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dossier PRESCRIZIONI P.d.C. (Permesso di Costruire)
anno 2021

EDILIZIA PRIVATA: Questo Tribunale ha già avuto modo di porre in rilievo «la progressiva evoluzione del processo amministrativo avente ad oggetto provvedimenti autoritativi di natura vincolata nella direzione del giudizio sul rapporto, desumibile
   - non solo dalla disposizione dell’art. 21-octies, comma 2, primo periodo, della legge n. 241/1990 (secondo il quale “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”),
   - ma anche dalla disposizione dell’art. 31, comma 3, cod. proc. amm. (secondo il quale “il giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione”).
Da tali disposizioni si desume che, nei casi di attività vincolata, il giudice amministrativo può ben operare un sindacato teso ad accertare l’effettiva spettanza del bene della vita, ossia non limitato all’accertamento dei vizi di legittimità dedotti con il ricorso ..., perché in tali casi non si verifica un’indebita sostituzione del giudice all’amministrazione, essendo la spettanza del bene della vita già predeterminata a livello normativo.
Di converso nei casi di attività discrezionale il giudice amministrativo, se chiamato ad operare un sindacato di legittimità sulla discrezionalità (pura o tecnica) dell’amministrazione, non può sostituirsi ad essa, ma deve limitarsi a svolgere il sindacato dall’esterno, ossia verificando se il potere sia stato correttamente esercitato o meno».
---------------
La giurisprudenza ha da tempo chiarito -seppure con riferimento alla disposizione (vigente ratione temporis) dell’art. 13 della legge n. 47 del 1985 (secondo la quale “il responsabile dell’abuso può ottenere la concessione o l’autorizzazione in sanatoria quando l’opera eseguita in assenza della concessione o autorizzazione è conforme agli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati e non in contrasto con quelli adottati sia al momento della realizzazione dell’opera, sia al momento della presentazione della domanda”)- che i presupposti di fatto per il rilascio della concessione in sanatoria devono sussistere alla data di adozione del provvedimento di sanatoria, e non alla data della presentazione della domanda.
---------------
Da tempo la giurisprudenza ha ammesso la possibilità di condizionare il rilascio di una concessione edilizia, il cui progetto risulti eseguibile esclusivamente in caso di approvazione di una variante al piano regolatore generale, all’esito positivo del procedimento in itinere, ma ciò solo per la connessione fra i diversi procedimenti amministrativi; ciò in quanto le clausole accidentali possono essere apposte anche all’atto amministrativo a condizione che non risultino alterate la struttura e la funzione tipica dell’atto stesso e comprese le situazioni giuridiche dei destinatari.
Maggiori difficoltà teoriche ha invero incontrato l’ipotesi -da ritenersi eccezionale in quanto riferita alla peculiare sanabilità di una condotta abusiva e, quindi, sanzionata- del permesso di costruire in sanatoria, nel qual caso l’apposizione di condizioni potrebbe alterare la struttura e la funzione dell’atto stesso, legato ad un puntuale accertamento delle condizioni poste dalla legge per la sanatoria.
Ciononostante la giurisprudenza, anche di recente, ha affermato che -mentre una condizione in senso proprio non può essere apposta, laddove non prevista dalla legge, in quanto contrasterebbe con l’essenza stessa del permesso di costruire in sanatoria, che è atto di accertamento a carattere non negoziale- diverso è il caso in cui l’elemento accidentale sia più correttamente identificabile in termini di prescrizione, quale modalità esecutiva; prescrizione che, se non ottemperata, non invalida comunque l’atto autorizzativo e non ne impedisce gli effetti, con la conseguenza che sussisterà una semplice violazione della prescrizione stessa, come tale autonomamente sanzionata.
Dunque, secondo questo condivisibile orientamento, «il permesso di costruire in sanatoria, se per un verso non può certo essere soggetto a condizioni modificative di quanto realizzato abusivamente, può legittimamente introdurre o recepire limitate prescrizioni intese ad imporre correttivi esecutivi sull’esistente, ad esempio al fine di mitigare l’impatto paesaggistico del manufatto, in termini tali da renderlo più coerente con il contesto ambientale, qualora si tratti di integrazioni minime, aventi carattere di mere modalità esecutive, tali da agevolare il rilascio di una sanatoria in termini di adeguatezza al contesto regolatorio e fattuale proprio del singolo territorio di riferimento».
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Secondo una consolidata giurisprudenza, in base al principio tempus regit actum la legittimità di un atto amministrativo deve essere accertata con riferimento allo stato di fatto e di diritto esistente al momento della sua adozione, e ciò comporta che, in caso di modifiche normative sopravvenute nel corso del procedimento, l’Amministrazione procedente deve sempre tenere conto di tali modifiche.
In definitiva -fermo restando che, in ossequio al principio tempus regit actum, la verifica della sussistenza dei presupposti per il rilascio del permesso di costruire in sanatoria (ossia la conformità urbanistica) deve essere verificata alla data di adozione del provvedimento di sanatoria, e non alla data della presentazione della relativa domanda- il riferimento “al momento della presentazione della domanda” si spiega tenendo conto della possibilità che dopo la presentazione della domanda di sanatoria intervengano previsioni urbanistiche che rendono impossibile la sanatoria;
Dunque tale riferimento deve essere inteso nel senso che il Legislatore ha inteso derogare parzialmente al principio tempus regit actum, escludendo che eventuali sopravvenute modifiche in peius delle previsioni urbanistiche possano ostare all’accoglimento della domanda di sanatoria e, quindi, ha imposto all’Amministrazione di tenere conto solo delle previsioni urbanistiche che “al momento della presentazione della domanda” sono già in vigore e di quelle che a tale momento risultano adottate, ma non ancora approvate.
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4. Passando alla controversia oggetto del presente giudizio, il Collegio ritiene che si possa prescindere dall’esame delle eccezioni processuali sollevate dalla controinteressata perché nessuna delle suesposte censure può essere accolta, alla luce delle seguenti considerazioni.
5. Come già evidenziato, la società Al.Ho. -a seguito della nota prot. n. 6855 del 28.11.2018, con cui il Comune di Molveno ha comunicato i motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza per la regolarizzazione, ai sensi dell’art. 129, comma 11, della legge provinciale n. 1 del 2008, delle opere oggetto del permesso di costruire in deroga n. 3033 del 2017, annullato da questo Tribunale con la sentenza n. 126 del 2018- in data 15.04.2019 ha presentato un’ulteriore istanza, volta al rilascio di un permesso di costruire in sanatoria, ai sensi dell’art. 135, comma 7, della legge provinciale n. 1 del 2008, sulla quale il Comune di Molveno si è espresso positivamente rilasciando l’impugnato permesso di costruire in sanatoria n. 3076, in data 04.06.2020.
Ciò posto, il Collegio -nel rammentare che, secondo una consolidata giurisprudenza, anche di questo Tribunale (da ultimo, T.R.G.A Trentino Alto Adige, Trento, 18.03.2021, n. 39), la qualificazione giuridica del provvedimento impugnato è un’operazione che compete al Giudice amministrativo in ossequio al principio iura novit curia, analogamente a quanto avviene nel processo civile con riferimento alla qualificazione del tipo negoziale entro il quale vanno sussunti gli atti di autonomia privata di cui si controverte- concorda senz’altro con il Comune di Molveno quando nelle proprie difese osserva che l’erroneo riferimento all’art. 38 del d.P.R. 380 del 2001, contenuto nella motivazione del provvedimento impugnato, non può comunque inficiare la legittimità di tale provvedimento.
Tale riferimento è invero senz’altro erroneo perché, come già detto, l’impugnato permesso di costruire è stato adottato ai sensi dell’art. 135, comma 7, della legge provinciale n. 1 del 2008; ma il riferimento stesso è totalmente ininfluente ai fini del presente giudizio, stante la c.d. dequotazione della motivazione del provvedimento amministrativo nei giudizi aventi ad oggetto l’esercizio di poteri vincolati (come quello previsto dell’art. 135, comma 7, della legge provinciale n. 1 del 2008).
Difatti questo stesso Tribunale in altre occasioni (T.R.G.A. Trentino Alto Adige, Trento, 19.10.2020, n. 177; id. 13.04.2017, n. 136) ha già avuto modo di porre in rilievo «la progressiva evoluzione del processo amministrativo avente ad oggetto provvedimenti autoritativi di natura vincolata nella direzione del giudizio sul rapporto, desumibile non solo dalla disposizione dell’art. 21-octies, comma 2, primo periodo, della legge n. 241/1990 (secondo il quale “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”), ma anche dalla disposizione dell’art. 31, comma 3, cod. proc. amm. (secondo il quale “il giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione”). Da tali disposizioni si desume che, nei casi di attività vincolata, il giudice amministrativo può ben operare un sindacato teso ad accertare l’effettiva spettanza del bene della vita, ossia non limitato all’accertamento dei vizi di legittimità dedotti con il ricorso ..., perché in tali casi non si verifica un’indebita sostituzione del giudice all’amministrazione, essendo la spettanza del bene della vita già predeterminata a livello normativo. Di converso nei casi di attività discrezionale il giudice amministrativo, se chiamato ad operare un sindacato di legittimità sulla discrezionalità (pura o tecnica) dell’amministrazione, non può sostituirsi ad essa, ma deve limitarsi a svolgere il sindacato dall’esterno, ossia verificando se il potere sia stato correttamente esercitato o meno».
Dunque -posto che la parte ricorrente non contesta affatto che «le opere realizzate ed in parte minima ripristinate dall’interessato a seguito della comunicazione del preavviso di diniego risultano rispettose della disciplina urbanistica vigente e non vi è neppure la necessità di accordare la deroga» (così la motivazione del provvedimento impugnato)- ai fini della decisione sulla presente controversia assume decisivo rilievo stabilire come vada interpretato l’art. 135, comma 7, della legge provinciale n. 1 del 2008 laddove dispone che, ai fini della sanatoria, l’Amministrazione deve accertare se l’opera abusiva sia, o meno, “conforme, al momento della presentazione della domanda, alle norme urbanistiche vigenti e non in contrasto con quelle adottate”.
Emergono infatti dagli atti di causa due tesi contrapposte.
6. Secondo la parte ricorrente l’espresso riferimento al momento della “presentazione” della domanda di sanatoria, contenuto nell’art. 135, comma 7, starebbe a significare che la presentazione della domanda determina una sorta di cristallizzazione del rapporto, nel senso che l’Amministrazione non potrebbe tener conto di alcun tipo di sopravvenienza intervenuta durante il procedimento, ossia né di modifiche alla disciplina urbanistica, né di modifiche dell’opera da sanare sopravvenute rispetto al momento della presentazione della domanda.
Pertanto nel caso in esame il Comune avrebbe dovuto senz’altro rigettare la domanda di sanatoria in quanto -come evidenziato nel preavviso di rigetto di cui alla nota prot. n. 5044 del 07.08.2019- le opere realizzate in forza del permesso di costruire annullato risultavano, al momento della presentazione della domanda stessa, incompatibili con le previsioni dello strumento urbanistico relative al parametro della superficie coperta, previsioni il cui superamento aveva in precedenza imposto l’attivazione del procedimento per il rilascio di un permesso di costruire in deroga.
In altri termini, secondo la tesi della parte ricorrente, la demolizione di parte del solaio, eseguita dopo l’attivazione del procedimento in sanatoria, era «totalmente neutra ai fini del riscontro della sussistenza dei presupposti di compatibilità urbanistica dell’opera abusiva», dovendo tale riscontro essere effettuato con riferimento all’intero abuso, come accertato ed esistente al momento della presentazione della domanda di sanatoria e decritto nella domanda stessa. Del resto, diversamente opinando, si finirebbe per ammettere il rilascio di un titolo edilizio in sanatoria parziale, limitato cioè ad una sola parte delle opere abusive.
A questa tesi si contrappone quella del Comune e della controinteressata, secondo la quale -a dispetto della lettera dell’anzidetto art. 135, comma 7- i presupposti per il rilascio del permesso di costruire in di sanatoria devono sussistere alla data di adozione del provvedimento, e non alla data della presentazione della domanda; dunque nel caso in esame l’Amministrazione avrebbe correttamente tenuto conto del fatto che la controinteressata -avuta notizia del preavviso di rigetto- aveva provveduto a ridurre spontaneamente l’estensione del solaio (sul punto non vi è contestazione), sì da rendere la superficie del manufatto compatibile con il relativo parametro urbanistico.
A corredo di tale tesi, e in replica all’argomento della parte ricorrente secondo il quale non sarebbe ammissibile il rilascio di un titolo edilizio che riguardi solo una parte dell’abuso oggetto della domanda di sanatoria, la controinteressata osserva che -sebbene nel caso in esame non si tratti di un permesso di costruire in sanatoria rilasciato con prescrizioni, ovvero condizionato a modifiche dell’oggetto della sanatoria- tuttavia la giurisprudenza ammette che il permesso in sanatoria possa eccezionalmente introdurre prescrizioni, purché si tratti di integrazioni minime o, comunque, tali da agevolare una sanatoria altrimenti non concedibile; dunque a maggior ragione deve ammettersi che l’interessato, in pendenza del procedimento avviato a seguito della presentazione di un’istanza ai sensi dell’art. 135, comma 7, possa comunque apportare al manufatto abusivo le modifiche necessarie per renderlo sanabile.
7. La tesi della parte ricorrente è ancorata essenzialmente ad un’interpretazione letterale dell’art. 135, comma 7, della legge provinciale n. 1 del 2008; difatti tale disposizione -secondo la quale ai fini della sanatoria l’amministrazione è tenuta ad accertare che l’opera abusiva sia “conforme, al momento della presentazione della domanda, alle norme urbanistiche vigenti e non in contrasto con quelle adottate”- effettivamente può prestarsi ad essere letta nel senso che la presentazione della domanda determina una sorta di cristallizzazione del rapporto, sia per quanto riguarda l’opera da sanare, sia per quanto riguarda i parametri urbanistici in base ai quali deve essere verificata la sanabilità dell’opera.
Tuttavia il Collegio ritiene che tale tesi non possa essere accolta non solo perché non tiene conto del consolidato orientamento giurisprudenziale formatosi sull’art. 13 della legge 28.02.1985, n. 47, di seguito esaminata, ma soprattutto perché si pone in radicale contrasto con i principi generali del procedimento amministrativo e, in particolare, con il principio della partecipazione al procedimento, del quale sono espressione l’istituto del preavviso di rigetto, disciplinato (a livello statuale) dall’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 e (a livello provinciale) dall’art. 27-bis della legge provinciale 30.11.1992, n. 23, e con il principio di economicità dell’azione amministrativa, sancito (a livello statuale) dall’art. 1, comma 1, della legge n. 241 del 1990 e (a livello provinciale) dall’art. 2, comma 1, della legge provinciale n. 23 del 1992.
8. Come ricordato dal Comune e dalla controinteressata, la giurisprudenza (ex multis, Consiglio Stato, Sez. V, 29.05.2006, n. 3236) ha da tempo chiarito -seppure con riferimento alla disposizione (vigente ratione temporis) dell’art. 13 della legge n. 47 del 1985 (secondo la quale “il responsabile dell’abuso può ottenere la concessione o l’autorizzazione in sanatoria quando l’opera eseguita in assenza della concessione o autorizzazione è conforme agli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati e non in contrasto con quelli adottati sia al momento della realizzazione dell’opera, sia al momento della presentazione della domanda”)- che i presupposti di fatto per il rilascio della concessione in sanatoria devono sussistere alla data di adozione del provvedimento di sanatoria, e non alla data della presentazione della domanda.
Per le ragioni di seguito indicate non vi è ragione per discostarsi da tale opzione ermeneutica, essendo il riferimento “al momento della presentazione della domanda” presente tanto nella disposizione dell’art. 36, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 e nella corrispondente disposizione dell’art. 135, comma 1, della legge provinciale n. 1 del 2008, quanto nella disposizione dell’art. 135, comma 7, della legge provinciale medesima.
Si rende però necessario precisare il fondamento di tale opzione ermeneutica e, soprattutto, cosa essa comporti.
9. Innanzi tutto tale opzione ermeneutica è coerente con il principio di partecipazione al procedimento amministrativo.
La dottrina ha da tempo posto in rilievo che la legittimità del provvedimento è il risultato non solo del corretto uso del potere da parte dell’amministrazione procedente, ma anche del contributo degli interessati all’esercizio della funzione amministrativa. Dunque la partecipazione al procedimento non ha solo lo scopo di garantire gli interessati nei riguardi dell’azione del pubblico potere, bensì quello di consentire a costoro di contribuire alla formazione della decisione amministrativa, come plasticamente dimostra, ad esempio, la tipizzazione degli accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento. In tal senso il procedimento è stato efficacemente definito dalla dottrina come la forma della funzione amministrativa.
Ritiene allora il Collegio che il principio della partecipazione al procedimento e gli istituti che ad esso si ispirano, come la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza -da ritenersi applicabile anche nei procedimenti attraverso i quali vengono esercitati poteri vincolati (come nel caso in esame)- debbano essere intesi nell’accezione più ampia possibile.
In particolare deve ritenersi che nei procedimenti ad istanza di parte (come quello per cui è causa) l’interessato attraverso il preavviso di rigetto viene posto in condizione di incidere sul concreto esercizio del potere non solo esercitando il diritto di presentare osservazioni scritte, che l’Amministrazione è tenuta a prendere in considerazione, con conseguente obbligo di specificare, nella motivazione del provvedimento finale, le ragioni dell’eventuale mancato accoglimento delle osservazioni stesse (come espressamente previsto dall’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 e dall’art. 27-bis della legge provinciale n. 23 del 1992), ma anche esercitando il diritto di superare i motivi ostativi comunicati con il preavviso di rigetto attraverso la conformazione della situazione di fatto ai parametri normativi in base ai quali l’istanza deve essere esaminata.
Ciò è quanto è avvenuto nel caso in esame, nel quale la controinteressata, a fronte dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza di sanatoria, comunicati dal Comune con la con nota prot. n. 5044 del 07.08.2019, ha posto in essere un intervento di demolizione parziale volto a ridurre l’estensione del solaio realizzato in forza del permesso annullato, sì da rendere il manufatto divenuto abusivo suscettibile di sanatoria.
10. Inoltre la tesi della società ricorrente si pone in palese contrasto con il principio di economicità dell’azione amministrativa, di cui costituisce espressione l’orientamento giurisprudenziale -invocato dalla controinteressata- in base al quale il permesso di costruire in sanatoria può eccezionalmente essere rilasciato con prescrizioni.
Da tempo la giurisprudenza (Consiglio di Stato, Sez. V, 13.10.1993, n. 1031) ha ammesso la possibilità di condizionare il rilascio di una concessione edilizia, il cui progetto risulti eseguibile esclusivamente in caso di approvazione di una variante al piano regolatore generale, all’esito positivo del procedimento in itinere, ma ciò solo per la connessione fra i diversi procedimenti amministrativi; ciò in quanto le clausole accidentali possono essere apposte anche all’atto amministrativo a condizione che non risultino alterate la struttura e la funzione tipica dell’atto stesso e comprese le situazioni giuridiche dei destinatari.
Maggiori difficoltà teoriche ha invero incontrato l’ipotesi -da ritenersi eccezionale in quanto riferita alla peculiare sanabilità di una condotta abusiva e, quindi, sanzionata- del permesso di costruire in sanatoria, nel qual caso l’apposizione di condizioni potrebbe alterare la struttura e la funzione dell’atto stesso, legato ad un puntuale accertamento delle condizioni poste dalla legge per la sanatoria.
Ciononostante la giurisprudenza, anche di recente (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 28.09.2020, n. 5683), ha affermato che -mentre una condizione in senso proprio non può essere apposta, laddove non prevista dalla legge, in quanto contrasterebbe con l’essenza stessa del permesso di costruire in sanatoria, che è atto di accertamento a carattere non negoziale- diverso è il caso in cui l’elemento accidentale sia più correttamente identificabile in termini di prescrizione, quale modalità esecutiva; prescrizione che, se non ottemperata, non invalida comunque l’atto autorizzativo e non ne impedisce gli effetti, con la conseguenza che sussisterà una semplice violazione della prescrizione stessa, come tale autonomamente sanzionata.
Dunque, secondo questo condivisibile orientamento, «il permesso di costruire in sanatoria, se per un verso non può certo essere soggetto a condizioni modificative di quanto realizzato abusivamente, può legittimamente introdurre o recepire limitate prescrizioni intese ad imporre correttivi esecutivi sull’esistente, ad esempio al fine di mitigare l’impatto paesaggistico del manufatto, in termini tali da renderlo più coerente con il contesto ambientale (cfr. in termini Cons. St., VI, 28.06.2016, n. 2860), qualora si tratti di integrazioni minime, aventi carattere di mere modalità esecutive, tali da agevolare il rilascio di una sanatoria in termini di adeguatezza al contesto regolatorio e fattuale proprio del singolo territorio di riferimento (cfr. ad es. Cons. St., IV, 08.09.2015 n. 4176)» (così Consiglio di Stato, Sez. VI, 28.09.2020, n. 5683, cit.).
Coglie allora nel segno la controinteressata quando afferma che, se può ammettersi la possibilità che il permesso di costruire in sanatoria contenga «limitate prescrizioni intese ad imporre correttivi esecutivi sull’esistente» -e tale sarebbe stata l’eventuale prescrizione con la quale il Comune avrebbe potuto imporre alla controinteressata di ridurre la superficie del solaio, che non era sanabile in quanto eccedeva il parametro urbanistico, seppure in misura inferiore al 2% (sul punto non vi è contestazione)- a maggior ragione deve ammettersi che la controinteressata medesima ben potesse (come in effetti è avvenuto), in pendenza del procedimento avviato a seguito della presentazione della domanda di sanatoria, apportare al manufatto abusivo le modifiche necessarie per renderlo sanabile.
Del resto, anche a voler seguire la tesi della ricorrente, non può certo escludersi che -se il Comune, nonostante la riduzione della superficie del solaio, avesse respinto la domanda di sanatoria, confermando i motivi ostativi all’accoglimento della stessa già rappresentati con il preavviso di rigetto- la controinteressata avrebbe potuto presentare una nuova domanda di sanatoria, con il conseguente avvio di un nuovo procedimento amministrativo destinato a concludersi con il rilascio del provvedimento richiesto, ma con un evidente, inutile aggravio dell’azione amministrativa.
11. Resta a questo punto soltanto da spiegare perché il legislatore nel testo delle disposizioni che prevedono e disciplinano l’accertamento di conformità -ivi compresa quella dell’art. 135, comma 7, della legge provinciale n. 1 del 2008- abbia fatto espresso riferimento “al momento della presentazione della domanda”.
A tal fine giova rammentare che, secondo una consolidata giurisprudenza (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. III, 04.02.2021, n. 1045), in base al principio tempus regit actum la legittimità di un atto amministrativo deve essere accertata con riferimento allo stato di fatto e di diritto esistente al momento della sua adozione, e ciò comporta che, in caso di modifiche normative sopravvenute nel corso del procedimento, l’Amministrazione procedente deve sempre tenere conto di tali modifiche.
Invece il legislatore provinciale, prevedendo nell’art. 135, comma 7, che è possibile “rilasciare la concessione edilizia quando è regolarmente richiesta e conforme, al momento della presentazione della domanda, alle norme urbanistiche vigenti e non in contrasto con quelle adottate, anche se l’opera per la quale è richiesta è già stata realizzata abusivamente”, ha inteso derogare parzialmente al principio tempus regit actum, nel senso che la disciplina urbanistica da prendere in considerazione per verificare la sanabilità dell’abuso è costituita solo dalle previsioni in vigore al momento della presentazione della domanda di sanatoria e dalle previsioni contenute all’interno di un nuovo strumento urbanistico (o di uno strumento in variante) solo adottato, le quali, come noto, determinano l’operatività delle c.d. misure di salvaguardia (cfr. l’art. 47 della legge provinciale n. 15 del 2015).
In definitiva -fermo restando che, in ossequio al principio tempus regit actum, la verifica della sussistenza dei presupposti per il rilascio del permesso di costruire in sanatoria (ossia la conformità urbanistica) deve essere verificata alla data di adozione del provvedimento di sanatoria, e non alla data della presentazione della relativa domanda- il riferimento “al momento della presentazione della domanda” si spiega tenendo conto della possibilità che dopo la presentazione della domanda di sanatoria intervengano previsioni urbanistiche che rendono impossibile la sanatoria; dunque tale riferimento deve essere inteso nel senso che il Legislatore ha inteso derogare parzialmente al principio tempus regit actum, escludendo che eventuali sopravvenute modifiche in peius delle previsioni urbanistiche possano ostare all’accoglimento della domanda di sanatoria e, quindi, ha imposto all’Amministrazione di tenere conto solo delle previsioni urbanistiche che “al momento della presentazione della domanda” sono già in vigore e di quelle che a tale momento risultano adottate, ma non ancora approvate (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 20.04.2021 n. 60 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2018

EDILIZIA PRIVATA: Il permesso di costruire non può essere sottoposto a condizione, salvo che non sia previsto dalla legge.
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Edilizia – Permesso di costruire – Sottoposto a condizione sospensiva o risolutiva – Esclusione.
Il permesso di costruire non può essere sottoposto a condizione, sia essa sospensiva o risolutiva, stante la natura di accertamento costitutivo a carattere non negoziale del provvedimento, con la conseguenza che tale titolo, una volta riscontratane la conformità alla vigente disciplina urbanistica, deve essere rilasciata dal Comune senza condizioni che non siano espressamente previste da una norma di legge (1).
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   (1) Ha ricordato la Sezione che solo con specifico e limitato riferimento all’ipotesi del permesso condizionato all’acquisizione di un atto da altra Pubblica amministrazione la modalità procedurale di rilasciare permessi di costruire condizionati deve considerarsi legittima, avuto riguardo alle esigenze generali di complessiva speditezza ed efficienza dell'azione amministrativa, nonché per l'effetto non neutro del passaggio del tempo per i destinatari dell'atto.
Infatti, in applicazione del generale principio di proporzionalità, implicante minimo possibile sacrificio degli interessi coinvolti, l'amministrazione pubblica deve responsabilmente scegliere, nell'esercizio delle proprie funzioni, il percorso -ove necessario coordinato con quello di altre amministrazioni- teso a non aggravare inutilmente la situazione dei destinatari dell'azione amministrativa, come prescritto anche dall'art. 1, comma 2, l. 07.08.1990, n. 241; mentre, costituisce inutile aggravio procedurale (perché non bilanciato da una sufficiente ragione di interesse pubblico) l'arresto di un procedimento, che può invece proseguire sotto la condizione sospensiva del perfezionamento di altra procedura presupposta (Cons. Stato, sez. VI, 10.12.2015, n. 5615; id., sez. IV, 25.06.2013, n. 3447) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 19.04.2018 n. 2366 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
11. Nel merito, si osserva che con i restanti motivi di appello -che il Collegio ritiene di dover esaminare congiuntamente in quanto intimamente connessi- il Comune di Genova censura la sentenza impugnata per non avere correttamente interpretato, sotto vari profili, la prescrizione inserita nel permesso di costruire, oggetto di specifica impugnazione.
In particolare, l’appellante sostiene:
   a) che la prescrizione non è qualificabile in termini di “condizione” del permesso, in quanto attiene alle modalità esecutive dell’opera;
   b) che la prescrizione, piuttosto che riguardare il progetto architettonico, in realtà riguarda il progetto strutturale, quindi le modalità esecutive a tutela dell’interesse pubblico alla corretta realizzazione dell’opera;
   c) che la prescrizione non concreta una subordinazione dell’esecuzione delle opere al “consenso dei proprietari confinanti”, ma un’ulteriore verifica progettuale relativa, in particolare, all’aspetto strutturale;
   d) con la detta prescrizione non è stato concretizzato alcun aggravio del procedimento, essendo emersa nel corso di questo la necessità della stessa;
   e) che la prescrizione non è indeterminata, dovendosi ritenere, al contrario, sufficientemente individuati nel permesso impugnato gli intervenienti.
Tutti i motivi sono infondati.
11.1. In relazione alla questione oggetto del giudizio, si richiamano i principi elaborati da questo Consiglio in forza dei quali:
   a) “
in via di principio, e fatti salvi i casi espressamente stabiliti dalla legge, una condizione, sia essa sospensiva o risolutiva, non può essere apposta ad una concessione edilizia, stante la natura di accertamento costitutivo a carattere non negoziale del provvedimento; ne consegue che, a parte tali limitazioni, la concessione edilizia, una volta riscontratane la conformità alla vigente disciplina urbanistica, deve essere rilasciata dal comune senza condizioni che non siano espressamente previste da una norma di legge” (Cons. Stato, sez. V, 24.03.2001, n. 1702; conforme Cons. Stato, sez. IV, 16.04.2014, n. 1891; sez. IV, 06.06.2011, n. 3382);
   b) con specifico e limitato riferimento all’ipotesi del permesso condizionato all’acquisizione di un atto da altra pubblica amministrazione, “
la modalità procedurale di rilasciare permessi di costruire condizionati deve considerarsi legittima, avuto riguardo alle esigenze generali di complessiva speditezza ed efficienza dell'azione amministrativa, nonché per l'effetto non neutro del passaggio del tempo per i destinatari dell'atto. Infatti, in applicazione del generale principio di proporzionalità, implicante minimo possibile sacrificio degli interessi coinvolti, l'amministrazione pubblica deve responsabilmente scegliere, nell'esercizio delle proprie funzioni, il percorso —ove necessario coordinato con quello di altre amministrazioni— teso a non aggravare inutilmente la situazione dei destinatari dell'azione amministrativa, come prescritto anche dall'art. 1, comma 2, l. 07.08.1990 n. 241; mentre, costituisce inutile aggravio procedurale (perché non bilanciato da una sufficiente ragione di interesse pubblico) l'arresto di un procedimento, che può invece proseguire sotto la condizione sospensiva del perfezionamento di altra procedura presupposta” (Cons. Stato, sez. VI, 10.12.2015, n. 5615; conforme Cons. Stato, sez. IV, 25.06.2013, n. 3447).
11.2. Con riferimento al caso di specie, occorre premettere che il titolo edilizio in esame prevede la prescrizione, secondo cui, prima dell’avvio dei lavori di costruzione dell’autorimessa interrata, sia predisposta "una relazione congiunta, a firma dello strutturista della società titolare del permesso di costruire e dello strutturista degli esponenti oppure del solo strutturista della società titolare del permesso di costruire con "visto" di quello degli esponenti o altra forma dalla quale risulti comunque l'accordo delle parti stesse che, dopo aver espletato le eventuali ulteriori verifiche del caso, riconosca la fattibilità dell'intervento sotto il profilo strutturale; tale accordo dovrà anche riguardare l'esecuzione dei lavori e consentire che venga svolta un'attività di controllo da parte del professionista incaricato dagli amministratori dei palazzi soprastanti. Nel caso di mancato accordo tra le parti, dovrà essere onere delle stesse affidare la soluzione dei punti controversi ad un terzo "arbitro" ed i lavori potranno iniziare solo nel caso di valutazione favorevole di questo ultimo".
11.3. Alla luce della previsione di dettaglio, e tenendo in debita considerazione le richiamate coordinate giurisprudenziali, risulta che:
   a)
non sussistono i presupposti per ritenere integrata una delle ipotesi eccezionali per le quali viene ammesso il rilascio condizionato del titolo (seppur subordinatamente alla permanenza del monitoraggio da parte del Comune, che, ad ogni modo, deve restare il titolare del procedimento autorizzatorio). Invero:
      a.1)
non si ravvisa nessuna finalità di risparmio procedimentale, non essendo necessario, ai fini del completamento dell’istruttoria procedimentale, acquisire atti da altra amministrazione, con conseguente attivazione di altra fase procedimentale o di subprocedimento;
      a.2)
non vi è neanche specifica necessità di conseguire effetti di economia procedimentale, essendo in realtà già stati acquisiti nel corso del procedimento, tenuto dal Comune, gli atti utili per ritenere satisfattivo l’approfondimento istruttorio (si vedano, al riguardo, i pareri favorevoli resi dai vari uffici, tra i quali, in particolare, quello dell’Ufficio geologico del Comune, nei quali non vengono indicate esigenze straordinarie che in ipotesi richiedono ulteriori adempimenti istruttori);
      a.3)
l’aver condizionato la produzione degli effetti del permesso di costruire alla conclusione di un futuro accordo si risolve, per converso, in un ingiustificato aggravamento del procedimento, in antitesi ai principi di efficienza ed economicità ex art. 97 Cost. e art. 1 legge n. 241/1990;
   b)
la prescrizione, nel caso di specie, subordina il permesso all’esecuzione di lavori da effettuarsi secondo modalità non determinate preventivamente (ipotesi al limite ammissibile, secondo quanto previsto da Cons. Stato, sez. IV, 25.06.2013, n. 3447), ma, al contrario, determinabili solo in un momento successivo.
Tale decisione, peraltro non risulta essere stata rimessa all’Amministrazione titolare del procedimento, in quanto viene attribuita allo stesso istante unitamente ad altri soggetti controinteressati, mediante la conclusione di un accordo tra essi, tuttavia ancora non esistente al momento dell’adozione del provvedimento concessorio.
Pertanto:
   b.1)
l’Amministrazione sostanzialmente assegna il potere decisorio sulla concreta operatività del permesso a soggetti diversi da essa, finendo sostanzialmente per abdicare all’esercizio della funzione pubblica e, conseguentemente, per dismettere la titolarità del procedimento di cui è investita ex lege;
   b.2)
l’efficacia del permesso risulta in tal modo permeata da incertezza, essendo subordinata alla conclusione di un accordo futuro (ed eventuale) avente ad oggetto le modalità esecutive dell’intervento;
   b.3)
l’efficacia del permesso di costruire viene rimessa alla decisione, se non all’arbitrio, di soggetti terzi controinteressati, in quanto la conclusione dell’accordo dipende dal consenso dei proprietari confinanti in ordine alla fattibilità dell’intervento.
11.4. Conclusivamente, il Collegio riscontra che la produzione degli effetti del permesso impugnato risulta subordinata al verificarsi di una condizione, di carattere sospensivo, futura ed incerta, in quanto tale inammissibile nonché dimostrativa di una carente istruttoria procedimentale.
12. Le spese del grado seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo, tenuto conto dei parametri di cui al regolamento n. 55 del 2014 e di cui all’art. 26, comma 1, c.p.a. ricorrendone nella specie i presupposti applicativi (cfr. da ultimo Cons. Stato, Sez. IV, 24.05.2016, n. 2200; Cass. civ., Sez. VI, 02.11.2016, n. 22150).

anno 2017

EDILIZIA PRIVATA: Autorizzazione edilizia condizionata ad assunzione oneri manutenzione ordinaria e straordinaria.
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Edilizia – Permesso di costruire – Autorizzazione condizionata ad assunzione oneri manutenzione ordinaria e straordinaria – Illegittimità - Fattispecie.
E’ illegittimo il provvedimento comunale che sospende la definizione di un procedimento per il rilascio di una autorizzazione edilizia, richiesta per l’installazione di sbarre automatiche per regolamentare l’accesso alla proprietà condominiale della lottizzazione, subordinandolo all’assunzione, da parte del condominio, degli oneri di manutenzione ordinaria e straordinaria delle reti di distribuzione idrica e raccolta fognaria all’interno delle strade private della lottizzazione, oltre agli oneri di raccolta dei rifiuti solidi urbani; le condizioni apposte per il rilascio dell’autorizzazione sono infatti contra legem perché in contrasto le disposizioni di legge vigenti in materia (art. 28, l. 17.08.1942, n. 1150) e perché nella specie le opere di urbanizzazione erano state cedute gratuitamente in favore del Comune il quale, dalla data di cessione, ne aveva assunto gli oneri di manutenzione (1).
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   (1) Il Tar ha osservato che ai sensi dell’art. 28, l. 17.08.1942, n. 1150 l’acquisizione delle opere e delle relative aree è per il Comune obbligatoria quanto lo è la cessione delle stesse per la società lottizzante e ciò in quanto, oltre ad essere tassativamente previsto dalla legge, detto trasferimento è condizione necessaria affinché possa concretamente realizzarsi l’assetto del territorio cui sovrintende l’attività di pianificazione ed è, altresì, presupposto necessario affinché possano poi concretamente operare le norme nazionali e regionali vigenti in materia di corretta gestione dei servizi pubblici correlati alle opere di urbanizzazione, la cui titolarità il legislatore espressamente affida all’autorità amministrativa.
A ciò consegue che -ove dopo la destinazione di un’area ad opera di urbanizzazione da parte del piano di lottizzazione (che per primo imprime tale destinazione pubblicistica e sulla base del quale viene poi stipulata la convenzione) la stessa fosse ceduta dal lottizzante a terzi- il relativo contratto sarebbe nullo per contrasto con norma imperativa e non potrebbe incidere sui relativi assetti urbanistici e dominicali.
Tale conclusione, oltre che normativamente imposta, è indispensabile per garantire la tenuta dell’intero sistema urbanistico, volto alla tutela di interessi pubblici di rango superiore, che risulterebbero gravemente frustrati dall’alienazione delle opere di urbanizzazione a soggetti privati; in sostanza, il sistema tende ad evitare che quelle opere siano sottratte alla loro destinazione a pubblico servizio, in chiave di tutela del corretto sfruttamento del territorio e dei correlati valori di rango ancora superiore, quali il diritto alla salute, alla sicurezza stradale, all’approvvigionamento idrico ed elettrico, etc..
Proprio perché le opere di urbanizzazione sono funzionali allo svolgimento di pubblici servizi di primaria utilità (idrico, fognario, viabilità, elettrico…), dunque, la loro proprietà necessariamente dev’essere del Comune, il quale soltanto può garantire un accettabile e uniforme livello di qualità dei servizi in favore dei propri cittadini che non potrebbe essere garantito da un soggetto privato il quale, ovviamente, non potrebbe che gestire i servizi in chiave imprenditoriale e quindi in funzione dell’ottenimento di utili, con il rischio, conseguentemente, di servizi con qualità al di sotto dell’accettabile o addirittura tali da mettere a repentaglio i diritti fondamentali dei cittadini; si pensi, ad esempio, ai rischi per la salute derivanti da un servizio idrico con acque non potabili, da un servizio di depurazione fognaria non efficiente, da una rete elettrica o viaria non manutenuta.
La gestione di simili servizi deve quindi necessariamente essere garantita dall’ente locale vuoi con una gestione diretta, vuoi anche con la concessione, previa gara di appalto, a soggetti privati ma ovviamente, in quest’ultimo caso, con un appropriato disciplinare del servizio che, unitamente alla supervisione e controllo dell’ente concedente, assicuri una qualità delle prestazioni da rendere ai cittadini consona all’attuale momento storico.
Data la premessa, il Tar ha quindi accolto sia la domanda di annullamento del provvedimento di sospensione della definizione del procedimento per il rilascio dell’autorizzazione edilizia, sia, per l’effetto, la domanda di accertamento dell’obbligo del Comune di assumere gli oneri di manutenzione delle opere di urbanizzazione presenti nel comparto in questione senza poter condizionare l’eventuale rilascio di titoli edilizi all’assunzione degli stessi da parte del condominio richiedente (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 08.03.2017 n. 168 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
Il ricorso si rivela anzitutto fondato con riguardo alla richiesta di annullamento del provvedimento col quale il Comune di Arbus ha sospeso la definizione del procedimento in attesa dell’attuazione della sentenza del TAR Sardegna n. 1336/2008 e dell’ottemperanza alle prescrizioni dell’autorizzazione n. 183/1998.
Ed invero la richiesta inoltrata all’ufficio comunale il 05.01.2009, è del tutto autonoma, anche per la diversa dislocazione territoriale delle sbarre, rispetto alla precedente sfociata nell’autorizzazione n. 183/1998, e non può non trovare, da parte dell’amministrazione comunale, una sua definizione conclusiva con la quale dovrà (anche) essere valutata, nel merito, l’accoglibilità dell’istanza stessa e la sua compatibilità con le esigenze pubblicistiche di accesso e transito pubblico nella rete viaria acquisita, per quanto si dirà appresso, al patrimonio comunale.
Il rilascio di detta autorizzazione non potrà, comunque, essere legittimamente subordinato a condizioni contra legem, non solo in contrasto col chiaro tenore letterale dell’atto consensuale stipulato tra le parti ma, prima ancora, con le disposizioni di legge vigenti in materia.
Ed invero il Condominio Co. è titolare dei diritti derivanti dal piano di lottizzazione Torre di Filimentorgiu in Arbus, Località Torre dei Corsari, oggetto della convenzione Rep. N. 434 registrata a Sanluri il 10.03.1975 al n. 408.
Per le opere di urbanizzazione previste nel Piano veniva prevista la cessione gratuita in favore del Comune di Arbus il quale, dalla data di cessione, ne assumeva gli oneri di manutenzione.
Dette opere venivano quindi realizzate e state positivamente collaudate dal tecnico incaricato dal Comune in data 19.06.1995.
Va precisato che la prevista cessione all’ente locale delle opere di urbanizzazione e degli oneri di manutenzione è del tutto conforme alle prescrizioni vigenti.
Quest’ultimo, infatti, deve gestire i pubblici servizi connessi alle opere di urbanizzazione esistenti (servizio viabilità, idrico, elettrico…) per le ragioni svolte nelle pronunce e condivise dal Collegio di questa Sezione: sentenze nn. 602/2013, 187/2010 e 880/2011 e ordinanza 316/2009.
Segnatamente con la sentenza n. 880/2011 la Sezione ha osservato che -ai sensi dell’art. 28 della legge n. 1150/1942-
…l’acquisizione delle opere e delle relative aree è per il Comune obbligatoria quanto lo è la cessione delle stesse per la società lottizzante e ciò in quanto, oltre ad essere tassativamente previsto dalla legge nei termini sopra descritti, detto trasferimento è condizione necessaria affinché possa concretamente realizzarsi l’assetto del territorio cui sovrintende l’attività di pianificazione ed è, altresì, presupposto necessario affinché possano poi concretamente operare le norme nazionali e regionali vigenti in materia di corretta gestione dei servizi pubblici correlati alle opere di urbanizzazione, la cui titolarità il legislatore espressamente affida all’autorità amministrativa.
A ciò consegue che -ove dopo la destinazione di un’area ad opera di urbanizzazione da parte del piano di lottizzazione (che per primo imprime tale destinazione pubblicistica e sulla base del quale viene poi stipulata la convenzione) la stessa fosse ceduta dal lottizzante a terzi- il relativo contratto sarebbe nullo per contrasto con norma imperativa e non potrebbe incidere sui relativi assetti urbanistici e dominicali.
Tale conclusione, oltre che normativamente imposta, è indispensabile per garantire la tenuta dell’intero sistema urbanistico, volto alla tutela di interessi pubblici di rango superiore, che risulterebbero gravemente frustrati dall’alienazione delle opere di urbanizzazione a soggetti privati; in sostanza il sistema tende ad evitare che quelle opere siano sottratte alla loro destinazione a pubblico servizio, in chiave di tutela del corretto sfruttamento del territorio e dei correlati valori di rango ancora superiore, quali il diritto alla salute, alla sicurezza stradale, all’approvvigionamento idrico ed elettrico, etc..
Del resto, la necessaria appartenenza alla mano pubblica delle opere di urbanizzazione (e delle aree su cui esse insistono), secondo il regime del patrimonio indisponibile (perché destinato a pubblico servizio, secondo lo schema di cui all’art. 826, comma 3, del codice civile), è principio assolutamente consolidato in giurisprudenza
(ex multis, TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 03.05.2011, n. 606; conformi TAR Puglia Bari, Sez. II, 01.07.2010, n. 2815; TAR Sardegna, Sez. II, 19.02.2010, n. 187 e Sez. II, 21.08.2009, n. 1464; TAR Venezia, sentenza n. 1373/2004; Consiglio Stato, Sez. V, 15.03.2001, n. 1514)…
”.
Proprio perché le opere di urbanizzazione sono funzionali allo svolgimento di pubblici servizi di primaria utilità (idrico, fognario, viabilità, elettrico…), dunque, la loro proprietà necessariamente dev’essere del Comune, il quale soltanto può garantire un accettabile e uniforme livello di qualità dei servizi in favore dei propri cittadini che non potrebbe essere garantito da un soggetto privato il quale, ovviamente, non potrebbe che gestire i servizi in chiave imprenditoriale e quindi in funzione dell’ottenimento di utili, con il rischio, conseguentemente, di servizi con qualità al di sotto dell’accettabile o addirittura tali da mettere a repentaglio i diritti fondamentali dei cittadini; si pensi, ad esempio, ai rischi per la salute derivanti da un servizio idrico con acque non potabili, da un servizio di depurazione fognaria non efficiente, da una rete elettrica o viaria non manutenuta (cfr. in termini TAR Sardegna Sez. II, sentenza n. 990 del 2009).
La gestione di simili servizi deve quindi necessariamente essere garantita dall’ente locale vuoi con una gestione diretta, vuoi anche con la concessione, previa gara di appalto, a soggetti privati ma ovviamente, in quest’ultimo caso, con un appropriato disciplinare del servizio che, unitamente alla supervisione e controllo dell’ente concedente, assicuri una qualità delle prestazioni da rendere ai cittadini consona all’attuale momento storico.
Del resto sarebbe contraddittorio, se non addirittura paradossale, ritenere che l’ordinamento abbia dettato una precisa e rigorosa disciplina per la realizzazione delle opere di urbanizzazione necessarie per l’erogazione dei servizi pubblici -con la previsione della necessità di un piano di lottizzazione ancorato a precise norme di legge e regolamentari quanto a contenuto e procedimento di approvazione- e abbia poi rimesso la gestione degli stessi alla assoluta discrezione di soggetti privati, così da lasciare i cittadini fruitori di detti servizi essenziali del tutto in balia dei gestori privati.
Nel caso di specie sussistono poi ulteriori aspetti che conducono all’inaccettabilità della tesi dell’assenza di un obbligo per lo stesso di assumersi l’onere di manutenzione delle opere di urbanizzazione.
Le opere di urbanizzazione del comprensorio, infatti, sono oramai entrate nel patrimonio del Comune per utilizzo pubblico delle stesse da oltre vent’anni, cosicché i danni derivanti dall’omessa o insufficiente manutenzione non potrebbero che gravare sullo stesso Comune.
Peraltro non si vede in base a quale titolo i ricorrenti potrebbero essere obbligati a sostenere gli oneri per la loro manutenzione, tenuto anche conto che non hanno alcuna quota di proprietà sulle stesse.
Per le suesposte considerazioni va quindi accolta la domanda di accertamento dell’obbligo del Comune di Arbus di assumere gli oneri di manutenzione delle opere di urbanizzazione presenti nel comparto in questione senza poter fondatamente condizionare l’eventuale rilascio di titoli edilizi all’assunzione degli stessi da parte del condominio richiedente.

anno 2015

EDILIZIA PRIVATAIl condominio non può controllare il vicino. Tar Liguria. Il Comune non può condizionare una costruzione al consenso dei confinanti.
Non è legittimo il permesso di costruire rilasciato dal Comune a un’impresa che vuole realizzare un’autorimessa, se viene subordinato al consenso dei condomìni confinanti, attribuendo di fatto a questi ultimi il potere di veto in ordine alla fattibilità dell’opera.
Lo ha affermato dal TAR Liguria, Sez. I, nella sentenza 11.06.2015 n. 561.
Nel caso esaminato un’impresa edile chiede il rilascio del permesso di costruire per la realizzazione di un’autorimessa da svilupparsi su cinque livelli interrati. L’imponenza dell’opera suscita le proteste di alcuni residenti i quali, temendo che le opere di sbancamento potessero provocare crolli o cedimenti, presentano esposti al Comune. L’impresa allora ridimensiona l’opera prevista e il Comune, dopo un supplemento di istruttoria, approvava il nuovo progetto in versione ridotta.
Il titolo abilitativo, però, impone all’impresa non solo di predisporre (prima dell’avvio dei lavori di costruzione dell’autorimessa interrata) una relazione congiunta sottoscritta anche da un tecnico dei residenti che riconoscesse la fattibilità dell’intervento, ma di acconsentire anche un’attività di controllo da parte del professionista incaricato dagli amministratori dei palazzi soprastanti. In altre parole, il Comune condizionava l’esecuzione dei lavori al consenso degli autori dei precedenti esposti e degli amministratori dei condomini circostanti. L’impresa, perciò, dopo l’inutile tentativo di accordarsi con i caseggiati vicini fa ricorso al Tar contro questi obblighi.
I giudici amministrativi liguri, nell’accogliere il ricorso, hanno rilevato come, in linea generale, sia da considerare legittimo un provvedimento (di solito, abilitativo) condizionato ad alcune prescrizioni introdotte dall’amministrazione. Tuttavia, secondo il Tar, il permesso di costruire deve essere rilasciato solo in base a precisi parametri normativi, attinenti alla legittimazione del richiedente e alla conformità dell’intervento alle previsioni degli strumenti urbanistici, senza considerare situazioni finalizzate a costituire forme di tutela dei residenti del vicinato.
Ne consegue la palese illegittimità della prescrizione che, considerando possibili pericoli legati all’esecuzione delle opere, ne subordina l’esecuzione al consenso dei proprietari confinanti, attribuendo di fatto a questi ultimi il potere di pronunciarsi in ordine alla fattibilità dell’intervento (potere che comporta un potere di veto circa la realizzazione dell’opera)
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.10.2015).
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MASSIMA
6.1)
In linea di principio, deve darsi atto dell’esistenza di un orientamento giurisprudenziale che ammette l’apposizione di condizioni al permesso di costruire, ritenendo che l’inserimento di particolari clausole accidentali possa risultare funzionale alla semplificazione della procedura e all’ampliamento dei poteri conformativi dell’amministrazione la quale, in questo modo, ha la possibilità di “modellare” meglio la propria decisione alle particolarità del caso concreto (cfr., fra le ultime, Cons. Stato, sez. IV, 25.06.2013, n. 3447).
Anche in tale prospettiva, però,
il permesso di costruire mantiene la propria natura di atto vincolato che deve essere rilasciato in base a precisi parametri normativi, pacificamente attinenti alla legittimazione del richiedente e alla conformità dell’intervento alle previsioni degli strumenti urbanistici.
I presupposti di assentibilità del permesso di costruire non possono includere, invece, analisi della situazione di fatto sostanzialmente finalizzate, come nel caso di specie, a precostituire forme di tutela dei terzi in sede di esecuzione dei lavori.

Ne consegue la palese illegittimità della prescrizione che, avendo riguardo agli ipotetici (ma non dimostrati) pericoli cagionati dall’esecuzione delle opere, ne subordina l’esecuzione al consenso dei proprietari confinanti, attribuendo di fatto a questi ultimi il potere di pronunciarsi in ordine alla fattibilità dell’intervento (o, se si preferisce, un inammissibile potere di veto circa la realizzazione dell’intervento stesso).
Tanto più che la stessa Amministrazione aveva riconosciuto come tali elementi, riguardando la successiva fase della progettazione esecutiva, fossero estranei ai presupposti richiesti per l’approvazione del progetto edificatorio.
6.2) L’apposizione della contestata condizione sospensiva sembra anche funzionale alla prevenzione di potenziali contenziosi tra i privati (la Società titolare del permesso di costruire e i proprietari degli stabili limitrofi).
In tale prospettiva, si verifica un’obiettiva divergenza dell’atto rispetto alla sua funzione istituzionale, non identificabile con la tutela preventiva di interessi privati (tanto che esso viene normalmente rilasciato con la formula “fatti salvi i diritti dei terzi”), ma con la verifica della conformità dell’intervento alla normativa urbanistica ed edilizia.
Peraltro, la clausola in contestazione non arricchisce concretamente gli strumenti di tutela dei privati i quali, laddove abbiano ragione di temere i danni derivanti da una nuova opera intrapresa da altri, possono tutelare i propri diritti dinanzi al giudice ordinario mediante l’azione prevista dall’art. 1171 cod. civ..
6.3) La prescrizione di cui si controverte si pone anche immotivatamente in contraddizione con le risultanze dell’articolata istruttoria procedimentale.
Tutti gli uffici che si erano pronunciati in ordine all’intervento edificatorio, compreso l’Ufficio geologico del Comune, infatti, avevano reso parere favorevole.
Inoltre, il responsabile di quest’ultimo Ufficio, con una relazione in data 05.12.2011, si era scrupolosamente soffermato sulle relazioni tecniche allegate agli esposti presentati dai privati, escludendo la sussistenza delle criticità ivi segnalate.
6.4) E’ condivisibile anche la censura inerente alla violazione del divieto di aggravio del procedimento sancito dall’art. 1, comma 2, della legge n. 241/1990.
Come già precisato, infatti, l’approfondita istruttoria svolta dagli uffici comunali non aveva evidenziato la sussistenza di esigenze straordinarie che potessero eventualmente giustificare gli ulteriori adempimenti formali imposti con la contestata prescrizione, tali da determinare, anche nel caso di esito favorevole, una significativa dilatazione dei tempi di esecuzione delle opere in progetto.
6.5) Infine,
la prescrizione in parola è illegittima per indeterminatezza in quanto, non contenendo la precisa individuazione dei soggetti legittimati ad esprimere il proprio consenso in ordine all’esecuzione dei lavori (genericamente identificati con gli “esponenti” e con gli “amministratori dei palazzi soprastanti”), introduce obiettivi elementi di incertezza in ordine alla possibilità di adempiervi compiutamente.
7) Per tali ragioni, il ricorso è fondato e, pertanto, deve essere accolto.

anno 2013

EDILIZIA PRIVATA: L'apposizione di condizioni al rilascio di un titolo edilizio è ammissibile soltanto quando si vada ad incidere su aspetti legati alla realizzazione dell'intervento costruttivo, sia da un punto di vista tecnico che strutturale, e ciò trovi un fondamento diretto o indiretto in una norma di legge o regolamento.
Diversamente, non è possibile apporre condizioni al titolo edilizio che siano estranee alla fase di realizzazione dell'intervento edilizio, stante la natura di accertamento costitutivo a carattere non negoziale della concessione stessa. Concedendo spazio al perseguimento di finalità estranee a quelle sottese al potere esercitato -legato allo svolgimento dell'attività edificatoria– si finirebbe infatti per funzionalizzare l'attività amministrativa ad interessi avulsi rispetto a quelli tipizzati dal legislatore.
La giurisprudenza ha già avuto modo di dichiarare illegittime le condizioni che subordinano la validità della concessione edilizia alla cessione gratuita di aree destinate alla realizzazione di opere pubbliche, in quanto condizionare l’assenso all’intervento edilizio a fattori diversi da quelli di stretta conformità ai richiesti parametri normativi, appare non in linea con la natura e le finalità dei poteri dell’amministrazione in materia edilizia, trattandosi di attività vincolata da specifiche norme e funzionale al solo accertamento della corrispondenza degli interventi e dei relativi elaborati progettuali con tali prescrizioni normative.
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La recinzione di un fondo non può essere ostacolata dall'esistenza di una previsione vincolistica del piano regolatore, in quanto il legittimo esercizio dello jus excludendi, di per sé, non contrasta con la detta previsione, non avendo per fine quello di imprimere all'area una destinazione diversa da quella prevista dalle norme urbanistiche e non limitando in alcun modo l'amministrazione nell'esercizio dei poteri, eventualmente ablativi, che dal vincolo discendono.
Le censure svolte dal ricorrente appaiono fondate sotto plurimi profili.
Innanzitutto, il provvedimento di diniego opposto dal Comune alla richiesta di concessione edilizia non reca adeguata motivazione in merito all’intervenuta cessazione del vincolo espropriativo che in precedenza destinava parte dell’area privata a viabilità pubblica.
L’intenzione palesata dall’amministrazione di condizionare il rilascio del titolo abilitativo alla previa cessione della fascia di terreno inscritta nell’ambito dei viabilità pubblica, non trova infatti giustificazione nella pianificazione urbanistica all’epoca vigente.
Il punto è di evidente rilievo se si considera che lo "ius aedificandi" costituisce facoltà insita nel diritto di proprietà, comprimibile esclusivamente per un contrasto con esigenze di pubblico interesse recepite nelle prescrizioni urbanistiche. Se, pertanto, un provvedimento di diniego presuppone necessariamente che siano evidenziate ipotesi di contrasto tra l'elaborato progettuale e le prescrizioni urbanistiche, senza possibilità di limitazioni non strettamente pertinenti all'aspetto urbanistico, nel caso di specie tale condizione di contrasto non è rinvenibile, atteso che all’epoca della presentazione dell’istanza di concessione, in data 20.04.2006, era già pacificamente decaduto il vincolo espropriativo potenzialmente configgente con l’intervento edificatorio.
L’operato della pubblica amministrazione si è svolto, inoltre, in contrasto con il principio -costantemente affermato dalla giurisprudenza- secondo il quale l'apposizione di condizioni al rilascio di un titolo edilizio è ammissibile soltanto quando si vada ad incidere su aspetti legati alla realizzazione dell'intervento costruttivo, sia da un punto di vista tecnico che strutturale, e ciò trovi un fondamento diretto o indiretto in una norma di legge o regolamento. Diversamente, non è possibile apporre condizioni al titolo edilizio che siano estranee alla fase di realizzazione dell'intervento edilizio, stante la natura di accertamento costitutivo a carattere non negoziale della concessione stessa. Concedendo spazio al perseguimento di finalità estranee a quelle sottese al potere esercitato -legato allo svolgimento dell'attività edificatoria– si finirebbe infatti per funzionalizzare l'attività amministrativa ad interessi avulsi rispetto a quelli tipizzati dal legislatore (cfr. TAR Milano sez. IV, 10.09.2010, n. 5655; TAR Trentino Alto Adige, Trento sez. I, 04.01.2011, n. 2; TAR Lecce sez. III, 28.09.2012, n. 1623).
La giurisprudenza ha già avuto modo di dichiarare illegittime le condizioni che subordinano la validità della concessione edilizia alla cessione gratuita di aree destinate alla realizzazione di opere pubbliche (cfr. Cons. St. sez. V, 24.03.2001, n. 1702; TAR Milano sez. II, 18.02.1984, n. 77), in quanto condizionare l’assenso all’intervento edilizio a fattori diversi da quelli di stretta conformità ai richiesti parametri normativi, appare non in linea con la natura e le finalità dei poteri dell’amministrazione in materia edilizia, trattandosi di attività vincolata da specifiche norme e funzionale al solo accertamento della corrispondenza degli interventi e dei relativi elaborati progettuali con tali prescrizioni normative.
Sotto diverso profilo, correttamente la difesa di parte ricorrente richiama il principio giurisprudenziale secondo il quale la recinzione di un fondo non può essere ostacolata dall'esistenza di una previsione vincolistica del piano regolatore (nel caso di specie peraltro assente), in quanto il legittimo esercizio dello jus excludendi, di per sé, non contrasta con la detta previsione, non avendo per fine quello di imprimere all'area una destinazione diversa da quella prevista dalle norme urbanistiche e non limitando in alcun modo l'amministrazione nell'esercizio dei poteri, eventualmente ablativi, che dal vincolo discendono (cfr. TAR Bari sez. III, 22.02.2006, n. 572; TAR Catanzaro sez. II, 24.02.2003, n. 351; TAR Milano, sez. II, 20.05.1993 n. 334 e 24.10.1991 n. 1247) (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 22.05.2013 n. 617 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2012

EDILIZIA PRIVATAL’attività edilizia che il privato può legittimamente porre in essere deve essere necessariamente conforme al titolo abilitativo, di modo che eventuali limitazioni e/o prescrizioni devono risultare dal titolo emanato dal Comune.
Ogni prescrizione e/o limitazione all’edificazione deve risultare sia dal documento rappresentante il titolo edilizio conservato presso gli uffici comunali, sia dal documento rappresentativo del titolo edilizio rilasciato al privato beneficiario, con la conseguenza che non possono essere opposte a quest’ultimo eventuali prescrizioni che non risultano dal titolo edilizio allo stesso in concreto rilasciato.

Il Collegio ritiene fondato il secondo motivo di appello (sub b) dell’esposizione in fatto), nella parte in cui, con lo stesso, si evidenzia l’error in iudicando della sentenza impugnata, per non avere la medesima considerato, in particolare, la violazione del principio del legittimo affidamento, in quanto il fabbricato realizzato è stato posto in relazione “direttamente ed esclusivamente con la disposizione regolamentare che prevede la distanza di 20 metri dalla strada senza minimamente considerare che il permesso di costruire consentiva una distanza inferiore e che, quindi, vi era stato al riguardo un legittimo affidamento da parte dell’originario ricorrente, nonché soprattutto il consolidamento del diritto di quest’ultimo al mantenimento del fabbricato così come assentito e realizzato, per essere state le opere che lo riguardavano pressoché ultimate”.
Giova, innanzi tutto, osservare che la costruzione realizzata dal sig. Ciccone risulta previamente autorizzata con permesso di costruire n. 3315/2008.
Orbene, la apposizione di una “correzione in rosso” (così definita dall’appellante: pag. 4 appello), relativa ad una prescrizione di mantenere il fabbricato ad una distanza di 20 metri dalla strada comunale San Giorgio La Molara – Montefalcone, risulta presente solo sulla copia del progetto esistente agli atti del Comune, mentre, per quel che interessa nella presente sede, non risulta sulla copia in possesso dell’attuale appellante.
Su tale circostanza di fatto, mentre non vi è contestazione da parte del non costituito Comune di San Giorgio La Molara, la società controinteressata si limita ad osservare che la citata correzione, se effettivamente apposta, “è da qualificarsi alla stregua di mera specificazione ricognitiva dell’obbligo normativo previsto dall’art. 26 DPR 16.12.1992 n. 495, volta a facilitare la cognizione, da parte del sig. Ciccone, delle previsioni normative concernenti l’attività edilizia”.
Orbene il Collegio (prescindendo dalle argomentazioni ampiamente esposte dall’appellante e relative a quanto emergente dagli atti di un procedimento penale che si assume essere stato instaurato), rileva che il diniego di accertamento di conformità ex art. 36 DPR n. 380/2001 è illegittimo, nella misura in cui detto diniego si fonda su una non conformità di quanto realizzato alla normativa relativa alla “distanza dalla strada”.
Ed infatti, occorre osservare che l’attività edilizia che il privato può legittimamente porre in essere deve essere necessariamente conforme al titolo abilitativo (nel caso di specie, permesso di costruire), di modo che eventuali limitazioni e/o prescrizioni devono risultare dal titolo emanato dal Comune. E ciò a maggior ragione in un caso come quello di specie, dove la distanza dalla strada non costituisce solo una mera “prescrizione” afferente al rispetto, per ragioni di sicurezza, di una distanza minima dalla strada comunale, ma condiziona decisamente l’ubicazione della costruzione nel suo complesso e la individuazione in concreto dell’area di sedime del fabbricato.
E’ appena il caso di aggiungere che ogni prescrizione e/o limitazione all’edificazione deve risultare sia dal documento rappresentante il titolo edilizio conservato presso gli uffici comunali, sia dal documento rappresentativo del titolo edilizio rilasciato al privato beneficiario, con la conseguenza che non possono essere opposte a quest’ultimo eventuali prescrizioni che non risultano dal titolo edilizio allo stesso in concreto rilasciato.
A fronte di ciò, il Comune di San Giorgio La Molara, in sede di esame dell’istanza di accertamento di conformità, non avrebbe potuto non considerare tale discrasia esistente tra le varie copie dell’elaborato progettuale (ed in particolare l’assenza di ogni prescrizione nel titolo rilasciato all’interessato).
Il medesimo Comune, laddove avesse ritenuto la sussistenza di un limite di distanza non considerato dal rilasciato titolo autorizzatorio edilizio avrebbe dovuto, ricorrendone i presupposti di attualità dell’interesse pubblico, procedere ad annullamento di ufficio del titolo medesimo e quindi (solo a questo punto) rilevare –impregiudicata ogni ulteriore valutazione di tale “modus operandi”– la non conformità del concretamente costruito a norme di legge e regolamento e la (eventuale) non emanabilità di un permesso di costruire a sanatoria (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 29.10.2012 n. 5509 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha ritenuto ammissibile l’apposizione di condizioni al rilascio di un titolo edilizio <<soltanto quando si vada ad incidere su aspetti legati alla realizzazione dell’intervento costruttivo, sia da un punto di vista tecnico che strutturale, e ciò trovi un fondamento diretto o indiretto in una norma di legge o regolamento>>.
Diversamente, non è possibile apporre condizioni al titolo edilizio che siano estranee alla fase di realizzazione dell’intervento edilizio.
Difatti, il Comune non può assentire una concessione edilizia subordinatamente all’impegno del privato a rinunciare all’indennizzo dovuto, nel caso di futura espropriazione dell’opera, “in quanto tale condizione non è volta a perseguire alcun interesse pubblico riconducibile alla materia urbanistico-edilizia e si pone in contrasto con il principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi”.
In tal modo, infatti, si tende al perseguimento di finalità estranee a quelle sottese al potere esercitato, legato allo svolgimento dell’attività edificatoria, funzionalizzando l’attività amministrativa ad interessi avulsi rispetto a quelli tipizzati dal legislatore: del resto, in sede di rilascio di concessioni edilizie, non si può, in via generale, apporre condizioni, sia sospensive che risolutive, ai predetti titoli abilitativi, salvi i casi espressamente previsti dalla legge, stante la natura di accertamento costitutivo a carattere non negoziale di detti provvedimenti.
A ciò consegue certamente l’invalidità della condizione apposta, senza tuttavia che ciò ridondi sulla validità complessiva della concessione assentita, “dal momento che l’invalidità di una condizione apposta all’atto amministrativo comporta la invalidità totale dell’atto stesso solo qualora il contenuto della condizione abbia costituito il motivo essenziale della dichiarazione di volontà, la quale presumibilmente non vi sarebbe stata senza di quella (“vitiatur et vitiat”); ma la nullità e l’invalidità totale dell’atto amministrativo, a cagione dell’invalidità della condizione, non può certamente prodursi quando si tratti di atti dovuti (nei quali cioè non vi sia discrezionalità nell’an) e quando l’autorità amministrativa, che si determina per il provvedimento, dovrà dare ad esso il contenuto predeterminato dalle fonti normative, in assenza di discrezionalità nel quid”.

Come già evidenziato da questo Tar in sede cautelare, in specie (v. l’ordinanza n. 1195 del 2001 e quella, per l’esecuzione della prima, n. 1424 dello stesso anno), le condizioni prescritte dalla Commissione Edilizia -e richiamate dall’Ufficio Tecnico- per il rilascio del titolo richiesto dalla sig.ra Silibello, anche per come esplicitate con il provvedimento di conferma del 03.09.2001, erano sicuramente illegittime, atteso che:
- la condizione sub a), <<che il muro non superi i 30 cm. di altezza dal piano campagna per tutta la sua estensione>>, era priva di fondamento normativo, non trovando giustificazione neppure nella disciplina edilizia comunale e, in specie, nel R.E.C. vigente;
- la condizione sub b), <<che prima del rilascio dell’autorizzazione sia sottoscritto un atto di sottomissione in cui il titolare rinuncia al pagamento del valore delle opere autorizzate al momento della concreta attuazione da parte dell’A.C. del Comparto di “167” denominato Ces1 […]>>, era del tutto estranea al fisiologico esplicitarsi delle potestà pubbliche in campo urbanistico ed edilizio.
In termini generali, d’altronde, e con riguardo a entrambi i richiamati profili, va posto in rilievo come la giurisprudenza abbia ritenuto ammissibile l’apposizione di condizioni al rilascio di un titolo edilizio <<soltanto quando si vada ad incidere su aspetti legati alla realizzazione dell’intervento costruttivo, sia da un punto di vista tecnico che strutturale, e ciò trovi un fondamento diretto o indiretto in una norma di legge o regolamento>> [fondamento assente, per quanto prima scritto, nel caso di specie].
Diversamente, non è possibile apporre condizioni al titolo edilizio che siano estranee alla fase di realizzazione dell’intervento edilizio.
Difatti, il Comune non può assentire una concessione edilizia subordinatamente all’impegno del privato a rinunciare all’indennizzo dovuto, nel caso di futura espropriazione dell’opera, “in quanto tale condizione non è volta a perseguire alcun interesse pubblico riconducibile alla materia urbanistico-edilizia e si pone in contrasto con il principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi” (Tar Abruzzo Pescara, 08.02.2007, n. 153).
In tal modo, infatti, si tende al perseguimento di finalità estranee a quelle sottese al potere esercitato, legato allo svolgimento dell’attività edificatoria, funzionalizzando l’attività amministrativa ad interessi avulsi rispetto a quelli tipizzati dal legislatore: del resto, in sede di rilascio di concessioni edilizie, non si può, in via generale, apporre condizioni, sia sospensive che risolutive, ai predetti titoli abilitativi, salvi i casi espressamente previsti dalla legge, stante la natura di accertamento costitutivo a carattere non negoziale di detti provvedimenti (cfr. Consiglio di Stato, V, 24.03.2001, n. 1702).
A ciò consegue certamente l’invalidità della condizione apposta, senza tuttavia che ciò ridondi sulla validità complessiva della concessione assentita, “dal momento che l’invalidità di una condizione apposta all’atto amministrativo comporta la invalidità totale dell’atto stesso solo qualora il contenuto della condizione abbia costituito il motivo essenziale della dichiarazione di volontà, la quale presumibilmente non vi sarebbe stata senza di quella (“vitiatur et vitiat”); ma la nullità e l’invalidità totale dell’atto amministrativo, a cagione dell’invalidità della condizione, non può certamente prodursi quando si tratti -come nel caso di specie- di atti dovuti (nei quali cioè non vi sia discrezionalità nell’an) e quando l’autorità amministrativa, che si determina per il provvedimento, dovrà dare ad esso il contenuto predeterminato dalle fonti normative, in assenza di discrezionalità nel quid” (Tar Abruzzo Pescara, 08.02.2007, n. 153).
Infine, va evidenziato che la specifica condizione apposta contrasta anche con il principio di rango costituzionale -ribadito anche a livello sovranazionale dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo [Grande Camera, Strasburgo, sentenza 29.03.2006, caso Scordino contro Italia]- che subordina necessariamente l’espropriazione alla corresponsione di un indennizzo (art. 42, terzo comma, Cost.)>> (Tar Lombardia Milano, IV, 10.09.2010, n. 5655) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 28.09.2012 n. 1623 -
link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn presenza di un abuso edilizio non sussiste alcun obbligo per l'Amministrazione di dettare prescrizioni per rendere l'abuso esteticamente compatibile con la zona, perché tale finalità non rientra nei compiti di istituto, dovendo la stessa limitarsi a valutare il contenuto della domanda di sanatoria allo scopo di accertarne la compatibilità paesaggistica e non già suggerire ulteriori attività volte a legalizzare comportamenti incontestabilmente contra legem.
È illegittimo un provvedimento di sanatoria che, al fine di rendere l'esistente conforme alle prescrizioni urbanistiche vigenti, preveda l'esecuzione di ulteriori lavori: l'art. 36, d.P.R. n. 380/2001 non consente spazi interpretativi, nel senso che la concessione in sanatoria è ammessa soltanto entro i limiti delineati dal legislatore, senza alcuna estensione discrezionale da parte della p.a..

Deve, infatti, rilevarsi come il diniego di accertamento di conformità sia stato giustificato sulla base del parere dell’usl 3 secondo cui l’altezza del manufatto sarebbe inferiore a quella ammessa dal regolamento edilizio comunale.
In presenza di un abuso edilizio non sussiste alcun obbligo per l'Amministrazione di dettare prescrizioni per rendere l'abuso esteticamente compatibile con la zona, perché tale finalità non rientra nei compiti di istituto, dovendo la stessa limitarsi a valutare il contenuto della domanda di sanatoria allo scopo di accertarne la compatibilità paesaggistica e non già suggerire ulteriori attività volte a legalizzare comportamenti incontestabilmente contra legem (Consiglio Stato , sez. V, 08.03.2011, n. 1440).
È illegittimo un provvedimento di sanatoria che, al fine di rendere l'esistente conforme alle prescrizioni urbanistiche vigenti, preveda l'esecuzione di ulteriori lavori: l'art. 36, d.P.R. n. 380/2001 non consente spazi interpretativi, nel senso che la concessione in sanatoria è ammessa soltanto entro i limiti delineati dal legislatore, senza alcuna estensione discrezionale da parte della p.a. (TAR Lombardia Milano, sez. II, 22.11.2010, n. 7311).
Il Collegio ritiene che la posizione di cui sopra, che deriva dal requisito della doppia conformità richiesto per l’accertamento di conformità, consenta di tratteggiare in maniera equa i rapporti tra cittadino e p.a. anche sul piano dei limiti del reciproco dovere di collaborazione.
E’ evidente, infatti, che il cittadino che si sottrae per primo al dovere di collaborazione realizzando un abuso non ha alcun titolo per pretendere che l’amministrazione gli indichi le modifiche necessarie per rendere conforme l’intervento abusivamente realizzato (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 23.03.2012 n. 411 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire e prescrizioni da osservare. E' reato non dire quando iniziano i lavori edilizi ed il nome di chi li esegue.
Rientra tra le prescrizioni previste dal permesso di costruire, la cui inosservanza integra il reato di cui all'art. 44, comma primo, lett. a), d.P.R. 06.06.2001, n. 380, anche l'obbligo di comunicazione della data di inizio lavori e del nominativo dell'impresa costruttrice.

La Suprema Corte si pronuncia per la prima volta, con la sentenza in commento, su una questione particolare che investe un reato invero non molto approfondito nella giurisprudenza di legittimità, quello previsto e sanzionato dall'art. 44, comma primo, lett. a), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
La Corte, nell'affrontare il tema sottoposto alla sua attenzione, ha affermato che la fattispecie di inosservanza delle prescrizioni contenute nel titolo edilizio, da tale disposizione sanzionata, è applicabile anche nel caso in cui chi abbia ottenuto il rilascio del titolo edilizio non provveda a comunicare all'autorità comunale il nominativo della ditta esecutrice dei lavori ovvero non indichi quando questi ultimi avranno inizio.
Il fatto
La vicenda processuale che ha costituito l'occasione per la Cassazione per occuparsi della questione giuridica in esame, traeva origine da una condanna inflitta al titolare di un permesso di costruire il quale, anche nella qualità di committente dei lavori per la realizzazione di un complesso residenziale, aveva eseguito la demolizione di alcuni fabbricati preesistenti, senza osservare le prescrizioni contenute nel titolo abilitativo che, in particolare, imponevano la comunicazione, con congruo anticipo, della data di inizio lavori e del nominativo dell'impresa costruttrice, ritenendo dunque integrata la violazione della lett. a) dell'art. 44 del T.U. edilizia.
Il ricorso
Il verdetto veniva confermato dal giudice chiamato a pronunciarsi sull'opposizione al decreto penale di condanna emesso in prima battuta dal G.i.p., così costringendo l'imputato ha proporre ricorso per cassazione contro la condanna alla pena dell'ammenda inflittagli. In particolare, il ricorrente deduceva la violazione di legge rilevando che, per errore, il giudice di merito aveva ritenuto sussistere la violazione in esame per la violazione delle prescrizioni contenute nel permesso di costruire, in realtà non effettivamente inerenti l'attività edilizia, da individuarsi tenendo conto del disposto dell'art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001.
La decisione della Cassazione
La Corte Suprema ha, però, disatteso la tesi difensiva, ritenendo, invece, configurabile il reato in esame in caso di violazione delle prescrizioni contenute nel titolo abilitativo edilizio quali, in particolare, quelle relativa alla mancata comunicazione del nominativo della ditta esecutrice dei lavori e della data di inizio di questi ultimi.
Come di consueto è utile, per il lettore, un breve inquadramento normativo della questione.
L'art. 44, comma primo, lett. a) del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, prevede "Salvo che il fatto costituisca più grave reato e ferme le sanzioni amministrative" l'applicazione della pena dell'ammenda fino a 10.329 euro per l'inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dal presente titolo, in quanto applicabili, nonché dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dal permesso di costruire".
La giurisprudenza di legittimità, già sotto la vigenza della legge n. 47 del 1985 (che, all'art. 20, lett. a), conteneva una previsione di identico contenuto), aveva affermato che la disposizione in esame ha un contenuto estremamente generico e si presta ad una pluralità indiscriminata di utilizzazioni con conseguente insufficienza della interpretazione letterale, se non altro perché urta con il principio della tassatività delle fattispecie legali penali.
Da qui, dunque, la necessità di procedere alla delimitazione dell'ambito applicativo della fattispecie in esame, facendo in particolare riferimento alla collocazione di esso in un contesto normativo volto a disciplinare l'attività edilizia. In base alla ratio che si enuclea da tale contesto, secondo la Cassazione "le norme, prescrizioni e modalità esecutive" indicate dalla lett. a) devono intendersi riferite soltanto a quelle regole di condotta che sono direttamente afferenti all'attività edilizia (Cass., Sez. III, n. 8965 del 23/05/1990, dep. 21/06/1990, imp. G., in Ced Cass., n. 184671, fattispecie relativa ad annullamento, perché il fatto non è preveduto dalla legge come reato, di sentenza con la quale il pretore aveva motivato il giudizio di colpevolezza ritenendo che l'apposizione di insegna luminosa all'esterno di un esercizio commerciale è disciplinata dal regolamento edilizio ed, essendo attinente alla estetica edilizia urbana, la relativa mancanza di autorizzazione prevista dal medesimo regolamento si traduce nella violazione della lett. a).
Le Sezioni Unite penali della Cassazione, peraltro, ebbero modo di affermare, sotto la vigenza dell'abrogata fattispecie dell'art. 20 della legge n. 47 del 1985, che l'art. 4, comma quarto, l. 28.02.1985 n. 47 prevede due obblighi a carico di coloro che costruiscono:
1) la tenuta in cantiere della concessione edilizia;
2) la esposizione di un cartello contenente gli estremi della concessione e degli autori dell'attività costruttiva.
La violazione di tali obblighi è penalmente sanzionata a norma della lett. a), ma solo a condizione che gli stessi siano espressamente previsti dai regolamenti edilizi o dalla concessione (Cass., Sez. U, n. 7978 del 29/05/1992, dep. 14/07/1992, P.M. in proc. Aramini ed altro, in Ced Cass., n. 191176).
Sempre le Sezioni Unite penali, con una decisione altrettanto importante (Cass., Sez. U, n. 11635 del 12/11/1993, dep. 21/12/1993, P.M. in proc. Borgia ed altri, in Ced Cass., n. 195358), ebbero ad affermare che la previsione della lett. a), configura una ipotesi di norma penale in bianco, atteso che per la determinazione del precetto viene fatto rinvio a dati prescrittivi, tecnici e provvedimentali, di fonte extrapenale.
Il precetto, infatti, comprende, oltre alle parziali difformità delle opere eseguite, la violazione degli strumenti urbanistici e del regolamento edilizio, l'inosservanza delle prescrizioni della concessione edilizia e l'inosservanza delle modalità esecutive dell'opera risultanti dai suddetti strumenti e dalla concessione edilizia stessa, oltre che dalla legge.
La Cassazione, nella medesima occasione, ha rilevato che l'accertamento che il giudice penale è chiamato a compiere con riferimento alla suddetta fattispecie contravvenzionale consiste nel verificare la conformità tra l'ipotesi di fatto, ossia l'opera eseguenda od eseguita, e la fattispecie legale, quale risultante dagli elementi extrapenali indicati in massima.
Più di recente, la Corte ha precisato che le inosservanze penalmente sanzionate dalla lett. a) devono riguardare la condotta di trasformazione urbanistica o edilizia del territorio, non potendosi estendere il campo di applicazione della norma sanzionatoria a violazioni afferenti ad adempimenti amministrativi; per tale ragione, ha escluso che rientrasse tra le prescrizioni, la cui inosservanza integra il reato di cui all'art. 44, comma primo lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001, la presentazione, da parte del committente o del responsabile dei lavori appaltati, del documento unico di regolarità contributiva delle imprese o dei lavoratori autonomi (cosiddetto D.U.R.C.), prima che abbiano inizio i lavori oggetto del permesso di costruire o della denuncia di inizio attività (Cass., Sez. III, n. 21780 del 27/04/2011, dep. 31/05/2011, imp. C. e altro, in Ced Cass., n. 250390).
Tenuto conto dell'esegesi della norma in questione, ben può comprendersi la soluzione offerta dalla Suprema Corte nel caso in esame.
Ed infatti, la specifica prescrizione, contenuta nel permesso di costruire, che obbligava a comunicare con congruo anticipo la data di inizio lavori e la ditta assuntrice degli stessi aveva certamente attinenza con l'attività edilizia, in quanto scopo della comunicazione è quello di agevolare la verifica, da parte dell'amministrazione comunale, dell'inizio dell'intervento nei termini e consentire una tempestiva verifica sull'attività edilizia posta in essere.
Non si tratta dunque, come sottolineano gli Ermellini, di una semplice formalità amministrativa, ma di un adempimento strettamente connesso ai contenuti ed alle finalità del permesso di costruire ed agli obblighi di vigilanza di cui all'art. 27 T.U. edilizia, imposti al dirigente ed al responsabile dell'ufficio comunale competente, cosicché la correlazione con l'attività edilizia assentita risulta del tutto evidente (commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione civile, sentenza 23.02.2012 n. 7070 - sentenza tratta da www.lexambiente.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Il provvedimento abilitativo condizionato è ammesso da tempo dalla giurisprudenza amministrativa e rientra nello schema legale tipico previsto dalla norma attributiva di potere.
A fronte delle perplessità che vennero espresse in anni risalenti dalla dottrina giuridica che costruiva l’atto amministrativo all’interno della teoria generale degli atti giuridici e che quindi si era posta il problema della possibilità di introdurre elementi accidentali nell’atto amministrativo, la giurisprudenza, invece, spinta da una prassi degli organi amministrativi che è sempre stata molto propensa all’utilizzo di provvedimenti di approvazione condizionati ad alcune prescrizioni introdotte dall’amministrazione, ha finito per riconoscere la legittimità di tale tipo di provvedimenti, che semplifica la procedura (se non fosse possibile approvare con condizioni occorrerebbe, infatti, respingere; e tutto ciò sarebbe oggi anche in contrasto con la regola generale sul divieto di aggravamento del procedimento amministrativo di cui all’art 1, co. 2, l. 241/1990), ed in realtà consente di esercitare meglio la potestà conformativa.
Se alla semplice alternativa approvare/non approvare si aggiunge, infatti, anche la possibilità di approvare con prescrizioni, si ampliano i poteri conformativi dell’amministrazione che ha la possibilità in questo modo di modellare meglio la propria decisione alle particolarità del caso di specie.

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Il danno ambientale costituisce non il presupposto sostanziale indefettibile per l'applicazione della sanzione ma esclusivamente un elemento che viene in rilievo ai fini del diverso profilo della quantificazione della sanzione, ossia un semplice criterio di commisurazione della sanzione (alternativo al profitto conseguito).
Il danno ambientale non costituisce il presupposto sostanziale indefettibile per l'applicazione della sanzione di cui all'art. 15 della l. n. 1497 del 1939, ma un elemento che viene in rilievo ai fini del diverso profilo della quantificazione della sanzione.
L'autorizzazione postuma per effetto della verifica di compatibilità ambientale non preclude la possibilità di infliggere anche la sola sanzione pecuniaria di cui all'art. 15 della legge n. 1497 del 1939, dal momento che "un'autorizzazione postuma ai fini ambientali, valevole ai fini della positiva definizione del procedimento di sanatoria ai sensi dell'art. 13 della legge n. 47 del 1985 semmai indirizza, vincolandolo nell'esito, il residuo potere-dovere dell'autorità competente di procedere all'applicazione della sanzione di cui all'art. 15 della legge n. 1497 del 1939. La circostanza, infatti, che l'Amministrazione, esercitando un potere nella sostanza conferito dallo stesso art. 15, abbia verificato la compatibilità ambientale in via postuma, se da un lato esclude la compromissione sostanziale dell'integrità paesaggistica, dall'altro non cancella la violazione dell'obbligo, discendente dall'art. 7, di conseguire in via preventiva il titolo di assenso necessario per la realizzazione dell'intervento modificativo dell'assetto territoriale.

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La sanzione ex art. 167 dlgs n. 42/2004 non è un risarcimento del danno, ma una sanzione afflittiva per un’opera abusiva.
La misura pecuniaria prevista dall'art. 15 della legge n. 1497 del 1939, nonostante il riferimento al termine "indennità", non costituisce un'ipotesi di risarcimento del danno ambientale ma rappresenta una sanzione amministrativa, applicabile sia nel caso di illeciti sostanziali, ovvero in caso di compromissione dell'indennità paesaggistica, sia nell'ipotesi di illeciti formali, quale è, appunto, da ritenersi il caso di violazione dell'obbligo di conseguire l'autorizzazione a fronte di un intervento compatibile con il contesto paesistico oggetto di protezione.
In altri termini, la sanzione è solo la conseguenza della violazione di un obbligo (di non essersi dotati preventivamente di autorizzazione paesaggistica); il legislatore avrebbe potuto prevedere una misura fissa, come usa di solito per le sanzioni penali, invece ha preferito modellarla sul caso di specie non predeterminandone minimi e massimi, ma rapportandola al danno ambientale, ma questo non significa che essa debba consistere nelle spese affrontate per il ripristino, perché altrimenti essa consisterebbe in un risarcimento del danno.
In una situazione riconosciuta come idonea a compromettere l'ambiente quale fatto ingiusto implicante una lesione presunta del valore giuridico tutelato, la quantificazione del danno avviene in via equitativa, tenendo conto dell'ampiezza dell'inquinamento, della gravità della colpa individuale e del costo necessario per la depurazione.
FATTO
L’azienda agricola ricorrente impugna il provvedimento del 19.06.2008 con cui il Comune di Cazzago San Martino le ha applicato la sanzione pecuniaria di 7.142,85 euro per opere eseguite in assenza di autorizzazione paesaggistica in zona paesaggisticamente vincolata.
Le opere consistevano in modifica geomorfologica dei terreni per impiantare nuovo vigneto, ed il Comune le aveva ritenute compatibili paesaggisticamente.
I motivi che sostengono il ricorso sono i seguenti:
1. il provvedimento sarebbe illegittimo perché sarebbe stata violata la norma che impone l’alternativa tra ripristino e sanzione pecuniaria, in quanto è stato comunque ordinato l’impianto di 10 roveri adulte, che è una sorta di ripristino e non andava abbinato alla sanzione pecuniaria; sarebbe stata applicata, inoltre, una sanzione pecuniaria parametrata al danno con motivazione illogica in quanto nello stesso provvedimento si dice che il danno ambientale non v’è; sarebbe irragionevole, da ultimo, la quantificazione del danno;
2. il provvedimento sarebbe illegittimo perché l’attività che avrebbe compiuto la ricorrente è solo di pulizia dal fondo delle sterpaglie, che non può essere produttiva di danno ambientale;
3. il provvedimento sarebbe illegittimo, inoltre, perché da esso non si comprende perché l’amministrazione abbia imposto l’impianto di 10 roveri.
...
DIRITTO
I. Il ricorso è infondato.
...
II. Nel primo motivo di ricorso la ricorrente ritiene che questa procedura non sia stata corretta, perché sarebbe stata violata l’alternativa tra sanzione ripristinatoria e sanzione pecuniaria (in quanto l’impianto delle roveri sarebbe comunque un ripristino).
Ma questa prospettazione non è corretta. Il ripristino è cosa diversa da quanto è stato ordinato alla impresa ricorrente, perché per aversi ripristino occorreva tornare allo status quo antecedente l’inizio dei lavori non autorizzati. Ma lo status quo antecedente l’inizio dei lavori non è stato ripristinato dalle opere realizzate spontaneamente dalla ricorrente, che si è limitata a ricreare il salto di quota con un’inclinazione prossima a quella naturale preesistente, ma non ha ricostituito l’originario bosco.
Né il ripristino è garantito dall’impianto delle roveri adulte e dall’inerbimento delle ripe, che sono soltanto la condizione cui nel parere del 30.08.2007 gli esperti ambientali hanno assoggettato il rilascio della certificazione di compatibilità paesaggistica.
Si può senz’altro contestare che attraverso il combinato di una certificazione di compatibilità paesaggistica sottoposta a condizioni (da un lato) e dell’applicazione della sanzione pecuniaria (dall’altro) si sia realizzato un cumulo tra due tipologie di sanzioni diverse, ma il provvedimento abilitativo condizionato è ammesso da tempo dalla giurisprudenza amministrativa e rientra nello schema legale tipico previsto dalla norma attributiva di potere.
A fronte delle perplessità che vennero espresse in anni risalenti dalla dottrina giuridica che costruiva l’atto amministrativo all’interno della teoria generale degli atti giuridici (che, com’è noto, era modellata su quella positiva del negozio giuridico di diritto tedesco), e che quindi si era posta il problema della possibilità di introdurre elementi accidentali nell’atto amministrativo, la giurisprudenza, invece, spinta da una prassi degli organi amministrativi che è sempre stata molto propensa all’utilizzo di provvedimenti di approvazione condizionati ad alcune prescrizioni introdotte dall’amministrazione, ha finito per riconoscere la legittimità di tale tipo di provvedimenti, che semplifica la procedura (se non fosse possibile approvare con condizioni occorrerebbe, infatti, respingere; e tutto ciò sarebbe oggi anche in contrasto con la regola generale sul divieto di aggravamento del procedimento amministrativo di cui all’art 1, co. 2, l. 241/1990), ed in realtà consente di esercitare meglio la potestà conformativa.
Se alla semplice alternativa approvare/non approvare si aggiunge, infatti, anche la possibilità di approvare con prescrizioni, si ampliano i poteri conformativi dell’amministrazione che ha la possibilità in questo modo di modellare meglio la propria decisione alle particolarità del caso di specie.
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III. Nello stesso primo motivo di ricorso si sostiene che sarebbe stata applicata, inoltre, una sanzione pecuniaria parametrata al danno con motivazione illogica in quanto nello stesso provvedimento si dice che il danno ambientale non v’è, ma in realtà questa deduzione si scontra con giurisprudenza amministrativa consolidata.
Secondo Tar Lazio, I, 1450/2009, infatti, il danno ambientale costituisce non il presupposto sostanziale indefettibile per l'applicazione della sanzione ma esclusivamente un elemento che viene in rilievo ai fini del diverso profilo della quantificazione della sanzione, ossia un semplice criterio di commisurazione della sanzione (alternativo al profitto conseguito).
La stessa tesi era stata sostenuta da Cons. Stato, VI, 2653/2003, secondo cui il danno ambientale non costituisce il presupposto sostanziale indefettibile per l'applicazione della sanzione di cui all'art. 15 della l. n. 1497 del 1939, ma un elemento che viene in rilievo ai fini del diverso profilo della quantificazione della sanzione.
Come ha spiegato bene tale ultima pronuncia (che riprende un precedente dello stesso Consiglio di Stato, la pronuncia 912/2001) la Sezione ha, altresì, espressamente chiarito che l'autorizzazione postuma per effetto della verifica di compatibilità ambientale non preclude la possibilità di infliggere anche la sola sanzione pecuniaria di cui all'art. 15 della legge n. 1497 del 1939, dal momento che "un'autorizzazione postuma ai fini ambientali, valevole ai fini della positiva definizione del procedimento di sanatoria ai sensi dell'art. 13 della legge n. 47 del 1985 semmai indirizza, vincolandolo nell'esito, il residuo potere-dovere dell'autorità competente di procedere all'applicazione della sanzione di cui all'art. 15 della legge n. 1497 del 1939. La circostanza, infatti, che l'Amministrazione, esercitando un potere nella sostanza conferito dallo stesso art. 15, abbia verificato la compatibilità ambientale in via postuma, se da un lato esclude la compromissione sostanziale dell'integrità paesaggistica, dall'altro non cancella la violazione dell'obbligo, discendente dall'art. 7, di conseguire in via preventiva il titolo di assenso necessario per la realizzazione dell'intervento modificativo dell'assetto territoriale”.
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IV. E’ infondato anche il motivo che contesta la quantificazione della sanzione, evidenziando che essa sarebbe stata parametrata sulle spese di ripristino, ma in realtà il ripristino sarebbe stato effettuato a sue spese dalla ricorrente.
Ciò non rileva perché, come argomenta correttamente la difesa del Comune, la sanzione ex art. 167 non è un risarcimento del danno, ma una sanzione afflittiva per un’opera abusiva.
Si riprende ancora una volta quanto riportato nella motivazione della pronuncia del Cons. Stato, VI, 2653/2003, secondo cui “la misura pecuniaria prevista dall'art. 15 della legge n. 1497 del 1939, nonostante il riferimento al termine "indennità", non costituisce un'ipotesi di risarcimento del danno ambientale ma rappresenta una sanzione amministrativa, applicabile sia nel caso di illeciti sostanziali, ovvero in caso di compromissione dell'indennità paesaggistica, sia nell'ipotesi di illeciti formali, quale è, appunto, da ritenersi il caso di violazione dell'obbligo di conseguire l'autorizzazione a fronte di un intervento compatibile con il contesto paesistico oggetto di protezione (Sez. VI, n. 912 del 2001, cit. n. 3184 del 2000)”.
In altri termini, la sanzione è solo la conseguenza della violazione di un obbligo (di non essersi dotati preventivamente di autorizzazione paesaggistica); il legislatore avrebbe potuto prevedere una misura fissa, come usa di solito per le sanzioni penali, invece ha preferito modellarla sul caso di specie non predeterminandone minimi e massimi, ma rapportandola al danno ambientale, ma questo non significa che essa debba consistere nelle spese affrontate per il ripristino, perché altrimenti essa consisterebbe in un risarcimento del danno.
La ricorrente sostiene, inoltre, che la quantificazione del materiale movimentato sarebbe eccessivo, essendo stata effettuata verificando al centimetro le differenze di quota, senza tenere conto delle soglie di tolleranza inevitabili in un terreno che viene arato prima della coltivazione.
Ma, in realtà, il criterio del calcolo al centimetro delle differenze di quota è l’unico metodo scientifico utilizzabile per calcolare la movimentazione dei terreni; la stessa richiesta della difesa della ricorrente di tener conto di soglie di tolleranza dovute alla aratura dei terreni, se non si individuano dei valori percentuali di tipo generale per introdurre nel calcolo i riporti dovuti ad aratura, finisce per introdurre un margine di approssimazione incompatibile con una metodologia di calcolo scientifica.
Si ricorda, d’altronde, che il calcolo al centimetro neanche è imposto alle amministrazioni, perché, come rilevato da Tribunale Milano 31.03.2008, “in una situazione riconosciuta come idonea a compromettere l'ambiente quale fatto ingiusto implicante una lesione presunta del valore giuridico tutelato, la quantificazione del danno avviene in via equitativa, tenendo conto dell'ampiezza dell'inquinamento, della gravità della colpa individuale e del costo necessario per la depurazione”, e che lo stesso criterio equitativo sembrerebbe desumersi (a contrario) da Tar Lazio 1450/2009 cit. (a contrario, perché essa ritiene che invece debba essere effettuata una ricostruzione analitica del profitto) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 31.01.2012 n. 145 -  link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2011

EDILIZIA PRIVATA: Il Comune, in presenza di speciali circostanze, ben può imporre prescrizioni nel rilasciare il permesso di costruire se queste non contrastino con la natura e tipicità del provvedimento; non siano tali da snaturare l'atto, negandone la funzione o non impongano sacrifici ingiustificabili, sproporzionati o immotivati.
Nel caso, la prescrizione circa la realizzazione o l’adeguamento delle eventuali infrastrutture mancanti a spese del concessionario comunque assicurava il completamento delle infrastrutture primarie nella zona.

Né poi è vero che nella concessione non potessero essere inserite, in via generale ed in mancanza di specifiche disposizioni contrarie, prescrizioni specifiche a tutela dell’ambiente e del tessuto abitativo.
Al contrario l’Ente, in presenza di speciali circostanze ben può imporre prescrizioni se queste non contrastino con la natura e tipicità del provvedimento; non siano tali da snaturare l'atto, negandone la funzione o non impongano sacrifici ingiustificabili, sproporzionati o immotivati.
Nel caso, la prescrizione circa la realizzazione o l’adeguamento delle eventuali infrastrutture mancanti a spese del concessionario, comunque assicurava il completamento delle infrastrutture primarie nella zona.
Infine del tutto inconferenti sono le considerazioni e le conclusioni del CTU Penale perché:
- sul piano processuale, si tratta di documentazione successiva alla definizione del processo, come tale non ammissibile in appello ai sensi del 104, II co. del C.p.a. ;
- sul piano sostanziale il Collegio non ritiene tale atto indispensabile ai fini della decisione anche in considerazione dell’archiviazione del procedimento penale, e comunque della non condivisibilità della sua premessa circa la non assentibilità della concessione singola.
Il motivo va dunque respinto (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 25.11.2011 n. 6260 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE’ vero che, salvo i casi espressamente previsti dalla legge, l’apposizione di una condizione (sia essa sospensiva o risolutiva) all’atto di assenso edilizio è da ritenersi indebita, stante la natura di accertamento costitutivo a carattere non negoziale dell’assenso medesimo, ma è altresì vero che, nella prassi amministrativa, molte concessioni edilizie e permessi di costruire sono stati emessi con la previsione di specifiche “condizioni”, trattandosi in realtà di “prescrizioni”, che non condizionano la validità ed efficacia dell’assenso edilizio, ma devono essere rispettate, ai fini della successiva agibilità e abitabilità dell’edificio.
Pertanto, il rilascio di un permesso di costruire recante prescrizioni è da ritenersi del tutto legittimo. Ciò è ancor più vero se si considera che, nella fattispecie, la prescrizione apposta al permesso di costruire serve ad ovviare a un difficile problema di valutazione della sicurezza antincendio dell’opera assentita.

La società ricorrente, avendo presentato al Comune di Termoli un progetto per la ristrutturazione e il cambio di destinazione d’uso della struttura del “Grand Hotel” di via Cuoco, in Termoli, insorge per impugnare il permesso di costruire n. 117 del 17.09.2008, rilasciato dal dirigente dello Sportello unico dell’edilizia del Comune alla ricorrente società, nella parte in cui impone la condizione che sia completamente rimossa la porta al primo piano seminterrato che affaccia sulla rampa di accesso ai “garages” e sostituita con un muro, conformemente al progetto approvato e allegato alla concessione edilizia n. 130/1988 e dichiarato nelle osservazioni della ditta istante (prot. n. 27444 del 2008).
...
Sotto il profilo squisitamente giuridico, le censure del ricorso devono essere disattese.
E’ vero che, salvo i casi espressamente previsti dalla legge, l’apposizione di una condizione (sia essa sospensiva o risolutiva) all’atto di assenso edilizio è da ritenersi indebita, stante la natura di accertamento costitutivo a carattere non negoziale dell’assenso medesimo (cfr.: TAR Trentino A.A., Bolzano I, 04.01.2011 n. 2), ma è altresì vero che, nella prassi amministrativa, molte concessioni edilizie e permessi di costruire sono stati emessi con la previsione di specifiche “condizioni”, trattandosi in realtà di “prescrizioni”, che non condizionano la validità ed efficacia dell’assenso edilizio, ma devono essere rispettate, ai fini della successiva agibilità e abitabilità dell’edificio.
Pertanto, il rilascio di un permesso di costruire recante prescrizioni è da ritenersi del tutto legittimo (cfr.: TAR Sicilia-Catania I, 14.01.2011 n. 56). Ciò è ancor più vero se si considera che, nella fattispecie, la prescrizione apposta al permesso di costruire serve ad ovviare a un difficile problema di valutazione della sicurezza antincendio dell’opera assentita.
I motivi del ricorso sono, dunque, infondati. Non vi è stata alcuna violazione del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 (art. 12), né dei principi in tema di rilascio del permesso di costruire, atteso che non si è trattato, nella specie, di verificare la conformità del progetto assentito agli strumenti urbanistici, bensì di superare un ostacolo tecnico, riveniente dalla valutazione del progetto sotto il profilo della sicurezza antincendio
(TAR Molise, sentenza 04.08.2011 n. 517 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza amministrativa -sempre in ossequio ai principi di celerità, economicità ed efficacia del procedimento amministrativo- ha da tempo ammesso l'istituto del titolo concessorio condizionato, con la precisazione che l’apposizione di una condizione è legittima quando incide su aspetti legati alla realizzazione dell'intervento costruttivo, sia da un punto di vista tecnico che strutturale, e se ciò trova un fondamento, diretto o indiretto, in una norma di legge o regolamento.
Non è invece ammessa la possibilità di apporre condizioni al titolo abilitativo estranee alla fase di realizzazione dell'intervento edilizio.
In proposito, è stato anche condivisibilmente osservato:
- che in base al principio di buona amministrazione, quando un progetto edilizio presenta elementi ostativi alla sua approvazione di modesta rilevanza e tali da poter essere individuati e corretti o attraverso la modifica del progetto o il meccanismo della concessione condizionata, il sindaco non deve negare il titolo richiesto ma deve invitare l’interessato a modificare il progetto o rilasciare la concessione sub condicione, “in tal modo tutelando sia l'interesse pubblico al pieno rispetto della normativa urbanistica, sia l'interesse privato alla rapidità ed efficienza della pubblica amministrazione”;
- che, “se alla semplice alternativa approvare/non approvare si aggiunge, infatti, anche la possibilità di approvare con prescrizioni, si ampliano i poteri conformativi dell'Amministrazione che ha la possibilità in questo modo di modellare meglio la propria decisione alle particolarità del caso di specie”;
- che la violazione delle prescrizioni ha l'effetto di privare di titolo ciò che è stato realizzato sulla base del provvedimento cui era apposta la condizione non rispettata.

Le argomentazioni della ricorrente sono principalmente rivolte avverso la prescrizione contenuta nella più volte ricordata concessione edilizia n. 103 rilasciata nell’anno 2005 e che, come già visto nella parte in fatto, aveva autorizzato l’intervento edilizio “condizionatamente” al rispetto della già ricordata prescrizione relativa alla “larghezza di m. 5,00 della viabilità esistente”.
L’interessata assume che detta prescrizione sarebbe illegittima e che non sarebbe giustificata da alcuna norma urbanistica.
In linea generale, occorre rammentare che la giurisprudenza amministrativa -sempre in ossequio ai principi di celerità, economicità ed efficacia del procedimento amministrativo- ha da tempo ammesso l'istituto del titolo concessorio condizionato (cfr., C.d.S., sez. V, 17.07.2004, n. 5127; sez. IV, 06.10.2010, n. 7344), con la precisazione che l’apposizione di una condizione è legittima quando incide su aspetti legati alla realizzazione dell'intervento costruttivo, sia da un punto di vista tecnico che strutturale, e se ciò trova un fondamento, diretto o indiretto, in una norma di legge o regolamento (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 10.09.2010, 5655).
Non è invece ammessa la possibilità di apporre condizioni al titolo abilitativo estranee alla fase di realizzazione dell'intervento edilizio (cfr., TAR Abruzzo, 08.02.2007, n. 153).
In proposito, è stato anche condivisibilmente osservato:
- che in base al principio di buona amministrazione, quando un progetto edilizio presenta elementi ostativi alla sua approvazione di modesta rilevanza e tali da poter essere individuati e corretti o attraverso la modifica del progetto o il meccanismo della concessione condizionata, il sindaco non deve negare il titolo richiesto ma deve invitare l’interessato a modificare il progetto o rilasciare la concessione sub condicione, “in tal modo tutelando sia l'interesse pubblico al pieno rispetto della normativa urbanistica, sia l'interesse privato alla rapidità ed efficienza della pubblica amministrazione” (cfr. TAR Sicilia, Catania, sez. I, 25.10.2006, n. 1960);
- che, “se alla semplice alternativa approvare/non approvare si aggiunge, infatti, anche la possibilità di approvare con prescrizioni, si ampliano i poteri conformativi dell'Amministrazione che ha la possibilità in questo modo di modellare meglio la propria decisione alle particolarità del caso di specie” (cfr., TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 17.06.2010, n. 232);
- che la violazione delle prescrizioni ha l'effetto di privare di titolo ciò che è stato realizzato sulla base del provvedimento cui era apposta la condizione non rispettata (cfr., TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 02.11.2010, n. 4520) (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 27.07.2011 n. 204 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASalvo i casi espressamente previsti dalla legge, l’apposizione di una condizione (sia essa sospensiva o risolutiva) alla concessione edilizia è illegittima, stante la natura di accertamento costitutivo a carattere non negoziale della concessione stessa.
Vero è che nella prassi amministrativa molte concessioni edilizie vengono emesse con la previsione di specifiche “condizioni”, ma, in realtà, si tratta di “prescrizioni” (e non di vere e proprie condizioni) che, in quanto tali, non possono condizionare la legittimità del permesso di costruire.
La giurisprudenza ha già avuto modo sia di dichiarare illegittime le condizioni che subordinano la validità della concessione edilizia alla cessione gratuita di aree destinate alla realizzazione di opere pubbliche, sia di affermare che l’apposizione di condizioni illegittime può determinare l’annullamento delle condizioni stesse, senza influire sulla validità dell’intero provvedimento, che resta salvo nelle parti residue.

... il Sindaco, al termine di un’articolata istruttoria, rilasciava l’impugnata concessione edilizia n. 3/2008 del 21.1.2008, contenente, per quanto qui d’interesse, la “prescrizione/condizione” che “deve essere garantita la disponibilità gratuita del terreno per un futuro ampliamento della strada e/o per la realizzazione di un marciapiedi”.
La validità dell’impugnata concessione edilizia n. 3/2008 del 21.01.2008 risulta subordinata a specifiche “prescrizioni e condizioni”; in particolare, per quanto qui d’interesse, a quella, contestata dalla ricorrente, che dispone che “deve essere garantita la disponibilità gratuita del terreno per un futuro ampliamento della strada e/o per la realizzazione di un marciapiedi”.
Infatti, in base all’ulteriore prescrizione/condizione nella stessa contenuta, “la presente concessione s’intende valida, qualora ci sia la disponibilità da parte dei proprietari dei terreni”.
Orbene, osservato preliminarmente che la porzione di terreno che la ricorrente dovrebbe mettere gratuitamente a disposizione del Comune non risulta nemmeno identificata, va in ogni caso rilevato che, salvo i casi espressamente previsti dalla legge, l’apposizione di una condizione (sia essa sospensiva o risolutiva) alla concessione edilizia è illegittima, stante la natura di accertamento costitutivo a carattere non negoziale della concessione stessa (cfr. TRGA Bolzano, 30.03.2009, n. 120 e 08.05.1996, n. 120; TAR Brescia, 05.05.2008, n. 476; TAR Venezia, 20.10.2004, n. 3732; TAR Genova, 21.01.2000, n. 35).
Vero è che nella prassi amministrativa molte concessioni edilizie vengono emesse con la previsione di specifiche “condizioni”, ma, in realtà, si tratta di “prescrizioni” (e non di vere e proprie condizioni) che, in quanto tali, non possono condizionare la legittimità del permesso di costruire.
In particolare, per quanto attiene più specificamente al caso di specie, la giurisprudenza ha già avuto modo sia di dichiarare illegittime le condizioni che subordinano la validità della concessione edilizia alla cessione gratuita di aree destinate alla realizzazione di opere pubbliche, sia di affermare che l’apposizione di condizioni illegittime può determinare l’annullamento delle condizioni stesse, senza influire sulla validità dell’intero provvedimento, che resta salvo nelle parti residue (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 24.03.2001, n. 1702; TAR Milano, Sez. II, 18.02.1984, n. 77).
In conclusione, la condizione che subordina la validità della concessione edilizia n. 3/2008 dd. 21.01.2008 alla garanzia della disponibilità gratuita del terreno per un futuro ampliamento della strada e/o per la realizzazione di un marciapiedi è illegittima.
Atteso che la suddetta condizione accede ad un atto con forza di provvedimento amministrativo e non può, pertanto, ritenersi come non apposta, deve essere rimossa mediante il suo annullamento (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 24.03.2001, n. 1702)
(TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano, sentenza 04.01.2011 n. 2 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2010

EDILIZIA PRIVATA: M. Muntoni, Cessione gratuita quale corrispettivo del permesso di costruire (25.11.2010 - link a www.diritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza amministrativa ha ammesso da tempo l’istituto del provvedimento (di solito, abilitativo) condizionato.
La giurisprudenza, spinta da una prassi degli organi amministrativi che è sempre stata molto propensa all’utilizzo di provvedimento di approvazione condizionati ad alcune prescrizioni introdotte dall’amministrazione, ha finito per riconoscere la legittimità di tale tipo di provvedimenti che semplifica la procedura (se non fosse possibile approvare con condizioni occorrerebbe infatti: 1) respingere spiegando i punti del progetto che devono essere rivisti, 2) ripresentare il progetto, 3) riapprovare il progetto emendato; e tutto ciò sarebbe oggi anche in contrasto con la regola generale sul divieto di aggravamento del procedimento amministrativo di cui all’art 1, co. 2, l. 241/1990) ed in realtà consente di esercitare meglio quella potestà conformativa cui il ricorrente ritiene che la Regione abbia abdicato con il provvedimento impugnato.
Se alla semplice alternativa approvare/non approvare si aggiunge, infatti, anche la possibilità di approvare con prescrizioni, si ampliano i poteri conformativi dell’amministrazione che ha la possibilità in questo modo di modellare meglio la propria decisione alle particolarità del caso di specie.
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La sistematica del provvedimento condizionato è, però, complessa ed è stata soltanto abbozzata in dottrina proprio perché figura nata in realtà nella pratica e poco apprezzata dalla letteratura giuridica.
In ogni caso sia che la prescrizione incida sulla legittimità del provvedimento cui è apposta, sia che essa attenga alla efficacia della stessa (come si dovrebbe ricavare dall’art. 1353 c.c.), la violazione delle prescrizioni, però, avrà sempre e solo l’effetto di privare di titolo ciò che è stato realizzato sulla base del provvedimento cui era apposta la condizione non rispettata, ma non potrà mai invalidare retroattivamente altro provvedimento amministrativo (nel caso in esame, la licenza del 1965 con cui era stato costruito il garage) privando di titolo ciò che era stato edificato legittimamente.

In linea generale, occorre dire –infatti- che la giurisprudenza amministrativa ha ammesso da tempo l’istituto del provvedimento (di solito, abilitativo) condizionato, a fronte delle perplessità che vennero espresse in anni risalenti dalla dottrina giuridica che costruiva l’atto amministrativo all’interno della teoria generale degli atti giuridici (che, com’è noto, era modellata su quella positiva del negozio giuridico di diritto tedesco), e che quindi si era posta il problema della possibilità di introdurre elementi accidentali nell’atto amministrativo.
La giurisprudenza, spinta da una prassi degli organi amministrativi che è sempre stata molto propensa all’utilizzo di provvedimento di approvazione condizionati ad alcune prescrizioni introdotte dall’amministrazione, ha finito per riconoscere la legittimità di tale tipo di provvedimenti che semplifica la procedura (se non fosse possibile approvare con condizioni occorrerebbe infatti: 1) respingere spiegando i punti del progetto che devono essere rivisti, 2) ripresentare il progetto, 3) riapprovare il progetto emendato; e tutto ciò sarebbe oggi anche in contrasto con la regola generale sul divieto di aggravamento del procedimento amministrativo di cui all’art 1, co. 2, l. 241/1990) ed in realtà consente di esercitare meglio quella potestà conformativa cui il ricorrente ritiene che la Regione abbia abdicato con il provvedimento impugnato.
Se alla semplice alternativa approvare/non approvare si aggiunge, infatti, anche la possibilità di approvare con prescrizioni, si ampliano i poteri conformativi dell’amministrazione che ha la possibilità in questo modo di modellare meglio la propria decisione alle particolarità del caso di specie.
La sistematica del provvedimento condizionato è, però, complessa ed è stata soltanto abbozzata in dottrina proprio perché figura nata in realtà nella pratica e poco apprezzata dalla letteratura giuridica.
In ogni caso sia che la prescrizione incida sulla legittimità del provvedimento cui è apposta, sia che essa attenga alla efficacia della stessa (come si dovrebbe ricavare dall’art. 1353 c.c.), la violazione delle prescrizioni, però, avrà sempre e solo l’effetto di privare di titolo ciò che è stato realizzato sulla base del provvedimento cui era apposta la condizione non rispettata, ma non potrà mai invalidare retroattivamente altro provvedimento amministrativo (nel caso in esame, la licenza del 1965 con cui era stato costruito il garage) privando di titolo ciò che era stato edificato legittimamente
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 02.11.2010 n. 4520 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’apposizione di una o più condizioni al rilascio di un titolo edilizio può ritenersi generalmente ammessa soltanto quando si vada ad incidere su aspetti legati alla realizzazione dell’intervento costruttivo, sia da un punto di vista tecnico che strutturale, e ciò trovi un fondamento diretto o indiretto in una norma di legge o regolamento.
Diversamente, non è possibile apporre condizioni al titolo edilizio che siano estranee alla fase di realizzazione dell’intervento edilizio.
Difatti, il Comune non può assentire una concessione edilizia subordinatamente all’impegno del privato a rinunciare all’indennizzo dovuto, nel caso di futura espropriazione dell’opera, “in quanto tale condizione non è volta a perseguire alcun interesse pubblico riconducibile alla materia urbanistico-edilizia e si pone in contrasto con il principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi”.
In tal modo, infatti, si tende al perseguimento di finalità estranee a quelle sottese al potere esercitato, legato allo svolgimento dell’attività edificatoria, funzionalizzando l’attività amministrativa ad interessi avulsi rispetto a quelli tipizzati dal legislatore: del resto, in sede di rilascio di concessioni edilizie, non si può, in via generale, apporre condizioni, sia sospensive che risolutive, ai predetti titoli abilitativi, salvi i casi espressamente previsti dalla legge, stante la natura di accertamento costitutivo a carattere non negoziale di detti provvedimenti.
A ciò consegue certamente l’invalidità della condizione apposta, senza tuttavia che ciò ridondi sulla validità complessiva della concessione assentita, “dal momento che l’invalidità di una condizione apposta all’atto amministrativo comporta la invalidità totale dell’atto stesso solo qualora il contenuto della condizione abbia costituito il motivo essenziale della dichiarazione di volontà, la quale presumibilmente non vi sarebbe stata senza di quella (“vitiatur et vitiat”); ma la nullità e l’invalidità totale dell’atto amministrativo, a cagione dell’invalidità della condizione, non può certamente prodursi quando si tratti –come nel caso di specie– di atti dovuti (nei quali cioè non vi sia discrezionalità nell’an) e quando l’autorità amministrativa, che si determina per il provvedimento, dovrà dare ad esso il contenuto predeterminato dalle fonti normative, in assenza di discrezionalità nel quid”.
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La specifica condizione apposta al rilascio della richiesta concessione edilizia (e cioè
la consegna da parte degli odierni ricorrenti di una “dichiarazione di non indennizzabilità delle opere realizzate in caso di eventuale esproprio”) contrasta anche con il principio di rango costituzionale che subordina necessariamente l’espropriazione alla corresponsione di un indennizzo (art. 42, terzo comma, Cost.): difatti, pur non essendo necessario che il predetto indennizzo “debba consistere nell’integrale riparazione della perdita subita, non può essere fissato, nondimeno, in misura irrisoria o meramente simbolica, ma deve rappresentare un serio ristoro, espressione di un ragionevole legame con il valore venale, come prescritto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo”.
... per l’annullamento previa sospensione dell’efficacia:
- della condizione apposta al provvedimento 11.08.1999, prot. n. 5547 del responsabile del Servizio tecnico del Comune di Abbadia Lariana avente ad oggetto “l’avviso di emanazione dei provvedimenti di concessione edilizia” per la “realizzazione di area a parcheggio sull’area al mapp. 3487 in Comune Censuario di Abbadia Lariana”, nella parte in cui il rilascio della concessione edilizia è stato subordinato alla consegna da parte degli odierni ricorrenti di una “dichiarazione di non indennizzabilità delle opere realizzate in caso di eventuale esproprio”.
...
L’apposizione di una o più condizioni al rilascio di un titolo edilizio può ritenersi generalmente ammessa soltanto quando si vada ad incidere su aspetti legati alla realizzazione dell’intervento costruttivo, sia da un punto di vista tecnico che strutturale, e ciò trovi un fondamento diretto o indiretto in una norma di legge o regolamento.
Diversamente, non è possibile apporre condizioni al titolo edilizio che siano estranee alla fase di realizzazione dell’intervento edilizio.
Difatti, il Comune non può assentire una concessione edilizia subordinatamente all’impegno del privato a rinunciare all’indennizzo dovuto, nel caso di futura espropriazione dell’opera, “in quanto tale condizione non è volta a perseguire alcun interesse pubblico riconducibile alla materia urbanistico-edilizia e si pone in contrasto con il principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi” (TAR Abruzzo, Pescara, 08.02.2007, n. 153).
In tal modo, infatti, si tende al perseguimento di finalità estranee a quelle sottese al potere esercitato, legato allo svolgimento dell’attività edificatoria, funzionalizzando l’attività amministrativa ad interessi avulsi rispetto a quelli tipizzati dal legislatore: del resto, in sede di rilascio di concessioni edilizie, non si può, in via generale, apporre condizioni, sia sospensive che risolutive, ai predetti titoli abilitativi, salvi i casi espressamente previsti dalla legge, stante la natura di accertamento costitutivo a carattere non negoziale di detti provvedimenti (cfr. Consiglio di Stato, V, 24.03.2001, n. 1702).
A ciò consegue certamente l’invalidità della condizione apposta, senza tuttavia che ciò ridondi sulla validità complessiva della concessione assentita, “dal momento che l’invalidità di una condizione apposta all’atto amministrativo comporta la invalidità totale dell’atto stesso solo qualora il contenuto della condizione abbia costituito il motivo essenziale della dichiarazione di volontà, la quale presumibilmente non vi sarebbe stata senza di quella (“vitiatur et vitiat”); ma la nullità e l’invalidità totale dell’atto amministrativo, a cagione dell’invalidità della condizione, non può certamente prodursi quando si tratti –come nel caso di specie– di atti dovuti (nei quali cioè non vi sia discrezionalità nell’an) e quando l’autorità amministrativa, che si determina per il provvedimento, dovrà dare ad esso il contenuto predeterminato dalle fonti normative, in assenza di discrezionalità nel quid” (TAR Abruzzo, Pescara, 08.02.2007, n. 153).
Infine, va evidenziato che la specifica condizione apposta contrasta anche con il principio di rango costituzionale –ribadito anche a livello sovranazionale dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo [Grande Camera, Strasburgo, sentenza 29.03.2006, caso Scordino contro Italia (n.1)]– che subordina necessariamente l’espropriazione alla corresponsione di un indennizzo (art. 42, terzo comma, Cost.): difatti, pur non essendo necessario che il predetto indennizzo “debba consistere nell’integrale riparazione della perdita subita, non può essere fissato, nondimeno, in misura irrisoria o meramente simbolica, ma deve rappresentare un serio ristoro, espressione di un ragionevole legame con il valore venale, come prescritto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo” (Cassazione civile, I, 22.01.2009, n. 1606; altresì, Corte costituzionale, 24.10.2007, n. 348) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 10.09.2010 n. 5655 -
link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2008

EDILIZIA PRIVATAIn via di principio e fatti salvi i casi espressamente stabiliti dalla legge, una condizione (sia essa sospensiva o risolutiva) non può essere apposta ad una concessione edilizia, stante la natura di accertamento costitutivo a carattere non negoziale del provvedimento: ne consegue che tale titolo abilitativo, una volta riscontrata la conformità del progetto alla vigente disciplina urbanistica, deve essere rilasciato dal Comune senza condizioni che non siano espressamente previste da una norma di legge.
Secondo un orientamento rigoroso, in via di principio e fatti salvi i casi espressamente stabiliti dalla legge, una condizione (sia essa sospensiva o risolutiva) non può essere apposta ad una concessione edilizia, stante la natura di accertamento costitutivo a carattere non negoziale del provvedimento: ne consegue che tale titolo abilitativo, una volta riscontrata la conformità del progetto alla vigente disciplina urbanistica, deve essere rilasciato dal Comune senza condizioni che non siano espressamente previste da una norma di legge (cfr. Consiglio di Stato, sez. V – 24/03/2001 n. 1702).
Più recentemente –ispirandosi a criteri di economicità e speditezza dell’azione amministrativa– si è precisato in quale misura la riscontrata carenza in una progettazione urbanistica od edilizia dei requisiti legali possa essere “surrogata” dall’attività dell’Ente, attraverso il rilascio di un atto di assenso variamente condizionato: la giurisprudenza ha escluso che l’amministrazione possa “conformare” nei suoi aspetti sostanziali l’intervento sottoposto al suo esame, al solo scopo di evitare un pronunciamento negativo sullo stesso: in tale ultima ipotesi, infatti, si assentirebbe un’attività urbanistica od edilizia priva di un oggettivo (e preventivo) parametro documentale di riferimento, quando il risultato dell’ulteriore attività prescritta deve necessariamente essere valutato dall’amministrazione prima del rilascio del richiesto titolo edilizio, difettando altrimenti una seria e compiuta conoscenza dell'intervento concessionato, sia nella sua consistenza materiale che nella sua rispondenza alla normativa di settore (TAR Liguria, sez. I – 08/05/2006 n. 433).
In altri casi è stato affermato che non è preclusa l’apposizione ad una concessione edilizia di una prescrizione o condizione aggiuntiva, salva tuttavia la compatibilità con il progetto nel suo insieme e la formulazione in termini sufficientemente precisi: si è aggiunto che in questi casi le clausole introdotte dall’amministrazione nell’atto concessorio trovano la loro fonte giuridica in previsioni normative –e in tal caso non possono essere considerate come vere condizioni ma quali presupposti per il valido rilascio della concessione– oppure traggono origine dall’attività discrezionale dell'amministrazione e richiedono l’accettazione del concessionario (TAR Toscana, sez. III – 14/07/2005 n. 3348) (TAR Lombardia-Brescia, sentenza 05.05.2008 n. 476 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2007

EDILIZIA PRIVATAIl Comune non può assentire una concessione edilizia subordinatamente all’impegno del privato a rinunciare alla proposizione di azioni risarcitoria nei confronti del Comune, in quanto tale condizione non è volta a perseguire alcun interesse pubblico riconducibile alla materia urbanistico-edilizia e si pone in contrasto con il principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi.
Tale condizione si rivela, infatti, preordinata al perseguimento di interessi estranei a quelli sottesi al potere esercitato, volto a garantire lo svolgimento dell’attività edificatoria nel rispetto delle norme che la disciplinano ed in vista di una corretta ed equilibrata trasformazione del territorio, ed, esulando dall’ambito teleologico appena delineato, si propone di evitare i riflessi risarcitori eventualmente derivanti da una pregressa attività dell’Amministrazione: in tal modo subordinando l’efficacia della concessione rilasciata al perseguimento di scopi estranei al relativo schema tipologico.
Il Comune, invero, non può in via generale apporre condizioni, sia sospensive che risolutive, alla concessione edilizia, salvi i casi espressamente previsti dalla legge, stante la natura di accertamento costitutivo a carattere non negoziale di detto provvedimento.
Tale condizione, peraltro, non inficia in toto la concessione assentita, dal momento che l’invalidità di una condizione apposta all’atto amministrativo comporta la invalidità totale dell’atto stesso solo qualora il contenuto della condizione abbia costituito il motivo essenziale della dichiarazione di volontà, la quale presumibilmente non vi sarebbe stata senza di quella (“vitiatur et vitiat”); ma la nullità e l’invalidità totale dell’atto amministrativo, a cagione dell’invalidità della condizione, non può certamente prodursi quando si tratti di atti dovuti (nei quali cioè non vi sia discrezionalità nell’an) e quando l’autorità amministrativa, che si determina per il provvedimento, dovrà dare ad esso il contenuto predeterminato dalle fonti normative, in assenza di discrezionalità nel quid.
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La nullità della condizione in questione non può non travolgere per assenza di causa anche la successiva rinuncia formulata dal privato, il quale, nella particolare posizione in cui lo stesso trovava (attendeva, dopo la proposizione con esito favorevole di ben tre ricorsi, da oltre quindici anni il rilascio di un dovuto titolo concessorio), era nell’impossibilità di contrastare tale pretesa se non a pena di iniziare un nuovo contenzioso.

Quanto alla circostanza che il Comune aveva condizionato il rilascio della concessione edilizia alla specifica rinuncia da parte dell’interessato alla richiesta di risarcimento dei danni, che l’istante aveva accettato, va subito evidenziato che tale condizione apposta alla concessione edilizia deve ritenersi nulla, in quanto contraria a norme imperative.
Va in merito evidenziato che –come già chiarito dalla giurispru-denza amministrativa (TAR Campania, sez. Salerno, II, 16.01.2007, n. 28)– il Comune non può assentire una concessione edilizia subordinatamente all’impegno del privato a rinunciare alla proposizione di azioni risarcitoria nei confronti del Comune, in quanto tale condizione non è volta a perseguire alcun interesse pubblico riconducibile alla materia urbanistico-edilizia e si pone in contrasto con il principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi.
Tale condizione si rivela, infatti, preordinata al perseguimento di interessi estranei a quelli sottesi al potere esercitato, volto a garantire lo svolgimento dell’attività edificatoria nel rispetto delle norme che la disciplinano ed in vista di una corretta ed equilibrata trasformazione del territorio, ed, esulando dall’ambito teleologico appena delineato, si propone di evitare i riflessi risarcitori eventualmente derivanti da una pregressa attività dell’Amministrazione: in tal modo subordinando l’efficacia della concessione rilasciata al perseguimento di scopi estranei al relativo schema tipologico. Il Comune, invero, non può in via generale apporre condizioni, sia sospensive che risolutive, alla concessione edilizia, salvi i casi espressamente previsti dalla legge, stante la natura di accertamento costitutivo a carattere non negoziale di detto provvedimento (Cons. St., sez. V, 24.03.2001, n. 1702).
Tale condizione, peraltro, non inficia in toto la concessione assentita, dal momento che l’invalidità di una condizione apposta all’atto amministrativo comporta la invalidità totale dell’atto stesso solo qualora il contenuto della condizione abbia costituito il motivo essenziale della dichiarazione di volontà, la quale presumibilmente non vi sarebbe stata senza di quella (“vitiatur et vitiat”); ma la nullità e l’invalidità totale dell’atto amministrativo, a cagione dell’invalidità della condizione, non può certamente prodursi quando si tratti -come nel caso di specie- di atti dovuti (nei quali cioè non vi sia discrezionalità nell’an) e quando l’autorità amministrativa, che si determina per il provvedimento, dovrà dare ad esso il contenuto predeterminato dalle fonti normative, in assenza di discrezionalità nel quid (cfr. TAR Liguria, 25.10.1979, n. 381).
Così precisata l’irrilevanza della predetta condizione apposta nella concessione assentita, va in aggiunta anche rilevato che alcuna conseguenza può farsi derivare dalla successiva accettazione del privato della predetta condizione.
Va, invero, innanzi tutto chiarito che la nullità della condizione in questione non può non travolgere per assenza di causa anche la successiva rinuncia formulata dal privato, il quale, nella particolare posizione in cui lo stesso trovava (attendeva, dopo la proposizione con esito favorevole di ben tre ricorsi, da oltre quindici anni il rilascio di un dovuto titolo concessorio), era nell’impossibilità di contrastare tale pretesa se non a pena di iniziare un nuovo contenzioso.
Inoltre, va in punto di fatto precisato che –come sopra esposto in narrativa– il privato il 17.04.2001 aveva inviato l’atto di rinuncia alla pretesa risarcitoria, subordinata, però, alla condizione sospensiva che entro il 31.12.2001 fossero “emanati e comunicati tutti gli atti necessari alla definitiva formalizzazione della licenza” e fosse consentito “l’immediato inizio dei lavori” ed alla condizione risolutiva che gli atti amministrativi concessori assentiti non fossero stati successivamente “per qualsiasi motivo revocati, annullati o vengano comunque a perdere efficacia per fatto a me non imputabile”.
Premesso che non possono esservi dubbi sulla possibilità di apporre ad un atto di rinuncia tali condizioni, in quanto le dichiarazioni di remissione del debito di cui all’art. 1236 c.c. e le rinunce ben possono essere condizionate, poiché l’Amministrazione, come sembra pacifico tra le parti, non aveva comunicato alcunché entro il 31.12.2001 sembra evidente che la predetta condizione sospensiva posta all’atto di rinuncia del privato non si era verificata. Inoltre, si era verificata anche la predetta condizione risolutiva, dal momento che, come meglio si chiarirà in seguito, era illegittimo il successivo diniego di proroga del termine per l’ultimazione dei lavori.
Né può ipotizzarsi che sul punto fosse intervenuto tra le parti un atto transattivo, attesa, a tacer d’altro, l’incapacità del dirigente comunale a disporre del diritto a rilasciare o meno una concessione edilizia (art. 1966 cod. civ.)
(TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 08.02.2007 n. 153 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl Comune non può assentire una concessione edilizia subordinatamente all’impegno del privato a rinunciare alla proposizione di azioni risarcitoria nei confronti del Comune, in quanto tale condizione non è volta a perseguire alcun interesse pubblico riconducibile alla materia urbanistico-edilizia e si pone in contrasto con il principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi.
Il Comune, invero, non può in via generale apporre condizioni, sia sospensive che risolutive, alla concessione edilizia, salvi i casi espressamente previsti dalla legge, stante la natura di accertamento costitutivo a carattere non negoziale di detto provvedimento.

Come già chiarito dalla giurisprudenza amministrativa (TAR Campania, sez. Salerno, II, 16.01.2007, n. 28), il Comune non può assentire una concessione edilizia subordinatamente all’impegno del privato a rinunciare alla proposizione di azioni risarcitoria nei confronti del Comune, in quanto tale condizione non è volta a perseguire alcun interesse pubblico riconducibile alla materia urbanistico-edilizia e si pone in contrasto con il principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi.
Tale condizione si rivela, infatti, preordinata al perseguimento di interessi estranei a quelli sottesi al potere esercitato, volto a garantire lo svolgimento dell’attività edificatoria nel rispetto delle norme che la disciplinano ed in vista di una corretta ed equilibrata trasformazione del territorio, ed, esulando dall’ambito teleologico appena delineato, si propone di evitare i riflessi risarcitori eventualmente derivanti da una pregressa attività dell’Amministrazione: in tal modo subordinando l’efficacia della concessione rilasciata al perseguimento di scopi estranei al relativo schema tipologico.
Il Comune, invero, non può in via generale apporre condizioni, sia sospensive che risolutive, alla concessione edilizia, salvi i casi espressamente previsti dalla legge, stante la natura di accertamento costitutivo a carattere non negoziale di detto provvedimento (Cons. St, sez. V, 24.03.2001, n. 1702).
Tale condizione, peraltro, non inficia in toto la concessione assentita, dal momento che l’invalidità di una condizione apposta all’atto amministrativo comporta la invalidità totale dell’atto stesso solo qualora il contenuto della condizione abbia costituito il motivo essenziale della dichiarazione di volontà, la quale presumibilmente non vi sarebbe stata senza di quella (“vitiatur et vitiat”); ma la nullità e l’invalidità totale dell’atto amministrativo, a cagione dell’invalidità della condizione, non può certamente prodursi quando si tratti -come nel caso di specie- di atti dovuti (nei quali cioè non vi sia discrezionalità nell’an) e quando l’autorità amministrativa, che si determina per il provvedimento, dovrà dare ad esso il contenuto predeterminato dalle fonti normative, in assenza di discrezionalità nel quid (cfr. TAR Liguria, 25.10.1979, n. 381) (TAR Abruzzo-Pescara, Sez. I, sentenza 08.02.2007 n. 153 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2006

EDILIZIA PRIVATAE'illegittimo il diniego di concessione edilizia, per carenza documentale senza che l'Amministrazione abbia preventivamente invitato il richiedente la predetta concessione ad integrare la documentazione ritenuta carente, in quanto la carenza documentale può giustificare la richiesta istruttoria dell'Amministrazione volta al completamento della documentazione, ma non il diniego di concessione edilizia.
Ciò perché l'invito al completamento della documentazione è funzionale al perseguimento di uno specifico interesse pubblico, il quale esige una pronunzia sul merito della domanda di concessione edilizia, anziché sui soli requisiti formali della stessa, per cui allorquando sia stato assolto da parte dell'interessato un onere minimo di documentazione, per l'inizio dell'esame della richiesta di concessione edilizia, l'Amministrazione, prima di pronunciarsi sulla richiesta medesima, è tenuta a chiedere le eventuali necessarie integrazioni documentali.
A maggior ragione allorquando la C.E. sia stata rilasciata, nel qual caso prima di procedere all'annullamento della stessa il comune deve indicare agli interessati gli elementi progettuali o esecutivi difformi dalle prescrizioni urbanistiche vigenti per provvedere alle modifiche necessarie.
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Qualora il progetto edilizio presenti dubbi interpretativi, ai fini della sua conformità alla legislazione urbanistica, l'amministrazione comunale -in conformità dei principi di buona amministrazione- può legittimamente imporre sotto forma di condizione la soluzione tecnica conforme a tali norme, senza poter semplicemente denegare il rilascio della C.E..
Infatti, in base al principio di buona amministrazione, ove un progetto edilizio presenti elementi ostativi, peraltro di modesta rilevanza e tali da poter essere individuati e corretti o attraverso la modifica del progetto o il meccanismo della concessione condizionata, il sindaco non deve negare la C.E. richiesta, ma od invitare il committente a modificare in conformità il progetto o rilasciare "sub condicione" la concessione, in tal modo tutelando sia l'interesse pubblico al pieno rispetto della normativa urbanistica, sia l'interesse privato alla rapidità ed efficienza della pubblica amministrazione.
Con specifico riferimento alla necessità di migliorare taluni aspetti tecnici (precisamente igienico-sanitari) di un'opera, secondo la giurisprudenza il comune deve rilasciare la concessione stessa e prescrivere come semplice condizione per l'inizio dei lavori la progettazione di una variante in corso d'opera che attui i miglioramenti tecnici ritenuti necessari, anziché rigettare l'istanza di C.E..

Ebbene, la giurisprudenza, con orientamento che il collegio condivide pienamente e riafferma in questa sede, ha avuto occasione di porre il principio secondo il quale è illegittimo il diniego di concessione edilizia, per carenza documentale senza che l'Amministrazione abbia preventivamente invitato il richiedente la predetta concessione ad integrare la documentazione ritenuta carente, in quanto la carenza documentale può giustificare la richiesta istruttoria dell'Amministrazione volta al completamento della documentazione, ma non il diniego di concessione edilizia; ciò perché l'invito al completamento della documentazione è funzionale al perseguimento di uno specifico interesse pubblico, il quale esige una pronunzia sul merito della domanda di concessione edilizia, anziché sui soli requisiti formali della stessa, per cui allorquando sia stato assolto da parte dell'interessato un onere minimo di documentazione, per l'inizio dell'esame della richiesta di concessione edilizia, l'Amministrazione, prima di pronunciarsi sulla richiesta medesima, è tenuta a chiedere le eventuali necessarie integrazioni documentali (in termini TAR LAZIO-ROMA, Sez. II-bis, 10.05.2004, n. 4098; Consiglio Stato, sez. V, 23.03.1991, n. 328).
A maggior ragione allorquando la C.E. sia stata rilasciata, nel qual caso prima di procedere all'annullamento della stessa il comune deve indicare agli interessati gli elementi progettuali o esecutivi difformi dalle prescrizioni urbanistiche vigenti per provvedere alle modifiche necessarie (Consiglio Stato, sez. V, 17.12.1990, n. 884).
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Passando alla terza questione, la giurisprudenza ha espresso l’orientamento, assolutamente condivisibile, secondo il quale qualora il progetto edilizio presenti dubbi interpretativi, ai fini della sua conformità alla legislazione urbanistica, l'amministrazione comunale -in conformità dei principi di buona amministrazione- può legittimamente imporre sotto forma di condizione la soluzione tecnica conforme a tali norme, senza poter semplicemente denegare il rilascio della C.E.; infatti, in base al principio di buona amministrazione, ove un progetto edilizio presenti elementi ostativi, peraltro di modesta rilevanza e tali da poter essere individuati e corretti o attraverso la modifica del progetto o il meccanismo della concessione condizionata, il sindaco non deve negare la C.E. richiesta, ma od invitare il committente a modificare in conformità il progetto o rilasciare "sub condicione" la concessione, in tal modo tutelando sia l'interesse pubblico al pieno rispetto della normativa urbanistica, sia l'interesse privato alla rapidità ed efficienza della pubblica amministrazione (in termini, TAR Emilia Romagna Bologna, 29.08.1984, n. 325).
Con specifico riferimento alla necessità di migliorare taluni aspetti tecnici (precisamente igienico-sanitari) di un'opera, secondo la giurisprudenza il comune deve rilasciare la concessione stessa e prescrivere come semplice condizione per l'inizio dei lavori la progettazione di una variante in corso d'opera che attui i miglioramenti tecnici ritenuti necessari, anziché rigettare l'istanza di C.E. (in termini TAR Emilia Romagna Bologna, sez. I, 23.10.1991, n. 379)
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 25.10.2006 n. 1960 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASe non può escludersi, in linea di principio, un'attività surrogatoria della P.A.  laddove sia riscontrata carenza in una progettazione urbanistica od edilizia dei requisiti legali e ciò quando ragionevolmente risponda a criteri di economicità e speditezza dell’azione amministrativa, non può certamente ammettersi, di converso, che la P.A. possa <conformare> nei suoi aspetti <sostanziali> l’intervento sottoposto al suo esame, al solo scopo di evitare un pronunciamento negativo sullo stesso.
In tale ultima ipotesi, infatti, non solo si determinerebbe una sorta di ingiustificata sostituzione intersoggettiva tra l’amministrazione ed il privato, ma si licenzierebbe altresì una attività urbanistica od edilizia priva di un oggettivo (e preventivo) parametro documentale di riferimento, con ogni immaginabile conseguenza in sede di successivo controllo dell’attività stessa.
E' senz’altro da escludere la ammissibilità di concessioni edilizie <condizionate>, nella ipotesi in cui le prescrizioni imposte dalla P.A. non solo attengano ad aspetti sostanziali dell’intervento sottoposto al suo esame, ma non rivestano neppure carattere <autoesecutive>, implicando necessariamente un’ulteriore attività da parte del richiedente o di altro soggetto (pubblico o privato) coinvolto nel relativo procedimento, allo scopo di poter compiutamente definire l’oggetto della concessione medesima, e la sua conformità ai parametri legali.

Questo tribunale ha già avuto modo di precisare in quale misura la riscontrata carenza in una progettazione urbanistica od edilizia dei requisiti legali possa essere <surrogata> dall’attività della P.A., attraverso il rilascio di un atto di assenso variamente condizionato.
Se infatti non può escludersi, in linea di principio, una attività in tal senso quando ragionevolmente risponda a criteri di economicità e speditezza dell’azione amministrativa, non può certamente ammettersi, di converso, che la P.A. possa <conformare> nei suoi aspetti <sostanziali> l’intervento sottoposto al suo esame, al solo scopo di evitare un pronunciamento negativo sullo stesso.
In tale ultima ipotesi, infatti, non solo si determinerebbe una sorta di ingiustificata sostituzione intersoggettiva tra l’amministrazione ed il privato, ma si licenzierebbe altresì una attività urbanistica od edilizia priva di un oggettivo (e preventivo) parametro documentale di riferimento, con ogni immaginabile conseguenza in sede di successivo controllo dell’attività stessa.
Così, per quanto qui rileva, è senz’altro da escludere la ammissibilità di concessioni edilizie <condizionate>, nella ipotesi in cui le prescrizioni imposte dalla P.A. non solo attengano ad aspetti sostanziali dell’intervento sottoposto al suo esame, ma non rivestano neppure carattere <autoesecutive>, implicando necessariamente un’ulteriore attività da parte del richiedente o di altro soggetto (pubblico o privato) coinvolto nel relativo procedimento, allo scopo di poter compiutamente definire l’oggetto della concessione medesima, e la sua conformità ai parametri legali.
E’ evidente infatti che in questa ipotesi, il risultato della ulteriore attività prescritta debba necessariamente essere valutato dall’amministrazione prima del rilascio del richiesto titolo edilizio, difettando altrimenti una seria e compiuta conoscenza dell’intervento concessionato, sia nella sua consistenza materiale che (e soprattutto) nella sua rispondenza alla normativa di settore (cfr. TAR Liguria, Sezione Prima, 21.01.2000 n. 35) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 08.05.2006 n. 433 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2004

EDILIZIA PRIVATALe c.d. condizioni apposte alle concessioni non possono consistere in comportamenti risolutivi del titolo concessorio perché il rilascio non può essere fatto dipendere né a priori né a posteriori da fatti imputabili al concessionario o da adempimenti successivi al rilascio comunque qualificati.
La giurisprudenza, infatti, ritiene che sia illegittima l'apposizione di una condizione, non importa se sospensiva o risolutiva, alla concessione edilizia, salvi i casi espressamente previsti dalla legge, stante la natura d'accertamento costitutivo a carattere non negoziale di detto provvedimento.
Ne consegue che, quantunque nella prassi molte concessioni vengano emesse in forma c.d. condizionata, si deve ritenere che queste non siano vere condizioni ma prescrizioni che ne condizionano (non la legittimità) ma l’esercizio e che dunque la loro inosservanza può determinare sanzioni, quali la sospensione dei lavori ed i successivi provvedimenti sino alla decadenza, ma non, come sostiene la difesa dell’amministrazione, l’illegittimità ab origine della concessione oppure il venir meno dei presupposti essenziali per il suo rilascio e dunque, l’annullamento o la revoca d’essa a titolo sanzionatorio

Il Collegio osserva, in generale, che -come è noto- le concessioni non sono revocabili e che esse possono essere annullate solo per motivi di legittimità previa valutazione dell’interesse pubblico in funzione della comparazione degli interessi coinvolti.
Possono, infine, essere dichiarate decadute per inattività e/o sopravvenienza di nuove previsioni urbanistiche contrastanti con il loro rilascio, ma si tratta di un potere diverso che non attiene alla legittimità della concessione ma al venir meno della sua efficacia per scadenza del termine fissato ex lege.
Ne consegue che le c.d. condizioni apposte alle concessioni non possono consistere in comportamenti risolutivi del titolo concessorio perché il rilascio non può essere fatto dipendere né a priori né a posteriori da fatti imputabili al concessionario o da adempimenti successivi al rilascio comunque qualificati.
La giurisprudenza, infatti, ritiene che sia illegittima l'apposizione di una condizione, non importa se sospensiva o risolutiva, alla concessione edilizia, salvi i casi espressamente previsti dalla legge, stante la natura d'accertamento costitutivo a carattere non negoziale di detto provvedimento (cfr. C.d.S. C.d.S. sez. 5^, 24.03.2001 n. 1702).
Ne consegue che, quantunque nella prassi molte concessioni vengano emesse in forma c.d. condizionata, si deve ritenere che queste non siano vere condizioni ma prescrizioni che ne condizionano (non la legittimità) ma l’esercizio e che dunque la loro inosservanza può determinare sanzioni, quali la sospensione dei lavori ed i successivi provvedimenti sino alla decadenza, ma non, come sostiene la difesa dell’amministrazione, l’illegittimità ab origine della concessione oppure il venir meno dei presupposti essenziali per il suo rilascio e dunque, l’annullamento o la revoca d’essa a titolo sanzionatorio (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 20.10.2004 n. 3732 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla possibilità di subordinare l'assenso edilizio a prescrizioni.
L’amministrazione pubblica, la cui giustificazione ontologica va ricercata nella prestazione di varie attività di “servizio pubblico” rese ai cittadini, non può limitarsi ad un esame distaccato e meccanico delle istanze indirizzatele dagli amministrati, procurando di accogliere soltanto quelle che ex origine si presentino esattamente corrispondenti ai formanti normativi rilevanti per la singola fattispecie e, di contro, respingendo quelle che manifestino qualunque difformità, anche di minima entità, rispetto a detti parametri.
Sulla P.A. incombe invece un preciso dovere di collaborazione con i cittadini al fine di contribuire a realizzarne, nei margini consentiti dall’ordinamento giuridico, le legittime aspettative.

È infondata anche la terza doglianza.
Si sostiene che il Comune di Roma non avrebbe potuto rilasciare una concessione edilizia condizionata ad una modifica del progetto, peraltro mai richiesta dalle Gorgosalice, consistente nell’eliminazione della porzione di lotto ricadente nel perimetro del P.d.Z..
Le ragioni della ritenuta impossibilità giuridica di subordinare l’assenso edilizio in parola allo stralcio dei 138 mq. in questione non sono affatto condivisibili.
Militano piuttosto a favore della conclusione esattamente contraria i principi di buon andamento e di leale collaborazione.
L’amministrazione pubblica, la cui giustificazione ontologica va ricercata nella prestazione di varie attività di “servizio pubblico” rese ai cittadini (Cons. St., ad. plen., 30.03.2000, n. 1, ord.), non può limitarsi ad un esame distaccato e meccanico delle istanze indirizzatele dagli amministrati, procurando di accogliere soltanto quelle che ex origine si presentino esattamente corrispondenti ai formanti normativi rilevanti per la singola fattispecie e, di contro, respingendo quelle che manifestino qualunque difformità, anche di minima entità, rispetto a detti parametri.
Sulla P.A. incombe invece un preciso dovere di collaborazione con i cittadini al fine di contribuire a realizzarne, nei margini consentiti dall’ordinamento giuridico, le legittime aspettative.
Chiaramente non si è ispirata a questi principi la condotta del Comune di Roma che, una volta preso atto dell’insistenza di un’irrisoria parte dell’area del progetto presentato dalle Gorgosalice in una zona non edificabile, ha rigettato in toto la richiesta.
È opinione del Collegio che la circostanza avrebbe dovuto indurre l’amministrazione appellante a prediligere un ben diverso stile gestorio: in primo luogo il Comune di Roma avrebbe dovuto verificare se effettivamente la modesta porzione di terreno in questione fosse stata computata dalle ricorrenti ai fini volumetrici ed altresì se essa incidesse sul calcolo degli standard previsti nel progetto (circostanze che le Gorgosalice negano e sulle quali l’ente civico non ha controdedotto).
In caso di esito negativo di questa preliminare verifica, nulla avrebbe impedito al Comune di Roma di rilasciare l’assenso richiesto, epurandolo d’ufficio del piccolo “ritaglio” in parola (siccome, del resto, prospettato in sede istruttoria, giusta il rapporto dell’Ufficio, prot. n. 29587 del 23.05.1994); nell’ipotesi contraria, prima di optare per la radicale e recisa bocciatura dell’istanza, il Comune avrebbe potuto e dovuto sollecitare le richiedenti a proporre diverse soluzioni progettuali che tenessero conto dell’esigenza di eliminare la parte rientrante nel P.d.Z. di Torre Spaccata Ovest
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 17.07.2004 n. 5127 - link a www.giustizia-amministrativa.it).