303) hanno statuito che l’indennità
di occupazione legittima, che, in base alla L. 22.10.1971, n. 865, art. 20, comma 3
è pari, per ciascun anno
di occupazione, ad un dodicesimo dell’indennità che sarebbe
dovuta per l’espropriazione dell’area da occupare,
«calcolata
a norma dell’art. 16» della stessa legge, va commisurata
alla
definitiva indennità di espropriazione effettivamente
dovuta,
dovendo ad essa attribuirsi quella stessa qualificazione di
indennità
provvisoria che si rinviene nella cit. L. n. 865, art. 12,
comma 1, il quale rinvia, per la relativa determinazione,
proprio
all’art. 16 anzidetto. Siffatta determinazione non trova
deroga nell’ambito della disciplina indennitaria posta dalla
L.
14.05.1981, n. 219, art. 80 il cui carattere speciale
non è elemento sufficiente a spezzare il nesso logico ed
economico
che, per legge, lega tutte le indennità, sia di
espropriazione
che di occupazione legittima, posto che la anzidetta
normativa di riferimento, fissa l’entità delle indennità
di occupazione
in misura strettamente percentuale all’indennità
di espropriazione parimenti dovuta.
Il suddetto principio e` stato affermato tanto per l’indennità
di
occupazione legittima del suolo destinato all’esproprio
quanto
per quello utilizzato per le fasce laterali occupate per le
necessità del ‘‘cantiere’’ e transito. La Corte lo ha
ribadito,
sottolineando che esso si fonda sulla considerazione che -in
presenza di legittimo procedimento di occupazione e di
esproprio- il sistema prevede un nesso (logico e,
soprattutto,
economico) che, per la legge, lega, sempre e comunque,
tutte le indennità (sia di espropriazione che di
occupazione
legittima), con la conseguenza che le disposizioni attinenti
alle
indennità da occupazione provvisoria legittima, perché
tendono al ristoro del reddito perduto durante l’occupazione
del bene, non possono che fissare l’entità delle indennità
di
occupazione in misura strettamente percentuale all’indennità
di espropriazione parimenti dovuta: quella annuale di ‘‘un
dodicesimo’’ corrisponde, infatti e comunque, ad una redditività
predeterminata in misura percentuale fissa (8,33% all’anno)
dallo stesso legislatore, a cui va aggiunto l’aumento
del 50% per il concordamento bonario di cui alla L. n. 865
del 1971, art. 12.
La Corte ha aggiunto che non rileva se il decreto di
esproprio
sia stato tempestivamente emesso (rilevante -invece- in
relazione
alla tematica affrontata da Corte cost. n. 24/2009),
ma solo se l’indennità di espropriazione sia stata
effettivamente
accettata e quindi sia dovuta con l’aumento nella misura
corrisposta per il concordamento bonario.
Rimane, invece, fuori da questa regolamentazione il caso di
imposizione di fatto di servitù pubblica di acquedotto, a
seguito
di realizzazione dell’opera idraulica senza una procedura
ablatoria, in cui, secondo la costante giurisprudenza di
legittimità, trova applicazione analogica l’art. 1038 c.c., che
distingue,
ai fini della determinazione dell’indennità, tra le parti
fisicamente occupate; dall’opera idraulica e quelle
costituenti
le cosiddette fasce di rispetto necessarie per lo spurgo e
per la manutenzione delle condotte, stabilendo che per le
prime sia corrisposto al proprietario l’intero valore e per
le altre soltanto la metà di tale valore (Cass., Sez. Un.,
13.02.2001, n. 51) (Corte di Cassazione, Sezz. Un. civili,
sentenza 25.06.2012
n. 10502 -
tratto da Urbanistica e appalti n. 10/2012). |
ESPROPRIAZIONE:
Nomina di due tecnici per la determinazione
definitiva dell’indennità di espropriazione:
cosa si fa se l'autorità espropriante non
provvede?
La risposta alla domanda è fornita dalla
sentenza 11.06.2012 n. 802 del
TAR Veneto, Sez. II.
Scrive il TAR: "l’articolo 21 del DPR n.
327/2001 dispone, al comma 2, che, se manca
l’accordo sulla determinazione
dell’indennità di espropriazione, l’autorità
espropriante invita il proprietario
interessato a comunicare entro i successivi
venti giorni se intenda avvalersi del
procedimento di determinazione
dell’indennità previsto dai commi
successivi. In particolare, il comma 3
dispone che, in caso di comunicazione
positiva del proprietario, l’autorità
espropriante nomina due tecnici, tra cui
quello eventualmente già designato dal
proprietario e fissa il termine entro il
quale va presentata la relazione da cui si
evinca la stima del bene, mentre la nomina
di un terzo tecnico spetta al Presidente del
tribunale civile nella cui circoscrizione si
trovi il bene da espropriare.
Nel caso oggetto del presente giudizio, i
ricorrenti non hanno condiviso la misura
della indennità provvisoria, onde hanno
prodotto istanza (in data 08-10-2011) nella
quale, indicato il tecnico di propria
fiducia, hanno richiesto all’autorità
espropriante la nomina di due tecnici, a
mente del richiamato articolo 21 del T.U.
Espropriazioni. Non avendo avuto riscontro
alla loro richiesta, in data 09.02.2012 e
03.02.2012, hanno notificato al Ministero
dello Sviluppo Economico e alla Snam s.p.a.
diffida stragiudiziale, intimando
l’effettuazione dell’adempimento di cui alla
citata norma.
Il Ministero dello Sviluppo Economico,
peraltro, non ha dato corso al procedimento
avviato dai privati, onde si è certamente
formato il silenzio-rifiuto censurato nel
presente giudizio, considerato che
dall’articolo 2 della legge n. 241/199021 e
dell’articolo 21 del dpr n. 327/2001 deriva
indiscutibilmente l’obbligo per l’autorità
espropriante di concludere il procedimento
di determinazione definitiva dell’indennità
con un provvedimento espresso e motivato.
Va, per l’effetto, dichiarata
l’illegittimità del silenzio-rifiuto serbato
sulla richiesta del privato ed impartito
l’ordine giurisdizionale di conclusione del
procedimento per la determinazione
definitiva dell’indennità" (commento
tratto da e link a http://venetoius.myblog.it). |
ESPROPRIAZIONE: L’art.
42-bis d.p.r. n. 327/2001 disciplina uno
speciale procedimento ablatorio “ex
post” a fronte del quale, come espressamente
stabilito dal legislatore, al proprietario
spetta un indennizzo (non un risarcimento)
per la perdita del diritto di proprietà, con
la conseguenza che l’adozione del
provvedimento di acquisizione ai sensi del
citato art. 42-bis muta da risarcitoria ad indennitaria la pretesa del soggetto
spogliato del bene.
Da ciò conseguirebbe che il sindacato sui
provvedimenti assunti ai sensi del citato
art. 42-bis è, per quanto attiene
all’indennizzo corrisposto per la perdita
del diritto di proprietà, sottoposto alla
cognizione del giudice ordinario, in quanto
l’art. 133, primo comma, lettera f), cod.
proc. amm. dispone che non sussiste la
giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo quando si tratti della
determinazione e della corresponsione “delle
indennità in conseguenza dell’adozione di
atti di natura espropriativa o ablativa”
(nel cui novero rientra senz’altro quello
emesso ai sensi dell’art. 42-bis).
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L’iniziale occupazione, qualora non siano
stati annullati tutti gli atti a decorrere
dalla dichiarazione di pubblica utilità,
diviene illegittima solo dopo la scadenza
del proprio termine di efficacia ed in
ragione di ulteriori vizi del procedimento,
normalmente collegati alla mancata
tempestiva emanazione del decreto di
esproprio.
Ne consegue che per il periodo di
occupazione legittima spetta al ricorrente,
non il risarcimento del danno, ma
l’ordinaria tutela indennitaria, su cui,
peraltro, sussiste la giurisdizione del
giudice ordinario.
---------------
La scadenza di un provvedimento di
occupazione d’urgenza di un’area non fa
venir meno l’occupazione di fatto della
stessa da parte della Pubblica
Amministrazione, essendo necessario, per far
cessare l’occupazione, un atto di riconsegna
del bene al proprietario, in mancanza del
quale l’occupazione permane e, in quanto
illegittima, costituisce fonte di
responsabilità per l’Amministrazione
occupante.
La detenzione qualificata dell’area da parte
della Pubblica Amministrazione a seguito di
provvedimento di occupazione d’urgenza si
trasforma, infatti, a seguito della scadenza
del termine di efficacia del provvedimento,
in detenzione “sine titulo” e ciò determina
il sorgere in capo all’Amministrazione di un
obbligo di restituzione dell’immobile al
legittimo proprietario.
Per la riconsegna dell’area non si
richiedono le formalità previste per
l’occupazione (redazione di apposito verbale
di immissione in possesso redatto in
contraddittorio con il proprietario o, in
sua assenza, con l’intervento di due
testimoni), atteso che esse sono contemplate
avuto riguardo agli specifici effetti che il
legislatore collega all’immissione nel
possesso dell'immobile (mantenimento
dell’efficacia del decreto, decorrenza
dell’indennità di occupazione, etc.), ma
deve comunque trovare applicazione la
normativa contenuta negli art. 1140 e segg.
cod. civ., secondo la quale, per la perdita
del possesso materiale dell’immobile nel
caso di detenzione qualificata, occorre
quanto meno che venga esteriorizzato, da
chiari ed inequivoci segni, l’“animus
derelinquendi”.
Incombe, peraltro, sull’Amministrazione
l’onere delle prova in ordine
all’intervenuta restituzione del bene
locato, in armonia con quanto ritenuto dalla
Suprema Corte in materia di prova
dell’inadempimento.
In base al principio della persistenza del
diritto desumibile dall’art. 2697 (“chi
eccepisce che il diritto si è modificato o
estinto deve provare i fatti su cui
l’eccezione si fonda”), grava sul debitore
l’onere di dimostrare il fatto estintivo
dell’obbligazione, in quanto, come
sinteticamente espresso dal brocardo
“negativa non sunt probanda”, pretendere che
sia provato un fatto negativo mediante fatti
positivi contrari significa introdurre
un’irrazionale e non agevole tecnica
probatoria e rendere eccessivamente
difficile l’esercizio del diritto del
creditore, per cui si rende necessario far
riferimento all’opposto principio della
riferibilità o della vicinanza della prova,
con la conseguenza che il creditore può
limitarsi ad allegare l’inadempimento,
restando a carico del debitore l’onere di
dimostrare il contrario.
Poiché nel caso di specie l’Amministrazione
non ha dato prova della restituzione
dell’area allo spirare dei tre decreti di
occupazione, deve ritenersi, sulla scorta
delle considerazioni che precedono, che la
detenzione degli immobili si sia protratta
“sine titulo” oltre i termini contemplati
nei decreti stessi.
---------------
Ai fini del risarcimento derivante da
occupazione divenuta “sine titulo”, il
valore venale di riferimento deve essere
quello del bene al tempo della cessazione
dell’occupazione legittima, poiché la
previsione, nel citato art. 43, sesto comma,
lett. b), degli interessi moratori a
decorrere dal giorno in cui il terreno sia
stato occupato (anche tramite imposizione di
servitù senza titolo), dimostra che la sorte
capitale deve essere riferita a quel momento
pregresso per essere poi attualizzata al
tempo della condanna.
In base ai principi generali sulla
liquidazione dell’obbligazione risarcitoria,
alle somme dovute a tale titolo, con
esclusione di quella dovuta a titolo di
indennità di asservimento (già calcolata sul
valore attuale della servitù), vanno
aggiunti la rivalutazione monetaria e gli
interessi legali e che, in particolare, gli
interessi devono essere computati sulle
somme anno per anno rivalutate.
Per quanto attiene il computo degli
interessi, non risulta applicabile né l’art.
5 d.lgs. n. 231/2002, in quanto la norma si
riferisce espressamente al “saggio degli
interessi ai fini del presente decreto” e il
decreto concerne le transazioni commerciali
(non le obbligazioni risarcitorie), né
l’art. 50 d.p.r. n. 327/2003, in quanto la
norma disciplina il calcolo dell’indennità
di occupazione.
Il Consiglio di Stato (Sez. VI,
n. 1438/2012) ha recentemente affermato che
l’art. 42-bis d.p.r. n. 327/2001 disciplina
uno speciale procedimento ablatorio “ex
post” a fronte del quale, come espressamente
stabilito dal legislatore, al proprietario
spetta un indennizzo (non un risarcimento)
per la perdita del diritto di proprietà, con
la conseguenza che l’adozione del
provvedimento di acquisizione ai sensi del
citato art. 42-bis muta da risarcitoria ad indennitaria la pretesa del soggetto
spogliato del bene.
Da ciò conseguirebbe che il sindacato sui
provvedimenti assunti ai sensi del citato
art. 42-bis è, per quanto attiene
all’indennizzo corrisposto per la perdita
del diritto di proprietà, sottoposto alla
cognizione del giudice ordinario, in quanto
l’art. 133, primo comma, lettera f), cod.
proc. amm. dispone che non sussiste la
giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo quando si tratti della
determinazione e della corresponsione “delle
indennità in conseguenza dell’adozione di
atti di natura espropriativa o ablativa”
(nel cui novero rientra senz’altro quello
emesso ai sensi dell’art. 42-bis).
Nel caso in esame si radica, invece, la
giurisdizione del giudice amministrativo sia
in quanto viene in rilievo un provvedimento
adottato, in forza di giudicato, ai sensi
dell’art. 43 d.p.r. n. 327/2001 (il quale,
per quanto attiene alla perdita del diritto
di proprietà, parla espressamente -non di
indennizzo, ma- di risarcimento del danno),
sia perché, come sopra indicato, il gravame
deve qualificarsi come ricorso per ottenere
l’esecuzione di una decisione del giudice
amministrativo, con la conseguenza che la
sussistenza della giurisdizione dipende
anche dal disposto dell’art. 113, primo
comma, cod. proc. amm..
Per le considerazioni che precedono risulta,
quindi, infondata, ad eccezione della
richiesta relativa alle spese di cui al
ricorso n. 15/2004, l’istanza con cui il
ricorrente ha riformulato la propria domanda
ai sensi dell’art. 42-bis d.p.r. n.
327/2001, atteso che il Comune di Siracusa
ha l’obbligo di dare esecuzione al giudicato
formatosi sulla citata sentenza n. 1278 del
07.06.2007, la quale fa riferimento alla
-parzialmente- diversa disciplina di cui
all’art. 43.
Anche se per ragioni in larga misura diverse
da quelle prospettate dal ricorrente, deve,
invece, condividersi la tesi del Gurrieri
secondo cui l’Amministrazione non ha dato
corretta esecuzione alla sentenza di questo
Tribunale n. 1278 in data 07.06.2007.
Al riguardo va, innanzitutto, precisato che,
a differenza di quanto ritenuto dal
ricorrente, nessun risarcimento è dovuto per
il periodo di occupazione legittima del
suolo, in quanto, sebbene il procedimento
espropriativo non sia stato definito nel
termine previsto, la fase relativa
all’occupazione, in difetto di qualsiasi
impugnativa, risulta legittima ed efficace
sino alla scadenza del termine previsto nei
singoli decreti di occupazione.
Come, infatti, affermato dalla
giurisprudenza (cfr. Cons. St., IV, n.
4408/2011), l’iniziale occupazione, qualora
non siano stati annullati tutti gli atti a
decorrere dalla dichiarazione di pubblica
utilità, diviene illegittima solo dopo la
scadenza del proprio termine di efficacia ed
in ragione di ulteriori vizi del
procedimento, normalmente collegati alla
mancata tempestiva emanazione del decreto di
esproprio.
Ne consegue che per il periodo di
occupazione legittima spetta al ricorrente,
non il risarcimento del danno, ma
l’ordinaria tutela indennitaria, su cui,
peraltro, sussiste la giurisdizione del
giudice ordinario.
Ciò premesso, deve ribadirsi che, come
accertato dal verificatore, l’area
effettivamente interessata dal collettore
fognante si estende per metri quadri 410.
In proposito occorre chiarire l’esatto
significato del pronuncia del Tribunale n.
1278 del 07.06.2007.
Il Tribunale ha ordinato al Comune di
Siracusa di provvedere ai sensi del citato
art. 43 d.p.r. n. 327/2001, cioè, in primo
luogo, di emanare “ex post” un provvedimento
di imposizione della servitù.
Il quinto comma dell’art. 43 stabilisce,
infatti, che le disposizioni di cui ai
precedenti commi si applicano, in quanto
compatibili, anche quando sia imposta una
servitù di diritto privato o di diritto
pubblico.
Il successivo sesto comma dispone che, salvi
i casi in cui la legge disponga altrimenti,
nelle ipotesi previste nei precedenti commi
il risarcimento del danno è determinato:
a)
nella misura corrispondente al valore del
bene utilizzato per scopi di pubblica
utilità e, se l’occupazione riguarda un
terreno edificabile, sulla base delle
disposizioni dell’articolo 37, commi 3, 4,
5, 6 e 7;
b) col computo degli interessi
moratori, a decorrere dal giorno in cui il
terreno sia stato occupato senza titolo.
Nell’ipotesi di imposizione di servitù,
pertanto, l’Amministrazione deve in primo
luogo corrispondere il valore del bene
utilizzato per scopi di pubblica utilità.
Ma, poiché in questo caso ad essere
acquisito per scopi di pubblica utilità non
è il bene nella sua interezza, ma la sola
servitù, il risarcimento del danno va
calcolato con riferimento al valore della
servitù imposta sul fondo, essendo questo il
senso dell’espressione di cui all’art. 43,
quinto comma, secondo cui le disposizioni di
cui ai precedenti commi si applicano, “in
quanto compatibili”, anche quando sia
imposta una servitù di diritto privato o di
diritto pubblico.
Per la determinazione del valore della
servitù occorre, quindi, fare riferimento
alla disciplina di cui all’art. 1038 c.c.
sull’indennità per l’imposizione
dell’acquedotto o dello scarico coattivo.
Come precisato dalla giurisprudenza (per
tutte, cfr. Cass. Civ. Sez. Un., n.
84/2001), il primo comma della norma prevede
che l’indennità sia dovuta in misura
corrispondente all’intero valore del fondo
per il terreno occupato dall’opera idraulica
vera e propria, mentre per le cosiddette
fasce di rispetto si applica il secondo
comma della disposizione indicata (che
prevede un’indennità pari alla metà del
valore del suolo), atteso che tali fasce
possono essere comunque sfruttate
economicamente da parte del proprietario del
fondo servente.
Nel caso in esame, come evidenziato dal
verificatore, deve tuttavia farsi
applicazione del criterio di cui all’art.
1038, secondo comma, c.c. per tutta l’area
interessata dal collettore fognante, in
quanto l’area risulta edificabile e la
volumetria edilizia rimane, quindi, nella
piena disponibilità del proprietario (che
può sfruttarla su altre proprietà o cederla
a terzi).
Ne consegue che, in relazione ai 410 metri
effettivamente interessati dalla presenza
del collettore fognante, il decreto di
asservimento deve prevedere un’indennità
pari al 50% del valore del terreno.
Il valore del terreno, tenendo conto delle
conclusioni del verificatore, dalle quali il
Collegio non ravvisa motivi per discostarsi,
deve essere stabilito con riferimento al
momento di emanazione del decreto di
asservimento, in quanto il risarcimento
dovuto, ai sensi dell’art. 43, sesto comma,
lett. a), per il valore del bene, ovvero
della servitù, non può che riferirsi al
valore del bene, o della servitù, nel
momento in cui il proprietario perde
interamente o parzialmente il proprio
diritto sulla cosa e tale momento non
coincide con quello di ultimazione
dell’opera pubblica, ma con quello in cui
l’Amministrazione adotta il provvedimento di
acquisizione (sul punto cfr. Con. Giust.
Amm. Reg. Sic., n. 52/2009).
Il Comune dovrà, tuttavia, verificare se
l’area di metri quadri 410 interessata dalla
presenza del collettore fognante coincida,
anche in parte, con la superficie di metri
quadri 2693,75 irreversibilmente trasformata
in strade urbane (cioè nelle odierne Vie
Asbesta e Don Puglisi).
Nell’ipotesi di coincidenza con la
superficie irreversibilmente trasformata,
infatti, l’Amministrazione non deve
corrispondere, per la sola parte
coincidente, alcuna indennità a titolo di
servitù, in quanto l’occupazione dell’area
determina la privazione totale del godimento
del bene da parte del proprietario ed è ,
quindi, incompatibile con un provvedimento
di mera limitazione del suo godimento.
Oltre a tale importo, l’Amministrazione, in
esecuzione della sentenza di questo
Tribunale n. 1278 del 07.06.2007, è
tenuta a corrispondere al ricorrente il
risarcimento del danno per l’occupazione
illegittima dell’area di metri quadri
3718,75 occupata per la realizzazione del
collettore fognante.
In realtà, a prescindere dall’insistenza su
un’area di metri quadri 410 delle opere
relative al collettore fognante (e a
prescindere, altresì, come sarà meglio
specificato nel seguito, dalla sopravvenuta
realizzazione della Via Asbesta e della Via
Don Puglisi), non vi è prova che sull’area
in questione l’occupazione del suolo si sia
effettivamente protratta oltre il termine
previsto nei tre decreti di occupazione.
Non vi è prova, cioè, che l’Amministrazione,
una volta scaduti i decreti di occupazione e
a prescindere dall’intervenuta realizzazione
del collettore fognante, abbia continuato ad
occupare l’area con opere e manufatti,
ovvero abbia in qualche modo impedito al
proprietario di rientrare nella legittima
disponibilità degli immobili.
Al riguardo deve, tuttavia, osservarsi che
la scadenza di un provvedimento di
occupazione d’urgenza di un’area non fa
venir meno l’occupazione di fatto della
stessa da parte della Pubblica
Amministrazione, essendo necessario, per far
cessare l’occupazione, un atto di riconsegna
del bene al proprietario, in mancanza del
quale l’occupazione permane e, in quanto
illegittima, costituisce fonte di
responsabilità per l’Amministrazione
occupante (sul punto, cfr. Cass. Civ., Sez.
I, n. 10866/1999).
La detenzione qualificata dell’area (sul
punto, cfr. Cass. Civ., Sez. II, n.
132/1992; Cass. Civ. Sez. I, n. 10686/2005,
Cass. Civ., Sez. I, n. 2952/2003) da parte
della Pubblica Amministrazione a seguito di
provvedimento di occupazione d’urgenza si
trasforma, infatti, a seguito della scadenza
del termine di efficacia del provvedimento,
in detenzione “sine titulo” e ciò determina
il sorgere in capo all’Amministrazione di un
obbligo di restituzione dell’immobile al
legittimo proprietario.
Come chiarito dalla Suprema Corte (Cass.
Civ., Sez. I, n. 2952/2003), per la
riconsegna dell’area non si richiedono le
formalità previste per l’occupazione
(redazione di apposito verbale di immissione
in possesso redatto in contraddittorio con
il proprietario o, in sua assenza, con
l’intervento di due testimoni), atteso che
esse sono contemplate avuto riguardo agli
specifici effetti che il legislatore collega
all’immissione nel possesso dell'immobile
(mantenimento dell’efficacia del decreto,
decorrenza dell’indennità di occupazione,
etc.), ma deve comunque trovare applicazione
la normativa contenuta negli art. 1140 e
segg. cod. civ., secondo la quale, per la
perdita del possesso materiale dell’immobile
nel caso di detenzione qualificata, occorre
quanto meno che venga esteriorizzato, da
chiari ed inequivoci segni, l’“animus derelinquendi”.
Incombe, peraltro, sull’Amministrazione
(come incombe sul conduttore nell’ipotesi di
rilascio per finita locazione: sul punto
cfr. Cass. Civ., Sez. III, n. 7776/2004)
l’onere delle prova in ordine
all’intervenuta restituzione del bene
locato, in armonia con quanto ritenuto dalla
Suprema Corte (Sez. Un., n. 13533/2001) in
materia di prova dell’inadempimento.
In tale ultima pronuncia, la Cassazione ha,
infatti, affermato che, in base al principio
della persistenza del diritto desumibile
dall’art. 2697 (“chi eccepisce che il
diritto si è modificato o estinto deve
provare i fatti su cui l’eccezione si
fonda”), grava sul debitore l’onere di
dimostrare il fatto estintivo
dell’obbligazione, in quanto, come
sinteticamente espresso dal brocardo
“negativa non sunt probanda”, pretendere che
sia provato un fatto negativo mediante fatti
positivi contrari significa introdurre
un’irrazionale e non agevole tecnica
probatoria e rendere eccessivamente
difficile l’esercizio del diritto del
creditore, per cui si rende necessario far
riferimento all’opposto principio della
riferibilità o della vicinanza della prova,
con la conseguenza che il creditore può
limitarsi ad allegare l’inadempimento,
restando a carico del debitore l’onere di
dimostrare il contrario.
Poiché nel caso di specie l’Amministrazione
non ha dato prova della restituzione
dell’area allo spirare dei tre decreti di
occupazione, deve ritenersi, sulla scorta
delle considerazioni che precedono, che la
detenzione degli immobili si sia protratta
“sine titulo” oltre i termini contemplati
nei decreti stessi.
---------------
Come affermato dalla giurisprudenza (Tar
Campania, Salerno II, n. 1539/2001), ai fini
del risarcimento derivante da occupazione
divenuta “sine titulo”, il valore venale di
riferimento deve essere quello del bene al
tempo della cessazione dell’occupazione
legittima, poiché la previsione, nel citato
art. 43, sesto comma, lett. b), degli
interessi moratori a decorrere dal giorno in
cui il terreno sia stato occupato (anche
tramite imposizione di servitù senza
titolo), dimostra che la sorte capitale deve
essere riferita a quel momento pregresso per
essere poi attualizzata al tempo della
condanna.
...
Va, infine precisato che, in base ai
principi generali sulla liquidazione
dell’obbligazione risarcitoria, alle somme
dovute a tale titolo, con esclusione di
quella dovuta a titolo di indennità di
asservimento (già calcolata sul valore
attuale della servitù), vanno aggiunti la
rivalutazione monetaria e gli interessi
legali e che, in particolare, gli interessi
devono essere computati sulle somme anno per
anno rivalutate (cfr., per tutte, Cass.
Civ., I, n. 19510/2005).
Al riguardo va precisato che, per quanto
attiene il computo degli interessi, non
risulta applicabile né l’art. 5 d.lgs. n.
231/2002, in quanto la norma si riferisce
espressamente al “saggio degli interessi ai
fini del presente decreto” e il decreto
concerne le transazioni commerciali (non le
obbligazioni risarcitorie), né l’art. 50
d.p.r. n. 327/2003, in quanto la norma
disciplina il calcolo dell’indennità di
occupazione
(TAR Sicilia-Catania, Sez. II,
sentenza 28.05.2012 n. 1350 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
E' illegittimo il decreto di
esproprio adottato dopo la scadenza del
termine di efficacia della dichiarazione di
pubblica utilità ovvero dopo la scadenza del
termine dell’occupazione d’urgenza.
Secondo la giurisprudenza amministrativa (cfr. TAR Campania, Napoli,
31.10.1983, n. 1164; TAR Abruzzo,
L’Aquila, 27.01.2003, n. 12) cui questo
Collegio ritiene di aderire è illegittimo il
decreto di esproprio adottato dopo la
scadenza del termine di efficacia della
dichiarazione di pubblica utilità ovvero
dopo la scadenza del termine
dell’occupazione d’urgenza (TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 24.05.2012 n. 1015 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
L’accettazione dell'indennità di
esproprio non esclude l'interesse a far
riscontrare le eventuali illegittimità del
procedimento di espropriazione ed
occupazione d'urgenza, in vista anche del
maggior ristoro che il privato può ottenere
a titolo risarcitorio dell'accertata
illiceità conseguente all'annullamento degli
atti di sottrazione del bene.
---------------
In tema di espropriazione per pubblica
utilità, la decorrenza del periodo di
occupazione legittima inizia non già dal
giorno della dichiarazione di p.u. dell'eseguenda
opera pubblica (che non comporta, di per sé,
la necessità dell'occupazione d'urgenza del
fondo ad essa asservito), ma dal giorno
dell'emanazione, ex art. 71 della legge n.
2359 del 1865, del decreto autorizzativo, se
immediatamente operativo nei confronti
dell'occupante, con conseguente, contestuale
compressione della facoltà dell'occupato.
Innanzi tutto la Sezione ritiene
incondivisibile la eccezione di
improcedibilità dell’appello formulata dalla
difesa del resistente Comune nell’assunto
che la accettazione della indennità di
esproprio da parte degli appellanti ha
comportato rinuncia alla pretesa dedotta in
giudizio.
Invero l’accettazione dell'indennità di
esproprio non esclude l'interesse a far
riscontrare le eventuali illegittimità del
procedimento di espropriazione ed
occupazione d'urgenza, in vista anche del
maggior ristoro che il privato può ottenere
a titolo risarcitorio dell'accertata
illiceità conseguente all'annullamento degli
atti di sottrazione del bene (Consiglio
Stato, sez. IV, 02.10.2006, n. 5774).
---------------
Osserva
la Sezione che in tema di espropriazione per
pubblica utilità, la decorrenza del periodo
di occupazione legittima inizia non già dal
giorno della dichiarazione di p.u. dell'eseguenda
opera pubblica (che non comporta, di per sé,
la necessità dell'occupazione d'urgenza del
fondo ad essa asservito), ma dal giorno
dell'emanazione, ex art. 71 della legge n.
2359 del 1865, del decreto autorizzativo, se
immediatamente operativo nei confronti
dell'occupante, con conseguente, contestuale
compressione della facoltà dell'occupato
(Cassazione civile, sez. I, 25.03.2003, n.
4358)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 14.05.2012 n. 2743 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Interpretando
la previgente normativa contenuta nell’art.
43 del T.U. sulle espropriazioni, la
giurisprudenza amministrativa ha già
costantemente precisato che il Consiglio
comunale è competente a deliberare tale
acquisizione, in quanto tale atto è emesso
ab externo al procedimento espropriativo,
quindi non è disciplinato dalle relative
norme; inoltre, i provvedimenti di
acquisizione rientrano a pieno titolo nelle
competenze consiliari di cui alla lett. l)
dell’art. 42, comma 2, D.Lgs. 18.08.2000, n.
267, la quale elenca “acquisti e alienazioni
immobiliari, relative permute, appalti e
concessioni che non siano previsti
espressamente in atti fondamentali del
Consiglio o che non ne costituiscano mera
esecuzione e che, comunque, non rientrino
nella ordinaria amministrazione di funzioni
e servizi di competenza della Giunta, del
segretario o di altri funzionari”, così
ricomprendendo anche l’ipotesi di acquisto
di immobili mediante lo strumento di diritto
pubblico in parola.
Tale principio è applicabile anche alla
acquisizioni disposte ai sensi dell’art.
42-bis, che ha nella sostanza reintrodotto
un meccanismo di acquisizione sanante delle
occupazioni illegittime parzialmente analogo
a quello disciplinato dal predetto art. 43.
... per l'annullamento del decreto
05.03.2012, n. 1, con il quale il
Responsabile del Settore Tecnico del Comune
di Moscufo ha disposto, ai sensi dell’art.
42-bis del D.P.R. 08.06.2001, n. 327,
l’acquisizione al patrimonio indisponibile
del Comune di un fondo di proprietà del
ricorrente utilizzato per scopi di pubblico
interesse; nonché degli atti presupposti e
connessi.
Va, invero, al riguardo, ricordato che,
interpretando la previgente normativa
contenuta nell’art. 43 del T.U. sulle
espropriazioni, la giurisprudenza
amministrativa ha già costantemente
precisato che il Consiglio comunale è
competente a deliberare tale acquisizione,
in quanto tale atto è emesso ab externo
al procedimento espropriativo, quindi non è
disciplinato dalle relative norme; inoltre,
i provvedimenti di acquisizione rientrano a
pieno titolo nelle competenze consiliari di
cui alla lett. l) dell’art. 42, comma 2,
D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, la quale elenca “acquisti
e alienazioni immobiliari, relative permute,
appalti e concessioni che non siano previsti
espressamente in atti fondamentali del
Consiglio o che non ne costituiscano mera
esecuzione e che, comunque, non rientrino
nella ordinaria amministrazione di funzioni
e servizi di competenza della Giunta, del
segretario o di altri funzionari”, così
ricomprendendo anche l’ipotesi di acquisto
di immobili mediante lo strumento di diritto
pubblico in parola (così, da ultimo, Cons.
St., sez. V, 13.10.2010, n. 7472, e sez. III,
31.08.2010, n. 775). Nello stesso senso si
è, inoltre, già pronunciato anche questo
stesso Tribunale con sentenza 12.01.2010, n.
15, in conformità, peraltro, ad un costante
orientamento seguito dagli organi di
giustizia amministrativa di primo grado
(cfr. TAR Toscana, sez. I, 12.05.2009, n.
817, TAR Emilia Romagna, sez. Parma,
11.06.2008, n. 307, TAR Campania, sede
Napoli, 09.01.2008, n. 74, e TAR Calabria,
sez. Reggio Calabria, 22.02.2006, n. 322).
Ritiene il Collegio che tale principio sia
applicabile anche alla acquisizioni disposte
ai sensi dell’art. 42-bis, che ha nella
sostanza reintrodotto un meccanismo di
acquisizione sanante delle occupazioni
illegittime parzialmente analogo a quello
disciplinato dal predetto art. 43 (TAR
Abruzzo-Pescara,
sentenza 07.05.2012 n. 189 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: In
base ai principi generali, la mancata
notifica al proprietario del decreto di
esproprio non costituisce motivo di carenza
del potere espropriativo che legittimi il
proprietario stesso ad invocare l'illiceità
dell'occupazione del fondo, ma comporta
soltanto che quest'ultimo non sia soggetto
al termine di decadenza per l'opposizione
alla stima (impedendone il decorso).
Infatti, l'effetto traslativo della
proprietà alla mano pubblica si verifica
alla data della pronuncia del decreto
anzidetto, indipendentemente dalla sua
successiva notificazione. Il decreto
medesimo ha natura di atto non recettizio,
per cui la sua comunicazione non è né
elemento integrativo, né requisito di
validità, né condizione di efficacia, avendo
solo la funzione di far appunto decorrere il
termine di opposizione alla stima.
Condivisibile giurisprudenza, dalla quale il Collegio non ravvisa motivo
di discostarsi, ha affermato, in fattispecie
analoga, che «...In base ai principi
generali, la mancata notifica al
proprietario del decreto di esproprio non
costituisce motivo di carenza del potere
espropriativo che legittimi il proprietario
stesso ad invocare l'illiceità
dell'occupazione del fondo, ma comporta
soltanto che quest'ultimo non sia soggetto
al termine di decadenza per l'opposizione
alla stima (impedendone il decorso).
Infatti, l'effetto traslativo della
proprietà alla mano pubblica si verifica
alla data della pronuncia del decreto
anzidetto, indipendentemente dalla sua
successiva notificazione. Il decreto
medesimo ha natura di atto non recettizio,
per cui la sua comunicazione non è né
elemento integrativo, né requisito di
validità, né condizione di efficacia, avendo
solo la funzione di far appunto decorrere il
termine di opposizione alla stima (cfr.
Cassazione civile, sez. I, 15.11.2004,
n. 21622)…» (Cons. Stato, Sez. IV, 14.02.2012, n. 702; analogamente,
ex plurimis, CGARS, 04.11.2005, n.
730)
(TAR Sicilia-Catania, Sez. II,
sentenza
23.04.2012 n.
1076 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Conseguenze
a carico del Comune dell'avvio delle
procedure espropriative e conclusione dei
lavori in assenza del decreto d’esproprio.
In data 06/07/2011 è entrato in vigore il d.l.
n. 6/7/2011, n. 98 (conv. in l. 15/7/2011,
n. 111) il cui art. 34 introduce il nuovo
art. 42-bis d.p.r. n. 327/2001, contenente
la disciplina relativa al c.d.
“provvedimento di acquisizione sanante” a
seguito della declaratoria di
incostituzionalità dell’art. 43 d.p.r. n.
327/2001 da parte della Corte Cost. (v.
sentenza n. 293/2010). Il nuovo art. 42-bis
t.u. espropri, per come introdotto dalla l.
n. 111/2011, è applicabile al caso di specie
stante l’espressa previsione ivi contenuta,
nel c. 8, a norma del quale: “Le
disposizioni del presente articolo trovano
altresì applicazione ai fatti anteriori alla
sua entrata in vigore …".
La condotta
serbata dall’Amministrazione intimata, la
quale ha omesso di adottate nei termini il
decreto di esproprio, è illecita nel senso
che ha determinato un pregiudizio in capo ai
proprietari delle aree di cui trattasi, in
ragione della perdita subita dei beni
utilizzati dalla p.a. per scopi di interesse
pubblico, in assenza di un valido ed
efficace provvedimento di esproprio, nonché
in ragione del periodo di occupazione
illegittimamente subita.
Ai sensi della
norma citata spetta esclusivamente alla p.a.
la valutazione in ordine agli interessi in
conflitto (attuali ed eccezionali ragioni di
interesse pubblico che giustificano, in
luogo della restituzione del bene,
l'emanazione del provvedimento di
acquisizione, valutate comparativamente con
i contrapposti interessi privati,
evidenziando l'assenza di ragionevoli
alternative alla sua adozione, v. cc. 1-4
dell’art. 42-bis d.p.r. n. 327/2001),
interessi della cui esistenza dovrà darsi
atto nella motivazione del provvedimento di
acquisizione sanante, per come previsto dal
c. 4, primo periodo, della norma citata.
Nell’eventualità che la p.a. si determini ad
adottare il provvedimento di acquisizione,
l’effetto traslativo della proprietà opererà
dalla data dell’adozione del provvedimento
stesso, sotto condizione sospensiva del
pagamento del prezzo o del suo versamento
presso la Cassa Depositi e Prestiti.
Laddove
il Comune si determini ad adottare il
provvedimento di acquisizione, esso dovrà
altresì contenere la liquidazione delle
somme dovute ai ricorrenti, da pagarsi nel
termine di giorni trenta e da quantificarsi
secondo i seguenti criteri fissati, ai sensi
all'art. 34, c. 4, c.p.a., applicabile in
assenza di alcuna espressa opposizione delle
parti:
1) per il pregiudizio patrimoniale
(perdita della proprietà del bene), la somma
dovuta dovrà determinarsi in misura
corrispondente al valore venale dei beni
utilizzati per scopi di pubblica utilità e,
riguardando l'occupazione un terreno
edificabile (v. certificato di destinazione
urbanistica in atti), sulla base delle
disposizioni dell'articolo 37, commi 3, 4,
5, 6 e 7 (v. combinato disposto di cui al c.
1, ult. periodo, e c. 3, primo periodo, art.
42-bis, d.p.r. 327/2001);
2) per il
pregiudizio non patrimoniale cagionato
anch’esso per perdita del diritto di
proprietà, la somma dovuta dovrà essere
forfettariamente liquidata nella misura del
dieci per cento del valore venale del bene
così come calcolato ai fini dell’indennizzo
per il pregiudizio patrimoniale (c. 1, ult.
periodo, art. 42-bis, d.p.r. 327/2001);
3) per
il danno derivante dal periodo di
occupazione illegittima, la somma dovuta
dovrà essere calcolata nella misura del
cinque per cento annuo sul valore venale del
bene così come calcolato ai fini
dell’indennizzo per il pregiudizio
patrimoniale, salvo che dagli atti del
procedimento amministrativo non risulti la
prova di una diversa entità di tale danno
(c. 3, ult. periodo, art. 42-bis, d.p.r.
327/2001);
4) le somme così quantificate, se
non saranno accettate dagli interessati,
dovranno essere depositate presso la Cassa
depositi e prestiti S.p.a. (v. c. 4, ult.
periodo, art. 42-bis, d.p.r. 327/2001), e
l'Autorità comunale potrà comunque adottare
il provvedimento di acquisizione, da
trascriversi presso la conservatoria dei
registri immobiliari e trasmettersi alla
Corte dei Conti (v. c. 7, art. 42-bis, d.p.r.
327/2001).
Il Collegio pertanto, alla luce
delle considerazioni che precedono, ha
accolto il ricorso e, per l’effetto, ha
disposto che il Comune si attivi, ai sensi e
per gli effetti di cui 42-bis d.p.r. n.
327/2001 e dell’art. 34, c. 4, c.p.a.,
ponendo in essere le attività procedimentali
ivi previste (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 04.04.2012
n. 737 - massima
tratta da
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www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: In
mancanza della dichiarazione di pubblica utilità sui danni del privato per
l'occupazione usurpativa della P.A. decide il
giudice ordinario.
Spetta al giudice amministrativo la
controversia per il risarcimento dei danni
conseguenti all'annullamento giurisdizionale
di un provvedimento amministrativo in tema
di espropriazione per pubblica utilità. E
infatti, mentre le domande risarcitorie e
restitutorie relative a fattispecie di
occupazione usurpativa, intese come
manipolazione del fondo di proprietà privata
avvenuta in assenza della dichiarazione di
pubblica utilità ovvero a seguito della sua
sopravvenuta inefficacia, rientrano nella
giurisdizione ordinaria, sussiste la
giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo in caso di danni conseguenti
all’annullamento della dichiarazione di
pubblica utilità (così, da ultimo, Consiglio
Stato , sez. IV, 04.04.2011, n. 2113).
Dopo l'annullamento della dichiarazione di
pubblica utilità dell'opera e degli altri
provvedimenti preordinati all'esproprio caso
per caso, vengono meno i titoli autoritativi
che erano alla base delle condotte materiali
con le quali si è data esecuzione alla
dichiarazione di pubblica utilità, mentre
rimangono invece integri, nella realtà
effettuale, i comportamenti materiali
dell'Amministrazione che, proprio perché non
più sorretti da atti autoritativi, vanno
ricondotti sotto il regime dell'illecito
aquiliano; tuttavia, in forza della
disposizione dell'art. 34, d.lgs. 31.03.1998, n. 80, così come interpretato dalla
Corte costituzionale con la sentenza n. 204
del 06.07.2004, la controversia relativa
al risarcimento del danno subìto dal privato
appartiene alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo, dal momento che i
"comportamenti" ai quali faceva riferimento
l'art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998, prima
dell'intervento demolitorio operato dalla
Corte Costituzionale con la citata sentenza,
hanno ad oggetto non già attività materiali
sorrette dall'esplicazione del potere, ma
condotte poste in essere dalla pubblica
amministrazione anche in vista del
perseguimento di interessi pubblici, ma
comunque fuori dell'esplicazione del potere
pubblico (Consiglio Stato, sez. IV, 12.02.2010, n. 801).
Nel caso di specie
l’azione esaminata dal Consiglio di Stato
venga attiene ad un'occupazione illecita a
seguito di annullamento giurisdizionale del
piano di localizzazione, contenente la
dichiarazione di pubblica utilità con
conseguente giurisdizione del giudice
amministrativo
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza
26.03.2012 n. 1750 -
massima
tratta da
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ESPROPRIAZIONE:
Ad una srl agricola - Indennità corrisposta
a titolo di esproprio: quale il trattamento
ai fini delle imposte dirette?
Domanda
Si chiede di conoscere il trattamento ai
fini delle imposte dirette di un'indennità
corrisposta a titolo di esproprio (per
realizzazione di opere di pubblica utilità)
di terreni agricoli (zona omogenea "E", area
destinata ad esclusivo uso agricolo) ad una
società agricola (S.r.l.) con requisiti
I.A.P., precisando che detta S.r.l. agricola
non ha sinora optato per la tassazione del
reddito a valori catastali, rimanendo
soggetta a normale tassazione sul reddito di
impresa.
A prescindere dall'indicazione della
plusvalenza nel bilancio di esercizio, si
richiede se, come succede per i soggetti che
non esercitano un'impresa commerciale, vi
siano requisiti di non imponibilità
dell'indennità di esproprio nel caso in
esame.
Risposta
Non si ritiene corretto quanto precisato
nell'ultima parte dal gentile lettore;
premesso che l'argomento è piuttosto
complesso si è dell'avviso che per i
soggetti che non esercitano impresa
commerciali siano imponibili le indennità in
commento. Si ritiene, fermo restando che
bisognerebbe avere un quadro completo di
informazioni, che l'indennità nel caso
specifico possa concorrere a tassazione ai
fini delle imposte dirette.
In base al disposto dell'art. 11, comma 5,
della l. 30.12.1991, n. 413, le plusvalenze
realizzate da soggetti non imprenditori
derivanti da indennità di esproprio o di
somme percepite a seguito di cessioni
volontarie nel corso di procedimenti
espropriativi nonché delle altre somme ivi
indicate -relativamente a terreni destinati
ad opere pubbliche o ad infrastrutture
urbane all'interno delle zone omogenee di
tipo A, B, C, D di cui al D.M. 02.04.1968,
definite dagli strumenti urbanistici ovvero
ad interventi di edilizia residenziale
pubblica ed economica e popolare di cui alla
L. n. 167 del 1998 e successive
modificazioni- sono soggette ad imposizione
diretta (redditi diversi) a norma dell'art.
67, comma 1, lettera b), del D.P.R. n. 917
del 22.12.1986.
In merito, con la circolare n. 194/E del
24.07.1998 è stato precisato che le
indennità e le altre somme sopra menzionate
devono essere assoggettate a tassazione a
condizione che siano state corrisposte
relativamente ad aree destinate alla
realizzazione di opere pubbliche o di
infrastrutture urbane all'interno delle
anzidette zone omogenee di tipo A, B, C e D.
Ne deriva, al contrario, che qualora
l'esproprio venga disposto per destinare
l'area ad interventi di edilizia
residenziale pubblica ed economica e
popolare di cui alla citata legge, la
relativa indennità di esproprio è sempre
assoggettata a tassazione, non assumendo
alcun rilievo la collocazione dell'area in
questione nelle diverse zone omogenee in cui
è ripartito il territorio. Infatti, le zone
omogenee vengono prese in considerazione, ai
fini della tassazione delle indennità di
esproprio, solo quando si riferiscono a
procedimenti espropriativi relativi ad aree
destinate alla realizzazione di opere
pubbliche o di infrastrutture urbane. Le
istruzioni impartite con la richiamata
circolare n. 194/E del 1998 sono da
ritenersi tuttora operanti anche a seguito
dell'entrata in vigore del D.P.R.
08.06.2001, n. 327 (art. 35, comma 1).
Di conseguenza è ininfluente il fatto che il
terreno espropriato sia ubicato in zona "E",
considerato che la tipologia della zona, di
tipo "A", "B", "C" e "D", di cui al comma 5
dell'art. 11 della L. n. 413/1991, rileva
solo qualora l'esproprio sia finalizzato
alla realizzazione di "opere pubbliche o
di infrastrutture urbane"; mentre tale
collocazione non assume alcun rilievo quando
la procedura di esproprio sia disposta per
destinare l'area ad interventi di edilizia
economica e popolare ai sensi della L. n.
167 del 1962 (19.03.2012 - tratto da
www.ipsoa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
R. G. Vaccari,
L’espropriazione indiretta (link
a http://venetoius.myblog.it). |
ESPROPRIAZIONE: La
dichiarazione di pubblica utilità priva di
termini iniziali e finali per l’avvio e
compimento dei lavori e delle occupazioni è
da ritenere radicalmente nulla.
E' noto che, secondo la giurisprudenza anche
più recente della Corte regolatrice, la
dichiarazione di pubblica utilità priva di
termini iniziali e finali per l’avvio e
compimento dei lavori e delle occupazioni è
da ritenere radicalmente nulla, onde
l’occupazione costituisce mero comportamento
materiale “...in nessun modo
ricollegabile ad un esercizio abusivo dei
poteri della p.a., sicché spetta al g.o. la
giurisdizione sulla domanda risarcitoria
proposta dal privato” perché in tal caso
essa è “da ritenere emessa in carenza
ovvero in difetto assoluto di attribuzione
del potere stesso, che comporta nullità del
provvedimento dichiarativo della pubblica
utilità e degli atti conseguenti della
procedura ablatoria” (Cass. Civ., SS.UU.,
14.02.2011, n. 3569) (Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 28.02.2012 n. 1133 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: In
caso di nullità del provvedimento
dichiarativo della pubblica utilità e degli
atti conseguenti della procedura ablatoria
la domanda risarcitoria del privato va
proposta al giudice ordinario.
Secondo la giurisprudenza anche più recente
della Suprema Corte di Cassazione, la
dichiarazione di pubblica utilità priva di
termini iniziali e finali per l’avvio e
compimento dei lavori e delle occupazioni è
da ritenere radicalmente nulla, onde
l’occupazione costituisce mero comportamento
materiale “...in nessun modo
ricollegabile ad un esercizio abusivo dei
poteri della p.a., sicché spetta al g.o. la
giurisdizione sulla domanda risarcitoria
proposta dal privato” perché in tal caso
essa è “da ritenere emessa in carenza ovvero
in difetto assoluto di attribuzione del
potere stesso, che comporta nullità del
provvedimento dichiarativo della pubblica
utilità e degli atti conseguenti della
procedura ablatoria” (Cass. Civ., SS.UU.,
14.02.2011, n. 3569) (Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 28.02.2012 n. 1133 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Quantificazione
del danno da illegittima occupazione dei
suoli nel periodo compreso tra l'immissione
in possesso e l'emanazione del decreto di
esproprio.
In caso di accoglimento della domanda
risarcitoria per l’illegittima occupazione
dei suoli, il danno riferibile all’arco
temporale compreso tra l’immissione nel
possesso dei medesimi e l’emanazione del
decreto di esproprio, secondo l’orientamento
giurisprudenziale consolidato, deve essere
liquidato in misura pari agli interessi
moratori sul valore di mercato del bene in
ciascun anno del periodo di occupazione, con
rivalutazione e interessi dalla data di
proposizione del ricorso di primo grado fino
alla data di deposito della presente
sentenza (cfr. Cons. Stato, Sez. IV,
01.06.2011, n. 3331) (Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 28.02.2012 n. 1130 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Non
comporta inefficacia del decreto di
occupazione la prassi diffusa tra le
amministrazioni esproprianti di non
apprendere subito il suolo espropriato
purché nel verbale di immissione in possesso
si dia atto che il suolo occupato è
soggetto alla giuridica disponibilità
dell'espropriante.
Ad avviso del Consiglio di Stato si deve
escludere che la prassi –largamente diffusa
tra le amministrazioni esproprianti– di
tollerare una prolungata detenzione dei
suoli occupati da parte dei proprietari
ablati, anche dopo la redazione del verbale
di immissione in possesso e di redazione
dello stato di consistenza e fino
all’effettivo avvio dei lavori, comporti la
sopravvenuta inefficacia del decreto di
occupazione, atteso che per l’esecuzione di
quest’ultima è sufficiente la redazione di
un verbale nel quale si dia atto che il
suolo occupato, specificamente e
puntualmente individuato, è soggetto alla
giuridica disponibilità dell’espropriante,
il quale potrà iniziare i lavori in
qualsiasi momento successivo (fermo
restando, come è ovvio, il rispetto dei
termini fissati nella dichiarazione di
pubblica utilità) e non è necessariamente
tenuto ad apprendere materialmente fin da
subito il suolo occupato (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 23.02.2012 n. 981 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Modalità
di comunicazione dell'avvio del procedimento
nelle procedure espropriative coinvolgenti
un rilevante numero di proprietari di aree.
Il coinvolgimento nella procedura
espropriativa di un rilevante numero di
proprietari consente all'Amministrazione
espropriante di sostituire la comunicazione
personale di avvio del procedimento con le
forme di pubblicità alternative consentite
dall'art. 8, comma 3, l. 07.08.1990 n. 241,
purché i destinatari di tale comunicazione
siano effettivamente messi in grado di
percepire la portata per essi lesiva del
provvedimento, con la puntuale indicazione
delle particelle espropriate (Consiglio
Stato , sez. IV, 15.01.2009, n. 151).
L'amministrazione, trovandosi in presenza di
un procedimento che non riguardava più
soltanto pochi destinatari, ma oltre
cinquanta soggetti intestatari di particelle
interessate dai lavori, ha utilizzato il
modello di pubblicità alternativa del
procedimento di massa previsto dalla legge
("allorché il numero dei destinatari sia
superiore a 50"): il che è rispettoso
dell'indirizzo giurisprudenziale secondo il
quale l'atto con il quale viene dichiarata,
anche implicitamente, la pubblica utilità,
l'indifferibilità e l'urgenza di un'opera
deve necessariamente essere preceduto dalla
comunicazione dell'avvio del procedimento,
ai sensi dell'art. 7 l. 07.08.1990 n. 241,
indirizzato individualmente ai proprietari
delle aree incise dall'opera, ma è fatta
salva la pubblicità "di massa" ove il
numero dei destinatari sia tale da non
rendere possibile la comunicazione "ad
personam" (Consiglio Stato , sez. IV,
22.06.2006, n. 3885) (Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 16.02.2012 n. 819 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
D. Tomassetti,
LA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE N.
293/2010: CONSEGUENZE DELLA DECLARATORIA DI
ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE DELLA NORMA
SULLA C.D. ACQUISIZIONE SANANTE
(link a www.gazzettaamministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
V. Pavone,
L’ACQUISIZIONE SANANTE EX ART. 43 T.U. IN
TEMA DI ESPROPRIAZIONE: IERI “VIA D’USCITA
LEGALE” PER LE OCCUPAZIONI SINE TITULO, OGGI
MONSTRUM GIURIDICO, BANDITO DALL’ORDINAMENTO
GIURIDICO NAZIONALE (link a
www.gazzettaamministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Individuazione degli elementi
indispensabili per la legittimità della
comunicazione di avvio del procedimento di
occupazione d'urgenza ai fini espropriativi.
L’avviso di cui all’art. 11 DPR n. 327/2001
deve contenere, per essere legittimo e
coerente con il citato articolato normativo
oltre che con gli artt. 7 e 8 l. n.
241/1990, l’indicazione delle particelle e
dei nominativi, quali indefettibili elementi
diretti ad individuare i soggetti
espropriandi ed i beni oggetto del
procedimento amministrativo, e ciò sia che
la comunicazione avvenga personalmente, sia
che essa avvenga in forma collettiva
mediante avviso pubblico (Cfr. Cons. di
Stato, IV, 08/06/2011, n. 3500).
E’ evidente infatti che le modalità di
comunicazione, seppur semplificate nella
forma e nel numero, devono in ogni caso
essere idonee a raggiungere lo scopo della
effettiva conoscenza, di guisa che il
proprietario inciso sia posto in grado di
optare o meno per la partecipazione
procedimentale in chiave difensiva
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 09.02.2012 n. 691 -
massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Nella
stima dei terreni espropriati ai fini della
determinazione dell'indennità, non si può
tener conto del vincolo espropriativo, né di
vincoli d'inedificabilità previsti da
strumenti generali preordinati
all'espropriazione, ma deve tenersi conto
soltanto dei vincoli previsti da strumenti
urbanistici di ordine generale non
preordinati all'esproprio, esistenti al
momento del verificarsi della vicenda
ablativa, nonché delle concrete ed
intrinseche caratteristiche dei terreni che
incidono sull'edificabilità di fatto degli
stessi.
---------------
Per quanto attiene al terreno occupato
assoggettato ai limiti propri delle fasce di
rispetto stradale, la giurisprudenza è
concorde nel ritenere che il vincolo di
inedificabilità ad esso connesso non abbia
natura espropriativa, ma unicamente
conformativa, in quanto riguarda una
generalità di beni e di soggetti ed abbia,
quindi, una funzione di salvaguardia della
circolazione, indipendentemente dalla
eventuale instaurazione di procedure
espropriative. Anche in questo caso, quindi,
il valore delle aree dovrà essere
quantificato prescindendo dalla presenza
della fascia di rispetto e considerando,
quindi, le stesse come edificabili.
Le aree con “destinazione a impianti
sportivi all’interno del perimetro di Piano
attuativo residenziale”, infine, non possono
nemmeno esse essere sottratte alla
qualificazione come edificabili, proprio in
ragione della loro inclusione nel perimetro
del piano attuativo stesso. Ciononostante,
nella determinazione del loro valore di
mercato, che, si ribadisce, deve essere
effettuata con riferimento al momento
attuale (o meglio al momento in cui avverrà
l’adozione dell’atto di acquisizione), non
si potrà trascurare che lo stesso è
sicuramente influenzato dalla circostanza
per cui il piano attuativo approvato alcuni
mesi dopo l’occupazione risulta aver
traslato la potenzialità edificatoria
collegata a tale area su altra di proprietà
delle odierne ricorrenti.
---------------
Nessun risarcimento è dovuto per
l’imposizione di fasce di rispetto stradale.
Come chiarito dalla giurisprudenza, da tempo
costante, non sono indennizzabili “i vincoli
posti a carico di intere categorie di beni
(tra questi, i vincoli urbanistici di tipo
conformativo, e i vincoli relativi ai beni
culturali e paesaggistici). In altri
termini, in tema di imposizione di vincoli
urbanistici, non vi è il presupposto per un
indennizzo quando i modi di godimento e i
limiti imposti (direttamente dalla legge
ovvero mediante un particolare procedimento
amministrativo) riguardino intere categorie
di beni secondo caratteristiche loro
intrinseche, con carattere di generalità ed
in modo obiettivo; in questi casi, le
limitazioni delle facoltà del proprietario
ricadono nella previsione non del comma
terzo, bensì del comma secondo, dell'art.
42, Cost. Pertanto, i limiti non ablatori
normalmente posti nei regolamenti
urbanistici o nella pianificazione
urbanistica e relative norme tecniche,
riguardanti altezza, cubatura, superficie
coperta, distanze, zone di rispetto, indici
di fabbricabilità, limiti e rapporti per
zone territoriali omogenee e simili, sono
vincoli conformativi, connaturali alla
proprietà, e non comportano indennizzo.”
Invero il provvedimento impugnato trova origine nella sentenza del
Consiglio di Stato n. 2420 del 2009, nella
quale si legge che, non avendo il Comune
adottato il provvedimento ex art. 43, esso
ha procrastinato nel tempo l’illecito da cui
sorge, in capo allo stesso, l’obbligo della
restituzione del terreno e del risarcimento
del danno medio tempore prodotto,
considerato che, contrariamente a quanto
affermato nella sentenza di primo grado, il
relativo diritto non può più, dopo il
superamento della teoria dell’accessione
invertita, ritenersi prescritto.
La sentenza ha, quindi, riconosciuto, come
possibili strade alternative alla
restituzione del bene, l’adozione di tale
atto (e la conseguente corresponsione del
risarcimento del danno), oppure il
raggiungimento di un accordo per definire il
trasferimento della proprietà.
Il Consiglio di Stato ha, inoltre, precisato
che, in entrambe i casi, l’acquisto della
proprietà non avrebbe comunque potuto che
essere subordinato alla corresponsione del
risarcimento del danno, quantificabile
tenuto conto della “destinazione urbanistica
delle aree al momento dell’inizio della
procedura espropriativa, tenendo conto della
sentenza della Corte Costituzionale n. 349
del 2007, che ha dichiarato incostituzionale
l’art. 5-bis, comma 7-bis, del d.l. n. 333
del 1992”.
Il giudicato così formatosi deve, però,
essere coordinato con le conseguenze della
sopravvenuta dichiarazione di
incostituzionalità dell’art. 43 del DPR
327/2001 e il successivo intervento del
legislatore mediante l’introduzione
dell’art. 42-bis nel medesimo testo unico.
L’avvenuta censura della legittimità del
provvedimento ex art. 43 del DPR 327/2001
adottato dal Comune nel caso di specie,
infatti, ha impedito il consolidamento degli
effetti del provvedimento, con la
conseguenza che l’avvenuta dichiarazione di
incostituzionalità della norma fondante non
può che estendere la sua efficacia caducatoria anche nei confronti del
medesimo.
È pur vero che l’art. 42-bis espressamente
prevede che: “Le disposizioni del presente
articolo trovano altresì applicazione ai
fatti anteriori alla sua entrata in vigore
ed anche se vi è già stato un provvedimento
di acquisizione successivamente ritirato o
annullato”, ma, continua ancora la norma in
parola, “deve essere comunque rinnovata la
valutazione di attualità e prevalenza
dell'interesse pubblico a disporre
l'acquisizione; in tal caso, le somme già
erogate al proprietario, maggiorate
dell'interesse legale, sono detratte da
quelle dovute ai sensi del presente
articolo”.
Ciò vale a dire che il Collegio, annullato
il provvedimento impugnato in ragione della
dichiarazione di incostituzionalità della
norma che ne ha legittimato l’adozione, non
può che, ancora una volta, rimettere
all’Amministrazione di adottare la soluzione
ritenuta maggiormente idonea per addivenire
al ripristino della corrispondenza tra
situazione di fatto e situazione di diritto
(restituendo i terreni o acquisendo la
proprietà), non senza precisare che ciò
rappresenta un dovere per l’Amministrazione,
come recentemente affermato in modo
esplicito dalla pronuncia del Consiglio di
Stato, che si ritiene pienamente
condivisibile, n. 6351 dell'01.12.2011.
In nessun caso, infatti, si può giungere ad
una condanna puramente risarcitoria a carico
dell’Amministrazione, poiché una tale
pronuncia presuppone un avvenuto
trasferimento della proprietà del bene o per
fatto illecito coincidente con
l’irreversibile destinazione ad uso pubblico
del terreno di proprietà privata (precluso
dal primo protocollo addizionale della
Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e
dalla giurisprudenza della Corte europea dei
diritti dell’uomo, come si legge nelle
sentenze TAR Lazio, Roma, II-quater, 14.04.2011, n. 3260, TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
01.07.2010,
n. 1418) o mediante la stipula di un
contratto o l’adozione di un provvedimento
traslativo della proprietà (in entrambe i
casi attività rimesse all’Amministrazione e
che non possono essere sostituite
dall’intervento del giudice).
Da qui la necessità di un passaggio
intermedio, finalizzato all’acquisto della
proprietà del bene da parte dell’ente
espropriante (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 16.11.2007, n. 5830; TAR Campania-Napoli, Sez. V,
05.06.2009, n.
3124).
Entro quarantacinque giorni dalla
comunicazione della presente sentenza,
dunque, il Comune dovrà optare per una delle
due soluzioni rappresentate, provvedendo a
stipulare un contratto (laddove sia
possibile ottenere la disponibilità delle
controparti), a notificare l’avviso di avvio
del procedimento preordinato
all’acquisizione ex art. 42-bis (assegnando
alle proprietarie un tempo non inferiore a
dieci giorni per la formulazione delle
proprie osservazioni, anche con riferimento
alla quantificazione del risarcimento del
danno offerta in tale occasione) ovvero ad
adottare un atto formale attestante la
scelta della restituzione del terreno.
Da tutto ciò discende, però, la necessità di
procedere anche all’adeguamento dei criteri
e dei parametri di cui l’Amministrazione
dovrà tenere conto nella quantificazione del
risarcimento del danno da offrire alle
proprietarie, che dovrà avvenire alla luce
delle novità introdotte dal legislatore.
A tale proposito deve essere preliminarmente
chiarito, però, che, annullato il decreto ex
art. 43 del D.P.R. 327/2001, qualora il Comune
dovesse optare per la restituzione dei
terreni, lo stesso sarà comunque tenuto a
risarcire il danno per l’illegittima
occupazione, calcolandone l’ammontare
secondo il criterio di cui si darà conto nel
prosieguo.
Qualora, invece, si dovesse optare per
l’acquisto dei terreni occupati, si rende
necessario puntualizzare che l’art. 42-bis
del DPR 327/01, in modo del tutto
innovativo, ha espressamente previsto che
l’acquisto al patrimonio indisponibile
dell’ente utilizzatore degli immobili
trasformati, ma non espropriati, debba
avvenire in modo non retroattivo.
Una tale precisazione (connessa al
perseguimento dell’obiettivo di evitare
possibili censure di incompatibilità del
modo di acquisto della proprietà così
disciplinato con i principi che regolano la
materia, discendenti dall’art. 42 della
Costituzione e dall’art. 1 del primo
protocollo allegato alla CEDU) implica che,
al contrario di quanto asserito da parte
ricorrente, per la quantificazione del
risarcimento del danno, il valore di mercato
dei terreni occupati debba essere quello
rilevabile al momento della traslazione
della proprietà, ovvero quello proprio del
momento in cui sarà adottato il
provvedimento che dispone l’acquisizione ex
art. 42-bis citato (in tal senso Cons.
Stato, IV, 02.12.2011, n. 6375).
In tal modo viene meno ogni necessità di
attualizzare i valori.
Specificato il momento di riferimento, il
valore di mercato dovrà, quindi, essere
ricercato tenendo conto della destinazione
urbanistica delle aree alla data
dell’immissione in possesso (rimanendo
ininfluenti, come da sempre affermato dalla
giurisprudenza, le successive vicende
urbanistiche dell’area).
A tale data la destinazione urbanistica
delle aree interessate dalla realizzazione
dell’opera pubblica è descritta (nella
perizia di stima del Comune, ma anche negli
atti delle ricorrenti) in parte quale sede
stradale (1400 mq), in parte quale fascia di
rispetto stradale (555 mq) e per 578 mq
quale area a standard urbanistici per
attrezzature di interesse collettivo, con
specifica destinazione a impianti sportivi
all’interno del perimetro di Piano attuativo
residenziale.
Il Collegio ritiene, però, che tale
descrizione incorra in un errore di fondo,
che prende le mosse dalla convinzione che la
presenza dei vincoli determini anche la
destinazione urbanistica delle aree. Invero
solo la “destinazione a impianti sportivi
all’interno del perimetro di Piano attuativo
residenziale” è una vera e propria
destinazione urbanistica. La “retinatura”
che individuava la sede stradale aveva,
invece, l’effetto di imporre un vincolo
preordinato all’esproprio, ma non ha
conferito all’area una nuova destinazione
urbanistica, tanto più che la viabilità in
questione risulta essere strumentale a
garantire un’adeguata circolazione a favore
di un’area edificabile.
E, peraltro, è principio ormai consolidato
in giurisprudenza quello per cui, nella
stima dei terreni espropriati ai fini della
determinazione dell'indennità, non si può
tener conto del vincolo espropriativo, né di
vincoli d'inedificabilità previsti da
strumenti generali preordinati
all'espropriazione, ma deve tenersi conto
soltanto dei vincoli previsti da strumenti
urbanistici di ordine generale non
preordinati all'esproprio, esistenti al
momento del verificarsi della vicenda
ablativa, nonché delle concrete ed
intrinseche caratteristiche dei terreni che
incidono sull'edificabilità di fatto degli
stessi (cfr., ex multis e tra le più
recenti, Cass. 15.01.2000, n. 425; 10.02.1999, n. 1113;
09.02.1999, n.
1090).
Dovendosi prescindere dal vincolo
espropriativo ricadente specificamente sui
suoli de quibus, quindi, la possibilità
legale di edificazione deve essere desunta
proprio dalla zona in cui essi erano
collocati, per cui, se essa è classificata
come edificabile dal P. di F. da assumersi
come riferimento nel caso di specie, anche
le superfici acquisite per la realizzazione
della strada inserita nell’ambito di tale
zona debbono essere qualificate come
edificabili.
Nel caso in esame, quindi, dovendosi
prescindere dal vincolo preordinato
all’esproprio discendente dalla previsione
urbanistica relativa alla realizzazione
della strada (o meglio, del raccordo tra via
Dosie e via Marchesi), non può trascurarsi
come l’area espropriata confini sui due lati
di via Dosie e sul lato in cui quest’ultima
via si innesta nella via Marchesi, lungo il
confine con questa, con aree a destinazione
edificabile. In ragione di ciò e del fatto
che il terreno espropriato risulta essere
inserito in una zona conformata come
edificabile dalla variante del Piano
regolatore approvata il 29.02.1984, la
destinazione a strada deve essere ritenuta
quale vincolo espropriativo, da cui
prescindere ai fini della quantificazione
del risarcimento del danno (così come di
quella che avrebbe dovuto essere l’indennità
di espropriazione), dovendosi qualificare il
terreno come a vocazione edificatoria (in
termini del tutto analoghi si confronti la
sentenza della Cassazione n. 434/2002).
Per quanto attiene al terreno occupato
assoggettato ai limiti propri delle fasce di
rispetto stradale, la giurisprudenza è
concorde nel ritenere che il vincolo di
inedificabilità ad esso connesso non abbia
natura espropriativa, ma unicamente
conformativa, in quanto riguarda una
generalità di beni e di soggetti ed abbia,
quindi, una funzione di salvaguardia della
circolazione, indipendentemente dalla
eventuale instaurazione di procedure
espropriative (v. TAR Milano, 21.04.2011, n. 1019, TAR Puglia Lecce Sez. I,
Sent., 19.10.2011, n. 1798). Anche in
questo caso, quindi, il valore delle aree
dovrà essere quantificato prescindendo dalla
presenza della fascia di rispetto e
considerando, quindi, le stesse come
edificabili.
Le aree con “destinazione a impianti
sportivi all’interno del perimetro di Piano
attuativo residenziale”, infine, non possono
nemmeno esse essere sottratte alla
qualificazione come edificabili, proprio in
ragione della loro inclusione nel perimetro
del piano attuativo stesso. Ciononostante,
nella determinazione del loro valore di
mercato, che, si ribadisce, deve essere
effettuata con riferimento al momento
attuale (o meglio al momento in cui avverrà
l’adozione dell’atto di acquisizione), non
si potrà trascurare che lo stesso è
sicuramente influenzato dalla circostanza
per cui il piano attuativo approvato alcuni
mesi dopo l’occupazione risulta (e non è
stato fornito alcun principio di prova
contrario) aver traslato la potenzialità
edificatoria collegata a tale area su altra
di proprietà delle odierne ricorrenti.
Nella quantificazione del risarcimento del
danno, quindi, per la porzione di proprietà
occupata allora soggetta a tale
destinazione, il Comune dovrà verificare se,
al momento dell’occupazione, al terreno
fosse collegata una potenzialità
edificatoria (per cui, anche se utilizzabile
su altro terreno, ciò incideva sul valore
incrementandolo) e la realizzazione
dell’opera abbia comportato la perdita della
volumetria connessa: in tal caso il valore
di tale terreno deve essere considerato pari
a quello delle aree edificabili. Se, invece,
la potenzialità edificatoria risultasse
essere stata sfruttata, anche in conseguenza
della sua traslazione su altro terreno,
allora tale circostanza non può che
diminuire il valore di mercato del terreno,
fino a parificarlo, sostanzialmente, a
quello delle aree agricole.
Lo stesso valore, sostanzialmente pari al
prezzo di mercato delle aree agricole, dovrà
essere riconosciuto per le fasce vincolate a
verde di rispetto, trattandosi in questo
caso di un vincolo conformativo della
proprietà conseguente alla inclusione delle
aree nel Piano attuativo ed in alcun modo
connesso (per quanto riguarda l’incidenza
sul loro valore) con la realizzazione della
strada.
Nessuna contestazione è mossa alla
quantificazione dei frutti pendenti, con la
conseguenza che rimane fermo l’ammontare del
risarcimento fissato dal Comune in misura
pari al controvalore in euro di 1.000.000 di
Lire.
Nessun risarcimento è dovuto per
l’imposizione di fasce di rispetto stradale.
Come chiarito dalla, da tempo costante,
giurisprudenza, non sono indennizzabili “i
vincoli posti a carico di intere categorie
di beni (tra questi, i vincoli urbanistici
di tipo conformativo, e i vincoli relativi
ai beni culturali e paesaggistici). In altri
termini, in tema di imposizione di vincoli
urbanistici, non vi è il presupposto per un
indennizzo quando i modi di godimento e i
limiti imposti (direttamente dalla legge
ovvero mediante un particolare procedimento
amministrativo) riguardino intere categorie
di beni secondo caratteristiche loro
intrinseche, con carattere di generalità ed
in modo obiettivo; in questi casi, le
limitazioni delle facoltà del proprietario
ricadono nella previsione non del comma
terzo, bensì del comma secondo, dell'art.
42, Cost. Pertanto, i limiti non ablatori
normalmente posti nei regolamenti
urbanistici o nella pianificazione
urbanistica e relative norme tecniche,
riguardanti altezza, cubatura, superficie
coperta, distanze, zone di rispetto, indici
di fabbricabilità, limiti e rapporti per
zone territoriali omogenee e simili, sono
vincoli conformativi, connaturali alla
proprietà, e non comportano indennizzo.”
(così TAR Umbria, 12.07.2007, n. 554,
ma anche, da ultimo, Cons. Stato, VI, 04.04.2011, n. 2083).
In modo del tutto analogo e coerente, non
sono suscettibili di indennizzo nemmeno i
limiti derivanti dall’imposizione di una
fascia di rispetto conseguente direttamente
all’avvenuta realizzazione dell’opera
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 08.02.2012 n. 200 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Dichiarazione di pubblica utilità - Decreto
di Espropriazione - Annullamento della
dichiarazione di pubblica utilità -
Caducazione del decreto di espropriazione.
La dichiarazione di pubblica utilità,
esplicita o implicita deve essere valutata
quale presupposto indefettibile del decreto
di espropriazione, tanto che l'art. 8 del
d.p.r. 2001 n. 327 considera la d.p.u. un
presupposto di emanazione del decreto di
espropriazione.
Del resto, l'art. 23 del d.p.r. n. 327
consente l'adozione del decreto di
espropriazione solo entro il termine di
efficacia della dichiarazione di pubblica
utilità.
In tal senso, un consistente orientamento
giurisprudenziale giunge a qualificare in
termini di presupposizione necessaria la
relazione che intercorre tra la
dichiarazione di pubblica utilità e il
decreto di espropriazione, sicché
l'annullamento con efficacia retroattiva
della prima determina la caducazione
automatica del secondo, comunque emanato
(cfr. Consiglio di stato, sez. IV, 30.06.2003, n. 3896; Consiglio di stato, sez. IV,
29.01.2008, n. 258; Consiglio di stato,
sez. IV, 19.03.2009, n. 1651.
Va, però,
dato atto dell'esistenza di un diverso
orientamento che esclude l'automatica caducazione in ragione dell'autonomia
dell'effetto ablatorio riconducibile al solo
decreto di espropriazione, così Consiglio di
stato, sez. IV, 27.03.2009, n. 1869; TAR
Puglia Lecce, sez. I, 07.07.2010, n. 1694)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 01.02.2012 n.
353 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: La
dichiarazione di pubblica utilità, esplicita
o implicita, è presupposto indefettibile del
decreto di espropriazione, tanto che l’art.
8 del d.p.r. 2001 n. 327 considera la d.p.u.
un presupposto di emanazione del decreto di
espropriazione.
Del resto, l’art. 23 del d.p.r. n. 327/2011
consente l’adozione del decreto di
espropriazione solo entro il termine di
efficacia della dichiarazione di pubblica
utilità.
In tal senso, un consistente orientamento
giurisprudenziale giunge a qualificare in
termini di presupposizione necessaria la
relazione che intercorre tra la
dichiarazione di pubblica utilità e il
decreto di espropriazione, sicché
l’annullamento con efficacia retroattiva
della prima determina la caducazione
automatica del secondo, comunque emanato.
Invero, è del tutto pacifico l’orientamento
giurisprudenziale che considera la
dichiarazione di pubblica utilità, esplicita
o implicita, come nel caso di specie, quale
presupposto indefettibile del decreto di
espropriazione, tanto che l’art. 8 del
d.p.r. 2001 n. 327 considera la d.p.u. un
presupposto di emanazione del decreto di
espropriazione.
Del resto, l’art. 23 del d.p.r. n. 327
consente l’adozione del decreto di
espropriazione solo entro il termine di
efficacia della dichiarazione di pubblica
utilità.
In tal senso, un consistente orientamento
giurisprudenziale giunge a qualificare in
termini di presupposizione necessaria la
relazione che intercorre tra la
dichiarazione di pubblica utilità e il
decreto di espropriazione, sicché
l’annullamento con efficacia retroattiva
della prima determina la caducazione
automatica del secondo, comunque emanato
(cfr. Consiglio di stato, sez. IV,
30.06.2003, n. 3896; Consiglio di stato,
sez. IV, 29.01.2008, n. 258; Consiglio di
stato, sez. IV, 19.03.2009, n. 1651. Va,
però, dato atto dell’esistenza di un diverso
orientamento che esclude l’automatica
caducazione in ragione dell’autonomia
dell’effetto ablatorio riconducibile al solo
decreto di espropriazione, così Consiglio di
stato, sez. IV, 27.03.2009, n. 1869; TAR
Puglia Lecce, sez. I, 07.07.2010, n. 1694)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 01.02.2012 n. 353 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI - ESPROPRIAZIONE: L’art.
42-bis, VIII comma, del DPR n.
327/2001 prevede che l’istituto
dell’acquisizione sanante ivi disciplinato
trova applicazione anche ai fatti anteriori
all’entrata in vigore della norma ed anche
se vi è già stato un provvedimento di
acquisizione successivamente annullato,
previa, comunque, rinnovazione della
valutazione di attualità e prevalenza
dell'interesse pubblico a disporre
l'acquisizione (da effettuarsi da parte
dell’organo competente ex lege) e
condizionatamente, altresì, alla
corresponsione al proprietario di un
indennizzo per i pregiudizi patrimoniale e
non patrimoniale determinati, il primo “in
misura corrispondente al valore venale del
bene utilizzato per scopi di pubblica
utilità”, ed il secondo in misura forfetaria
pari al dieci per cento del valore venale
del bene; oltre al risarcimento del danno
per l’occupazione abusiva da liquidarsi
nella misura del cinque per cento sempre in
relazione al valore venale del bene.
Ai fini del computo del “valore venale
del bene” deve aversi riguardo ai criteri
indicati dal medesimo DPR n. 327/2001, il
quale stabilisce che nell'ipotesi di
espropriazione di un’area non edificabile
coltivata (come quella di specie)
l’indennità è determinata in relazione al
valore agricolo del terreno tenendo conto
delle colture effettivamente praticate (art.
40, I comma), a cui va aggiunta un’indennità
per il fittavolo pari a quella spettante al
proprietario (art. 42).
---------------
E' illegittima, per violazione dell’art. 42,
II comma, lett. l), del DLgs n. 267/2000, la
delibera di Giunta Comunale con cui è stata
rinnovata la valutazione di attualità e
prevalenza dell'interesse pubblico a
disporre l'acquisizione delle aree di cui è
causa: il Consiglio comunale, infatti, è
chiamato ad esprimere gli indirizzi politici
ed amministrativi di rilievo generale che si
traducono in atti fondamentali di natura
programmatoria o aventi elevato contenuto di
indirizzo politico, tassativamente elencati,
mentre la Giunta ha una competenza residuale
in quanto compie tutti gli atti non
riservati dalla legge al Consiglio o non
ricadenti nelle competenze, previste dalle
leggi o dallo statuto, del Sindaco o di
altri organi.
In quest'ottica, pertanto, va affermata la
competenza del Consiglio comunale, e non
della Giunta, in materia di alienazioni ed
acquisiti immobiliari, giusta, altresì, la
puntuale determinazione contenuta nel
richiamato art. 42, II comma, lett. l), del
DLgs n. 267/2000.
... considerato:
-
che, pregiudizialmente, il collegio non
ritiene di condividere l’eccezione di
incostituzionalità dell’art. 42-bis del DPR
n. 327/2001, atteso che i principi
comunitari impongono che i modi di acquisto
della proprietà siano previsti –e nel
nostro ordinamento sono previsti– dalla
legge e che il proprietario espropriato sia
congruamente risarcito;
-
che, in punto di diritto, va premesso che
l’art. 42-bis, VIII comma, del DPR n.
327/2001 prevede che l’istituto
dell’acquisizione sanante ivi disciplinato
trova applicazione anche ai fatti anteriori
all’entrata in vigore della norma ed anche
se vi è già stato un provvedimento di
acquisizione successivamente annullato,
previa, comunque, rinnovazione della
valutazione di attualità e prevalenza
dell'interesse pubblico a disporre
l'acquisizione (da effettuarsi da parte
dell’organo competente ex lege) e
condizionatamente, altresì, alla
corresponsione al proprietario di un
indennizzo per i pregiudizi patrimoniale e
non patrimoniale determinati, il primo “in
misura corrispondente al valore venale del
bene utilizzato per scopi di pubblica
utilità”, ed il secondo in misura forfetaria
pari al dieci per cento del valore venale
del bene; oltre al risarcimento del danno
per l’occupazione abusiva da liquidarsi
nella misura del cinque per cento sempre in
relazione al valore venale del bene;
-
che ai fini del computo del “valore venale
del bene” deve aversi riguardo ai criteri
indicati dal medesimo DPR n. 327/2001, il
quale stabilisce che nell'ipotesi di
espropriazione di un’area non edificabile
coltivata (come quella di specie)
l’indennità è determinata in relazione al
valore agricolo del terreno tenendo conto
delle colture effettivamente praticate (art.
40, I comma), a cui va aggiunta un’indennità
per il fittavolo pari a quella spettante al
proprietario (art. 42);
-
che nel determinare gli importi dovuti a
titolo indennitario e risarcitorio per la
disposta acquisizione l’impugnato
provvedimento appare rispettoso delle
prescrizioni commisuratorie individuate dal
predetto art. 42-bis del DPR n. 327/2001 con
riguardo al valore dei beni abusivamente
utilizzati dal Comune di Colognola ai Colli,
fatta eccezione per l’indennità aggiuntiva
dovuta al fittavolo, di cui non pare essersi
tenuto conto;
-
che, nel merito, è fondato il motivo di
censura con cui i ricorrenti denunciano
l’illegittimità, per violazione dell’art.
42, II comma, lett. l), del DLgs n. 267/2000,
della delibera giuntale n. 113/2011 con cui
è stata rinnovata la valutazione di
attualità e prevalenza dell'interesse
pubblico a disporre l'acquisizione delle
aree di cui è causa: il Consiglio comunale,
infatti, è chiamato ad esprimere gli
indirizzi politici ed amministrativi di
rilievo generale che si traducono in atti
fondamentali di natura programmatoria o
aventi elevato contenuto di indirizzo
politico, tassativamente elencati, mentre la
Giunta ha una competenza residuale in quanto
compie tutti gli atti non riservati dalla
legge al Consiglio o non ricadenti nelle
competenze, previste dalle leggi o dallo
statuto, del Sindaco o di altri organi.
In
quest'ottica, pertanto, va affermata la
competenza del Consiglio comunale, e non
della Giunta, in materia di alienazioni ed
acquisiti immobiliari, giusta, altresì, la
puntuale determinazione contenuta nel
richiamato art. 42, II comma, lett. l), del
DLgs n. 267/2000: con correlata
illegittimità derivata del consequenziale
provvedimento dirigenziale, analogamente
impugnato
(TAR Veneto, Sez. I,
sentenza
31.01.2012 n. 96 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Rientrano
nella materia espropriativa non solo le
controversie che abbiano per oggetto i
provvedimenti emanati nel corso di un
ordinario procedimento espropriativo, tra i
quali in particolare quelli recanti la
dichiarazione di pubblica utilità, ma anche
quelle che hanno per oggetto i provvedimenti
di acquisizione sanante (in precedenza
previsti e disciplinati dall’art. 43 del d.P.R. n. 327/2001, ed oggi previsti e
disciplinati, dopo la dichiarazione di
incostituzionalità della predetta norma,
dall’art. 42-bis dello stesso d.P.R.) ai
quali non può essere negata valenza
espropriativa.
Invero, secondo la prevalente
giurisprudenza, rientrano in tale materia
non solo le controversie che abbiano per
oggetto i provvedimenti emanati nel corso di
un ordinario procedimento espropriativo, tra
i quali in particolare quelli recanti la
dichiarazione di pubblica utilità, ma anche
quelle che hanno per oggetto i provvedimenti
di acquisizione sanante (in precedenza
previsti e disciplinati dall’art. 43 del
d.P.R. n. 327/2001, ed oggi previsti e
disciplinati, dopo la dichiarazione di
incostituzionalità della predetta norma,
dall’art. 42-bis dello stesso d.P.R.) ai
quali non può essere negata valenza
espropriativa (cfr. Consiglio di Stato, sez.
IV, 26.11.2009 n. 7446; TAR Sicilia
Palermo, sez. III, 07.06.2010, n. 7237)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 30.01.2012 n. 322 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
R. Greco,
IL RISARCIMENTO DEL DANNO DA OCCUPAZIONE
ILLEGITTIMA: PROFILI SOSTANZIALI E
PROCESSUALI (link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
E' illegittimo il decreto di
esproprio adottato dopo la scadenza del
termine finale della procedura
espropriativa.
La giurisprudenza civile ed amministrativa,
dal canto suo, ha sempre considerato
illegittimo il decreto di esproprio adottato
dopo la scadenza del termine finale della
procedura espropriativa (cfr., fra le tante,
Cassazione civile, sez. I, 27.04.2011, n.
9370; TAR Sicilia, Catania, sez. II,
23.12.2011, n. 3184 e TAR Campania, Napoli,
sez. V, 04.05.2010, n. 2509, con la
giurisprudenza ivi richiamata)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
24.01.2012 n.
257 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONI: L.
2359/1865, art. 13 - Termine iniziale e
finale della procedura e per il
completamento dei lavori - Non applicabilità
ai Piani di zona di edilizia popolare - L.
167/1962, art. 9 - Durata del Piano di zona
- 18 anni - Vincolo espropriativo di durata
pari a quella del Piano.
Secondo un condivisibile orientamento
giurisprudenziale, la disciplina dettata
dall'art. 13 della legge 25.06.1865 n.
2359, in materia di apposizione dei termini,
iniziale e finale, per l'espletamento delle
procedure espropriative e per l'inizio ed il
completamento dei relativi lavori, non è
applicabile alle espropriazioni attinenti ai
piani di zona per l'edilizia economica e
popolare, essendo sostituito ed assorbito
dalle disposizioni che delimitano nel tempo
ope legis l'efficacia dei piani stessi
(Consiglio Stato, sez. IV, 26.04.2006,
n. 2339).
Si tratta dell'art. 9 L. 167/1962
che fissa la durata del Piano in diciotto
anni, stabilendo altresì che durante
l'efficacia del Piano le aree in esso
ricomprese rimangono soggette ad
espropriazione, offrendo così quelle
garanzie di certezza di durata della
procedura espropriativa che costituisce la
ratio dell'art. 13 L. 2359/1865
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 17.01.2012 n.
157 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE -
URBANISTICA: Il
dies a quo per la determinazione
dell'indennità in caso di pubblica utilità
implicita decorre inderogabilmente dalla
pianificazione attuativa.
Secondo il Consiglio di Stato il chiaro
disposto dell’ultimo comma dell'art. 20 del
d.P.R. nr. 327 del 2001, a mente del quale,
qualora la dichiarazione di pubblica utilità
sia implicita nell’approvazione di un piano
esecutivo, il dies a quo del
procedimento di determinazione
dell’indennità corrisponde al momento
dell’approvazione del piano di attuazione di
questo, non vale a superare le doglianze
ritenute pur comprensibili sul piano umano
avanzate nel caso di specie dai ricorrenti
che lamentano come in tal caso, dovendosi il
piano esecutivo predisporsi entro 25 anni
dall’approvazione del P.E.E.P., vi sia una
indefinita deminutio di valore dei
suoli in loro proprietà a fronte di una
contropartita economica che, in
considerazione della non verde età degli
interessati, potrebbe intervenire in un
momento in cui sarà inidonea a costituire
seria e concreta utilità
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 10.01.2012 n. 23 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: E’ sufficiente che la
notifica degli atti espropriativi sia stata
fatta ai proprietari risultanti dai registri
catastali, non essendo tenuta
l’Amministrazione, alla stregua delle
disposizioni contenute nell’art. 10 L. 22.10.1971 n. 865, ad effettuare
specifiche indagini sull’attualità del
titolo emergente da tali registri, salvo che
da data certa anteriore all’avvio del
procedimento espropriativo risulti
notificato all’ente procedente, a cura
dell’effettivo proprietario del bene fatto
oggetto di ablazione, la sua nuova ed
effettiva qualità.
Il principio di che trattasi non può subire
deroghe neppure quando l’intestatario
catastale sia un soggetto terzo, il quale
non abbia mai avuto la proprietà del bene
oggetto di espropriazione, ma al quale il
bene sia stato “volturato” per mero errore.
Infatti, ammettere che in simili casi la
comunicazione degli atti espropriativi possa
essere considerata invalida significherebbe
onerare la Amministrazione -al fine di
evitare l’insorgere di controversie- di
effettuare verifiche di tipo esplorativo,
che contraddicono alla presunzione di
legittimità degli atti catastali e che,
comunque, il legislatore ha inteso evitare
al fine di garantire la speditezza dalla
azione amministrativa. D’altro canto
significherebbe far scontare alla
Amministrazione procedente errori che non le
sono minimamente addebitabili e che essa a
buon diritto é tenuta a prendere in
considerazione, nel suo agire, solo
allorquando tali errori constino da atti non
contestati, o non contestabili, dei quali la
Amministrazione medesima abbia ricevuto una
comunicazione ufficiale.
Una volta che l’Amministrazione procedente
abbia ritualmente effettuato le notifiche
agli intestatari catastali, la mancata
notifica ai proprietari effettivi non può
assumere carattere invalidante degli atti
stessi o di quelli successivi, né legittima
gli effettivi proprietari ad impugnare
tardivamente gli atti espropriativi: tale
decadenza consegue, a guisa di corollario,
al principio per cui la notifica agli
intestatari catastali integra conoscenza
legale degli atti della procedura
espropriativa anche in capo ai proprietari
effettivi.
Il principio della sufficienza della
notifica degli atti della procedura
espropriativa ai soggetti proprietari in
base alle risultanze catastali si era già
consolidato in Giurisprudenza in costanza
della L. 865/1971, nel vigore della quale sono
stati approvati tutti gli atti impugnati
nell’ambito del presente giudizio.
Ancora di
recente il Consiglio di Stato, sez. IV, con
sentenza n. 212 del 14.04.2010 ha avuto
modo di ricordare che “E’ sufficiente che la
notifica degli atti espropriativi sia stata
fatta ai proprietari risultanti dai registri
catastali, non essendo tenuta
l’Amministrazione, alla stregua delle
disposizioni contenute nell’art. 10 L. 22.10.1971 n. 865, ad effettuare
specifiche indagini sull’attualità del
titolo emergente da tali registri, salvo che
da data certa anteriore all’avvio del
procedimento espropriativo risulti
notificato all’ente procedente, a cura
dell’effettivo proprietario del bene fatto
oggetto di ablazione, la sua nuova ed
effettiva qualità.”.
Il Collegio é dell’opinione che il principio
di che trattasi non possa subire deroghe
neppure quando –come pare sia avvenuto nel
caso di specie– l’intestatario catastale
sia un soggetto terzo, il quale non abbia
mai avuto la proprietà del bene oggetto di
espropriazione, ma al quale il bene sia
stato “volturato” per mero errore. Infatti,
ammettere che in simili casi la
comunicazione degli atti espropriativi possa
essere considerata invalida significherebbe
onerare la Amministrazione -al fine di
evitare l’insorgere di controversie- di
effettuare verifiche di tipo esplorativo,
che contraddicono alla presunzione di
legittimità degli atti catastali e che,
comunque, il legislatore ha inteso evitare
al fine di garantire la speditezza dalla
azione amministrativa. D’altro canto
significherebbe far scontare alla
Amministrazione procedente errori che non le
sono minimamente addebitabili e che essa a
buon diritto é tenuta a prendere in
considerazione, nel suo agire, solo
allorquando tali errori constino da atti non
contestati, o non contestabili, dei quali la
Amministrazione medesima abbia ricevuto una
comunicazione ufficiale.
Non é insomma sufficiente che la
Amministrazione sia a conoscenza di fatti
che siano in grado di insinuare il dubbio
sulla effettiva titolarità del bene
assoggettato ad espropriazione, poiché non é
l’Amministrazione a dover effettuare gli
accertamenti. Sono gli interessati a doversi
attivare per rendere la Amministrazione
edotta, in maniera compiuta, della effettiva
realtà.
Va ancora rilevato che, una volta che
l’Amministrazione procedente abbia
ritualmente effettuato le notifiche agli
intestatari catastali, la mancata notifica
ai proprietari effettivi non può assumere
carattere invalidante degli atti stessi o di
quelli successivi, né legittima gli
effettivi proprietari ad impugnare
tardivamente gli atti espropriativi: tale
decadenza consegue, a guisa di corollario,
al principio per cui la notifica agli
intestatari catastali integra conoscenza
legale degli atti della procedura
espropriativa anche in capo ai proprietari
effettivi. Per tale ragione il Collegio
ritiene condivisibile la pronuncia del
Consiglio di Stato n. 7014 del 30.11.2006,
richiamata dalla difesa del Comune, che ha
affermato il dianzi ricordato principio di
diritto
(TAR Puglia-Bari, Sez. II,
sentenza 02.01.2012 n. 4 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2011 |
|
ESPROPRIAZIONE: Aree
fabbricabili: una sentenza della Corte
costituzionale tutela il diritto alla proprietà. Indennità di esproprio al sicuro.
Garantito un ragionevole rapporto con il
valore del suolo.
Per la Consulta, l'indennità di esproprio di
un'aera fabbricabile non può essere
totalmente azzerata (confiscata) per effetto
dell'assenza di un valore minimo di
riferimento, in caso di omissione della
presentazione della dichiarazione Ici.
Questo, in estrema sintesi, il principio
sancito dalla Corte costituzionale che,
con la
sentenza 22.12.2011 n. 338, è intervenuta
sull'illegittimità costituzionale del comma
1, dell'art. 16, del dlgs n. 504/1992, come
trasfuso, con decorrenza dal 30/06/2003, nel
comma 7, dell'art. 37, del dpr 327/2001.
La questione di illegittimità parte
dall'assunto, indicato nelle disposizioni
richiamate, che «l'indennità è ridotta a un
importo pari al valore indicato nell'ultima
dichiarazione o denuncia presentata
dall'espropriato ai fini dell'imposta
comunale sugli immobili prima della
determinazione formale dell'indennità (_),
qualora il valore dichiarato risulti
contrastante con la normativa vigente e
inferiore all'indennità di espropriazione
come determinata in base ai commi
precedenti».
Di conseguenza, in assenza di una
dichiarazione ai fini del tributo locale o
per indicazione di un valore irrisorio,
l'indennità si sarebbe potuta azzerare per
carenza del valore di riferimento, stante il
fatto che le disposizioni richiamate
condizionano la quantificazione
dell'indennità all'originario comportamento
tenuto ai fini tributari dall'espropriato.
Sul punto, con la recente sentenza
21/07/2000 n. 351, la stessa Corte
costituzionale aveva dichiarato
inammissibili le questioni di legittimità
costituzionale sollevate, con riferimento a
taluni articoli della carta costituzionale
per irragionevole disparità di trattamento
tra espropriato e proprietario privato
dell'immobile (art. 3), per disparità di
trattamento tra evasori totali ed evasori
parziali (articoli 3 e 24), per
inadeguatezza della sanzione o indennizzo
(art. 42, terzo comma), per la natura
extrafiscale della sanzione per mancato
rispetto di un dovere tributario (art. 53) e
per l'arbitrario e indiretto recupero di un
tributo non più dovuto a soggetto
espropriato (art. 97); l'infondatezza delle
questioni sollevate, per la Consulta, non
modificava i criteri stabiliti per il
calcolo dell'indennizzo, di cui all'art.
5-bis, dl 333/1992, come modificato dal
comma 65, dell'art. 3, legge 662/1996.
Per la Consulta, la sanzione relativa alla
riduzione dell'indennità di esproprio, in
caso di omessa o dichiarazione infedele (ai
fini Ici) trova applicazione con riferimento
all'ultima dichiarazione o denuncia
presentata, a prescindere da eventuali
ravvedimenti o presentazioni spontanee
successive alla determinazione formale
dell'indennità, resta esclusa ogni
possibilità di garantire un valore minimo
garantito, ma la vanificazione totale del
ristoro resta costituzionalmente
illegittima, a prescindere che la misura
sanzionatoria sia dipendente o meno dalla
volontà dell'espropriato o da un mero
errore.
Di conseguenza, ancorché le
disposizioni possano essere ritenute
applicabili per effetto del comportamento
omissivo del contribuente, non si può non
tenere conto del principio della tutela del
diritto della proprietà, di cui al terzo
comma, dell'art. 42 della carta
costituzionale e di quanto sancito dall'art.
1 per primo protocollo addizionale della
Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell'uomo e delle libertà
fondamentali (Cedu).
Pertanto, la Corte
costituzionale ha concluso che la norma
censurata (art. 16, dlgs n. 504/1992),
nell'interpretazione fornita dalle sezioni
unite, viola gli articoli 42, terzo comma e
117, primo comma, della carta, con
riferimento a quanto indicato dal citato
art. 1 del protocollo addizionale Cedu,
poiché «non contempla alcun meccanismo
che, in caso di omessa
dichiarazione/denuncia Ici, consenta di
porre un limite alla totale elisione di tale
indennità, garantendo comunque un
ragionevole rapporto tra il valore venale
del suolo espropriato e l'ammontare
dell'indennità», anche in presenza di
una denuncia a valori irrisori; di fatto,
via libera alla possibile applicazione di
sanzioni, anche deterrenti, a cura del
legislatore, ma da escludere la «reale»
confisca del bene
(articolo ItaliaOggi
del 27.12.2011 - tratto da www.corteconti.it). |
ESPROPRIAZIONE: ESPROPRI/ Indennità non
azzerabile.
Anche in mancanza della dichiarazione Ici.
Sentenza della Consulta sul decreto
legislativo 504 del 1992.
L'indennità di esproprio di un'area
fabbricabile non può essere totalmente
azzerata (confiscata) per effetto
dell'assenza di un valore minimo di
riferimento, in caso di omissione della
presentazione della dichiarazione Ici.
Questo, in estrema sintesi, il principio
sancito dalla Consulta che, con la
sentenza
22.12.2011 n. 338 di ieri è intervenuta
sull'illegittimità costituzionale del comma
1, dell'art. 16, del dlgs n. 504/1992, come
trasfuso, con decorrenza dal 30/06/2003, nel
comma 7, dell'art. 37, del dpr 327/2001.
La
questione di illegittimità parte
dall'assunto, indicato nelle disposizioni
richiamate, che «_ l'indennità è ridotta a
un importo pari al valore indicato
nell'ultima dichiarazione o denuncia
presentata dall'espropriato ai fini
dell'imposta comunale sugli immobili prima
della determinazione formale dell'indennità
(_), qualora il valore dichiarato risulti
contrastante con la normativa vigente e
inferiore all'indennità di espropriazione
come determinata in base ai commi precedenti_».
Di conseguenza, in assenza di
una dichiarazione ai fini del tributo locale
o per indicazione di un valore irrisorio,
l'indennità si sarebbe potuta azzerare per
carenza del valore di riferimento, stante il
fatto che le disposizioni richiamate
condizionano la quantificazione
dell'indennità all'originario comportamento
tenuto ai fini tributari dall'espropriato.
Sul punto, con la recente sentenza
21/07/2000 n. 351, la stessa Corte
costituzionale aveva dichiarato
inammissibili le questioni di legittimità
costituzionale sollevate, con riferimento a
taluni articoli della carta costituzionale
per irragionevole disparità di trattamento
tra espropriato e proprietario privato
dell'immobile (art. 3), per disparità di
trattamento tra evasori totali ed evasori
parziali (artt. 3 e 24), per inadeguatezza
della sanzione o indennizzo (art. 42, terzo
comma), per la natura extrafiscale della
sanzione per mancato rispetto di un dovere
tributario (art. 53) e per l'arbitrario e
indiretto recupero di un tributo non più
dovuto a soggetto espropriato (art. 97);
l'infondatezza delle questioni sollevate,
per la Consulta, non modificava i criteri
stabiliti per il calcolo dell'indennizzo, di
cui all'art. 5-bis, dl 333/1992, come
modificato dal comma 65, dell'art. 3, legge
662/1996.
Per la Consulta, la sanzione
relativa alla riduzione dell'indennità di
esproprio, in caso di omessa o dichiarazione
infedele (ai fini Ici) trova applicazione
con riferimento all'ultima dichiarazione o
denuncia presentata, a prescindere da
eventuali ravvedimenti o presentazioni
spontanee successive alla determinazione
formale dell'indennità, resta esclusa ogni
possibilità di garantire un valore minimo
garantito, ma la vanificazione totale del
ristoro resta costituzionalmente
illegittima, a prescindere che la misura
sanzionatoria sia dipendente o meno dalla
volontà dell'espropriato o da un mero
errore.
Di conseguenza, ancorché le
disposizioni possano essere ritenute
applicabili per effetto del comportamento
omissivo del contribuente, non si può non
tenere conto del principio della tutela del
diritto della proprietà, di cui al terzo
comma, dell'art. 42 della Carta
costituzionale e di quanto sancito dall'art.
1 per primo protocollo addizionale della
Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell'uomo e delle libertà
fondamentali (Cedu).
Pertanto, conclude la
Corte costituzionale, la norma censurata
(art. 16, dlgs n. 504/1992),
nell'interpretazione fornita dalle sezioni
unite, viola gli articoli 42, terzo comma e
117, primo comma, della carta, con
riferimento a quanto indicato dal citato
art. 1 del protocollo addizionale Cedu,
poiché «_ non contempla alcun meccanismo
che, in caso di omessa
dichiarazione/denuncia Ici, consenta di
porre un limite alla totale elisione di tale
indennità, garantendo comunque un
ragionevole rapporto tra il valore venale
del suolo espropriato e l'ammontare dell'indennità_»,
anche in presenza di una denuncia a valori
irrisori; di fatto, via libera alla
possibile applicazione di sanzioni, anche
deterrenti, a cura del legislatore, ma da
escludere la «reale» confisca del
bene
(articolo ItaliaOggi del 23.12.2011). |
ESPROPRIAZIONE: Differenza
tra l'istituto dell'accessione invertita e della
retrocessione.
L’istituto dell’accessione invertita, di creazione
giurisprudenziale (Cass. Sez. Un., 26.02.1983 n. 1264;
10.06.1988 n. 3940) presuppone una occupazione di un bene da
parte della P.A. (quantomeno) in assenza di legittima
conclusione del procedimento espropriativo entro i termini
previsti dalla dichiarazione di pubblica utilità. Proprio
per questo, la giurisprudenza ha collegato l’effetto
acquisitivo del diritto di proprietà alla irreversibile
destinazione del suolo all’opera pubblica, con diritto al
risarcimento del danno conseguente all’illecito commesso
dalla pubblica amministrazione.
Da ciò consegue l’incompatibilità, sul piano
logico–giuridico, dell'istituto dell'accessione invertita e
della retrocessione: ed infatti, se si ritiene configurarsi
accessione invertita non vi è stata espropriazione e,
quindi, non può esservi retrocessione (l’area non può non
essere stata dichiarata come “irreversibilmente
trasformata”); se invece si richiede la retrocessione,
non si può che essere in presenza di un bene in precedenza
espropriato e, in tutto o in parte, non utilizzato per le
finalità di interesse pubblico legittimanti la precedente
espropriazione.
Occorre, infine, notare che il legislatore, anche quando ha
inteso estendere l’istituto della retrocessione alla ben più
semplice ipotesi di procedimenti espropriativi non
conclusisi con il decreto di esproprio (ma per il tramite di
cessione volontaria), lo ha espressamente affermato (v. art.
45, co. 4, DPR n. 327/2001) (massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 15.12.2011 n. 6619 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Occupazione
sine titulo della P.A.: il Consiglio di
Stato fa il punto in ordine alla vecchia e
all'attuale normativa.
Il Consiglio di Stato procede nell'excursus
della normativa in materia di occupazione
sine titolo evidenziando in primis
come l'abrogato art. 43 del Testo Unico
sugli espropri era stato emanato dal
legislatore delegato per consentire una ‘legale
via di uscita’ per i moltissimi casi in
cui una P.A. avesse occupato senza titolo
un’area di proprietà altrui, in assenza di
un valido ed efficace decreto di esproprio.
In precedenza, la prassi giudiziaria
nazionale –innovando dal 1983 rispetto alla
precedente ultrasecondare giurisprudenza
della Corte di Cassazione e del Consiglio di
Stato che avevano costantemente ammesso la
immanente titolarità di un potere di
esproprio in sanatoria- si era consolidata
nel senso dell’acquisto dell’area da parte
dell’amministrazione nel caso di
irreversibile destinazione di un’area, per
la quale fosse stata dichiarata la pubblica
utilità dell’opera da realizzare.
Poiché tale prassi era stata qualificata
dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo
come ‘sistematica violazione’ delle
disposizioni della Convenzione del 1950,
sulla tutela del diritto di proprietà,
l’art. 43 aveva dunque consentito che –in
presenza di un effettivo interesse pubblico,
rilevato nell’atto ablatorio–
l’amministrazione avrebbe potuto adeguare la
situazione di fatto a quella di diritto,
risarcendo integralmente il danno cagionato
al proprietario ed esercitando il potere di
acquisizione dell’area detenuta senza
titolo. Con la dichiarazione di
incostituzionalità dell’art. 43 del testo
unico operato dalla Corte Costituzione
(sentenza n. 293/2010) non era però divenuto
applicabile l’istituto della accessione.
Tale istituto era stato sempre escluso dalla
pacifica giurisprudenza sin dalla seconda
metà dell’Ottocento. Infatti, la
realizzazione di un’opera pubblica o di
interesse pubblico, quando avvenga
legittimamente, in esecuzione di atti di
natura ablatoria solo successivamente
annullati in sede di giustizia
amministrativa, ha la propria peculiarità
nella avvenuta realizzazione di opere
nell’interesse della collettività(e in
esecuzione di provvedimenti) e comporta il
verificarsi di situazioni irriducibili a
quelle disciplinate dal codice civile, le
cui disposizioni dunque non si applicano.
Secondo il Collegio, la sentenza della Corte
n. 293 del 2010 aveva comportato il ritorno
alla attualità del sistema normativo,
risalente al 1865, sulla sussistenza del
potere di esproprio in sanatoria, sistema
sul quale si era consolidata la
giurisprudenza della Corte di Cassazione e
del Consiglio di Stato (superata a partire
dal 1983 dalla prassi nazionale postasi in
contrasto con la CEDU). Infatti, in assenza
di un valido ed efficace provvedimento di
natura ablatoria, la richiamata
plurisecolare giurisprudenza riconosceva il
proprietario dell’area ancora come tale: ciò
che il Supremo Consesso ribadisce, alla luce
della pacifica giurisprudenza della Corte di
Strasburgo.
Mentre però la giurisprudenza civile (allora
avente giurisdizione) riteneva che la tutela
restitutoria spettante al proprietario fosse
preclusa da un atto tacito di destinazione
dell’area al pubblico servizio e dunque
dall’art. 4 dell’allegato E della legge del
1865 (sulla abolizione del contenzioso
amministrativo), tale preclusione si è posta
in contrasto con i principi dello Stato di
diritto, in quanto “l’atto di
destinazione” non era preso in
considerazione dalla legge.
In occasione della redazione del testo
unico, il Consiglio di Stato aveva redatto
l’art. 43, poi trasfuso nel testo unico
sugli espropri, proprio per prevedere una
legale via d’uscita, per dare una soluzione
legislativa –con l’attribuzione di un potere
discrezionale all’Amministrazione- ai casi
che oramai stavano comportando la
sistematica condanna della Repubblica
Italiana innanzi alla CEDU, nei giudizi
posti in essere dai proprietari che
lamentavano di aver perso il loro diritto di
proprietà, sulla base di sentenze
pronunciate ex post e senza
fondamento normativo, e non sulla base di
atti amministrativi la cui emanazione fosse
consentita dalla legge.
La sentenza della Corte Costituzionale –nel
rilevare un eccesso di delega e nel
dichiarare l’incostituzionalità dell’art.
43– ha dunque fatto tornare l’ordinamento ad
una peculiare situazione, in cui di certo da
un lato non poteva disconoscersi il
perdurante diritto di proprietà del
titolare, malgrado la avvenuta costruzione
dell’opera pubblica o di interesse pubblico,
e dall’altro non poteva negarsi l’immanente
potere di disporre l’esproprio in sanatoria,
per evitare la demolizione di quanto
costruito a spese della collettività e che,
se del caso, ancora risultava conforme alle
esigenze di questa.
L’art. 42-bis del decreto legge n. 98 del
2011, convertito nella legge n. 2011, ha
reintrodotto il potere discrezionale già
disciplinato dall’art. 43: l’amministrazione
-valutate le circostanze e comparati gli
interessi in conflitto– può decidere se
demolire in tutto o in parte l’opera
(affrontando le relative spese) e restituire
l’area al proprietario, oppure se disporre
l’acquisizione (evitando che sia demolito,
paradossalmente, quanto altrimenti
risulterebbe meritevole di essere
ricostruito). L’art. 42-bis prevede, al
comma 1, che l’Amministrazione, valutati gli
interessi in conflitto, possa disporre, con
formale provvedimento, l’acquisizione del
bene, con la corresponsione al privato di un
indennizzo per il pregiudizio subito,
patrimoniale e non patrimoniale; al comma 8
prevede poi che le sue disposizioni “trovano
altresì applicazione ai fatti anteriori”,
sicché esso si applica senza alcun dubbio
anche nella fattispecie in esame.
Anche nell’attuale quadro normativo,
l’Amministrazione ha dunque l’obbligo
giuridico di far venir meno la occupazione
sine titulo e cioè deve adeguare la
situazione di fatto a quella di diritto.
Essa o deve restituire i terreni ai
titolari, demolendo quanto realizzato e
disponendo la riduzione in pristino, oppure
deve attivarsi perché vi sia un titolo di
acquisto dell’area da parte del soggetto
attuale possessore (massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 01.12.2011 n. 6351 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Decreto
di occupazione d'urgenza a seguito di
dichiarazione di urgenza ed indifferibilità
dell'opera - Motivazione - Non necessita.
In caso di intervenuta dichiarazione di
urgenza ed indifferibilità dell'opera, il
decreto di occupazione d'urgenza dei fondi
oggetto della procedura espropriativa si
pone quale ordinaria conseguenza, non
necessitando quindi di specifica ed
analitica motivazione, avendo la P.A., in un
precedente atto della procedura
espropriativa, già individuato le ragioni di
urgenza (cfr. TAR Catanzaro, sent. n.
312/2011; TAR Milano, sent. n. 101/2011)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
22.11.2011 n.
2821 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Il
Consiglio di stato sulla manovra economica
2011. Espropri con scia.
Illegittimità? C'è danno morale.
Se c'è espropriazione illegittima, c'è anche
danno morale. Il cittadino che viene
espropriato del proprio terreno ha diritto a
che l'amministrazione, se sbaglia, paghi non
solo il valore del bene. L'ente deve pagare
anche i danni non patrimoniali. Può costare,
dunque, molto caro non seguire le procedure.
La manovra 2011 (decreto legge 98)
appesantisce il conto delle espropriazioni
(prevedendo appunto il ristoro del danno
morale). E questo anche per vecchi espropri,
iniziati prima dell'entrata in vigore del
decreto 98 citato.
È quanto ha stabilito il Consiglio di stato,
con la
sentenza 02.11.2011 n. 5844, chiamato a
pronunciarsi su una lite insorta tra il
comune di Nuoro e una serie di cittadini
rimasti senza terreni.
L'amministrazione, infatti, decide di
realizzare alcune opere di urbanizzazione
del territorio. Ma il luogo prescelto
coinvolge le proprietà di alcuni privati.
Così, vengono approvati i progetti e si
procede con un'occupazione d'urgenza, con
valenza di dichiarazione di pubblica
utilità. I terreni vengono progressivamente
trasformati fino a ottenere una quadro
irreversibile. Tuttavia, i decreti di
espropriazione, necessari per completare la
procedura di espropriazione, arrivano in
ritardo. L'occupazione dell'amministrazione,
nata come legittima, diviene illegittima. Si
tratta, infatti, di un'occupazione
appropriativa, non ammessa dalla legge.
Il
tribunale amministrativo per la regione
Sardegna, adito dai cittadini lesi dal
comportamento dell'amministrazione, annulla
l'espropriazione e quantifica i danni. I
ricorrenti ritengono il risarcimento non
appagante e si rivolgono in appello al
Consiglio di stato, che rimescola le carte.
La sentenza richiamata, oltre a ribadire che
al cittadino dev'essere corrisposto un
risarcimento del danno che sia rapportato al
reale pregiudizio arrecato per la perdita
della proprietà, ossia al valore venale del
bene, fa un ulteriore passo in avanti. Ai
danni patrimoniali, dice la Corte, si
sommano quelli non patrimoniali. Con la
«Manovra economica 2011», dl n. 98 del
06.07.2011, infatti, è stato introdotta una
nuova norma nel Testo Unico in materia di
espropriazioni, finalizzata a riconoscere al
proprietario illecitamente espropriato un
indennizzo comprensivo sia del pregiudizio
patrimoniale sia di quello non patrimoniale.
Nel caso specifico quest'ultimo, visto come
«danno morale», viene quantificato, in via
equitativa, in 50 mila euro, da rivalutare
sulla base degli indici Istat. Una bella
somma, quindi, che va ad aggiungersi al
valore venale del bene espropriato. E,
soprattutto, un prezzo salato per
l'amministrazione caduta in errore. Si noti
come il riconoscimento del danno morale
spetti anche ai cittadini espropriati prima
dell'entrata in vigore della nuova legge che
lo ha introdotto, fatti salvi i processi
esauriti. Il che potrebbe incoraggiare i
cittadini, oggi più di ieri, a ricorrere al
giudice amministrativo, aumentando la mole
del contenzioso in materia di espropriazioni
illegittime
(articolo ItaliaOggi del 28.03.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
ESPROPRIAZIONE: L'esproprio
non è in regola? Scatta anche il danno
morale.
Scatta anche il danno morale, oltre che
quello patrimoniale, in favore del
proprietario del terreno quando l'esproprio
non è in regola. E ciò grazie alla manovra
economica 2011 che ha reintrodotto
l'istituto dell'acquisizione sanante.
Lo
chiarisce la
sentenza
02.11.2011 n. 5844 della V Sez. del
Consiglio di Stato.
Il decreto legge
98/2011, che contiene la cosiddetta «manovra
di luglio», all'articolo 34 aggiunge una
nuova disposizione al Testo unico
dell'espropriazione di cui al dpr 327/01
(introducendo l'articolo 42-bis). La novella
prevede che al proprietario sia corrisposto
un indennizzo per il pregiudizio
patrimoniale e non patrimoniale patito
dall'illegittima attività posta in essere
dalla pubblica amministrazione, anche con
riferimento ai fatti antecedenti (comma 8
della norma). Il riferimento al pregiudizio
non patrimoniale contenuto nella
disposizione, osservano i giudici di Palazzo
Spada, costituisce una disposizione
innovativa, che impone la necessità di
opportuna considerazione anche in sede di
risarcimento del danno per illecita
occupazione.
La controversia, nella specie,
nasce per l'illecita occupazione (temporanea
e definitiva) delle aree impiegate nella
realizzazione delle opere di urbanizzazione
del rione di un comune sardo. E su questo
punto, spiega il collegio, ci troviamo di
fronte a un'obbligazione che deriva da un
illecito extracontrattuale: si tratta,
quindi, di un debito di valore e le relative
somme, determinate con riferimento alla data
della trasformazione irreversibile del bene,
devono essere rivalutate secondo equità
all'attualità sulla base degli indici Istat
(nel caso concreto questa voce di danno è
stimata in 50 mila euro, tenuto conto del
valore complessivo del risarcimento che non
è esiguo).
Risulta poi necessario il
riconoscimento del danno da lucro cessante,
costituito dalla perdita della possibilità
di far fruttare la somma in questione: il
danno, considerato il tempo trascorso e il
graduale mutamento del potere di acquisto
della moneta, è liquidato in via equitativa
nella misura degli interessi legali sulle
somme rivalutate anno per anno a decorrere
dalla data dell'illecito, salvo detrarre
quanto già eventualmente versato dal comune
ai singoli proprietari interessati dalla
procedura ablativa.
Per dirimere la
controversia, infine, è rilevante anche la
giurisprudenza costituzionale: dopo la
sentenza 349/07 della Consulta, infatti, il
meccanismo indennitario risulta
inapplicabile anche per le occupazioni
illegittime anteriori al 30.09.2006 e al
proprietario deve essere corrisposto il
risarcimento del danno, rapportato al
pregiudizio arrecato per la perdita di
proprietà del bene
(articolo ItaliaOggi dell'08.11.2011 - link
a www.ecostampa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Indennizzi espropriativi in Corte d'appello.
Per contestare un indennizzo espropriativo
si va in Corte d'appello. L'articolo 29 del
decreto legislativo 150/2011 elenca tra i
procedimenti sottoposti al rito sommario di
cognizione le controversie aventi ad oggetto
l'opposizione alla stima di cui all'articolo
54 del decreto legislativo 327/2001 (Testo
unico espropri), ma mantiene la competenza
della Corte d'appello nel cui distretto si
trova il bene espropriato.
L'opposizione va proposta, a pena di
inammissibilità, entro il termine di trenta
giorni dalla notifica del decreto di
esproprio o dalla notifica della stima
peritale, se quest'ultima sia successiva al
decreto di esproprio. Il termine è
raddoppiato (sessanta giorni) se il
ricorrente risiede all'estero.
Il ricorso è notificato all'autorità
espropriante, al promotore
dell'espropriazione e, se del caso, al
beneficiario dell'espropriazione, se attore
è il proprietario del bene, o all'autorità
espropriante e al proprietario del bene, se
attore è il promotore dell'espropriazione.
Il ricorso è notificato anche al
concessionario dell'opera pubblica, se
tenuto al pagamento dell'indennità.
La relazione illustrativa precisa che le
controversie sono state ricondotte al rito
sommario di cognizione, in considerazione
del fatto che esse, nel loro pratico
svolgimento, sono caratterizzate da una
relativa semplicità quanto all'oggetto della
controversia semplice, cui consegue
ordinariamente un'attività istruttoria
breve, a prescindere dalla natura delle
situazioni giuridiche soggettive coinvolte o
delle questioni giuridiche da trattare e
decidere.
Di solito l'istruttoria è concentrata su una
consulenza tecnica sul valore del bene
espropriato.
Sono state mantenute ferme l'individuazione
e la composizione dell'organo giudicante (la
Corte d'appello, in grado unico di merito e
la competenza territoriale, correlata al
luogo in cui si trova il bene espropriato.
Sempre la relazione illustrativa spiega che
sono state mantenute anche le seguenti
peculiarità: il termine per la proposizione
del ricorso, a pena di inammissibilità, di
30 giorni decorrente dalla notifica del
decreto di esproprio o dalla notifica della
stima peritale, se successiva al decreto di
esproprio, aumentati a 60 giorni se il
ricorrente risiede all'estero; i termini
sono uniformati a quelli previsti nel
decreto legislativo 150, e sono dichiarati
termini posti a pena d'inammissibilità;
l'obbligo di notifica del ricorso
all'autorità espropriante, al promotore
dell'espropriazione e, se del caso, al
beneficiario dell'espropriazione, se attore
è il proprietario del bene, ovvero
all'autorità espropriante e al proprietario
del bene, se attore è il promotore
dell'espropriazione.
È stato ritenuto di
mantenere la previgente dizione letterale
della norma, che, secondo la giurisprudenza
costante integra una ipotesi di mero avviso
sulla pendenza del giudizio, rimanendo fermi
i criteri elaborati dalla giurisprudenza per
la individuazione del soggetto legittimato
passivo rispetto alla pretesa fatta valere
in giudizio (articolo ItaliaOggi
del 13.10.2011). |
ESPROPRIAZIONE:
Esproprio aree agricole.
La Corte di Cassazione indica i criteri per
l'applicazione alle aree agricole
dell'indennizzo pari al valore venale del
bene, a seguito della pronuncia della Corte
Costituzionale che ha dichiarato illegittimo
l'indennizzo parametrico.
La I Sez. civile della Corte di Cassazione,
con la
sentenza 29.09.2011 n. 19936,
individua i casi in cui, a seguito della
sentenza 181/2011 della Corte
Costituzionale, per l'esproprio di suoli
agricoli non edificabili, in luogo di un
indennizzo parametrico definito dal valore
agricolo medio, è dovuto un indennizzo pari
al valore venale del bene, fissato dall'art.
39 della legge 25.06.1865 n. 2359.
Al riguardo la Suprema Corte ha dichiarato
che il criterio del valore venale non si
applica ai soli rapporti ormai esauriti in
modo definitivo (per avvenuta formazione del
giudicato o per essersi verificato altro
evento cui l'ordinamento collega il
consolidamento del rapporto medesimo) ovvero
per essersi verificate preclusioni
processuali (o decadenze e prescrizioni non
direttamente investite, nei loro presupposti
normativi, dalla pronuncia
d'incostituzionalità); viceversa si applica
nel caso in cui l'interessato, mediante
apposita azione non ancora conclusa, abbia
impedito la definitiva ed immodificabile
determinazione dell'indennità.
Con l'occasione la Suprema Corte ha avuto
modo di dichiarare che, per la
determinazione del valore venale del bene, è
consentito dimostrare, in base ad una
documentata valutazione di mercato
(determinata sempre all'interno della
categoria suoli inedificabili e anche
attraverso rigorose indagini tecniche), che
il valore agricolo sia mutato e/o aumentato
in conseguenza di una diversa destinazione
del bene, egualmente compatibile con la sua
ormai accertata non edificabilità tramite
una autorizzabile utilizzazione intermedia
tra l'agricola e l'edificatoria (parcheggi,
impianti sportivi, ecc.) (commento tratto da
www.legislazionetecnica.it). |
ESPROPRIAZIONE: Esproprio. Variante
al Prg non basta.
Cittadino batte amministrazione. Bocciata la
delibera del Comune, che paga pure le spese
di giudizio ai privati. Stop al
provvedimento che destina la strada privata,
precedentemente al servizio di un fondo,
alla viabilità pubblica dopo la decisione di
costruire nuove case in zona. L'atto
approvato dall'ente locale infatti non
indica il titolo in base al quale si può
procedere all'esproprio. Mentre sarebbe
servito il piano di lottizzazione.
È quanto
emerge dalla
sentenza
29.09.2011 n. 5416 della IV Sez. del
Consiglio di stato.
L'amministrazione è sconfitta su tutti i
fronti. I privati proprietari del terreno
dove passa la strada oggetto del
procedimento ablativo hanno interesse a
ricorrere contro la delibera del Comune,
nonostante un mezzo passo indietro
dell'ente. In linea di principio la scelta
di programmazione non può essere ostacolata
dai cittadini perché gli amministratori
hanno tutto il diritto di dare al territorio
l'assetto più confacente all'interesse
pubblico per lo sviluppo delle aree: l'ente
è quindi libero di dare il via a una nuova
zona di espansione edificatoria e ai
relativi collegamenti con il preesistente
tessuto urbanistico.
Il fatto è che nella
decisione l'esproprio non risulta
giustificato: non si spiega quale concreto
interesse generale legittimi l'ablazione, se
ad esempio l'uso della strada privata si
protragga da tempo immemorabile da parte di
persone appartenenti alla comunità locale.
Insomma: senza darne adeguatamente conto
alla cittadinanza, il Comune non può
assumere decisioni che investono posizioni
di diritto già consolidate, come quella del
proprietario di viabilità a servizio
dell'azienda agricola da destinare invece al
transito di tutti.
Non mostra, il Comune, l'analisi
eventualmente effettuata dei rapporti e dei
limiti del nuovo dimensionamento urbanistico
del territorio. Né indica lo stato di
attuazione delle prescrizioni del piano
regolatore vigente. Diversamente da quanto
impone la normativa regionale, l'ente non
mette in relazione le nuove costruzioni
all'andamento demografico sul territorio,
che è poi la ragione per la quale la strada
privata dovrebbe essere asservita alla
viabilità.
Infine, di fronte alla nuova
zonizzazione, la sede programmatoria
urbanistica generale risulta inadeguata a
individuare i collegamenti stradali resi
necessari dalle nuove costruzioni:
l'operazione compete di solito agli
strumenti attuativi e, infatti, nella specie
è la stessa variante a indicare ad hoc
il piano di lottizzazione
(articolo ItaliaOggi del 07.10.2011). |
ESPROPRIAZIONE:
Espropri: restituzione del fondo
e riduzione in pristino
Il Consiglio di Stato conferma che il
proprietario di un’area, occupata senza
titolo per la realizzazione di un’opera
pubblica, può legittimamente domandare nel
giudizio di ottemperanza sia il
risarcimento, sia la restituzione del fondo
che la sua riduzione in pristino.
Il Consiglio di Stato, Sez. IV, con la
sentenza 02.09.2011 n. 4970,
prendendo in esame il ricorso di
ottemperanza per l’esecuzione di una
precedente sentenza che ha dichiarato
illegittimi (e quindi decaduti) gli atti per
l’acquisizione di un’area per la
realizzazione di un’opera pubblica, ha
dichiarato che, in caso di inerzia
dell’Amministrazione nell’acquisire
legittimamente il bene, è suo obbligo
primario procedere alla restituzione della
proprietà illegittimamente detenuta.
Con l’occasione viene evidenziato come, a
seguito della sentenza 293/2010 della Corte
Costituzionale che ha dichiarato illegittima
la cd acquisizione sanante (articolo 43 del
TU sulle espropriazioni), l’Amministrazione
possa acquisire legittimamente il bene
facendo uso dei due strumenti tipici, ossia
il contratto (tramite l’acquisizione del
consenso della controparte) o il
provvedimento (e quindi anche in assenza di
consenso ma tramite la riedizione del
procedimento espropriativo con le sue
garanzie), ai quali va aggiunto il possibile
ricorso al procedimento espropriativo
semplificato (articolo 42-bis del TU sulle
espropriazioni, come introdotto
dall’articolo 34, comma 1, del D.L. 98/2011
in materia di disposizioni urgenti per la
stabilizzazione finanziaria, convertito in
L. 15.07.2011 n. 111).
Pertanto, in assenza -da parte
dell’Amministrazione- della concreta
manifestazione che intenda acquisire
legittimamente il bene, il proprietario può
legittimamente domandare nel giudizio di
ottemperanza sia il risarcimento, sia la
restituzione del fondo che la sua riduzione
in pristino.
Nel caso in esame, emergendo dagli atti come
l’Amministrazione comunale non abbia fatto
uso di nessuno dei mezzi giuridici a sua
disposizione, rimanendo così integra la
situazione di illegittimità nell’uso del
bene, il Consiglio di Stato ne ha intimato
la restituzione nel termine di 120 giorni;
disponendo che, in caso di ulteriore
inadempimento, a tale attività provveda il
commissario ad acta nominato
contestualmente (commento tratto da
www.legislazionetecnica.it). |
ESPROPRIAZIONE: 1.
Occupazione temporanea di terreno limitrofo
alle aree di realizzazione dell'opera
pubblica - Finalità - Decorrenza del periodo
autorizzato - Restituzione del terreno
previo ripristino status quo ante -
Necessità.
2.
Occupazione temporanea di terreno limitrofo
alle aree di realizzazione dell'opera
pubblica - Indipendenza del procedimento di
occupazione temporanea rispetto alla
procedura espropriativa - Sussiste -
Conseguenze.
3.
Occupazione temporanea di terreno limitrofo
alle aree di realizzazione dell'opera
pubblica - Proroga dei termini per il
completamento delle opere - Proroga dei
termini dell'occupazione - Art. 20, Legge n.
865/1971 - Legittimità.
1. L'occupazione temporanea è un
procedimento destinato a consentire l'uso di
terreni di proprietà privata per scopi
connessi all'esecuzione di un'opera
dichiarata di pubblica utilità realizzata su
altra proprietà e quindi limitato nel tempo:
pertanto, decorso il periodo di tempo
autorizzato (ovvero, se ciò avviene in un
momento anteriore, venuta meno l'esigenza
per effetto dell'avvenuta esecuzione
dell'opera) il terreno così occupato e
destinato agli specifici usi espressamente
previsti nel provvedimento autorizzatorio
deve essere restituito nella disponibilità
del proprietario, previo ripristino dello
status quo ante, ovvero indennizzo degli
eventuali danni cagionati.
2. Per sua stessa natura il procedimento di
occupazione temporanea è pienamente autonomo
ed indipendente da un'eventuale procedura
espropriativa: può verificarsi, infatti,
come è avvenuto nel caso in esame, che
l'occupazione temporanea si sia resa
necessaria pur in assenza di qualsiasi
procedura espropriativa, essendo prevista,
la realizzazione dell'opera, interamente su
altre proprietà: pertanto, il proprietario
dei terreni occupati temporaneamente è
legittimato a censurare i correlati
provvedimenti solo con riferimento a profili
di illegittimità propri degli stessi e
limitati al loro specifico oggetto.
3. L'art. 20, Legge n. 865/1971, nel
prevedere che l'occupazione può essere
protratta fino a cinque anni dalla data di
immissione in possesso, non esclude la
prorogabilità del termine quando siano
contestualmente prorogati i termini per il
completamento delle opere e delle
espropriazioni: pertanto, in caso di
occupazione d'urgenza strumentale al
completamento dei lavori e delle
espropriazione relativi ad altre proprietà,
la proroga dei termini relativi ai lavori ed
agli espropri è atta a legittimare anche la
proroga dell'occupazione d'urgenza, giacché
non avrebbe senso differire il termine
finale di completamento dei lavori se non si
potesse prolungare l'occupazione (cfr. TAR
Milano, sent. n. 4406/2009)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 02.09.2011 n.
2135 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Indennizzi
pieni sugli espropri illegittimi.
Lo Stato mette fine alle contestazioni sugli
espropri per pubblica utilità che presentano
errori od omissioni.
Dal 06.07.2011,
l'articolo 34 del decreto legge 98/2011
(convertito dalla legge 111/2011) consente
ai privati di ottenere il valore venale del
bene, oltre a un indennizzo per danni morali
e materiali subiti. Nello stesso tempo, le
amministrazioni possono acquisire i beni che
realmente loro servono. Le incertezze sanate
coprono un arco di 20 anni, poiché i diritti
su immobili (terreni e costruzioni)
potrebbero essere cancellati solo dal
decorso di 20 anni, cioè da un congruo
periodo durante il quale si è subito un
abuso senza contestarlo.
L'articolo 34 della legge 111/2011 pone
termine a procedure remote, rimediando a
incertezze sorte già all'indomani dei primi
interventi per opere ed edilizia pubblica
(legge 865/1971). La complessità delle
procedure si è cumulata all'incertezza sugli
indennizzi, la cui entità è rimasta per
decenni affidata ad aggettivi ("serio", "non
irrisorio") più che a formule di
quantificazione. Anche quando (negli anni
'80) si è riusciti a varare un indennizzo
sulla base di formule precise, rispolverando
la legge che nel 1885 autorizzava espropri
per eliminare il dilagare del colera a
Napoli, si è generato disordine, causando un
atteggiamento intransigente della Corte dei
diritti dell'uomo di Strasburgo.
Da un
giudice sopranazionale sono quindi giunti
segnali precisi (in centinaia di sentenze,
dalla 36813/2006, Scordino, in poi), che
hanno prevalso sulle opinioni delle più alte
autorità giudiziarie nazionali, riuscendo a
prevalere perfino sulle ragioni del fisco
nazionale, che avrebbe voluto prelevare, sul
l'importo dovuto ai proprietari privati del
suolo, un cospicuo 25 per cento.
Oggi l'articolo 32 della legge 111/2011,
inserendo un articolo 42-bis nel Testo unico
espropri 327/2001, rimedia a una serie di
incertezze e sposta l'equilibrio tra privati
e pubbliche amministrazioni in senso
favorevole ai primi. Non basta più che
l'opera pubblica sia stata comunque
eseguita, semmai solo attrezzando con
qualche scivolo o "percorso vita" un'area
verde in zona edificabile: occorre, per
rimediare a errori su espropri, un serio
giudizio di prevalenza della destinazione
pubblica, sulla base di attuali ed
eccezionali ragioni di interesse generale.
In tutti i casi in cui la procedura è stata
sbagliata e il bene immobile non ha ricevuto
da parte della pubblica amministrazione una
destinazione irreversibile, cioè
insuscettibile di utilizzazione da parte di
un privato, occorre seriamente pensare a una
restituzione. In conseguenza, mentre gli
errori nei tracciati di strade, elettrodotti
e servitù aeree (interventi privi di
alternative), sono sanati con un congruo
indennizzo (valore venale oltre ai danni),
molte opere realizzate a metà dalle
amministrazioni locali o rivelatesi
incongrue potrebbero tornare ai loro vecchi
proprietari.
Non basta più, in termini tecnici, l'immutatio
loci, cioè l'alterazione delle
caratteristiche iniziali (un'asfaltatura,
una recinzione, poche attrezzature, la messa
a dimora di un parco, un dislivello
eliminabile) per rendere l'opera pubblica
irreversibile. Occorre invece che emergano
attuali ed eccezionali ragioni di pubblico
interesse a mantenere pubblica la
destinazione dell'area. E il pubblico
interesse andrà valutato anche sulla base
dell'esistenza di aree alternative, a suo
tempo non considerate o non correttamente
comparate. L'unico limite all'applicazione
della norma del 2011 consiste nel
consolidarsi delle procedure, poiché occorre
che i privati abbiano contestazioni in
corso, sulle quali poi poter innestare la
procedura di acquisizione (o di
restituzione).
-------------------------
La procedura
01 | IL CENSIMENTO
L'ente che utilizza il bene deve censire gli
immobili acquisiti senza un valido titolo,
verificando il contenzioso pendente e le
richieste nei limiti del termine di
prescrizione (20 anni). Se il bene è stato
assegnato a un terzo, occorre coinvolgere il
soggetto che lo utilizza. Occorre poi
delimitare gli interessi in conflitto, cioè
verificare l'esistenza di un perdurante
interesse pubblico a utilizzare il bene.
Occorre infine specificare l'attualità ed
eccezionalità delle ragioni a favore del
mantenimento del bene in mano pubblica, cioè
l'effettiva utilizzazione e la mancanza di
alternative valide. Il bene deve essere
stato modificato in modo economicamente
irreversibile (con spese di ripristino
oggettivamente irragionevoli) o comunque
essere indispensabile al raggiungimento
dell'utilità generale
02 | LA DELIBERA
Occorre quindi una stima del valore venale
del bene, del pregiudizio patrimoniale
(interessi moratori, se il danneggiato è un
imprenditore; interessi legali negli altri
casi) e del pregiudizio non patrimoniale. A
questo punto serve una delibera
dell'Autorità che cura gli interessi cui è
destinato il bene immobile, con motivazione
e stima.
Quindi occorre reperire le risorse
per il pagamento (debito fuori bilancio) e
la notifica al proprietario con offerta di
pagamento. Il pagamento va fatto entro 30
giorni dall'acquisizione con segnalazione
dell'acquisizione alla Corte dei conti.
I fac simile
I casi del privato che vuole lasciare il
bene e chiede l'indennizzo e di chi non
vuole lasciarlo e ne chiede la restituzione
All'amministrazione di
.........................................
(ente che utilizza il bene immobile:
Comune, Regione, Consorzio, Prefettura per
le opere statali).
Il sottoscritto
..........................................................
(dati anagrafici, codice fiscale)
permesso di essere proprietario del bene
immobile sito in
.....................................................
(dati catastali: foglio, particella)
attualmente utilizzato per scopi di
interesse pubblico, modificato in assenza di
un valido ed efficace provvedimento,
chiede
che l'Autorità che utilizza il bene immobile
provveda all'acquisizione del bene stesso
corrispondendo al richiedente l'indennizzo
per il pregiudizio patrimoniale e non
patrimoniale.
In particolare, si precisa che il bene
immobile è stato oggetto di
......................................................
(descrivere l'intervento pubblico che
ha coinvolto il bene oggi da acquisire),
e che la procedura non è stata
correttamente conclusa.
Per l'acquisizione del bene, si chiede
il versamento dell'importo corrispondente
al pregiudizio patrimoniale, pari al valore
venale del bene in libero commercio, cui
vanno aggiunti gli interessi annui e
l'importo
del pregiudizio non patrimoniale nella
misura del 10% del valore venale del bene
(20% nel caso di immobile destinato ad
essere attribuito per finalità di interesse
pubblico in uso speciale a soggetti
privati).
Si chiede pertanto che l'amministrazione
provveda ad adottare l'atto di acquisizione
e a liquidare l'indennizzo disponendo
il pagamento entro il termine di 30 giorni.
L'indirizzo cui andranno comunicati
gli sviluppi della vicenda è
...................................
Si chiede di essere informati di ogni fase
del procedimento a norma della legge
241/1990.
La presente comunicazione viene inviata a
norma dell'articolo 42-bis del Dpr 327 /
2001
e dell'articolo 34 della legge 111/2011
(data) .................
(firma) ..............................
All'amministrazione di
..............................................................
(ente che utilizza il bene immobile: Comune,
Regione, Consorzio, Prefettura per le opere
statali).
Il sottoscritto
..............................................................
(dati anagrafici, codice fiscale)
permesso di essere proprietario del bene
immobile sito
in
................................................
(dati catastali: foglio, particella )
attualmente detenuto per asseriti scopi di
interesse pubblico.
Premesso che tale bene è stato oggetto di un
provvedimento non valido a sottrarne la
proprietà ed è attualmente indebitamente
utilizzato;
-
che in particolare il bene non è stato
irreversibilmente modificato;
-
che non sussistono attuali ed eccezionali
ragioni di interesse pubblico, in quanto il
risultato conseguibile attraverso l'immobile
di proprietà è ottenibile anche in altro
modo legittimo;
chiede
che l'Autorità che utilizza il bene immobile
provveda alla restituzione del bene stesso,
restituendovi le caratteristiche iniziali e
quindi asportando a propria cura e spese
ogni accessorio o pertinenza collocatovi,
non essendo interesse
del richiedente mantenerne la collocazione.
Si chiede il pagamento dei danni
corrispondenti al pregiudizio patrimoniale
subito e cioè pari all'interesse del cinque
per cento annuo sul valore venale, oltre
alla perdita di occasioni di utilizzo del
bene in libero mercato.
Si chiede il pagamento dei danni
corrispondenti al pregiudizio non
patrimoniale subito e cioè pari al 10 per
cento
(20% in caso di terreni destinati a essere
attribuiti a
soggetti privati) del predetto valore venale
(in analogia all'articolo 42-bis, Dpr
327/2001).
In particolare, si precisa che il bene
immobile è stato
oggetto di
.......................................
(descrivere l'intervento pubblico che ha
coinvolto il bene oggi da restituire),
e che la procedura non è stata correttamente
conclusa.
Si chiede pertanto che l'amministrazione
provveda ad adottare l'atto di retrocessione
e a liquidare l'indennizzo dovuto disponendo
il pagamento entro il termine di 30 giorni.
L'indirizzo cui andranno comunicati gli
sviluppi della vicenda
è .......................................
Si chiede di essere informati di ogni fase
del procedimento
a norma della legge 241/1990.
La presente comunicazione viene inviata a
norma dell'articolo 42-bis del Dpr 327/2001
e dell'articolo 34 della legge 111/2011
(data) .................
(firma) ..............................
------------------------
ESPROPRI
Soggetti interessati sono tutti coloro i
quali risultano coinvolti in procedure di
esproprio mai iniziate o mai portate
correttamente a termine. La norma è anche
retroattiva, rimediando a situazioni
arretrate fino a un ventennio, risolvendo
tutti i conflitti scaturiti in sede
giudiziaria o in casi di occupazione di
fatto.
L'entrata in vigore della norma il 06.07.2011 va coordinata con la retroattività
prevista
per le acquisizioni che rimedino a fatti
anteriori, cioè a tutte le situazioni in cui
privato e pubblica amministrazione si sono
contrapposti in aule giudiziarie per
procedure iniziate e non ultimate o
addirittura per comportamenti di fatto e
occupazioni prive di adeguato titolo.
Gli effetti finanziari della norma
ricadranno sulle amministrazioni che si
giovano di beni immobili che diventeranno di
loro proprietà a un costo superiore a quello
previsto sia per il valore venale da pagare
sia per i pregiudizi patrimoniali
(interessi) e non patrimoniali (ulteriore 10
o 20% del valore venale).
Potrebbero riguardare le procedure contabili
necessarie per reperire le risorse e
generare un coinvolgimento dei soggetti
fruitori finali dei beni immobili, in
particolare quando si tratta di aree
industriali o zone di edilizia pubblica
assegnate a cooperative.
I riferimenti normativi della norma sono il
Testo unico sugli espropri 327 dell'08.06.2001, in cui l'articolo 42-bis introdotto
nel 2011 sostituisce l'articolo 43 che la
Corte costituzionale ha giudicato
illegittimo nel 2010 con la sentenza numero
293, per eccesso di delega
(articolo Il Sole 24
Ore
del 03.08.2011). |
ESPROPRI: Opere
pubbliche in difetto. Si paga il valore
venale e il danno. Sanabili vent'anni di
espropri.
Cambia dal 6 luglio, con l'articolo 34 del
Dl 98 (legge 111/2011) il regime dei suoli
soggetti a procedure di esproprio per
pubblica utilità, qualora manchi l'atto
iniziale (dichiarazione di pubblica utilità)
o quello finale (il decreto di esproprio).
Se l'amministrazione ha acquisito immobili
con procedure errate, odi fatto, spetta oggi
il valore venale con l'incremento di importi
per l'occupazione abusiva (5% annuo) e per
danno non patrimoniale (10%, che raddoppia
in caso di perdita del bene destinato a
edilizia pubblica).
La novità interessa i proprietari che
abbiano perso la disponibilità dell'area
nell'arco degli ultimi 20 anni (termine di
usucapione a favore della Pa) qualora sia
mancato qualsiasi atto di procedura. Se
invece vi è un contenzioso, innanzi il
giudice ordinario (in materia di danni) o
innanzi il giudice amministrativo (in tema
di retrocessione o acquisizione) la norma
può sanare anche questioni ultraventennali.
Pagherà l'amministrazione che fruisce
dell'area, salvo rivalsa (se prevista) su
terzi quali i concessionari di un'area
sportiva, o i proprietari di unità di
edilizia pubblica su aree non correttamente
espropriate.
I presupposti per la sanatoria sono rigidi e
dettagliati, perché occorrono: 1) attuali ed
eccezionali ragioni di interesse pubblico;
2) ragioni che devono prevalere sui
contrapposti interessi privati dei
proprietari; 3) carenti alternative alla
sanatoria (articolo 42-bis, comma 4).
Ciò significa che un'area destinata a
strada, detenuta senza titolo
dall'amministrazione, sarà agevolmente
sanata con la nuova procedura: basta
sottolineare la destinazione collettiva,
priva di alternative; ma nel caso di un'area
attrezzata a parco pubblico, a campi da
tennis, o anche solo a scuola o caserma dei
vigili del fuoco (considerate utilizzazioni
reversibili), l'ente espropriante dovrà
valutare con attenzione gli interessi in
conflitto.
La scuola realizzata su un'area detenuta
senza titolo da un Comune potrebbe, per
esempio, tornare al privato proprietario
dell'area, che a sua volta potrebbe poi
darla in locazione ...
(articolo Il
Sole 24 Ore del 22.07.2011 - link a www.corteconti.it). |
ESPROPRIAZIONE: MANOVRA
CORRETTIVA/ Espropri
senza titolo, arriva il super-indennizzo.
Super-indennizzo per gli espropri senza
titolo. Chi subisce da parte della p.a.
un'occupazione espropriativa senza titolo,
oltre ad avere l'usuale indennizzo riceverà
anche un risarcimento a forfait del 10%,
calcolato sul valore venale. La manovra
Tremonti disciplina l'utilizzazione senza
titolo di un bene per scopi di interesse
pubblico. E da un lato assicura l'opera alla
p.a., ma dall'altro compensa economicamente
il sacrificio del privato. La regola è fatta
valere retroattivamente anche ai fatti
anteriori alla entrata in vigore del decreto
legge, purché l'ente espropriante dichiari
la prevalenza dell'interesse pubblico.
Si interviene sul Testo unico degli espropri
(dlgs 327/2001), inserendo l'articolo
42-bis. Il problema è rappresentato dai casi
in cui l'amministrazione usa un immobile di
un privato per realizzare un'opera pubblica,
ma non ha un valido titolo espropriativo o
una valida dichiarazione di pubblica
utilità. Da un lato sorge l'interesse a
conservare l'opera, dall'altro lato vi è
l'interesse del privato a vedersi
riconosciuto un ristoro per l'illegittimità
subita.
L'articolo 42-bis prevede un
bilanciamento tra gli interessi in
conflitto, a seguito del quale la p.a. può
disporre che il bene sia acquisito, ma non
retroattivamente, al suo patrimonio
indisponibile e che al proprietario sia
corrisposto un doppio indennizzo: sia per il
pregiudizio patrimoniale sia per quello non
patrimoniale. L'indennizzo del danno non
patrimoniale è forfettariamente liquidato
dalla legge nella misura del 10% del valore
venale del bene. La stessa regola vale non
solo quando manchi l'atto espropriativo, ma
anche quando è stato annullato l'atto
costitutivo del vincolo preordinato
all'esproprio, oppure la dichiarazione di
pubblica utilità o il decreto di esproprio.
L'amministrazione può anche acquisire il
bene in pendenza del giudizio per
l'annullamento degli atti.
In tali casi si
computano a conguaglio le somme
eventualmente già erogate al proprietario a
titolo di indennizzo. Il danno non
patrimoniale è calcolato, come si è visto,
con la regola del 10%. L'indennizzo
patrimoniale, invece, è determinato, di
regola, in misura corrispondente al valore
venale del bene utilizzato per scopi di
pubblica utilità, con le specifiche del
Testo unico espropri per il calcolo del
valore dei terreni edificabili (articolo
37). Oltre al capitale è dovuto l'interesse
del 5% annuo per il periodo di occupazione
senza titolo, salvo che non risulti dagli
atti la prova di una diversa entità del
danno.
Insomma a chi ha subito una occupazione
espropriativa spetta il valore venale del
bene espropriato, gli interessi e il 10% sul
valore venale. Trattandosi di un esborso a
carico della p.a. a fronte di una attività
omessa o di una attività illegittima, la
manovra Tremonti prevede alcuni sbarramenti.
Innanzi tutto l'atto di acquisizione deve
spiegare chiaramente quali attuali ed
eccezionali ragioni di interesse pubblico
giustificano l'uso di denaro pubblico e deve
spiegare che non ci sono alternative
ragionevoli.
Nell'atto si deve indicare l'ammontare
dell'indennizzo, che deve essere pagato
entro 30 giorni. In ogni caso fino a che non
è avvenuto il saldo o il deposito delle
somme dovute, l'immobile rimane in proprietà
del privato.
L'atto di acquisizione è notificato al
proprietario e comporta il passaggio del
diritto di proprietà. Inoltre il medesimo
atto è soggetto a trascrizione presso la
conservatoria dei registri immobiliari a
cura dell'amministrazione procedente.
Se l'occupazione riguarda un terreno
utilizzato per finalità di edilizia
residenziale pubblica, agevolata o
convenzionata, o un terreno destinato a
essere attribuito per finalità di interesse
pubblico in uso speciale a soggetti privati,
il provvedimento è di competenza
dell'autorità che ha occupato il terreno e
la liquidazione forfetaria dell'indennizzo
per il pregiudizio non patrimoniale aumenta:
è pari al venti per cento del valore venale
del bene.
Il decreto fissa una norma transitoria: le
nuove disposizioni si applicano anche ai
fatti anteriori e anche se vi è già stato un
provvedimento di acquisizione
successivamente ritirato o annullato;
tuttavia deve essere comunque rinnovata la
valutazione dell'interesse pubblico e si
deve fare il conguaglio con le indennità
eventualmente già pagate. Una forma di
vigilanza sul procedimento è rappresentata
dall'obbligo di trasmettere l'atto di
acquisizione, entro trenta giorni, alla
Corte dei conti: il giudice contabile potrà
così verificare la regolarità e congruità
dell'operazione.
L'obbligo di indennizzo patrimoniale e non
patrimoniale si applica anche per
l'acquisizione del diritto di servitù. La
p.a., a questo proposito, può procedere
all'eventuale acquisizione del diritto di
servitù al patrimonio dei soggetti, privati
o pubblici, titolari di concessioni,
autorizzazioni o licenze o che svolgono
servizi di interesse pubblico nei settori
dei trasporti, telecomunicazioni, acqua o
energia
(articolo ItaliaOggi
del 02.07.2011). |
ESPROPRIAZIONE: Indennità
da esproprio e plusvalenze, nessun contrasto
con la Cedu.
In tema di imposte sui
redditi, la S.C. ha affermato che non
contrasta con l'art. 1 del Protocollo
Addizionale n. 1 alla Convenzione Europea
per la Salvaguardia dei diritto dell'Uomo e
delle Libertà Fondamentali,
l'assoggettamento a tassazione delle
plusvalenze conseguenti alla percezione di
indennità di esproprio.
In tema di imposte sui redditi, la S.C. ha
affermato che non contrasta con l'art. 1 del
Protocollo Addizionale n. 1 alla Convenzione
Europea per la Salvaguardia dei diritto
dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali,
l'assoggettamento a tassazione delle
plusvalenze conseguenti alla percezione di
indennità di esproprio, ai sensi dell'art.
11, comma 5, L. 30.12.1991, n. 413, atteso
che il "giusto equilibrio" tra le
esigenze dell'interesse generale della
comunità e il requisito della salvaguardia
del diritto fondamentale di proprietà,
enunciato dall'art. 1 cit., riguarda la
disciplina delle ipotesi di ingerenza
dell'Ente Pubblico sulla proprietà privata e
del "quantum" da corrispondere in
tali casi al privato spogliato del suo
diritto di proprietà, mentre l'art. 11 cit.
attiene al momento successivo dell'esercizio
del potere impositivo dello Stato sui propri
contribuenti, cioè ad un ambito, quello
fiscale, del tutto distinto dagli aspetti
sostanziali-indennitari della vicenda
espropriativa.
Va ricordato che l'art. 1 del Protocollo n.
1 dispone: "Ogni persona fisica o
giuridica ha diritto al rispetto dei suoi
beni. Nessuno può essere privato della sua
proprietà se non per causa di utilità
pubblica e nelle condizioni previste dalla
legge e dai principi generali di diritto
internazionale. Le precedenti disposizioni
non portano pregiudizio al diritto degli
Stati di mettere in vigore le leggi da essi
ritenute necessarie per disciplinare l'uso
dei beni in modo conforme all'interesse
generale o per assicurare il pagamento delle
imposte o di altri contributi oppure di
ammende".
Ricorda la S.C. che la Corte Europea ha più
volte affermato che l'art. 1 del Protocollo
n. 1 contiene tre norme distinte: "la
prima norma, esposta nella prima frase del
primo paragrafo, è di natura generale ed
enuncia il principio del diritto al rispetto
dei beni; la seconda norma, contenuta nella
seconda frase del primo paragrafo, riguarda
la privazione dei beni a certe condizioni;
la terza norma, nel secondo paragrafo,
riconosce che gli Stati Contraenti hanno il
diritto, tra l'altro, di controllare l'uso
dei beni in modo conforme all'interesse
generale.... Tali norme non sono "distinte"
nel senso che non hanno un legame tra loro:
la seconda e la terza norma, relative a
particolari casi di ingerenza nel diritto al
rispetto dei beni, devono essere
interpretate alla luce del principio
contenuto nella prima norma" (cfr. James
e altri a Regno Unito, 21.02.1986, Serie A
n. 98, che in parte ripete i termini della
tesi della Corte in Sporrong e Lonnroth c.
Svezia, 23.09.1982, Serie A n.52, p 24; cfr.
anche The Holy Monasteries c. Grecia,
sentenza del 9 dicembre 1994, Serie A n.
301-A; Iatridis c. Grecia GC, n. 31107/1996,CEDU
1999-11; e Beyeler c. Italia GC, n,
33202/1996, CEDU 2000-1)".
Tra le varie decisioni viene ricordata, in
particolare, il noto Provvedimento del
29.03.2006 Grande Camera, caso: Scordino
contro Italia, Ricorso n. 36813/1997,
secondo cui "l'ingerenza nel diritto al
rispetto dei beni deve contemperare un
"giusto equilibrio" tra le esigenze
dell'interesse generale della comunità e il
requisito della salvaguardia dei diritti
fondamentali dell'individuo (cfr, tra altre
autorità Sporrong e Ldnnroth, cit. supra).
La preoccupazione di conseguire tale
equilibrio si riflette nella struttura
dell'art. 1, visto nella sua interezza, e
che comprende quindi la seconda frase che
deve essere letta alla luce del principio
generale enunciato nella prima frase. In
particolare, deve sussistere un ragionevole
rapporto di proporzionalità tra i mezzi
impiegati ed il fine che si cerca di
realizzare con qualsiasivoglia misura
applicata dallo Stato, comprese le misure
che privano una persona dei suoi beni (cfr.
Pressos Campania Naviera S. A. e altri e.
Belgio, sentenza 20.11.1995, Serie A n. 332;
L'ex re di Grecia e altri c. Grecia GC, n.
25701/1994; e Sporrong e Lonnroth, city
supra)".
In definitiva, quindi, la misura nazionale
(rispetto alla quale "lo Stato gode di un
ampio margine di discrezionalità sia nello
scegliere i mezzi di attuazione che
nell'accertare se le conseguenze derivanti
dall'attuazione siano giustificate
nell'interesse generale per il conseguimento
delle finalità della legge" - cfr.
Chassagnou e altri c. Francia GC, n.
25088/94, 28331/95 e 28443/95) deve
rispettare il giusto equilibrio richiesto e
non deve imporre un onere sproporzionato sui
ricorrenti (cfr. Jahn e altri c. Germania GC,
n. 46720/1999,72203/2001 e 72552/2001).
Sulla base di questi principi la Corte
esclude che la disciplina dell'art. 11 cit.
non può in alcun modo incidere sul "giusto
equilibrio", attenendo non certo ai
fondamentali momenti sopra enunciati, ma
solo al momento successivo dell'esercizio
del potere impositivo delle Stato sui propri
contribuenti. La norma stabilisce che le
somme costituenti plusvalenze (costituite
dai corrispettivi pagati al proprietario
-non imprenditore- di terreni aventi
determinate destinazioni urbanistiche sotto
forma di indennità di esproprio per cessione
volontaria in sede espropriativa o di
indennizzo per acquisizione coattiva,
conseguente ad occupazione d'urgenza
divenuta illegittima) siano (ovviamente e
regolarmente) tassate attraverso due
modalità, la cui scelta è rimessa al
contribuente: o quest'ultimo opterà per la
tassazione ordinaria, oppure l'ente erogante
opererà su dette plusvalenze una ritenuta
del venti per cento, a titolo d'imposta.
Ad avviso della S.C. appare chiaro che, in
entrambi i casi, è in discussione non il
principio di un risarcimento commisurato
alla restituito in integrum o quello
di un'indenità ragionevolmente rapportata al
valore dei beni, bensì la scelta operata
discrezionalmente e legittimamente dal
legislatore italiano sulle modalità
attraverso le quali tassare una plusvalenza
realizzata da un contribuente.
Cioè ad un ambito, quello fiscale, del tutto
distinto L'attinenza del "giusto
equilibrio" ai soli aspetti
sostanziali-indennitari della vicenda
espropriativa e la distinzione tra questi e
quello strettamente fiscale viene
riscontrata dalla S.C. alla luce delle
pronunce della Corte Costituzionale sulla
legittimità costituzionale dell'art. 11 cit.
(Sent. n. 283 del 1993 e n. 148 del 1999).
La sentenza ha poi precisato che il regime
fiscale in tema di plusvalenze realizzate
mediante percezione della indennità di
esproprio a seguito di una procedura di
espropriazione per pubblica utilità o di
cessione di terreni fabbricabili, opera "quale
che sia la finalità concreta -realizzazione
di un'opera pubblica o di un'opera di
pubblica utilità, categoria quest'ultima
nella quale rientrano gli insediamenti
produttivi e gli impianti industriali, pur
se realizzati da privati, previsti dagli
strumenti urbanistici- a cui la medesima
procedura sia preordinata.
Pertanto, attesa la irrilevanza sia del
titolo sia della finalità dell'opera che
realizza il trasferimento, la plusvalenza è
soggetta a tassazione tanto se il
trasferimento avviene a seguito di cessione
a titolo oneroso, riconducibile ad una
scelta libera ed autonoma del cedente,
quanto se il trasferimento avviene
forzosamente a seguito di espropriazione, di
cessione volontaria o di occupazione
appropriativa per la realizzazione di
un'opera pubblica o di pubblica utilità".
Nella specie la S.C. ha ritenuto applicabile
l'art. 11 cit. con riferimento alle
plusvalenze realizzate a seguito di
procedura espropriativa finalizzata alla
realizzazione di un P.I.P., in cui solo una
parte delle aree occupate era stata
destinata a infrastrutture urbane, mentre la
restante parte era stata destinata alla
successiva assegnazione in lotti ad imprese
private (commento tratto da www.ipsoa.it -
Corte di Cassazione, Sez. civile,
sentenza 30.06.2011 n. 14362). |
ESPROPRIAZIONE - URBANISTICA:
Per le ''aree di rispetto''
indennizzo scontato.
Non possono essere annoverati tra
i vincoli “sostanzialmente espropriativi”
quelli derivanti da destinazioni
realizzabili anche attraverso l'iniziativa
privata in regime di economia di mercato.
I limiti non ablatori
normalmente posti nei regolamenti
urbanistici o nella pianificazione
urbanistica e relative norme tecniche,
riguardanti altezza, cubatura, superficie
coperta, distanze, zone di rispetto, indici
di fabbricabilità, limiti e rapporti per
zone territoriali omogenee e simili, sono
vincoli conformativi, connaturali alla
proprietà, e non comportano indennizzo.
Riveste rilievo decisivo nella presente
controversia stabilire se le prescrizioni
che riguardano il fondo dell’appellante
hanno carattere espropriativo, come essa
ritiene o soltanto conformativo, come invece
ritiene il Comune; in questo secondo caso
occorre stabilire anche se gli standards
eccedenti quelli minimi realizzabili previa
convenzione, sono effettivamente
realizzabili in base alle prescrizione del
Piano che li riguarda.
Appare allora opportuno premettere alcune
considerazioni in ordine alla differenza fra
vincolo “espropriativo” e vincolo “conformativo”,
ai fini della corretta qualificazione
giuridica della fattispecie dedotta in
giudizio, per poter poi stabilire se, nel
caso che occupa, sussista o meno
l’illegittimità del diniego impugnato del
permesso di costruire adottato dal Comune.
I criteri di individuazione dei vincoli
espropriativi o di inedificabilità assoluta,
rispetto ai vincoli conformativi, sono stati
elaborati con le sentenze della Corte
Costituzionale 20.05.1999, n. 179 e
18.12.2001, n. 411, ma anche con la più
recente sentenza 09.05.2003 n. 148, nella
parte in cui si riferiscono a vincoli
scaduti, preordinati all'espropriazione o
sostanzialmente espropriativi, senza
previsione di durata e di indennizzo. In
base ai suddetti criteri nonché a quelli
elaborati dalla giurisprudenza
amministrativa formatasi in relazione
all'art. 2 della legge n. 1187 del 1968, i
vincoli di piano regolatore, ai quali si
applica il principio della decadenza
quinquennale, sono soltanto quelli che
incidono su beni determinati, che sono
preordinati all'espropriazione ovvero che
hanno carattere sostanzialmente
espropriativo, tali da determinare l'inedificabilità
dei beni colpiti e, dunque, lo svuotamento
del contenuto del diritto di proprietà,
incidendo sul godimento del bene, tanto da
renderlo inutilizzabile rispetto alla sua
destinazione naturale, ovvero da diminuirne
in modo significativo il valore di scambio (ex
plurimis: Cons. Stato, Sez.V, n. 3 del
03.01.2001 e n. 745 del 24.02.2004), con
conseguente violazione sostanziale del III
comma dell'art. 42 Cost.
Tali indicazioni possono valere anche con
riferimento all’attuale sistema, che, con
l'art. 9, commi 3 e 4, del D.P.R. 08.06.2001
n. 327, entrato in vigore il 30 giugno 2003,
ha soltanto esplicitato con una diversa
terminologia la regola della durata
quinquennale, disciplinando espressamente
gli istituti della decadenza e della
reiterazione.
Invece, la previsione di una determinata
tipologia urbanistica non configurante né un
vincolo preordinato all'espropriazione né l'inedificabilità
assoluta, essendo una prescrizione diretta a
regolare concretamente l'attività edilizia,
inerisce alla potestà conformativa propria
dello strumento urbanistico generale, la cui
validità è a tempo indeterminato, come
espressamente stabilito dall'art. 11 della
legge 17.08.1942 n. 1150. Si parla, in tal
caso, di vincoli urbanistici di tipo “conformativo”,
per indicare i vincoli relativi ai beni
culturali e paesaggistici, posti
direttamente dalla legge ovvero mediante un
particolare procedimento amministrativo a
carico di intere categorie di beni, in base
a caratteristiche loro intrinseche, con
carattere di generalità ed in modo
obiettivo: tali limitazioni delle facoltà
del proprietario ricadono nella previsione
non del comma terzo, bensì del comma
secondo, dell’art. 42, Cost. e non sono
indennizzabili.
In proposito, la precitata sentenza della
Corte Costituzionale n. 179 del 1999, al
punto 5 della parte in diritto, ha precisato
che “sono al di fuori dello schema
ablatorio-espropriativo con le connesse
garanzie costituzionali (e quindi non
necessariamente con l'alternativa di
indennizzo o di durata predefinita) i
vincoli che importano una destinazione
(anche di contenuto specifico) realizzabile
ad iniziativa privata o promiscua
pubblico-privata, che non comportino
necessariamente espropriazione o interventi
ad esclusiva iniziativa pubblica e quindi
siano attuabili anche dal soggetto privato e
senza necessità di previa ablazione del
bene.
Ciò può essere il risultato di una scelta di
politica programmatoria tutte le volte che
gli obiettivi di interesse generale, di
dotare il territorio di attrezzature e
servizi, siano ritenuti realizzabili (e come
tali specificatamente compresi nelle
previsioni pianificatorie) anche attraverso
l'iniziativa economica privata - pur se
accompagnati da strumenti di
convenzionamento”.
Pertanto, i limiti non ablatori normalmente
posti nei regolamenti urbanistici o nella
pianificazione urbanistica e relative norme
tecniche, riguardanti altezza, cubatura,
superficie coperta, distanze, zone di
rispetto, indici di fabbricabilità, limiti e
rapporti per zone territoriali omogenee e
simili, sono vincoli conformativi,
connaturali alla proprietà, e non comportano
indennizzo.
Inoltre, se pure hanno carattere
particolare, i vincoli di destinazione
imposti dal piano regolatore per
attrezzature e servizi realizzabili anche ad
iniziativa privata o promiscua, in regime di
economia di mercato, anche se accompagnati
da strumenti di convenzionamento (ad es.
parcheggi, impianti sportivi, mercati e
strutture commerciali, edifici sanitari,
zone artigianali, industriali o
residenziali), sfuggono allo schema
ablatorio, con le connesse garanzie
costituzionali in termini di alternatività
fra indennizzo e durata predefinita.
Se è vero, infatti, che la previsione
dell'indennizzo è doverosa non soltanto per
i vincoli preordinati all'ablazione del
suolo, ma anche per quelli "sostanzialmente
espropriativi" (secondo la definizione
di cui all'art. 39, comma 1, del precitato
D.P.R. 327/2001), è anche vero che non
possono essere annoverati in quest'ultima
categoria, quei vincoli derivanti da
destinazioni realizzabili anche attraverso
l'iniziativa privata in regime di economia
di mercato (cfr., ex multis, Cons.
St., IV, 28.02.2005, n. 693; VI, 14.05.2000,
n. 2934; Cass. Civ., I, 26.01.2006, n. 1626
e 27.05.2005, n. 11322).
Ciò, in quanto la disciplina urbanistica che
ammette la realizzazione di interventi
edilizi da parte di privati, seppur
conformati dal perseguimento del peculiare
interesse pubblico che ha determinato il
vincolo, non si risolve in una sostanziale
espropriazione, ma solo in una limitazione,
conforme ai principi che presiedono al
corretto ed ordinario esercizio del potere
pianificatorio, dell'attività edilizia
realizzabile sul terreno.
Pertanto, siffatta categoria di vincoli, non
avendo un contenuto sostanzialmente
espropriativo, ma derivando dal
riconoscimento delle caratteristiche
intrinseche del bene, nell’ambito delle
scelte di pianificazione generale, risulta
determinata nell’esercizio della potestà
conformativa propria dello strumento
urbanistico generale, per cui ha validità a
tempo indeterminato, come espressamente
stabilito dall'articolo 11 della legge
1150/1942.
Quanto all’obbligo dell’indennizzo, occorre
precisare che il problema della temporaneità
e della conseguente indennizzabilità della
protrazione dei vincoli urbanistici si può
porre solo nei confronti dei vincoli
preordinati all'espropriazione o
sostanzialmente ablativi: restano, di
conseguenza, fuori dai problemi enunciati
tutti gli altri vincoli attinenti a
destinazioni non coinvolgenti l’esecuzione
di opere pubbliche, ma rimessi alla
iniziativa (anche concorrente) dei singoli
proprietari (come il verde condominiale e
gli accessi privati pedonali), trattandosi
di vincoli meramente conformativi.
In effetti, in linea generale, le opere di
interesse generale costituiscono una
categoria logico-giuridica nettamente
differenziata rispetto a quella delle "opere
pubbliche", poiché si riferiscono a
quegli impianti ed attrezzature che, sebbene
non destinate a scopi di stretta cura della
pubblica Amministrazione, sono idonei a
soddisfare bisogni della collettività,
ancorché vengano realizzate e gestite da
soggetti privati: in tale ambito, ci si
riferisce a supermercati, strutture
alberghiere, stazioni di servizio, banche,
discoteche, etc. (cfr. Cons. di Stato sez.
V, n° 405 del 23.03.1993; Cons. di Stato
sez. V, n. 268 del 27.04.1988; Cons. di
Stato sez. V, n. 1000 dell'11.07.1975; TAR
Campania-Napoli n. 6604 del 23.10.2002; TAR
Puglia-Bari n. 4632 del 21.10.2002; TAR
Puglia-Bari n. 1157 del 28.02.2002; TAR
Basilicata n. 288 del 21.10.1996; TAR
Campania-Napoli n. 180 del 22.05.1990; TAR
Lombardia-Brescia n. 693 dell'08.09.1987;
TAR Piemonte n. 321 del 29.10.1984).
Applicando i già ricordati principi al caso
di specie, discende che le destinazioni a
zona pubblica per attrezzature di pubblico
interesse ne discende, avuto particolare
riguardo alla realizzabilità anche ad
iniziativa privata o promiscua, in regime di
economia di mercato, la sua non
sussumibilità nello schema ablatorio, ma,
piuttosto, nella tipologia dei vincoli
urbanistici di tipo “conformativo”,
che non pongono particolari limitazioni alle
facoltà del proprietario, riconducibili,
come tali, alle previsione non del comma
terzo, bensì del secondo comma, dell’art.
42, Cost..
Conseguentemente, tale normazione di zona
non può che avere validità a tempo
indeterminato, come espressamente stabilito
dall'art. 11 della legge 17.08.1942 n. 1150.
Conclusivamente, nella specie, si deve
ritenere che, il fondo di proprietà del
ricorrente, non risulta gravato da vincolo
preordinato all’espropriazione
(commento tratto da www.ipsoa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 22.06.2011 n. 3797 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Espropriazione per pubblica
utilità ed avviso pubblico.
Una forma di pubblicità, priva
dell’indicazione delle particelle catastali
interessate dall’approvazione del progetto
dell'opera e dell’elenco delle ditte
espropriande, non è idonea a far conoscere
ai proprietari quali terreni di loro
proprietà siano interessati alla
realizzazione dell’opera e di poter
conseguentemente partecipare al procedimento
amministrativo.
E’ fondata la censura di violazione
dell’art. 16, d.P.R. n. 327/2001, sotto il
profilo dell’inosservanza delle formalità da
rispettare in caso di pubblicità di massa in
luogo dell’avviso individuale di avvio del
procedimento.
Dispone, infatti, l’art. 16, co. 2, d.P.R.
n. 327/2001, che lo schema dell'atto di
approvazione del progetto deve richiamare
gli elaborati contenenti la descrizione dei
terreni e degli edifici di cui è prevista
l'espropriazione, con l'indicazione
dell'estensione e dei confini, nonché,
possibilmente, dei dati identificativi
catastali e con il nome ed il cognome dei
proprietari iscritti nei registri catastali.
Aggiunge il co. 4 del medesimo articolo che
al proprietario dell'area ove è prevista la
realizzazione dell'opera è inviato l'avviso
dell'avvio del procedimento, mentre il co. 5
dispone che allorché il numero dei
destinatari sia superiore a 50 si osservano
le forme di cui all'art. 11, co. 2.
A sua volta l’art. 11, co. 2, d.P.R. n.
327/2001 dispone che l'avviso di avvio del
procedimento è comunicato personalmente agli
interessati alle singole opere previste dal
piano o dal progetto. Allorché il numero dei
destinatari sia superiore a 50, la
comunicazione è effettuata mediante pubblico
avviso da affiggere all'albo pretorio dei
Comuni nel cui territorio ricadono gli
immobili da assoggettare al vincolo, nonché
su uno o più quotidiani a diffusione
nazionale e locale e, ove istituito, sul
sito informatico della Regione o Provincia
autonoma nel cui territorio ricadono gli
immobili da assoggettare al vincolo.
L'avviso deve precisare dove e con quali
modalità può essere consultato il piano o il
progetto.
Vero è che tali previsioni non erano
applicabili, ratione temporis, al
procedimento espropriativo per cui è
processo, atteso che il d.P.R. n. 327/2001 è
entrato in vigore il 30.06.2003, laddove
l’avviso di massa nel caso di specie è stato
pubblicato il 28.04.2003, in applicazione
dell’art. 8, l. n. 241/1990.
Ma anche in applicazione dell’art. 8, l. n.
241/1990, l’avviso pubblico sostitutivo
dell’avviso individuale non può limitarsi
alla generica descrizione dell’opera
pubblica e alle generica indicazione del
Comune in cui ricade, ma deve anche
descrivere i terreni o edifici espropriandi,
e ove possibile indicare i dati catastali
degli immobili e i nomi dei proprietari
catastali.
Se si può consentire che nella pubblicità di
massa siano omessi i dati catastali degli
immobili e i nomi dei proprietari catastali,
non può invece acconsentirsi all’omissione
della descrizione delle immobili, quanto
meno con indicazione del relativo indirizzo
o zona.
Diversamente infatti, gli interessati non
sono posti in condizione di comprendere,
dalla pubblicità di massa contenuta
nell’albo pretorio e sulla stampa
quotidiana, che sono proprio le loro
proprietà ad essere oggetto del procedimento
espropriativo.
La giurisprudenza di questo Consesso ha già
affermato, con principi che il Collegio
condivide, che le richiamate disposizioni
facoltizzano l’amministrazione ad avvalersi
di forme di pubblicità diverse dalla
comunicazione personale, ma tale scelta non
può incidere sull’onere dell’individuazione
del soggetto destinatario della
comunicazione, né sul contenuto della stessa
comunicazione, come definito dalla normativa
richiamata.
Diversamente opinando, non si tratterebbe
più di scegliere una forma di comunicazione,
individuale o collettiva, bensì di
consentire o meno l’effettiva partecipazione
dell’interessato al procedimento.
Pertanto, anche la forma di pubblicità,
prescelta in luogo della comunicazione
personale, deve essere idonea allo scopo di
assicurare l’effettiva partecipazione del
privato al procedimento amministrativo, in
primo luogo, mediante l’identificazione dei
soggetti incisi dalla procedura ablativa, in
quanto proprietari del terreno, secondo le
risultanze catastali.
Per converso, una forma di pubblicità, priva
dell’indicazione delle particelle catastali
interessate dall’approvazione del progetto
dell'opera e dell’elenco delle ditte
espropriande, non è idonea a far conoscere
ai proprietari quali terreni di loro
proprietà siano interessati alla
realizzazione dell’opera e di poter
conseguentemente partecipare al procedimento
amministrativo (Cons. giust. sic. 04.11.2008
n. 902; Cons. St., sez. IV, 22.06.2006 n.
3885; Cons. St., sez. VI, 08.03.2004 n.
1077; Cons. giust. sic., 20.01.2003 n. 25) (Consiglio di Stato,
Sez. VI,
sentenza 13.06.2011 n. 3561 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Determinazione dell’indennità di
esproprio. Necessità che l’indennizzo non
sia previsto in misura irrisoria o meramente
simbolica, ma costituisca un serio ristoro.
- L’indennizzo assicurato all’espropriato
dall’art. 42, terzo comma, Cost., se non
deve costituire una integrale riparazione
per la perdita subita -in quanto occorre
coordinare il diritto del privato con
l’interesse generale che l’espropriazione
mira a realizzare- non può essere, tuttavia,
fissato in una misura irrisoria o meramente
simbolica, ma deve rappresentare un serio
ristoro (1).
Per raggiungere tale finalità, occorre fare
riferimento, per la determinazione
dell’indennizzo, al valore del bene in
relazione alle sue caratteristiche
essenziali, fatte palesi dalla potenziale
utilizzazione economica di esso, secondo
legge. Solo in tal modo può assicurarsi la
congruità del ristoro spettante
all’espropriato ed evitare che esso sia
meramente apparente o irrisorio rispetto al
valore del bene.
- In relazione all’art. 117, primo comma,
Cost., all’art. 1 del primo protocollo
addizionale della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali, nell’interpretazione
datane dalla Corte di Strasburgo ed all’art.
42, terzo comma, Cost., va dichiarata
l’illegittimità costituzionale dell’art.
5-bis, comma 4, del decreto-legge
11.07.1992, n. 333 (Misure urgenti per il
risanamento della finanza pubblica),
convertito, con modificazioni, dalla legge
08.08.1992, n. 359, che, per la
determinazione dell’indennità di
espropriazione relativa alle aree agricole
ed a quelle non suscettibili di
classificazione edificatoria, rinvia alle
norme di cui al titolo secondo della legge
n. 865 del 1971, successive modificazioni e
integrazioni, stabilendo che l’indennità di
espropriazione, per le aree esterne ai
centri edificati, è commisurata al valore
agricolo medio annualmente calcolato da
apposite commissioni provinciali, valore
corrispondente al tipo di coltura in atto
nell’area da espropriare (comma quinto); ed
aggiunge che, nelle aree comprese nei centri
edificati, l’indennità è commisurata al
valore agricolo medio della coltura più
redditizia tra quelle che, nella regione
agraria in cui ricade l’area da espropriare,
coprono una superficie superiore al 5 per
cento di quella coltivata della regione
agraria stessa (comma sesto) (2).
- Ai sensi dell’art. 27 della legge
11.03.1953, n. 87 (Norme sulla costituzione
e sul funzionamento della Corte
costituzionale), deve essere dichiarata
l’illegittimità costituzionale, in via
consequenziale, dell’art. 40, commi 2 e 3,
del d.P.R. n. 327 del 2001, recante la nuova
normativa in materia di espropriazione.
Detta norma, che apre la sezione dedicata
alla determinazione dell’indennità nel caso
di esproprio di un’area non edificabile,
adotta per tale determinazione, con riguardo
ai commi indicati, il criterio del valore
agricolo medio corrispondente al tipo di
coltura prevalente nella zona o in atto
nell’area da espropriare e, quindi, contiene
una disciplina che riproduce quella
dichiarata in contrasto con la Costituzione
dalla presente sentenza (3).
---------------
(1) Cfr. Corte Cost., sentenze n. 173 del
1991; sentenza n. 1022 del 1988; sentenza n.
355 del 1985; sentenza n. 223 del 1983;
sentenza n. 5 del 1980.
V. anche Corte cost., sentenza n. 348 del
2007, la quale ha ribadito che «deve essere
esclusa una valutazione del tutto astratta,
in quanto sganciata dalle caratteristiche
essenziali del bene ablato» (principio già
affermato dalla sentenza n. 355 del 1985).
(2) Ha osservato in particolare la Corte che
non è ravvisabile alcun motivo idoneo a
giustificare un trattamento differenziato,
in presenza di un evento espropriativo, tra
i suoli di cui si tratta (edificabili, da un
lato, agricoli o non suscettibili di
classificazione edificatoria, dall’altro).
Infatti, come la stessa Corte cost. in
precedenza -con la sentenza n. 348 del 2007-
ha posto in luce, «sia la giurisprudenza
della Corte costituzionale italiana sia
quella della Corte europea concordano nel
ritenere che il punto di riferimento per
determinare l’indennità di espropriazione
deve essere il valore di mercato (o venale)
del bene ablato». E tale punto di
riferimento non può variare secondo la
natura del bene, perché in tal modo verrebbe
meno l’ancoraggio al dato della realtà
postulato come necessario per pervenire alla
determinazione di una giusta indennità.
E’ vero che il legislatore non ha il dovere
di commisurare integralmente l’indennità di
espropriazione al valore di mercato del bene
ablato e che non sempre è garantita dalla
CEDU una riparazione integrale, come la
stessa Corte di Strasburgo ha affermato, sia
pure aggiungendo che in caso di
"espropriazione isolata", pur se a fini di
pubblica utilità, soltanto una riparazione
integrale può essere considerata in rapporto
ragionevole con il valore del bene.
Tuttavia, proprio l’esigenza di effettuare
una valutazione di congruità dell’indennizzo
espropriativo, determinato applicando
eventuali meccanismi di correzione sul
valore di mercato, impone che quest’ultimo
sia assunto quale termine di riferimento dal
legislatore (Corte cost., sentenza n. 1165
del 1988), in guisa da garantire il "giusto
equilibrio" tra l’interesse generale e gli
imperativi della salvaguardia dei diritti
fondamentali degli individui.
(3) La Corte non ha ritenuto espressamente
di estendere la declaratoria di
illegittimità costituzionale anche al comma
1 del citato art. 40. Detto comma concerne
l’esproprio di un’area non edificabile ma
coltivata (il caso di area non coltivata è
previsto dal comma 2), e stabilisce che
l’indennità definitiva è determinata in base
al criterio del valore agricolo, tenendo
conto delle colture effettivamente praticate
sul fondo e del valore dei manufatti edilizi
legittimamente realizzati, anche in
relazione all’esercizio dell’azienda
agricola.
La mancata previsione del valore agricolo
medio e il riferimento alle colture
effettivamente praticate sul fondo
consentono una interpretazione della norma
costituzionalmente orientata, peraltro
demandata ai giudici ordinari (massima
tratta www.regione.piemonte.it - Corte
Costituzionale,
sentenza 10.06.2011 n. 181). |
ESPROPRIAZIONE:
Esproprio di terreni agricoli non
coltivati e di fondi inedificabili: é
illegittimo il valore agrario.
Con
sentenza 10.06.2011 n. 181, la
Corte Costituzionale ha dichiarato
illegittimo l'articolo 5-bis, comma 4, del
d.l. 11.07.1992 n. 333, convertito con legge
08.08.1992, n. 359, nonché, in via
conseguenziale, l'articolo 40, commi 2 e 3,
del D.P.R. 08.06.2001, n. 327 (Testo Unico
in materia di espropriazione per pubblica
utilità).
La Corte ha affermato che -per le aree
agricole non coltivate e per quelle
inedificabili- "il valore agrario,
previsto di fatto in via automatica,
potrebbe non rivelarsi un ^serio ristoro^",
con conseguente violazione dell'articolo 117
della Costituzione.
E’ vero, afferma la Corte, che il
legislatore "non ha il dovere di
commisurare integralmente l’indennità di
espropriazione al valore di mercato del bene
ablato e che non sempre è garantita dalla
CEDU una riparazione integrale".
Tuttavia, "proprio l’esigenza di
effettuare una valutazione di congruità
dell’indennizzo espropriativo, determinato
applicando eventuali meccanismi di
correzione sul valore di mercato, impone che
quest’ultimo sia assunto quale termine di
riferimento dal legislatore (sentenza n.
1165 del 1988), in guisa da garantire il
“giusto equilibrio” tra l’interesse generale
e gli imperativi della salvaguardia dei
diritti fondamentali degli individui".
Diverso é il caso delle aree non edificabili
ma coltivate, trattate nel comma 1 del
D.P.R. 327/2001, per le quali la mancanza
del riferimento al ^valore agricolo medio^ e
il riferimento alle colture effettivamente
praticate sul fondo consentono, ad avviso
della Corte, una interpretazione della norma
costituzionalmente orientata, peraltro
demandata ai giudici ordinari.
Per le prime, dunque, é atteso l'intervento
del legislatore, che non potrà non muovere,
sia pure con gli opportuni correttivi, dal
valore venale, ossia di mercato, fissato
dall'articolo 37 del T.U. (tratto e link a
http://studiospallino.blogspot.com). |
ESPROPRIAZIONE:
Occupazione d’urgenza immobili a fini
espropriativi.
L’avviso di cui all’art. 11 DPR n. 327/2001
deve contenere, per essere legittimo e
coerente con il predetto articolo, oltre che
con gli artt. 7 e 8 l. n. 241/1990, gli
elementi volti a determinare i soggetti
espropriandi ed i beni oggetto del
procedimento amministrativo; e ciò sia che
la comunicazione avvenga personalmente, sia
che essa avvenga in forma collettiva
mediante avviso pubblico.
Anche la giurisprudenza, che ammette
equipollenti, ritiene tuttavia
indispensabile una chiara individuazione dei
soggetti e dei beni espropriandi; in tal
senso, da ultimo, è stato ritenuto che è
idoneo il riferimento, nell’avviso pubblico,
ad un determinato foglio della mappa
catastale, senza elencazione delle singole
particelle, quando i destinatari
dell’avviso, debitamente elencati, sono
tutti proprietari di fondi che sono
rappresentati in quel foglio.
---------------
Il ricorso alla speciale procedura ex art.
22-bis DPR 327/2001 postula una motivazione
specifica dell’amministrazione in ordine
alle obiettive ragioni di urgenza, avverso
la quale il privato può ricorrere,
richiedendo il sindacato giurisdizionale.
Con riferimento specifico al procedimento
espropriativo, l’avviso di cui all’art. 11
DPR n. 327/2001 deve contenere gli elementi
idonei a rendere edotto il destinatario del
procedimento ablatorio del sacrificio che
gli si intende imporre e dei beni oggetto di
tale sacrificio.
D’altra parte, lo stesso art. 11, nel
prevedere che l’avviso di avvio del
procedimento deve essere inviato “al
proprietario del bene sul quale si intende
apporre il vincolo preordinato
all’esproprio”, presuppone che
l’amministrazione abbia identificato il
proprietario, e ciò può avvenire solo per il
tramite dei beni (e dei loro dati catastali)
da assoggettare a procedimento ablatorio.
Tale contenuto dell’avviso –che, come si è
già detto, l’art. 11 non esclude né
semplifica in caso di comunicazione non
personale, ma per avviso pubblico– proprio
per le finalità cui lo stesso è preordinato,
deve essere a maggior ragione completo ed
idoneo a rendere compiutamente edotto il
proprietario espropriando, proprio con
riferimento al caso di comunicazione non
personale.
Ed infatti –ribadito che l’art. 11 non
distingue il contenuto dell’avviso in
dipendenza delle modalità della sua
comunicazione, così come, in via generale.,
non opera alcuna distinzione l’art. 8 l. n.
241/1990– mentre nel caso di comunicazione
personale il proprietario effettivamente
riceve notizia dell’esistenza di un
procedimento riguardante beni di sua
proprietà, al contrario, laddove vi siano
forme di comunicazione pubblica collettiva,
il proprietario subisce un primo vulnus
consistente nell’onere, postogli a carico
dell’ordinamento, di acquisire una
conoscenza attraverso strumenti che non
necessariamente rientrano, con certezza ed
immediatezza, nella sua sfera di cognizione,
ritenendo altresì l’ordinamento realizzata “iuris
et de iure” tale conoscenza con il
rispetto delle modalità di comunicazione
previste.
Orbene, se tale “onere di assumere
informazione” e “presunzione di
conoscenza” da parte del proprietario
espropriando possono giustificarsi in
considerazione dell’interesse pubblico alla
celerità del procedimento espropriativo,
resta fermo che l’avviso pubblico e
collettivo costituisce modalità eccezionale
di comunicazione (ragionevole,
giustificabile, ma eccezionale), non a caso
prevista dal legislatore solo in presenza di
un numero elevato di espropriandi; numero
che il legislatore stesso, con previsione
tassativa, indica come superiore a 50,
sottraendo opportunamente la determinazione
della eccessività del numero dei proprietari
alla valutazione discrezionale
dell’amministrazione.
Atteso il sacrificio (non irrilevante)
imposto al proprietario espropriando, in
termini di “effettiva” conoscenza
(che, alle condizioni predette, è presunta
come tale), non è affatto ragionevole che lo
stesso proprietario, oltre che seguire
quotidianamente gli avvisi pubblicati nelle
forme previste dall’art. 11, debba per di
più verificare presso l’amministrazione (una
volta avuta contezza dell’avviso), se il
procedimento possa (o meno) riguardare beni
di sua proprietà.
Se tale fosse l’interpretazione, l’art. 11
sarebbe irragionevole (ed in sospetto di
illegittimità costituzionale per violazione
degli articoli 3, 24, 42 e 97 Cost.), in
quanto esso imporrebbe ai privati sacrifici
non ragionevoli e/o giustificabili in
riferimento ad interessi pubblici..
Alla luce di quanto esposto, questo
Consiglio di Stato ritiene che l’avviso di
cui all’art. 11 DPR n. 327/2001 debba
contenere, per essere legittimo e coerente
con il predetto articolo, oltre che con gli
artt. 7 e 8 l. n. 241/1990, gli elementi
volti a determinare i soggetti espropriandi
ed i beni oggetto del procedimento
amministrativo; e ciò sia che la
comunicazione avvenga personalmente, sia che
essa avvenga in forma collettiva mediante
avviso pubblico (e, per le ragioni esposte,
l’onere di completezza è richiesto a maggior
ragione in quest’ultimo caso).
Giova osservare che, anche la giurisprudenza
che ammette equipollenti, ritiene tuttavia
indispensabile una chiara individuazione dei
soggetti e dei beni espropriandi; in tal
senso, da ultimo, è stato ritenuto che è
idoneo il riferimento, nell’avviso pubblico,
ad un determinato foglio della mappa
catastale, senza elencazione delle singole
particelle, quando i destinatari
dell’avviso, debitamente elencati, sono
tutti proprietari di fondi che sono
rappresentati in quel foglio (Cass. civ.,
Sez. Un. 02.12.2009 n. 25345; in senso
conforme, Cons. Stato, sez. IV, 27.06.2008
n. 3245).
---------------
La
giurisprudenza non appare univoca in ordine
alla necessità per l’amministrazione di
motivare sulle ragioni di “particolare
urgenza” che consentono il ricorso allo
speciale procedimento di cui all’art.
22-bis.
Per un verso, si è escluso ogni obbligo di
particolare motivazione, in presenza dei
presupposti previsti dalla disposizione
medesima, ed in particolare del numero degli
espropriandi superiore a 50 (Cons. Stato,
sez. IV, 12.07.2007 n. 3968 e 27.06.2007 n.
3696; sez. III, 29.09.2009 n. 2215).
Altra giurisprudenza ha invece ritenuto che
il ricorso alla speciale procedura ex art.
22-bis postuli una motivazione specifica
dell’amministrazione in ordine alle
obiettive ragioni di urgenza, avverso la
quale il privato può ricorrere, richiedendo
il sindacato giurisdizionale (Cass. civ.,
Sez. Un., 06.05.2009 n. 10362; Cons. Stato,
sez. IV, 22.05.2008 nn. 2459 e 2460).
Il Collegio ritiene di aderire a
quest’ultimo orientamento interpretativo,
affermando, di conseguenza, la necessità di
motivazione in ordine alle ragioni di
particolare urgenza che legittimano il
ricorso al procedimento ex art. 22-bis DPR
n. 327/2001.
Occorre, infatti, osservare che il
procedimento previsto dall’art. 22-bis
citato (occupazione di urgenza preordinata
all’espropriazione) non costituisce –come
pure si è sostenuto– un ordinario
subprocedimento nell’ambito del procedimento
espropriativo, in tal modo facendosi
rivivere un istituto (l’occupazione di
urgenza) conosciuto dal previgente
ordinamento.
Occorre, infatti, osservare che tale
procedimento, o meglio l’art. 22-bis che lo
prevede, non costituisce parte della
disciplina originaria del Testo Unico
espropriazioni, essendo stato, infatti,
introdotto solo con il d.lgs. n. 302/2002.
La disciplina originaria prevede (e tuttora
si prevede):
- una fase di “determinazione provvisoria
dell’indennità di espropriazione” (art.
20), cui può seguire l’immissione in
possesso (nel caso in cui si concordi sulla
misura dell’indennità), ovvero l’emanazione
del decreto di esproprio, una volta
effettuato il deposito dell’indennità, anche
se non condivisa, presso la Cassa depositi e
prestiti. A questa fase, segue quella di “determinazione
definitiva dell’indennità di espropriazione”
(art. 21);
- una fase di “determinazione urgente
dell’indennità di esproprio” (art. 22),
di modo che “quando l’avvio dei lavori
rivesta carattere di urgenza, tale da non
consentire l’applicazione delle disposizioni
dell’art. 20, il decreto di esproprio può
essere emanato ed eseguito in base alla
determinazione urgente della indennità di
espropriazione, senza particolari indagini o
formalità”. In base al comma 2, “il
decreto di esproprio può altresì essere
emanato ed eseguito in base alla
determinazione urgente dell’indennità di
espropriazione senza particolari indagini o
formalità . . . b) allorché il numero dei
destinatari della procedura espropriativa
sia superiore a 50”.
In definitiva, nel disegno originario del
Testo Unico espropriazioni, a fronte di un
procedimento ordinario di determinazione
(dapprima provvisoria., poi definitiva
dell’indennità di espropriazione), quale
presupposto dell’emanazione del decreto di
esproprio, si giustappone un “procedimento
urgente”, che, pur non escludendo la
previa determinazione dell’indennità, si
caratterizza per celerità, consentendosi la
possibilità di emanazione del decreto di
esproprio sulla base della sola “determinazione
urgente” dell’indennità.
La finalità evidente, perseguita dal
legislatore, era quella di evitare che si
potesse conseguire l’occupazione del bene
espropriando senza che intervenisse, in
seguito, l’emanazione del decreto di
esproprio, con le ben note conseguenze in
tema di occupazione (divenuta) sine
titulo.
A questo disegno, il d.lgs. n. 302/2002 ha
aggiunto, con l’art. 22-bis, l’occupazione
di urgenza.
L’emanazione di tale decreto richiede ai
sensi del comma 1, che “l’avvio dei
lavori rivesta carattere di particolare
urgenza”, laddove la determinazione
urgente dell’indennità, di cui all’art. 22,
richiede che “l’avvio dei lavori rivesta
carattere di urgenza” (la differenza è
data dall’aggettivo “particolare”,
premesso al sostantivo “urgenza”).
Inoltre, il comma 2 dell’art. 22-bis prevede
che possa farsi luogo a decreto di
occupazione di urgenza anche nel caso in cui
vi sia stata determinazione urgente
dell’indennità ed il numero dei proprietari
espropriandi sia superiore a 50.
In definitiva, l’art. 22-bis prevede che il
decreto di occupazione di urgenza possa
essere emanato:
- in casi di “particolare urgenza”,
previa determinazione provvisoria
dell’indennità di espropriazione (comma 1);
- in casi in cui è intervenuta la
determinazione urgente dell’indennità e
qualora gli espropriandi siano superiori a
50 (comma 2, lett. b).
Il legislatore ha, dunque, previsto due
distinti subprocedimenti in deroga al
procedimento ordinario (ex art. 20), in
parte sovrapposti, dei quali quello ex art.
22-bis si fonda (non ricorrendo i caso di
cui al comma 2) su una “particolare
urgenza”, da tenere distinta dalla mera
“urgenza” su cui si fonda il
procedimento in deroga, di cui all’art. 22.
Appare, dunque, evidente che il
subprocedimento volto alla emanazione di un
decreto di occupazione di urgenza, ai sensi
dell’art. 22-bis, lungi dal poter essere
considerato come un subprocedimento
ordinario nell’ambito del procedimento
amministrativo, costituisce, invece, un
subprocedimento in deroga, speciale rispetto
allo stesso subprocedimento in deroga di cui
all’art. 22 del Testo Unico.
Da ciò consegue che l’organo emanante il
decreto di occupazione di urgenza è tenuto a
motivare in ordine alle ragioni di
particolare urgenza, relative ai lavori da
effettuarsi, e che sorreggono la
determinazione assunta.
Ciò a maggio ragione laddove si rifletta
sulle possibili conseguenze (in termini di
occupazione sine titulo, anche per
mancata emanazione del decreto di esproprio
entro i termini della dichiarazione di
pubblica utilità) cui l’istituto della
previa occupazione di urgenza può condurre
ed ha condotto, nella vigenza della
precedente disciplina
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 08.06.2011 n. 3500 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Occupazione
appropriativa, la P.A. restituisca!
Nel caso in cui le condizioni di fatto
riscontrate deponessero nel senso di un
sopraggiunto difetto di interesse della PA a
perseguire l’obiettivo originariamente
considerato meritevole di soddisfacimento,
non vi sarebbe alcun motivo ostativo
all’accoglimento della domanda di
restituzione del terreno occupato a seguito
di dichiarazione di pubblica utilità,
domanda basata sulla richiesta di
applicazione delle disposizioni vigenti in
tema di risarcimento del danno.
Il Tribunale Superiore delle Acque, pur
senza entrare in specifici dettagli circa la
cronologia degli eventi, ha affermato, come
dato certo, che le opere in questione non
erano ancora terminate, né erano all’epoca
della decisione destinate al pubblico
interesse per cui furono predisposte e
progettate ma ha tuttavia ritenuto del tutto
irrilevante tale aspetto, e ciò in ragione
dell’avvenuta irreversibile trasformazione
di parte delle aree legittimamente occupate,
attestata sia dal consulente tecnico di
ufficio che dal consulente di parte.
Orbene non è dubbio che, alla luce dei
consolidati principi vigenti in materia,
l’affermata irreversibile (parziale)
trasformazione del fondo abbia determinato
l’acquisto della proprietà del bene nei
limiti della parte trasformata) da parte
della Pubblica Amministrazione che aveva
dato corso al processo espropriativo.
Peraltro da detta premessa non discende
automaticamente (come ha viceversa ritenuto
il Tribunale Superiore delle Acque) il
rigetto della domanda restitutoria a suo
tempo formulata dalla ricorrente.
Ed infatti la ricorrente, invocando la
restituzione del bene oggetto del
procedimento espropriativo, ha
sostanzialmente esercitato, nella sua
qualità di danneggiato, la richiesta di
reintegrazione in forma specifica del
pregiudizio subito, con ciò esercitando il
diritto riconosciuto dall’art. 2058, primo
comma, c.c.
E’ ben vero che in tali ipotesi (quelle cioè
in cui, a seguito di dichiarazione di
pubblica utilità, sia intervenuta
l’irreversibile trasformazione del fonda)
l’eventuale domanda di risarcimento in forma
specifica formulata dal proprietario del
terreno interessato è ordinariamente
destinata ad un esito negativo, dovendo
trovare prioritario soddisfacimento
l’interesse posto a base della realizzazione
dell’opera pubblica.
Tuttavia nel caso in cui (come viene
rappresentato in quello oggetto di esame) le
condizioni di fatto riscontrate deponessero
nel senso di un sopraggiunto difetto di
interesse della Pubblica Amministrazione a
perseguire l’obiettivo originariamente
considerato meritevole di soddisfacimento,
non vi sarebbe alcun motivo ostativo
all’accoglimento della domanda di
restituzione del terreno occupato a seguito
di dichiarazione di pubblica utilità,
domanda come detto basata sulla richiesta di
applicazione delle disposizioni vigenti in
tema di risarcimento del danno.
D’altra parte tale conclusione (quella cioè
della necessità di una verifica in ordine al
collegamento effettivo fra i lavori di
trasformazione compiuti e la realizzazione
dell’opera programmata) risulta in sintonia
con principi già affermati dal legislatore
in tema di espropriazione e dalla
giurisprudenza di questa Corte.
In tema di retrocessione, infatti, è stato
previsto che, una volta trascorso il termine
per l’esecuzione dell’opera pubblica, gli
espropriati possono richiedere la decadenza
della dichiarazione di pubblica utilità e la
condanna dell’espropriante alla restituzione
dei beni precedentemente acquisiti (art. 63
l. 2359/1865 è stato analogamente previsto
identico diritto dell’espropriato nel caso
in cui il fondo non abbia dell’espropriato
nei caso in cui il fondo non abbia ricevuto
(sia pure in parte) la destinazione impressa
nel progetto originario (artt. 60 e 61 l.
2359/1865); anche con più recente normativa
è stato riconosciuto all’espropriato il
diritto di chiedere la decadenza dalla
dichiarazione di pubblica utilità e la
restituzione del fondo nel caso di mancata
realizzazione dell’opera nel termine di
dieci anni dall’esecuzione
dell’espropriazione (art. 46 D.P.R.
08.06.2001, n. 327).
E pure la giurisprudenza di questa Corte,
come detto, si è costantemente espressa nel
senso ora indicato, ribadendo inoltre, con
recente decisione in tema di elementi
ostativi alla restituzione dei terreni
oggetto di espropriazione al proprietario,
ove non risultante la loro conformazione
alla programmazione originaria dell’opera.
Conclusivamente, devono essere accolti il
quarto ed il quinto motivo dì ricorso con
assorbimento degli altri, la sentenza
impugnata va conseguentemente cassata, con
rinvio al Tribunale Superiore delle Acque
pubbliche diversa composizione, per una
nuova delibazione in ordine all’istanza di
restituzione del terreno oggetto di giudizio
proposta dalla ricorrente, sulla base del
principio secondo cui il sollecitato
riconoscimento del relativo diritto può
essere negato quando, oltre all’accertata
irreversibilità della trasformazione delle
aree occupate, risulti la permanenza e
l’attualità dell’interesse della Pubblica
Amministrazione alla realizzazione e alla
utilizzazione delle opere programmate
(commento tratto da www.ipsoa.it - Sentenza
Corte di Cassazione, civile, sentenza
31.05.2011 n. 11963). |
ESPROPRIAZIONE:
Occupazione illegittima di aree
private - Somme dovute e titolo di
risarcimento del danno - Corresponsione di
interessi anatocistici - Esclusione.
Il valore del ristoro spettante per
l’ipotesi di occupazione illegittima di aree
private deve essere integrale e, pertanto,
sulla somma spettante a titolo di
risarcimento danni, costituente la sorte
capitale di un debito di valore, vanno
corrisposti la rivalutazione monetaria,
secondo gli indici ISTAT dei prezzi al
consumo, e gli interessi legali (di natura
compensativa) sulle somme anno per anno
rivalutate fino alla data di deposito della
sentenza con cui viene riconosciuto il
diritto, e soltanto gli interessi legali da
tale data fino a quella di effettivo
soddisfo, con esclusione degli interessi
anatocistici in quanto non espressamente
previsti dalle legge (fattispecie in tema
di richiesta di risarcimento dei danni
prodotti dalla trasformazione di fondi e
dall’illegittima perdita della proprietà, a
seguito di occupazione in via temporanea ed
urgente di terreni per la durata di cinque
anni, allo scadere dei quali non veniva
adottato il decreto di esproprio) (C.G.A.R.S.,
sentenza 02.05.2011 n. 352 - link
a www.ambientediritto.it). |
ESPROPRIAZIONE:
L’acquisizione senza titolo di
suoli privati per pubblica utilità comporta
sempre la necessità di risarcire anche il
danno da occupazione illegittima.
ESPROPRIAZIONE PER P.U. – INVALIDITA’
PROCEDURA – UTILIZZAZIONE E TRASFORMAZIONE
SENZA TITOLO – DIRITTO DEL PROPRIETARIO DEL
SUOLO AL RISARCIMENTO DEI DANNI SUBITI –
COMPRENDE L’AUTONOMA SORTE DI DANNO DA
OCCUPAZIONE ILLEGITTIMA.
L’utilizzazione senza titolo di un bene di
proprietà privata comporta, normalmente, due
distinti danni, i quali vanno entrambi
risarciti, anche alla luce dei principi
espressi dalla giurisprudenza della Corte
europea dei diritti dell’uomo (CEDU),
relativi alla necessaria integrità del
ristori del pregiudizio derivante da
attività illecita dell’amministrazione
Il primo attiene alla perdita (definitiva)
della proprietà, che avviene nel momento in
cui è adottato il provvedimento di cui
all’articolo 43 del testo unico (norma
dichiarata costituzionalmente illegittima
con sentenza C. Cost. 293/2010) o quando,
come nella specie, il privato “rinuncia”
alla proprietà.
Il secondo danno riguarda la mancata
utilizzazione del bene (o del suo
corrispondente valore monetario) per il
periodo compreso tra l’inizio della
occupazione senza titolo e la perdita della
proprietà.
Tale seconda voce di danno deve essere
risarcita in modo pieno e completo, ma,
ovviamente, senza determinare duplicazioni o
sovrapposizioni con il ristoro già insito
nel risarcimento calcolato sulla perdita del
bene, opportunamente rivalutato (massima
tratta atto da
www.amministrazioneincammino.luiss.it -
C.G.A.R.S.,
sentenza
02.05.2011 n. 351 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Espropriazione per pubblica
utilità - Occupazione senza titolo - Danni
conseguenti - Risarcibilità.
L’utilizzazione senza titolo di un bene di
proprietà privata comporta, normalmente, due
distinti danni, i quali vanno entrambi
risarciti, avuto riguardo, altresì, ai
principi espressi dalla giurisprudenza della
Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU),
relativi alla necessaria integrità del
ristoro del pregiudizio derivante da
attività illecita dell’amministrazione.
Il primo attiene alla perdita (definitiva)
della proprietà, che avviene nel momento in
cui è adottato il provvedimento di cui
all’articolo 43 del D.P.R. 08.06.2001, n.
327 (norma dichiarata costituzionalmente
illegittima con sentenza C. Cost. 293/2010)
o quando il privato “rinuncia” alla
proprietà.
Il secondo danno riguarda la mancata
utilizzazione del bene (o del suo
corrispondente valore monetario) per il
periodo compreso tra l’inizio della
occupazione senza titolo e la perdita della
proprietà (CGA per la regione Siciliana,
18.02.2009, n. 49) (C.G.A.R.S.,
sentenza 02.05.2011 n. 351 - link
a www.ambientediritto.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Fine dell'accessione invertita,
si applica il C.C.. Espropriazione per P.U.,
il diritto romano salva la P.A..
Nel caso di esecuzione
di un'opera pubblica con una procedura
espropriativa illegittima, la specificazione
ex art. 940 c.c. consente alla P.A. di
acquisire, a titolo originario, la proprietà
della medesima al proprio patrimonio
indisponibile.
Molto interessante la decisione qui
segnalata del TAR di Lecce circa il regime
dell’espropriazioni per p.u. illegittime a
seguito dell’abrogazione costituzionale
dell’art. 43 del T.U. sulle espropriazioni.
Ha infatti osservato il G.A. pugliese che,
venuto meno l’istituto dell’accessione
invertita e quello dell'acquisizione sanante
(a seguito della sentenza della Corte
costituzionale n. 293 del 2010, che ha
dichiarato la illegittimità costituzionale
dell’art. 43 del T.U. espropriazione), deve
ritenersi che, nel caso sia stata realizzata
un’opera pubblica in assenza del compimento
nei termini della procedura espropriativa o
in assenza di una valida procedura, debba
trovare applicazione l’istituto della "specificazione"
di cui all’art. 940 c.c..
Per effetto della specificazione del fondo
la proprietà dell’opera pubblica viene
acquistata, a titolo originario, dall’ente
specificatore nel momento in cui l’opera di
specificazione è completata, cioè si è avuta
la specificazione.
Questo non in conseguenza di un illecito, ma
di un istituto che affonda le sue radici nel
diritto romano e costituisce un fatto che dà
diritto a un indennizzo (e non un illecito
che dà diritto al risarcimento del danno).
Indennizzo che va necessariamente
commisurato al valore venale del bene che
per effetto della specificazione non esiste
più, cioè il fondo: che costituisce il
prezzo della materia (commento tratto da
www.ipsoa.it - TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 29.04.2011 n. 785 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Per il Giudice salentino la
“specificazione” ex art. 940 c.c. è una
ragionevole via d’uscita dopo la
declaratoria d’illegittimità costituzionale
della c.d. “acquisizione sanante”.
ESPROPRIAZIONE PER P.U. – INVALIDITA’ DELLA
PROCEDURA – SORTE DELL’OPERA PUBBLICA
REALIZZATA SUL SUOLO NON LEGITTIMAMENTE
ACQUISITO – RICOSTRUZIONE DISCIPLINA
APPLICABILE DOPO DECLARATORIA ILLEGITTIMITA’
COSTITUZIONALE ART. 43 D.P.R. 327/2001 –
ACQUISIZIONE A TITOLO ORIGINARIO DEL SUOLO
PER SUA “SPECIFICAZIONE” NELL’OPERA PUBBLICA
AI SENSI DELL’ART. 940 C.C. – CONSEGUENZE.
Dopo la declaratoria d’illegittimità
costituzionale dell’istituto della c.d. “acquisizione
sanante”, di cui all’art. 43 D.P.R. n.
327/2001, per consolidare l’effetto
acquisitivo del suolo alla mano pubblica,
indotto dalla sua ormai irreversibile
trasformazione, può utilizzarsi
un’applicazione estensiva del principio
codificato dall’art. 940 c.c., che
riconnette l’acquisto a titolo originario
della cosa mobile, quale risultante dalla “specificazione”
di un diverso bene.
Per effetto della specificazione del fondo
la proprietà dell’opera pubblica viene
acquistata, a titolo originario, dall’ente
specificatore nel momento in cui l’opera di
specificazione è completata, cioè si è avuta
la specificazione; questo non in conseguenza
di un illecito ma di un istituto che affonda
le sue radici nel diritto romano e
costituisce un fatto che dà diritto ad un
indennizzo non un illecito che dà diritto al
risarcimento del danno. Sull’acquisto non
influisce quanto può essere ritenuto o meno
dal giudice, sicché le norme che
disciplinano il fenomeno sono “precise e
prevedibili”, rispettano le indicazioni
del giudice di Strasburgo.
Le stesse sono anche “accessibili“:
quando l’opera è stata realizzata in
violazione dei termini fissati, la richiesta
indennitaria può essere avanzata nel termine
di dieci anni dalla verificazione del fatto;
se invece l’opera è stata realizzata a
seguito di una procedura successivamente
annullata il termine prescrizionale decorre,
ex art. 2935 c.c., dal giorno in cui il
diritto può essere fatto valere, cioè da
quando è passata in giudicato la pronuncia
che ha annullato gli atti della procedura
(commento tratto da
www.amministrazioneincammino.luiss.it - TAR
Puglia–Lecce, Sez. I,
sentenza 27.04.2011 n. 743 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Palla alla Consulta su mancata
dichiarazione Ici.
Sarà la Corte
costituzionale a decidere se il contribuente
che non ha presentato la dichiarazione Ici
dev'essere privato, in caso di
espropriazione per pubblica utilità, della
relativa indennità.
A rimettere gli atti a Palazzo della
Consulta sono state le Sezioni unite civili
della Corte di Cassazione che, con l'ordinanza
14.04.2011 n. 8489, non hanno
ritenuto manifestamente infondata la
questione di legittimità dell'articolo 16
del dlgs 504 del '92 e in particolare della
sua interpretazione che ha ritenuto finora
non dovuta al contribuente l'indennità di
esproprio in caso di mancata dichiarazione
Ici.
Insomma, ha sancito il Collegio esteso, «ritenuta
la rilevanza nel giudizio in corso e la non
manifesta infondatezza della questione di
legittimità costituzionale dell'art. 16,
comma 1, del dlgs 30.12.1992, n. 504, oggi
art. 37, comma 7, dpr 08.06.2001, n. 327,
nella parte in cui, in caso dì omessa
dichiarazione/denuncia Ici o di
dichiarazione/denuncia di valori
assolutamente irrisori, non stabilisce un
limite alla riduzione dell'indennità di
esproprio, idoneo a impedire la totale
elisione di qualsiasi ragionevole rapporto
tra il valore venale del suolo espropriato e
l'ammontare della indennità, pregiudicando
in tal modo anche il diritto a un serio
ristoro, spettante all'espropriato, con
riferimento agli artt. 117, primo comma, e
42, terzo comma, Cost., anche in
considerazione del disposto dell'art. 6 e
dell'art. 1, del primo protocollo
addizionale della Convenzione europea dei
diritti dell'uomo e delle libertà
fondamentali».
Ora la parola passa ai giudici delle leggi
che, nei prossimi mesi, dovranno stabilire
se è conforme alla Carta fondamentale
l'interpretazione obbligata delle norme
sull'Ici per cui l'indennità di
espropriazione va esclusa in caso di mancata
dichiarazione.
L'iter giudiziario del contribuente si
allungherà ancora. Infatti, oltre al
passaggio al Collegio esteso di Piazza
Cavour deciso dalla prima sezione civile,
ora si dovrà attendere il verdetto della
Corte costituzionale (articolo ItaliaOggi
del 15.04.2011). |
ESPROPRIAZIONE:
1. Annullamento degli
atti della procedura espropriativa - Obbligo
per la P.A. di assicurare la restitutio in
integrum dei suoli espropriati - Sussiste.
2. Annullamento degli atti della procedura
espropriativa - Risarcimento del danno -
Colpa della P.A. - Sussiste in caso di
negligente gestione della procedura
espropriativa.
3. Annullamento degli atti della procedura
espropriativa - Mancato godimento di un
immobile - Risarcimento del danno -
Necessità di specifica prova del danno - Non
sussiste - Criterio di quantificazione -
Valore locativo del cespite.
4. Annullamento degli atti della procedura
espropriativa - Mancato godimento di un
immobile - Risarcimento del danno non
patrimoniale - Necessità di allegare
elementi concreti e specifici - Sussiste -
Danno non patrimonale in re ipsa - Non
sussiste - Liquidazione equitativa - Non è
ammessa.
1. Laddove l'Amministrazione subisca
l'annullamento degli atti della procedura
espropriativa, la stessa, in adempimento
della norma agendi ricavabile dalla
sentenza annullatoria, dovrà attivarsi per
restituire ai proprietari i suoli
espropriati, nello stesso stato in cui essi
si trovavano al momento dell'apprensione,
essendo tenuta a porre in essere tutti gli
adempimenti necessari ad assicurare
l'effettiva ed integrale restitutio in
integrum del possesso in capo ai
proprietari del suolo.
2. Sussiste l'estremo della colpa rilevante
ai fini risarcitori, per l'ingiustificato
scostamento dagli standard di buona
amministrazione imposti al soggetto pubblico
dal suo stesso ruolo, ove si verifichi uno
spossessamento del fondo di proprietà di
privati causalmente riconducibile alla
illegittima attività provvedimentale della
P.A. che abbia negligentemente gestito la
procedura ablatoria, incidendo
inevitabilmente sul diritto dominicale, a
maggior ragione qualora l'amministrazione si
sia disinteressata dello stato dei terreni
occupati.
3. Nei casi di mancato godimento di un
immobile, il danno non necessita di
specifica prova, essendo esso in re ipsa
e consistendo nell'impossibilità di ritrarre
le utilità normalmente derivanti dalla
fruizione del bene, in relazione alla natura
fruttifera di esso.
Tale danno può essere
quantificato facendo riferimento al c.d.
danno figurativo e, quindi, al valore
locativo del cespite.
4. La pretesa risarcitoria avente ad oggetto
il danno non patrimoniale -ove non si sia
verificato un mero disagio o fastidio,
inidoneo, ex se, a fondare una
domanda di risarcimento del danno- esige una
allegazione di elementi concreti e specifici
da cui desumere, secondo un criterio di
valutazione oggettiva, l'esistenza e
l'entità del pregiudizio subito, il quale
non può essere ritenuto sussistente in re
ipsa, né è consentito l'automatico
ricorso alla liquidazione equitativa
(massima
tratta da www.solom.it - TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 31.03.2011 n.
854 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Il termine di prescrizione del diritto al
risarcimento del danno da occupazione sine
titulo non inizia a decorrere fino alla
restituzione dell'immobile ovvero al
sopravvenire dell'atto di acquisizione.
In conformità con gli insegnamenti della
Corte Costituzionale discendenti dalla
sent. 191/2006, va affermata la giurisdizione
del giudice amministrativo nel caso di
specie in cui si fa questione di una pretesa
risarcitoria connessa ad una occupazione del
bene, già legittima (poiché sorretta da
idonea dichiarazione di pubblica utilità,
circostanza non contestata) che è poi
tuttavia divenuta illecita per mancata
emanazione nei termini di legge di un
decreto definitivo di esproprio.
Detto
“comportamento” illecito della P.A. è
senz’altro riconducibile (mediatamente) alla
titolarità e all’esercizio di poteri autoritativi tipici in materia espropriativa
(cfr. Cons. Stato, ad. pl., 22.10.2007,
n. 12; C.G.A., 25.05.2009, n. 486).
Tale
arresto giurisprudenziale trova oggi
riscontro anche sul piano normativo in
ragione della lett. g), comma 1, art. 133 del
Cod. Proc. Amm. ai sensi del quale sono
devolute alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo le controversie
aventi ad oggetto gli atti, i provvedimenti,
gli accordi e i comportamenti riconducibili,
anche mediatamente, all’esercizio di un
pubblico potere delle pubbliche
amministrazioni in materia di espropriazione
per pubblica utilità.
Malgrado l’eliminazione dal mondo giuridico
dell’istituto della cd. acquisizione sanante
di cui all’art. 43 del D.P.R. n. 327 del
2001, a seguito della dichiarazione di
incostituzionalità di quest’ultima norma (Cort.
Cost. sentenza 08.10.2010 n. 293), il
Collegio ritiene di non poter abdicare alla
consolidata giurisprudenza pregressa che
qualifica il comportamento in specie tenuto
dalla pubblica amministrazione (comunque
riconducibile, ripetesi, alla
estrinsecazione di un potere pubblico in
ragione di una valida dichiarazione di
pubblica utilità e di un legittimo decreto
occupazione d’urgenza, cui tuttavia non ha
fatto seguito nei termini previsti dalla
legge il provvedimento definitivo di
esproprio) quale illecito permanente nella
cui vigenza non decorre la prescrizione
(cfr. TAR Palermo sez. III, 13.01.2009, n.
39) in mancanza di un effetto traslativo
della proprietà, stante la mancanza del
provvedimento di esproprio, connesso alla
mera irrevocabile modifica dei luoghi (conformi: Tar Palermo Sez. II, sentenza n.
187 del 01.02.2011; Tar Palermo Sez. I,
sentenza n. 204 del 04.02.2011) (massima
tratta da
www.dirittodegliappaltipubblici.it -
TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 01.02.2011 n.
175 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Occupazione acquisitiva o
appropriativa - Caratteristiche -
Espropriazione per pubblica utilità -
Diritto all'indennità - Assenza di formale
decreto di esproprio - Risarcimento del
danno - Limite al diritto dominicale sul
bene.
Il fenomeno della cosiddetta occupazione
acquisitiva o appropriativa presenta, in
sintesi, i seguenti caratteri:
a) la trasformazione irreversibile del
fondo, con destinazione ad opera pubblica o
ad uso pubblico, determina l'acquisizione
della proprietà alla mano pubblica;
b) il fenomeno, in assenza di formale
decreto di esproprio, ha il carattere
dell'illiceità, che si consuma alla scadenza
del periodo di occupazione autorizzata (e,
quindi, legittima) se nel frattempo l'opera
pubblica è stata realizzata;
c) l'acquisto a favore della p.a. si
determina soltanto qualora l'opera sia
funzionale ad una destinazione pubblicistica
e ciò avviene solo per effetto di una
dichiarazione di pubblica utilità formale
(Cass. 2003/6853).
Ove la fattispecie estintiva - acquisitiva
della proprietà dell'area occupata si
perfezioni alla scadenza del termine di
occupazione legittima, il proprietario del
bene occupato, oltre al diritto
all'indennità per il periodo di occupazione
autorizzata, consegue il diritto al
risarcimento del danno da occupazione
appropriativa ma non anche al risarcimento
del danno da occupazione illegittima per il
periodo successivo a tale evento, in cui è
ormai venuto meno il suo diritto dominicale
sul bene.
Procedimenti
espropriativi - Occupazioni d'urgenza -
Proroga i termini - Limiti - Fatto
(illecito) acquisitivo - Indennità - L. n.
219/1981 - Art. 9 d.lgs. n. 354/1999.
In tema di attuazione dei procedimenti
espropriativi per la realizzazione degli
interventi di cui al titolo ottavo della
legge 14.05.1981, n. 219, l'art. 9 d.lgs.
20.09.1999, n. 354 che proroga i termini
relativi alle occupazioni d'urgenza, se
prescinde dalla legittimità o illegittimità
dell'occupazione al tempo della sua entrata
in vigore, riguarda comunque solo i
procedimenti espropriativi che siano in
corso alla stessa data; ne deriva che la
norma può valere a restituire legittimità ad
occupazioni divenute inefficaci o
illegittime solo se l'obiettivo di recupero
della procedura espropriativa -costituente
la "ratio" dichiarata della norma-
sia conseguibile per non essersi già
perfezionato il fatto (illecito) acquisitivo
per effetto del concorrere
dell'illegittimità dell'occupazione e
dell'irreversibile trasformazione del fondo
(Cass. Sez. Unite sentenza n. 6769 del 2009;
Cass. 2004/3966; 2005/7544; sezioni unite
2008/3358; 2009/3225; 2009/28332).
Opere pubbliche -
Concessione cd. Traslativa - Esercizio delle
funzioni oggettivamente pubbliche -
Trasferimento al concessionario.
In tema di opere pubbliche, la concessione
cd. traslativa, comporta il trasferimento al
concessionario, in tutto o in parte,
dell'esercizio delle funzioni oggettivamente
pubbliche proprie del concedente e
necessarie per la realizzazione delle opere
ed in particolare il compimento in nome
proprio di tutte le operazioni materiali,
tecniche e giuridiche occorrenti per la
realizzazione del programma edilizio,
ancorché comportanti l'esercizio di poteri
di carattere pubblicistico.
Ne consegue che il concessionario,
acquistando poteri e facoltà trasferitigli
dall'amministrazione concedente, si
sostituisce a quest'ultima nello svolgimento
dell'attività organizzativa e direttiva
necessaria per realizzare l'opera pubblica e
diviene, in veste di soggetto attivo del
rapporto attuativo della concessione,
l'unico titolare di tutte le obbligazioni
che ad esso si ricollegano.
Popolazioni colpite
dagli eventi sismici - Concessione di cui
all'art. 81 L. n. 219/1981 - Natura c.d.
traslativa.
Per gli interventi in favore delle
popolazioni colpite dagli eventi sismici del
novembre 1980 e del febbraio 1981, la
concessione di cui all'art. 81 della legge
n. 219 del 1981, stante l'ampiezza dei
poteri che la norma prevede per il
concessionario, ha natura c.d. traslativa
(Cass. 2007/26261).
Occupazione acquisitiva
- Espropriazione per pubblica utilità -
Strumento della concessione traslativa -
Disciplina speciale - Attribuzione al
concessionario affidatario dell'opera della
titolarità di poteri espropriativi - Limiti
- Principio di legalità dell'azione
amministrativa - Obblighi indennitari e
risarcitori - Legittimazione passiva e
risarcimento del danno - Artt. 80, 81 e 84,
L. n. 219/1981.
In tema di espropriazione per pubblica
utilità, il mero ricorso allo strumento
della concessione traslativa, con
l'attribuzione al concessionario affidatario
dell'opera della titolarità di poteri
espropriativi, non può comportare
indiscriminatamente l'esclusione di ogni
responsabilità al riguardo del concedente,
essendo necessario a tal fine che, in
osservanza al principio di legalità
dell'azione amministrativa, l'attribuzione
all'affidatario di detti poteri e l'accollo
da parte sua degli obblighi indennitari e
risarcitori siano previsti da una legge che
espressamente li autorizzi.
Ne consegue che -avendo gli artt. 80, 81 e
84 (e, segnatamente, l'art. 81) della legge
14.05.1981, n. 219 (relativa al programma
straordinario di urbanizzazione nell'area
metropolitana del Comune di Napoli)
autorizzato, in forza di una disciplina
speciale e in parte derogatoria rispetto a
quella sulle espropriazioni, il ricorso alla
concessione traslativa- la fonte della
responsabilità esclusiva del concessionario
e della sua legittimazione passiva, sia in
relazione al risarcimento del danno per
l'occupazione acquisitiva, che in relazione
al pagamento delle indennità dovute in
conseguenza di espropriazioni rituali, deve
essere individuata proprio nelle menzionate
norme di legge (cfr Cass. SU 2009/6769)
(Corte di Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 20.01.2011 n. 1362 -
link a www.ambientediritto.it). |
anno 2010 |
|
ESPROPRIAZIONE:
M. Spagnuolo,
La reviviscenza dell'occupazione
appropriativa (nota a commento di Corte
Costituzionale, sentenza 04-08.10.2010 n.
293) (Ufficio Tecnico n.
11-12/2010). |
ESPROPRIAZIONE: C.
Cannizzo,
Previsione urbanistica e procedimento
espropriativo
(link a www.diritto.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Espropriazione per
pubblica utilità - Reiterazione del vincolo
preordinato all'esproprio - Indennizzo -
Spettanza del pagamento - Non rileva ai fini
della legittimità del procedimento.
Il principio della spettanza di un
indennizzo al proprietario nel caso di
reiterazione del vincolo preordinato
all'esproprio non rileva per la verifica
della legittimità dei provvedimenti che
hanno disposto l'approvazione dello
strumento urbanistico con la conseguente
reiterazione o proroga del vincolo, atteso
che i profili attinenti alla spettanza o
meno dell'indennizzo e al suo pagamento non
attengono alla legittimità del procedimento,
ma riguardano questioni di carattere
patrimoniale, che presuppongono la
conclusione del procedimento di
pianificazione e sono devolute alla
cognizione della giurisdizione ordinaria (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 20.12.2010 n.
7661 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Cd. “occupazione acquisitiva” o
“accessione invertita” - Procedura
espropriativa - Conferimento ad una
cooperativa edilizia - Decreto di esproprio
- Scadenza del termine dell’occupazione
legittima - Effetti - Corresponsabilità
dell’Ente delegante per lesione patrimoniale
- Presupposti - Risarcimento ex artt. 2043 e
2055 c.c..
In tema di espropriazione per pubblica
utilità, qualora una cooperativa edilizia,
cui sia stato conferito dal Comune
espropriante l’incarico di compiere la
procedura espropriativa e non soltanto di
curare la realizzazione dell’opera, non
abbia ottenuto la pronuncia del decreto di
esproprio prima della scadenza del termine
dell’occupazione legittima, ma, consapevole
dell’illegittimità del persistere di questa,
abbia provveduto all’esecuzione dell’opera
stessa e reso irreversibile la destinazione
pubblica dell’area, permanendo nel possesso
dell’immobile pur dopo la scadenza di
siffatto termine, è a detta cooperativa che,
in veste di autrice materiale della radicale
trasformazione del bene e, quindi, di
responsabile per la lesione patrimoniale
subita dal proprietario a seguito del
maturarsi, in difetto di tempestiva
emanazione del richiamato decreto, dei
presupposti della figura della cosiddetta “occupazione
acquisitiva” o “accessione invertita”,
deve imputarsi l’illecito aquiliano
risultante dal concorso di tale
trasformazione e dall’illegittimità
dell’occupazione in ragione del perdurare
senza titolo di questa, ricadendo sul
delegato, ancorché superficiario ovvero
indipendentemente dalla circostanza che
l’opera eseguita non entri nel patrimonio
dell’autore della condotta, l’onere di
attivarsi affinché il decreto di esproprio
intervenga tem-pestivamente e la fattispecie
venga mantenuta entro la sua fisiologica
cornice di legittimità.
In tal caso, sussiste una corresponsabilità
dell’Ente delegante il quale avrebbe dovuto
promuovere la procedura espropriativa,
atteso che siffatta procedura si svolge non
solo “in nome e per conto” del
Comune, ma “d’intesa” con esso (art.
60 della legge 22.10.1971, n. 865), sicché è
da ritenere che detto Ente non si spogli,
con la delega, della responsabilità relativa
allo svolgimento della procedura stessa, ma
conservi un potere di controllo e di stimolo
dei comportamenti del delegato, il cui
mancato o insufficiente esercizio, sotto il
profilo della negligenza o dell’inerzia, è
ragione di corresponsabilità con il medesimo
delegato per i danni da quest’ultimo
materialmente arrecati, restando pur sempre
l’Ente, anche nell’ipotesi in cui ricorra
all’istituto della delega, dominus della
procedura e, quindi, responsabile della
condotta del delegato, in applicazione del
principio in forza del quale la delega ad un
altro soggetto della cura della procedura
espropriativa non fa venir meno, in chi tale
delega abbia conferito, la qualità di
espropriante e, quindi, il dovere di
cooperare al controllo del razionale e
tempestivo svolgimento della procedura
stessa, cui si accompagna, quindi, come
accennato, nell’ipotesi di mancata,
tempestiva emanazione del decreto di
esproprio, una posizione di
corresponsabilità che obbliga lo stesso
delegante, ove ne ricorrano tutti i
presupposti (condotta attiva od omissiva;
elemento psicologico della colpa; danno,
nesso di causalità tra condotta e
pregiudizio), al relativo risarcimento ai
sensi del combinato disposto degli artt.
2043 e 2055 c.c.). (Cass. Civ., sez. I,
12/07/2001, n. 9424, Cass. Civ. sez. I,
19/10/2007, n. 21096) (C.G.A.R.S.,
sentenza 26.10.2010 n. 1334 -
link a www.ambientediritto.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Espropriazione
per pubblica utilità - Competenze del comune
- Art. 3, comma 101, L.R. 1/2000 - Portata.
Il riferimento alla "edilizia
residenziale pubblica" operato dall'art. 3,
comma 101, L.R. 1/2000, che delega ai
comuni, per i lavori di rispettiva
competenza, le funzioni amministrative
regionali concernenti l'espropriazione per
pubblica utilità di cui al titolo II, Legge
n. 865/1971, è una sintetica descrizione
dell'epigrafe di detta legge e non può
intendersi come un limite alla competenza
devoluta ai comuni in materia di
espropriazione: con la conseguenza che per i
lavori di propria pertinenza i comuni sono
titolari di funzioni trasferite
(dichiarazione di pubblica utilità e
occupazione d'urgenza) e di funzioni
delegate (espropriazione per pubblica
utilità) (cfr. TAR Milano, sent. n.
4/2010; TAR Brescia, sent. n. 1142/2004) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 14.10.2010 n.
6931 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Il provvedimento di sanatoria ex
art. 43 t.u. espropriazioni annulla
l’eventuale precedente condanna giudiziale
alla restituzione del fondo occupato sine
titulo.
La Sezione ha già avuto modo di affermare
che la natura del provvedimento di sanatoria
previsto dal cit. art. 43 è tale da porre
nel nulla l’eventuale precedente condanna
giudiziale (passata o meno in giudicato)
alla restituzione del fondo occupato sine
titulo, in quanto l’ordine di
restituzione non incide sulla struttura
dell’istituto in parola, il quale presuppone
appunto l’assodata lesione del diritto di
proprietà altrui dal momento che la
restituzione è conseguenza dell’accertamento
della proprietà dei beni e non implica
effetti costitutivi (unici effettivamente
incompatibili con il provvedimento reso ex
art. 43 cit.); il giudice che la dispone non
modifica, infatti, la situazione giuridica
precedente l’abusiva detenzione del bene ma
semplicemente l’accerta, sicché il suo
ordine non è idoneo a paralizzare un atto di
autorità che, consapevolmente, viola il
diritto di proprietà senza contestarne la
titolarità secondo uno schema reso possibile
dall'art. 42, co. 3, Cost..
Invero, una volta adottato il provvedimento
di sanatoria, tutte le aspettative di tutela
del privato, restitutorie e risarcitorie, si
canalizzano nell’eventuale contenzioso
avente ad oggetto il provvedimento in
questione e ben possono essere integralmente
soddisfatte a conclusione del relativo
giudizio (cfr. Cons. St., questa Sez. V,
11.05.2009 n. 2877, menzionata
dall’appellante, nonché Cons. giust. amm.,
29.05.2008 n. 490, ivi richiamata).
E' agevole
opporre l’indirizzo già espresso dalla
giurisprudenza amministrativa, seguito dalla
Sezione e dal quale il Collegio non intende
discostarsi, col quale, pur nella
consapevolezza della contraria tesi
sostenuta dalla Corte di cassazione sul
punto (cfr. Sez. I, 22.09.2008 n. 23943;
Sez. un. 04.05.2006 n. 10222), è stato
affermato che l’art. 43 si riferisce a tutti
i casi di occupazioni sine titulo,
anche già verificatisi alla data di entrata
in vigore del t.u., giacché l’art. 57 del
medesimo t.u. disciplina in via transitoria
l’ambito di applicazione della riforma in
relazione alle diverse fasi fisiologiche del
procedimento espropriativo, mentre l’atto di
acquisizione ex art. 43 è emesso ab
externo al medesimo procedimento e non
rientra, pertanto, nel predetto ambito (cfr.
Cons. St., Ad. plen., 29.04.2005 n. 2; Sez.
IV, 21.05.2007 n. 2582 e 04.02.2008 n. 303;
Sez. V, cit. n. 2877 del 2009)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 13.10.2010 n. 7472 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Espropriazione
per pubblica utilità: no alla utilizzazione,
senza titolo, di un bene per scopi di
interesse pubblico.
La Corte Costituzionale ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale dell’intero
articolo 43 del decreto del Presidente della
Repubblica 08.06.2001, n. 327 (Testo unico
delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia di espropriazione
per pubblica utilità) che concedeva alla
Pubblica Amministrazione la possibilità di
utilizzazione sine titulo di un bene
per scopi di interesse pubblico.
La disposizione censurata prevedeva un ampio
potere discrezionale circa la possibilità,
da parte dell’Autorità che utilizza un bene
immobile per scopi di interesse pubblico, di
disporre l’acquisizione del bene al suo
patrimonio indisponibile – la c.d. «acquisizione
sanante».
Inoltre, il bene poteva essere modificato
nella sua consistenza anche in assenza del
valido ed efficace provvedimento di
esproprio o dichiarativo della pubblica
utilità, salvo il risarcimento del danno da
corrispondere in favore del proprietario.
Dopo aver delineato il quadro normativo
entro cui fu inserito l’articolo 43
censurato, La Corte sottolinea che la norma
in esame non solo è marcatamente innovativa
rispetto al contesto di leggi regolatrici
della materia, di cui era consentito un mero
riordino dalla legge delega, ma neppure è
coerente con quegli orientamenti di
giurisprudenza che, in via interpretativa,
erano riusciti a porre un certo rimedio ad
alcune gravi patologie emerse nel corso dei
procedimenti espropriativi.
Siffatto carattere della norma impugnata,
affermano i giudici, trova conferma
significativa nella circostanza che, secondo
la giurisprudenza di legittimità, in materia
di occupazione di urgenza, la sopravvenienza
di un provvedimento amministrativo non
poteva avere un’efficacia sanante
retroattiva, determinata da scelte
discrezionali dell’ente pubblico o dai suoi
poteri autoritativi.
Nel regime risultante dalla norma impugnata,
invece, si prevede un generalizzato potere
di sanatoria, attribuito alla stessa
amministrazione che ha commesso l’illecito,
a dispetto anche di un eventuale giudicato
che disponga il ristoro in forma specifica
del diritto di proprietà violato (Corte
Costituzionale,
sentenza 08.10.2010 n. 293 - link
a www.litis.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Risarcimento danni per
illegittima occupazione e trasformazione
aree - Decreto di esproprio nullo e privo di
giuridica efficacia - Giudizio di
ottemperanza - Limiti di procedibilità -
Fondi occupati illegittimamente - Proprietà
- Fattispecie - Artt. 37 L. n. 1034/1971 e
27 R.D. n. 1054/1924.
Il giudizio di ottemperanza previsto dagli
artt. 37 della legge n. 1034 del 1971 e 27
del R.D. n. 1054 del 1924 è diretto a far
dichiarare il dovere dell’Amministrazione a
conformarsi alle decisioni coperte da
giudicato per far conseguire agli
interessati l’utilitas o il bene
della vita già loro riconosciuta in sede di
cognizione nell’ambito del quadro
processuale che ha costituito il substrato
fattuale e giuridico della sentenza di cui
si chiede l’esecuzione sulla base del
petitum, causa petendi e motivi
del decisum (Cons. Stato Sez. IV
16/11/2007 n. 5883).
Nella specie, il TAR disponeva il rigetto
dei ricorsi “dovuto da una parte al fatto
che i fondi occupati sono ancora di
proprietà dei ricorrenti i quali possono
pretenderne la immediata restituzione e
dall’altro lato ad una incompletezza delle
domande, non essendo stata formulata né
richiesta di restituzione né di risarcimento
di danni diversi da quelli conseguenti alla
perdita della proprietà”.
Lo stesso Tribunale nel dispositivo
accertava e dichiarava che il decreto di
esproprio, “emesso dal Comune di è nullo
e privo di giuridica efficacia”
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 03.08.2010 n. 5175 -
link a www.ambientediritto.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Progetto di pubblica utilità -
Ordinanza di occupazione - Motivazione che
rilevi l’urgenza - “Legge obiettivo”
n.443/2001 - Occupazione anticipata
finalizzata all'esproprio di terreni - Art.
22-bis, testo unico sugli espropri n.
327/2001 - Fattispecie.
A seguito dell’entrata in vigore dell‘art.
22-bis, testo unico sugli espropri n. 327
del 2001, deve ritenersi sufficiente la
motivazione dell’ordinanza di occupazione
che rilevi l’urgenza di consentire la
realizzazione previste dal progetto di
pubblica utilità.
Nella specie, l’immissione in possesso
riguardava la realizzazione di lavori aventi
una specifica qualificazione legale di
urgenza, in quanto volti al raddoppio della
strada statale Aurelia bis, rientrante
nell’ambito di applicazione della “legge
obiettivo” n.443/2001 (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 03.08.2010 n. 5174 -
link a www.ambientediritto.it). |
ESPROPRIAZIONE: Esproprio
comunale anche per i beni tutelati.
Indispensabile per il nulla-osta da parte
del ministero. Il vincolo non fa venire meno
il potere dell'ente locale.
Anche un bene tutelato può essere
espropriato dall'amministrazione comunale,
dopo aver acquisito il nulla osta da parte
della soprintendenza competente.
E' questo l'innovativo principio affermato
dalla VI Sezione del Consiglio di Stato,
sentenza 27.07.2010 n. 4890, nel
respingere l'appello proposto dai
proprietari di un palazzo storico, che -in
primo grado- avevano impugnato un decreto di
occupazione d'urgenza del giardino
antistante l'edificio, anch'esso vincolato.
Il provvedimento era stato emesso da un
comune per la realizzazione sul giardino di
una pubblica piazza e a sostegno
dell'impugnativa gli interessati avevano
contestato, tra l'altro, l'incompetenza del
comune a procedere all'esproprio, stante la
presenza di un vincolo storico-artistico
sull'intero complesso immobiliare.
I giudici di Palazzo Spada, nel confermare
la sentenza di primo grado (Tar
Campania-Salerno, I sezione n. 258/2005),
hanno evidenziato come i poteri
espropriativi attribuiti al ministero per i
Beni e le attività culturali, prima dal
Testo unico dlg. 490/1999 (articoli 91 e
seguenti) e oggi dal Dlgs /2004 (articoli 95
seguenti), perseguono una finalità ben
specifica: il miglioramento delle condizioni
del bene tutelato e la sua pi ampia
fruibilità da parte della collettività. Il
che corrisponde, quindi a una causa di
pubblica utilità tipica e del tutto
differente rispetto a quella della
realizzazione dell'opera pubblica che
l'amministrazione comunale voleva eseguire,
rispetto alla quale l'amministrazione
centrale risultava del tutto estranea.
Di conseguenza, l'assoggettamento di un bene
privato a un vincolo storico artistico non
fa di per sé venire meno gli ordinari poteri
ablatori di un comune, che potranno essere
esercitati nel rispetto delle finalità di
tutela -finalità che, è bene sottolinearlo,
costituiscono soltanto dei parametri in
relazione ai quali va valutato l'impatto
dell'intervento costruttivo che si intende
attuare a seguito dell'esproprio.
Giunta competente.
Nel caso esaminato dalla sentenza, il
Consiglio di Stato, richiamando precedenti
orientamenti (sentenza II 3067/2001) coglie
anche l'occasione per affermare la
competenza della giunta municipale
nell'approvazione del progetto preliminare
dell'opera pubblica, rilevando come questo
non avesse comportato alcuna variante allo
strumento urbanistico generale, per cui
doveva escludersi che la materia rientrasse
nelle attribuzioni del consiglio comunale,
così come delineate dall'articolo 42 del
Dlgs n. 267/2000, bensì in quelle di tipo
generale e residuale spettanti all'organo
esecutivo, secondo quanto previsto
dall'articolo 4 del medesimo decreto.
Tre ipotesi di «ablazione».
È utile ricostruire, a questo punto, la
disciplina dell'esproprio di beni culturali
appartenenti privati, introdotta nel nostro
ordinamento già dalla legge n 2359/1865
(articolo 83) e poi dalla legge n. 1089/1939
(articolo 54) ed è finalizzata ad evitare il
deperimento del bene tutelato per scarsa o
inadeguata conservazione da parte dei
proprietari. La successiva evoluzione
legislativa, largamente trasfusa nel Testo
unico n. 490/1999, ha ampliato l'ambito dei
beni espropriabili, introducendo anche
quelli mobili, e i casi in cui era possibile
ricorrere alla procedura ablatoria.
Attualmente il Codice dei beni culturali,
approvato col Dlgs n. 42/2004, contempla tre
ipotesi di esproprio per pubblica utilità da
parte del Ministero. La prima, delineata
dall'articolo 95, consénte l'espropriazione
di beni culturali, sia immobili che mobili,
quando ci risulti indispensabile per «migliorare
le condizioni di tutela ai fin! della
fruizione pubblica dei béni medesimi».
In questa eventualità il Ministero può
procedere direttamente all'esproprio, oppure
autorizzare regioni e altri enti pubblici
territoriali o altri enti ed istituti
pubblici che ne abbiano fatto richiesta,
ovvero disporre l'espropriazione in favore
di persone giuridiche private senza fini di
lucro.
Il secondo caso, disciplinato dall'articolo
96, quello dell'espropriazione per fini
strumentali di edifici e aree non vincolate,
ma poste in ambito contiguo al bene
tutelato, e si giustifica con la necessità
di «isolare o restaurare beni culturali
immobili, assicurarne la luce o la
prospettiva, garantirne o accrescerne il
decoro o il godimento da parte del pubblico,
facilitarne l'accesso».
Infine l'articolo 97 ammette il ricorso
all'espropriazione di immobili al fine di
eseguire ricerche e scavi, o interventi di
interesse archeologico
(articolo ItaliaOggi
del 06.09.2010, pag. 10 - link a www.corteconti.it). |
ESPROPRIAZIONE: Sull’onere di
motivazione in caso di occupazione di
urgenza.
Considerato che l'art. 22-bis T.U.
espropriazioni richiede una particolare
urgenza per far luogo
all'occupazione d'urgenza anteriore
all'espropriazione, è illegittimo il decreto
di autorizzazione
all'occupazione che non qualifichi in modo
circostanziato ed in relazione alla
situazione
concreta tale situazione di urgenza, ma si
limiti genericamente a far riferimento ad
opere da
eseguirsi per la sicurezza e la viabilità
pubblica che devono essere realizzate nel
più breve tempo possibile
(massima tratta da http://doc.sspal.it - TAR
Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 23.07.2009
n. 4163 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE - URBANISTICA: Sono
indennizzabili soltanto i vincoli
urbanistici preordinati all'espropriazione o
di carattere sostanzialmente espropriativo,
in quanto implicanti uno svuotamento
incisivo della proprietà; mentre non lo sono
i vincoli di destinazione imposti dal piano
regolatore per attrezzature e servizi
realizzabili anche ad iniziativa privata o
promiscua, in regime di economia di mercato,
anche se accompagnati da strumenti di
convenzionamento (ad. es. parcheggi,
impianti sportivi, mercati e strutture
commerciali, edifici sanitari, zone
artigianali, industriali o residenziali).
Secondo la giurisprudenza -costituzionale e
di legittimità- in materia, sono
indennizzabili soltanto i vincoli
urbanistici preordinati all'espropriazione o
di carattere sostanzialmente espropriativo,
in quanto implicanti uno svuotamento
incisivo della proprietà; mentre non lo sono
i vincoli di destinazione imposti dal piano
regolatore per attrezzature e servizi
realizzabili anche ad iniziativa privata o
promiscua, in regime di economia di mercato,
anche se accompagnati da strumenti di
convenzionamento (ad. es. parcheggi,
impianti sportivi, mercati e strutture
commerciali, edifici sanitari, zone
artigianali, industriali o residenziali)
(cfr. Corte cost. 20.05.1999 n. 179; Cons.
Stato IV, 29.08.2002 n. 4340, 30.06.2005 n.
3524)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 19.07.2010 n. 3123 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Dichiarazione di pubblica
utilità, nonché di urgenza ed
indifferibilità - Decreto di occupazione
scaduto - Decreto prefettizio di proroga
dell’occupazione - Piano particellare
espropriativo - Verbale di consistenza degli
immobili - Necessità - Operazioni di
immissione in possesso - Casi di
illegittimità sopravvenuta del procedimento
- Giurisprudenza - Fattispecie - Art. 20 L.
n. 865/1971 - Art. 3 L.n. 1/1978.
In tema di espropriazione, nei procedimenti
non governati, ratione temporis,
dalle norme sostanziali del T.U. n. 327 del
2001, la dichiarazione di pubblica utilità è
l'atto autoritativo che fa emergere il
potere pubblicistico in rapporto al bene
privato e costituisce, al tempo stesso,
origine funzionale della successiva
attività. (C.d.S. in Adunanza plenaria
decisioni nn. 9 e 12 del 2007).
Inoltre, rispetto ai casi di illegittimità
sopravvenuta del procedimento si ravvisano “evidenti
punti di contatto“ con quelle che si
determinano a seguito dell'annullamento in
s.g. della dichiarazione di pubblica
utilità, in quanto in entrambi i casi gli
effetti retroattivi naturalmente conseguenti
alla pronuncia demolitoria o quelli
derivanti dalla mancata conclusione del
procedimento non sembrano poter travolgere a
posteriori il nesso funzionale che ha
comunque legato l'attività
dell'Amministrazione alla realizzazione del
fine di interesse collettivo individuato
all'origine (Cons. Stato, IV Sez., n. 7744
del 10/12/2009).
Sicché, le vicende patologiche del
procedimento, quali la mancata adozione del
provvedimento espropriativo entro il termine
fissato a monte dalla predetta dichiarazione
(ovvero, la protrazione dell’occupazione
oltre il termine biennale di efficacia
previsto dall’art. 73 della legge n. 2359
del 1865) non sembra poter dequalificare la
valenza giuridica di un'attività appunto
espletata nel corso e in virtù di un
procedimento, che la dichiarazione ha ab
origine funzionalizzato a scopi
specifici e concreti di pubblica utilità.
Nella specie, l'appellante avrebbe comunque
dovuto impugnare il cd. atto di proroga. Non
avendolo fatto, l’atto conserva la sua
legittimità e i suoi effetti conseguenti
mantengono la loro efficacia.
Infine, è ininfluente la censura riguardante
la mancata redazione del verbale di
immissione in possesso, non avendo
l'appellante dimostrato che l’attività di
occupazione, svolta in base ad un titolo
giuridico esecutivo, non impugnato, avesse
comportato mutamento dello stato dei luoghi
oggetto di esproprio, rimanendo con ciò
confermato lo stato dei luoghi
precedentemente accertato (conferma sentenza
del TAR Basilicata n. 994/2003) (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 16.07.2010 sentenza n. 4599
- link a www.ambientediritto.it). |
ESPROPRIAZIONE:
La motivazione sottesa all'urgenza di
entrare in possesso del bene oggetto di
(futura) espropriazione può essere desunta
per relationem dagli atti pregressi del
procedimento.
Ad evidenziare l’infondatezza dell’ultima
censura, proposta avverso il decreto di
occupazione d’urgenza con la quale si assume
che non sarebbe stata indicata alcuna
ragione d’urgenza idonea a giustificare
l'immediata occupazione dell'immobile, vale
il richiamo alla più recente giurisprudenza
amministrativa, per la quale in tema di
occupazione d'urgenza preordinata
all'espropriazione ai sensi dell'art.
22-bis, d.P.R. 08.06.2001 n. 327, la
motivazione sottesa all'urgenza di entrare
in possesso del bene oggetto di (futura)
espropriazione non deve necessariamente
essere contenuta nel decreto di occupazione,
ma può essere desunta per relationem
dagli atti pregressi del procedimento, dai
quali ben può evincersi l'urgenza ed
indifferibilità della immediata apprensione
del bene del privato (cfr. TAR L’Aquila,
24.03.2010 n. 289).
Ebbene, nella specie il decreto di
occupazione n. 1/2009 richiama espressamente
la delibera della G.C. n. 90/2009 dalla
quale si ricava l’urgenza dell’avvio dei
lavori da eseguirsi con ogni possibile
sollecitudine per non perdere la provvista
finanziaria (fondi POR 2000/2006 Mis. 2.3) (TAR Sardegna,
Sez. II,
sentenza 15.07.2010 n. 1898 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Approvazione
progetto - Osservazioni - Tardivo invio -
Termine ordinatorio - Esame da parte della
P.A. - Necessità.
E' illegittima l'intervenuta approvazione di
un progetto nell'ambito di una procedura
espropriativa senza aver previamente
provveduto a dare conto delle osservazioni
presentate seppure tardivamente, ma
semplicemente omettendone l'esame
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Brescia, Sez.
II,
sentenza 01.07.2010 n.
2424 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: OCCUPAZIONE
ILLEGITTIMA: I COMPORTAMENTI POSSIBILI
DELL'AMMINISTRAZIONE.
1.- Giurisdizione amministrativa - Esclusiva
- Risarcimento danni - Occupazione sine
tituolo - Sussiste.
2.-
Occupazione senza titolo - Art. 43, T.U. n.
327/2001 - Presupposti.
1.- legittimo dipendente dall'illegittimità
di un provvedimento dell'Autorità (ipotesi
in cui, la pregiudiziale di annullamento
potrebbe ostare alla sola domanda
risarcitoria), bensì il danno al diritto di
proprietà inferto da un comportamento (non
già "mero", bensì "amministrativo")
dell'Autorità che, pur avendo avviato un
complesso procedimento ablatorio volto alla
realizzazione di un'opera pubblica, e pur
avendo tale opera realizzata, ha poi omesso
di completare la serie procedimentale
lasciando decorrere il termine di
legittimità della disposta occupazione d'urgenza.
Non
si contesti la legittimità illo tempore
della disposta occupazione, ma se ne
contesti la sopravvenuta abusività, secondo
il noto meccanismo della cd. "occupazione appropriativa".
2.- dell'Amministrazione che utilizza il
fondo altrui, in assenza del decreto di
esproprio, anche se è stata realizzata
l'opera pubblica. Il testo e la ratio
dell'art. 43 non consentono neppure di
ritenere sussistente un termine
quinquennale, decorrente dalla
trasformazione irreversibile dell'area o
dalla realizzazione dell'opera, decorso il
quale si verificherebbe la prescrizione
della pretesa risarcitoria.
Al contrario,
l'art. 43 ribadisce il principio per il
quale, nel caso di occupazione sine titulo,
vi è un illecito il cui autore ha l'obbligo
di restituire il bene immobile e di
risarcire il danno cagionato, salvo il
potere dell'Amministrazione di fare venire
meno l'obbligo di restituzione ab extra, con
l'atto di acquisizione del bene al proprio
patrimonio.
In altri termini, a parte
l'applicabilità della disciplina civile
sull'usucapione (per la quale il possesso
ultraventennale fa acquistare
all'Amministrazione il diritto di proprietà
pur in assenza dell'atto di natura ablatoria),
l'art. 43 testualmente preclude che
l'Amministrazione diventi proprietaria di un
bene in assenza di un titolo previsto dalla
legge
(massima tratta da http://mondolegale.it -
TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 24.06.2010 n. 16019
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: APPOSIZIONE
DEL VINCOLO ESPROPRIATIVO: COME E QUANDO.
1-
Procedimento - D.P.R. n. 327/2000 - Vincolo
preordinato all'esproprio - Costituisce
presupposto della dichiarazione di pubblica
utilità - Art. 12 co. 3, T.U. Espropriazioni
- Inversione procedimentale - Costituisce
una eccezione - Casi in cui si applica -
Ratio - Conseguenze.
2-
Procedimento - D.P.R. n. 327/2000 - Onere
informativo da parte dell'Amministrazione -
Necessità - Sussiste - Ratio - Fattispecie.
1- Il vincolo preordinato all'esproprio,
nell'ambito del procedimento unico delineato
dal D.P.R. n. 327/2000 -applicabile ratione
temporis ex art. 57 del medesimo D.P.R.-
costituisce la fase iniziale del
procedimento espropriativo (Consiglio di
Stato Adunanza Generale, parere 29.03.2001 n. 4) per evidenti ragioni di raccordo
con la pianificazione urbanistica, ed è
presupposto di legittimità della
dichiarazione di pubblica utilità, la quale
deve intervenire in corso di efficacia del
vincolo (art. 13, co. 1, D.P.R. n. 327/2001).
Coerentemente, qualora la dichiarazione di
pubblica utilità derivi in via implicita
dall'approvazione del progetto definitivo,
l'art. 17, co. 1, D.P.R. n. 327/2000 ne
richiede "l'indicazione degli estremi da cui
è sorto il vincolo".
Il comma 3
dell'articolo 12 del T.U. Espropriazioni
introduce invero una ulteriore opzione
procedimentale, contemplando il differimento
dell'efficacia della dichiarazione di
pubblica utilità al momento dell'apposizione
del vincolo, ove il vincolo stesso non
preceda ma segua la dichiarazione di
pubblica utilità.
Tale inversione
procedimentale, pur tramutando la forza del
vincolo da atto presupposto di legittimità a
condizione di efficacia della dichiarazione
di pubblica utilità (1) costituisce comunque
conferma che l'esistenza di un valido ed
efficace vincolo preordinato all'esproprio
condiziona la possibilità per l'autorità
espropriante di dar legittimo corso al
procedimento ablatorio, e dovendo in tal
caso la dichiarazione di pubblica utilità
farsi carico di indicare che il vincolo
sorgerà successivamente e con quali
procedure tra quelle previste dagli artt. 9
e 10 del T.U. (3).
Al di fuori quindi di
tale particolare ipotesi, è' pertanto
pacificamente illegittima la dichiarazione
di pubblica utilità e in via derivata
l'attività provvedimentale successiva
assunta in mancanza di valido ed efficace
vincolo ablatorio (2).
---------------
(1) TAR Sicilia Catania, sez I, 20-06-2006
n. 1045 o secondo altra tesi a fattispecie
sanante Cons. Stato, sez. IV, 10-12-2009 n.
7755.
(2) Cons. Stato, sez. IV, 12-08-2005 n. 4308;
TAR Veneto, sez. I, 09-12-2004 n. 4280.
2- In materia espropriativa il vigente T.U.
approvato con D.P.R. n. 327/2000 impone un
preventivo duplice onere informativo (3) in
riferimento al vincolo (art. 11) e alla
dichiarazione di pubblica utilità (art. 16)
in considerazione del grave sacrificio
imposto al privato e della stessa intrinseca
utilità del contraddittorio istruttorio, al
fine di ottimizzare la scelta discrezionale
di localizzazione e di evitare inutili e
sproporzionati sacrifici del diritto di
proprietà, oltre che maggiori esborsi di
denaro pubblico.
Mette conto evidenziare che
parte ricorrente poi, a supporto della
fondatezza della censura, ha indicato con il
ricorso in epigrafe le argomentazioni che
avrebbe potuto presentare in sede
partecipativa al fine di una diversa e più
razionale localizzazione, secondo la tesi
giurisprudenziale, peraltro non pacifica,
che onera parte ricorrente di tale prova per
i vizi "formali" di violazione delle norme
sulla partecipazione anche in seno al
procedimento espropriativo (4).
---------------
(3) TAR Calabria Catanzaro, sez I,
05-10-2009 n. 1016.
(4) TAR Lazio Roma, sez I, 14-04-2009 n.
3789
(massima tratta da http://mondolegale.it -
TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 24.06.2010 n. 2665 - -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Ove il proprietario espropriato
non abbia accettato l’indennità offerta o
non sia addivenuto ad un accordo amichevole,
il pagamento di essa va sempre effettuato
alla Cassa depositi e prestiti.
Ove il proprietario espropriato non abbia
accettato l’indennità offerta o non sia
addivenuto ad un accordo amichevole, il
pagamento di essa va sempre effettuato alla
Cassa depositi e prestiti, con deposito che
ha valore liberatorio per l’ente
espropriante e che costituisce un mezzo di
tutela per gli eventuali terzi lesi dalla
espropriazione: é proprio per tale ragione
che la Corte di Cassazione, con la pronuncia
della cui ottemperanza si tratta, non ha
condannato il Comune di Acquaviva delle
Fonti ad effettuare il pagamento di quanto
da essa determinato direttamente a favore
della signora Musci, ma ne ha ordinato il
deposito (TAR Puglia-Bari, Sez. II,
sentenza 18.06.2010 n. 2477 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Sulle modalità di
notifica degli atti espropriativi.
L’omessa notifica degli atti espropriativi
ai comproprietari non risultanti dai dati
catastali (invece
notificati al comproprietario risultante dai
citati dati) non assume né carattere
invalidante di detti
atti, né legittima una difesa tardiva in
sede giurisdizionale, ovvero in sede
amministrativa, in ordine
alle scelte operate dall’Amministrazione,
essendo comunque onere del privato
interessato curare
l’esatta corrispondenza delle risultanze
catastali alla reale situazione giuridica
del bene oggetto della
procedura ablatoria.
Ciò perché è da evitare
che le negligenze dell’avente titolo possano
andare a
discapito del buon andamento dell’azione
amministrativa, a tutela del quale può dirsi
anche posto il
principio della certezza delle situazioni
giuridiche dell’attività della P.A.
(massima tratta da http://doc.sspal.it -
Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 10.06.2010 n. 3690 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
In assenza di provvedimento di
acquisizione sanante il soggetto interessato
potrà sempre agire per la restituzione del
bene.
La vicenda, che ha ad oggetto le conseguenze
dell’incontestato mancato completamento di
una procedura espropriativa nei termini
fissati, non può essere correttamente
analizzata se non si tiene in debito conto
che lo stesso procedimento espropriativo
origina, almeno in parte, da una precedente
vicenda di lottizzazione conclusasi
anch’essa con un ricorso al giudice
amministrativo.
A seguito dell'introduzione dell'art. 43 del
D.P.R. n. 327/2001, deve ritenersi escluso
che possa operare il meccanismo
dell'occupazione acquisitiva, di talché, in
assenza di provvedimento di acquisizione, il
soggetto interessato potrà sempre agire per
la restituzione del bene (in materia, Cons.
St., Ad. Plen., 29.04.2005 n. 2, Cons. St.,
sez. IV, 21.05.2007 n. 2582, Cons. St., sez.
IV, 04.02.2008 n. 303).
Ne discende che, dal momento che il
proprietario deve ritenersi ancora tale sino
all’intervento di un atto traslativo della
proprietà (e cioè il decreto di cui all’art.
43), impregiudicata la facoltà per il
medesimo di chiedere il risarcimento del
danno patito per effetto dell’illegittima
occupazione, esso non potrà comprendere
anche il valore del bene che, invece,
risulta essere nella sua disponibilità,
quantomeno giuridica (TAR Lombardia-Brescia,
Sez. II,
sentenza 10.06.2010 n. 2300
- link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Sui
presupposti per l’acquisizione sanante.
In ordine ai presupposti di fatto e di
diritto per la possibile applicazione da
parte della P.A. dell'innovativo strumento
della c.d. acquisizione coattiva "sanante"
introdotto dall'art. 43 primo comma del
D.P.R. n. 327/2001, va ribadito che esso è
utilizzabile unicamente nell’ipotesi in cui
il bene immobile, utilizzato per scopi di
interesse pubblico, sia stato concretamente
e apprezzabilmente modificato dalla Pubblica
Amministrazione (in assenza del valido ed
efficace provvedimento di esproprio o
dichiarativo della p.u.).
Tale esigenza, secondo la giurisprudenza più
recente (che sposta il fulcro della verifica
giudiziale sul concetto di "assoluta
necessità dell'utilizzo pubblico del bene"
e sul grado di approfondimento motivazionale
della comparazione degli interessi in
conflitto), assume portata recessiva,
essendosi di recente affermato che nell'art.
43 d.P.R. n. 327 del 2001 l'espressione “valutati
gli interessi in conflitto” comporta la
necessità di una valutazione comparativa tra
l'interesse pubblico e quello privato,
quest'ultimo inteso come interesse alla
tutela di un diritto costituzionalmente
garantito.
Sotto questo profilo, quindi, la motivazione
deve porre in luce esattamente i motivi
d'interesse alla realizzazione dell'opera,
indicando anche la non percorribilità di
soluzioni alternative; deve dare preciso
conto delle contingenze che hanno
interrotto, sospeso, annullato o comunque
non hanno condotto a buon fine il giusto
procedimento espropriativo; della assoluta
necessità, e non mera utilità, che
l'immobile sia acquisito nello stato in cui
si trova; infine, della natura della
trasformazione subita e dunque del fatto che
la mancata acquisizione costituirebbe uno
spreco di risorse pubbliche.
E ciò, quindi, prescindendo da
un'irreversibile trasformazione del suolo,
la quale, in teoria, invero, è sempre
possibile, e che quindi si risolve in una
questione di fatto, senza alcuna rilevanza
sul diritto assoluto del proprietario alla
restituzione del bene; lo stato dell'opera
pubblica, e quindi il grado di
trasformazione che il fondo ha subito, sono
questioni, invero, di fatto, che rilevano
solo sul grado e sulla profondità della
motivazione.
Nella fattispecie, al momento dell’emissione
del provvedimento ex art. 43 citato,
l'amministrazione non deteneva materialmente
il bene; manca, pertanto, uno dei
presupposti fondamentali per l'esercizio del
potere in questione, vale a dire
l'utilizzazione in atto del bene, che era
rientrato nel pieno possesso del
proprietario.
Ciò perché, secondo la costante
giurisprudenza amministrativa, il
provvedimento di acquisizione sanante ex
art. 43 del t.u. espropriazione per p.u.
deve trovare la sua giustificazione nella
particolare rilevanza dell'interesse
pubblico posto a raffronto con l'interesse
privato, con la conseguenza che la
motivazione dell'atto o della richiesta di
acquisizione deve necessariamente dare atto
della sussistenza del predetto interesse
pubblico specifico alla acquisizione e della
comparazione di tale interesse con gli
interessi dei soggetti privati coinvolti.
In sostanza, ciò che l'ordinamento richiede
è una valutazione "rafforzata"
dell'interesse pubblico, in ossequio al
principio per cui "l'art. 43 t.u. n. 327
del 2001 attribuisce alla p.a. un ampio
potere discrezionale da esercitare previa
apposita e puntuale valutazione degli
interessi in conflitto, in quanto l'atto di
acquisizione, che assorbe dichiarazione di
pubblica utilità e decreto di esproprio,
deve, non solo valutare la pubblica utilità
dell'opera, secondo i parametri consueti, ma
deve altresì tenere conto che il potere
acquisitivo in parola -avente, in qualche
misura, valore sanante dell'illegittimità
della procedura espropriativa, ma solo "ex
nunc"- ha natura eccezionale e non può
risolversi in una mera alternativa alla
procedura ordinaria" (Consiglio Stato,
sez. IV, 26.02.2009, n. 1136).
Condivisibile è il principio secondo il
quale il provvedimento di acquisizione
sanante di aree di proprietà private
illegittimamente occupate, introdotto
dall'art. 43, t.u. 08.06.2001 n. 327, che
assorbe la dichiarazione di pubblica utilità
ed il decreto di esproprio, costituisce
espressione di potere discrezionale che deve
peraltro essere esercitato dopo aver
acquisito, ponderato e valutato gli
interessi in conflitto, nel senso che
l'amministrazione procedente non deve
considerare soltanto l'astratta idoneità
dell'opera a soddisfare esigenze di
carattere generale ma, in ragione della
natura eccezionale della procedura, deve
compiere una esaustiva ponderazione degli
interessi in conflitto dando conto con una
congrua motivazione della sussistenza
attuale di un interesse pubblico specifico e
concreto.
Il parametro di verifica della ricorrenza
dei presupposti deve considerarsi quello
della "assoluta necessità
dell'acquisizione del bene", come
ritenuto dalla giurisprudenza più recente.
La disposizione in esame non configura un
diritto assolutamente potestativo
dell'amministrazione, esercitabile senza
alcun limite, ma deve necessariamente
inquadrarsi, quanto ai presupposti
legittimanti, nell'alveo di quanto i primi
due commi dell'art. 43 prescrivono per
l'esercizio di tale forma straordinaria ed
eccezionale di acquisizione di beni privati
da parte dell'amministrazione
(massima tratta da http://doc.sspal.it -
Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 09.06.2010 n.
3655 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
1.
Comunicazione avvio procedimento -
Comunicazione al soggetto non proprietario
catastale - Illegittimità.
2.
Espropriazione illegittima - Determinazione
del risarcimento danno - Criteri.
1. Lo svolgimento della procedura
espropriativa nei confronti di un soggetto
che, alla data dell'espropriazione, non era
proprietario catastale, integra una
violazione di legge: non possono, pertanto,
trovare applicazione i principi elaborati
dalla giurisprudenza con riferimento alle
differenti fattispecie in cui la P.A., pur
non avendo notificato il decreto di
esproprio al proprietario effettivo, abbia
però svolto la procedura espropriativa nei
confronti del soggetto che figura in catasto
quale proprietario (cfr. Cassaz. Civile ,
sent. n. 21622/2004; Cons. di Stato, sent.
n. 2423/2006).
2. In materia di espropriazione illegittima,
il risarcimento del danno va quantificato
tenendo conto del valore di mercato
dell'area, nonché del deprezzamento del
valore residuo dei beni di proprietà del
ricorrente, mentre per la determinazione di
tali valori occorre fare riferimento alla
data dell'esproprio: infatti, dal momento
che il pregiudizio da risarcire consiste
nella perdita del valore patrimoniale in cui
si sostanzia il diritto di proprietà, il
danno deve essere necessariamente correlato
all'entità economica del bene nel momento in
cui è definitivamente sottratto alla
titolarità del privato ed è acquisito al
patrimonio dell'amministrazione (cfr. Cons. Giust. Amm. Reg. Sicilia, 25.05.2009, n.
483) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 08.06.2010 n.
1754 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 22 del
31.05.2010, "Valori agricoli medi validi
per l’anno 2010 dei terreni, considerati
liberi da vincoli di contratti agrari,
secondo i tipi di coltura effettivamente
praticati, determinati nell’ambito delle
singole regioni agrarie lombarde a norma
dell’art. 41 –comma 4– del d.P.R.
08.06.2001, n. 327 e successive modifiche ed
integrazioni – Integrazione al comunicato
08.04.2010 n. 45 per le province di Brescia
e Lecco" (comunicato
regionale 24.05.2010 n. 65 - link
a www.infopoint.it). |
ESPROPRIAZIONE: Sull’onere di
motivazione in caso di occupazione di
urgenza.
In materia di espropriazione per pubblica
utilità, per la motivazione dell'ordinanza
di occupazione
d'urgenza, ex art. 22-bis del D.P.R. n.
327/2001, è sufficiente il richiamo alla
necessità di realizzare
le opere descritte nella dichiarazione di
pubblica utilità, essendo irrilevante, in
quanto sussistente
"in re ipsa", una specifica dichiarazione di
indifferibilità ed urgenza
(massima tratta da http://doc.sspal.it -
Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 29.05.2009 n. 3350 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Infrastrutture e
insediamenti produttivi strategici e di
interesse nazionale - Approvazione progetto
preliminare - Presupposti - Comunicazione
agli interessati - Non è presupposto
necessario.
Ai sensi della L. 443/2001 e del relativo
D.Lgs. 190/2002 di attuazione, per la
realizzazione delle infrastrutture e degli
insediamenti produttivi strategici e di
interesse nazionale, ai fini
dell'approvazione del progetto preliminare,
non è richiesta la comunicazione agli
interessati alle attività espropriative
prevista ex art. 11, D.P.R. 327/2001:
pertanto, anche nel caso in cui il progetto
comporti l'avvio del procedimento
espropriativo, non è prevista alcuna forma
di partecipazione dei soggetti privati
portatori di interessi contrapposti a quello
pubblico né é necessaria la comunicazione
individuale, con la conseguenza che il
termine per l'impugnazione degli atti, anche
quelli relativi al progetto, deve essere
fatto decorrere dalla pubblicazione della
delibera sulla G.U., essendo questa l'unica
forma di pubblicità da rispettare (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenze 24.05.2010 nn. 1660,
1669 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Immobili costruiti abusivamente -
Espropriazione per pubblica utilità -
Concessione in sanatoria - Indennizzo -
Disciplina applicabile - Limiti - Prova
della legittimità della costruzione -
Giurisprudenza.
In tema di espropriazione per pubblica
utilità, gli immobili costruiti abusivamente
non sono suscettibili di indennizzo, a meno
che alla data dell'evento ablativo non
risulti già rilasciata la concessione in
sanatoria, - per cui non si applica nella
liquidazione il criterio del valere venale
complessivo dell'edificio e del suolo su cui
il medesimo insiste, ma si valuta la sola
area, si da evitare che l'abusività degli
insediamenti possa concorrere anche
indirettamente ad accrescere il valore del
fondo (Cass., sez. 1^, 14/12/2007, n.
26260).
Per questa ragione si è precisato che, nel
quadro della disciplina delle espropriazioni
per la realizzazione del programma
straordinario per le zone terremotate, la
subordinazione dell'indennizzo per i
manufatti sorgenti sui terreni espropriati,
alla prova della legittimità della
costruzione, stabilita dall'ordinanza del
Commissario straordinario di governo per le
zone terremotate, non contravviene alla
legge, dalla quale, viceversa, è desumibile
il principio per cui è necessario che
l'immobile per il quale si reclama
l'indennizzo in caso di esproprio, deve
esser stato legittimamente realizzato, onde
impedire che il proprietario possa trarre
beneficio dalla sua illecita attività
(Cass., sez. 1^, 9/04/2002, n. 5046, Cass.,
sez. 1^, 30/11/2006, n. 25523) (riforma
sentenza n. 30/2008 della Giunta speciale
per le espropriazioni presso la Corte
d'appello di Napoli, depositata il
12/06/2003).
Procedura espropriativa
- Risultanze dei registri catastali -
Soggetto in contrasto con tali risultanze -
Onere di dimostrare di essere l'effettivo
proprietario.
La procedura espropriativa si svolge
relativamente alle aree, e nei confronti dei
soggetti che risultano proprietari, secondo
le risultanze dei registri catastali, ma
potendo la titolarità e la consistenza dei
beni subire modifiche nel corso del tempo,
il soggetto che, in contrasto con tali
risultanze, chieda la determinazione
dell'indennità, ha l'onere di dimostrare di
essere l'effettivo proprietario (Cass., sez.
1^, 22/03/2007, n. 6980) (riforma sentenza
n. 30/2008 della Giunta speciale per le
espropriazioni presso la Corte d'appello di
Napoli, depositata il 12/06/2003) (Corte di
Cassazione, Sezz. unite civili,
sentenza 14.05.2010 n. 11730 -
link a www.ambientediritto.it). |
ESPROPRIAZIONE: Sull’acquisizione
sanante.
Nel caso di irreversibile trasformazione del
fondo a seguito di procedura espropriativa
divenuta
illegittima per mancata emissione del
decreto di espropriazione definitiva nei
termini, il G.A. deve
assegnare alla P.A. un termine perché
definisca (in via negoziale o autoritativa,
ex art. 43 d.P.R. n.
327 del 2001) la sorte della titolarità del
bene illecitamente appreso, cui segue, ma in
posizione
subordinata e condizionata, la condanna
risarcitoria, secondo il criterio previsto
dallo stesso art. 43
(valore venale del bene al tempo
dell’occupazione illegittima, maggiorato
degli interessi moratori o dalla transazione
e dal prezzo della compravendita, in caso di
esito negoziale)
(massima tratta da http://doc.sspal.it - TAR
Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 12.05.2010 n.
4250 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE - ICI:
Determinazione del valore di un'area
fabbricabile. Ai fini della determinazione
del valore di mercato occorre valutare
l'area nel suo complesso.
La Sezione Tributaria della Corte di
Cassazione, con l'importante
sentenza 07.05.2010 n. 11176, ha
chiarito le modalità per la determinazione
del valore di un'area fabbricabile.
In particolare la Corte ha richiamato l'art.
5, comma 8, del D. Leg.vo 504/1992, il
quale, nel prevedere che il valore dell'area
edificabile è costituito da quello venale in
comune commercio, fa riferimento all'intera
area nel suo complesso.
Ne deriva che l'area edificabile deve essere
considerata unitariamente, prescindendo
dalla destinazione che ciascuna porzione di
essa potrà avere in esito alla realizzazione
del processo edificatorio.
D'altro canto non si può trascurare che
l'esercizio concreto diritto ad edificare
richiede che l'area sia urbanizzata, e
quindi debbono esservi spazi riservati
(secondo le prescrizioni dello strumento
urbanistico attuativo) ad infrastrutture e
servizi di interesse generale, quali
parcheggi, strade, aiuole. Ne consegue
ulteriormente che, ai fini della
determinazione del valore dell'area nel suo
complesso, deve tenersi in debito conto il
differente livello di edificabilità delle
parti che compongono l'area (commento tratto
da www.legislazionetecnica.it). |
ESPROPRIAZIONE: Sulla natura
dell’occupazione d’urgenza.
L'occupazione temporanea preordinata
all'espropriazione, prevista dall'art.
22-bis del D.P.R. 08.06.2001, n. 327 (aggiunto dall'art. 1
del D.Lgs. 27.12.2002, n. 302), è
finalizzata a
consentire all'Amministrazione di conseguire
l'anticipata immissione in possesso
dell'area sulla
quale dev'essere realizzata l'opera pubblica
dichiarata urgente ed indifferibile, per
dare inizio ai
lavori ed evitare di dover attendere che il
procedimento espropriativo giunga alla sua
naturale
conclusione con il provvedimento ablativo;
tale funzione, fa sì che l'occupazione
temporanea non
sia più correlata alla restituzione (non
prevista né prevedibile) dell'immobile al
proprietario e che,
quindi, sussista un collegamento funzionale
tra le figure ablatorie dell'occupazione
preliminare e
della espropriazione, nonché tra di esse e
la dichiarazione di pubblica utilità che ne
costituisce il
necessario presupposto, ferma la possibilità
di sindacare unicamente per la mancanza del
presupposto dell'urgenza la scelta
dell'Amministrazione di ricorrere a tale
istituto
(massima tratta da http://doc.sspal.it -
Corte di Cassazione, Sez. Unite civili,
sentenza 06.05.2009 n. 10362). |
ESPROPRIAZIONE:
1. Espropriazione
per Pubblica Utilità - P.I.I. - Art. 34
D.Lgs. n. 267/2000 - Rito accelerato ex art.
23-bis L. n. 1034/1971 - Deposito ricorso
oltre termine dimidiato - Inammissibilità.
2.
Decreto d'occupazione d'urgenza - Mancata
indicazione ragioni d'urgenza - Art. 22 bis
D.P.R. n. 327/2001 - Legittimità.
1. Essendo oggetto dell'impugnazione gli
atti della procedura espropriativa e
l'approvazione di un P.I.I che, in base
all'art. 34 d.lgs. n. 267/2000 comporta
dichiarazione di pubblica utilità,
indifferibilità ed urgenza delle opere ivi
previste, si applica il c.d. rito accelerato
di cui all'art. 23-bis L. n. 1034/1971,
introdotto dalla L. n. 205/2000, risultando
inammissibile il ricorso principale in
quanto depositato oltre il termine dimidiato.
2.
In presenza dei presupposti procedimentali
prescritti dall'art. 22-bis D.P.R.
08.06.2001 n. 327 per l'emanazione
dell'ordinanza di occupazione d'urgenza, e
cioè il vincolo preordinato all'esproprio e
la dichiarazione di pubblica utilità,
l'Amministrazione può immettersi senz'altro
nel possesso dell'area in esecuzione della
suddetta ordinanza, per realizzare le opere
per le quali vi è stata l'approvazione del
progetto e lo stanziamento delle relative
risorse, essendo sufficiente che l'ordinanza
si limiti a richiamare espressamente la
dichiarazione di pubblica utilità, che
costituisce l'unico presupposto e che
consente di rilevare l'urgenza della
realizzazione delle opere, essendo
irrilevante una specifica dichiarazione di
indifferibilità ed urgenza in presenza di
tali presupposti (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 05.05.2010 n.
1236 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Decreto di occupazione anticipata
dei beni - Art. 22-bis d.P.R. n. 327/2001 -
Destinatari della procedura espropriativa -
Numero superiore a 50 - Vincolo preordinato
all’esproprio - Dichiarazione di pubblica
utilità - Immissione in possesso.
L’art. 22-bis DPR 327/2001 prevede
testualmente che il decreto di occupazione
anticipata dei beni immobili necessari possa
essere emanato senza particolari indagini o
formalità, allorché il numero dei
destinatari della procedura espropriativa
sia superiore a 50.
Secondo l’interpretazione prevalente, in
presenza dei presupposti procedimentali
prescritti dalla norma per l'emanazione
dell'ordinanza di occupazione d'urgenza
(vincolo preordinato all'esproprio e
dichiarazione di pubblica utilità,
l'Amministrazione può immettersi senz'altro
nel possesso dell'area in esecuzione della
suddetta ordinanza, per realizzare le opere
per le quali vi è stata l'approvazione del
progetto e lo stanziamento delle relative
risorse, essendo sufficiente che l'ordinanza
di occupazione si limiti a richiamare
espressamente la dichiarazione di pubblica
utilità, che costituisce l'unico presupposto
e che consenta di rilevare l'urgenza della
realizzazione delle opere (Consiglio Stato,
sez. IV, 29.05.2009, n. 3353) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 05.05.2010 n. 1236
- link a www.ambientediritto.it). |
ESPROPRIAZIONE:
1. Retrocessione totale del bene
espropriato - Domanda di retrocessione-
Giurisdizione del G.A. - Non sussiste -
Giurisdizione del G.O. - Sussiste.
2. Espropriazione
per p.u. - Art. 53, d.P.R. n. 327/2001 -
Cessione volontaria - Integrazione o
riliquidazione dell'indennità -
Giurisdizione del G.O. - Sussiste.
1. Nelle ipotesi di retrocessione totale del
bene espropriato, l'Amministrazione -la
quale è autorizzata a sottrarre il bene al
legittimo proprietario solo ed
esclusivamente nella misura in cui
effettivamente il bene stesso sia utilizzato
per il conseguimento dello specifico
interesse pubblico fissato con la
dichiarazione di pubblica utilità- pone in
essere un comportamento che non è
riconducibile all'esercizio di un pubblico
potere proprio perché il bene non è stato
utilizzato per la realizzazione dell'opera
pubblica prevista nella dichiarazione di
pubblica utilità, o è stato utilizzato per
realizzare un'opera totalmente differente da
quella programmata.
La giurisdizione sulla
domanda di retrocessione totale appartiene,
dunque, al giudice ordinario.
2. Alla luce dell'art. 53, d.P.R. n.
327/2001, in caso di cessione volontaria
sono devolute alla giurisdizione del g.o.,
vertendosi in materia di diritti soggettivi,
le controversie promosse dal cedente non
soltanto per il pagamento dell'indennità ma
anche per l'integrazione o la sua totale
riliquidazione (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 28.04.2010 n.
1167 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
BENI CULTURALI E AMBIENTALI -
Potere espropriativo ex art. 95, cc. 1 e 2,
d.lgs. n. 42/2004 - Presupposti differenti
rispetto al potere espropriativo ex artt. 96
e 97 - Delega del potere agli enti locali.
L’attribuzione del potere espropriativo di
cui all’art. 95, cc. 1 e 2 del d.lgs. n.
42/2004 (nel caso di beni culturali mobili e
immobili, nei confronti dei quali
l’espropriazione risponda ad un importante
interesse a migliorare le condizioni di
tutela ai fini della fruizione pubblica) è
caratterizzata da presupposti evidentemente
differenti rispetto alle successive
previsioni degli artt. 96; in particolare,
una differenza sostanziale è indubbiamente
costituita dalla possibilità di delegare il
potere espropriativo agli enti locali o ad
altri enti pubblici che è prevista dall’art.
95 del Codice dei beni culturali e del
paesaggio, ma non dalle successive
previsioni degli artt. 96 e 97 (TAR
Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 28.04.2010 n. 1037 -
link a www.ambientediritto.it). |
ESPROPRIAZIONE:
1. Impugnazione decreto di
esproprio - Art. 23-bis L. n. 1034/1971 -
Rito abbreviato - Termine per ricorrere -
Termine per deposito ricorso - Dimezzamento
- Inammissibilità.
2. Precedente contenzioso civile - Art. 126 disp. att. c.p.c. - C.T.U. - Utilizzabilità.
3.
Occupazione illegittima - Illecito aquiliano
- Individuazione responsabile - Società
mandataria della procedura ablativa -
Risarcimento del danno ex art. 2043 c.c. -
Sussiste.
1. Nell'impugnazione di un decreto di
esproprio in cui i termini processuali sono
ridotti alla metà, salvo quello per la
proposizione del ricorso ex art. 23-bis, c.
2, L. n. 1034/1971 (introdotto dalla L. n.
205/2000), si deve ritenere che il
dimezzamento non riguarda il termine di
60 giorni per la notificazione
dell'atto introduttivo del giudizio, ma
quello di 30 giorni per il suo
successivo deposito. Sicché, essendo
quest'ultimo pari a 15 giorni, deve
reputarsi inammissibile, per tardività del
deposito, il ricorso notificato.
2. I mezzi di prova o le consulenze tecniche
d'ufficio svolte, in una causa tra le stesse
parti, davanti al giudice ordinario,
dichiaratosi incompetente, ed acquisite agli
atti del contenzioso amministrativo in
applicazione analogica dell'art. 126
disposizioni attuative c.p.c., sono
utilizzabili nel processo amministrativo,
salvo il principio della loro libera
valutazione da parte del magistrato
amministrativo.
3. In merito all'occupazione illegittima di
aree prima dell'adozione dei provvedimenti
di esproprio e all'occupazione illegittima
di altro mappale, mai ritualmente
espropriato, è responsabile, non la società
a cui è stato conferito il mandato per le
fasi della procedura ablatoria, ma la
Pubblica Amministrazione espropriante a cui
devono ascriversi le condotte -anche
omissive- illecite.
Sussistendo tutte le
condizioni di cui all'art. 2043 c.c., ovvero
il pregiudizio patrimoniale cagionato dalla
lunga occupazione illegittima, il nesso
causale tra il danno e la condotta
dell'Amministrazione e la colpa di
quest'ultima, desumibile dalla palese ed
inescusabile violazione delle norme che, nel
caso di specie, presiedevano all'esercizio
dell'azione amministrativa, attesa la
tardività dell'adozione dei decreti di
esproprio e l'occupazione senza titolo di
altro mappale, l'Amministrazione è tenuta al
risarcimento del danno ingiusto da liquidare
con le modalità di cui all'art. 35 D.Lgs. n.
80/1998 dalla cessazione della occupazione
legittima sino al momento dell'adozione dei
decreti di esproprio (massima tratta da
www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 22.04.2010 n.
1143 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Sull’articolazione
del procedimento espropriativo.
Il procedimento espropriativo viene
disciplinato come unitario ed in esso si
articolano tre fasi, costituenti altrettanti
subprocedimenti, di cui il primo è proprio
costituito dall'apposizione del vincolo
preordinato all'esproprio (mentre gli altri
sono da individuarsi nella dichiarazione di
pubblica utilità e nel decreto di
esproprio), con il quale viene localizzata
l'opera pubblica o di pubblica utilità da
realizzare, con la correlata individuazione
del bene da espropriare.
Dovendosi assicurare la conformità
dell'opera alla normativa urbanistica di
riferimento, il vincolo espropriativo si può
legittimamente apporre unicamente quando
diventa efficace l'atto di approvazione del
piano urbanistico generale o, in mancanza,
in caso di approvazione di una variante del
piano urbanistico generale.
L'ordinamento ritiene doveroso riservare, in
precisi momenti del procedimento
espropriativo e dei vari atti in cui esso si
articola, determinate garanzie ai soggetti
destinatari delle procedure espropriative,
facendo in modo, non solo che i loro beni
vengano a trovarsi in uno stato di
soggezione entro termini certi e
predeterminati, ma garantendo loro non una
qualsiasi fattispecie di partecipazione, sia
pure meramente formale, ma una
partecipazione qualificata, in grado, cioè,
di consentire al proprietario espropriando
nelle principali fasi in cui si articola la
procedura, una difesa a ragion veduta delle
proprie ragioni, al tempo stesso
assecondando (per la ulteriore funzione
collaborativa che la partecipazione può
offrire) le esigenze funzionali di cura
dell'interesse pubblico che, in concreto,
intendono perseguirsi; perché ciò avvenga,
necessita, anzitutto, il rigoroso rispetto
della normativa in tema di comunicazione di
avvio del procedimento che, in materia
espropriativa, pur ricollegandosi alla
generale previsione di cui all'art. 7 della
L. n. 241 del 1990, trova una specifica e
dettagliata disciplina negli artt. 11, 16,
17 e 23 del D.P.R. n. 327/2001.
La giurisprudenza amministrativa ha ribadito
che, nel caso di adozione di una variante al
Piano Regolatore per la realizzazione di una
singola opera pubblica, ai sensi dell'art.
11 del D.P.R. n. 327/2001, al proprietario
del bene immobile medesimo sul quale si
intende apporre il vincolo preordinato
all'esproprio va inviato l'avviso dell'avvio
del relativo procedimento almeno venti
giorni prima della delibera del Consiglio
Comunale e deve, altresì, contenere le
modalità di consultazione del progetto ed il
riconoscimento espresso della possibilità
per gli interessati di formulare
osservazioni al progetto medesimo nei
successivi trenta giorni
(massima tratta da http://doc.sspal.it - TAR
Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 21.04.2010 n.
2070 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
L'acquisizione sanante si applica
anche ai beni culturali.
Non vi è dubbio che l’acquisizione sanante
sia un istituto di carattere generale avente
la specifica finalità di far conseguire
all’amministrazione pubblica un bene anche
nel caso del mancato esito fruttuoso di
procedure espropriative in precedenza
svolte. Il Collegio non ravvisa, pertanto,
alcun ostacolo all’applicabilità
dell’istituto nelle ipotesi in cui la
medesima esigenza acquisitiva venga in
rilievo in rapporto a beni culturali.
Sarebbe del resto illogico e non
costituzionalmente orientato un diverso
opinare giacché -come condivisibilmente
osservato dal TAR- i beni culturali (per di
più, nella specie, già vincolati) sono
maggiormente bisognosi di una tutela
pubblica, soprattutto se compromessi sul
piano strutturale o funzionale (C.G.A.R.S.,
sentenza 21.04.2010 n. 558 - link
a www.altalex.com). |
ESPROPRIAZIONE - LAVORI PUBBLICI:
B.U.R. Lombardia, 1° suppl. straord. al n.
16 del 20.04.2010, "Valori agricoli medi
validi per l'anno 2010 dei terreni,
considerati liberi da vincoli di contratti
agrari, secondo i tipi di coltura
effettivamente praticati, determinati
nell'ambito delle singole regioni agrarie
lombarde a norma dell'art. 41, comma 4, del
dPR 08.06.2001, n. 327 e successive
modifiche e integrazioni" (comunicato
regionale 08.04.2010 n. 45 - link
a www.infopoint.it). |
ESPROPRIAZIONE: Sull’idoneità di
un’ordinanza extra ordinem per l’occupazione
di urgenza.
L'ordinanza sindacale, contingibile ed
urgente ex art. 54, d.lgs. n. 267/2000,
difetta dei requisiti
richiesti dall'art. 22-bis del D.P.R. 08.06.2001, n. 327 per l'esercizio in via
di urgenza del potere
di disporre l'occupazione a fini
espropriativi
(massima tratta da http://doc.sspal.it -
Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 16.04.2010 n. 2168 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE - URBANISTICA:
V. Salamone,
I vincoli urbanistici preordinati
all'espropriazione per pubblica utilità
(link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Sui presupposti
dell’occupazione d‘urgenza.
In presenza dei presupposti procedimentali
prescritti dall'art. 22-bis del t.u. n.
327/2001 per
l'emanazione dell'ordinanza di occupazione
d'urgenza, e cioè il vincolo preordinato
all'esproprio e la
dichiarazione di pubblica utilità,
l'Amministrazione ben può immettersi nel
possesso dell'area in
esecuzione della suddetta ordinanza, per
realizzare le opere per le quali vi è stata
l'approvazione del
progetto e lo stanziamento delle relative
risorse, atteso che nel sistema del testo
unico citato è
divenuta irrilevante una specifica
dichiarazione di indifferibilità ed urgenza,
rilevante nel
precedente sistema per ragioni storiche, ma
di per sé già sussistente in re ipsa
(massima tratta da http://doc.sspal.it -
Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 24.03.2010 n. 1720 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: La
retrocessione parziale è
disciplinata dall’art. 47 del d.p.r.
08.06.2001, n. 327, il quale prevede che
“quando è stata realizzata l’opera pubblica
o di pubblica utilità l’espropriato può
chiedere la restituzione della parte del
bene già di sua proprietà, che non sia stata
utilizzata”. Essa determina la separazione
delle aree effettivamente destinate
all'opera pubblica da quelle che invece non
sono state investite da alcuna destinazione
pubblica, le quali possono pertanto
rientrare nel patrimonio dei proprietari
originari. La retrocessione parziale si
verifica, quindi, quando l'opera pubblica,
in relazione alla quale sia stata
preordinata l'espropriazione dell'area
privata, sia stata sì realizzata, ma in
termini quantitativamente diversi da quelli
originariamente previsti, con conseguente
utilizzazione solo parziale dell'area
espropriata.
La retrocessione totale, invece, è
disciplinata dall’art. 46 del d.p.r.
08.06.2001, n. 327, il quale prevede che “Se
l’opera pubblica non è stata realizzata o
cominciata entro il termine di dieci anni,
decorrente dalla data in cui è stato
eseguito il decreto di esproprio, ovvero se
risulta anche in epoca anteriore
l’impossibilità della sua esecuzione,
l’espropriato può chiedere che sia accertata
la decadenza della dichiarazione di pubblica
utilità e che siano disposti la restituzione
del bene espropriato e il pagamento di una
somma a tiolo di indennità”. In quest’ultimo
caso è stato rilevato che il presupposto che
fonda il diritto alla retrocessione si
realizza se l’area espropriata è rimasta
completamente inutilizzata a seguito della
mancata totale esecuzione dell’opera
pubblica originariamente prevista oppure se
quest’ultima è stata sostituita con un’opera
del tutto diversa e incompatibile, tale da
stravolgere l’assetto del territorio in
origine programmato.
L’istituto della retrocessione è coerente
con i principi costituzionali alla base
dell'espropriazione, in virtù dei quali il
bene sottratto al proprietario per il
conseguimento di un determinato interesse
pubblico non può essere arbitrariamente
utilizzato per un fine diverso da quello per
il quale fu espropriato e per il quale ha
ricevuto la formale e specifica destinazione
pubblica per effetto della dichiarazione di
pubblica utilità.
Allorquando la domanda di retrocessione
totale sia proposta congiuntamente ed
alternativamente a quella di retrocessione
parziale, su cui è pacifica la giurisdizione
del giudice amministrativo (rilevando poteri
discrezionali autoritativi dell’autorità
espropriante), la giurisdizione non trasla
al giudice ordinario, ma resta al giudice
amministrativo, trovando applicazione i
principi di logica processuale per cui,
nelle materie di giurisdizione esclusiva, la
decisione su più cause unite e/o
strettamente connesse aventi od oggetto, in
astratto, diritti ed interessi, spetta al
giudice amministrativo, il quale, avendo
cognizione su interessi e diritti, ha
competenze più ampie rispetto a quelle del
giudice ordinario, limitate ai diritti
soggettivi.
I ricorrenti lamentano la violazione e
l’errata interpretazione degli artt. 46 e
ss. del d.p.r 08.06.2001, n. 327, nonché il
travisamento dei fatti da parte del Comune
nel ritenere che l’opera pubblica sia stata
regolarmente eseguita sui terreni
espropriati, così come da programma
progettuale approvato con deliberazione
della Giunta comunale n. 117 del 16.12.2003.
Secondo la prospettazione dei ricorrenti
l’opera pubblica sarebbe stata realizzata
solo su una parte del terreno espropriato e
non nella sua interezza, sicché il Comune
avrebbe dovuto accertare la inservibilità
dei terreni e accogliere le istanze di
retrocessione parziale. In particolare i
ricorrenti precisano, con memoria depositata
in data 11.03.2009, che solo su una parte
dell’area in questione sarebbero state
realizzate opere murarie di scarsa
considerazione, tese ad operare uno
sbancamento per l’insediamento di lavori
ulteriori mai effettuati e che su larga
parte dell’appezzamento di terreno (in
specie quello esposto fronte strada) non
sarebbero state eseguite opere di alcun
genere.
In alternativa i ricorrenti affermano il
loro diritto alla retrocessione totale. A
tal riguardo, sostengono che le opere che
avrebbero dovuto essere realizzate sui
terreni loro espropriati secondo quanto
pianificato e approvato con delibera della
Giunta comunale n. 117 del 16.12.2003 non
sarebbero state mai iniziate e a conferma di
ciò starebbe l’avvio di una nuova e diversa
procedura espropriativa per la
localizzazione di impianti sportivi sulla
stessa area. Da qui i ricorrenti affermano
il loro diritto alla retrocessione totale
dei terreni da essi ceduti, per la
intervenuta impossibilità di esecuzione
sugli stessi delle opere programmate nel
2003, che sarebbero state conglobate nella
pianificazione della seconda procedura
espropriativa, la quale, peraltro, come si
legge nella memoria depositata in data
11.03.2009, avrebbe spostato la
realizzazione degli impianti sportivi su
fondi limitrofi.
Nel merito, la controversia involge la
legittimità di atti di diniego di richieste
di retrocessione sia parziale che totale
avanzate dai ricorrenti con riferimento a
beni oggetto di cessione volontaria,
contratto ad oggetto pubblico che, inserito
nell'ambito di un procedimento
espropriativo, lo conclude eliminando la
necessità di un provvedimento amministrativo
di acquisizione coatta della proprietà
privata.
Prima di passare all’esame del merito, giova
premettere una breve disamina del quadro
normativo di riferimento. La retrocessione
parziale è disciplinata dall’art. 47 del
d.p.r. 08.06.2001, n. 327, il quale prevede
che “quando è stata realizzata l’opera
pubblica o di pubblica utilità l’espropriato
può chiedere la restituzione della parte del
bene già di sua proprietà, che non sia stata
utilizzata”. Essa determina la
separazione delle aree effettivamente
destinate all'opera pubblica da quelle che
invece non sono state investite da alcuna
destinazione pubblica, le quali possono
pertanto rientrare nel patrimonio dei
proprietari originari. La retrocessione
parziale si verifica, quindi, quando l'opera
pubblica, in relazione alla quale sia stata
preordinata l'espropriazione dell'area
privata, sia stata sì realizzata, ma in
termini quantitativamente diversi da quelli
originariamente previsti (cfr., Cons. St.,
sez. IV, n. 370 del 29.05.1995), con
conseguente utilizzazione solo parziale
dell'area espropriata.
La retrocessione totale, invece, è
disciplinata dall’art. 46 del d.p.r.
08.06.2001, n. 327, il quale prevede che “Se
l’opera pubblica non è stata realizzata o
cominciata entro il termine di dieci anni,
decorrente dalla data in cui è stato
eseguito il decreto di esproprio, ovvero se
risulta anche in epoca anteriore
l’impossibilità della sua esecuzione,
l’espropriato può chiedere che sia accertata
la decadenza della dichiarazione di pubblica
utilità e che siano disposti la restituzione
del bene espropriato e il pagamento di una
somma a tiolo di indennità”. In
quest’ultimo caso è stato rilevato che il
presupposto che fonda il diritto alla
retrocessione si realizza se l’area
espropriata è rimasta completamente
inutilizzata a seguito della mancata totale
esecuzione dell’opera pubblica
originariamente prevista oppure se
quest’ultima è stata sostituita con un’opera
del tutto diversa e incompatibile, tale da
stravolgere l’assetto del territorio in
origine programmato (cfr. in tal senso
Cass., sez. un., 13.04.2000, n. 134).
L’istituto della retrocessione è coerente
con i principi costituzionali alla base
dell'espropriazione, in virtù dei quali il
bene sottratto al proprietario per il
conseguimento di un determinato interesse
pubblico non può essere arbitrariamente
utilizzato per un fine diverso da quello per
il quale fu espropriato e per il quale ha
ricevuto la formale e specifica destinazione
pubblica per effetto della dichiarazione di
pubblica utilità.
Ciò premesso in ordine al quadro normativo
di riferimento, il ricorso, così come
articolato, contiene due domande congiunte:
una di tutela dell'interesse legittimo ad
ottenere, qualora si accerti che parte delle
aree siano rimaste inutilizzate, la
retrocessione parziale della porzione
inutilizzata degli immobili, l’altra di
tutela del diritto alla retrocessione
totale, qualora, invece, si accerti la
mancata realizzazione dell’opera pubblica
così come originariamente programmata.
Su quest’ultima domanda, sebbene di regola
la giurisdizione sia del giudice ordinario
(non rilevando alcun potere autoritativo
dell'ente espropriante), occorre precisare
che allorquando la domanda di retrocessione
totale sia proposta, come nella fattispecie
in esame, congiuntamente ed alternativamente
a quella di retrocessione parziale, su cui è
pacifica la giurisdizione del giudice
amministrativo (rilevando poteri
discrezionali autoritativi dell’autorità
espropriante), la giurisdizione non trasla
al giudice ordinario, ma resta al giudice
amministrativo, trovando applicazione i
principi di logica processuale per cui,
nelle materie di giurisdizione esclusiva, la
decisione su più cause unite e/o
strettamente connesse aventi od oggetto, in
astratto, diritti ed interessi, spetta al
giudice amministrativo, il quale, avendo
cognizione su interessi e diritti, ha
competenze più ampie rispetto a quelle del
giudice ordinario, limitate ai diritti
soggettivi (Cassazione civil., sez. un.,
24.06.2009, n. 14805)
(TAR Basilicata,
sentenza 11.03.2010 n. 128 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Occupazione titulo -
Risarcimento danno Inquinamento -
Inquinamento.
Nell'ipotesi di cui all'art. 43 del DPR n.
327/2001 poiché la somma di denaro che spetta
all'interessato a titolo di risarcimento
deve sostituire il valore del bene che
l'Amministrazione non restituisce
all'interessato occorre fare riferimento a
tale momento (della mancata restituzione,
ovvero della opzione del privato per il
risarcimento, anziché per la restituzione)
per stabilire il valore di mercato del bene
e computare il risarcimento del danno.
Il
valore monetario del bene viene poi
rivalutato secondo i principi generali in
materia risarcitoria, al momento della
pronuncia della decisione (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza
10.03.2010 n.
1150 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Sulla determinazione dei
termini espropriativi.
La fissazione dei termini di inizio e
compimento dei lavori e delle espropriazioni
di p.u. non deve
necessariamente coincidere con
l'approvazione del progetto preliminare o
definitivo, ma può
intervenire anche in sede di approvazione
del progetto esecutivo
(massima tratta da http://doc.sspal.it -
Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 10.02.2010 n. 663 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Notifica atti della procedura
espropriativa -Destinatari - Soli
proprietari catastali - Sufficienza.
In materia di esproprio, la notifica agli
intestatari catastali anziché ai proprietari
effettivi è del tutto legittima: infatti, ex
art. 3, secondo comma, D.P.R. 327/2001,
tutti gli atti della procedura espropriativa
-ivi incluse le comunicazioni ed il decreto
di esproprio- sono disposti nei confronti
del soggetto che risulti proprietario
secondo i registri catastali, salvo che
l'autorità espropriante non abbia tempestiva
notizia dell'eventuale diverso proprietario
effettivo (cfr. TAR Milano, sent. n.
6408/2004) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 02.02.2010 n.
254 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
1.
Retrocessione parziale ex art. 47, D.P.R.
327/2001 - Presupposti - Istanza
dell'espropriato per la restituzione della
parte del bene non utilizzata - Necessità.
2.
Retrocessione parziale ex art. 47, D.P.R.
327/2001 - Istanza dell'espropriato per la
restituzione della parte del bene non
utilizzata - Conseguenze - Oneri
procedimentali in capo al beneficiario e
all'autorità espropriante.
3.
Retrocessione parziale ex art. 47, D.P.R.
327/2001 - Sindacabilità del G.A. - Sussiste
- Istanza dell'espropriato per la
restituzione della parte del bene non
utilizzata - Necessità.
4.
Occupazione di mappali per opere diverse da
quelle previste dal progetto approvato -
Occupazione usurpativa - Sussiste.
5.
Occupazione usurpativa - Domanda
risarcitoria - Giurisdizione G.A. - Non
sussiste - Ratio - Conseguenze -
Riassumibiltà del processo avanti al G.O..
1. In materia di espropriazione per pubblica
utilità, la retrocessione parziale ex art.
47, D.P.R. 327/2001 postula necessariamente
un'istanza dell'espropriato volta alla
restituzione della parte del bene non
utilizzata per l'opera pubblica o di
pubblica utilità.
2. A seguito dell'istanza dell'espropriato
volta alla restituzione della parte del bene
non utilizzata per l'opera pubblica o di
pubblica utilità si instaura un procedimento
in cui sono coinvolti l'espropriato, il
beneficiario dell'espropriazione, che deve
indicare i beni inservibili che possono
essere ritrasferiti e l'autorità
espropriante, che deve determinare, in
mancanza di tale indicazione, quale parte
del bene espropriato non serva più alla
realizzazione dell'opera.
3. L'esito del procedimento inerente la
retrocessione parziale ex art. 47, D.P.R.
327/2001 è sindacabile dal giudice
amministrativo: tuttavia ad esso non può
chiedersi direttamente -senza cioè
un'iniziativa dell'espropriato che abbia
attivato il relativo procedimento- la
condanna della P.A. alla restituzione del
bene non utilizzato.
4. L'occupazione di una parte, ancorché
limitata, di mappali dell'espropriato per
opere diverse da quelle previste dal
progetto di espropriazione per pubblica
utilità approvato e "coperte", cioè
legittimate, dalla connessa dichiarazione di
pubblica utilità, integra gli estremi
dell'occupazione usurpativa, caratterizzata
dall'apprensione del fondo altrui in totale
carenza di titolo.
5. In caso di occupazione usurpativa,
trattandosi di un comportamento "senza
potere", la relativa domanda risarcitoria è
sottratta al giudice amministrativo, la cui
giurisdizione presuppone l'annullamento di
un atto e il sindacato sull'esercizio
effettivo del potere amministrativo (cfr.
Corte Cost., sent. n. 191/2006, Cass. SS.UU.,
sent. nn. 5925/2008, 26732/2007, 2688/2007):
pertanto, tale domanda risarcitoria -fatti
salvi gli effetti sostanziali e processuali
della stessa- appartiene alla cognizione
del giudice ordinario, dinanzi al quale il
processo potrà essere riassunto ex art. 50
del codice di procedura civile (cfr. Corte
Cost., sent. n. 77/2007; Cass. SS.UU., sent.
n. 4109/2007; Cons. Stato, sent. nn.
1059/2008, 4741/2008) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 01.02.2010 n.
216 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Nella comunicazione di avvio del
procedimento espropriativo l’amministrazione
non è tenuta a svolgere alcuna indagine
sulla corrispondenza tra le risultanze
catastali e la proprietà reale.
Nella pronuncia in rassegna si controverte
della procedura espropriativa condotta su
suoli siti nel territorio di un Comune
toscano per la realizzazione di una
discarica di rifiuti solidi urbani.
La Cooperativa appellata, nella propria
qualità di acquirente con patto di riservato
dominio dei suoli in questione, ha impugnato
con un primo ricorso il decreto di
occupazione d’urgenza dei suoli medesimi e
il retrostante provvedimento dichiarativo
della pubblica utilità dell’intervento; con
successivo ricorso, la stessa Cooperativa ha
censurato un nuovo decreto di occupazione,
sempre unitamente ai presupposti atti della
procedura de qua.
Il giudice di primo grado ha accolto i
ricorsi ed ha conseguentemente annullato gli
atti della procedura in oggetto
sull’assorbente rilievo della violazione
dell’art. 7 della legge 07.08.1990, nr. 241,
non risultando mai notificata alla
Cooperativa ricorrente la comunicazione di
avvio del procedimento conclusosi con la
dichiarazione della pubblica utilità
dell’opera.
A fronte di tale statuizione si contesta che
la Cooperativa, attesa la sua peculiare
posizione giuridica (acquirente con patto di
riservato dominio dei terreni espropriandi,
che pertanto restavano in formale proprietà
di altro soggetto), per un verso fosse
legittimata a impugnare gli atti della
procedura espropriativa –in tal senso
reiterando un’eccezione espressamente
respinta dal primo giudice– e per altro
verso dovesse essere destinataria
dell’avviso ex art. 7 della legge nr. 241
del 1990.
Ad avviso dei giudici del Consiglio di Stato
è opportuno sgombrare il campo
preliminarmente da una possibile confusione
che è possibile cogliere tra il profilo
preliminare di rito afferente alla
legittimazione all’impugnazione e quello
sostanziale inerente all’ipotizzata
violazione dell’obbligo di comunicare
l’avvio del procedimento dichiarativo della
pubblica utilità dell’opera.
Rimandando alla lettura del testo integrale
della sentenza (in allegato al commento) per
quanto riguarda il primo aspetto,
concentriamo la nostra attenzione sulle
considerazioni svolte, invece, dai giudici
di Palazzo Spada per rispondere
all’interrogativo se alla Cooperativa
appellata spettasse, ai sensi dell’art. 7
della legge nr. 241 del 1990, la
comunicazione di avvio del procedimento
dichiarativo della pubblica utilità
dell’intervento: infatti, a tale fine non è
più sufficiente la mera sussistenza di un
interesse giuridicamente qualificato, ma
occorre che il soggetto interessato rivesta
–come è noto– la qualità di destinatario
dell’emanando provvedimento amministrativo.
Ciò premesso, in materia espropriativa il
dominante indirizzo giurisprudenziale, dal
quale questa la V Sezione non ravvisa motivo
per discostarsi, è alquanto rigoroso
nell’individuazione di siffatta qualità: in
particolare, si è costantemente ritenuto che
la comunicazione di avvio del procedimento
espropriativo –la quale, come è noto, deve
precedere l’atto dichiarativo della pubblica
utilità– debba essere notificata al solo
proprietario catastale dell’area
interessata, e che l’Amministrazione non sia
tenuta a svolgere alcuna indagine per
identificare l’eventuale diverso
proprietario effettivo (cfr. Cons. Stato,
sez. IV, 06.06.2008, nr. 2695).
Se ciò è vero per l’ipotesi di non
corrispondenza tra le risultanze catastali e
la proprietà reale, a fortiori deve
concludersi che non può pretendersi
dall’Amministrazione procedente alcuna
indagine ulteriore tesa all’identificazione
di eventuali soggetti –pur astrattamente
pregiudicati dall’esproprio in itinere– i
quali vantino sull’area diritti di natura
personale (commento tratto da
www.doumentazione.ancitel.it - Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 22.01.2010 n. 209 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
P. Pantuliano,
L’espropriazione per pubblica utilità: fasi
e presupposti. I nuovi criteri di
quantificazione dell’indennità di esproprio.
La problematica dell’accessione invertita e
gli atti di acquisizione sanante. Il regime
speciale dell’occupazione di urgenza.
Appropriazione acquisitiva (20.01.2010
e 03.02.2010 - link a http://doc.sspal.it). |
ESPROPRIAZIONE: Non
è ammissibile l’autonoma impugnabilità
dell’atto con il quale è autorizzato
l'accesso ai fondi per le operazioni di
misurazione preliminari al procedimento
espropriativo, trattandosi di atto non
direttamente lesivo, avente carattere
puramente preparatorio e strumentale
nell’ambito del procedimento volto
all’apposizione del vincolo espropriativo.
Nell'ambito della serie procedimentale degli
atti e provvedimenti di approvazione di un
progetto di opera pubblica devono
considerarsi impugnabili solo quegli atti
effettivamente dotati di lesività nei
confronti dei cittadini incisi dall'attività
amministrativa, tra i quali in via generale
rientrano l'approvazione del progetto
definitivo (che, contenendo la dichiarazione
di pubblica utilità, come disposto dall'art.
17 del d.p.r. 08.06.2001, n. 327, imprime al
bene privato quella particolare qualità od
utilità pubblica che lo rende assoggettabile
alla procedura espropriativa), il decreto di
occupazione temporanea e d'urgenza (che
realizza lo spossessamento del bene in capo
al privato) ed il decreto di espropriazione
(che attua il trasferimento coattivo del
bene dal privato alla p.a.), mentre gli
altri atti non possono considerarsi ex se
immediatamente lesivi e quindi non sono
immediatamente impugnabili.
Ne consegue che non è atto immediatamente
lesivo e come tale non è impugnabile, l’atto
di approvazione del piano triennale dei
lavori pubblici, il quale, peraltro, è privo
di alcun riferimento in ordine alla
localizzazione dell’opera pubblica sull’area
di proprietà della parte ricorrente.
Né l’impugnata autorizzazione ad introdursi
nell’area di proprietà dell’istante, per
l’effettuazione delle operazioni
planimetriche, è considerabile un atto
immediatamente lesivo, suscettibile di
pregiudicare in via diretta la situazione
giuridica soggettiva della ricorrente.
L’art. 15 del d.p.r. 08.06.2001, n. 327,
nell’ambito delle disposizioni particolari
disciplinanti il procedimento per
l’approvazione dei progetti definitivi di
opere pubbliche, prevede la possibilità che
i tecnici incaricati dall’amministrazione,
anche privati, possano essere autorizzati ad
introdursi nell'area interessata, per le
operazioni planimetriche e le altre
operazioni preparatorie necessarie “per
la redazione dello strumento urbanistico
generale, di una sua variante o di un atto
avente efficacia equivalente nonché per
l'attuazione delle previsioni urbanistiche e
per la progettazione di opere pubbliche e di
pubblica utilità”.
Al riguardo il Collegio, ritiene, che
l’autorizzazione in questione, in quanto
atto indubitabilmente preparatorio e
strumentale rispetto alla formazione del
progetto di massima per la realizzazione
dell’opera pubblica, non possa avere
carattere immediatamente e direttamente
lesivo dell'interesse del proprietario
dell'area interessata, interesse che, come
già anticipato, viene ad essere pregiudicato
solo al momento dell’approvazione del
progetto definitivo di localizzazione
dell’opera pubblica sull’area interessata,
atto quest’ultimo che, al momento del
rilascio dell’autorizzazione ad effettuare
sul fondo privato le operazioni di
misurazione preliminare, si rivela come
futuro e incerto, in quanto condizionato sia
all’esito positivo delle operazioni tecniche
preliminari in ordine all’idoneità del
terreno alla realizzazione dell’opera
pubblica, sia alla conclusione del
procedimento con l’apposizione del vincolo
preordinato all’esproprio.
Per tali ragioni, il Collegio non ritiene di
doversi discostare da quella giurisprudenza
amministrativa che non ammette l’autonoma
impugnabilità dell’atto con il quale è
autorizzato l'accesso ai fondi per le
operazioni di misurazione preliminari al
procedimento espropriativo, trattandosi di
atto non direttamente lesivo, avente
carattere puramente preparatorio e
strumentale nell’ambito del procedimento
volto all’apposizione del vincolo
espropriativo (Tar Latina, 27.03.1990, n.
353; Consiglio Stato , sez. IV, 03.07.1986,
n. 458; Consiglio Stato, sez. IV,
03.07.1979, n. 558)
(TAR Basilicata,
sentenza 19.01.2010 n. 15 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Il possibile, e non provato,
rispetto del termine finale dei lavori non
può, inficiare ex sé la legittimità del
decreto di esproprio emesso prima della
scadenza sia del termine per la conclusione
della procedura espropriativa, sia del
termine finale dei lavori.
La lettura combinata delle norme che
regolano il potere di acquisizione coattiva
della proprietà privata per soddisfare
interessi pubblici –oggi raccolte nel T.U.
rappresentato dal D.P.R. 327/2001– induce a
ritenere che il mancato rispetto del termine
finale dei lavori, nel caso in cui risulti
rispettato quello di fine espropriazioni con
la tempestiva adozione del decreto di
esproprio, abbia quale conseguenza la sola
possibilità per il proprietario-espropriato
di chiedere la retrocessione, totale, dei
beni.
Il possibile, e non provato, rispetto del
termine finale dei lavori non può, quindi,
inficiare ex sé la legittimità del decreto
di esproprio emesso prima della scadenza sia
del termine per la conclusione della
procedura espropriativa, sia del termine
finale dei lavori (TAR Lombardia-Brescia,
Sez. II,
sentenza 15.01.2010 n. 51 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Sull’obbligo di
comunicare l’avvio del procedimento di
reiterazione del vincolo.
La reiterazione della dichiarazione di
pubblica utilità scaduta, deve sempre
avvenire mediante lo
svolgimento di un nuovo procedimento
amministrativo strumentale a detta
dichiarazione, al quale
possano partecipare tutti i soggetti
pubblici e privati direttamente interessati,
previa notifica agli stessi di idonea
comunicazione di rito
(massima tratta da http://doc.sspal.it -
Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 13.01.2010 n. 39 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
1.
Note recanti l'avviso di avvio del
procedimento e l'avviso di deposito atti -
Natura - Comunicazioni prive di efficacia
lesiva - Impugnabilità - Non sussiste.
2. Decreto
d'esproprio - Competenza del dirigente
comunale - Sussiste - Presupposti: art. 3. L.R. n. 1/2000.
1. E' inammissibile l'impugnativa avente ad
oggetto le note della P.A. recanti l'avviso
di avvio del procedimento e l'avviso di
deposito atti di una procedura ablativa,
essendo atti di comunicazione della P.A.,
privi ex se di efficacia lesiva.
2. Non sussiste incompetenza del dirigente
comunale a decretare l'esproprio, in quanto
l'art. 50 della L.R. n. 70/1983 deve
ritenersi superato dalla L.R. n. 1/2000:
infatti, l'art. 3 di detta legge regionale
trasferisce ai comuni, alle comunità
montane, alle province, ai consorzi tra
comuni o tra comuni e province, per i lavori
di rispettiva competenza, le funzioni
amministrative concernenti:
a) la dichiarazione di pubblica utilità
nonché di urgenza ed indifferibilità dei
lavori;
b) l'occupazione temporanea d'urgenza e le
relative attività previste dagli articoli 7
e 8 L. 2359/1865 (comma 100); mentre per
altro verso (comma 101) delega agli stessi
enti, per i lavori di rispettiva competenza,
le funzioni amministrative regionali
concernenti l'espropriazione per pubblica
utilità di cui al titolo secondo della legge
n. 865/1971, riguardante programmi e
coordinamento dell'edilizia residenziale
pubblica.
Pertanto, per i lavori di propria pertinenza
i comuni sono titolari di funzioni
trasferite (dichiarazione di pubblica
utilità e occupazione d'urgenza) e di
funzioni delegate (espropriazione per
pubblica utilità) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 08.01.2010 n.
4 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2009 |
|
ESPROPRIAZIONE:
Quesito 6 -
Sul criterio di determinazione
dell'indennità di esproprio in base
all'edificabilità di fatto in seguito alla
decadenza del vincolo urbanistico ablativo
(Geometra Orobico n. 6/2009). |
ESPROPRIAZIONE:
Espropriazione - Ex art. 43 del
D.P.R. 327/2001 - Intervenuta illegittimità
costituzionale - Rileva.
E' accolto il ricorso avverso il decreto con
il quale il Dirigente del Servizio
Valutazioni Immobiliari ed Espropri del
Comune di Milano ha disposto l'acquisizione,
ai sensi dell'art. 43 del D.P.R. 08.06.2001
n. 327, al patrimonio del Comune di Milano
dell'immobile di proprietà dei ricorrenti.
Si tratta in particolare dell'acquisizione
al patrimonio indisponibile dell'Ente di
un'area di proprietà delle ricorrenti ex
art. 43 che la Corte Costituzionale ha
successivamente dichiarato l'illegittimità
costituzionale del citato art. 43 in quanto
ritenuto in contrasto con l'art. 76 della
Costituzione.
Per giurisprudenza costante del giudice
amministrativo -inaugurata con la
fondamentale pronuncia dell'adunanza
plenaria del Consiglio di Stato 08.04.1963
n. 8- la dichiarazione di illegittimità
costituzionale di una norma che disciplina
il potere esercitato dall'amministrazione
rende il provvedimento adottato in
applicazione di quella norma non già nullo o
inesistente ma illegittimo.
La giurisprudenza -al fine di confutare una
tesi autorevolmente sostenuta, secondo la
quale l'atto emanato sulla base di una norma
dichiarata incostituzionale va considerato
nullo perlomeno quando la norma stessa è
quella che non si limita a disciplinare le
modalità di esercizio, ma fonda il potere
amministrativo,- ha affermato, da un lato,
che il potere esercitato
dall'amministrazione si radica pur sempre su
una disposizione legislativa vigente al
momento dell'adozione del provvedimento, e
quindi efficace in quel momento (ancorché
illegittima per contrasto a Costituzione);
e, da altro lato, che fra provvedimento
amministrativo e norma che ne costituisce il
presupposto legislativo non intercorre un
legame di stretta interdipendenza
paragonabile a quello che si instaura fra
atto endoprocedimentale e provvedimento
finale, ma che al contrario i due atti
godono di un certo grado di autonomia che
permette al provvedimento di continuare ad
esistere nonostante l'intervenuta
inefficacia della legge contraria a
Costituzione.
Per conseguenza l'atto amministrativo, una
volta intervenuta la pronuncia della Corte
Costituzionale, continua a produrre i propri
effetti sino a che non venga rimosso
dall'ordinamento attraverso l'esercizio del
potere amministrativo di autotutela ovvero
attraverso una sentenza di annullamento
emessa dal giudice amministrativo (massima
tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
III,
sentenza 29.12.2010 n.
7741 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE
Decreto di esproprio - Art
21-bis, L. n. 241/1990 - Applicabilità - Non
sussiste.
Deve escludersi l'applicabilità dell'art
21-bis, L. n. 241/1990 al decreto di
esproprio, in quanto soggetto alla
disciplina speciale del testo unico
espropriazioni (D.P.R. n. 327 del 2001), in
base alla quale è necessario, al fine di non
determinare l'inefficacia della
dichiarazione di pubblica utilità, che il
decreto d'esproprio sia emanato o adottato,
ma non anche comunicato al destinatario
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 23.12.2009 n. 6188 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
T.u. 327/2001 - Specialità della
disciplina - Applicabilità della regola di
cui all’art. 21-bis L. n. 241/1990 -
Esclusione.
Stante la specialità della disciplina del
T.U. 327/2001, nei confronti del decreto di
esproprio non trova applicazione la regola
generale di cui all’ art 21-bis L. 241/1990:
è quindi necessario, al fine di non
determinare l'inefficacia della
dichiarazione di pubblica utilità, che il
decreto d’esproprio sia emanato o adottato,
ma non anche comunicato al destinatario (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 23.12.2009 n. 6188 -
link a www.ambientediritto.it). |
ESPROPRIAZIONE:
1.
Occupazione appropriativa - art. 43 D.P.R.
327/2001 - Accertamento presupposti -
Consiglio comunale - Competenza.
2.
Occupazione appropriativa - art. 43 D.P.R.
327/2001 - Diritto di partecipazione del
proprietario - Sussiste.
3.
Occupazione appropriativa - art.43 D.P.R.
327/2001 - Tutela risarcitoria.
1. L'accertamento della sussistenza dei
presupposti per l'acquisizione al patrimonio
indisponibile dei beni occupati per la
realizzazione di un'opera pubblica si pone
come fonte di una vicenda traslativa del
diritto di proprietà relativa a beni
immobili che, in quanto tale, rientra nella
competenza del Consiglio comunale.
Se
l'occupazione è avvenuta senza la
preordinata dichiarazione della pubblica
utilità non può ritenersi sussistere un
potere ablatorio e la fattispecie deve
essere ricondotta ad un ipotesi di illecito
sanabile mediante un acquisto della
proprietà nei modi previsti dall'art. 43 del
D.P.R. 327/2001.
L'opzione per il ricorso alla
procedura sanante non può essere qualificata
come atto meramente esecutivo di indirizzi
già espressi e deve, perciò, configurarsi a
pieno come manifestazione della volontà di
addivenire all'acquisizione del bene, in
quanto tale riconducibile alla competenza
del Consiglio comunale.
2. Atteso l'alto tasso di discrezionalità
che caratterizza l'esercizio della funzione
amministrativa correlata all'acquisizione di
cui all'art. 43 D.P.R. 327/2001 e considerata
la particolare rilevanza che ha assunto nel
nostro ordinamento il garantire la
partecipazione al procedimento, a
prescindere dalla mancata espressa
previsione della norma, l'avvio del
procedimento in esame deve essere preceduto
da un'idonea comunicazione, che assicuri al
proprietario tempi e modi per instaurare il
contradditorio con l'Amministrazione.
La
partecipazione del proprietario deve,
quindi, essere garantita già nella fase
dell'adozione dell'atto in cui si valuta la
sussistenza dell'interesse pubblico, sia
perché è in tale fase che il contributo
partecipativo del proprietario (tanto più
rilevante quanto si consideri l'elevato
grado di discrezionalità riconosciuto
all'Amministrazione) risulta essere
maggiormente utile, sia perché è
l'accertamento della sussistenza
dell'interesse pubblico al mantenimento
dell'opera ad essere lesivo della posizione
giuridica del proprietario, ponendosi lo
stesso come fondamento dell'esercizio del
potere di adozione del provvedimento.
3.
La pendenza del giudizio petitorio non
esclude l'ammissibilità dell'adozione, in
linea di principio, del provvedimento ex
art. 43 D.P.R. n.327/2001, tant'è che la
stessa norma prevede il ricorso all'istituto
disciplinato anche nel caso di assenza
originaria di dichiarazione di pubblica
utilità.
Deve, quindi, ritenersi fondata la domanda
risarcitoria del privato, tesa all'integrale
soddisfo dei danni subiti per la perdita del
bene a fronte dell'illegittimità
dell'occupazione e dell'utilizzazione del
suolo da parte della P.A.: gli effetti di
tale tutela risarcitoria devono comunque
essere differiti all'emissione da parte
della P.A. di un formale provvedimento
acquisitivo, da emanarsi ai sensi del
combinato disposto dei commi 1 e 3 dell'art.
43 del D.P.R. n. 327/2001, fatta salva
l'eventuale scelta di restituire la
disponibilità dei fondi, non escludibile a
priori, atteso che l'acquisto della
proprietà deve essere adeguatamente motivato
dalla permanenza di un interesse pubblico
prevalente in tal senso (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Brescia, Sez.
II,
sentenza
23.12.2009 n. 2607 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Occupazione temporanea e
d'urgenza - Non corretta quantificazione
dell'indennità di espropriazione -
Irrilevanza.
L'eventuale non corretta quantificazione
dell'indennità di espropriazione, da farsi
valere esclusivamente mediante il
procedimento per la determinazione
definitiva e l'eventuale opposizione avanti
alla Corte d'Appello territorialmente
competente, non può inficiare la legittimità
del provvedimento di occupazione d'urgenza (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Brescia, Sez.
II,
sentenza
23.12.2009 n. 2603 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Art. 20 del D.P.R. n. 327/2001 -
Cessione volontaria - Accettazione
dell'indennità provvisoria di esproprio -
Sussiste.
Nella disciplina di cui all'art. 20 del
D.P.R.327/2001 (Testi Unico Espropri) la
cessione volontaria postula l'accettazione
dell'indennità provvisoria di esproprio e il
deposito della documentazione attestante la
titolarità dell'area (massima tratta da
www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 14.12.2009 n. 5329 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
1.
Violazione di legge - Contrasto dell'opera
con il P.R.G. vigente - Opera di interesse
statale - D.P.R. n. 383/1994 - Conferenza di
servizi - Variante P.R.G. - Non sussiste.
2.
Decadenza dichiarazione di pubblica utilità
e scadenza del termine di occupazione
legittima - Restituzione del bene e
riduzione in pristino - Risarcimento del
danno - Accoglimento parziale.
1. Non sussiste una violazione di legge per
contrasto del progetto dell'opera di cui
alla procedura di espropriazione impugnata
con le previsioni del P.R.G. vigente in
quanto, trattandosi di un'opera di interesse
statale, secondo il procedimento previsto
dell'art. 3, comma 4, D.P.R. n. 383/1994,
l'approvazione del progetto con una
decisione adottata dalla conferenza di
servizi all'unanimità, sostituisce ad ogni
effetto gli atti di intesa, le concessioni,
autorizzazioni, approvazioni e nulla osta
previsti da leggi statali e regionali e vale
quindi come variante al P.R.G.
2. Essendo scaduti i termini per la
conclusione dei lavori e delle
espropriazioni fissati nel decreto di
occupazione d'urgenza e non essendo stato
prodotto alcun provvedimento di proroga
l'ingerenza dell'Amministrazione nella
proprietà della ricorrente è contra ius e
determina l'accoglimento della domanda di
restituzione delle aree occupate, previa
loro riduzione in pristino, in quanto non
risulta adottato il decreto ex art. 43 T.U.
327/2001.
Risulta al contrario non accoglibile la domanda risarcitoria per i
danni subiti medio tempore, cioè nel periodo
di utilizzazione senza titolo (dalla data di
scadenza del termine di efficacia del
decreto di occupazione legittimo, sino alla
data della effettiva restituzione), in
quanto inammissibile perché introdotta in
giudizio solo con la memoria depositata ai
fini della discussione e non notificata alle
parti intimate
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza
16.11.2009 n.
5060 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Art. 13 d.lgs. n. 327/2001 -
Scadenza del termine entro cui emanare il
decreto di esproprio - Inefficacia della
dichiarazione di pubblica utilità - Termine
perentorio.
L'articolo 13 della legge 25.06.1865, n.
2359, sostanzialmente riprodotto
nell’articolo 13 del Testo Unico in materia
di espropriazioni per pubblica utilità
(approvato con decreto legislativo
08.06.2001, n. 327) stabilisce il principio
secondo cui –in caso di mancata proroga- la
scadenza del termine entro il quale può
essere emanato il decreto di esproprio
determina l'inefficacia della dichiarazione
di pubblica utilità. Non si può ritenere che
il termine abbia natura meramente
ordinatoria: l’orientamento della
giurisprudenza è infatti consolidato nel
senso che -a differenza dei termini
iniziali, per loro natura dilatori e
acceleratori- i termini finali delle
procedure ablatorie e dei lavori assumono il
connotato della perentorietà (Cons. Stato,
Sez. V, 18.03.2002, n. 1562; Sez. IV,
22.05.2000, n. 2936 e 08.06.2000, n. 3246;
v. anche Cass., SS.UU., 04.03.1997, n. 907;
08.02.2006, n. 2630) (TAR Valle d'Aosta,
sentenza 13.11.2009 n. 93 - link
a
www.ambientediritto.it). |
URBANISTICA:
VINCOLI ED INDENNIZZO.
1.- Espropriazione ed occupazione
- Indennità - Corresponsione - Per i vincoli
urbanistici preordinati all'espropriazione -
Sussiste.
2.- Espropriazione ed occupazione -
Indennità - Corresponsione - Per i vincoli
di destinazione imposti dal piano regolatore
o per attrezzature e servizi - Non sussiste.
1.-
Sono indennizzabili soltanto i vincoli
urbanistici preordinati all'espropriazione o
di carattere sostanzialmente espropriativo,
in quanto implicanti uno svuotamento
incisivo della proprietà; mentre non lo sono
i vincoli di destinazione imposti dal piano
regolatore per attrezzature e servizi
realizzabili anche ad iniziativa privata o
promiscua, in regime di economia di mercato,
anche se accompagnati da strumenti di
convenzionamento (ad. es. parcheggi,
impianti sportivi, mercati e strutture
commerciali, edifici sanitari, zone
artigianali, industriali o residenziali).
2.-
Le destinazioni a parco urbano, a verde
urbano, a verde pubblico, verde pubblico
attrezzato, parco giochi, e simili si
pongono al di fuori dello schema
ablatorio-espropriativo -con le connesse
garanzie costituzionali (indennizzo o durata
predefinita)- e costituiscono espressione di
potestà conformativa (avente validità a
tempo indeterminato) quando lo strumento
urbanistico consente di realizzare tali
previsioni, non già ad esclusiva iniziativa
pubblica, ma ad iniziativa privata o
promiscua pubblico-privata, senza necessità
di ablazione del bene (TAR Lombardia-Milano,
Sez. II,
sentenza 11.11.2009 n. 4997 -
link a
http://mondolegale.it). |
URBANISTICA:
REITERA DEI VINCOLI ESPROPRIATIVI
E AUMENTO DEGLI STANDARD URBANISTICI.
1.- Piani urbanistici -
Introduzione standard urbanistici -
Motivazione - Obbligo - Sussiste.
2.- Giudizio amministrativo - Risarcimento
danno - Annullamento dell'atto lesivo -
Interessi pretensivi - Nuova valutazione
della p.A. - Apprezzamento discrezionale.
3.- Espropriazione ed occupazione -
Realizzazione di opere pubbliche - Reitera
vincolo - Ammissibilità - Aumento degli
standards - Analisi sulla necessità dei
servizi - Obbligo - Sussiste - Fattispecie.
1.-
L'Amministrazione ben può introdurre un
maggior rapporto di standard, ma con
l'obbligo di una incisiva motivazione.
2.-
Il diritto al risarcimento del danno in
materia di interessi pretesivi non può
riconoscersi nell'ipotesi di attività
amministrativa rinnovatoria successiva al
Giudizio Amministrativo se residua un
margine di apprezzamento discrezionale in
capo all'Amministrazione sulla modalità con
cui ottemperare alla statuizione, tale da
configurare come mera evenienza l'emanazione
di un provvedimento ampliativo.
3.-
La prospettazione di future opere pubbliche
può costituire una giustificazione per
l'imposizione o la reiterazione di un
vincolo espropriativo, ma non ha alcuno
specifico rilievo rispetto alla scelta di
aumento degli standards, che invece
presupporrebbe un'analisi sulla necessità
dei servizi, rapportata alla situazione
demografica e socio economica della
popolazione, come richiesto dai criteri
regionali di cui all'art. 7, co. 3, L.R.
Lombardia n. 1/2001 (nel caso di specie, il
sovradimensionamento degli standards non
risulta motivato, né con riferimento alla
globalità del territorio comunale, né in
correlazione all'area di proprietà del
ricorrente) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 15.10.2009 n. 4787 -
link a
http://mondolegale.it). |
URBANISTICA:
I vincoli espropriativi imposti
sulla proprietà privata decadono dopo cinque
anni se non interviene una dichiarazione di
pubblica utilità.
I vincoli espropriativi imposti su beni
determinati dallo strumento urbanistico
hanno per legge durata limitata: in linea
generale, cinque anni, alla scadenza dei
quali, se non è intervenuta dichiarazione di
pubblica utilità dell’opera prevista, il
vincolo preordinato all’esproprio decade
(art. 9 del T.U. delle norme in materia di
espropriazione per pubblica utilità,
approvato con D.P.R. 08.06.2001, n. 327).
Secondo un consolidato orientamento della
giurisprudenza anche di questo Tribunale
–dal quale non si ravvisano ragioni per
discostarsi- la decadenza dei vincoli
urbanistici espropriativi o che, comunque,
privano la proprietà del suo valore
economico, comporta l’obbligo per il Comune
di “reintegrare” la disciplina
urbanistica dell’area interessata dal
vincolo decaduto con una nuova
pianificazione. Ne consegue che il
proprietario dell’area interessata può
presentare un’istanza, volta a ottenere
l’attribuzione di una nuova destinazione
urbanistica -così come è avvenuto nel caso
in esame- e l’amministrazione è tenuta a
esaminarla, anche nel caso in cui la
richiesta medesima non sia suscettibile di
accoglimento, con l’obbligo di motivare
congruamente tale decisione (Consiglio di
Stato, sez. IV, 22.06.2004, n. 4426; TAR
Campania, Salerno, sez. I, 03.06.2009, n.
2825; TAR Sicilia, Palermo, sez. III,
25.06.2009, n. 1167; Catania, sez. I,
13.03.2008, n. 467; 18.07.2006, n. 1183;
21.06.2004, n. 1733); fermo restando,
naturalmente, il potere discrezionale
dell’Amministrazione comunale in ordine alla
verifica e alla scelta della destinazione,
in coerenza con la più generale disciplina
del territorio, meglio idonea e adeguata in
relazione all’interesse pubblico al corretto
e armonico suo utilizzo (Consiglio di Stato,
sez. IV, 08.06.2007, n. 3025).
In ordine ai termini di durata dei vincoli
espropriativi urbanistici, va, peraltro,
richiamato il parere del Consiglio di
Giustizia Amministrativa n. 461/2005
dell'01.09.2005 –dalla cui condivisibile
interpretazione non si ravvisano ragioni per
discostarsi– secondo cui deve ritenersi
applicabile nel territorio della Regione
Siciliana il termine di durata quinquennale
dei vincoli espropriativi urbanistici di cui
all’art. 9 del D.P.R. 327/2001, con
decorrenza dalla data di approvazione degli
strumenti urbanistici (cfr. sul punto, anche
TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 09.07.2008,
n. 905).
In ordine all’obbligo di provvedere, è stato
evidenziato che l’obbligo gravante sul
Comune in caso di decadenza di vincolo
preordinato all’esproprio, va assolto
mediante l’adozione di una variante
specifica o di variante generale, gli unici
strumenti che consentono alle
amministrazioni comunali di verificare la
persistente compatibilità delle destinazioni
già impresse ad aree situate nelle zone più
diverse del territorio comunale, rispetto ai
principi informatori della vigente
disciplina di piano regolatore e alle nuove
esigenze di pubblico interesse (in termini:
Consiglio di Stato, sez. IV, 31.05.2007, n.
2885). Il potere di conformazione
urbanistica, peraltro, è attribuito dalla
legge all’organo consiliare, di talché il
semplice avvio del procedimento di revisione
del piano regolatore generale comunale non
costituisce adempimento da parte del comune
dell’obbligo di attribuire la
riqualificazione urbanistica alla zona
rimasta priva di specifica disciplina a
seguito di decadenza del vincolo di
destinazione su di essa gravante (cfr.:
Consiglio di Stato, sez. IV, 05.12.2006, n.
7131; sez. V, 01.10.2003, n. 5675).
L’adempimento non elusivo di tale obbligo
può essere dato, infatti, soltanto dallo
specifico ed effettivo completamento del
Piano regolatore generale per quella zona,
mediante adozione di un provvedimento
espresso (e cioè di una variante) da parte
del competente Organo consiliare.
La decadenza dei vincoli urbanistici per
l'inutile decorso del termine quinquennale
dall'approvazione del piano regolatore
generale obbliga il comune a procedere alla
nuova qualificazione dell'area rimasta priva
di disciplina, per cui è illegittima
l'inerzia serbata al riguardo dalla p.a. ed
è possibile la formazione del silenzio
rifiuto a seguito dell'intimazione da parte
dei proprietari dell'area stessa. Laddove,
però, l'amministrazione, a giustificazione
del silenzio, pronunci asserzioni generiche
e non indichi con precisione i tempi
procedimentali necessari, il provvedimento
silenzioso va dichiarato illegittimo, con la
consequenziale declaratoria dell'obbligo di
provvedere in capo all'organo competente ad
effettuare discrezionalmente la scelta della
nuova destinazione da imprimere all'area,
mediante adeguata motivazione (TAR Puglia
Bari, sez. II, 22.11.2001, n. 5129; in senso
conforme: TAR Campania, Salerno, sez. II,
16.06.2008, n. 1944; TAR Lazio, Latina, sez.
I, 04.12.2007, n. 1485) (TAR Sicilia-Palermo,
Sez. III,
sentenza 06.10.2009 n. 1565 -
link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
1.
Comunicazione della P.A. recante impegno ad
occupare terreni strettamente necessari alla
realizzazione dell'opera pubblica - Natura provvedimentale - Non sussiste.
2.
Pubblicazione del decreto di occupazione e
urgenza sul Bollettino Ufficiale Regione
Lombardia - Mancata notifica del decreto -
Vizio del procedimento espropriativo - Non
sussiste.
3.
Immediata applicazione della L.R. n. 6/2005
e s.m.i. - Legittimazione dei concessionari
ad adottare gli atti della procedura
espropriativa - Sussiste.
1. In tema di espropriazione per pubblica
utilità, la comunicazione con la quale il
soggetto espropriante si impegna ad occupare
i terreni strettamente necessari alla
realizzazione dell'opera pubblica non ha un
contenuto provvedimentale, tale da vincolare
l'Amministrazione ad una revisione del
progetto esecutivo già approvato.
2. La mancata notifica del decreto di
occupazione e urgenza non costituisce vizio
del procedimento, quando inserito in un
provvedimento regionale pubblicato sul
Bollettino Ufficiale Regione Lombardia (BURL).
3. La L.R. n. 6/2005 e s.m.i.
è di immediata applicazione e pertanto
legittima i concessionari ad adottare gli
atti della procedura espropriativa
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza
01.10.2009 n.
4752 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
DELIMITAZIONE DI UN'AREA (PER
COSI' DIRE) "PUBBLICA".
1.- Espropriazione ed occupazione
- Accordo amichevole sull'ammontare
dell'indennità di esproprio - Passaggio
proprietà dal privato alla p.A. - Non
sussiste - Caducazione in caso di mancata
conclusione della procedura - Ammissibilità.
2.- Espropriazione ed occupazione -
Indennità - Determinazione - Con accordo
bonario - Ammissibilità - Futura
contestazione sull'ammontare -
Inammissibilità.
3.- Espropriazione ed occupazione -
Procedimento - Decreto espropriazione -
Mancata adozione entro i termini -
Caducazione intera procedura - Ex tunc -
Ammissibilità.
1.-
In tema di espropriazione per pubblica
utilità l'accordo amichevole sull'ammontare
dell'indennità di esproprio non comporta la
cessione volontaria del bene, sicché è
sempre necessario il completamento del
procedimento al fine del passaggio della
proprietà del bene dall'espropriato
all'espropriante: pertanto, detto accordo
non ha valenza sostitutiva degli atti
conclusivi, ma viene invece a caducarsi ed a
perdere efficacia qualora il procedimento
non si concluda con il negozio di cessione o
con il decreto di esproprio.
2.-
L'unico effetto derivante dalla
sottoscrizione di un accordo bonario è
quello di precludere ogni futura
contestazione sull'importo dell'indennità di
espropriazione ove, ultimato il
procedimento, si addivenga al trasferimento
del bene all'espropriante.
3.-
La decorrenza dei termini prefissati senza
che sia stato emanato il decreto di
esproprio comporta l'inefficacia, ex art.
13, co. 3, L. n. 2359/1865, della
dichiarazione di pubblica utilità, con
conseguente venir meno, ex tunc,
dell'intero procedimento. Ciò si evince
dalla lettera e dalla ratio dello
stesso art. 13, co. 3, il quale dispone che
in questo caso l'amministrazione avrebbe
dovuto procedere all'adozione di una nuova
dichiarazione di pubblica utilità (TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 30.09.2009 n. 2464 -
link a http://mondolegale.it). |
ESPROPRIAZIONE:
PRESUPPOSTI PER OTTENERE LA
RETROCESSIONE PARZIALE DEL BENE.
1- Procedimento –
Retrocessione – Diritto alla retrocessione
parziale - Presupposti.
2- Pubblica utilità – Atto dichiarativo –
Inefficacia per scadenza del termine per il
compimento dei lavori – Comporta la facoltà
del proprietario di ottenere la
retrocessione – Presupposti - Termine finale
per l’espropriazione e termine finale per
l’esecuzione dei lavori – Distinzione -
Finalità.
1-
Il diritto alla retrocessione parziale nasce
solo se ed in quanto l’amministrazione, con
valutazione discrezionale (al cospetto della
quale la posizione del privato è di
interesse legittimo) abbia emesso un
provvedimento dichiarativo della
inservibilità del bene espropriato di cui si
chiede la restituzione. E tale dichiarazione
di inservibilità presuppone, da un lato,
che, stante la non completa utilizzazione
dell’area espropriata per la realizzazione
dell’opera pubblica, il terreno o la
porzione di esso del quale si chiede la
retrocessione non sia mai stato destinato
all’opera pubblica cui era preordinata
l’espropriazione, e, dall’altro, che non
serva più all’opera in questione (cfr., TAR
Toscana, sez. I, 13.05.2008 n. 1414).
2-
L’inefficacia della dichiarazione di
pubblica utilità, che consegue all’inutile
scadenza del termine per il compimento dei
lavori, non risolve la precedente
espropriazione, ma può comportare, semmai,
solo la facoltà del proprietario, nel
ricorso dei presupposti di legge, di
promuovere azione, dinanzi al giudice
competente, per ottenere la retrocessione
dei beni espropriati (cfr., Cons. Stato,
sez. VI, 25.03.1993 n. 261 cit.; Cass. Civ.
Sez. I, 06.03.1992 n. 2715; 21.08.1998 n.
8301; 11.11.2003 n. 16904; TAR Friuli
Venezia Giulia, Trieste, 03.06.2005 n. 550).
Ciò in quanto il termine finale per
l’espropriazione e il termine finale per
l’esecuzione dei lavori rispondono a due
diverse finalità:
1) il termine del compimento delle procedure
espropriative, in attuazione dell’art. 42,
comma 3, della Costituzione, ha lo scopo di
evitare che i beni di proprietà privata
rimangano soggetti alla possibilità di
essere espropriati per un tempo
indeterminato;
2) il termine per il compimento dei lavori
ha la funzione di tutelare l’interesse
pubblico alla concreta realizzazione
dell’opera pubblica, cioè a dimostrare
l’effettiva serietà dell’azione
amministrativa.
Perciò, solo il termine finale per il
completamento del procedimento espropriativo
deve ritenersi di natura perentoria, in
quanto la fattispecie della mancata
ultimazione dell’opera pubblica entro il
termine prestabilito, dopo che il decreto di
espropriazione è già stato emanato, risulta
appositamente disciplinata dall’ordinamento
giuridico, in quanto consente al soggetto
espropriato di chiedere una pronuncia
costitutiva della retrocessione del bene
(TAR Basilicata, 14.02.2006 n. 83; Cons.
Stato, sez. II, 01.12.1993 n. 177).
Pertanto, la mancata osservanza del termine
per la fine dei lavori produce l’unico
effetto di consentire agli ex proprietari di
esercitare un’azione per la retrocessione
parziale del bene; retrocessione che
tuttavia presuppone, come si è detto, la
previa adozione, da parte
dell’amministrazione, di un provvedimento
dichiarativo della inservibilità del bene
espropriato di cui si chiede la
restituzione, espressione di un potere
discrezionale dell’amministrazione
tutelabile davanti al giudice amministrativo
(Cons. Stato, sez. IV, 04.07.2008 n. 3342)
(TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 23.09.2009 n. 1471 -
link a
http://mondolegale.it). |
ESPROPRIAZIONE:
1. Occupazione anticipata -
Presupposti - Oggettive esigenze di celerità
- Sufficienza - Motivazione specifica - Non
necessaria.
2. Occupazione anticipata -
Art. 14 l.r. 3/2009 - Elenco non tassativo.
1. L'art. 22-bis, comma 1, del DPR 327/2001
non implica il carattere eccezionale della
procedura accelerata e neppure un aggravio
nella motivazione, né è necessaria una
specifica dichiarazione che attesti la
necessità dell'immediata immissione nel
possesso.
Perché sia possibile l'occupazione
anticipata è sufficiente che in concreto vi
siano oggettive esigenze di celerità
connesse alla natura delle opere o al
meccanismo dei finanziamenti e sia
percepibile l'interesse collettivo sotteso
alla sicurezza della circolazione.
2. La normativa regionale individua
direttamente (anche se non in modo
tassativo) la tipologia di opere che
richiedono l'occupazione anticipata tra le
quali quelle di urbanizzazione primaria e le
infrastrutture a rete di interesse pubblico
in materia di trasporti (massima tratta da
www.solom.it - TAR Lombardia-Brescia, Sez.
I,
sentenza 22.09.2010
n. 3557 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: LE
RAGIONI "IMPLICITE" DELL'ESPROPRIAZIONE.
Espropriazione ed
occupazione - Procedimento - Avvio
espropriazione - Comunicazione
dell'approvazione del progetto di opera
pubblica - Necessarietà - Ragioni.
L'approvazione del progetto di opera
pubblica che valga come dichiarazione
implicita di pubblica utilità,
indifferibilità ed urgenza, a mente
dell'art. 1, L. n. 1/1978, deve essere
preceduta dalla comunicazione dell'avvio del
procedimento (Cons. Stato, sez. IV,
22-03-2005 n. 1236; Cons. Stato, sez. VI,
11-05-2005 n. 2381; TAR Basilicata
02-02-2007 n. 3).
Il progetto dell'opera pubblica infatti non
scaturisce automaticamente dalle previsioni
degli strumenti urbanistici generali (o
attuativi), ma dipende da scelte progettuali
discrezionali rispetto alle quali non può
concepirsi che il proprietario espropriando
rimanga totalmente estraneo (TAR
Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 09.09.2009 n. 550 - link
a
http://mondolegale.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Occupazione d'urgenza - Proroga
del termine - Annullamento della gara per
l'affidamento dei lavori - Necessità di
varianti - Rappresentano valide motivazioni
per la proroga - Obbligo di particolare
motivazione - Non sussiste.
L'annullamento della gara per l'affidamento
dei lavori e la necessità di varianti
rappresentano valide motivazioni, oggettive,
per la proroga dei termini dell'occupazione
d'urgenza, non richiedendosi in ogni caso
una particolare motivazione per la proroga
dell'occupazione, essendo sufficiente la
prospettazione di avere a disposizione un
maggior periodo di tempo per il
perfezionamento del procedimento in corso (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 23.07.2009 n.
4457 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Annullamento del decreto di
esproprio - Giudizio di ottemperanza -
Liquidazione del risarcimento del danno -
Abusiva occupazione - Criteri.
Il risarcimento del danno per l'abusiva
occupazione di un'area oggetto di decreto
d'esproprio (già) annullato dal G.A., non
può essere commisurato all'indennità di
esproprio calcolato in base ai criteri di
cui all'art. 5-bis L. 08.08.1992 n. 359
-espunto dall'ordinamento a seguito della
sentenza Corte Cost. n. 348/07-, ma deve
essere calcolato con riferimento al valore
venale dell'area (nella specie
commisurandolo a un dodicesimo del valore di
mercato), anno per anno, con rivalutazione
monetaria ed interessi (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 21.07.2009 n.
4407 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
1.
Opere di interramento ferroviario -
Impugnazione decreto d'approvazione del
progetto - Dichiarazione di pubblica utilità
dell'opera - Tardività del ricorso - Non
sussiste.
2.
Opere di interramento ferroviario -
Impugnazione decreto d'approvazione del
progetto - Omessa comunicazione di avvio del
procedimento - Procedura ablatoria -
Comunicazione di avvio del procedimento ad
opera della concessionaria - Legittimità.
3.
Opere di interramento ferroviario -
Impugnazione dichiarazione di pubblica
utilità dell'opera - Dimensione ultra
Regionale del Servizio - Non sussiste -
Competenza della Regione - Sussiste.
4.
Opere di interramento ferroviario -
Procedura ablativa - Proroga dei termini per
il completamento delle opere - Proroga dei
termini dell'occupazione - Art. 20 L.
22.10.1971 n. 865 - Legittimità.
1. Sebbene la ricorrente sia stata avvisata
dell'approvazione del progetto di opere di
interramento ferroviario interessanti
terreni di sua proprietà, l'interesse ad
impugnare tale decreto, che approva il
progetto sul piano (meramente) tecnico, è
tuttavia sorto nel momento in cui è
sopraggiunta la dichiarazione di pubblica
utilità dell'opera, che ha apposto sulle
aree della ricorrente il vincolo preordinato
all'esproprio, arrecando la lesione che la
legittima all'impugnativa, pertanto il
ricorso interposo nei sessanta giorni
successici all'avviso di immissione in
possesso non risulta tardivo.
2. L'approvazione di un progetto sotto il
profilo meramente tecnico, che non abbia
valenza di dichiarazione di pubblica
utilità, non richiede comunicazione di avvio
del procedimento.
Tale comunicazione,
risulta al contrario necessaria ai fini
dell'avvio del procedimento finalizzato alla
dichiarazione di pubblica utilità
dell'opera, ma considerato la natura
dell'avviso (non provvedimentale) e la sua
funzione (rendere edotto il destinatario
dell'avvio di un procedimento potenzialmente
lesivo), risulta legittimo l'avviso
proveniente dal beneficiario
dell'espropriazione (nella specie il
concessionario dell'esercizio ferroviario)
ancorché diverso dall'Ente espropriante.
3. L'art. 8 d.lgs. 19.11.1997 n. 422 ha
delegato alla Regione funzioni e compiti di
programmazione e di amministrazione
inerenti, tra l'altro, alle ferrovie in
concessione a soggetti diversi dalle
Ferrovie dello Stato disponendo altresì il subingresso delle Regioni allo Stato, quali
concedenti di dette ferrovie, sulla base di
accordi di programma.
Di conseguenza, in
presenza di un accordo di programma che ha
assegnato alla Regione Lombardia le funzioni
inerenti il trasporto ferroviario
attualmente in concessione a Ferrovie Nord
Milano s.p.a., la Regione risulta pienamente
legittimata ad assumere il decreto di
pubblica utilità impugnato, tanto più che
l'opera di cui trattasi è localizzata nel
territorio lombardo e non è affatto
dimostrato che il servizio ferroviario in
questione superi il livello di interesse
regionale.
4. L'art. 20 Legge 22.10.1971 n. 865
(applicabile ratione temporis alla
procedura ablativa de quo) nel prevedere che
l'occupazione può essere protratta fino a
cinque anni dalla data di immissione in
possesso, non esclude la prorogabilità del
termine quando siano contestualmente
prorogati i termini per il completamento
delle opere e delle espropriazioni.
Pertanto, considerato che la ricorrente non
contesta le ragioni di pubblico interesse a
sostegno della proroga, essendo
l'occupazione d'urgenza strumentale al
completamento dei lavori e delle
espropriazione, la proroga dei termini
relativi ai lavori ed agli espropri è atta a
legittimare anche la proroga
dell'occupazione d'urgenza, giacché non
avrebbe senso differire il termine finale di
completamento dei lavori se non si potesse
prolungare l'occupazione (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza
21.07.2009 n.
4406 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
1. Condizioni di legittimità - Deve essere
utilizzato per il conseguimento
dell'interesse pubblico fissato con la
dichiarazione di pubblica utilità.
2. Retrocessione totale - Diritto soggettivo
alla restituzione del bene espropriato -
Sussiste - Giurisdizione del giudice
ordinario - Sussiste per carenza di potere autoritativo della P.A. inteso a evitare la
restituzione del bene.
1. Il provvedimento espropriativo è
autorizzato a sottrarre il bene al legittimo
proprietario, esclusivamente nella misura in
cui effettivamente il bene stesso sia
utilizzato per il conseguimento di
quell'interesse pubblico fissato con la
dichiarazione di pubblica utilità: al fuori
di tale schema il provvedimento è viziato,
non rispondendo ai principi ed ai valori
costituzionali della funzione sociale della
proprietà, nonché dell'uguaglianza
sostanziale e della solidarietà sociale.
2. Nell'ipotesi di retrocessione totale,
quando cioè il bene espropriato non sia
stato affatto utilizzato per l'opera
pubblica prevista nella dichiarazione di
pubblica utilità, o per la sostituzione di
quest'ultima con un'opera totalmente
differente da quella programmata, sussiste
un diritto soggettivo perfetto del
proprietario ad ottenere la restituzione del
bene (inutilmente) espropriato, tutelabile
come tale innanzi al giudice ordinario.
Né
tale orientamento giurisprudenziale sarebbe
superato per effetto delle pronunce della
Corte Costituzionale, n. 204/2004 e n.
191/2006: nelle ipotesi di retrocessione
totale del bene espropriato -a differenza di
quanto accade in quelle di retrocessione
parziale- non sussiste alcun potere autoritativo
che l'amministrazione pubblica possa
esercitare per evitare la restituzione del
bene (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza
16.07.2009 n.
4372 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
L’edificabilità di un’area, ai
fini dell’applicazione del criterio di
determinazione della base imponibile fondato
sul valore venale, dev’essere desunta dalla
qualificazione ad essa attribuita nel piano
regolatore generale adottato dal comune.
L’edificabilità di un’area, ai fini
dell’applicazione del criterio di
determinazione della base imponibile fondato
sul valore venale, dev’essere desunta dalla
qualificazione ad essa attribuita nel piano
regolatore generale adottato dal comune,
indipendentemente dall’approvazione dello
stesso da parte della regione e
dall’adozione di strumenti urbanistici
attuativi (Cass., Sez. Trib., 23.12.2008 n.
30129).
Il principio affermato trova puntuale
conferma sia in tema di definizione
dell’indennità di espropriazione, per la
quale l’edificabilità dell’area va desunta
dalle norme di p.r.g., anche in assenza di
piani attuativi (cfr. Cass., Sez. I,
22.01.2009 n. 1605), sia in campo
strettamente civilistico, nel quale è stato
riconosciuto l’errore essenziale sulla
qualità del bene ove l’adozione del piano
regolatore preveda per un’area una
destinazione di maggior pregio rispetto a
quella erroneamente supposta esistente al
momento della contrattazione (cfr. Cass.,
SS.UU., 01.07.1997 n. 5900) (TAR Toscana,
Sez. I,
sentenza 16.07.2009 n. 1289 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Occupazione temporanea e
d'urgenza - Inesatta o inesistente
liquidazione indennità - Legittimità
dell'occupazione - Permane.
La legittimità dell'occupazione di urgenza,
e in generale dei provvedimenti
espropriativi, non è inficiata dall'inesatta
o inesistente liquidazione della giusta
indennità, essendo l'emanazione dei predetti
atti ablatori completamente indipendente da
quest'ultima (cfr. Cons. di Stato, sent. n.
2797/2007) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza
25.06.2009 n.
4149 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
1. Procedimento - Avvio
espropriazione - Dichiarazione di pubblica
utilità - Conclusione - Pronuncia di
esproprio - Annullamento in sede
giurisdizionale della dichiarazione di
pubblica utilità - Conseguenze.
2. Pubblica utilità - Funzione - Nella
logica del contemperamento dell'interesse
pubblico e privato.
3. Occupazione senza titolo - Acquisitiva -
Posizione di diritto soggettivo - In capo al
privato - Non sussiste - Declaratoria in
sede di giurisdizione esclusiva - Non è
ammissibile.
4. Occupazione senza titolo - Acquisitiva -
Art. 43, D.P.R. n. 327/2001 - Valutazione
degli interessi in conflitto -
Interpretazione - Conseguenze.
1.
Il procedimento di espropriazione trova
origine nella dichiarazione di pubblica
utilità e si perpetua fino alla pronuncia di
esproprio, tanto che l'annullamento in sede
giurisdizionale della dichiarazione di
pubblica utilità (o degli atti nei quali
essa deve ritenersi contemplata in modo
implicito, quali le approvazioni di Piani)
comporti la automatica caducazione degli
effetti del decreto di esproprio nel
frattempo emesso, senza alcuna necessità o
onere di autonoma ed ulteriore impugnazione
(1).
---------------
(1) Cons. Stato, sez. IV, 19-03-2009 n.
1651; Cons. Stato, sez. IV, 29-01-2008 n.
258
2.
Nel contemperamento dei valori in gioco
sotteso alla procedura espropriativa (quello
pubblico al perseguimento degli interessi
collettivi e generali, quello della
solidarietà sociale e quello del
proprietario a non vedersi sottrarre un bene
da cui ha diritto di trarre ogni possibile e
lecita utilità), il ruolo rivestito dal
provvedimento di dichiarazione di pubblica
utilità -nella logica della legge
fondamentale 25.06.1865 n. 2359, rimasta
pressoché inalterata nel vigente Testo Unico
n. 327/2001- è quello di individuare il
concreto interesse pubblico da perseguire
(attraverso l'approvazione del progetto
dell'opera da realizzare) e destinare
definitivamente il bene del privato,
necessario per la realizzazione di
quell'opera, al soddisfacimento dei relativi
interessi generali, riconoscendo la
sussistenza di un nesso logico, oltreché
giuridico e teleologico, tra il bene
dichiarato di pubblica utilità ed il
provvedimento espropriativo, nel senso che
quest'ultimo è autorizzato a sottrarre il
bene al legittimo proprietario solo ed
esclusivamente nella misura in cui
effettivamente il bene stesso sia utilizzato
poi per il conseguimento dello specifico
interesse pubblico fissato con la
dichiarazione di pubblica utilità.
3.
L'istituto dell'"acquisizione sanante"
di cui all' art. 43, D.P.R. n. 327/2001, non
vede corrispondere al privato posizioni
giuridiche soggettive di diritto pieno, tali
da legittimare una corrispondente pronuncia
declaratoria in sede di giurisdizione
esclusiva da parte del G.A., ma solo
posizioni di interesse legittimo per le
quali non è consentita nella presente sede
un'azione di accertamento e conseguente
declaratoria (2).
------------------
(2) TAR Piemonte, sez. II, 24-03-2004 n.
483; Il Tribunale precisa, richiamando
precedenti giurisprudenziali, che
nell'attuale sistema processuale
amministrativo, non trova ingresso l'azione
di accertamento (e condanna) nelle ipotesi
in cui il soggetto ricorrente si trovi in
una posizione giuridica soggettiva di
interesse legittimo, poiché le aspettative
qualificate che in questo caso sono azionate
non derivano direttamente dalla legge, come
in presenza di un diritto soggettivo, ma
trovano la mediazione della valutazione
discrezionale della p.A. nell'esercizio di
un pubblico potere e dell'adozione del
conseguente provvedimento amministrativo che
-solo questo- può costituire oggetto del
sindacato giurisdizionale. Il Tribunale
inoltre, prosegue precisando che la
differenza tra posizioni soggettive di
diritto e di interesse legittimo sussiste
anche nell'ambito della giurisdizione
esclusiva, con conseguente applicabilità in
tale seconda ipotesi degli istituti
processuali relativi, tra cui quello della
esclusione della previsione dell'azione
diretta di accertamento e condanna. Nel caso
di specie, trattandosi di una domanda
fondata su una situazione di interesse
legittimo e non di diritto soggettivo, la
ricorrente non poteva proporre direttamente
una domanda di accertamento e condanna.
4.
La norma di cui all'art. 43, D.P.R. n.
327/2001, (laddove è detto che "valutati
gli interessi in conflitto, l'autorità che
utilizza un bene immobile per scopi di
interesse pubblico, modificato in assenza
del valido ed efficace provvedimento di
esproprio o dichiarativo della pubblica
utilità, può disporre che esso vada
acquisito al patrimonio indisponibile e che
al proprietario vadano risarciti i danni
richiede una valutazione discrezionale della
p.a."). L'obbligo di valutazione degli
interessi in conflitto, con primaria
ponderazione di quello pubblico a continuare
l'utilizzo del bene, e la mera possibilità
di dare luogo all'acquisizione -laddove la
norma usa l'espressione "può" e non
altre indicanti un vincolo all'adozione
quali, a mero titolo esemplificativo, "deve",
"dispone che venga acquisito"-
costituiscono indici per i quali la
corrispondente posizione del privato non si
configura come di diritto soggettivo ma di
mero interesse legittimo, con conseguente
inammissibilità di azioni di accertamento e
declaratorie (TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 18.06.2009 n. 1063 -
link a http://mondolegale.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Art. 17. c. 2, d.P.R. n. 327/2001 - Approvazione del
progetto definitivo - Comunicazione al
proprietario - Decorrenza del termine per
l’impugnazione.
L’art. 17, comma 2, d.P.R. n. 327/2001, con
riferimento al procedimento espropriativo,
così statuisce: “Mediante raccomandata
con avviso di ricevimento o altra forma di
comunicazione equipollente al proprietario è
data notizia della data in cui è diventato
efficace l'atto che ha approvato il progetto
definitivo e della facoltà di prendere
visione della relativa documentazione”.
Tale disposizione, nell’imporre
all’Amministrazione di notiziare il soggetto
espropriato in maniera da renderlo edotto di
quanto sopra esattamente indicato, assume
autonomo rilievo a fini processuali, in
quanto consente di individuare in maniera
oggettiva il dies a quo da cui decorre il
termine d'impugnazione per i soggetti
espropriati (v. TAR Liguria Genova, sez. I,
12.12.2008, n. 2101) (TAR Campania-Salerno,
Sez. I,
sentenza 15.05.2009 n. 2279 -
link a www.ambientediritto.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Retrocessione totale - Diritto soggettivo
perfetto - Tutelabilità innanzi al G.O.
L’istituto della retrocessione, assicura la
facoltà di reclamare la restituzione dei
beni quando l’opera pubblica, alla cui
realizzazione il bene era destinato, non è
stata realizzata ovvero non è più
realizzabile.
In caso di retrocessione totale il
proprietario è quindi titolare di un diritto
soggettivo perfetto, uno ius ad rem
di carattere potestativo di contenuto
patrimoniale, che gli consente di agire
dinanzi al giudice ordinario per chiedere la
pronunzia di decadenza della dichiarazione
di pubblica utilità e la restituzione dei
beni espropriati (TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 24.04.2009 n. 1254 -
link a www.ambientediritto.it). |
ESPROPRIAZIONE: 1.
Procedimento - Avvio espropriazione -
Approvazione del progetto - Mediante
conferenza di servizi - Disciplina prevista
dall'art. 11, co. 4, D.P.R. n. 327/2001 -
Partecipazione al procedimento.
2. Procedimento - Avvio espropriazione -
Modalità - Alternative alla comunicazione
individuale - Procedimento rivolto a
numerosi destinatari titolari di immobili in
diversi Comuni.
3. Procedimento - Avvio espropriazione -
Modalità - Alternative alla comunicazione
individuale - Individuazioni dei nominativi
dei proprietari e delle particelle catastali
interessate - Necessità - Sussistenza -
Deroga - Possibilità - Fattispecie -
Individuazione.
4. Procedimento - Avvio espropriazione -
Omissione - Efficacia invalidante - Se
l'interessato dimostri l'incidenza della sua
partecipazione sul provvedimento finale.
5. Procedimento - Avvio espropriazione -
Modalità - Alternative alla comunicazione
individuale - Pubblicazione dell'avviso su
un solo quotidiano - Condizione - Diffusione
non solo nazionale ma anche locale.
1.
Nel caso di Conferenze di servizi in materia
di lavori pubblici, l'art. 11 co. 4, D.P.R.
n. 327/2001 richiama, quali modalità della
pubblicità, le forme previste dal D.P.R. n.
554/1999 il cui art. 9 a sua volta, prevede
una pubblicità da effettuarsi "all'Albo
pretorio del Comune ovvero, nel caso di
amministrazione aggiudicatrici diverse dal
comune, utilizzando forme equivalenti di
pubblicità".
2.
Nel caso di procedure di espropriazione per
p.u., il ricorso alle forme di pubblicità
alternative alla comunicazione individuale
di avvio del procedimento trova
giustificazione nella circostanza derivante
dal coinvolgimento nella procedura esecutiva
di un rilevante numero di destinatari e di
un'apprensione coattiva di immobili siti in
diversi comuni.
3.
Anche se in linea generale lo strumento
pubblicitario quale forma alternativa alla
comunicazione individuale, per essere idoneo
allo scopo, deve menzionare partitamente
tutte le particelle catastali interessate
dal progetto di opera pubblica e i relativi
intestatari (ché solo in tale modo i
soggetti coinvolti sono messi in condizione
di conoscere che i propri terreni sono
interessati da una procedura ablatoria e di
poter prendere parte in tempo utile al
procedimento), deve ritenersi che, nel caso
di ampliamento di una strada preesistente
con localizzazione dei lavori di un'opera
pubblica già individuata a livello
legislativo nonché a livello di
pianificazione comunale con l'applicazione
della specifica disciplina sulle garanzie
partecipative all'interno dei relativi
procedimenti, sia sufficiente un avviso
privo dell'indicazione nominativa dei
proprietari catastali e delle particelle
interessate pubblicato su di un quotidiano a
diffusione nazionale ed affisso agli Albi
pretori dei Comuni interessati, dato che
tale avviso consente, sia pure per
relationem, di individuare i destinatari
finali del procedimento espropriativo.
4.
Anche in materia espropriativa, l'omesso
invio al privato proprietario della
comunicazione di avvio del procedimento per
la dichiarazione di pubblica utilità ha
efficacia invalidante solo allorché il
medesimo abbia assolto all'onere di
dimostrare che, se avesse avuto la
possibilità di partecipare al procedimento,
avrebbe potuto incidere sul contenuto del
provvedimento finale.
5.
Ai sensi dell'art. 11, D.P.R. n. 327/2001
(il quale prescrive che l'avviso di inizio
del procedimento espropriativo riguardante
un alto numero di soggetti interessati, è
pubblicato "su uno o più quotidiani a
diffusione nazionale e locale"), deve
ritenersi idoneo un avviso pubblicato su un
solo quotidiano purché la diffusione di
questo sia estesa (oltre che in campo
nazionale, anche) in ambito locale
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-ter,
sentenza 14.04.2009 n. 3789 - link a http://mondolegale.it). |
ESPROPRIAZIONE:
1.
Occupazione d'urgenza - Divenuta illegittima
- Determinazione valore area - Criterio.
2.
Occupazione d'urgenza - Divenuta illegittima
- Determinazione del risarcimento del danno
per l'occupazione illegittima -Criterio.
1. Poiché fino al decreto di acquisizione ex
art. 43 DPR 327/2001 titolare dell'area deve
ritenersi il legittimo proprietario,
ancorché privato della disponibilità della
stessa (cfr. Cons. di Stato, sent. nn.
2582/2007, 3752/2007, nonché Ad. Plen.
29.04.2005 n. 2/2005), il valore dell'area va
calcolato al momento dell'acquisizione,
mentre sul relativo importo vanno calcolati
gli interessi moratori, ai sensi della norma
citata, a decorrere dall'inizio della
occupazione illegittima.
2.
Per tutto il periodo di occupazione
illegittima va corrisposto, ex art. 50 DPR
327/2001, un risarcimento commisurato a un
dodicesimo del valore venale, anno per anno,
con rivalutazione monetaria ed interessi (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
26.03.2009 n. 1987 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Provvedimento
comunale di occupazione d'urgenza emanato
prima dell'approvazione del progetto di
variante regionale al PRG. Inefficacia fino
all'approvazione regionale.
La decisione della Giunta comunale di
procedere all'occupazione di immobili di
proprietà privata prima dell'approvazione
regionale del progetto di variante al PRG
comunale (consistente nel mutamento della
destinazione urbanistica di un'area da verde
pubblico a terziario commerciale per
consentire la realizzazione di un mercato)
implica che la materiale apprensione degli
immobili è condizionata all'esecutività
della variante regionale, cosicché solo con
la stessa è possibile dare attuazione al
procedimento ablatorio.
Ne consegue che gli effetti della delibera
comunale sono temporaneamente sospesi in
attesa che sia adottata e divenga esecutiva
l'approvazione conclusiva della Regione
(massima tratta da www.solom.it - TAR
Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza
12.03.2009 n. 1895). |
ESPROPRIAZIONE:
B.U.R. Lombardia, 1° suppl. ord. al n.
9 del 06.03.2009, "Norme regionali in
materia di espropriazione per pubblica
utilità"
(L.R.
04.03.2009 n. 3 - link
a www.infopoint.it). |
ESPROPRIAZIONE: 1.
Comunicazione di avvio del procedimento
espropriativo - Necessità anche in caso di
dichiarazione di pubblica utilità implicita;
2. Comunicazione di avvio del procedimento -
Comunicazione ex art. 8 l. 241/1990 -
Consentita solo ove vi sia un ingente numero
di proprietari espropriandi.
1.
Nella espropriazione per pubblica utilità
sussiste l'obbligo di previa comunicazione
di avvio del procedimento funzionale
all'approvazione del progetto di opera
pubblica, ai sensi dell'art. 7 della l.
241/1990. Tale obbligo sussiste anche in
caso di dichiarazione di pubblica utilità
implicita a norma dell'art. 1 della legge
03.01.1979 n. 1 in quanto l'avviso di avvio
del procedimento ha valenza generale,
essendo finalizzata a creare un
contraddittorio all'interno del procedimento
amministrativo (cfr. ex multis, Cons.
Stato, sez. IV, n. 4018/2004).
2.
In materia di espropriazioni per pubblica
utilità, il ricorso alle forme alternative
di comunicazione di avvio del procedimento
di cui all'art. 8 comma 3 della l. 241/1990
(cd. altre forme di pubblicità idonee) è
consentito solo qualora il numero dei
proprietari espropriandi sia di tale entità
da rendere particolarmente gravosa e quindi
certamente pregiudizievole per l'interesse
pubblico alla sollecita conclusione della
procedura la comunicazione personale
(massima tratta da www.solom.it - TAR
Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza
03.03.2009 n. 1727). |
ESPROPRIAZIONE:
1.
Acquisizione ex art. 43 D.P.R. 327/2001 -
Legittimazione - In capo al ricorrente - Non
sussiste - In capo alla P.A. - Sussiste.
2.
Acquisizione ex art. 43 D.P.R. 327/2001 -
Domanda ex art. 43 D.P.R. 327/2001 da parte
del ricorrente - Difetto assoluto di
giurisdizione.
3.
Occupazione d'urgenza - Divenuta illegittima
- In assenza di effetto traslativo della
proprietà - Abbandono dei terreni - Reimmissione del proprietario nel possesso -
Provvedimento di restituzione - Non
necessita.
4.
Occupazione d'urgenza - Divenuta illegittima
- Risarcimento - Giurisdizione A.G.O. -
Translatio iudicii - Conseguenze.
1. Ex art. 43 del D.P.R. 327/2001
l'acquisizione coattiva giudiziale può
essere chiesta non dal privato cui sia stata
sottratta la disponibilità del fondo senza
un valido titolo, ma - in via
riconvenzionale - dall'Amministrazione che
ne ha interesse o che utilizza il bene, a
fronte di una richiesta del privato di
restituzione del fondo o dell'impugnazione
del provvedimento di acquisizione coattiva.
2. La domanda del ricorrente di condanna
della P.A. all'emissione del provvedimento
di acquisizione coattiva giudiziale non ha
cittadinanza nel sistema del diritto vigente
e deve, pertanto, essere dichiarata
inammissibile per difetto assoluto di
giurisdizione.
3. Qualora il Comune abbandoni i fondi dallo
stesso occupati d'urgenza per la
realizzazione di opera pubblica - su di essi
mai realizzata - senza che si sia mai
verificato l'effetto traslativo di proprietà
dei fondi medesimi, il proprietario è
legittimato a reimmettersi nel possesso
degli stessi senza dover attendere alcun
provvedimento formale di restituzione.
4.
L'illegittimità della occupazione d'urgenza,
avvenuta oltre i tre mesi dal momento in cui
è stato emesso il decreto di occupazione,
genera una pretesa risarcitoria che non
appartiene alla giurisdizione del Giudice
Amministrativo, bensì a quella del Giudice
Ordinario (cfr. Cons. di Stato, sent. n.
102/2006): pertanto, la relativa domanda
risarcitoria deve essere rimessa al Giudice
Ordinario con pronuncia declinatoria di
giurisdizione ex art. 30 Legge 1034/1971,
restando salvi gli effetti sostanziali e
processuali della domanda (cfr. Corte
Costituzionale, sent. n. 77/2007), senza
indicazione del termine entro il quale
effettuare la riassunzione, termine che
dovrà essere assegnato dal Giudice
Ordinario, trattandosi di questione che
attiene al merito della pretesa che viene
azionata in giudizio (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 20.02.2009 n. 1329). |
ESPROPRIAZIONE:
1.
Istanza di retrocessione parziale di fondi -
Inclusione in un opera complessiva -
Utilizzo dell'area - Respinta.
2.
Occupazione illegittima - Non sussiste -
Occupazione acquisitiva - Risarcimento dei
danni - Prescrizione.
1. Quando l'opera pubblica realizzata, pur
comportando l'edificazione di una sola parte
dell'area comprende tutta l'area oggetto
dell'esproprio, come nel caso di specie di
un impianto sportivo, già affidato in
gestione ad una società sportiva, non può
ritenersi inutilizzato il fondo dei
ricorrenti, non ancora edificato, rientrante
in tale area. Pertanto va respinta la
domanda di retrocessione parziale dell'area
avanzata dai ricorrenti per mancanza del
presupposto del mancato utilizzo, nonché
dell'adozione del provvedimento di
inservibilità del bene espropriato.
2. Nel caso di procedimento espropriativo in
relazione al quale, pur non essendo stato
pronunciato il provvedimento finale, è stata
realizzata l'opera durante il periodo di
occupazione legittima, ovvero entro i cinque
anni dall'immissione in possesso in forza
del decreto di occupazione d'urgenza, e si è
verificata la irreversibile trasformazione
dei suoli (nel caso di specie individuata
con la consegna, nel 1990, dell'impianto
sportivo alla società di gestione), si
configura un'ipotesi di occupazione
acquisitiva dell'intera proprietà da parte
dell'Amministrazione e non di occupazione
illegittima; pertanto dovendosi applicare il
termine quinquennale decorrente dalla
scadenza dell'occupazione legittima o, se
successivo, dal momento della irreversibile
trasformazione del fondo, risulta, nel caso
di specie, prescritto il diritto al
risarcimento del danno. (massima
tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 23.01.2009 n. 196 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Sul
dies a quo di commissione dell’illecito in
caso di occupazioni sine titulo.
L'omissione dei
termini di inizio e fine dei lavori non
determina la nullità ma soltanto
l'annullabilità della dichiarazione di
pubblica utilità, il che ne impone
l’impugnazione nei termini decadenziali di
cui all’art. 21 della legge n. 1034/1971
(cfr. Cons. St., Ad. Plenaria, n. 4/2003 e,
più di recente, TAR Lazio, sez. II, n.
6377/2008).
Va altresì specificato che mentre la
distinzione tra occupazione appropriativa ed
usurpativa (quella realizzata in assenza di
una valida dichiarazione di pubblica
utilità) ha perso di significato sia con
riferimento alla giurisdizione (nel senso
che residuano al giudice ordinario le sole
ipotesi in cui ab origine manchi del tutto
una dichiarazione di pubblica utilità
dell’opera) che alla decorrenza del termine
di prescrizione trattandosi nei due casi di
un illecito permanente come affermato dalla
più recente giurisprudenza amministrativa
(aderendo alle argomentazioni svolte in più
occasioni dalla Corte Europea dei diritti
umani e dalle previsioni contenute nell’art.
43 del D.P.R. n. 327/2001 - di recente, cit.
Cons. St., sez. IV, 27.06.2007 n. 3752,
16.11.2007, n. 5830 e 30.11.2007, n. 6124),
l’unico elemento di differenziazione ancora
esistente riguarda invero l’individuazione
del dies a quo di commissione dell’illecito
posto che, in caso di occupazione
usurpativa, esso va fatto decorrere dal
momento dell’immissione in possesso da parte
dell’amministrazione mentre, in caso di
occupazione appropriativa, dalla scadenza
del termine di occupazione legittima del
terreno (ciò rileva al fine di individuare
il momento in cui misurare il valore venale
ai fini della quantificazione del
risarcimento del danno)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter,
sentenza 14.01.2009 n. 162 - link
a www.altalex.com). |
anno 2008 |
|
ESPROPRIAZIONE:
Quesito 2 -
Computo delle perdite aziendali
nell'indennità di esproprio
(Geometra Orobico n. 3/2008). |
URBANISTICA:
Sulla reiterazione dei vincoli
espropriativi.
L’atto di
reiterazione del vincolo preordinato
all’esproprio deve essere adeguatamente
giustificato sulla base di una idonea
istruttoria e di una adeguata motivazione,
da cui possano evincersi con chiarezza e
precisione non solo le finalità di interesse
pubblico che l’ente intende concretamente
perseguire ma anche la loro perdurante
attualità; attualità che, tuttavia, può
legittimamente evincersi dalle linee guida
che hanno ispirato l’attività pianificatoria.
Il Collegio ritiene che l’oggetto e
l’idoneità della motivazione di un
provvedimento di reiterazione di vincoli
espropriativi debbano essere correlati al
contenuto del provvedimento stesso, con la
conseguenza che l’Amministrazione
interessata è tenuta ad indicare
espressamente le ragioni che giustificano la
predetta reiterazione in riferimento alle
seguenti situazioni:
mancanza di aree più idonee della stessa
zona destinate ad uso pubblico;
perdurante conformità all’interesse pubblico
della originaria destinazione, alle esigenze
della collettività che richiedono la
realizzazione dell’opera ed alla prevalenza
delle stesse sull’interesse del privato
proprietario del bene.
Sicché, non inficia la legittimità del
provvedimento di reiterazione di un vincolo
espropriativo l’omessa previsione
dell’indennizzo
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.12.2008 n. 6605 -
link a www.altalex.com). |
ESPROPRIAZIONE: 1. Espropriazione per pubblica utilità -
Istanza di retrocessione di fondi -
Distinzione tra retrocessione parziale e
retrocessione totale - Qualificazione
dell'istanza come retrocessione parziale -
Giurisdizione del G.A. - Sussiste.
2. Espropriazione per pubblica utilità -
Istanza di retrocessione di fondi -
Distinzione tra retrocessione parziale e
retrocessione totale - Qualificazione
dell'istanza come retrocessione parziale -
Eccezione di prescrizione del diritto -
Interesse legittimo pretensivo - Rigetto.
3. Espropriazione per pubblica utilità -
Rigetto dell'istanza di retrocessione di
fondi - Diversa destinazione dei beni
espropriati - Non sussiste - Valutazione
discrezionale del persistente interesse
pubblico - Legittimità.
1. In considerazione della distinzione
delineata dalla L. 2359/1865 tra la
retrocessione totale di cui all'art. 63 e la
retrocessione parziale prevista dagli artt.
60 e 61, per verificare in concreto se
l'opera pubblica non è stata realizzata
oppure se è stata realizzata solo in parte
occorre considerare l'ampiezza della
dichiarazione di pubblica utilità e del
decreto di esproprio e verificare se almeno
una parte dei fondi espropriati sulla base
di essi hanno ricevuto la destinazione
pubblica prevista, con la conseguenza che
nel caso in cui tutte le aree espropriate ad
un soggetto siano rimaste inutilizzate, ma
l'espropriazione sia avvenuta sulla base di
un provvedimento ablativo che comprende aree
di diversi proprietari, una parte dei quali
è stata effettivamente interessata dalla
realizzazione dell'opera pubblica, si ha
retrocessione parziale. Così è avvenuto nel
caso di specie dovendosi pertanto
qualificare l'istanza presentata dalla parte
come retrocessione parziale, subordinata
all'adozione di un provvedimento di
inservibilità del bene, in relazione alla
quale sussiste la giurisdizione del G.A.
2. La qualificazione come retrocessione
parziale dell'istanza formulata dalla
ricorrente comporta il rigetto
dell'eccezione di prescrizione del diritto
sollevata dalla controinteressata per aver
richiesto la dichiarazione di inservibilità
del bene quando era ormai decorso il termine
prescrizionale, in quanto il diritto a
chiedere l'emanazione di un provvedimento di
inservibilità è, in realtà, un interesse
legittimo di tipo pretensivo all'esercizio
del potere pubblico e, pertanto, come tutti
gli interessi legittimi non è suscettibile
di prescrizione ma solo soggetto alla
decadenza.
3.
Premesso che nella retrocessione parziale
rispetto a beni non ancora utilizzati la
pubblica amministrazione esercita scelte
discrezionali circa la persistenza
dell'interesse pubblico all'utilizzo delle
aree già espropriate, nel caso in cui il
diniego dell'istanza di retrocessione sia
motivato dalla persistente necessità di
realizzare interventi di accessibilità
all'aeroporto e di compensazione ambientale
dello stesso, ovvero per intereventi non
diversi da quello di ampliamento
dell'aeroporto cha ha fondato la precedente
procedura ablativa, non si può ritenere che
i beni espropriati siano destinati a scopi
di pubblica utilità diversi da quelli per
cui è stata pronunciata l'espropriazione (massima
tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 23.12.2008 n.
6165 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Non
sussiste un obbligo, per la amministrazione
che procede alla realizzazione di un’opera
pubblica, di depositare, già al momento in
cui sottopone il progetto per la
approvazione definitiva e per la
dichiarazione di pubblica utilità, l’elenco
dei terreni soggetti ad occupazione
temporanea finalizzata alla corretta
esecuzione dei terreni.
Il piano particellare delle aree soggette ad
occupazione temporanea non è elemento
necessario per la valida approvazione del
progetto definitivo e non sussiste l’obbligo
di comunicare, ai proprietari delle aree
medesime, l’avvio del procedimento
finalizzato alla approvazione dell’opera
pubblica o la avvenuta approvazione del
progetto definitivo.
Allo stato attuale della legislazione, non
si può affermare che sussista un obbligo,
per la amministrazione che procede alla
realizzazione di un’opera pubblica, di
depositare, già al momento in cui sottopone
il progetto per la approvazione definitiva e
per la dichiarazione di pubblica utilità,
l’elenco dei terreni soggetti ad occupazione
temporanea finalizzata alla corretta
esecuzione dei terreni.
Infatti, l’art. 16 d.p.r. 327/2001 statuisce
che l’autorità espropriante, al fine di
promuovere la adozione della dichiarazione
di pubblica utilità, deve depositare, oltre
agli elaborati progettuali, tutti gli atti
utili e necessari a descrivere la natura e
lo scopo delle opere da eseguire e “in
ogni caso lo schema dell’atto di
approvazione del progetto deve richiamare
gli elaborati contenenti la descrizione dei
terreni e degli edifici di cui é prevista
l’espropriazione, con l’indicazione
dell’estensione e dei confini, nonché
possibilmente dei dati identificativi
catastali e con il nome e cognome dei
proprietari iscritti nei registri catastali”
(art. 16 comma 2 d.p.r. 327/2001). Dalla
norma citata si evince, dunque, che solo
relativamente alle aree soggette a esproprio
vi é l’obbligo di depositare l’elencazione
dei terreni.
Tale impostazione trova conferma nell’art.
l’art. 13 dell’allegato tecnico al codice
dei contratti pubblici, approvato con D.
L.vo 163/2006, il quale statuisce oggi, a
differenza dell’art. 33 D.P.R. 554/1999, che
“1. Il piano particellare degli espropri,
degli asservimenti e delle interferenze con
i servizi é redatto in base alle mappe
catastali aggiornate, e comprende anche le
espropriazioni e gli asservimenti necessari
per gli attraversamenti e le deviazioni di
strade e corsi d’acqua e le altre
interferenze che richiedono espropriazioni.
2…….3. Il piano é corredato dall’elenco
delle ditte che in catasto risultano
proprietarie dell’immobile da espropriare e
asservire, ed é corredato dalla indicazione
di tutti i dati castali nonché delle
superfici interessate”. Come si vede,
dalla norma confluita nell’allegato tecnico
al codice dei contratti pubblici, é stato
espunto ogni riferimento alle aree soggette
ad occupazione temporanea.
Si evidenzia, dunque, una chiara tendenza
del legislatore ad alleggerire gli oneri a
carico delle autorità esproprianti, tra
l’altro anche mediante il venir meno degli
obblighi correlati alla immediata
individuazione delle c.d. aree di cantiere.
Tale considerazione conferma che l’art. 16
d.p.r. 327/01 deve essere letto esattamente
nel senso che impone, al fine della
approvazione del progetto definitivo, solo
il deposito del piano particellare delle
aree ad espropriare, e non anche delle aree
soggette ad occupazione temporanea.
Allo stesso modo gli artt. 16 e 17 d.p.r.
327/01 prevedono l’obbligo di dare
comunicazione, rispettivamente dell’avvio
del procedimento e della avvenuta
approvazione del progetto definitivo, al “proprietario
dell’area ove é prevista la realizzazione
dell’opera”, locuzione questa che può
ragionevolmente riferirsi solo al
proprietario di aree da espropriare: ciò si
desume chiaramente dagli artt. 16 comma 11 e
17 comma 3, i quali sottendono entrambi la
qualità di soggetto ad espropriazione nel
“proprietario dell’area “: nel primo caso,
infatti, la norma facoltizza tale soggetto a
“chiedere che l’espropriazione riguardi
anche le frazioni residue dei suoi beni”,
mentre nel secondo caso gli conferisce la
possibilità di interloquire sul valore
dell’area ai fini della determinazione della
indennità di esproprio.
Si deve pertanto ritenere che il piano
particellare delle aree soggette ad
occupazione temporanea non sia elemento
necessario per la valida approvazione del
progetto definitivo e che, correlativamente
non sussista l’obbligo di comunicare, ai
proprietari delle aree medesime, l’avvio del
procedimento finalizzato alla approvazione
dell’opera pubblica o la avvenuta
approvazione del progetto definitivo.
Peraltro, l’art. 49 d.p.r. 327/2001
statuisce che l’autorità espropriante può
disporre l’occupazione temporanea di aree
non soggette al procedimento espropriativo “se
ciò risulta necessario per la corretta
esecuzione dei lavori previsti”.
La norma limita quindi la discrezionalità
della amministrazione procedente, statuendo
che alla occupazione temporanea di aree si
possa far luogo solo in caso di bisogno
effettivo della cui ricorrenza
l’Amministrazione procedente deve
evidentemente –onde evitare che la
disposizione in esame venga sistematicamente
disapplicata- dare conto nella motivazione
del provvedimento che dispone la occupazione
temporanea. Si noti che l’art. 49, comma 1,
d.p.r. 327/2001 legittima l’occupazione
temporanea non in relazione ad una necessità
qualsiasi, ma solo in relazione alla
necessità di eseguire correttamente le
opere. Si deve quindi ritenere, ad esempio,
che un’area privata possa essere occupata
temporaneamente per la necessità di
collocarvi ponteggi o altri macchinari
necessari per dar corso a opere collocate in
prossimità del confine, ma non anche per
disporre, in prossimità di un cantiere, di
un deposito di materiali facilmente
trasportabili. L’Amministrazione, in altre
parole, deve organizzare i cantieri in modo
da non arrecare alcun disturbo quantomeno a
chi non sia soggetto ad espropriazione, e
quindi il decreto che dispone l’occupazione
temporanea deve essere motivato
specificamente a dimostrazione della
sussistenza delle ragioni che la
legittimano.
Va preliminarmente rilevato che
l’occupazione temporanea priva il
proprietario, sia pur transitoriamente, del
godimento dell’area, e quindi incide
fortemente nella di lui sfera giuridica. E’
quindi essenziale, onde assicurare un
effettivo ed equo contemperamento tra
l’interesse pubblico e quello del privato
che deve subìre l’occupazione temporanea,
che tale indennizzo venga offerto, e quindi
quantificato, contestualmente al decreto che
dispone l’occupazione temporanea, allo
stesso modo in cui l’indennità di esproprio
deve essere offerta e quantificata con il
decreto che dispone l’espropriazione o
l’occupazione anticipata preordinata
all’esproprio: in altre parole, il privato
ha diritto a conoscere da subito l’esatto
ammontare che gli viene offerto a titolo di
indennizzo, onde essere messo in grado di
valutare quali azioni intraprendere a tutela
dei propri diritti (TAR Puglia-Bari, Sez.
III,
sentenza 17.12.2008 n. 2891 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: P.
Carpentieri,
Edilizia ed espropriazione: novità e
criticità - L’espropriazione dei beni
culturali (con particolare riferimento ai
parchi archeologici)
(link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: F.
Delfino,
L’ESPROPRIAZIONE PER LA REALIZZAZIONE DI
OPERE DESTINATE ALLA DIFESA MILITARE
(link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: G.
Abbamonte,
L'evoluzione della disciplina in materia di
edilizia ed espropriazione e le principali
problematiche giurisprudenziali
(link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Procedimento
- Apposizione del vincolo urbanistico -
Presupposto imprescindibile.
Relativamente al progetto preliminare e
quello definitivo (contenente dichiarazione
di p.u.) per la realizzazione di una pista
ciclabile il cui tracciato interessava anche
l'area di proprietà del ricorrente, il
Collegio ritiene fondato ed assorbente il
primo motivo di ricorso: a norma dell'art. 8
del D.P.R. 327/2001 il procedimento di
espropriazione per p.u. deve avere inizio
con la apposizione del vincolo urbanistico a
tal fin preordinato, il quale costituisce
presupposto imprescindibile affinché l'area
possa essere espropriata (massima
tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
III,
sentenza
19.11.2008 n.
5453 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: D.
Argenio,
Espropriazione per pubblica utilità: procedura per decreto e
procedure per atto di acquisizione coattiva sanante
(07.11.2008 - link a www.dirittoelegge.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Sulla motivazione
necessaria circa la reiterazione di un
vincolo espropriativo.
In merito alla idoneità della motivazione
esposta dal Comune a fondamento della
propria scelta di reiterare un vincolo
espropriativo decaduto si osserva
preliminarmente che l’obbligo di motivazione
non viene meno per la parziale difformità
dell’opera pubblica prevista nel PRG del
2005 rispetto alla localizzazione originaria
del PRG del 1983. La prospettiva da cui
viene osservata la situazione è quella del
proprietario che in conseguenza del vincolo
subisce una limitazione all’esercizio dei
suoi diritti (nel caso in esame il vincolo
non compromette l’uso agricolo ma rende
impossibili le edificazioni in zona agricola
consentite prima dalla LR 07.06.1980 n. 93 e
ora dagli art. 59-60 della LR 11.03.2005 n.
12). Sotto questo profilo è irrilevante che
il vincolo originariamente posto per
un’opera sia reiterato per un’opera diversa
e, a maggior ragione, sono irrilevanti le
modifiche introdotte nel tempo alla stessa
opera, sia che riguardino le modalità
realizzative sia che interessino la
localizzazione. Diversamente sarebbe
sufficiente reiterare il vincolo con qualche
variazione per qualificare sempre la
fattispecie come prima previsione ed eludere
l’obbligo di motivazione. Circa il contenuto
della motivazione si richiama l’orientamento
giurisprudenziale che, graduando tale
obbligo, lo aggrava nel caso in cui la
reiterazione del vincolo riguardi una
singola opera pubblica o incida su un
proprietario particolare, nonché nel caso di
aspettative consolidate in precedenti atti
amministrativi o convenzioni urbanistiche, e
considera invece sufficiente nelle altre
ipotesi l’illustrazione della persistenza
dell'interesse pubblico (v. CS AP 24.05.2007
n. 7; CS Sez. IV 08.06.2007 n. 2999).
La reiterazione di un vincolo espropriativo
senza previsione di un’indennità commisurata
all'entità del danno effettivo non determina
l’illegittimità della disciplina urbanistica
(v. CS AP 24.05.2007 n. 7). Il diritto a
ottenere un ristoro dall’amministrazione si
colloca su un piano distinto da quello
urbanistico e sorge ex lege con
l’approvazione dell’atto di reiterazione del
vincolo. Le questioni relative all’inerzia
dell’amministrazione nella quantificazione
dell’indennità appartengono al giudice
ordinario ex art. 39 comma 4 del DPR
327/2001 (TAR Lombardia-Brescia,
sentenza 16.09.2008 n. 1041 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Espropriazione
illegittima, impossibilità della
restituzione del bene e conseguenze.
In materia
espropriativi, l’amministrazione interessata
o chi utilizza il bene può paralizzare le
eventuali conseguenze ripristinatorie
discendenti dalla favorevole impugnativa di
qualsiasi azione restitutoria del bene
utilizzato per scopi di interesse pubblico.
L’amministrazione può cioè chiedere in
giudizio che il giudice amministrativo, nel
caso di fondatezza del ricorso o della
domanda di impugnazione, disponga la
condanna al risarcimento del danno, con
esclusione della restituzione, senza limiti
di tempo.
Effettivamente, con tale norma, il giudice
amministrativo si trova investito del potere
di ricercare l’equilibrio fra contrapposti
interessi, valutandpo se la restaurazione in
forma reale, pur possibile materialmente e
giuridicamente, non sia eccessivamente
onerosa per il danneggiante obbligato
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 03.09.2008 n. 4112 - link
a www.altalex.com). |
ESPROPRIAZIONE:
V. Montaruli,
I riflessi sul contenzioso espropriativo
delle sentenze della Corte Costituzionale
nr. 348 e 349 del 2007 (link a
www.diritto.it). |
ESPROPRIAZIONE:
S. Marziali,
Il piano
particellare di esproprio (link a www.noccioli.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Al privato proprietario di un’area destinata all’espropriazione,
siccome interessata dalla realizzazione di un’opera pubblica, dev’essere
garantita, mediante la formale comunicazione dell’avviso di avvio del
procedimento, la possibilità di interloquire con l’amministrazione
procedente sulla sua localizzazione.
Com’è noto, un indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato (cfr. Ad.
Plen. 20.12.2002, n. 8; 24.01.2000, n. 2; 15.09.1999, n. 14), dal quale
non si ravvisano ragioni per discostarsi, ha affermato il principio,
generale ed inderogabile, per cui al privato proprietario di un’area
destinata all’espropriazione, siccome interessata dalla realizzazione di
un’opera pubblica, dev’essere garantita, mediante la formale
comunicazione dell’avviso di avvio del procedimento, la possibilità di
interloquire con l’amministrazione procedente sulla sua localizzazione
e, quindi, sull’apposizione del vincolo, prima della dichiarazione di
pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza e, quindi,
dell’approvazione del progetto definitivo.
In coerenza con tale canone di condotta, che vincola tutte le
amministrazioni e che, come tale, non soffre eccezioni (se non espresse
da disposizioni speciali che esonerano esplicitamente l’amministrazione
dal relativo adempimento procedurale), ed in conformità al parametro di
giudizio che ne costituisce immediato corollario, si deve, allora,
rilevare che, nella fattispecie in esame, anche a causa di una
confusione procedimentale che non consente una rigorosa distinzione dei
diversi segmenti che, di norma, integrano la procedura di approvazione
di un’opera pubblica, all’Azienda Agricola, proprietaria del terreno
interessato dalla realizzazione dell’opera, non è stato consentito di
interloquire, in tempo utile, con le amministrazioni procedenti in
merito alla localizzazione dell’intervento ed all’apposizione del
vincolo preordinato all’esproprio.
Per quanto confusa e contraddittoria sia stata la gestione del
procedimento (non risultando chiara, in particolare, l’evoluzione delle
elaborazioni progettuali), la localizzazione dell’opera, unitamente
all’apposizione del relativo vincolo ablatorio, è stata deliberata,
seppur con il peculiare strumento dell’intesa Stato–Regione, in mancanza
della previa notifica all’Azienda Agricola della prescritta informativa
sulla dichiarazione della pubblica utilità dell’opera, con conseguente
violazione del pertinente obbligo di comunicazione.
E non serve, da ultimo, invocare come esimente dal dovere in questione
il disposto dell’art. 13, comma 1, della legge 07.08.1990, n. 241, in
quanto quest’ultima norma si riferisce ai soli atti a contenuto
generale, mentre l’intesa tra lo Stato e la Regione sulla localizzazione
di un’opera di interesse statale non consiste in un documento di
pianificazione territoriale, ma produce l’effetto puntuale e specifico
dell’individuazione dell’ubicazione dell’intervento (oltre a valere come
dichiarazione di pubblica utilità) e si rivela, come tale, idonea ad
incidere, in maniera immedia-ta, sugli interessi dei soggetti
proprietari del terreno interessato dalla sua realizzazione, con le
evidenti implicazioni sulla partecipazione di questi al relativo
procedimento (giudicata, da ultimo, necessaria da Cons. St., sez. IV,
16.05.2006, n. 2773).
I rilievi appena svolti comportano, quale immediato corollario,
l’assoluta inidoneità della comunicazione indicata dalle Amministrazioni
appellate come satisfattiva dell’interesse partecipativo asseritamente
violato, ad integrare gli estremi dell’instaurazione tempestiva di quel
contraddittorio procedimentale utile ed effettivo in merito alle
determinazioni pertinenti alla localizzazione dell’opera ed alla
costituzione del vincolo espropriativo che, solo, consente di giudicare
adempiuto l’obbligo prescritto dall’art. 7 l. n. 241/1990
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 29.07.2008 n. 3760 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
1.
Vincoli finalizzati all'esproprio -
Reiterazione - Motivazione in ordine
all'attualità dell'interesse pubblico da
soddisfare - Adempimento dell'obbligo di
motivazione dei provvedimenti - Sussiste.
2. Vincoli
finalizzati all'esproprio - Reiterazione -
Diritto all'indennizzo - Giurisdizione A.G.O. - Sussistenza.
1. L'obbligo di motivare i provvedimenti di
reiterazione di vincoli preordinati
all'esproprio deve ritenersi assolto con
l'indicazione di una motivazione in ordine
all'attualità dell'interesse pubblico da
soddisfare.
2. Anche prima del D.P.R. 327/2001, le
controversie concernenti il riconoscimento
del diritto all'indennizzo per reiterazione
di vincoli di inedificabilità
sostanzialmente espropriativi, doveva essere
proposta innanzi all'autorità giudiziaria
ordinaria in base alla previsione dell'art
34, comma 3, lett. b), del d.lg. n. 80 del
1998
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 09.06.2008 n.
1950 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
1.
Vincoli finalizzati all'esproprio -
Decadenza - Inerzia dell'Amministrazione -
Risarcimento del danno -Diritto - Non
sussiste.
2.
Vincoli finalizzati all'esproprio -
Decadenza - Inerzia dell'Amministrazione -
Intervento del privato - Pronuncia che
accerta l'inadempimento dell'Amministrazione
- Risarcimento del danno -Diritto -
Sussiste.
1. La mera scadenza del vincolo
espropriativi, in difetto di provvedimenti
di reiterazione del vincolo, determina
l'obbligo per l'amministrazione comunale di
procedere alla nuova zonizzazione delle
aree. La violazione di tale obbligo non
genera, tuttavia, un danno risarcibile per
il privato, ma determina solamente la
nascita di un mero interesse procedimentale
ad ottenere la zonizzazione delle aree,
gravando in capo al privato l'onere di
reagire a tale inerzia, attivando i rimedi
amministrativi e giurisdizionali che
l'ordinamento prevede per superare il
comportamento inerte.
2. Nell'ipotesi in cui la P.A. continua a
rimanere inerte anche dopo che il privato si
è attivato ed ha ottenuto dal giudice
amministrativo una pronuncia che ha
accertato l'illegittimità del diniego
opposto dalla P.A. alla richiesta di
effettuare la zonizzazione o il suo
silenzio, matura il diritto del proprietario
dei terreni al risarcimento del danno che
gli deriva dall'ulteriore ritardo da parte
del Comune nell'assolvimento dell'obbligo
amministrativo (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 05.06.2008 n.
1929). |
ESPROPRIAZIONE:
1. Giurisdizione e competenza -
Espropriazione per pubblica utilità -
Annullamento procedure ablative -
Conseguenze - Occupazione sine titulo -
Risarcimento danno - Giurisdizione G.A. -
Sussiste.
2. Espropriazione per pubblica utilità -
Fattispecie di occupazione sine titulo
sussistenti alla data di entrata in vigore
del D.P.R. n. 327/2001 - Art. 57 D.P.R. n.
327/2001 - Fasi fisiologiche del
procedimento espropriativo - Applicazione -
Art. 43 D.P.R. n. 327/2001 - Fasi
patologiche del procedimento espropriativo -
Applicazione.
3. Espropriazione per pubblica utilità -
Occupazioni d'urgenza - In assenza di
dichiarazione di pubblica utilità o con
decreto di esproprio ritenuto illegittimo -
Risarcimento danno - Spetta - Rimborso
valore venale - Spetta - Interessi moratori
- Spettano.
1. Compete al Giudice Amministrativo la
tutela risarcitoria correlata
all'annullamento delle procedure ablative
che abbia reso sine titulo l'occupazione dei
fondi utilizzati nell'esecuzione dell'opera
pubblica.
2. L'art. 57 D.P.R. 327/2001, riferendosi ai
«procedimenti in corso», ha previsto norme
transitorie unicamente per individuare
l'ambito di applicazione della riforma in
relazione alle diverse fasi "fisiologiche"
del procedimento, senza limitare, neanche
per implicito, l'ambito di applicazione
dell'art. 43, che, operando in situazioni
"patologiche" (scadenza del termine entro il
quale poteva essere emesso il decreto di
esproprio; annullamento di un atto del
procedimento ablatorio), è opposto a quello
delle norme che riguardano i «procedimenti
in corso». In altri termini, l'atto di
acquisizione - in quanto emesso ab externo
del procedimento espropriativo - non rientra
nell'ambito di operatività della normativa
transitoria di cui all'art. 57 (cfr. Cons.
di Stato, sent. n. 2582/2007).
3. In caso di decreto di occupazione
illegittimo, in base al quale sia stata
definitivamente sottratto un terreno, al
ricorrente spetta ex art. 43, comma 6, t.u.
327/2001, sia il risarcimento del danno
relativo al periodo di occupazione senza
titolo, sia l'importo corrispondente al
valore venale, con gli interessi moratori a
decorrere dal giorno in cui il terreno sia
stato occupato senza titolo (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza
05.05.2008 n.
1288
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: E.
Trabucchi,
Corte Europea dei Diritti dell'Uomo: l'espropriazione isolata non può
giustificare un'indennità inferiore al valore di mercato del bene ablato
- Nota a Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, sentenza 10.06.2008
(link a www.filodiritto.com). |
ESPROPRIAZIONE: C.
Taglienti,
OCCUPAZIONE D’URGENZA PREORDINATA
ALL’ESPROPRIO
(link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: L.
Marzano,
Incostituzionalità della legge-provvedimento
che si traduca in una reiterazione non
procedimentalizzata dei vincoli
espropriativi (nota a Corte Cost., sentenza
20.07.2007, n. 314)
(link a www.lexitalia.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Occupazione appropriativa, illegittimità, conseguenze, danni,
sussistenza.
In caso di occupazione appropriativa,
l’espropriato ha diritto ad un ristoro economico corrispondente al
valore venale del bene con gli accessori peculiari delle obbligazioni
valore (Corte di
Cassazione, Sez. I civile,
sentenza
23.04.2008 n. 10560
- link a www.altalex.com). |
ESPROPRIAZIONE:
Provvedimenti di reiterazione di
vincoli preordinati all'esproprio -
Motivazione in ordine all'attualità
dell'interesse pubblico da soddisfare -
Adempimento dell'obbligo di motivazione dei
provvedimenti - Sussiste.
L'obbligo di motivare i provvedimenti di
reiterazione di vincoli preordinati
all'esproprio deve ritenersi assolto con
l'indicazione di una motivazione in ordine
all'attualità dell'interesse pubblico da
soddisfare (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza
18.04.2008 n.
1227
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Occupazione
appropriativa - Nuovi criteri risarcitori - L. 24/12/2007, n. 244 (legge
finanziaria 2008) - Calcolo - Giudizi in corso - Applicazione.
L'art. 2, comma 89, lett. e) legge 24.12.2007, n. 244 (legge finanziaria
2008) il quale, colmando il vuoto normativo conseguente alla pronuncia
di illegittimità costituzionale (sentenza n. 349 del 2007) dell'art.
5-bis, comma 7-bis, d.l. n. 333 del 1992, convertito con modificazioni,
dalla legge n. 359 del 1992, ha modificato l'art. 55 d.P.R. n. 327 del
2001 disponendo che nel caso di utilizzazione di un suolo edificabile
per scopi di pubblica utilità, in assenza del valido ed efficace
provvedimento di esproprio alla data del 30.09.1996, il risarcimento del
danno è liquidato in misura pari al valore venale del bene. La norma è
applicabile nei giudizi in corso in cui sia ancora in discussione il
"quantum" del risarcimento e che quest'ultimo non può superare in nessun
caso il valore che il proprietario trarrebbe dall'immobile se decidesse
di porlo sul mercato con la destinazione stabilita dallo strumento
urbanistico, dovendosi escludere rilevanza ad altre destinazioni di
fatto impresse dal proprietario (Corte di Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 31.03.2008 n. 8384
- link a www.ambientediritto.it). |
LAVORI PUBBLICI: Accessione
invertita, legittimità accessione orizzontale, legittimità.
L’accessione invertita riguarda
l’occupazione orizzontale di parte del suolo del vicino, ma non il caso
di edificazione avvenuta al di sotto del suolo altrui e, quindi, di
occupazione verticale del medesimo, che è fuori della previsione
legislativa.
La buona fede rilevante ai fini dell'accessione invertita, comunque,
consiste nel ragionevole convincimento del costruttore di edificare sul
proprio suolo e di non commettere alcuna usurpazione in danno del
vicino, sicché la mancata opposizione di costui non vale a dimostrare lo
stato soggettivo di buona fede dell'occupante, che deve, invece,
riguardare le condizioni in cui il costruttore si è trovato ad operare,
sì da generare il convincimento di esercitare un suo preteso diritto
(Corte di
Cassazione, Sez. II civile,
sentenza
27.02.2008 n. 5133
- link a www.altalex.com). |
ESPROPRIAZIONE:
Dichiarazione di pubblica utilità - Divenuta inefficace -
Rilevanza - Ai fini dell'individuazione della giurisdizione -
Giurisdizione G.A. - Sussistenza - Occupazione acquisitiva -
Inammissibilità - Formale provvedimento di acquisizione - Necessità.
La presenza di un atto di dichiarazione di pubblica utilità poi divenuto
inefficace rileva soltanto ai fini dell'individuazione della
giurisdizione amministrativa, in quanto i comportamenti di
impossessamento del bene altrui collegati all'esercizio, anche se
illegittimo, di un pubblico potere devono a loro volta essere presi in
considerazione come manifestazioni di una funzione pubblica. Non è
invece possibile qualificare la dichiarazione di pubblica utilità
divenuta inefficace come un elemento che congiuntamente
all'irreversibile trasformazione del bene dà origine a un'ipotesi
ablatoria atipica, in quanto la perdita della proprietà può derivare
solo dal giusto procedimento espropriativo nel rispetto delle garanzie
previste dalla legge. Anche dopo la realizzazione dell'opera pubblica la
proprietà del bene rimane quindi all'originario titolare finché non sia
adottato un formale provvedimento di acquisizione (ora disciplinato
dall'art. 43 DPR 327/2001) con l'annessa liquidazione del risarcimento
del danno. Trattandosi di uno strumento che regolarizza dall'esterno la
procedura espropriativa e soddisfa le pretese risarcitorie dei privati
in conformità a principi presenti da tempo nel diritto comune europeo,
il provvedimento di acquisizione è utilizzabile indipendentemente dal
confine temporale stabilito dall'art. 57 del DPR 327/2001.
L'utilizzazione del fondo altrui ha natura di illecito permanente e
quindi non consente il decorso del termine di prescrizione quinquennale
del diritto al risarcimento (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Brescia,
sentenza 22.02.2008 n.
140
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: ESPROPRIAZIONE
per pubblica utilità - Computo
nell'indennità delle perdite aziendali -
Esclusione - Fattispecie.
L'indennità di espropriazione non può
superare in nessun caso il valore
determinabile con l'applicazione del
criterio legale previsto dalla normativa,
per cui non può incidere il reale
pregiudizio che il proprietario od altro
titolare di minore diritto di godimento
risentono come effetto dal non potere
ulteriormente svolgere mediante l'uso dello
stesso immobile la precedente attività. Di
conseguenza, ove risulti impedito sul luogo
l'ulteriore svolgimento dell'impresa che
utilizzava gli immobili per fornire i propri
servizi, l'espropriazione non si estende al
diritto dell'imprenditore su di essi, né
all'azienda organizzata dall'imprenditore,
sì che il valore del bene espropriato debba
comprendere quello dell'azienda in sé
considerata, quale complesso funzionale
organizzato, risultante da una pluralità di
elementi. Nel caso di specie (relativo
all’espropriazione di terreno destinato a
parcheggio a servizio di struttura
alberghiera) le perdite aziendali lamentate
dall'espropriato non sono suscettibili di
indennizzo, ed è sufficiente a compensare la
perdita subita l'applicazione del criterio
legale previsto nel caso di espropriazione
parziale (nella specie disciplinata
dall'art. 15-bis legge prov. Trento
19.02.1993, n. 63, riproduttiva dell'art. 40
legge 25.06.1865, n. 2359), assumendo le
perdite aziendali rilevanza autonoma
rispetto alla perdita dominicale solo nella
diversa ipotesi di espropriazione di azienda
agricola (art. 16 legge 22.10.1971, n. 865).
ESPROPRIAZIONE - Opposizione alla
stima - Criterio di determinazione
indennitaria - Limite della reformatio in
peius - Art. 19 L. n. 865/1971.
Nel giudizio di opposizione alla stima, di
cui al l'art. 19 della legge 22.10.1971, n.
865, la qualificazione del fondo e
l'adozione del criterio di determinazione
indennitaria attiene all'attività di
applicazione delle norme, alla quale si
associa l'attività difensiva delle parti, di
modo che non può ravvisarsi preclusione
alcuna tanto ad una definizione, da parte
del giudice, dell'oggetto espropriato in
discordanza con la stima amministrativa o
con le indicazioni delle parti (con l'unico
limite del divieto di reformatio in peius
della posizione dell'opponente (Cass. n.
12966/2004).
ESPROPRIAZIONE - Mancanza
dell’identità del proprietario -
Espropriazione parziale - Esclusione -
Criterio della stima differenziale -
Fattispecie.
Quando manca il presupposto dell'identità
del proprietario non è ravvisabile neanche
l’ipotesi di espropriazione parziale (Cass.
27.08.2004 n. 17112). Nella specie, non è
applicabile il criterio della stima
differenziale, riguardo ad una particella
appartenente a soggetto diverso dal
proprietario del terreno sui cui insiste
l'azienda (alberghiera).
ESPROPRIAZIONE - Pertinenza -
Qualificazione - Natura.
Anche se per definizione, la pertinenza è
posta a servizio del bene principale,
assume, sotto il profilo indennitario, una
sua autonomia, nel senso che di essa deve
qualificarsene la natura urbanistica (suolo
edificabile o agricolo), che però non potrà
mai essere assimilata a quella dell'area
(edificata) cui pertiene (Cass. 14.01.2008,
n. 599; 28.11.2007, n. 24703) (Corte di
Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 31.01.2008 n. 2424
- link a www.ambientediritto.it). |
ESPROPRIAZIONE: V.
Mazzarelli,
IL VALORE DELL’INDENNITÀ DI ESPROPRIO
(link a www.pausania.it). |
ESPROPRIAZIONE: 1.
Occupazioni temporanea e d'urgenza -
Occupazione acquisitiva - Domanda di
risarcimento del danno - In assenza di atto
formale di acquisizione del bene - Non
spetta - Restituzione del bene - Spetta.
2. Occupazione temporanea e d'urgenza -
Occupazione acquisitiva - Domanda di
risarcimento del danno - Periodo successivo
a quello dell'occupazione legittima -
Spetta.
3. Occupazioni temporanee e d'urgenza -
Occupazione acquisitiva - Art. 43 D.P.R.
337/2001 - Applicabilità - Tutti i casi di
occupazione sine titulo.
1. Nell'ipotesi di occupazione
acquisitiva, in mancanza dell'adozione da
parte della P.A. di un provvedimento di
acquisizione sanante ex art. 43 del d.P.R.
n. 327/2001, la domanda di risarcimento dei
danni non può trovare accoglimento, ma è
invece necessario condannare la P.A. alla
restituzione dell'area, anche se essa sia
ormai irreversibilmente trasformata. La
trasformazione irreversibile del fondo con
la realizzazione dell'opera pubblica è un
fatto, e tale resta, quindi non può di per
sé costituire impedimento alla restituzione
del bene; mentre la perdita della proprietà
da parte del privato e l'acquisto della
stessa in capo alla P.A. possono conseguire
unicamente all'emanazione di un
provvedimento formale, nel rispetto del
principio di legalità e di preminenza del
diritto (cfr. Cons. di St., Ad. Pl., sent.
n. 2/2005).
2. Nel caso di occupazione
acquisitiva, a decorrere dalla data di
scadenza dell'occupazione legittima, spetta
ai proprietari il risarcimento del danno per
l'utilizzazione illegittima del suolo.
3. L'art. 43 D.P.R. 327/2001, che
prevede, quale unica alternativa alla
restituzione del bene, l'atto di
acquisizione cd. sanante, accompagnato dal
risarcimento del danno, deve reputarsi
applicabile a tutti i casi di occupazione
sine titulo, sussistenti o meno alla data di
entrata in vigore del D.P.R. 327, recante il
Testo Unico sulle espropriazioni
(30.06.2003)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 23.01.2008 n. 156
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: 1.
Occupazione temporanea e d'urgenza - Opere
interrate - Risarcimento - Spetta - Obbligo
di rimozione - Non sussiste.
2. Occupazione temporanea e d'urgenza -
Opere interrate - Risarcimento - Portata.
3. Opere pubbliche - Occupazione legittima -
Indennità di occupazione - Giurisdizione
G.O.
1. Il protrarsi nel tempo della
presenza arbitraria di tubazioni interrate
non può determinare gli effetti di
un'occupazione permanente (illegittima), ma
si limita a comprimere le facoltà di
godimento del proprietario del fondo
asservito in via di mero fatto:
conseguentemente tale compressione è
suscettibile di essere risarcita, atteso il
suo carattere illecito, mentre non è
accoglibile la relativa domanda di rimozione
di manufatti (cfr. Cassaz. Civ., SS.UU.,
sent. n. 13714/2005).
2. Nel caso del protrarsi nel tempo
di tubazioni interrate poste arbitrariamente
dalla P.A. nel terreno di un privato, questi
è legittimato a richiedere sia il
risarcimento per la diminuzione di valore
del fondo in conseguenza delle diminuite
utilità da esso ricavabili per la presenza
di tubazioni interrate, sia il risarcimento
per il periodo di occupazione abusiva, ossia
per l'indisponibilità dell'area protrattasi
oltre la scadenza del termine
dell'occupazione legittima (Cassaz. Civ.,
SS.UU., sent. n. 15277/2001).
3. L'indennità di occupazione
legittima costituisce pretesa da azionare,
ex art. 34, comma 3, lett. b), D. Lgs.
80/1998, davanti al giudice ordinario (TAR
Sicilia, sent. n. 2194/2006; TAR Basilicata,
sent. n. 516/2007)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 23.01.2008 n. 155
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
1.
Dichiarazione di pubblica utilità -
annullata - Sussistenza - Giurisdizione del
G.A. - Sussistenza.
2.
Dichiarazione di pubblica utilità -
annullata - Realizzazione dell'opera
pubblica - Occupazione usurpativa - Non
sussistenza - Proprietà del bene - Non
mutamento - Provvedimento Acquisizione -
Necessità - Risarcimento del danno -Termine
quinquennale - Non decorre.
1. La presenza di un atto di dichiarazione
di pubblica utilità poi annullato consente
l'attribuzione della controversia al giudice
amministrativo, anche fattispecie
tradizionalmente inquadrate nella categoria
dell'occupazione usurpativa, in quanto i
comportamenti di impossessamento del bene
altrui collegati all'esercizio, anche se
illegittimo, di un pubblico potere devono a
loro volta essere qualificati come
manifestazioni di una funzione pubblica; in
base a questa impostazione il caso della
mancata fissazione dei termini iniziali e
finali ex art. 13 L. 2359/1865 appare
pienamente inserito nello svolgimento, sia
pure imperfetto, dell'azione amministrativa.
2. Poiché la perdita della proprietà può
derivare solo dal giusto procedimento espropriativo nel rispetto delle garanzie
previste dalla legge si deve ritenere che
anche dopo la realizzazione dell'opera
pubblica la proprietà del bene rimanga
all'originario titolare finché non sia
adottato un formale provvedimento di
acquisizione (ora disciplinato dall'art. 43
D.P.R. 327/2001) con annessa liquidazione
del risarcimento del danno. Trattandosi di
uno strumento che regolarizza dall'esterno
la procedura espropriativa e soddisfa le
pretese risarcitorie dei privati in
conformità a principi presenti da tempo nel
diritto comune europeo, il provvedimento di
acquisizione è utilizzabile
indipendentemente dal confine temporale
stabilito dall'art. 57 DPR 327/2001.
L'utilizzazione del fondo altrui ha natura
di illecito permanente e quindi non consente
il decorso del termine di prescrizione
quinquennale del diritto al risarcimento (massima tratta da
www.solom.it - TAR Lombardia-Brescia,
sentenza 15.01.2008 n. 3
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Diritto
all'indennizzo espropriativo - Evasione totale o parziale
dell’imposta I.C.I. - Effetti - Sanzioni e recupero del
tributo I.C.I. - Accertamento da parte dell'Amministrazione.
In materia di espropriazione, l'evasore totale dell’imposta
I.C.I. non perde il suo diritto all'indennizzo espropriativo
(Cass. sentenza n. 24509/2006), ma è unicamente "destinato a
subire le sanzioni per la omessa dichiarazione e
l'imposizione per l'I.C.I. che aveva tentato di evadere",
potendo l'erogazione della indennità di espropriazione
"intervenire solo dopo la verifica che essa non superi il
tetto massimo ragguagliato al valore accertato per l'I.C.I.,
ed a seguito della regolarizzazione della posizione
tributaria con concreto avvio del recupero dell'imposta e
delle sanzioni" (così testualmente, Corte Cost. n.
351/2000). Mentre, "l'evasore parziale resta soggetto alle
stesse conseguenze per il minor valore dichiarato", potendo
quindi il Comune procedere ad accertamento del maggiore
valore dei fondo agli effetti tributari e sulla base di
questo commisurare consequenzialmente, in via definitiva,
l'indennità espropriativa (ivi) e non già liquidarla (come
nella specie) in misura irrisoria, con ancoraggio alla
dichiarazione infedele. Nella seconda evenienza, in
particolare, va da sé che il previo recupero del tributo
I.C.I., parzialmente evaso, possa avvenire, agli effetti
indicati, oltre che per accertamento da parte
dell'Amministrazione, a seguito di rettifica, in termini, da
parte dello stesso proprietario (argomentando L. n. 413 del
1991, ex artt. 32, 49 e 53; D.Lgs. n. 241 del 1997, art. 13;
D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 59, comma 1, lett. l; e
considerando che la dichiarazione tributaria è atto di
scienza e di non di volontà).
Occupazione d'urgenza - Effetti - Possesso del bene -
Indennità per l'occupazione - Decreto di esproprio o
ablazione - Perdita del possesso del bene.
L'occupazione d'urgenza, per il suo carattere coattivo, non
priva il proprietario del possesso del bene occupato, in
quanto questo, finché non intervenga il decreto di esproprio
o comunque ablazione, continua ad appartenergli, tant'è che
per tal motivo gli si riconosce anche una indennità per
l'occupazione (Corte di Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 03.01.2008 n. 19
- link a www.ambientediritto.it). |
anno 2007 |
|
ESPROPRIAZIONE: 1.
Approvazione del progetto di opera pubblica
ai sensi dell'art. 1 legge n. 1/1978 -
costituisce valida dichiarazione di pubblica
utilità - fattispecie di opera pubblica
realizzata da privati.
2. Opera pubblica realizzata in mancanza del
decreto d'esproprio ma in presenza di
dichiarazione di pubblica utilità - Ipotesi
riconducibile all'"occupazione appropriativa"
- Giurisdizione del giudice amministrativo-
Sussiste.
3. Ipotesi di occupazione appropriativa -
Illecito permanente- Prescrizione
quinquennale - Non sussiste -
imprescrittibilità dell'azione - sussiste.
3. Mancanza del decreto d'esproprio -
Occupazione d'urgenza oltre i termini di
efficacia della dichiarazione di pubblica
utilità - Responsabilità extracontrattuale -
Condanna al risarcimento del danno ex art.
43 DPR 327/2001- Sussiste.
1. L'art. 1 della legge n. 1/1978
consente agli enti locali di approvare
progetti di opere pubbliche conferendo
automaticamente a tale decisione il
requisito di pubblica utilità,
indifferibilità ed urgenza in modo tale da
configurare un decreto d'occupazione
d'urgenza, legittimamente adottato dal
Consiglio Comunale anche per opere pubbliche
realizzate da soggetti privati.
2. In presenza di un'opera pubblica
realizzata in forza di una valida
dichiarazione di pubblica utilità, adottata
ai sensi dell'art. 1 della legge n. 1/1978,
cui non è seguita l'adozione del decreto
d'esproprio (e con un'occupazione d'urgenza
effettuata oltre i termini di validità del
relativo provvedimento), non si configura
un'ipotesi di "occupazione usurpativa pura"
(che si ha nel momento in cui la
dichiarazione di pubblica utilità non sia
mai stata adottata) ma la fattispecie della
"occupazione appropriativa" che, similmente
al caso dell'"occupazione usurpativa spuria"
(configurabile quando l'amministrazione ha
adottato una dichiarazione di pubblica
utilità poi annullata in via di autotutela o
giurisdizionale), è attribuita alla
giurisdizione del giudice amministrativo
anche in applicazione del principio (di
derivazione comunitaria) di effettività
della tutela giurisdizionale.
3. Se a fronte di una valida
dichiarazione di pubblica utilità non segue
il relativo decreto d'esproprio e
l'occupazione d'urgenza viene effettuata
oltre i termini di efficacia del relativo
provvedimento (3 mesi ex art. 20 L.
865/1971), si versa in un'ipotesi di
occupazione appropriativa che rappresenta
ormai un illecito permanente sul presupposto
che non è ipotizzabile che la commissione di
un fatto illecito (l'occupazione sine titulo
e la conseguente trasformazione del
territorio) possa determinare il
trasferimento di proprietà dell'immobile in
capo all'ente pubblico, rendendo quindi
l'azione risarcitoria imprescrittibile.
4. L'occupazione appropriativa
rappresenta un'ipotesi di responsabilità
extracontrattuale del Comune resistente che
comporta l'obbligo ex art. 43 DPR 327/2001
(applicabile anche alle occupazioni sine
titulo già sussistenti alla data di entrata
in vigore del T.U. espropriazioni) di
restituire il suolo e di risarcire il danno
cagionato salvo il potere
dell'Amministrazione di fare venire meno
l'obbligo di restituzione attraverso
l'adozione dell'atto di acquisto del bene al
proprio patrimonio
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 18.12.2007 n. 6676
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: 1.
Vincolo a sede stradale - Vincolo
preordinato all'esproprio soggetto a
decadenza quinquennale - Sussiste.
2.
Calcolo dell'indennità di espropriazione -
Manufatto sanato - Computabilità.
1. Il vincolo a sede stradale è un vincolo
preordinato all'esproprio, al quale si
applica il principio della decadenza
quinquennale ex art. 2 della l. n.
1187/1968, per questo verso è significativo
il fatto che l'art. 18, comma 2 lett. b)
della L. R. n. 12/2005 stabilisce
un'identica durata quinquennale per il
vincolo asseritamente "confermativo", ma in
effetti espropriativo.
2. In sede di calcolo dell'indennità di
espropriazione, occorre tenere presente
anche il valore di quei soli manufatti che,
originariamente realizzati senza un titolo
abilitativo, sono stati successivamente
sanati (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 18.12.2007 n. 6675
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Occupazione
temporanea e d'urgenza - Procedura accelerata ex art. 3
Legge 1/1978 - Ambito di applicazione - Edilizia agevolata -
Esclusione.
La procedura accelerata ex art. 3 Legge 1/78 vigente al
momento dei fatti di causa riguarda solo le opere pubbliche
e tra queste si devono ricomprendere anche gli interventi di
edilizia sovvenzionata in ragione della natura di opere
pubbliche rivestita dagli alloggi di edilizia residenziale
pubblica, ma non gli interventi di edilizia agevolata, che,
al contrario di quelli sovvenzionati, sono eseguiti da
soggetti privati e si traducono nella realizzazione di beni
di natura privata (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 13.12.2006 n. 2962
- massima tratta da www.solom.it). |
ESPROPRIAZIONE:
1. Espropriazione per p.u. -
Decreto di occupazione d'urgenza - Ha natura vincolata -
Necessità di comunicazione agli espropriandi - Non sussiste
- Necessità del giusto procedimento - Nella dichiarazione di
pubblica utilità - Sussiste - Nell'occupazione d'urgenza -
Non sussiste.
2. Espropriazione per p.u. -
Decreto di occupazione d'urgenza - Natura vincolata - Non
basta ad escludere la necessità di comunicazione di avvio
del procedimento - Necessità di verifica dei presupposti
dell'art. 21-octies, l. n. 241/1990 - Sussiste.
3. Espropriazione per p.u. -
Decreto di occupazione d'urgenza - Natura vincolata -
Esclude il vizio di eccesso di potere.
4. Art. 6, L. n. 241/1990 -
Principio di adeguatezza e completezza dell'istruttoria
procedimentale - Obbligo dell'Amministrazione di accertare
d'ufficio la realtà dei fatti e degli atti posti alla sua
attenzione - Sussiste.
1. Per l'adozione del decreto autorizzatorio
dell'occupazione d'urgenza, quale provvedimento di natura
vincolata, meramente attuativo di provvedimenti presupposti,
non si rende necessaria alcuna ulteriore comunicazione di
carattere specifico ai proprietari delle aree da
espropriare. Si è infatti chiarito che il giusto
procedimento, se rispettato nell'ambito della dichiarazione
di pubblica utilità, non ha ragion d'essere nell'occupazione
d'urgenza. Ciò non tanto perché vi osti il presupposto
dell'urgenza, atteso che qualsiasi approvazione del progetto
di un'opera pubblica equivale ope legis a dichiarazione di
urgenza ed indifferibilità, mentre l'urgenza che costituisce
impedimento alla comunicazione dell'avvio del procedimento è
un'urgenza qualificata. Ma piuttosto perché il giusto
procedimento ha ragion d'essere nell'ambito della
dichiarazione di pubblica utilità, che conserva momenti di
scelte discrezionali, e non più nel quadro dell'occupazione
d'urgenza, meramente attuativa dei provvedimenti
presupposti.
2. La natura vincolata del decreto di occupazione d'urgenza
non basta da sé a far ritenere che non fosse dovuta la
comunicazione di avvio del relativo procedimento. In tal
senso depone il testo dell'art. 21-octies, comma 2, parte
seconda, della l. n. 241/1990, a tenore del quale
l'omissione della comunicazione di avvio del procedimento
non comporta l'annullabilità dell'atto finale solamente
laddove, alla luce degli elementi forniti nel processo
dall'amministrazione, emerga dal giudizio che il contenuto
del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato.
3. Il decreto di occupazione d'urgenza ha natura di atto
vincolato, per il quale non è configurabile l'eccesso di
potere, essendo questo un vizio che, invece, si riferisce
all'esercizio del potere discrezionale.
4. L'art. 6 della L. n. 241/1990 codifica il fondamentale
principio dell'adeguatezza e completezza dell'istruttoria
procedimentale, in base al quale l'Amministrazione è
obbligata ad accertare d'ufficio, per quanto possibile, la
realtà dei fatti e degli atti posti alla sua attenzione (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 29.11.2007 n.
6524
- massima tratta da www.solom.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
1. Realizzazione di
opere e/o lavori pubblici o di pubblico interesse -
Redazione dello stato di consistenza contestuale al verbale
di immissione in possesso ex art. 32 L. n. 265/1999 e succ. mod ed int. - Sussiste- Amministrazioni comunali e
amministrazioni consortili - Applicazione- Sussiste.
2. Assegnazione da
parte del Comune prima della espropriazione - Funzione di
individuare il beneficiario dell'area e non di trasferirgli
la titolarità dell'aera - Ammissibilità.
3. Dichiarazione di
pubblica utilità contestuale all'approvazione del PIP -
Durata decennale del PIP- Occupazione d'urgenza dopo nove
anni dalla approvazione del PIP - Legittimità.
4. Attuazione del PIP
mediante esproprio di aree o cessione del diritto di
proprietà o diritto di superficie - Parte non attuata del
PIP - Area o lotto liberi da edifici - Sussiste.
1. Ai sensi dell'art. 32 della L. n. 265/1999 poi trasfuso
nell'art. 121 dal D.lgs. n. 267/2000 per le opere e i lavori
pubblici o di pubblico interesse, la redazione dello stato
di consistenza può avvenire contestualmente al verbale di
immissione in possesso. Tale norma applicabile alle
amministrazioni comunali ben può essere utilizzata anche nei
riguardi delle amministrazioni consortili nello svolgimento
di funzioni che l'art. 27 della L. n. 865/1971, affida
alternativamente ai comuni o ai loro consorzi.
2. Sebbene l'espropriazione debba necessariamente precedere
la cessione di proprietà o di un diritto di superficie, non
è precluso al comune di procedere, prima
dell'espropriazione, ad una assegnazione che ha l'effetto di
individuare il futuro beneficiario della cessione e non di
trasmettergli la titolarità dell'area.
3. Non costituisce motivo di illegittimità del decreto di
esproprio il fatto che l'occupazione d'urgenza sia stata
disposta dopo nove anni dall'approvazione del PIP, in quanto
tale decreto trova la propria base legale nella
dichiarazione di pubblica utilità derivante
dall'approvazione del PIP che ha efficacia decennale
decorrente dalla data del decreto di approvazione.
4. Essendo il PIP attuato mediante esproprio delle aree e
utilizzazione delle stesse da parte delle imprese
assegnatarie, previa cessione di proprietà o diritto di
superficie, per parte non ancora attuata del PIP, deve
intendersi ogni area o lotto libero da edifici, suscettibili
di sfruttamento edilizio per le finalità proprie del piano (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 27.11.2007 n.
6458 -
massima tratta da www.solom.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Sul
risarcimento del danno da occupazione illegittima.
Nello schema dell’occupazione
espropriativa, l’illecito si perfeziona con effetto
estintivo della proprietà privata al momento della radicale
ed irreversibile trasformazione del fondo, se avvenuta in
periodo di occupazione illegittima o alla scadenza della
occupazione legittima, e tutta la attività svolta nel corso
dell’occupazione da chiunque esplicata, rende l’autore o gli
autori responsabili del relativo risarcimento ai sensi degli
artt. 2043 e 2051 c.c., e detta responsabilità grava sempre
e comunque sull’ente, che ha consumato l’illecita
apprensione e posto in essere il mutamento del regime di
appartenenza dell’immobile.”
Qualora l’amministrazione espropriante affidi ad un altro
soggetto mediante concessione la realizzazione di un’opera
pubblica e deleghi gli oneri concernenti la procedura ablatoria, l’illecito in cui consiste l’occupazione
appropiativa è ascrivibile all’autore materiale, pur se
privo di un titolo che lo autorizzasse, in quanto si
realizza l’irreversibile trasformazione del suolo in
mancanza del decreto di esproprio e la perdita della
proprietà a danno del privato
(Corte di Cassazione, SS.UU. civili,
sentenza 23.11.2007 n. 24397
- link a www.altalex.com). |
ESPROPRIAZIONE: 1.
Espropriazione per pubblica utilità - Accoglimento del
ricorso - Effetto ripristinatorio della sentenza -
Retrocessione dei beni - Nello stato in cui si trovavano -
Necessità - Realizzazione dell'opera - Impedimento di mero
fatto - Eccessiva onerosità - Pregiudizio per l'economia
nazionale - Non preclude - Rimedio sanante - Acquisizione
coattiva sanante ex art. 43 D.Lgs 327/2001 - Necessità.
2. Acquisizione coattiva sanante - formale provvedimento di
acquisizione - Necessità - Domanda riconvenzionale -
Insufficienza.
1. Dall'accoglimento del ricorso consegue, come
effetto ripristinatorio della sentenza, l'obbligo
dell'amministrazione di retrocedere i beni illegittimamente
espropriati, nello stato in cui essi in origine si
trovavano: la restituzione stessa non è preclusa né
dall'eventuale eccessiva onerosità per il debitore ai sensi
dell'art. 2058 c.c. né dal possibile pregiudizio per
l'economia nazionale di cui all'art. 2933 c.c.; in tal
senso, a nulla rileva, costituendo un impedimento di mero
fatto, la realizzazione dell'opera pubblica alla quale
l'espropriazione era preordinata. opera che quindi
l'amministrazione dovrà smantellare, a meno che non
esperisca utilmente il rimedio sanante di cui all'art. 43
T.U. espropriazioni. Risulterebbe, infatti, incompatibile
con la tutela della proprietà accordata dalla C.E.D.U. una
previsione normativa che riconnettesse l'acquisto della
proprietà ad una situazione iniziale illegittima la quale,
senza che ne segua un nuovo e diverso provvedimento
amministrativo formale, legittimo e pienamente sindacabile
da un giudice, potesse evolvere, per mera attività della
parte processuale pubblica, in un titolo di acquisto della
proprietà e di privazione del possesso in capo al privato,
tenuto anche conto che la parte pubblica, per definizione
normativa, dovrebbe avere torto all'esito del giudizio.
2. L'art. 43 commi 3 e 4 T.U. espropriazioni deve
essere interpretato nel senso che l'amministrazione
convenuta in giudizio per la restituzione del bene di un
privato illegittimamente utilizzato per scopi di interesse
pubblico, la quale intendesse richiedere al giudice di
essere condannata al risarcimento del danno, esclusa la
restituzione del bene in natura, dovrebbe versare in atti un
formale provvedimento di acquisizione, adottato ai sensi dei
commi 1 e 2 dello stesso articolo, e così sottoporlo ad
immediato controllo giurisdizionale di legittimità -con
facoltà per la controparte di impugnarlo con motivi
aggiunti- e potrebbe trattenere il bene solo qualora detto
provvedimento fosse ritenuto legittimo. A tal fine non
sarebbe invece sufficiente una semplice domanda
riconvenzionale, sia per contrasto con il citato art. 1 del
Protocollo addizionale, sia perché la legge non individua,
neppure in termini generali, i parametri e i criteri cui il
giudice amministrativo dovrebbe attenersi. In questo modo,
si trascurerebbe di considerare che il giudice, per ruolo
costituzionale, non è un gestore di interessi pubblici, e
quindi se dovesse essere costretto in tale veste, perderebbe
la sua posizione di terzietà, e che, in assenza di alcun
criterio e di una specifica potestà e competenza
amministrativa, il giudice stesso non potrebbe esprimere che
una scelta arbitraria. Pertanto, va ribadito che nel caso di
specie la retrocessione non trova preclusioni di sorta (TAR Lombardia-Brescia,
sentenza 06.11.2007 n. 1142 -
massima tratta da www.solom.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Sulla partecipazione procedimentale in materia
espropriativa.
Il Supremo Consesso siciliano
afferma, in maniera lapidaria, che l’amministrazione
espropriante è tenuta al rispetto della normativa inerente
la partecipazione procedimentale del soggetto passivo della
potestà amministrativa così come enunciato dagli artt. 7 e
ss. della legge n. 241/1990 e s.m.i. (cfr. TAR
Calabria-Reggio Calabria, n. 243 del 22.03.2007).
La sentenza in commento è particolarmente interessante in
quanto definisce l’ambito di applicazione dell’art
21-octies, comma 2, seconda proposizione, della L. 241/1990,
che testualmente prevede: “... Il provvedimento
amministrativo non è comunque annullabile per mancata
comunicazione dell'avvio del procedimento qualora
l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del
provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato.”
(Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione
Siciliana,
sentenza 14.09.2007 n. 851
- link a www.altalex.com). |
ESPROPRIAZIONE: Dichiarazione
di pubblica utilità - Data ultimazione lavori - Mancata
previsione - Omissione - Conseguenze - Tesi della “carenza
di potere in concreto” - Giurisdizione del G.A.
La mancata previsione, nel primo atto della procedura
ablatoria, dei termini dei lavori e della procedura
medesima, deve ritenersi costituire, un caso di cattivo
esercizio del potere e non di carenza di potere (in
concreto), sicché l’immissione in possesso e la
trasformazione del suolo, sulla base di una siffatta,
asseritamente invalida (ma efficace) dichiarazione di
pubblica utilità dell’opera, concreta un comportamento
“amministrativo” (e non “mero”) dell’amministrazione,
comunque riconducibile, almeno mediatamente, all’esercizio
di pubblici poteri autoritativi, sì da restare ascritto,
quanto alla tutela giurisdizionale, anche risarcitoria, alla
cognizione del G.A. e non a quella del G.O. (Corte cost. n.
191 del 2006). La tesi della “carenza di potere in concreto”
è smentita, tra l’altro, dall’articolo 21-septies della
legge n. 241 del 1990 (aggiunto dall’articolo 14 della legge
n. 15 del 2005), che menziona, tra i casi (tassativi) di
nullità dell’atto amministrativo, la sola ipotesi di difetto
assoluto di attribuzione (Tar Campania, Napoli, sez. V,
17.02.2006, n. 2137), dall’articolo 13, comma 3, del testo
unico delle disposizioni legislative e regolamentari in
materia di espropriazione per pubblica utilità, di cui al
d.P.R. 08.06.2001, n. 327, che ha reso facoltativa la
previsione del termine del decreto di esproprio, il che vale
a dimostrare, sul piano interpretativo, la debolezza della
tesi pretoria della essenzialità dei termini, intesi come
conformativi dello stesso potere ablatorio, nonché dalla
stessa (più recente) giurisprudenza della Cassazione (Cass.,
ss.uu., 2688 del 2007, cit., 19.02.2007, n. 3724), che ha
(giustamente) affermato la giurisdizione amministrativa nel
caso di successivo annullamento (ancorché retroattivo) della
stessa dichiarazione di pubblica utilità dell’opera. (cfr.,
contra, Cass., ss.uu., ord. 15.06.2006 n. 13911; 07.02.2007,
n. 2688; 19.04.2007, n. 9323).
Dichiarazione di pubblica utilità - Termini dei lavori
e delle espropriazioni - Indefettibilità della fissazione -
Previsione in atti successivi della procedura -
Insufficienza.
Pacifica, ormai, in giurisprudenza è l’acquisizione della
indefettibilità della fissazione, sin dal primo atto della
procedura espropriativa, ossia sin dall’approvazione del
progetto definitivo dell’opera, che comporta la sua
dichiarazione di pubblica utilità, dei termini dei lavori e
delle espropriazioni (da ultimo, Tar Campania Napoli, sez.
V, 1 febbraio 2007, n. 828). In punto di fatto tale
omissione, nella fattispecie, è incontestata (oltre che
documentata in atti), sicché non può che dedursene
l’illegittimità, sotto questo profilo, degli atti impugnati.
La giurisprudenza (da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 27
dicembre 2006, n. 7898; id., 16 maggio 2006, n. 2773) ha
altresì definitivamente chiarito l’insufficienza di tale
previsione in atti successivi della procedura.
Apposizione del vincolo espropriativo - Indennizzo
espropriativo - Classificazione urbanistica e c.d.
edificabilità "di fatto".
Nel sistema di disciplina della stima dell'indennizzo
espropriativo introdotto dall'art. 5-bis, legge n. 359 del
1992, un'area va ritenuta edificabile quando come tale essa
risulti classificata dagli strumenti urbanistici al momento
dell'apposizione del vincolo espropriativo, mentre la
cosiddetta edificabilità "di fatto", correlata alle
peculiari circostanze del caso che rafforzano o comprimono
l'edificabilità, rileva esclusivamente in via complementare
od integrativa, nella fase dell'apprezzamento del valore
venale, con la conseguenza che sulla parte che invoca dette
circostanze, al fine di sostenere una variazione in positivo
o in negativo del valore dell'area derivante dall'attitudine
edificatoria fissata dagli strumenti urbanistici, grava
l'onere di allegarle e di dimostrarle (Cass. civ., sez. I,
11.02.2005, n. 2871) (TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 12.09.2007 n. 7553
- link a www.ambientediritto.it). |
ESPROPRIAZIONE: Ai
fini dell’identificazione del soggetto
passivo del rapporto espropriativo hanno
rilievo decisivo e pressoché assorbente le
risultanze catastali, ancorché divergenti
rispetto all’effettiva situazione
proprietaria del bene, ciò perché vi è la
necessità di ancorare il procedimento di
esproprio ad un dato certo e documentale,
esonerando l’amministrazione e
l'espropriante da incerti e complessi
accertamenti circa l'effettiva appartenenza
del bene e svincolando la procedura da
successive vicende di variazione della
proprietà dei beni.
--------------
L’obbligo della comunicazione dell'avvio del
procedimento è, invero, preordinato non solo
ad un ruolo difensivo, ma anche alla
formazione di una più completa, meditata e
razionale volontà dell'Amministrazione;
mediante tale comunicazione si mira, quindi,
ad attuare una democratizzazione ed una
trasparenza nell'esercizio dell'attività
pubblica al fine di consentire, per il
tramite del principio del contraddittorio,
una efficace tutela delle ragioni del
cittadino e contestualmente di apprestare a
vantaggio dell'Amministrazione elementi di
conoscenza utili nell'esercizio dei poteri
discrezionali.
In altri termini, la facoltà dei privati
interessati di proporre osservazioni e
controdeduzioni ed il conseguente obbligo
dell'Amministrazione di pronunziarsi
motivatamente sulle medesime a conclusione
di una vera e propria fase del procedimento
svolta in contraddittorio sono intesi ad
offrire elementi di valutazione non
marginali ai fini del buon andamento e
funzionalità dell'azione amministrativa;
siffatte finalità sono certamente frustate
ove, come nella specie, gli interessati
vengono portati a conoscenza dell'opera
pubblica quando il relativo progetto è stato
già definito in tutte le sue componenti, per
cui viene precluso ai medesimi di apportare
alcun contributo.
Con il primo motivo di ricorso, la
ricorrente lamenta di non avere ricevuto il
previo avviso di avvio del procedimento
nonostante fosse proprietaria dell’area
intersecata dal progetto approvato e
destinata all’espropriazione.
La censura, come già rilevato in sede
cautelare, è fondata, atteso che la Sig.ra
Chiumiento, pur risultando intestataria
catastale della particella (foglio 11, 867)
interessata dal procedimento ablatorio, non
ha ricevuto la previa comunicazione di
avviso di avvio del procedimento, che, a
norma dell’art. 16, comma 4, del d.P.R n.
327/2001 (Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia di
espropriazione per pubblica utilità), deve
precedere l’approvazione del progetto
valevole quale dichiarazione di pubblica
utilità ed urgenza.
Va peraltro precisato
che ai fini dell’identificazione del
soggetto passivo del rapporto espropriativo
hanno rilievo decisivo e pressoché
assorbente le risultanze catastali, ancorché
divergenti rispetto all’effettiva situazione
proprietaria del bene, ciò perché vi è la
necessità di ancorare il procedimento di
esproprio ad un dato certo e documentale,
esonerando l’amministrazione e
l'espropriante da incerti e complessi
accertamenti circa l'effettiva appartenenza
del bene e svincolando la procedura da
successive vicende di variazione della
proprietà dei beni (Consiglio di stato, sez. VI, 02.05.2006, n. 2423).
Dagli atti di causa emerge che in data
19.07.1991 veniva stipulato atto di
donazione tra il proprietario esclusivo
dell’area Sig. Chiumiento Antonio e la di
lui figlia Sig.ra Chiumiento Maria Giuseppa,
con riserva di usufrutto a favore del primo.
Orbene la ricorrente figura nella
certificazione catastale in atti con effetti
a decorrere dalla ridetta data del
19.07.1991, epoca cui risale l’atto di
donazione stipulato in suo favore e
regolarmente corredato di nota di
trascrizione. In contrasto con le predette
risultanze, è stato il solo Sig. Chiumiento
a ricevere comunicazione dell’avviso
procedimentale di cui alla nota prot. n.
40991 del 03.11.2005, a seguito della quale
rivolgeva peraltro articolate osservazioni
all’Amministrazione (che le respingeva con
la nota prot. n. 45518 del 05.12.2005).
Il difetto del previo contraddittorio
procedimentale non può non avere patologica
ricaduta sulla legittimità degli atti
afferenti al procedimento ablatorio attivato
nei riguardi della ricorrente. Difatti la
giurisprudenza ha costantemente rimarcato
l’importanza della partecipazione
procedimentale nella specifica materia,
osservando che "l’obbligo della
comunicazione dell'avvio del procedimento
è, invero, preordinato non solo ad un ruolo
difensivo, ma anche alla formazione di una
più completa, meditata e razionale volontà
dell'Amministrazione; mediante tale
comunicazione si mira, quindi, ad attuare
una democratizzazione ed una trasparenza
nell'esercizio dell'attività pubblica al
fine di consentire, per il tramite del
principio del contraddittorio, una efficace
tutela delle ragioni del cittadino e
contestualmente di apprestare a vantaggio
dell'Amministrazione elementi di conoscenza
utili nell'esercizio dei poteri
discrezionali.
In altri termini, la facoltà
dei privati interessati di proporre
osservazioni e controdeduzioni ed il
conseguente obbligo dell'Amministrazione di
pronunziarsi motivatamente sulle medesime a
conclusione di una vera e propria fase del
procedimento svolta in contraddittorio sono
intesi ad offrire elementi di valutazione
non marginali ai fini del buon andamento e
funzionalità dell'azione amministrativa;
siffatte finalità sono certamente frustate
ove, come nella specie, gli interessati
vengono portati a conoscenza dell'opera
pubblica quando il relativo progetto è stato
già definito in tutte le sue componenti, per
cui viene precluso ai medesimi di apportare
alcun contributo" (cfr. Consiglio di stato,
Sez. IV, 13.12.2001, n. 6238,
riportata da TAR Puglia Bari, sez. II,
17.02.2005, n. 594) (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 26.04.2007 n. 457 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONI:
Illegittimo il decreto di esproprio senza l'avviso
dell’avvio del procedimento.
Il Collegio reggino,
nella decisione in epigrafe, ritiene che l’avviso dell’avvio
del procedimento ex art. 16, comma 4°, del D.P.R.
08.06.2001, n. 327, costituisce una vera e propria “…
garanzia partecipativa che non è meramente formale, ma
rappresenta un necessario passaggio cognitivo-dialettico,
funzionale sia per la parte, che può opporre fatti e/o
circostanze non considerati, sia per l’Amministrazione, che
deve esaminarli e valutarli prima di approvare il progetto
definitivo dell’opera, essendo l’attività espropriativa
connotata di ampi margini di discrezionalità amministrativa
e tecnica”
(TAR
Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 22.03.2007 n. 243
- link a www.altalex.com). |
ESPROPRIAZIONE: Occupazione
di una parte maggiore di quanto enunciato nell’atto di
esproprio - Comportamento illecito dell’amministrazione -
Risarcimento e domanda di restituzione - Competente giudice
civile - Sindacabilità del G.A. - Esclusione.
L’occupazione di una parte maggiore di quanto enunciato
nell’atto di esproprio non attiene ai vizi di legittimità
del provvedimento, sindacabili dal giudice amministrativo,
ma alla sua esecuzione, da censurare innanzi al giudice
civile, competente a conoscere degli eventuali danni
prodotti all’espropriato dal comportamento illecito
dell’amministrazione a disporne l’eventuale risarcimento (ex
plurimis Cass., sez. I, 14.01.2000, n. 350) e a decidere
sulla domanda di restituzione.
Pertanto, è inammissibile la censura del ricorso
introduttivo nella quale il ricorrente afferma che,
relativamente alla particella di sua proprietà, le
operazioni di occupazione sarebbero avvenute per
quattrocento metri in più di quanto riportato nel
provvedimento (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 20.03.2007 n. 1338
- link a www.ambientediritto.it). |
anno 2000 |
|
ESPROPRIAZIONE: Vincolo indiretto ex art.
21 L. 1089/1939 di inedificabilità assoluta -
Decreto di esproprio - Illegittimità.
Deve ritenersi illegittimo il
provvedimento col quale è stata disposta
l'espropriazione e l'occupazione definitiva
di immobile già destinato alla realizzazione
di un'opera pubblica, ma nelle more
sottoposto a vincolo di inedificabilità
assoluta derivante dall'adozione di decreto
ministeriale di vincolo indiretto ai sensi
dell'art. 21 legge 1089/1939, poiché detta inedificabilità
ne esclude in radice la capacità di divenire
oggetto di acquisizione allo specifico fine
di essere destinato alla realizzazione
dell'intervento edificatorio progettato
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it -
TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 02.10.2000 n. 2052 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: 1 - Vincolo conformativo
contenuto nel piano particolareggiato -
Procedura ex art. 20 L. 1150/1942 -
Necessità - Mancanza - Illegittimità.
2 - Procedura in
attuazione di prg - Giurisdizione esclusiva
del g.a.
3 - Risarcimento del danno -
Necessità della prova.
1 - In presenza di vincolo conformativo che
importa una destinazione non realizzabile
esclusivamente a iniziativa pubblica, previa
espropriazione, ma attuabile anche dal
soggetto privato senza necessità di
ablazione del bene (sentenza n. 179/1999 C.
Cost.), qualora tale conformazione dell'area
e dell'intervento in essa realizzabile sia
contenuta in un piano particolareggiato,
l'amministrazione non può procedere
all'espropriazione, senza aver previamente
esperito nei confronti del privato la
procedura di attuazione coattiva del piano
particolareggiato prevista dall'art. 20 L.
1150/1942 (ingiunzione ai proprietari di
eseguire i lavori e successiva diffida).
Deve ritenersi pertanto illegittima la
delibera con la quale viene avviato il
procedimento espropriativo dell'area, senza
la preventiva attivazione della procedura
suddetta (fattispecie relativa ad area
destinata dagli strumenti urbanistici
vigenti in ambito comunale alla istallazione
di un impianto -stazione di servizio- per
la distribuzione di carburanti).
2 - Le procedure espropriative di attuazione
delle previsioni di prg devono ritenersi
ricomprese nella materia "urbanistica" come
individuata dall'art. 34 del D. Lgv. 80/1998,
intesa come ambito di azioni, provvedimenti
ed interessi comunque attinenti al
territorio e quindi includente anche gli
strumenti operativi sul piano tecnico
amministrativo (quali le procedure
espropriative di attuazione di previsioni di
P.R.G.) per l'acquisizione, da parte
dell'Amministrazione pubblica, di porzioni
del territorio stesso al fine della loro
trasformazione e destinazione a scopi di
pubblica utilità.
Sussiste quindi la
giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo ed a questo compete di
conoscere, ai sensi dell'art. 35 del
medesimo Decreto Legislativo, di tutte le
questioni relative a diritti, ivi comprese
quelle riguardanti la richiesta di
risarcimento del danno ingiusto derivante da
lesione di interesse legittimo.
3 - Ai fini dell'accoglimento della domanda
risarcitoria, il ricorrente deve provare il
proprio diritto al risarcimento, dimostrando
in concreto il danno patrimoniale subito e
il nesso eziologico con il provvedimento
annullato, non essendo di per sé sufficiente
l'illegittimità dell'atto e la lesione
dell'interesse legittimo a far sorgere il
diritto al risarcimento: non vi è alcuna
deminutio patrimoniale a seguito dell'avvio
del procedimento espropriativo ove il
terreno sia rimasto in possesso del
ricorrente (per essere stata concessa
l'ordinanza di sospensione cautelare) e non
risultando che vi siano state concrete
trattative di vendita o di utilizzazione
economica del bene sfumate per il
procedimento attivato dalla P.A.
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it -
TAR Toscana, Sez. I,
sentenza
15.05.2000 n. 888
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Dichiarazione
di pubblica utilità - Termini - Scadenza -
Decreto di esproprio - Illegittimità -
Termine quinquennale di occupazione di
urgenza - Irrilevanza.
Il termine di validità della
dichiarazione di pubblica utilità,
indifferibilità ed urgenza dei lavori (che
non è fissato in alcun provvedimento
legislativo) è determinato di volta in volta
dalle Amministrazioni nei provvedimenti di
approvazione dei progetti esecutivi in
rapporto alla tipologia e durata dei lavori
da eseguire; pertanto è illegittimo il
decreto di esproprio intervenuto dopo la
scadenza del termine massimo di quarantotto
mesi fissato nei provvedimenti con i quali è
stata dichiarata la pubblica utilità
dell'opera in questione, a nulla rilevando
la disciplina del D.L. 534/1987 e della L.
158/1991 concernente esclusivamente la proroga
del termine di occupazione quinquennale
fissato dall'art. 20 della legge 865/1971
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it -
TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 18.04.2000 n. 703 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Occupazione
temporanea e d'urgenza - Scadenza termini
per compimento di espropriazione senza
adozione del relativo provvedimento -
Effetti sulla dichiarazione di pubblica
utilità e sul provvedimento di occupazione
d'urgenza.
1. - Il decorso dei termini finali fissati
ex art. 13 della Legge 2359/1865 nell'atto
dichiarativo della pubblica utilità senza la
realizzazione dell'opera e/o la emanazione
del decreto di esproprio comporta
l'inefficacia, ex tunc, della originaria
dichiarazione di pubblica utilità,
determinando l'illegittimità ab initio della
intera procedura espropriativa e della
connessa occupazione d'urgenza che risulta
così disposta sine titulo.
_________________
1. - La decisione afferma innovativamente la
illegittimità della intera procedura
espropriativa e della connessa occupazione
d'urgenza per il solo fatto dello scadere
dei termini finali della dichiarazione di
pubblica utilità (senza la tempestiva
emanazione del decreto di esproprio) così da
determinarsi ex tunc l'inefficacia della
medesima dichiarazione.
La tradizionale
giurisprudenza risulta, invece, orientata
nel senso che lo scadere di detti termini
comporta l'illegittimità del decreto di
esproprio tardivamente adottato (vds. Cons.
Stato, Sez. V, 23.10.1981 n. 518; Sez. IV,
09.07.1974 n. 531), senza "retroagire" sull'atto
dichiarativo della p.u. (per i profili
risarcitori conseguenti alla realizzazione
dell'opera pubblica vds. per tutte la
"fondamentale" Cass. Sez. Un. 28.02.83 n.
1464, nonché, per gli effetti restitutori e
di decorrenza del termine di prescrizione,
Cass. Sez. Un. 04.03.1997 n. 1907 e Cass. Sez.
I, 15.12.1995 n. 12841) (massima tratta
da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana,
Sez. I,
sentenza
14.03.2000 n. 426 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: 1. - Dichiarazione di pubblica
utilità - Carenza - Decreto di occupazione
d'urgenza - Carenza di potere - Esclusione.
2. - Processo cautelare - Espropriazione e
occupazione - Occupazione temporanea e
d'urgenza - Azione di reintegrazione nel
possesso di fronte al G.A. - Mancata
impugnazione nei termini - Inammissibilità -
Domanda cautelare ex art. 21 L. n.
1034/1971- Necessità - Rigetto.
1. - In tema di espropriazione per pubblica
utilità, la carenza della dichiarazione di
pubblica utilità determina l'illegittimità
del decreto di occupazione d'urgenza per
difetto del presupposto e non la sua nullità
per carenza di potere ablativo (secondo il
consolidato orientamento della
giurisprudenza amministrativa che si
differenzia da quello delle Sezioni Unite
della Corte di Cassazione).
2. - Non può accogliersi la domanda diretta
alla reintegrazione del possesso di terreni
oggetto di provvedimenti di occupazione
d'urgenza non impugnati nei termini (ed a
torto ritenuti nulli per difetto della
dichiarazione di p.u.) posto che, a
prescindere dall'applicabilità nel processo
amministrativo degli strumenti interinali
disciplinati dal codice di rito (nonché
dalla riconducibilità della controversa
fattispecie nell'ambito della giurisdizione
esclusiva ex art. 34 d.lgs. 80/1998),
l'interessato avrebbe dovuto proporre in via
incidentale, nella tempestiva impugnativa
dei decreti di occupazione, domanda di
sospensione dell'esecuzione ex art. 21,
u.cpv. L. n. 1034/1971 (massima tratta da
www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. II,
ordinanza 24.02.2000
n. 265). |
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