dossier PRESCRIZIONI P.d.C. (Permesso di Costruire) |
anno 2021 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Questo Tribunale ha già avuto
modo di porre in rilievo «la progressiva evoluzione del processo
amministrativo avente ad oggetto provvedimenti autoritativi di natura
vincolata nella direzione del giudizio sul rapporto, desumibile
- non solo
dalla disposizione dell’art. 21-octies, comma 2, primo periodo, della legge
n. 241/1990 (secondo il quale “non è annullabile il provvedimento adottato
in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora,
per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato”),
- ma anche dalla disposizione dell’art. 31, comma 3, cod. proc.
amm. (secondo il quale “il giudice può pronunciare sulla fondatezza della
pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o
quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della
discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano
essere compiuti dall’amministrazione”).
Da tali disposizioni si desume che,
nei casi di attività vincolata, il giudice amministrativo può ben operare un
sindacato teso ad accertare l’effettiva spettanza del bene della vita, ossia
non limitato all’accertamento dei vizi di legittimità dedotti con il ricorso
..., perché in tali casi non si verifica un’indebita sostituzione del
giudice all’amministrazione, essendo la spettanza del bene della vita già
predeterminata a livello normativo.
Di converso nei casi di attività
discrezionale il giudice amministrativo, se chiamato ad operare un sindacato
di legittimità sulla discrezionalità (pura o tecnica) dell’amministrazione,
non può sostituirsi ad essa, ma deve limitarsi a svolgere il sindacato
dall’esterno, ossia verificando se il potere sia stato correttamente
esercitato o meno».
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La giurisprudenza ha da tempo
chiarito -seppure con riferimento alla disposizione (vigente ratione
temporis) dell’art. 13 della legge n. 47 del 1985 (secondo la quale “il
responsabile dell’abuso può ottenere la concessione o l’autorizzazione in
sanatoria quando l’opera eseguita in assenza della concessione o
autorizzazione è conforme agli strumenti urbanistici generali e di
attuazione approvati e non in contrasto con quelli adottati sia al momento
della realizzazione dell’opera, sia al momento della presentazione della
domanda”)- che i presupposti di fatto per il rilascio della concessione in
sanatoria devono sussistere alla data di adozione del provvedimento di
sanatoria, e non alla data della presentazione della domanda.
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Da tempo la giurisprudenza ha ammesso la possibilità di condizionare il rilascio di una
concessione edilizia, il cui progetto risulti eseguibile esclusivamente in
caso di approvazione di una variante al piano regolatore generale, all’esito
positivo del procedimento in itinere, ma ciò solo per la connessione fra i
diversi procedimenti amministrativi; ciò in quanto le clausole accidentali
possono essere apposte anche all’atto amministrativo a condizione che non
risultino alterate la struttura e la funzione tipica dell’atto stesso e
comprese le situazioni giuridiche dei destinatari.
Maggiori difficoltà teoriche ha invero incontrato l’ipotesi -da ritenersi
eccezionale in quanto riferita alla peculiare sanabilità di una condotta
abusiva e, quindi, sanzionata- del permesso di costruire in sanatoria, nel
qual caso l’apposizione di condizioni potrebbe alterare la struttura e la
funzione dell’atto stesso, legato ad un puntuale accertamento delle
condizioni poste dalla legge per la sanatoria.
Ciononostante la
giurisprudenza, anche di recente, ha affermato che -mentre una condizione in senso
proprio non può essere apposta, laddove non prevista dalla legge, in quanto
contrasterebbe con l’essenza stessa del permesso di costruire in sanatoria,
che è atto di accertamento a carattere non negoziale- diverso è il caso in
cui l’elemento accidentale sia più correttamente identificabile in termini
di prescrizione, quale modalità esecutiva; prescrizione che, se non
ottemperata, non invalida comunque l’atto autorizzativo e non ne impedisce
gli effetti, con la conseguenza che sussisterà una semplice violazione della
prescrizione stessa, come tale autonomamente sanzionata.
Dunque, secondo
questo condivisibile orientamento, «il permesso di costruire in sanatoria,
se per un verso non può certo essere soggetto a condizioni modificative di
quanto realizzato abusivamente, può legittimamente introdurre o recepire
limitate prescrizioni intese ad imporre correttivi esecutivi sull’esistente,
ad esempio al fine di mitigare l’impatto paesaggistico del manufatto, in
termini tali da renderlo più coerente con il contesto ambientale, qualora si tratti di
integrazioni minime, aventi carattere di mere modalità esecutive, tali da
agevolare il rilascio di una sanatoria in termini di adeguatezza al contesto regolatorio e fattuale
proprio del singolo territorio di riferimento».
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Secondo una consolidata giurisprudenza, in base al
principio tempus regit actum la legittimità di un atto amministrativo deve
essere accertata con riferimento allo stato di fatto e di diritto esistente
al momento della sua adozione, e ciò comporta che, in caso di modifiche
normative sopravvenute nel corso del procedimento, l’Amministrazione
procedente deve sempre tenere conto di tali modifiche.
In definitiva -fermo restando che, in ossequio al principio tempus regit
actum, la verifica della sussistenza dei presupposti per il rilascio del
permesso di costruire in sanatoria (ossia la conformità urbanistica) deve
essere verificata alla data di adozione del provvedimento di sanatoria, e
non alla data della presentazione della relativa domanda- il riferimento
“al momento della presentazione della domanda” si spiega tenendo conto della
possibilità che dopo la presentazione della domanda di sanatoria
intervengano previsioni urbanistiche che rendono impossibile la sanatoria;
Dunque tale riferimento deve essere inteso nel senso che il Legislatore ha
inteso derogare parzialmente al principio tempus regit actum, escludendo che
eventuali sopravvenute modifiche in peius delle previsioni urbanistiche
possano ostare all’accoglimento della domanda di sanatoria e, quindi, ha
imposto all’Amministrazione di tenere conto solo delle previsioni
urbanistiche che “al momento della presentazione della domanda” sono già in
vigore e di quelle che a tale momento risultano adottate, ma non ancora
approvate.
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4. Passando alla controversia oggetto del presente giudizio, il Collegio
ritiene che si possa prescindere dall’esame delle eccezioni processuali
sollevate dalla controinteressata perché nessuna delle suesposte censure può
essere accolta, alla luce delle seguenti considerazioni.
5. Come già evidenziato, la società Al.Ho. -a seguito della nota prot. n. 6855 del 28.11.2018, con cui il Comune di Molveno ha
comunicato i motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza per la
regolarizzazione, ai sensi dell’art. 129, comma 11, della legge provinciale
n. 1 del 2008, delle opere oggetto del permesso di costruire in deroga n.
3033 del 2017, annullato da questo Tribunale con la sentenza n. 126 del 2018- in data 15.04.2019 ha presentato un’ulteriore istanza, volta al
rilascio di un permesso di costruire in sanatoria, ai sensi dell’art. 135,
comma 7, della legge provinciale n. 1 del 2008, sulla quale il Comune di Molveno si è espresso positivamente rilasciando l’impugnato permesso di
costruire in sanatoria n. 3076, in data 04.06.2020.
Ciò posto, il Collegio -nel rammentare che, secondo una consolidata
giurisprudenza, anche di questo Tribunale (da ultimo, T.R.G.A Trentino Alto
Adige, Trento, 18.03.2021, n. 39), la qualificazione giuridica del
provvedimento impugnato è un’operazione che compete al Giudice
amministrativo in ossequio al principio iura novit curia, analogamente a
quanto avviene nel processo civile con riferimento alla qualificazione del
tipo negoziale entro il quale vanno sussunti gli atti di autonomia privata
di cui si controverte- concorda senz’altro con il Comune di Molveno quando
nelle proprie difese osserva che l’erroneo riferimento all’art. 38 del
d.P.R. 380 del 2001, contenuto nella motivazione del provvedimento
impugnato, non può comunque inficiare la legittimità di tale provvedimento.
Tale riferimento è invero senz’altro erroneo perché, come già detto,
l’impugnato permesso di costruire è stato adottato ai sensi dell’art. 135,
comma 7, della legge provinciale n. 1 del 2008; ma il riferimento stesso è
totalmente ininfluente ai fini del presente giudizio, stante la c.d.
dequotazione della motivazione del provvedimento amministrativo nei giudizi
aventi ad oggetto l’esercizio di poteri vincolati (come quello previsto
dell’art. 135, comma 7, della legge provinciale n. 1 del 2008).
Difatti
questo stesso Tribunale in altre occasioni (T.R.G.A. Trentino Alto Adige,
Trento, 19.10.2020, n. 177; id. 13.04.2017, n. 136) ha già avuto
modo di porre in rilievo «la progressiva evoluzione del processo
amministrativo avente ad oggetto provvedimenti autoritativi di natura
vincolata nella direzione del giudizio sul rapporto, desumibile non solo
dalla disposizione dell’art. 21-octies, comma 2, primo periodo, della legge
n. 241/1990 (secondo il quale “non è annullabile il provvedimento adottato
in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora,
per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato”), ma anche dalla disposizione dell’art. 31, comma 3, cod. proc.
amm. (secondo il quale “il giudice può pronunciare sulla fondatezza della
pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o
quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della
discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano
essere compiuti dall’amministrazione”). Da tali disposizioni si desume che,
nei casi di attività vincolata, il giudice amministrativo può ben operare un
sindacato teso ad accertare l’effettiva spettanza del bene della vita, ossia
non limitato all’accertamento dei vizi di legittimità dedotti con il ricorso
..., perché in tali casi non si verifica un’indebita sostituzione del
giudice all’amministrazione, essendo la spettanza del bene della vita già
predeterminata a livello normativo. Di converso nei casi di attività
discrezionale il giudice amministrativo, se chiamato ad operare un sindacato
di legittimità sulla discrezionalità (pura o tecnica) dell’amministrazione,
non può sostituirsi ad essa, ma deve limitarsi a svolgere il sindacato
dall’esterno, ossia verificando se il potere sia stato correttamente
esercitato o meno».
Dunque -posto che la parte ricorrente non contesta affatto che «le opere
realizzate ed in parte minima ripristinate dall’interessato a seguito della
comunicazione del preavviso di diniego risultano rispettose della disciplina
urbanistica vigente e non vi è neppure la necessità di accordare la deroga»
(così la motivazione del provvedimento impugnato)- ai fini della decisione
sulla presente controversia assume decisivo rilievo stabilire come vada
interpretato l’art. 135, comma 7, della legge provinciale n. 1 del 2008
laddove dispone che, ai fini della sanatoria, l’Amministrazione deve
accertare se l’opera abusiva sia, o meno, “conforme, al momento della
presentazione della domanda, alle norme urbanistiche vigenti e non in
contrasto con quelle adottate”.
Emergono infatti dagli atti di causa due
tesi contrapposte.
6. Secondo la parte ricorrente l’espresso riferimento al momento della
“presentazione” della domanda di sanatoria, contenuto nell’art. 135, comma
7, starebbe a significare che la presentazione della domanda determina una
sorta di cristallizzazione del rapporto, nel senso che l’Amministrazione non
potrebbe tener conto di alcun tipo di sopravvenienza intervenuta durante il
procedimento, ossia né di modifiche alla disciplina urbanistica, né di
modifiche dell’opera da sanare sopravvenute rispetto al momento della
presentazione della domanda.
Pertanto nel caso in esame il Comune avrebbe
dovuto senz’altro rigettare la domanda di sanatoria in quanto -come
evidenziato nel preavviso di rigetto di cui alla nota prot. n. 5044 del 07.08.2019- le opere realizzate in forza del permesso di costruire
annullato risultavano, al momento della presentazione della domanda stessa,
incompatibili con le previsioni dello strumento urbanistico relative al
parametro della superficie coperta, previsioni il cui superamento aveva in
precedenza imposto l’attivazione del procedimento per il rilascio di un
permesso di costruire in deroga.
In altri termini, secondo la tesi della parte ricorrente, la demolizione di
parte del solaio, eseguita dopo l’attivazione del procedimento in sanatoria,
era «totalmente neutra ai fini del riscontro della sussistenza dei
presupposti di compatibilità urbanistica dell’opera abusiva», dovendo tale
riscontro essere effettuato con riferimento all’intero abuso, come accertato
ed esistente al momento della presentazione della domanda di sanatoria e
decritto nella domanda stessa. Del resto, diversamente opinando, si
finirebbe per ammettere il rilascio di un titolo edilizio in sanatoria
parziale, limitato cioè ad una sola parte delle opere abusive.
A questa tesi si contrappone quella del Comune e della controinteressata,
secondo la quale -a dispetto della lettera dell’anzidetto art. 135, comma 7- i presupposti per il rilascio del permesso di costruire in di sanatoria
devono sussistere alla data di adozione del provvedimento, e non alla data
della presentazione della domanda; dunque nel caso in esame
l’Amministrazione avrebbe correttamente tenuto conto del fatto che la controinteressata -avuta notizia del preavviso di rigetto- aveva
provveduto a ridurre spontaneamente l’estensione del solaio (sul punto non
vi è contestazione), sì da rendere la superficie del manufatto compatibile
con il relativo parametro urbanistico.
A corredo di tale tesi, e in replica all’argomento della parte ricorrente
secondo il quale non sarebbe ammissibile il rilascio di un titolo edilizio
che riguardi solo una parte dell’abuso oggetto della domanda di sanatoria,
la controinteressata osserva che -sebbene nel caso in esame non si tratti
di un permesso di costruire in sanatoria rilasciato con prescrizioni, ovvero
condizionato a modifiche dell’oggetto della sanatoria- tuttavia la
giurisprudenza ammette che il permesso in sanatoria possa eccezionalmente
introdurre prescrizioni, purché si tratti di integrazioni minime o,
comunque, tali da agevolare una sanatoria altrimenti non concedibile; dunque
a maggior ragione deve ammettersi che l’interessato, in pendenza del
procedimento avviato a seguito della presentazione di un’istanza ai sensi
dell’art. 135, comma 7, possa comunque apportare al manufatto abusivo le
modifiche necessarie per renderlo sanabile.
7. La tesi della parte ricorrente è ancorata essenzialmente ad
un’interpretazione letterale dell’art. 135, comma 7, della legge provinciale
n. 1 del 2008; difatti tale disposizione -secondo la quale ai fini della
sanatoria l’amministrazione è tenuta ad accertare che l’opera abusiva sia
“conforme, al momento della presentazione della domanda, alle norme
urbanistiche vigenti e non in contrasto con quelle adottate”-
effettivamente può prestarsi ad essere letta nel senso che la presentazione
della domanda determina una sorta di cristallizzazione del rapporto, sia per
quanto riguarda l’opera da sanare, sia per quanto riguarda i parametri
urbanistici in base ai quali deve essere verificata la sanabilità
dell’opera.
Tuttavia il Collegio ritiene che tale tesi non possa essere accolta non solo
perché non tiene conto del consolidato orientamento giurisprudenziale
formatosi sull’art. 13 della legge 28.02.1985, n. 47, di seguito
esaminata, ma soprattutto perché si pone in radicale contrasto con i
principi generali del procedimento amministrativo e, in particolare, con il
principio della partecipazione al procedimento, del quale sono espressione
l’istituto del preavviso di rigetto, disciplinato (a livello statuale)
dall’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 e (a livello provinciale)
dall’art. 27-bis della legge provinciale 30.11.1992, n. 23, e con il
principio di economicità dell’azione amministrativa, sancito (a livello
statuale) dall’art. 1, comma 1, della legge n. 241 del 1990 e (a livello
provinciale) dall’art. 2, comma 1, della legge provinciale n. 23 del 1992.
8. Come ricordato dal Comune e dalla controinteressata, la giurisprudenza
(ex multis, Consiglio Stato, Sez. V, 29.05.2006, n. 3236) ha da tempo
chiarito -seppure con riferimento alla disposizione (vigente ratione
temporis) dell’art. 13 della legge n. 47 del 1985 (secondo la quale “il
responsabile dell’abuso può ottenere la concessione o l’autorizzazione in
sanatoria quando l’opera eseguita in assenza della concessione o
autorizzazione è conforme agli strumenti urbanistici generali e di
attuazione approvati e non in contrasto con quelli adottati sia al momento
della realizzazione dell’opera, sia al momento della presentazione della
domanda”)- che i presupposti di fatto per il rilascio della concessione in
sanatoria devono sussistere alla data di adozione del provvedimento di
sanatoria, e non alla data della presentazione della domanda.
Per le ragioni di seguito indicate non vi è ragione per discostarsi da tale
opzione ermeneutica, essendo il riferimento “al momento della presentazione
della domanda” presente tanto nella disposizione dell’art. 36, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 e nella corrispondente disposizione dell’art. 135,
comma 1, della legge provinciale n. 1 del 2008, quanto nella disposizione
dell’art. 135, comma 7, della legge provinciale medesima.
Si rende però
necessario precisare il fondamento di tale opzione ermeneutica e,
soprattutto, cosa essa comporti.
9. Innanzi tutto tale opzione ermeneutica è coerente con il principio di
partecipazione al procedimento amministrativo.
La dottrina ha da tempo posto in rilievo che la legittimità del
provvedimento è il risultato non solo del corretto uso del potere da parte
dell’amministrazione procedente, ma anche del contributo degli interessati
all’esercizio della funzione amministrativa. Dunque la partecipazione al
procedimento non ha solo lo scopo di garantire gli interessati nei riguardi
dell’azione del pubblico potere, bensì quello di consentire a costoro di
contribuire alla formazione della decisione amministrativa, come
plasticamente dimostra, ad esempio, la tipizzazione degli accordi
integrativi o sostitutivi del provvedimento. In tal senso il procedimento è
stato efficacemente definito dalla dottrina come la forma della funzione
amministrativa.
Ritiene allora il Collegio che il principio della partecipazione al
procedimento e gli istituti che ad esso si ispirano, come la comunicazione
dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza -da ritenersi applicabile
anche nei procedimenti attraverso i quali vengono esercitati poteri
vincolati (come nel caso in esame)- debbano essere intesi nell’accezione
più ampia possibile.
In particolare deve ritenersi che nei procedimenti ad
istanza di parte (come quello per cui è causa) l’interessato attraverso il
preavviso di rigetto viene posto in condizione di incidere sul concreto
esercizio del potere non solo esercitando il diritto di presentare
osservazioni scritte, che l’Amministrazione è tenuta a prendere in
considerazione, con conseguente obbligo di specificare, nella motivazione
del provvedimento finale, le ragioni dell’eventuale mancato accoglimento
delle osservazioni stesse (come espressamente previsto dall’art. 10-bis
della legge n. 241 del 1990 e dall’art. 27-bis della legge provinciale n. 23
del 1992), ma anche esercitando il diritto di superare i motivi ostativi
comunicati con il preavviso di rigetto attraverso la conformazione della
situazione di fatto ai parametri normativi in base ai quali l’istanza deve
essere esaminata.
Ciò è quanto è avvenuto nel caso in esame, nel quale la controinteressata, a
fronte dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza di sanatoria,
comunicati dal Comune con la con nota prot. n. 5044 del 07.08.2019, ha
posto in essere un intervento di demolizione parziale volto a ridurre
l’estensione del solaio realizzato in forza del permesso annullato, sì da
rendere il manufatto divenuto abusivo suscettibile di sanatoria.
10. Inoltre la tesi della società ricorrente si pone in palese contrasto con
il principio di economicità dell’azione amministrativa, di cui costituisce
espressione l’orientamento giurisprudenziale -invocato dalla controinteressata- in base al quale il permesso di costruire in sanatoria
può eccezionalmente essere rilasciato con prescrizioni.
Da tempo la giurisprudenza (Consiglio di Stato, Sez. V, 13.10.1993, n.
1031) ha ammesso la possibilità di condizionare il rilascio di una
concessione edilizia, il cui progetto risulti eseguibile esclusivamente in
caso di approvazione di una variante al piano regolatore generale, all’esito
positivo del procedimento in itinere, ma ciò solo per la connessione fra i
diversi procedimenti amministrativi; ciò in quanto le clausole accidentali
possono essere apposte anche all’atto amministrativo a condizione che non
risultino alterate la struttura e la funzione tipica dell’atto stesso e
comprese le situazioni giuridiche dei destinatari.
Maggiori difficoltà teoriche ha invero incontrato l’ipotesi -da ritenersi
eccezionale in quanto riferita alla peculiare sanabilità di una condotta
abusiva e, quindi, sanzionata- del permesso di costruire in sanatoria, nel
qual caso l’apposizione di condizioni potrebbe alterare la struttura e la
funzione dell’atto stesso, legato ad un puntuale accertamento delle
condizioni poste dalla legge per la sanatoria.
Ciononostante la
giurisprudenza, anche di recente (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 28.09.2020, n. 5683), ha affermato che -mentre una condizione in senso
proprio non può essere apposta, laddove non prevista dalla legge, in quanto
contrasterebbe con l’essenza stessa del permesso di costruire in sanatoria,
che è atto di accertamento a carattere non negoziale- diverso è il caso in
cui l’elemento accidentale sia più correttamente identificabile in termini
di prescrizione, quale modalità esecutiva; prescrizione che, se non
ottemperata, non invalida comunque l’atto autorizzativo e non ne impedisce
gli effetti, con la conseguenza che sussisterà una semplice violazione della
prescrizione stessa, come tale autonomamente sanzionata.
Dunque, secondo
questo condivisibile orientamento, «il permesso di costruire in sanatoria,
se per un verso non può certo essere soggetto a condizioni modificative di
quanto realizzato abusivamente, può legittimamente introdurre o recepire
limitate prescrizioni intese ad imporre correttivi esecutivi sull’esistente,
ad esempio al fine di mitigare l’impatto paesaggistico del manufatto, in
termini tali da renderlo più coerente con il contesto ambientale (cfr. in
termini Cons. St., VI, 28.06.2016, n. 2860), qualora si tratti di
integrazioni minime, aventi carattere di mere modalità esecutive, tali da
agevolare il rilascio di una sanatoria in termini di adeguatezza al contesto regolatorio e fattuale proprio del singolo territorio di riferimento (cfr.
ad es. Cons. St., IV, 08.09.2015 n. 4176)» (così Consiglio di Stato, Sez. VI, 28.09.2020, n. 5683, cit.).
Coglie allora nel segno la controinteressata quando afferma che, se può
ammettersi la possibilità che il permesso di costruire in sanatoria contenga
«limitate prescrizioni intese ad imporre correttivi esecutivi
sull’esistente» -e tale sarebbe stata l’eventuale prescrizione con la quale
il Comune avrebbe potuto imporre alla controinteressata di ridurre la
superficie del solaio, che non era sanabile in quanto eccedeva il parametro
urbanistico, seppure in misura inferiore al 2% (sul punto non vi è
contestazione)- a maggior ragione deve ammettersi che la controinteressata
medesima ben potesse (come in effetti è avvenuto), in pendenza del
procedimento avviato a seguito della presentazione della domanda di
sanatoria, apportare al manufatto abusivo le modifiche necessarie per
renderlo sanabile.
Del resto, anche a voler seguire la tesi della ricorrente, non può certo
escludersi che -se il Comune, nonostante la riduzione della superficie del
solaio, avesse respinto la domanda di sanatoria, confermando i motivi
ostativi all’accoglimento della stessa già rappresentati con il preavviso di
rigetto- la controinteressata avrebbe potuto presentare una nuova domanda
di sanatoria, con il conseguente avvio di un nuovo procedimento
amministrativo destinato a concludersi con il rilascio del provvedimento
richiesto, ma con un evidente, inutile aggravio dell’azione amministrativa.
11. Resta a questo punto soltanto da spiegare perché il legislatore nel
testo delle disposizioni che prevedono e disciplinano l’accertamento di
conformità -ivi compresa quella dell’art. 135, comma 7, della legge
provinciale n. 1 del 2008- abbia fatto espresso riferimento “al momento
della presentazione della domanda”.
A tal fine giova rammentare che, secondo una consolidata giurisprudenza (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. III,
04.02.2021, n. 1045), in base al
principio tempus regit actum la legittimità di un atto amministrativo deve
essere accertata con riferimento allo stato di fatto e di diritto esistente
al momento della sua adozione, e ciò comporta che, in caso di modifiche
normative sopravvenute nel corso del procedimento, l’Amministrazione
procedente deve sempre tenere conto di tali modifiche.
Invece il legislatore
provinciale, prevedendo nell’art. 135, comma 7, che è possibile “rilasciare
la concessione edilizia quando è regolarmente richiesta e conforme, al
momento della presentazione della domanda, alle norme urbanistiche vigenti e
non in contrasto con quelle adottate, anche se l’opera per la quale è
richiesta è già stata realizzata abusivamente”, ha inteso derogare
parzialmente al principio tempus regit actum, nel senso che la disciplina
urbanistica da prendere in considerazione per verificare la sanabilità
dell’abuso è costituita solo dalle previsioni in vigore al momento della
presentazione della domanda di sanatoria e dalle previsioni contenute
all’interno di un nuovo strumento urbanistico (o di uno strumento in
variante) solo adottato, le quali, come noto, determinano l’operatività
delle c.d. misure di salvaguardia (cfr. l’art. 47 della legge provinciale n.
15 del 2015).
In definitiva -fermo restando che, in ossequio al principio tempus regit
actum, la verifica della sussistenza dei presupposti per il rilascio del
permesso di costruire in sanatoria (ossia la conformità urbanistica) deve
essere verificata alla data di adozione del provvedimento di sanatoria, e
non alla data della presentazione della relativa domanda- il riferimento
“al momento della presentazione della domanda” si spiega tenendo conto della
possibilità che dopo la presentazione della domanda di sanatoria
intervengano previsioni urbanistiche che rendono impossibile la sanatoria;
dunque tale riferimento deve essere inteso nel senso che il Legislatore ha
inteso derogare parzialmente al principio tempus regit actum, escludendo che
eventuali sopravvenute modifiche in peius delle previsioni urbanistiche
possano ostare all’accoglimento della domanda di sanatoria e, quindi, ha
imposto all’Amministrazione di tenere conto solo delle previsioni
urbanistiche che “al momento della presentazione della domanda” sono
già in vigore e di quelle che a tale momento risultano adottate, ma non
ancora approvate
(TRGA Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 20.04.2021 n. 60 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2018 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Il permesso di costruire non può essere sottoposto a
condizione, salvo che non sia previsto dalla legge.
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Edilizia – Permesso di costruire – Sottoposto a
condizione sospensiva o risolutiva – Esclusione.
Il permesso di costruire non può
essere sottoposto a condizione, sia essa sospensiva o
risolutiva, stante la natura di accertamento costitutivo a
carattere non negoziale del provvedimento, con la
conseguenza che tale titolo, una volta riscontratane la
conformità alla vigente disciplina urbanistica, deve essere
rilasciata dal Comune senza condizioni che non siano
espressamente previste da una norma di legge (1).
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(1)
Ha ricordato la Sezione che solo con specifico e limitato
riferimento all’ipotesi del permesso condizionato
all’acquisizione di un atto da altra Pubblica
amministrazione la modalità procedurale di rilasciare
permessi di costruire condizionati deve considerarsi
legittima, avuto riguardo alle esigenze generali di
complessiva speditezza ed efficienza dell'azione
amministrativa, nonché per l'effetto non neutro del
passaggio del tempo per i destinatari dell'atto.
Infatti, in applicazione del generale principio di
proporzionalità, implicante minimo possibile sacrificio
degli interessi coinvolti, l'amministrazione pubblica deve
responsabilmente scegliere, nell'esercizio delle proprie
funzioni, il percorso -ove necessario coordinato con quello
di altre amministrazioni- teso a non aggravare inutilmente
la situazione dei destinatari dell'azione amministrativa,
come prescritto anche dall'art. 1, comma 2, l. 07.08.1990,
n. 241; mentre, costituisce inutile aggravio procedurale
(perché non bilanciato da una sufficiente ragione di
interesse pubblico) l'arresto di un procedimento, che può
invece proseguire sotto la condizione sospensiva del
perfezionamento di altra procedura presupposta (Cons.
Stato, sez. VI, 10.12.2015, n. 5615; id.,
sez. IV, 25.06.2013, n. 3447)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 19.04.2018 n. 2366
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
11. Nel merito, si osserva che con i restanti motivi di
appello -che il Collegio ritiene di dover esaminare
congiuntamente in quanto intimamente connessi- il Comune di
Genova censura la sentenza impugnata per non avere
correttamente interpretato, sotto vari profili, la
prescrizione inserita nel permesso di costruire, oggetto di
specifica impugnazione.
In particolare, l’appellante sostiene:
a) che la prescrizione non è qualificabile in termini di “condizione”
del permesso, in quanto attiene alle modalità esecutive
dell’opera;
b) che la prescrizione, piuttosto che riguardare il progetto
architettonico, in realtà riguarda il progetto strutturale,
quindi le modalità esecutive a tutela dell’interesse
pubblico alla corretta realizzazione dell’opera;
c) che la prescrizione non concreta una subordinazione
dell’esecuzione delle opere al “consenso dei proprietari
confinanti”, ma un’ulteriore verifica progettuale
relativa, in particolare, all’aspetto strutturale;
d) con la detta prescrizione non è stato concretizzato alcun
aggravio del procedimento, essendo emersa nel corso di
questo la necessità della stessa;
e) che la prescrizione non è indeterminata, dovendosi ritenere, al
contrario, sufficientemente individuati nel permesso
impugnato gli intervenienti.
Tutti i motivi sono infondati.
11.1. In relazione alla questione oggetto del giudizio, si
richiamano i principi elaborati da questo Consiglio in forza
dei quali:
a) “in via di principio, e fatti salvi i casi
espressamente stabiliti dalla legge, una condizione, sia
essa sospensiva o risolutiva, non può essere apposta ad una
concessione edilizia, stante la natura di accertamento
costitutivo a carattere non negoziale del provvedimento; ne
consegue che, a parte tali limitazioni, la concessione
edilizia, una volta riscontratane la conformità alla vigente
disciplina urbanistica, deve essere rilasciata dal comune
senza condizioni che non siano espressamente previste da una
norma di legge”
(Cons. Stato, sez. V, 24.03.2001, n. 1702; conforme Cons.
Stato, sez. IV, 16.04.2014, n. 1891; sez. IV, 06.06.2011, n.
3382);
b) con specifico e limitato riferimento all’ipotesi del permesso
condizionato all’acquisizione di un atto da altra pubblica
amministrazione, “la modalità
procedurale di rilasciare permessi di costruire condizionati
deve considerarsi legittima, avuto riguardo alle esigenze
generali di complessiva speditezza ed efficienza dell'azione
amministrativa, nonché per l'effetto non neutro del
passaggio del tempo per i destinatari dell'atto. Infatti, in
applicazione del generale principio di proporzionalità,
implicante minimo possibile sacrificio degli interessi
coinvolti, l'amministrazione pubblica deve responsabilmente
scegliere, nell'esercizio delle proprie funzioni, il
percorso —ove necessario coordinato con quello di altre
amministrazioni— teso a non aggravare inutilmente la
situazione dei destinatari dell'azione amministrativa, come
prescritto anche dall'art. 1, comma 2, l. 07.08.1990 n. 241;
mentre, costituisce inutile aggravio procedurale (perché non
bilanciato da una sufficiente ragione di interesse pubblico)
l'arresto di un procedimento, che può invece proseguire
sotto la condizione sospensiva del perfezionamento di altra
procedura presupposta”
(Cons. Stato, sez. VI, 10.12.2015, n. 5615; conforme Cons.
Stato, sez. IV, 25.06.2013, n. 3447).
11.2. Con riferimento al caso di specie, occorre premettere
che il titolo edilizio in esame prevede la prescrizione,
secondo cui, prima dell’avvio dei lavori di costruzione
dell’autorimessa interrata, sia predisposta "una
relazione congiunta, a firma dello strutturista della
società titolare del permesso di costruire e dello
strutturista degli esponenti oppure del solo strutturista
della società titolare del permesso di costruire con "visto"
di quello degli esponenti o altra forma dalla quale risulti
comunque l'accordo delle parti stesse che, dopo aver
espletato le eventuali ulteriori verifiche del caso,
riconosca la fattibilità dell'intervento sotto il profilo
strutturale; tale accordo dovrà anche riguardare
l'esecuzione dei lavori e consentire che venga svolta
un'attività di controllo da parte del professionista
incaricato dagli amministratori dei palazzi soprastanti. Nel
caso di mancato accordo tra le parti, dovrà essere onere
delle stesse affidare la soluzione dei punti controversi ad
un terzo "arbitro" ed i lavori potranno iniziare solo nel
caso di valutazione favorevole di questo ultimo".
11.3. Alla luce della previsione di dettaglio, e tenendo in
debita considerazione le richiamate coordinate
giurisprudenziali, risulta che:
a) non sussistono i presupposti per ritenere
integrata una delle ipotesi eccezionali per le quali viene
ammesso il rilascio condizionato del titolo (seppur
subordinatamente alla permanenza del monitoraggio da parte
del Comune, che, ad ogni modo, deve restare il titolare del
procedimento autorizzatorio). Invero:
a.1) non si ravvisa nessuna
finalità di risparmio procedimentale, non essendo
necessario, ai fini del completamento dell’istruttoria
procedimentale, acquisire atti da altra amministrazione, con
conseguente attivazione di altra fase procedimentale o di
subprocedimento;
a.2) non vi è neanche specifica
necessità di conseguire effetti di economia procedimentale,
essendo in realtà già stati acquisiti nel corso del
procedimento, tenuto dal Comune, gli atti utili per ritenere
satisfattivo l’approfondimento istruttorio (si vedano, al
riguardo, i pareri favorevoli resi dai vari uffici, tra i
quali, in particolare, quello dell’Ufficio geologico del
Comune, nei quali non vengono indicate esigenze
straordinarie che in ipotesi richiedono ulteriori
adempimenti istruttori);
a.3) l’aver condizionato la
produzione degli effetti del permesso di costruire alla
conclusione di un futuro accordo si risolve, per converso,
in un ingiustificato aggravamento del procedimento, in
antitesi ai principi di efficienza ed economicità ex art. 97
Cost. e art. 1 legge n. 241/1990;
b) la prescrizione, nel caso di specie, subordina
il permesso all’esecuzione di lavori da effettuarsi secondo
modalità non determinate preventivamente
(ipotesi al limite ammissibile, secondo quanto previsto da
Cons. Stato, sez. IV, 25.06.2013, n. 3447),
ma, al contrario, determinabili solo in un momento
successivo.
Tale decisione, peraltro non risulta essere
stata rimessa all’Amministrazione titolare del procedimento,
in quanto viene attribuita allo stesso istante unitamente ad
altri soggetti controinteressati, mediante la conclusione di
un accordo tra essi, tuttavia ancora non esistente al
momento dell’adozione del provvedimento concessorio.
Pertanto:
b.1) l’Amministrazione sostanzialmente assegna il
potere decisorio sulla concreta operatività del permesso a
soggetti diversi da essa, finendo sostanzialmente per
abdicare all’esercizio della funzione pubblica e,
conseguentemente, per dismettere la titolarità del
procedimento di cui è investita ex lege;
b.2) l’efficacia del permesso risulta in tal modo
permeata da incertezza, essendo subordinata alla conclusione
di un accordo futuro (ed eventuale) avente ad oggetto le
modalità esecutive dell’intervento;
b.3) l’efficacia del permesso di costruire viene
rimessa alla decisione, se non all’arbitrio, di soggetti
terzi controinteressati, in quanto la conclusione
dell’accordo dipende dal consenso dei proprietari confinanti
in ordine alla fattibilità dell’intervento.
11.4. Conclusivamente, il Collegio riscontra che la
produzione degli effetti del permesso impugnato risulta
subordinata al verificarsi di una condizione, di carattere
sospensivo, futura ed incerta, in quanto tale inammissibile
nonché dimostrativa di una carente istruttoria
procedimentale.
12. Le spese del grado seguono la soccombenza e sono
liquidate come in dispositivo, tenuto conto dei parametri di
cui al regolamento n. 55 del 2014 e di cui all’art. 26,
comma 1, c.p.a. ricorrendone nella specie i presupposti
applicativi (cfr. da ultimo Cons. Stato, Sez. IV,
24.05.2016, n. 2200; Cass. civ., Sez. VI, 02.11.2016, n.
22150). |
anno 2017 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Autorizzazione edilizia condizionata ad assunzione oneri
manutenzione ordinaria e straordinaria.
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Edilizia – Permesso di costruire – Autorizzazione
condizionata ad assunzione oneri manutenzione ordinaria e
straordinaria – Illegittimità - Fattispecie.
E’ illegittimo il provvedimento
comunale che sospende la definizione di un procedimento per
il rilascio di una autorizzazione edilizia, richiesta per
l’installazione di sbarre automatiche per regolamentare
l’accesso alla proprietà condominiale della lottizzazione,
subordinandolo all’assunzione, da parte del condominio,
degli oneri di manutenzione ordinaria e straordinaria delle
reti di distribuzione idrica e raccolta fognaria all’interno
delle strade private della lottizzazione, oltre agli oneri
di raccolta dei rifiuti solidi urbani; le condizioni apposte
per il rilascio dell’autorizzazione sono infatti contra
legem perché in contrasto le disposizioni di legge vigenti
in materia (art. 28, l. 17.08.1942, n. 1150) e perché nella
specie le opere di urbanizzazione erano state cedute
gratuitamente in favore del Comune il quale, dalla data di
cessione, ne aveva assunto gli oneri di manutenzione (1).
---------------
(1)
Il Tar ha osservato che ai sensi dell’art. 28, l.
17.08.1942, n. 1150 l’acquisizione delle opere e delle
relative aree è per il Comune obbligatoria quanto lo è la
cessione delle stesse per la società lottizzante e ciò in
quanto, oltre ad essere tassativamente previsto dalla legge,
detto trasferimento è condizione necessaria affinché possa
concretamente realizzarsi l’assetto del territorio cui
sovrintende l’attività di pianificazione ed è, altresì,
presupposto necessario affinché possano poi concretamente
operare le norme nazionali e regionali vigenti in materia di
corretta gestione dei servizi pubblici correlati alle opere
di urbanizzazione, la cui titolarità il legislatore
espressamente affida all’autorità amministrativa.
A ciò consegue che -ove dopo la destinazione di un’area ad
opera di urbanizzazione da parte del piano di lottizzazione
(che per primo imprime tale destinazione pubblicistica e
sulla base del quale viene poi stipulata la convenzione) la
stessa fosse ceduta dal lottizzante a terzi- il relativo
contratto sarebbe nullo per contrasto con norma imperativa e
non potrebbe incidere sui relativi assetti urbanistici e
dominicali.
Tale conclusione, oltre che normativamente imposta, è
indispensabile per garantire la tenuta dell’intero sistema
urbanistico, volto alla tutela di interessi pubblici di
rango superiore, che risulterebbero gravemente frustrati
dall’alienazione delle opere di urbanizzazione a soggetti
privati; in sostanza, il sistema tende ad evitare che quelle
opere siano sottratte alla loro destinazione a pubblico
servizio, in chiave di tutela del corretto sfruttamento del
territorio e dei correlati valori di rango ancora superiore,
quali il diritto alla salute, alla sicurezza stradale,
all’approvvigionamento idrico ed elettrico, etc..
Proprio perché le opere di urbanizzazione sono funzionali
allo svolgimento di pubblici servizi di primaria utilità
(idrico, fognario, viabilità, elettrico…), dunque, la loro
proprietà necessariamente dev’essere del Comune, il quale
soltanto può garantire un accettabile e uniforme livello di
qualità dei servizi in favore dei propri cittadini che non
potrebbe essere garantito da un soggetto privato il quale,
ovviamente, non potrebbe che gestire i servizi in chiave
imprenditoriale e quindi in funzione dell’ottenimento di
utili, con il rischio, conseguentemente, di servizi con
qualità al di sotto dell’accettabile o addirittura tali da
mettere a repentaglio i diritti fondamentali dei cittadini;
si pensi, ad esempio, ai rischi per la salute derivanti da
un servizio idrico con acque non potabili, da un servizio di
depurazione fognaria non efficiente, da una rete elettrica o
viaria non manutenuta.
La gestione di simili servizi deve quindi necessariamente
essere garantita dall’ente locale vuoi con una gestione
diretta, vuoi anche con la concessione, previa gara di
appalto, a soggetti privati ma ovviamente, in quest’ultimo
caso, con un appropriato disciplinare del servizio che,
unitamente alla supervisione e controllo dell’ente
concedente, assicuri una qualità delle prestazioni da
rendere ai cittadini consona all’attuale momento storico.
Data la premessa, il Tar ha quindi accolto sia la domanda di
annullamento del provvedimento di sospensione della
definizione del procedimento per il rilascio
dell’autorizzazione edilizia, sia, per l’effetto, la domanda
di accertamento dell’obbligo del Comune di assumere gli
oneri di manutenzione delle opere di urbanizzazione presenti
nel comparto in questione senza poter condizionare
l’eventuale rilascio di titoli edilizi all’assunzione degli
stessi da parte del condominio richiedente (TAR
Sardegna, Sez. II,
sentenza 08.03.2017 n. 168 - commento tratto da e
link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
Il ricorso si rivela anzitutto fondato con riguardo alla
richiesta di annullamento del provvedimento col quale il
Comune di Arbus ha sospeso la definizione del procedimento
in attesa dell’attuazione della sentenza del TAR Sardegna n.
1336/2008 e dell’ottemperanza alle prescrizioni
dell’autorizzazione n. 183/1998.
Ed invero la richiesta inoltrata all’ufficio comunale il
05.01.2009, è del tutto autonoma, anche per la diversa
dislocazione territoriale delle sbarre, rispetto alla
precedente sfociata nell’autorizzazione n. 183/1998, e non
può non trovare, da parte dell’amministrazione comunale, una
sua definizione conclusiva con la quale dovrà (anche) essere
valutata, nel merito, l’accoglibilità dell’istanza stessa e
la sua compatibilità con le esigenze pubblicistiche di
accesso e transito pubblico nella rete viaria acquisita, per
quanto si dirà appresso, al patrimonio comunale.
Il rilascio di detta autorizzazione non potrà, comunque,
essere legittimamente subordinato a condizioni contra
legem, non solo in contrasto col chiaro tenore letterale
dell’atto consensuale stipulato tra le parti ma, prima
ancora, con le disposizioni di legge vigenti in materia.
Ed invero il Condominio Co. è titolare dei diritti derivanti
dal piano di lottizzazione Torre di Filimentorgiu in Arbus,
Località Torre dei Corsari, oggetto della convenzione Rep.
N. 434 registrata a Sanluri il 10.03.1975 al n. 408.
Per le opere di urbanizzazione previste nel Piano veniva
prevista la cessione gratuita in favore del Comune di Arbus
il quale, dalla data di cessione, ne assumeva gli oneri di
manutenzione.
Dette opere venivano quindi realizzate e state positivamente
collaudate dal tecnico incaricato dal Comune in data
19.06.1995.
Va precisato che la prevista cessione all’ente locale delle
opere di urbanizzazione e degli oneri di manutenzione è del
tutto conforme alle prescrizioni vigenti.
Quest’ultimo, infatti, deve gestire i pubblici servizi
connessi alle opere di urbanizzazione esistenti (servizio
viabilità, idrico, elettrico…) per le ragioni svolte nelle
pronunce e condivise dal Collegio di questa Sezione:
sentenze nn. 602/2013, 187/2010 e 880/2011 e ordinanza
316/2009.
Segnatamente con la sentenza n. 880/2011 la Sezione ha
osservato che -ai sensi dell’art. 28 della legge n.
1150/1942- “…l’acquisizione delle opere
e delle relative aree è per il Comune obbligatoria quanto lo
è la cessione delle stesse per la società lottizzante e ciò
in quanto, oltre ad essere tassativamente previsto dalla
legge nei termini sopra descritti, detto trasferimento è
condizione necessaria affinché possa concretamente
realizzarsi l’assetto del territorio cui sovrintende
l’attività di pianificazione ed è, altresì, presupposto
necessario affinché possano poi concretamente operare le
norme nazionali e regionali vigenti in materia di corretta
gestione dei servizi pubblici correlati alle opere di
urbanizzazione, la cui titolarità il legislatore
espressamente affida all’autorità amministrativa.
A ciò consegue che -ove dopo la destinazione di un’area ad
opera di urbanizzazione da parte del piano di lottizzazione
(che per primo imprime tale destinazione pubblicistica e
sulla base del quale viene poi stipulata la convenzione) la
stessa fosse ceduta dal lottizzante a terzi- il relativo
contratto sarebbe nullo per contrasto con norma imperativa e
non potrebbe incidere sui relativi assetti urbanistici e
dominicali.
Tale conclusione, oltre che normativamente imposta, è
indispensabile per garantire la tenuta dell’intero sistema
urbanistico, volto alla tutela di interessi pubblici di
rango superiore, che risulterebbero gravemente frustrati
dall’alienazione delle opere di urbanizzazione a soggetti
privati; in sostanza il sistema tende ad evitare che quelle
opere siano sottratte alla loro destinazione a pubblico
servizio, in chiave di tutela del corretto sfruttamento del
territorio e dei correlati valori di rango ancora superiore,
quali il diritto alla salute, alla sicurezza stradale,
all’approvvigionamento idrico ed elettrico, etc..
Del resto, la necessaria appartenenza alla mano pubblica
delle opere di urbanizzazione (e delle aree su cui esse
insistono), secondo il regime del patrimonio indisponibile
(perché destinato a pubblico servizio, secondo lo schema di
cui all’art. 826, comma 3, del codice civile), è principio
assolutamente consolidato in giurisprudenza
(ex multis, TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 03.05.2011, n.
606; conformi TAR Puglia Bari, Sez. II, 01.07.2010, n. 2815;
TAR Sardegna, Sez. II, 19.02.2010, n. 187 e Sez. II,
21.08.2009, n. 1464; TAR Venezia, sentenza n. 1373/2004;
Consiglio Stato, Sez. V, 15.03.2001, n. 1514)…”.
Proprio perché le opere di urbanizzazione
sono funzionali allo svolgimento di pubblici servizi di
primaria utilità (idrico, fognario, viabilità, elettrico…),
dunque, la loro proprietà necessariamente dev’essere del
Comune, il quale soltanto può garantire un accettabile e
uniforme livello di qualità dei servizi in favore dei propri
cittadini che non potrebbe essere garantito da un soggetto
privato il quale, ovviamente, non potrebbe che gestire i
servizi in chiave imprenditoriale e quindi in funzione
dell’ottenimento di utili, con il rischio, conseguentemente,
di servizi con qualità al di sotto dell’accettabile o
addirittura tali da mettere a repentaglio i diritti
fondamentali dei cittadini; si pensi, ad esempio, ai rischi
per la salute derivanti da un servizio idrico con acque non
potabili, da un servizio di depurazione fognaria non
efficiente, da una rete elettrica o viaria non manutenuta
(cfr. in termini TAR Sardegna Sez. II, sentenza n. 990 del
2009).
La gestione di simili servizi deve quindi
necessariamente essere garantita dall’ente locale vuoi con
una gestione diretta, vuoi anche con la concessione, previa
gara di appalto, a soggetti privati ma ovviamente, in
quest’ultimo caso, con un appropriato disciplinare del
servizio che, unitamente alla supervisione e controllo
dell’ente concedente, assicuri una qualità delle prestazioni
da rendere ai cittadini consona all’attuale momento storico.
Del resto sarebbe contraddittorio, se non addirittura
paradossale, ritenere che l’ordinamento abbia dettato una
precisa e rigorosa disciplina per la realizzazione delle
opere di urbanizzazione necessarie per l’erogazione dei
servizi pubblici -con la previsione della necessità di un
piano di lottizzazione ancorato a precise norme di legge e
regolamentari quanto a contenuto e procedimento di
approvazione- e abbia poi rimesso la gestione degli stessi
alla assoluta discrezione di soggetti privati, così da
lasciare i cittadini fruitori di detti servizi essenziali
del tutto in balia dei gestori privati.
Nel caso di specie sussistono poi ulteriori aspetti che
conducono all’inaccettabilità della tesi dell’assenza di un
obbligo per lo stesso di assumersi l’onere di manutenzione
delle opere di urbanizzazione.
Le opere di urbanizzazione del comprensorio,
infatti, sono oramai entrate nel patrimonio
del Comune per utilizzo pubblico delle stesse da oltre
vent’anni, cosicché i danni derivanti dall’omessa o
insufficiente manutenzione non potrebbero che gravare sullo
stesso Comune.
Peraltro non si vede in base a quale titolo i ricorrenti
potrebbero essere obbligati a sostenere gli oneri per la
loro manutenzione, tenuto anche conto che non hanno alcuna
quota di proprietà sulle stesse.
Per le suesposte considerazioni va quindi accolta la domanda
di accertamento dell’obbligo del Comune di Arbus di assumere
gli oneri di manutenzione delle opere di urbanizzazione
presenti nel comparto in questione senza poter fondatamente
condizionare l’eventuale rilascio di titoli edilizi
all’assunzione degli stessi da parte del condominio
richiedente. |
anno 2015 |
|
EDILIZIA PRIVATA: Il condominio non può controllare il vicino.
Tar Liguria. Il Comune non può condizionare una costruzione
al consenso dei confinanti.
Non è
legittimo il permesso di costruire rilasciato dal Comune a
un’impresa che vuole realizzare un’autorimessa, se viene
subordinato al consenso dei condomìni confinanti,
attribuendo di fatto a questi ultimi il potere di veto in
ordine alla fattibilità dell’opera.
Lo ha affermato dal
TAR Liguria, Sez. I, nella
sentenza 11.06.2015 n. 561.
Nel caso esaminato un’impresa edile chiede il rilascio del
permesso di costruire per la realizzazione di un’autorimessa
da svilupparsi su cinque livelli interrati. L’imponenza
dell’opera suscita le proteste di alcuni residenti i quali,
temendo che le opere di sbancamento potessero provocare
crolli o cedimenti, presentano esposti al Comune. L’impresa
allora ridimensiona l’opera prevista e il Comune, dopo un
supplemento di istruttoria, approvava il nuovo progetto in
versione ridotta.
Il titolo abilitativo, però, impone all’impresa non solo di
predisporre (prima dell’avvio dei lavori di costruzione
dell’autorimessa interrata) una relazione congiunta
sottoscritta anche da un tecnico dei residenti che
riconoscesse la fattibilità dell’intervento, ma di
acconsentire anche un’attività di controllo da parte del
professionista incaricato dagli amministratori dei palazzi
soprastanti. In altre parole, il Comune condizionava
l’esecuzione dei lavori al consenso degli autori dei
precedenti esposti e degli amministratori dei condomini
circostanti. L’impresa, perciò, dopo l’inutile tentativo di
accordarsi con i caseggiati vicini fa ricorso al Tar contro
questi obblighi.
I giudici amministrativi liguri, nell’accogliere il ricorso,
hanno rilevato come, in linea generale, sia da considerare
legittimo un provvedimento (di solito, abilitativo)
condizionato ad alcune prescrizioni introdotte
dall’amministrazione. Tuttavia, secondo il Tar, il permesso
di costruire deve essere rilasciato solo in base a precisi
parametri normativi, attinenti alla legittimazione del
richiedente e alla conformità dell’intervento alle
previsioni degli strumenti urbanistici, senza considerare
situazioni finalizzate a costituire forme di tutela dei
residenti del vicinato.
Ne consegue la palese illegittimità della prescrizione che,
considerando possibili pericoli legati all’esecuzione delle
opere, ne subordina l’esecuzione al consenso dei proprietari
confinanti, attribuendo di fatto a questi ultimi il potere
di pronunciarsi in ordine alla fattibilità dell’intervento
(potere che comporta un potere di veto circa la
realizzazione dell’opera) (articolo Il Sole 24 Ore del 06.10.2015).
--------------
MASSIMA
6.1) In linea di principio, deve darsi
atto dell’esistenza di un orientamento giurisprudenziale che
ammette l’apposizione di condizioni al permesso di
costruire, ritenendo che l’inserimento di particolari
clausole accidentali possa risultare funzionale alla
semplificazione della procedura e all’ampliamento dei poteri
conformativi dell’amministrazione la quale, in questo modo,
ha la possibilità di “modellare” meglio la propria
decisione alle particolarità del caso concreto
(cfr., fra le ultime, Cons. Stato, sez. IV, 25.06.2013, n.
3447).
Anche in tale prospettiva, però, il permesso di costruire
mantiene la propria natura di atto vincolato che deve essere
rilasciato in base a precisi parametri normativi,
pacificamente attinenti alla legittimazione del richiedente
e alla conformità dell’intervento alle previsioni degli
strumenti urbanistici.
I presupposti di assentibilità del permesso di costruire non
possono includere, invece, analisi della situazione di fatto
sostanzialmente finalizzate, come nel caso di specie, a
precostituire forme di tutela dei terzi in sede di
esecuzione dei lavori.
Ne consegue la palese illegittimità della prescrizione che,
avendo riguardo agli ipotetici (ma non dimostrati) pericoli
cagionati dall’esecuzione delle opere, ne subordina
l’esecuzione al consenso dei proprietari confinanti,
attribuendo di fatto a questi ultimi il potere di
pronunciarsi in ordine alla fattibilità dell’intervento (o,
se si preferisce, un inammissibile potere di veto circa la
realizzazione dell’intervento stesso).
Tanto più che la stessa Amministrazione aveva riconosciuto
come tali elementi, riguardando la successiva fase della
progettazione esecutiva, fossero estranei ai presupposti
richiesti per l’approvazione del progetto edificatorio.
6.2) L’apposizione della contestata condizione sospensiva
sembra anche funzionale alla prevenzione di potenziali
contenziosi tra i privati (la Società titolare del permesso
di costruire e i proprietari degli stabili limitrofi).
In tale prospettiva, si verifica un’obiettiva divergenza
dell’atto rispetto alla sua funzione istituzionale, non
identificabile con la tutela preventiva di interessi privati
(tanto che esso viene normalmente rilasciato con la formula
“fatti salvi i diritti dei terzi”), ma con la
verifica della conformità dell’intervento alla normativa
urbanistica ed edilizia.
Peraltro, la clausola in contestazione non arricchisce
concretamente gli strumenti di tutela dei privati i quali,
laddove abbiano ragione di temere i danni derivanti da una
nuova opera intrapresa da altri, possono tutelare i propri
diritti dinanzi al giudice ordinario mediante l’azione
prevista dall’art. 1171 cod. civ..
6.3) La prescrizione di cui si controverte si pone anche
immotivatamente in contraddizione con le risultanze
dell’articolata istruttoria procedimentale.
Tutti gli uffici che si erano pronunciati in ordine
all’intervento edificatorio, compreso l’Ufficio geologico
del Comune, infatti, avevano reso parere favorevole.
Inoltre, il responsabile di quest’ultimo Ufficio, con una
relazione in data 05.12.2011, si era scrupolosamente
soffermato sulle relazioni tecniche allegate agli esposti
presentati dai privati, escludendo la sussistenza delle
criticità ivi segnalate.
6.4) E’ condivisibile anche la censura inerente alla
violazione del divieto di aggravio del procedimento sancito
dall’art. 1, comma 2, della legge n. 241/1990.
Come già precisato, infatti, l’approfondita istruttoria
svolta dagli uffici comunali non aveva evidenziato la
sussistenza di esigenze straordinarie che potessero
eventualmente giustificare gli ulteriori adempimenti formali
imposti con la contestata prescrizione, tali da determinare,
anche nel caso di esito favorevole, una significativa
dilatazione dei tempi di esecuzione delle opere in progetto.
6.5) Infine, la prescrizione in parola è
illegittima per indeterminatezza in quanto, non contenendo
la precisa individuazione dei soggetti legittimati ad
esprimere il proprio consenso in ordine all’esecuzione dei
lavori (genericamente identificati con gli “esponenti”
e con gli “amministratori dei palazzi soprastanti”),
introduce obiettivi elementi di incertezza in ordine alla
possibilità di adempiervi compiutamente.
7) Per tali ragioni, il ricorso è fondato e, pertanto, deve
essere accolto. |
anno 2013 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
L'apposizione di
condizioni al rilascio di un titolo edilizio è ammissibile
soltanto quando si vada ad incidere su aspetti legati alla
realizzazione dell'intervento costruttivo, sia da un punto
di vista tecnico che strutturale, e ciò trovi un fondamento
diretto o indiretto in una norma di legge o regolamento.
Diversamente, non è possibile apporre condizioni al titolo
edilizio che siano estranee alla fase di realizzazione
dell'intervento edilizio, stante la natura di accertamento
costitutivo a carattere non negoziale della concessione
stessa. Concedendo spazio al perseguimento di finalità
estranee a quelle sottese al potere esercitato -legato allo
svolgimento dell'attività edificatoria– si finirebbe infatti
per funzionalizzare l'attività amministrativa ad interessi
avulsi rispetto a quelli tipizzati dal legislatore.
La giurisprudenza ha già avuto modo di dichiarare
illegittime le condizioni che subordinano la validità della
concessione edilizia alla cessione gratuita di aree
destinate alla realizzazione di opere pubbliche, in quanto
condizionare l’assenso all’intervento edilizio a fattori
diversi da quelli di stretta conformità ai richiesti
parametri normativi, appare non in linea con la natura e le
finalità dei poteri dell’amministrazione in materia
edilizia, trattandosi di attività vincolata da specifiche
norme e funzionale al solo accertamento della corrispondenza
degli interventi e dei relativi elaborati progettuali con
tali prescrizioni normative.
---------------
La recinzione di un fondo non può essere ostacolata
dall'esistenza di una previsione vincolistica del piano
regolatore, in quanto il legittimo esercizio dello jus
excludendi, di per sé, non contrasta con la detta
previsione, non avendo per fine quello di imprimere all'area
una destinazione diversa da quella prevista dalle norme
urbanistiche e non limitando in alcun modo l'amministrazione
nell'esercizio dei poteri, eventualmente ablativi, che dal
vincolo discendono.
Le censure svolte dal ricorrente appaiono fondate sotto
plurimi profili.
Innanzitutto, il provvedimento di diniego opposto dal Comune
alla richiesta di concessione edilizia non reca adeguata
motivazione in merito all’intervenuta cessazione del vincolo
espropriativo che in precedenza destinava parte dell’area
privata a viabilità pubblica.
L’intenzione palesata dall’amministrazione di condizionare
il rilascio del titolo abilitativo alla previa cessione
della fascia di terreno inscritta nell’ambito dei viabilità
pubblica, non trova infatti giustificazione nella
pianificazione urbanistica all’epoca vigente.
Il punto è di evidente rilievo se si considera che lo "ius
aedificandi" costituisce facoltà insita nel diritto di
proprietà, comprimibile esclusivamente per un contrasto con
esigenze di pubblico interesse recepite nelle prescrizioni
urbanistiche. Se, pertanto, un provvedimento di diniego
presuppone necessariamente che siano evidenziate ipotesi di
contrasto tra l'elaborato progettuale e le prescrizioni
urbanistiche, senza possibilità di limitazioni non
strettamente pertinenti all'aspetto urbanistico, nel caso di
specie tale condizione di contrasto non è rinvenibile,
atteso che all’epoca della presentazione dell’istanza di
concessione, in data 20.04.2006, era già pacificamente
decaduto il vincolo espropriativo potenzialmente configgente
con l’intervento edificatorio.
L’operato della pubblica amministrazione si è svolto,
inoltre, in contrasto con il principio -costantemente
affermato dalla giurisprudenza- secondo il quale
l'apposizione di condizioni al rilascio di un titolo
edilizio è ammissibile soltanto quando si vada ad incidere
su aspetti legati alla realizzazione dell'intervento
costruttivo, sia da un punto di vista tecnico che
strutturale, e ciò trovi un fondamento diretto o indiretto
in una norma di legge o regolamento. Diversamente, non è
possibile apporre condizioni al titolo edilizio che siano
estranee alla fase di realizzazione dell'intervento
edilizio, stante la natura di accertamento costitutivo a
carattere non negoziale della concessione stessa. Concedendo
spazio al perseguimento di finalità estranee a quelle
sottese al potere esercitato -legato allo svolgimento
dell'attività edificatoria– si finirebbe infatti per funzionalizzare l'attività amministrativa ad interessi
avulsi rispetto a quelli tipizzati dal legislatore (cfr. TAR
Milano sez. IV, 10.09.2010, n. 5655; TAR Trentino
Alto Adige, Trento sez. I, 04.01.2011, n. 2; TAR Lecce
sez. III, 28.09.2012, n. 1623).
La giurisprudenza ha già avuto modo di dichiarare
illegittime le condizioni che subordinano la validità della
concessione edilizia alla cessione gratuita di aree
destinate alla realizzazione di opere pubbliche (cfr. Cons.
St. sez. V, 24.03.2001, n. 1702; TAR Milano sez. II, 18.02.1984, n. 77), in quanto condizionare l’assenso
all’intervento edilizio a fattori diversi da quelli di
stretta conformità ai richiesti parametri normativi, appare
non in linea con la natura e le finalità dei poteri
dell’amministrazione in materia edilizia, trattandosi di
attività vincolata da specifiche norme e funzionale al solo
accertamento della corrispondenza degli interventi e dei
relativi elaborati progettuali con tali prescrizioni
normative.
Sotto diverso profilo, correttamente la difesa di parte
ricorrente richiama il principio giurisprudenziale secondo
il quale la recinzione di un fondo non può essere ostacolata
dall'esistenza di una previsione vincolistica del piano
regolatore (nel caso di specie peraltro assente), in quanto
il legittimo esercizio dello jus excludendi, di per sé, non
contrasta con la detta previsione, non avendo per fine
quello di imprimere all'area una destinazione diversa da
quella prevista dalle norme urbanistiche e non limitando in
alcun modo l'amministrazione nell'esercizio dei poteri,
eventualmente ablativi, che dal vincolo discendono (cfr. TAR
Bari sez. III, 22.02.2006, n. 572; TAR Catanzaro sez. II, 24.02.2003, n. 351; TAR Milano, sez. II, 20.05.1993 n. 334 e 24.10.1991
n. 1247) (TAR
Piemonte, Sez. I,
sentenza 22.05.2013 n. 617 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2012 |
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EDILIZIA PRIVATA: L’attività
edilizia che il privato può legittimamente porre in essere
deve essere necessariamente conforme al titolo abilitativo,
di modo che eventuali limitazioni e/o prescrizioni devono
risultare dal titolo emanato dal Comune.
Ogni prescrizione e/o limitazione all’edificazione deve
risultare sia dal documento rappresentante il titolo
edilizio conservato presso gli uffici comunali, sia dal
documento rappresentativo del titolo edilizio rilasciato al
privato beneficiario, con la conseguenza che non possono
essere opposte a quest’ultimo eventuali prescrizioni che non
risultano dal titolo edilizio allo stesso in concreto
rilasciato.
Il Collegio ritiene fondato il secondo motivo di appello
(sub b) dell’esposizione in fatto), nella parte in cui, con
lo stesso, si evidenzia l’error in iudicando della
sentenza impugnata, per non avere la medesima considerato,
in particolare, la violazione del principio del legittimo
affidamento, in quanto il fabbricato realizzato è stato
posto in relazione “direttamente ed esclusivamente con la
disposizione regolamentare che prevede la distanza di 20
metri dalla strada senza minimamente considerare che il
permesso di costruire consentiva una distanza inferiore e
che, quindi, vi era stato al riguardo un legittimo
affidamento da parte dell’originario ricorrente, nonché
soprattutto il consolidamento del diritto di quest’ultimo al
mantenimento del fabbricato così come assentito e
realizzato, per essere state le opere che lo riguardavano
pressoché ultimate”.
Giova, innanzi tutto, osservare che la costruzione
realizzata dal sig. Ciccone risulta previamente autorizzata
con permesso di costruire n. 3315/2008.
Orbene, la apposizione di una “correzione in rosso”
(così definita dall’appellante: pag. 4 appello), relativa ad
una prescrizione di mantenere il fabbricato ad una distanza
di 20 metri dalla strada comunale San Giorgio La Molara –
Montefalcone, risulta presente solo sulla copia del progetto
esistente agli atti del Comune, mentre, per quel che
interessa nella presente sede, non risulta sulla copia in
possesso dell’attuale appellante.
Su tale circostanza di fatto, mentre non vi è contestazione
da parte del non costituito Comune di San Giorgio La Molara,
la società controinteressata si limita ad osservare che la
citata correzione, se effettivamente apposta, “è da
qualificarsi alla stregua di mera specificazione ricognitiva
dell’obbligo normativo previsto dall’art. 26 DPR 16.12.1992
n. 495, volta a facilitare la cognizione, da parte del sig.
Ciccone, delle previsioni normative concernenti l’attività
edilizia”.
Orbene il Collegio (prescindendo dalle argomentazioni
ampiamente esposte dall’appellante e relative a quanto
emergente dagli atti di un procedimento penale che si assume
essere stato instaurato), rileva che il diniego di
accertamento di conformità ex art. 36 DPR n. 380/2001 è
illegittimo, nella misura in cui detto diniego si fonda su
una non conformità di quanto realizzato alla normativa
relativa alla “distanza dalla strada”.
Ed infatti, occorre osservare che l’attività edilizia che il
privato può legittimamente porre in essere deve essere
necessariamente conforme al titolo abilitativo (nel caso di
specie, permesso di costruire), di modo che eventuali
limitazioni e/o prescrizioni devono risultare dal titolo
emanato dal Comune. E ciò a maggior ragione in un caso come
quello di specie, dove la distanza dalla strada non
costituisce solo una mera “prescrizione” afferente al
rispetto, per ragioni di sicurezza, di una distanza minima
dalla strada comunale, ma condiziona decisamente
l’ubicazione della costruzione nel suo complesso e la
individuazione in concreto dell’area di sedime del
fabbricato.
E’ appena il caso di aggiungere che ogni prescrizione e/o
limitazione all’edificazione deve risultare sia dal
documento rappresentante il titolo edilizio conservato
presso gli uffici comunali, sia dal documento
rappresentativo del titolo edilizio rilasciato al privato
beneficiario, con la conseguenza che non possono essere
opposte a quest’ultimo eventuali prescrizioni che non
risultano dal titolo edilizio allo stesso in concreto
rilasciato.
A fronte di ciò, il Comune di San Giorgio La Molara, in sede
di esame dell’istanza di accertamento di conformità, non
avrebbe potuto non considerare tale discrasia esistente tra
le varie copie dell’elaborato progettuale (ed in particolare
l’assenza di ogni prescrizione nel titolo rilasciato
all’interessato).
Il medesimo Comune, laddove avesse ritenuto la sussistenza
di un limite di distanza non considerato dal rilasciato
titolo autorizzatorio edilizio avrebbe dovuto, ricorrendone
i presupposti di attualità dell’interesse pubblico,
procedere ad annullamento di ufficio del titolo medesimo e
quindi (solo a questo punto) rilevare –impregiudicata ogni
ulteriore valutazione di tale “modus operandi”– la
non conformità del concretamente costruito a norme di legge
e regolamento e la (eventuale) non emanabilità di un
permesso di costruire a sanatoria
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 29.10.2012 n. 5509 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza ha
ritenuto ammissibile l’apposizione di condizioni al rilascio
di un titolo edilizio <<soltanto quando si vada ad incidere
su aspetti legati alla realizzazione dell’intervento
costruttivo, sia da un punto di vista tecnico che
strutturale, e ciò trovi un fondamento diretto o indiretto
in una norma di legge o regolamento>>.
Diversamente, non è possibile apporre condizioni al titolo
edilizio che siano estranee alla fase di realizzazione
dell’intervento edilizio.
Difatti, il Comune non può assentire una concessione
edilizia subordinatamente all’impegno del privato a
rinunciare all’indennizzo dovuto, nel caso di futura
espropriazione dell’opera, “in quanto tale condizione non è
volta a perseguire alcun interesse pubblico riconducibile
alla materia urbanistico-edilizia e si pone in contrasto con
il principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi”.
In tal modo, infatti, si tende al perseguimento di finalità
estranee a quelle sottese al potere esercitato, legato allo
svolgimento dell’attività edificatoria, funzionalizzando
l’attività amministrativa ad interessi avulsi rispetto a
quelli tipizzati dal legislatore: del resto, in sede di
rilascio di concessioni edilizie, non si può, in via
generale, apporre condizioni, sia sospensive che risolutive,
ai predetti titoli abilitativi, salvi i casi espressamente
previsti dalla legge, stante la natura di accertamento
costitutivo a carattere non negoziale di detti
provvedimenti.
A ciò consegue certamente l’invalidità della condizione
apposta, senza tuttavia che ciò ridondi sulla validità
complessiva della concessione assentita, “dal momento che
l’invalidità di una condizione apposta all’atto
amministrativo comporta la invalidità totale dell’atto
stesso solo qualora il contenuto della condizione abbia
costituito il motivo essenziale della dichiarazione di
volontà, la quale presumibilmente non vi sarebbe stata senza
di quella (“vitiatur et vitiat”); ma la nullità e
l’invalidità totale dell’atto amministrativo, a cagione
dell’invalidità della condizione, non può certamente
prodursi quando si tratti di atti dovuti (nei quali cioè non
vi sia discrezionalità nell’an) e quando l’autorità
amministrativa, che si determina per il provvedimento, dovrà
dare ad esso il contenuto predeterminato dalle fonti
normative, in assenza di discrezionalità nel quid”.
Come già evidenziato da questo Tar in sede cautelare, in
specie (v. l’ordinanza n. 1195 del 2001 e quella, per
l’esecuzione della prima, n. 1424 dello stesso anno), le
condizioni prescritte dalla Commissione Edilizia -e
richiamate dall’Ufficio Tecnico- per il rilascio del titolo
richiesto dalla sig.ra Silibello, anche per come esplicitate
con il provvedimento di conferma del 03.09.2001, erano
sicuramente illegittime, atteso che:
- la condizione sub a), <<che il muro non superi i 30 cm.
di altezza dal piano campagna per tutta la sua estensione>>,
era priva di fondamento normativo, non trovando
giustificazione neppure nella disciplina edilizia comunale
e, in specie, nel R.E.C. vigente;
- la condizione sub b), <<che prima del rilascio
dell’autorizzazione sia sottoscritto un atto di
sottomissione in cui il titolare rinuncia al pagamento del
valore delle opere autorizzate al momento della concreta
attuazione da parte dell’A.C. del Comparto di “167”
denominato Ces1 […]>>, era del tutto estranea al
fisiologico esplicitarsi delle potestà pubbliche in campo
urbanistico ed edilizio.
In termini generali, d’altronde, e con riguardo a entrambi i
richiamati profili, va posto in rilievo come la
giurisprudenza abbia ritenuto ammissibile l’apposizione di
condizioni al rilascio di un titolo edilizio <<soltanto
quando si vada ad incidere su aspetti legati alla
realizzazione dell’intervento costruttivo, sia da un punto
di vista tecnico che strutturale, e ciò trovi un fondamento
diretto o indiretto in una norma di legge o regolamento>>
[fondamento assente, per quanto prima scritto, nel caso di
specie].
Diversamente, non è possibile apporre condizioni al titolo
edilizio che siano estranee alla fase di realizzazione
dell’intervento edilizio.
Difatti, il Comune non può assentire una concessione
edilizia subordinatamente all’impegno del privato a
rinunciare all’indennizzo dovuto, nel caso di futura
espropriazione dell’opera, “in quanto tale condizione non
è volta a perseguire alcun interesse pubblico riconducibile
alla materia urbanistico-edilizia e si pone in contrasto con
il principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi”
(Tar Abruzzo Pescara, 08.02.2007, n. 153).
In tal modo, infatti, si tende al perseguimento di finalità
estranee a quelle sottese al potere esercitato, legato allo
svolgimento dell’attività edificatoria, funzionalizzando
l’attività amministrativa ad interessi avulsi rispetto a
quelli tipizzati dal legislatore: del resto, in sede di
rilascio di concessioni edilizie, non si può, in via
generale, apporre condizioni, sia sospensive che risolutive,
ai predetti titoli abilitativi, salvi i casi espressamente
previsti dalla legge, stante la natura di accertamento
costitutivo a carattere non negoziale di detti provvedimenti
(cfr. Consiglio di Stato, V, 24.03.2001, n. 1702).
A ciò consegue certamente l’invalidità della condizione
apposta, senza tuttavia che ciò ridondi sulla validità
complessiva della concessione assentita, “dal momento che
l’invalidità di una condizione apposta all’atto
amministrativo comporta la invalidità totale dell’atto
stesso solo qualora il contenuto della condizione abbia
costituito il motivo essenziale della dichiarazione di
volontà, la quale presumibilmente non vi sarebbe stata senza
di quella (“vitiatur et vitiat”); ma la nullità e
l’invalidità totale dell’atto amministrativo, a cagione
dell’invalidità della condizione, non può certamente
prodursi quando si tratti -come nel caso di specie- di atti
dovuti (nei quali cioè non vi sia discrezionalità nell’an) e
quando l’autorità amministrativa, che si determina per il
provvedimento, dovrà dare ad esso il contenuto
predeterminato dalle fonti normative, in assenza di
discrezionalità nel quid” (Tar Abruzzo Pescara,
08.02.2007, n. 153).
Infine, va evidenziato che la specifica condizione apposta
contrasta anche con il principio di rango costituzionale
-ribadito anche a livello sovranazionale dalla Corte Europea
dei Diritti dell’Uomo [Grande Camera, Strasburgo, sentenza
29.03.2006, caso Scordino contro Italia]- che subordina
necessariamente l’espropriazione alla corresponsione di un
indennizzo (art. 42, terzo comma, Cost.)>> (Tar Lombardia
Milano, IV, 10.09.2010, n. 5655) (TAR
Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 28.09.2012 n. 1623 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
presenza di un abuso edilizio non sussiste
alcun obbligo per l'Amministrazione di
dettare prescrizioni per rendere l'abuso
esteticamente compatibile con la zona,
perché tale finalità non rientra nei compiti
di istituto, dovendo la stessa limitarsi a
valutare il contenuto della domanda di
sanatoria allo scopo di accertarne la
compatibilità paesaggistica e non già
suggerire ulteriori attività volte a
legalizzare comportamenti incontestabilmente
contra legem.
È illegittimo un provvedimento di sanatoria
che, al fine di rendere l'esistente conforme
alle prescrizioni urbanistiche vigenti,
preveda l'esecuzione di ulteriori lavori:
l'art. 36, d.P.R. n. 380/2001 non consente
spazi interpretativi, nel senso che la
concessione in sanatoria è ammessa soltanto
entro i limiti delineati dal legislatore,
senza alcuna estensione discrezionale da
parte della p.a..
Deve, infatti, rilevarsi come il diniego di
accertamento di conformità sia stato
giustificato sulla base del parere dell’usl
3 secondo cui l’altezza del manufatto
sarebbe inferiore a quella ammessa dal
regolamento edilizio comunale.
In presenza di un abuso edilizio non
sussiste alcun obbligo per l'Amministrazione
di dettare prescrizioni per rendere l'abuso
esteticamente compatibile con la zona,
perché tale finalità non rientra nei compiti
di istituto, dovendo la stessa limitarsi a
valutare il contenuto della domanda di
sanatoria allo scopo di accertarne la
compatibilità paesaggistica e non già
suggerire ulteriori attività volte a
legalizzare comportamenti incontestabilmente
contra legem (Consiglio Stato , sez.
V, 08.03.2011, n. 1440).
È illegittimo un provvedimento di sanatoria
che, al fine di rendere l'esistente conforme
alle prescrizioni urbanistiche vigenti,
preveda l'esecuzione di ulteriori lavori:
l'art. 36, d.P.R. n. 380/2001 non consente
spazi interpretativi, nel senso che la
concessione in sanatoria è ammessa soltanto
entro i limiti delineati dal legislatore,
senza alcuna estensione discrezionale da
parte della p.a. (TAR Lombardia Milano, sez.
II, 22.11.2010, n. 7311).
Il Collegio ritiene che la posizione di cui
sopra, che deriva dal requisito della doppia
conformità richiesto per l’accertamento di
conformità, consenta di tratteggiare in
maniera equa i rapporti tra cittadino e p.a.
anche sul piano dei limiti del reciproco
dovere di collaborazione.
E’ evidente, infatti, che il cittadino che
si sottrae per primo al dovere di
collaborazione realizzando un abuso non ha
alcun titolo per pretendere che
l’amministrazione gli indichi le modifiche
necessarie per rendere conforme l’intervento
abusivamente realizzato
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 23.03.2012 n. 411 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Permesso di costruire e prescrizioni da
osservare.
E' reato non dire quando iniziano i lavori
edilizi ed il nome di chi li esegue.
Rientra tra le prescrizioni previste dal
permesso di costruire, la cui inosservanza
integra il reato di cui all'art. 44, comma
primo, lett. a), d.P.R. 06.06.2001, n.
380, anche l'obbligo di comunicazione della
data di inizio lavori e del nominativo
dell'impresa costruttrice.
La Suprema Corte si pronuncia per la prima
volta, con la sentenza in commento, su una
questione particolare che investe un reato
invero non molto approfondito nella
giurisprudenza di legittimità, quello
previsto e sanzionato dall'art. 44, comma
primo, lett. a), del d.P.R. 06.06.2001,
n. 380.
La Corte, nell'affrontare il tema sottoposto
alla sua attenzione, ha affermato che la
fattispecie di inosservanza delle
prescrizioni contenute nel titolo edilizio,
da tale disposizione sanzionata, è
applicabile anche nel caso in cui chi abbia
ottenuto il rilascio del titolo edilizio non
provveda a comunicare all'autorità comunale
il nominativo della ditta esecutrice dei
lavori ovvero non indichi quando questi
ultimi avranno inizio.
Il fatto
La vicenda processuale che ha costituito
l'occasione per la Cassazione per occuparsi
della questione giuridica in esame, traeva
origine da una condanna inflitta al titolare
di un permesso di costruire il quale, anche
nella qualità di committente dei lavori per
la realizzazione di un complesso
residenziale, aveva eseguito la demolizione
di alcuni fabbricati preesistenti, senza
osservare le prescrizioni contenute nel
titolo abilitativo che, in particolare,
imponevano la comunicazione, con congruo
anticipo, della data di inizio lavori e del
nominativo dell'impresa costruttrice,
ritenendo dunque integrata la violazione
della lett. a) dell'art. 44 del T.U.
edilizia.
Il ricorso
Il verdetto veniva confermato dal giudice
chiamato a pronunciarsi sull'opposizione al
decreto penale di condanna emesso in prima
battuta dal G.i.p., così costringendo
l'imputato ha proporre ricorso per
cassazione contro la condanna alla pena
dell'ammenda inflittagli. In particolare, il
ricorrente deduceva la violazione di legge
rilevando che, per errore, il giudice di
merito aveva ritenuto sussistere la
violazione in esame per la violazione delle
prescrizioni contenute nel permesso di
costruire, in realtà non effettivamente
inerenti l'attività edilizia, da
individuarsi tenendo conto del disposto
dell'art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001.
La decisione della Cassazione
La Corte Suprema ha, però, disatteso la tesi
difensiva, ritenendo, invece, configurabile
il reato in esame in caso di violazione
delle prescrizioni contenute nel titolo
abilitativo edilizio quali, in particolare,
quelle relativa alla mancata comunicazione
del nominativo della ditta esecutrice dei
lavori e della data di inizio di questi
ultimi.
Come di consueto è utile, per il lettore, un
breve inquadramento normativo della
questione.
L'art. 44, comma primo, lett. a) del d.P.R.
06.06.2001, n. 380, prevede "Salvo che il
fatto costituisca più grave reato e ferme le
sanzioni amministrative" l'applicazione
della pena dell'ammenda fino a 10.329 euro
per l'inosservanza delle norme, prescrizioni
e modalità esecutive previste dal presente
titolo, in quanto applicabili, nonché dai
regolamenti edilizi, dagli strumenti
urbanistici e dal permesso di costruire".
La giurisprudenza di legittimità, già sotto
la vigenza della legge n. 47 del 1985 (che,
all'art. 20, lett. a), conteneva una
previsione di identico contenuto), aveva
affermato che la disposizione in esame ha un
contenuto estremamente generico e si presta
ad una pluralità indiscriminata di
utilizzazioni con conseguente insufficienza
della interpretazione letterale, se non
altro perché urta con il principio della
tassatività delle fattispecie legali penali.
Da qui, dunque, la necessità di procedere
alla delimitazione dell'ambito applicativo
della fattispecie in esame, facendo in
particolare riferimento alla collocazione di
esso in un contesto normativo volto a
disciplinare l'attività edilizia. In base
alla ratio che si enuclea da tale contesto,
secondo la Cassazione "le norme,
prescrizioni e modalità esecutive" indicate
dalla lett. a) devono intendersi riferite
soltanto a quelle regole di condotta che
sono direttamente afferenti all'attività
edilizia (Cass., Sez. III, n. 8965 del
23/05/1990, dep. 21/06/1990, imp. G., in Ced
Cass., n. 184671, fattispecie relativa ad
annullamento, perché il fatto non è
preveduto dalla legge come reato, di
sentenza con la quale il pretore aveva
motivato il giudizio di colpevolezza
ritenendo che l'apposizione di insegna
luminosa all'esterno di un esercizio
commerciale è disciplinata dal regolamento
edilizio ed, essendo attinente alla estetica
edilizia urbana, la relativa mancanza di
autorizzazione prevista dal medesimo
regolamento si traduce nella violazione
della lett. a).
Le Sezioni Unite penali della Cassazione,
peraltro, ebbero modo di affermare, sotto la
vigenza dell'abrogata fattispecie dell'art.
20 della legge n. 47 del 1985, che l'art. 4,
comma quarto, l. 28.02.1985 n. 47
prevede due obblighi a carico di coloro che
costruiscono:
1) la tenuta in cantiere della concessione
edilizia;
2) la esposizione di un cartello contenente
gli estremi della concessione e degli autori
dell'attività costruttiva.
La violazione di tali obblighi è penalmente
sanzionata a norma della lett. a), ma solo a
condizione che gli stessi siano
espressamente previsti dai regolamenti
edilizi o dalla concessione (Cass., Sez. U,
n. 7978 del 29/05/1992, dep. 14/07/1992,
P.M. in proc. Aramini ed altro, in Ced
Cass., n. 191176).
Sempre le Sezioni Unite penali, con una
decisione altrettanto importante (Cass.,
Sez. U, n. 11635 del 12/11/1993, dep.
21/12/1993, P.M. in proc. Borgia ed altri,
in Ced Cass., n. 195358), ebbero ad
affermare che la previsione della lett. a),
configura una ipotesi di norma penale in
bianco, atteso che per la determinazione del
precetto viene fatto rinvio a dati
prescrittivi, tecnici e provvedimentali, di
fonte extrapenale.
Il precetto, infatti, comprende, oltre alle
parziali difformità delle opere eseguite, la
violazione degli strumenti urbanistici e del
regolamento edilizio, l'inosservanza delle
prescrizioni della concessione edilizia e
l'inosservanza delle modalità esecutive
dell'opera risultanti dai suddetti strumenti
e dalla concessione edilizia stessa, oltre
che dalla legge.
La Cassazione, nella medesima occasione, ha
rilevato che l'accertamento che il giudice
penale è chiamato a compiere con riferimento
alla suddetta fattispecie contravvenzionale
consiste nel verificare la conformità tra
l'ipotesi di fatto, ossia l'opera eseguenda
od eseguita, e la fattispecie legale, quale
risultante dagli elementi extrapenali
indicati in massima.
Più di recente, la Corte ha precisato che le
inosservanze penalmente sanzionate dalla
lett. a) devono riguardare la condotta di
trasformazione urbanistica o edilizia del
territorio, non potendosi estendere il campo
di applicazione della norma sanzionatoria a
violazioni afferenti ad adempimenti
amministrativi; per tale ragione, ha escluso
che rientrasse tra le prescrizioni, la cui
inosservanza integra il reato di cui
all'art. 44, comma primo lett. a), d.P.R. n.
380 del 2001, la presentazione, da parte del
committente o del responsabile dei lavori
appaltati, del documento unico di regolarità
contributiva delle imprese o dei lavoratori
autonomi (cosiddetto D.U.R.C.), prima che
abbiano inizio i lavori oggetto del permesso
di costruire o della denuncia di inizio
attività (Cass., Sez. III, n. 21780 del
27/04/2011, dep. 31/05/2011, imp. C. e
altro, in Ced Cass., n. 250390).
Tenuto conto dell'esegesi della norma in
questione, ben può comprendersi la soluzione
offerta dalla Suprema Corte nel caso in
esame.
Ed infatti, la specifica prescrizione,
contenuta nel permesso di costruire, che
obbligava a comunicare con congruo anticipo
la data di inizio lavori e la ditta
assuntrice degli stessi aveva certamente
attinenza con l'attività edilizia, in quanto
scopo della comunicazione è quello di
agevolare la verifica, da parte
dell'amministrazione comunale, dell'inizio
dell'intervento nei termini e consentire una
tempestiva verifica sull'attività edilizia
posta in essere.
Non si tratta dunque, come sottolineano gli
Ermellini, di una semplice formalità
amministrativa, ma di un adempimento
strettamente connesso ai contenuti ed alle
finalità del permesso di costruire ed agli
obblighi di vigilanza di cui all'art. 27
T.U. edilizia, imposti al dirigente ed al
responsabile dell'ufficio comunale
competente, cosicché la correlazione con
l'attività edilizia assentita risulta del
tutto evidente (commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di
Cassazione civile,
sentenza 23.02.2012 n.
7070 - sentenza tratta da
www.lexambiente.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Il provvedimento
abilitativo condizionato è ammesso da tempo
dalla giurisprudenza amministrativa e
rientra nello schema legale tipico previsto
dalla norma attributiva di potere.
A fronte delle perplessità che vennero
espresse in anni risalenti dalla dottrina
giuridica che costruiva l’atto
amministrativo all’interno della teoria
generale degli atti giuridici e che
quindi si era posta il problema della
possibilità di introdurre elementi
accidentali nell’atto amministrativo, la
giurisprudenza, invece, spinta da una prassi
degli organi amministrativi che è sempre
stata molto propensa all’utilizzo di
provvedimenti di approvazione condizionati
ad alcune prescrizioni introdotte
dall’amministrazione, ha finito per
riconoscere la legittimità di tale tipo di
provvedimenti, che semplifica la procedura
(se non fosse possibile approvare con
condizioni occorrerebbe, infatti,
respingere; e tutto ciò sarebbe oggi anche
in contrasto con la regola generale sul
divieto di aggravamento del procedimento
amministrativo di cui all’art 1, co. 2, l.
241/1990), ed in realtà consente di esercitare
meglio la potestà conformativa.
Se alla semplice alternativa approvare/non
approvare si aggiunge, infatti, anche la
possibilità di approvare con prescrizioni,
si ampliano i poteri conformativi
dell’amministrazione che ha la possibilità
in questo modo di modellare meglio la
propria decisione alle particolarità del
caso di specie.
---------------
Il danno ambientale
costituisce non il presupposto sostanziale
indefettibile per l'applicazione della
sanzione ma esclusivamente un elemento che
viene in rilievo ai fini del diverso profilo
della quantificazione della sanzione, ossia
un semplice criterio di commisurazione della
sanzione (alternativo al profitto
conseguito).
Il danno
ambientale non costituisce il presupposto
sostanziale indefettibile per l'applicazione
della sanzione di cui all'art. 15 della l.
n. 1497 del 1939, ma un elemento che viene
in rilievo ai fini del diverso profilo della
quantificazione della sanzione.
L'autorizzazione postuma per
effetto della verifica di compatibilità
ambientale non preclude la possibilità di
infliggere anche la sola sanzione pecuniaria
di cui all'art. 15 della legge n. 1497 del
1939, dal momento che "un'autorizzazione
postuma ai fini ambientali, valevole ai fini
della positiva definizione del procedimento
di sanatoria ai sensi dell'art. 13 della
legge n. 47 del 1985 semmai indirizza,
vincolandolo nell'esito, il residuo
potere-dovere dell'autorità competente di
procedere all'applicazione della sanzione di
cui all'art. 15 della legge n. 1497 del
1939. La circostanza, infatti, che
l'Amministrazione, esercitando un potere
nella sostanza conferito dallo stesso art.
15, abbia verificato la compatibilità
ambientale in via postuma, se da un lato
esclude la compromissione sostanziale
dell'integrità paesaggistica, dall'altro non
cancella la violazione dell'obbligo,
discendente dall'art. 7, di conseguire in
via preventiva il titolo di assenso
necessario per la realizzazione
dell'intervento modificativo dell'assetto
territoriale.
---------------
La sanzione ex art. 167
dlgs n. 42/2004 non è un risarcimento del
danno, ma una sanzione afflittiva per
un’opera abusiva.
La misura pecuniaria prevista dall'art. 15
della legge n. 1497 del 1939, nonostante il
riferimento al termine "indennità", non
costituisce un'ipotesi di risarcimento del
danno ambientale ma rappresenta una sanzione
amministrativa, applicabile sia nel caso di
illeciti sostanziali, ovvero in caso di
compromissione dell'indennità paesaggistica,
sia nell'ipotesi di illeciti formali, quale
è, appunto, da ritenersi il caso di
violazione dell'obbligo di conseguire
l'autorizzazione a fronte di un intervento
compatibile con il contesto paesistico
oggetto di protezione.
In altri termini, la sanzione è solo la
conseguenza della violazione di un obbligo
(di non essersi dotati preventivamente di
autorizzazione paesaggistica); il
legislatore avrebbe potuto prevedere una
misura fissa, come usa di solito per le
sanzioni penali, invece ha preferito
modellarla sul caso di specie non
predeterminandone minimi e massimi, ma
rapportandola al danno ambientale, ma questo
non significa che essa debba consistere
nelle spese affrontate per il ripristino,
perché altrimenti essa consisterebbe in un
risarcimento del danno.
In una situazione riconosciuta come idonea a
compromettere l'ambiente quale fatto
ingiusto implicante una lesione presunta del
valore giuridico tutelato, la
quantificazione del danno avviene in via
equitativa, tenendo conto dell'ampiezza
dell'inquinamento, della gravità della colpa
individuale e del costo necessario per la
depurazione.
FATTO
L’azienda agricola ricorrente impugna il
provvedimento del 19.06.2008 con cui il
Comune di Cazzago San Martino le ha
applicato la sanzione pecuniaria di 7.142,85
euro per opere eseguite in assenza di
autorizzazione paesaggistica in zona
paesaggisticamente vincolata.
Le opere consistevano in modifica
geomorfologica dei terreni per impiantare
nuovo vigneto, ed il Comune le aveva
ritenute compatibili paesaggisticamente.
I motivi che sostengono il ricorso sono i
seguenti:
1. il provvedimento sarebbe illegittimo
perché sarebbe stata violata la norma che
impone l’alternativa tra ripristino e
sanzione pecuniaria, in quanto è stato
comunque ordinato l’impianto di 10 roveri
adulte, che è una sorta di ripristino e non
andava abbinato alla sanzione pecuniaria;
sarebbe stata applicata, inoltre, una
sanzione pecuniaria parametrata al danno con
motivazione illogica in quanto nello stesso
provvedimento si dice che il danno
ambientale non v’è; sarebbe irragionevole,
da ultimo, la quantificazione del danno;
2. il provvedimento sarebbe illegittimo
perché l’attività che avrebbe compiuto la
ricorrente è solo di pulizia dal fondo delle
sterpaglie, che non può essere produttiva di
danno ambientale;
3. il provvedimento sarebbe illegittimo,
inoltre, perché da esso non si comprende
perché l’amministrazione abbia imposto
l’impianto di 10 roveri.
...
DIRITTO
I. Il ricorso è infondato.
...
II. Nel primo motivo di ricorso la
ricorrente ritiene che questa procedura non
sia stata corretta, perché sarebbe stata
violata l’alternativa tra sanzione
ripristinatoria e sanzione pecuniaria (in
quanto l’impianto delle roveri sarebbe
comunque un ripristino).
Ma questa prospettazione non è corretta. Il
ripristino è cosa diversa da quanto è stato
ordinato alla impresa ricorrente, perché per
aversi ripristino occorreva tornare allo
status quo antecedente l’inizio dei lavori
non autorizzati. Ma lo status quo
antecedente l’inizio dei lavori non è stato
ripristinato dalle opere realizzate
spontaneamente dalla ricorrente, che si è
limitata a ricreare il salto di quota con
un’inclinazione prossima a quella naturale
preesistente, ma non ha ricostituito
l’originario bosco.
Né il ripristino è garantito dall’impianto
delle roveri adulte e dall’inerbimento delle
ripe, che sono soltanto la condizione cui
nel parere del 30.08.2007 gli esperti
ambientali hanno assoggettato il rilascio
della certificazione di compatibilità
paesaggistica.
Si può senz’altro contestare che attraverso
il combinato di una certificazione di
compatibilità paesaggistica sottoposta a
condizioni (da un lato) e dell’applicazione
della sanzione pecuniaria (dall’altro) si
sia realizzato un cumulo tra due tipologie
di sanzioni diverse, ma il provvedimento
abilitativo condizionato è ammesso da tempo
dalla giurisprudenza amministrativa e
rientra nello schema legale tipico previsto
dalla norma attributiva di potere.
A fronte delle perplessità che vennero
espresse in anni risalenti dalla dottrina
giuridica che costruiva l’atto
amministrativo all’interno della teoria
generale degli atti giuridici (che, com’è
noto, era modellata su quella positiva del
negozio giuridico di diritto tedesco), e che
quindi si era posta il problema della
possibilità di introdurre elementi
accidentali nell’atto amministrativo, la
giurisprudenza, invece, spinta da una prassi
degli organi amministrativi che è sempre
stata molto propensa all’utilizzo di
provvedimenti di approvazione condizionati
ad alcune prescrizioni introdotte
dall’amministrazione, ha finito per
riconoscere la legittimità di tale tipo di
provvedimenti, che semplifica la procedura
(se non fosse possibile approvare con
condizioni occorrerebbe, infatti,
respingere; e tutto ciò sarebbe oggi anche
in contrasto con la regola generale sul
divieto di aggravamento del procedimento
amministrativo di cui all’art 1, co. 2, l.
241/1990), ed in realtà consente di esercitare
meglio la potestà conformativa.
Se alla semplice alternativa approvare/non
approvare si aggiunge, infatti, anche la
possibilità di approvare con prescrizioni,
si ampliano i poteri conformativi
dell’amministrazione che ha la possibilità
in questo modo di modellare meglio la
propria decisione alle particolarità del
caso di specie.
---------------
III. Nello stesso primo motivo di ricorso si
sostiene che sarebbe stata applicata,
inoltre, una sanzione pecuniaria parametrata
al danno con motivazione illogica in quanto
nello stesso provvedimento si dice che il
danno ambientale non v’è, ma in realtà
questa deduzione si scontra con
giurisprudenza amministrativa consolidata.
Secondo Tar Lazio, I, 1450/2009, infatti, il
danno ambientale costituisce non il
presupposto sostanziale indefettibile per
l'applicazione della sanzione ma
esclusivamente un elemento che viene in
rilievo ai fini del diverso profilo della
quantificazione della sanzione, ossia un
semplice criterio di commisurazione della
sanzione (alternativo al profitto
conseguito).
La stessa tesi era stata sostenuta da Cons.
Stato, VI, 2653/2003, secondo cui il danno
ambientale non costituisce il presupposto
sostanziale indefettibile per l'applicazione
della sanzione di cui all'art. 15 della l.
n. 1497 del 1939, ma un elemento che viene
in rilievo ai fini del diverso profilo della
quantificazione della sanzione.
Come ha spiegato bene tale ultima pronuncia
(che riprende un precedente dello stesso
Consiglio di Stato, la pronuncia 912/2001)
la Sezione ha, altresì, espressamente
chiarito che l'autorizzazione postuma per
effetto della verifica di compatibilità
ambientale non preclude la possibilità di
infliggere anche la sola sanzione pecuniaria
di cui all'art. 15 della legge n. 1497 del
1939, dal momento che "un'autorizzazione
postuma ai fini ambientali, valevole ai fini
della positiva definizione del procedimento
di sanatoria ai sensi dell'art. 13 della
legge n. 47 del 1985 semmai indirizza,
vincolandolo nell'esito, il residuo
potere-dovere dell'autorità competente di
procedere all'applicazione della sanzione di
cui all'art. 15 della legge n. 1497 del
1939. La circostanza, infatti, che
l'Amministrazione, esercitando un potere
nella sostanza conferito dallo stesso art.
15, abbia verificato la compatibilità
ambientale in via postuma, se da un lato
esclude la compromissione sostanziale
dell'integrità paesaggistica, dall'altro non
cancella la violazione dell'obbligo,
discendente dall'art. 7, di conseguire in
via preventiva il titolo di assenso
necessario per la realizzazione
dell'intervento modificativo dell'assetto
territoriale”.
---------------
IV. E’ infondato anche il motivo che
contesta la quantificazione della sanzione,
evidenziando che essa sarebbe stata
parametrata sulle spese di ripristino, ma in
realtà il ripristino sarebbe stato
effettuato a sue spese dalla ricorrente.
Ciò non rileva perché, come argomenta
correttamente la difesa del Comune, la
sanzione ex art. 167 non è un risarcimento
del danno, ma una sanzione afflittiva per
un’opera abusiva.
Si riprende ancora una volta quanto
riportato nella motivazione della pronuncia
del Cons. Stato, VI, 2653/2003, secondo cui
“la misura pecuniaria prevista dall'art. 15
della legge n. 1497 del 1939, nonostante il
riferimento al termine "indennità", non
costituisce un'ipotesi di risarcimento del
danno ambientale ma rappresenta una sanzione
amministrativa, applicabile sia nel caso di
illeciti sostanziali, ovvero in caso di
compromissione dell'indennità paesaggistica,
sia nell'ipotesi di illeciti formali, quale
è, appunto, da ritenersi il caso di
violazione dell'obbligo di conseguire
l'autorizzazione a fronte di un intervento
compatibile con il contesto paesistico
oggetto di protezione (Sez. VI, n. 912 del
2001, cit. n. 3184 del 2000)”.
In altri termini, la sanzione è solo la
conseguenza della violazione di un obbligo
(di non essersi dotati preventivamente di
autorizzazione paesaggistica); il
legislatore avrebbe potuto prevedere una
misura fissa, come usa di solito per le
sanzioni penali, invece ha preferito
modellarla sul caso di specie non
predeterminandone minimi e massimi, ma
rapportandola al danno ambientale, ma questo
non significa che essa debba consistere
nelle spese affrontate per il ripristino,
perché altrimenti essa consisterebbe in un
risarcimento del danno.
La ricorrente sostiene, inoltre, che la
quantificazione del materiale movimentato
sarebbe eccessivo, essendo stata effettuata
verificando al centimetro le differenze di
quota, senza tenere conto delle soglie di
tolleranza inevitabili in un terreno che
viene arato prima della coltivazione.
Ma, in realtà, il criterio del calcolo al
centimetro delle differenze di quota è
l’unico metodo scientifico utilizzabile per
calcolare la movimentazione dei terreni; la
stessa richiesta della difesa della
ricorrente di tener conto di soglie di
tolleranza dovute alla aratura dei terreni,
se non si individuano dei valori percentuali
di tipo generale per introdurre nel calcolo
i riporti dovuti ad aratura, finisce per
introdurre un margine di approssimazione
incompatibile con una metodologia di calcolo
scientifica.
Si ricorda, d’altronde, che il calcolo al
centimetro neanche è imposto alle
amministrazioni, perché, come rilevato da
Tribunale Milano 31.03.2008, “in una
situazione riconosciuta come idonea a
compromettere l'ambiente quale fatto
ingiusto implicante una lesione presunta del
valore giuridico tutelato, la
quantificazione del danno avviene in via
equitativa, tenendo conto dell'ampiezza
dell'inquinamento, della gravità della colpa
individuale e del costo necessario per la
depurazione”, e che lo stesso criterio
equitativo sembrerebbe desumersi (a
contrario) da Tar Lazio 1450/2009 cit. (a
contrario, perché essa ritiene che invece
debba essere effettuata una ricostruzione
analitica del profitto) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 31.01.2012 n. 145 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2011 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
Il Comune, in presenza di
speciali circostanze, ben può imporre
prescrizioni nel rilasciare il permesso di
costruire se queste non contrastino con la
natura e tipicità del provvedimento; non
siano tali da snaturare l'atto, negandone la
funzione o non impongano sacrifici
ingiustificabili, sproporzionati o
immotivati.
Nel caso, la prescrizione circa la
realizzazione o l’adeguamento delle
eventuali infrastrutture mancanti a spese
del concessionario comunque assicurava il
completamento delle infrastrutture primarie
nella zona.
Né poi è vero che nella concessione non
potessero essere inserite, in via generale
ed in mancanza di specifiche disposizioni
contrarie, prescrizioni specifiche a tutela
dell’ambiente e del tessuto abitativo.
Al contrario l’Ente, in presenza di speciali
circostanze ben può imporre prescrizioni se
queste non contrastino con la natura e
tipicità del provvedimento; non siano tali
da snaturare l'atto, negandone la funzione o
non impongano sacrifici ingiustificabili,
sproporzionati o immotivati.
Nel caso, la prescrizione circa la
realizzazione o l’adeguamento delle
eventuali infrastrutture mancanti a spese
del concessionario, comunque assicurava il
completamento delle infrastrutture primarie
nella zona.
Infine del tutto inconferenti sono le
considerazioni e le conclusioni del CTU
Penale perché:
- sul piano processuale, si tratta di
documentazione successiva alla definizione
del processo, come tale non ammissibile in
appello ai sensi del 104, II co. del C.p.a.
;
- sul piano sostanziale il Collegio non
ritiene tale atto indispensabile ai fini
della decisione anche in considerazione
dell’archiviazione del procedimento penale,
e comunque della non condivisibilità della
sua premessa circa la non assentibilità
della concessione singola.
Il motivo va dunque respinto (Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 25.11.2011 n. 6260 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E’
vero che, salvo i casi espressamente
previsti dalla legge, l’apposizione di una
condizione (sia essa sospensiva o
risolutiva) all’atto di assenso edilizio è
da ritenersi indebita, stante la natura di
accertamento costitutivo a carattere non
negoziale dell’assenso medesimo, ma è
altresì vero che, nella prassi
amministrativa, molte concessioni edilizie e
permessi di costruire sono stati emessi con
la previsione di specifiche “condizioni”,
trattandosi in realtà di “prescrizioni”, che
non condizionano la validità ed efficacia
dell’assenso edilizio, ma devono essere
rispettate, ai fini della successiva
agibilità e abitabilità dell’edificio.
Pertanto, il rilascio di un permesso di
costruire recante prescrizioni è da
ritenersi del tutto legittimo. Ciò è ancor
più vero se si considera che, nella
fattispecie, la prescrizione apposta al
permesso di costruire serve ad ovviare a un
difficile problema di valutazione della
sicurezza antincendio dell’opera assentita.
La società ricorrente, avendo presentato al
Comune di Termoli un progetto per la
ristrutturazione e il cambio di destinazione
d’uso della struttura del “Grand Hotel”
di via Cuoco, in Termoli, insorge per
impugnare il permesso di costruire n. 117
del 17.09.2008, rilasciato dal dirigente
dello Sportello unico dell’edilizia del
Comune alla ricorrente società, nella parte
in cui impone la condizione che sia
completamente rimossa la porta al primo
piano seminterrato che affaccia sulla rampa
di accesso ai “garages” e sostituita
con un muro, conformemente al progetto
approvato e allegato alla concessione
edilizia n. 130/1988 e dichiarato nelle
osservazioni della ditta istante (prot. n.
27444 del 2008).
...
Sotto il
profilo squisitamente giuridico, le censure
del ricorso devono essere disattese.
E’ vero che, salvo i casi espressamente
previsti dalla legge, l’apposizione di una
condizione (sia essa sospensiva o
risolutiva) all’atto di assenso edilizio è
da ritenersi indebita, stante la natura di
accertamento costitutivo a carattere non
negoziale dell’assenso medesimo (cfr.: TAR
Trentino A.A., Bolzano I, 04.01.2011 n. 2),
ma è altresì vero che, nella prassi
amministrativa, molte concessioni edilizie e
permessi di costruire sono stati emessi con
la previsione di specifiche “condizioni”,
trattandosi in realtà di “prescrizioni”,
che non condizionano la validità ed
efficacia dell’assenso edilizio, ma devono
essere rispettate, ai fini della successiva
agibilità e abitabilità dell’edificio.
Pertanto, il rilascio di un permesso di
costruire recante prescrizioni è da
ritenersi del tutto legittimo (cfr.: TAR
Sicilia-Catania I, 14.01.2011 n. 56). Ciò è
ancor più vero se si considera che, nella
fattispecie, la prescrizione apposta al
permesso di costruire serve ad ovviare a un
difficile problema di valutazione della
sicurezza antincendio dell’opera assentita.
I motivi del ricorso sono, dunque,
infondati. Non vi è stata alcuna violazione
del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 (art. 12), né
dei principi in tema di rilascio del
permesso di costruire, atteso che non si è
trattato, nella specie, di verificare la
conformità del progetto assentito agli
strumenti urbanistici, bensì di superare un
ostacolo tecnico, riveniente dalla
valutazione del progetto sotto il profilo
della sicurezza antincendio
(TAR Molise,
sentenza 04.08.2011 n. 517 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La giurisprudenza amministrativa -sempre in
ossequio ai principi di celerità, economicità ed efficacia
del procedimento amministrativo- ha da tempo ammesso
l'istituto del titolo concessorio condizionato, con la
precisazione che l’apposizione di una condizione è legittima
quando incide su aspetti legati alla realizzazione
dell'intervento costruttivo, sia da un punto di vista
tecnico che strutturale, e se ciò trova un fondamento,
diretto o indiretto, in una norma di legge o regolamento.
Non è invece ammessa la possibilità di apporre condizioni al
titolo abilitativo estranee alla fase di realizzazione
dell'intervento edilizio.
In proposito, è stato anche condivisibilmente osservato:
- che in base al principio di buona amministrazione, quando
un progetto edilizio presenta elementi ostativi alla sua
approvazione di modesta rilevanza e tali da poter essere
individuati e corretti o attraverso la modifica del progetto
o il meccanismo della concessione condizionata, il sindaco
non deve negare il titolo richiesto ma deve invitare
l’interessato a modificare il progetto o rilasciare la
concessione sub condicione, “in tal modo tutelando sia
l'interesse pubblico al pieno rispetto della normativa
urbanistica, sia l'interesse privato alla rapidità ed
efficienza della pubblica amministrazione”;
- che, “se alla semplice alternativa approvare/non approvare
si aggiunge, infatti, anche la possibilità di approvare con
prescrizioni, si ampliano i poteri conformativi
dell'Amministrazione che ha la possibilità in questo modo di
modellare meglio la propria decisione alle particolarità del
caso di specie”;
- che la violazione delle prescrizioni ha l'effetto di
privare di titolo ciò che è stato realizzato sulla base del
provvedimento cui era apposta la condizione non rispettata.
Le argomentazioni della ricorrente sono principalmente
rivolte avverso la prescrizione contenuta nella più volte
ricordata concessione edilizia n. 103 rilasciata nell’anno
2005 e che, come già visto nella parte in fatto, aveva
autorizzato l’intervento edilizio “condizionatamente”
al rispetto della già ricordata prescrizione relativa alla “larghezza
di m. 5,00 della viabilità esistente”.
L’interessata assume che detta prescrizione sarebbe
illegittima e che non sarebbe giustificata da alcuna norma
urbanistica.
In linea generale, occorre rammentare che la giurisprudenza
amministrativa -sempre in ossequio ai principi di celerità,
economicità ed efficacia del procedimento amministrativo- ha
da tempo ammesso l'istituto del titolo concessorio
condizionato (cfr., C.d.S., sez. V, 17.07.2004, n. 5127;
sez. IV, 06.10.2010, n. 7344), con la precisazione che
l’apposizione di una condizione è legittima quando incide su
aspetti legati alla realizzazione dell'intervento
costruttivo, sia da un punto di vista tecnico che
strutturale, e se ciò trova un fondamento, diretto o
indiretto, in una norma di legge o regolamento (cfr. TAR
Lombardia, Milano, sez. IV, 10.09.2010, 5655).
Non è invece ammessa la possibilità di apporre condizioni al
titolo abilitativo estranee alla fase di realizzazione
dell'intervento edilizio (cfr., TAR Abruzzo, 08.02.2007, n.
153).
In proposito, è stato anche condivisibilmente osservato:
- che in base al principio di buona amministrazione, quando
un progetto edilizio presenta elementi ostativi alla sua
approvazione di modesta rilevanza e tali da poter essere
individuati e corretti o attraverso la modifica del progetto
o il meccanismo della concessione condizionata, il sindaco
non deve negare il titolo richiesto ma deve invitare
l’interessato a modificare il progetto o rilasciare la
concessione sub condicione, “in tal modo tutelando sia
l'interesse pubblico al pieno rispetto della normativa
urbanistica, sia l'interesse privato alla rapidità ed
efficienza della pubblica amministrazione” (cfr. TAR
Sicilia, Catania, sez. I, 25.10.2006, n. 1960);
- che, “se alla semplice alternativa approvare/non
approvare si aggiunge, infatti, anche la possibilità di
approvare con prescrizioni, si ampliano i poteri
conformativi dell'Amministrazione che ha la possibilità in
questo modo di modellare meglio la propria decisione alle
particolarità del caso di specie” (cfr., TAR Lombardia,
Brescia, sez. I, 17.06.2010, n. 232);
- che la violazione delle prescrizioni ha l'effetto di
privare di titolo ciò che è stato realizzato sulla base del
provvedimento cui era apposta la condizione non rispettata
(cfr., TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 02.11.2010, n. 4520)
(TRGA Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 27.07.2011 n. 204 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Salvo
i casi espressamente previsti dalla legge,
l’apposizione di una condizione (sia essa
sospensiva o risolutiva) alla concessione
edilizia è illegittima, stante la natura di
accertamento costitutivo a carattere non
negoziale della concessione stessa.
Vero è che nella prassi amministrativa molte
concessioni edilizie vengono emesse con la
previsione di specifiche “condizioni”, ma,
in realtà, si tratta di “prescrizioni” (e
non di vere e proprie condizioni) che, in
quanto tali, non possono condizionare la
legittimità del permesso di costruire.
La giurisprudenza ha già avuto modo sia di
dichiarare illegittime le condizioni che
subordinano la validità della concessione
edilizia alla cessione gratuita di aree
destinate alla realizzazione di opere
pubbliche, sia di affermare che
l’apposizione di condizioni illegittime può
determinare l’annullamento delle condizioni
stesse, senza influire sulla validità
dell’intero provvedimento, che resta salvo
nelle parti residue.
... il Sindaco, al termine di un’articolata
istruttoria, rilasciava l’impugnata
concessione edilizia n. 3/2008 del
21.1.2008, contenente, per quanto qui
d’interesse, la “prescrizione/condizione”
che “deve essere garantita la
disponibilità gratuita del terreno per un
futuro ampliamento della strada e/o per la
realizzazione di un marciapiedi”.
La validità
dell’impugnata concessione edilizia n.
3/2008 del 21.01.2008 risulta subordinata a
specifiche “prescrizioni e condizioni”;
in particolare, per quanto qui d’interesse,
a quella, contestata dalla ricorrente, che
dispone che “deve essere garantita la
disponibilità gratuita del terreno per un
futuro ampliamento della strada e/o per la
realizzazione di un marciapiedi”.
Infatti, in base all’ulteriore
prescrizione/condizione nella stessa
contenuta, “la presente concessione
s’intende valida, qualora ci sia la
disponibilità da parte dei proprietari dei
terreni”.
Orbene, osservato preliminarmente che la
porzione di terreno che la ricorrente
dovrebbe mettere gratuitamente a
disposizione del Comune non risulta nemmeno
identificata, va in ogni caso rilevato che,
salvo i casi espressamente previsti dalla
legge, l’apposizione di una condizione (sia
essa sospensiva o risolutiva) alla
concessione edilizia è illegittima, stante
la natura di accertamento costitutivo a
carattere non negoziale della concessione
stessa (cfr. TRGA Bolzano, 30.03.2009, n.
120 e 08.05.1996, n. 120; TAR Brescia,
05.05.2008, n. 476; TAR Venezia, 20.10.2004,
n. 3732; TAR Genova, 21.01.2000, n. 35).
Vero è che nella prassi amministrativa molte
concessioni edilizie vengono emesse con la
previsione di specifiche “condizioni”,
ma, in realtà, si tratta di “prescrizioni”
(e non di vere e proprie condizioni) che, in
quanto tali, non possono condizionare la
legittimità del permesso di costruire.
In particolare, per quanto attiene più
specificamente al caso di specie, la
giurisprudenza ha già avuto modo sia di
dichiarare illegittime le condizioni che
subordinano la validità della concessione
edilizia alla cessione gratuita di aree
destinate alla realizzazione di opere
pubbliche, sia di affermare che
l’apposizione di condizioni illegittime può
determinare l’annullamento delle condizioni
stesse, senza influire sulla validità
dell’intero provvedimento, che resta salvo
nelle parti residue (cfr. Cons. Stato, Sez.
V, 24.03.2001, n. 1702; TAR Milano, Sez. II,
18.02.1984, n. 77).
In conclusione, la condizione che subordina
la validità della concessione edilizia n.
3/2008 dd. 21.01.2008 alla garanzia della
disponibilità gratuita del terreno per un
futuro ampliamento della strada e/o per la
realizzazione di un marciapiedi è
illegittima.
Atteso che la suddetta condizione accede ad
un atto con forza di provvedimento
amministrativo e non può, pertanto,
ritenersi come non apposta, deve essere
rimossa mediante il suo annullamento (cfr.
Cons. Stato, Sez. V, 24.03.2001, n. 1702)
(TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano,
sentenza 04.01.2011 n. 2 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2010 |
|
EDILIZIA PRIVATA: M.
Muntoni,
Cessione gratuita quale corrispettivo del
permesso di costruire
(25.11.2010 - link a www.diritto.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La giurisprudenza
amministrativa ha ammesso da tempo l’istituto del
provvedimento (di solito, abilitativo) condizionato.
La giurisprudenza, spinta da una prassi degli organi
amministrativi che è sempre stata molto propensa
all’utilizzo di provvedimento di approvazione condizionati
ad alcune prescrizioni introdotte dall’amministrazione, ha
finito per riconoscere la legittimità di tale tipo di
provvedimenti che semplifica la procedura (se non fosse
possibile approvare con condizioni occorrerebbe infatti: 1)
respingere spiegando i punti del progetto che devono essere
rivisti, 2) ripresentare il progetto, 3) riapprovare il
progetto emendato; e tutto ciò sarebbe oggi anche in
contrasto con la regola generale sul divieto di aggravamento
del procedimento amministrativo di cui all’art 1, co. 2, l.
241/1990) ed in realtà consente di esercitare meglio quella
potestà conformativa cui il ricorrente ritiene che la
Regione abbia abdicato con il provvedimento impugnato.
Se alla semplice alternativa approvare/non approvare si
aggiunge, infatti, anche la possibilità di approvare con
prescrizioni, si ampliano i poteri conformativi
dell’amministrazione che ha la possibilità in questo modo di
modellare meglio la propria decisione alle particolarità del
caso di specie.
---------------
La sistematica del provvedimento condizionato è, però,
complessa ed è stata soltanto abbozzata in dottrina proprio
perché figura nata in realtà nella pratica e poco apprezzata
dalla letteratura giuridica.
In ogni caso sia che la prescrizione incida sulla
legittimità del provvedimento cui è apposta, sia che essa
attenga alla efficacia della stessa (come si dovrebbe
ricavare dall’art. 1353 c.c.), la violazione delle
prescrizioni, però, avrà sempre e solo l’effetto di privare
di titolo ciò che è stato realizzato sulla base del
provvedimento cui era apposta la condizione non rispettata,
ma non potrà mai invalidare retroattivamente altro
provvedimento amministrativo (nel caso in esame, la licenza
del 1965 con cui era stato costruito il garage) privando di
titolo ciò che era stato edificato legittimamente.
In linea generale, occorre dire
–infatti- che la giurisprudenza amministrativa ha ammesso da
tempo l’istituto del provvedimento (di solito, abilitativo)
condizionato, a fronte delle perplessità che vennero
espresse in anni risalenti dalla dottrina giuridica che
costruiva l’atto amministrativo all’interno della teoria
generale degli atti giuridici (che, com’è noto, era
modellata su quella positiva del negozio giuridico di
diritto tedesco), e che quindi si era posta il problema
della possibilità di introdurre elementi accidentali
nell’atto amministrativo.
La giurisprudenza, spinta da una prassi degli organi
amministrativi che è sempre stata molto propensa
all’utilizzo di provvedimento di approvazione condizionati
ad alcune prescrizioni introdotte dall’amministrazione, ha
finito per riconoscere la legittimità di tale tipo di
provvedimenti che semplifica la procedura (se non fosse
possibile approvare con condizioni occorrerebbe infatti: 1)
respingere spiegando i punti del progetto che devono essere
rivisti, 2) ripresentare il progetto, 3) riapprovare il
progetto emendato; e tutto ciò sarebbe oggi anche in
contrasto con la regola generale sul divieto di aggravamento
del procedimento amministrativo di cui all’art 1, co. 2, l.
241/1990) ed in realtà consente di esercitare meglio quella
potestà conformativa cui il ricorrente ritiene che la
Regione abbia abdicato con il provvedimento impugnato.
Se alla semplice alternativa approvare/non approvare si
aggiunge, infatti, anche la possibilità di approvare con
prescrizioni, si ampliano i poteri conformativi
dell’amministrazione che ha la possibilità in questo modo di
modellare meglio la propria decisione alle particolarità del
caso di specie.
La sistematica del provvedimento condizionato è, però,
complessa ed è stata soltanto abbozzata in dottrina proprio
perché figura nata in realtà nella pratica e poco apprezzata
dalla letteratura giuridica.
In ogni caso sia che la prescrizione incida sulla
legittimità del provvedimento cui è apposta, sia che essa
attenga alla efficacia della stessa (come si dovrebbe
ricavare dall’art. 1353 c.c.), la violazione delle
prescrizioni, però, avrà sempre e solo l’effetto di privare
di titolo ciò che è stato realizzato sulla base del
provvedimento cui era apposta la condizione non rispettata,
ma non potrà mai invalidare retroattivamente altro
provvedimento amministrativo (nel caso in esame, la licenza
del 1965 con cui era stato costruito il garage) privando di
titolo ciò che era stato edificato legittimamente
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 02.11.2010 n. 4520 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’apposizione di una o più condizioni al rilascio
di un titolo edilizio può ritenersi generalmente ammessa
soltanto quando si vada ad incidere su aspetti legati alla
realizzazione dell’intervento costruttivo, sia da un punto
di vista tecnico che strutturale, e ciò trovi un fondamento
diretto o indiretto in una norma di legge o regolamento.
Diversamente, non è possibile apporre condizioni al titolo
edilizio che siano estranee alla fase di realizzazione
dell’intervento edilizio.
Difatti, il Comune non può assentire una concessione
edilizia subordinatamente all’impegno del privato a
rinunciare all’indennizzo dovuto, nel caso di futura
espropriazione dell’opera, “in quanto tale condizione non è
volta a perseguire alcun interesse pubblico riconducibile
alla materia urbanistico-edilizia e si pone in contrasto con
il principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi”.
In tal modo, infatti, si tende al perseguimento di finalità
estranee a quelle sottese al potere esercitato, legato allo
svolgimento dell’attività edificatoria, funzionalizzando
l’attività amministrativa ad interessi avulsi rispetto a
quelli tipizzati dal legislatore: del resto, in sede di
rilascio di concessioni edilizie, non si può, in via
generale, apporre condizioni, sia sospensive che risolutive,
ai predetti titoli abilitativi, salvi i casi espressamente
previsti dalla legge, stante la natura di accertamento
costitutivo a carattere non negoziale di detti
provvedimenti.
A ciò consegue certamente l’invalidità della condizione
apposta, senza tuttavia che ciò ridondi sulla validità
complessiva della concessione assentita, “dal momento che
l’invalidità di una condizione apposta all’atto
amministrativo comporta la invalidità totale dell’atto
stesso solo qualora il contenuto della condizione abbia
costituito il motivo essenziale della dichiarazione di
volontà, la quale presumibilmente non vi sarebbe stata senza
di quella (“vitiatur et vitiat”); ma la nullità e
l’invalidità totale dell’atto amministrativo, a cagione
dell’invalidità della condizione, non può certamente
prodursi quando si tratti –come nel caso di specie– di atti
dovuti (nei quali cioè non vi sia discrezionalità nell’an) e
quando l’autorità amministrativa, che si determina per il
provvedimento, dovrà dare ad esso il contenuto
predeterminato dalle fonti normative, in assenza di
discrezionalità nel quid”.
---------------
La specifica condizione apposta al rilascio della richiesta
concessione edilizia (e cioè la
consegna da parte degli odierni ricorrenti di una
“dichiarazione di non indennizzabilità delle opere
realizzate in caso di eventuale esproprio”)
contrasta anche con il principio di rango costituzionale che
subordina necessariamente l’espropriazione alla
corresponsione di un indennizzo (art. 42, terzo comma,
Cost.): difatti, pur non essendo necessario che il predetto
indennizzo “debba consistere nell’integrale riparazione
della perdita subita, non può essere fissato, nondimeno, in
misura irrisoria o meramente simbolica, ma deve
rappresentare un serio ristoro, espressione di un
ragionevole legame con il valore venale, come prescritto
dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo”.
... per l’annullamento previa sospensione dell’efficacia:
- della condizione apposta al provvedimento 11.08.1999, prot.
n. 5547 del responsabile del Servizio tecnico del Comune di
Abbadia Lariana avente ad oggetto “l’avviso di emanazione
dei provvedimenti di concessione edilizia” per la “realizzazione
di area a parcheggio sull’area al mapp. 3487 in Comune
Censuario di Abbadia Lariana”, nella parte in cui il
rilascio della concessione edilizia è stato subordinato alla
consegna da parte degli odierni ricorrenti di una “dichiarazione
di non indennizzabilità delle opere realizzate in caso di
eventuale esproprio”.
...
L’apposizione di una o più condizioni al rilascio di un
titolo edilizio può ritenersi generalmente ammessa soltanto
quando si vada ad incidere su aspetti legati alla
realizzazione dell’intervento costruttivo, sia da un punto
di vista tecnico che strutturale, e ciò trovi un fondamento
diretto o indiretto in una norma di legge o regolamento.
Diversamente, non è possibile apporre condizioni al titolo
edilizio che siano estranee alla fase di realizzazione
dell’intervento edilizio.
Difatti, il Comune non può assentire una concessione
edilizia subordinatamente all’impegno del privato a
rinunciare all’indennizzo dovuto, nel caso di futura
espropriazione dell’opera, “in quanto tale condizione non
è volta a perseguire alcun interesse pubblico riconducibile
alla materia urbanistico-edilizia e si pone in contrasto con
il principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi”
(TAR Abruzzo, Pescara, 08.02.2007, n. 153).
In tal modo, infatti, si tende al perseguimento di finalità
estranee a quelle sottese al potere esercitato, legato allo
svolgimento dell’attività edificatoria, funzionalizzando
l’attività amministrativa ad interessi avulsi rispetto a
quelli tipizzati dal legislatore: del resto, in sede di
rilascio di concessioni edilizie, non si può, in via
generale, apporre condizioni, sia sospensive che risolutive,
ai predetti titoli abilitativi, salvi i casi espressamente
previsti dalla legge, stante la natura di accertamento
costitutivo a carattere non negoziale di detti provvedimenti
(cfr. Consiglio di Stato, V, 24.03.2001, n. 1702).
A ciò consegue certamente l’invalidità della condizione
apposta, senza tuttavia che ciò ridondi sulla validità
complessiva della concessione assentita, “dal momento che
l’invalidità di una condizione apposta all’atto
amministrativo comporta la invalidità totale dell’atto
stesso solo qualora il contenuto della condizione abbia
costituito il motivo essenziale della dichiarazione di
volontà, la quale presumibilmente non vi sarebbe stata senza
di quella (“vitiatur et vitiat”); ma la nullità e
l’invalidità totale dell’atto amministrativo, a cagione
dell’invalidità della condizione, non può certamente
prodursi quando si tratti –come nel caso di specie– di atti
dovuti (nei quali cioè non vi sia discrezionalità nell’an) e
quando l’autorità amministrativa, che si determina per il
provvedimento, dovrà dare ad esso il contenuto
predeterminato dalle fonti normative, in assenza di
discrezionalità nel quid” (TAR Abruzzo, Pescara,
08.02.2007, n. 153).
Infine, va evidenziato che la specifica condizione apposta
contrasta anche con il principio di rango costituzionale
–ribadito anche a livello sovranazionale dalla Corte Europea
dei Diritti dell’Uomo [Grande Camera, Strasburgo, sentenza
29.03.2006, caso Scordino contro Italia (n.1)]– che
subordina necessariamente l’espropriazione alla
corresponsione di un indennizzo (art. 42, terzo comma,
Cost.): difatti, pur non essendo necessario che il predetto
indennizzo “debba consistere nell’integrale riparazione
della perdita subita, non può essere fissato, nondimeno, in
misura irrisoria o meramente simbolica, ma deve
rappresentare un serio ristoro, espressione di un
ragionevole legame con il valore venale, come prescritto
dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo”
(Cassazione civile, I, 22.01.2009, n. 1606; altresì, Corte
costituzionale, 24.10.2007, n. 348) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 10.09.2010 n. 5655 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2008 |
|
EDILIZIA PRIVATA: In
via di principio e fatti salvi i casi
espressamente stabiliti dalla legge, una
condizione (sia essa sospensiva o
risolutiva) non può essere apposta ad una
concessione edilizia, stante la natura di
accertamento costitutivo a carattere non
negoziale del provvedimento: ne consegue che
tale titolo abilitativo, una volta
riscontrata la conformità del progetto alla
vigente disciplina urbanistica, deve essere
rilasciato dal Comune senza condizioni che
non siano espressamente previste da una
norma di legge.
Secondo un orientamento rigoroso, in via di
principio e fatti salvi i casi espressamente
stabiliti dalla legge, una condizione (sia
essa sospensiva o risolutiva) non può essere
apposta ad una concessione edilizia, stante
la natura di accertamento costitutivo a
carattere non negoziale del provvedimento:
ne consegue che tale titolo abilitativo, una
volta riscontrata la conformità del progetto
alla vigente disciplina urbanistica, deve
essere rilasciato dal Comune senza
condizioni che non siano espressamente
previste da una norma di legge (cfr.
Consiglio di Stato, sez. V – 24/03/2001 n.
1702).
Più recentemente –ispirandosi a criteri di
economicità e speditezza dell’azione
amministrativa– si è precisato in quale
misura la riscontrata carenza in una
progettazione urbanistica od edilizia dei
requisiti legali possa essere “surrogata”
dall’attività dell’Ente, attraverso il
rilascio di un atto di assenso variamente
condizionato: la giurisprudenza ha escluso
che l’amministrazione possa “conformare”
nei suoi aspetti sostanziali l’intervento
sottoposto al suo esame, al solo scopo di
evitare un pronunciamento negativo sullo
stesso: in tale ultima ipotesi, infatti, si
assentirebbe un’attività urbanistica od
edilizia priva di un oggettivo (e
preventivo) parametro documentale di
riferimento, quando il risultato
dell’ulteriore attività prescritta deve
necessariamente essere valutato
dall’amministrazione prima del rilascio del
richiesto titolo edilizio, difettando
altrimenti una seria e compiuta conoscenza
dell'intervento concessionato, sia nella sua
consistenza materiale che nella sua
rispondenza alla normativa di settore (TAR
Liguria, sez. I – 08/05/2006 n. 433).
In altri casi è stato affermato che non è
preclusa l’apposizione ad una concessione
edilizia di una prescrizione o condizione
aggiuntiva, salva tuttavia la compatibilità
con il progetto nel suo insieme e la
formulazione in termini sufficientemente
precisi: si è aggiunto che in questi casi le
clausole introdotte dall’amministrazione
nell’atto concessorio trovano la loro fonte
giuridica in previsioni normative –e in tal
caso non possono essere considerate come
vere condizioni ma quali presupposti per il
valido rilascio della concessione– oppure
traggono origine dall’attività discrezionale
dell'amministrazione e richiedono
l’accettazione del concessionario (TAR
Toscana, sez. III – 14/07/2005 n. 3348)
(TAR Lombardia-Brescia,
sentenza 05.05.2008 n. 476 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2007 |
|
EDILIZIA
PRIVATA: Il
Comune non può assentire una concessione edilizia
subordinatamente all’impegno del privato a rinunciare alla
proposizione di azioni risarcitoria nei confronti del
Comune, in quanto tale condizione non è volta a perseguire
alcun interesse pubblico riconducibile alla materia
urbanistico-edilizia e si pone in contrasto con il principio
di tipicità dei provvedimenti amministrativi.
Tale condizione si rivela, infatti, preordinata al
perseguimento di interessi estranei a quelli sottesi al
potere esercitato, volto a garantire lo svolgimento
dell’attività edificatoria nel rispetto delle norme che la
disciplinano ed in vista di una corretta ed equilibrata
trasformazione del territorio, ed, esulando dall’ambito
teleologico appena delineato, si propone di evitare i
riflessi risarcitori eventualmente derivanti da una
pregressa attività dell’Amministrazione: in tal modo
subordinando l’efficacia della concessione rilasciata al
perseguimento di scopi estranei al relativo schema
tipologico.
Il Comune, invero, non può in via generale apporre
condizioni, sia sospensive che risolutive, alla concessione
edilizia, salvi i casi espressamente previsti dalla legge,
stante la natura di accertamento costitutivo a carattere non
negoziale di detto provvedimento.
Tale condizione, peraltro, non inficia in toto la
concessione assentita, dal momento che l’invalidità di una
condizione apposta all’atto amministrativo comporta la
invalidità totale dell’atto stesso solo qualora il contenuto
della condizione abbia costituito il motivo essenziale della
dichiarazione di volontà, la quale presumibilmente non vi
sarebbe stata senza di quella (“vitiatur et vitiat”); ma la
nullità e l’invalidità totale dell’atto amministrativo, a
cagione dell’invalidità della condizione, non può certamente
prodursi quando si tratti di atti dovuti (nei quali cioè non
vi sia discrezionalità nell’an) e quando l’autorità
amministrativa, che si determina per il provvedimento, dovrà
dare ad esso il contenuto predeterminato dalle fonti
normative, in assenza di discrezionalità nel quid.
---------------
La nullità della condizione in questione non può non
travolgere per assenza di causa anche la successiva rinuncia
formulata dal privato, il quale, nella particolare posizione
in cui lo stesso trovava (attendeva, dopo la proposizione
con esito favorevole di ben tre ricorsi, da oltre quindici
anni il rilascio di un dovuto titolo concessorio), era
nell’impossibilità di contrastare tale pretesa se non a pena
di iniziare un nuovo contenzioso.
Quanto alla circostanza che il Comune aveva condizionato il
rilascio della concessione edilizia alla specifica rinuncia
da parte dell’interessato alla richiesta di risarcimento dei
danni, che l’istante aveva accettato, va subito evidenziato
che tale condizione apposta alla concessione edilizia deve
ritenersi nulla, in quanto contraria a norme imperative.
Va in merito evidenziato che –come già chiarito dalla
giurispru-denza amministrativa (TAR Campania, sez. Salerno,
II, 16.01.2007, n. 28)– il Comune non può assentire una
concessione edilizia subordinatamente all’impegno del
privato a rinunciare alla proposizione di azioni
risarcitoria nei confronti del Comune, in quanto tale
condizione non è volta a perseguire alcun interesse pubblico
riconducibile alla materia urbanistico-edilizia e si pone in
contrasto con il principio di tipicità dei provvedimenti
amministrativi.
Tale condizione si rivela, infatti, preordinata al
perseguimento di interessi estranei a quelli sottesi al
potere esercitato, volto a garantire lo svolgimento
dell’attività edificatoria nel rispetto delle norme che la
disciplinano ed in vista di una corretta ed equilibrata
trasformazione del territorio, ed, esulando dall’ambito
teleologico appena delineato, si propone di evitare i
riflessi risarcitori eventualmente derivanti da una
pregressa attività dell’Amministrazione: in tal modo
subordinando l’efficacia della concessione rilasciata al
perseguimento di scopi estranei al relativo schema
tipologico. Il Comune, invero, non può in via generale
apporre condizioni, sia sospensive che risolutive, alla
concessione edilizia, salvi i casi espressamente previsti
dalla legge, stante la natura di accertamento costitutivo a
carattere non negoziale di detto provvedimento (Cons. St.,
sez. V, 24.03.2001, n. 1702).
Tale condizione, peraltro, non inficia in toto la
concessione assentita, dal momento che l’invalidità di una
condizione apposta all’atto amministrativo comporta la
invalidità totale dell’atto stesso solo qualora il contenuto
della condizione abbia costituito il motivo essenziale della
dichiarazione di volontà, la quale presumibilmente non vi
sarebbe stata senza di quella (“vitiatur et vitiat”);
ma la nullità e l’invalidità totale dell’atto
amministrativo, a cagione dell’invalidità della condizione,
non può certamente prodursi quando si tratti -come nel caso
di specie- di atti dovuti (nei quali cioè non vi sia
discrezionalità nell’an) e quando l’autorità
amministrativa, che si determina per il provvedimento, dovrà
dare ad esso il contenuto predeterminato dalle fonti
normative, in assenza di discrezionalità nel quid
(cfr. TAR Liguria, 25.10.1979, n. 381).
Così precisata l’irrilevanza della predetta condizione
apposta nella concessione assentita, va in aggiunta anche
rilevato che alcuna conseguenza può farsi derivare dalla
successiva accettazione del privato della predetta
condizione.
Va, invero, innanzi tutto chiarito che la nullità della
condizione in questione non può non travolgere per assenza
di causa anche la successiva rinuncia formulata dal privato,
il quale, nella particolare posizione in cui lo stesso
trovava (attendeva, dopo la proposizione con esito
favorevole di ben tre ricorsi, da oltre quindici anni il
rilascio di un dovuto titolo concessorio), era
nell’impossibilità di contrastare tale pretesa se non a pena
di iniziare un nuovo contenzioso.
Inoltre, va in punto di fatto precisato che –come sopra
esposto in narrativa– il privato il 17.04.2001 aveva inviato
l’atto di rinuncia alla pretesa risarcitoria, subordinata,
però, alla condizione sospensiva che entro il 31.12.2001
fossero “emanati e comunicati tutti gli atti necessari
alla definitiva formalizzazione della licenza” e fosse
consentito “l’immediato inizio dei lavori” ed alla
condizione risolutiva che gli atti amministrativi concessori
assentiti non fossero stati successivamente “per
qualsiasi motivo revocati, annullati o vengano comunque a
perdere efficacia per fatto a me non imputabile”.
Premesso che non possono esservi dubbi sulla possibilità di
apporre ad un atto di rinuncia tali condizioni, in quanto le
dichiarazioni di remissione del debito di cui all’art. 1236
c.c. e le rinunce ben possono essere condizionate, poiché
l’Amministrazione, come sembra pacifico tra le parti, non
aveva comunicato alcunché entro il 31.12.2001 sembra
evidente che la predetta condizione sospensiva posta
all’atto di rinuncia del privato non si era verificata.
Inoltre, si era verificata anche la predetta condizione
risolutiva, dal momento che, come meglio si chiarirà in
seguito, era illegittimo il successivo diniego di proroga
del termine per l’ultimazione dei lavori.
Né può ipotizzarsi che sul punto fosse intervenuto tra le
parti un atto transattivo, attesa, a tacer d’altro,
l’incapacità del dirigente comunale a disporre del diritto a
rilasciare o meno una concessione edilizia (art. 1966 cod.
civ.)
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 08.02.2007 n. 153 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
Comune non può assentire una concessione
edilizia subordinatamente all’impegno del
privato a rinunciare alla proposizione di
azioni risarcitoria nei confronti del
Comune, in quanto tale condizione non è
volta a perseguire alcun interesse pubblico
riconducibile alla materia
urbanistico-edilizia e si pone in contrasto
con il principio di tipicità dei
provvedimenti amministrativi.
Il Comune, invero, non può in via generale
apporre condizioni, sia sospensive che
risolutive, alla concessione edilizia, salvi
i casi espressamente previsti dalla legge,
stante la natura di accertamento costitutivo
a carattere non negoziale di detto
provvedimento.
Come già chiarito dalla giurisprudenza
amministrativa (TAR Campania, sez. Salerno,
II, 16.01.2007, n. 28), il Comune non può
assentire una concessione edilizia
subordinatamente all’impegno del privato a
rinunciare alla proposizione di azioni
risarcitoria nei confronti del Comune, in
quanto tale condizione non è volta a
perseguire alcun interesse pubblico
riconducibile alla materia
urbanistico-edilizia e si pone in contrasto
con il principio di tipicità dei
provvedimenti amministrativi.
Tale condizione si rivela, infatti,
preordinata al perseguimento di interessi
estranei a quelli sottesi al potere
esercitato, volto a garantire lo svolgimento
dell’attività edificatoria nel rispetto
delle norme che la disciplinano ed in vista
di una corretta ed equilibrata
trasformazione del territorio, ed, esulando
dall’ambito teleologico appena delineato, si
propone di evitare i riflessi risarcitori
eventualmente derivanti da una pregressa
attività dell’Amministrazione: in tal modo
subordinando l’efficacia della concessione
rilasciata al perseguimento di scopi
estranei al relativo schema tipologico.
Il Comune, invero, non può in via generale
apporre condizioni, sia sospensive che
risolutive, alla concessione edilizia, salvi
i casi espressamente previsti dalla legge,
stante la natura di accertamento costitutivo
a carattere non negoziale di detto
provvedimento (Cons. St, sez. V, 24.03.2001,
n. 1702).
Tale condizione, peraltro, non inficia in
toto la concessione assentita, dal momento
che l’invalidità di una condizione apposta
all’atto amministrativo comporta la
invalidità totale dell’atto stesso solo
qualora il contenuto della condizione abbia
costituito il motivo essenziale della
dichiarazione di volontà, la quale
presumibilmente non vi sarebbe stata senza
di quella (“vitiatur et vitiat”); ma
la nullità e l’invalidità totale dell’atto
amministrativo, a cagione dell’invalidità
della condizione, non può certamente
prodursi quando si tratti -come nel caso di
specie- di atti dovuti (nei quali cioè non
vi sia discrezionalità nell’an) e
quando l’autorità amministrativa, che si
determina per il provvedimento, dovrà dare
ad esso il contenuto predeterminato dalle
fonti normative, in assenza di
discrezionalità nel quid (cfr. TAR
Liguria, 25.10.1979, n. 381) (TAR
Abruzzo-Pescara, Sez. I,
sentenza 08.02.2007 n. 153 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2006 |
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EDILIZIA
PRIVATA: E'illegittimo
il diniego di concessione edilizia, per carenza documentale
senza che l'Amministrazione abbia preventivamente invitato
il richiedente la predetta concessione ad integrare la
documentazione ritenuta carente, in quanto la carenza
documentale può giustificare la richiesta istruttoria
dell'Amministrazione volta al completamento della
documentazione, ma non il diniego di concessione edilizia.
Ciò perché l'invito al completamento della documentazione è
funzionale al perseguimento di uno specifico interesse
pubblico, il quale esige una pronunzia sul merito della
domanda di concessione edilizia, anziché sui soli requisiti
formali della stessa, per cui allorquando sia stato assolto
da parte dell'interessato un onere minimo di documentazione,
per l'inizio dell'esame della richiesta di concessione
edilizia, l'Amministrazione, prima di pronunciarsi sulla
richiesta medesima, è tenuta a chiedere le eventuali
necessarie integrazioni documentali.
A maggior ragione allorquando la C.E. sia stata rilasciata,
nel qual caso prima di procedere all'annullamento della
stessa il comune deve indicare agli interessati gli elementi
progettuali o esecutivi difformi dalle prescrizioni
urbanistiche vigenti per provvedere alle modifiche
necessarie.
---------------
Qualora il progetto edilizio presenti dubbi interpretativi,
ai fini della sua conformità alla legislazione urbanistica,
l'amministrazione comunale -in conformità dei principi di
buona amministrazione- può legittimamente imporre sotto
forma di condizione la soluzione tecnica conforme a tali
norme, senza poter semplicemente denegare il rilascio della
C.E..
Infatti, in base al principio di buona amministrazione, ove
un progetto edilizio presenti elementi ostativi, peraltro di
modesta rilevanza e tali da poter essere individuati e
corretti o attraverso la modifica del progetto o il
meccanismo della concessione condizionata, il sindaco non
deve negare la C.E. richiesta, ma od invitare il committente
a modificare in conformità il progetto o rilasciare "sub
condicione" la concessione, in tal modo tutelando sia
l'interesse pubblico al pieno rispetto della normativa
urbanistica, sia l'interesse privato alla rapidità ed
efficienza della pubblica amministrazione.
Con specifico riferimento alla necessità di migliorare
taluni aspetti tecnici (precisamente igienico-sanitari) di
un'opera, secondo la giurisprudenza il comune deve
rilasciare la concessione stessa e prescrivere come semplice
condizione per l'inizio dei lavori la progettazione di una
variante in corso d'opera che attui i miglioramenti tecnici
ritenuti necessari, anziché rigettare l'istanza di C.E..
Ebbene, la giurisprudenza, con orientamento che il collegio
condivide pienamente e riafferma in questa sede, ha avuto
occasione di porre il principio secondo il quale è
illegittimo il diniego di concessione edilizia, per carenza
documentale senza che l'Amministrazione abbia
preventivamente invitato il richiedente la predetta
concessione ad integrare la documentazione ritenuta carente,
in quanto la carenza documentale può giustificare la
richiesta istruttoria dell'Amministrazione volta al
completamento della documentazione, ma non il diniego di
concessione edilizia; ciò perché l'invito al completamento
della documentazione è funzionale al perseguimento di uno
specifico interesse pubblico, il quale esige una pronunzia
sul merito della domanda di concessione edilizia, anziché
sui soli requisiti formali della stessa, per cui allorquando
sia stato assolto da parte dell'interessato un onere minimo
di documentazione, per l'inizio dell'esame della richiesta
di concessione edilizia, l'Amministrazione, prima di
pronunciarsi sulla richiesta medesima, è tenuta a chiedere
le eventuali necessarie integrazioni documentali (in termini
TAR LAZIO-ROMA, Sez. II-bis, 10.05.2004, n. 4098; Consiglio
Stato, sez. V, 23.03.1991, n. 328).
A maggior ragione allorquando la C.E. sia stata rilasciata,
nel qual caso prima di procedere all'annullamento della
stessa il comune deve indicare agli interessati gli elementi
progettuali o esecutivi difformi dalle prescrizioni
urbanistiche vigenti per provvedere alle modifiche
necessarie (Consiglio Stato, sez. V, 17.12.1990, n. 884).
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Passando alla terza questione,
la giurisprudenza ha espresso l’orientamento, assolutamente
condivisibile, secondo il quale qualora il progetto edilizio
presenti dubbi interpretativi, ai fini della sua conformità
alla legislazione urbanistica, l'amministrazione comunale
-in conformità dei principi di buona amministrazione- può
legittimamente imporre sotto forma di condizione la
soluzione tecnica conforme a tali norme, senza poter
semplicemente denegare il rilascio della C.E.; infatti, in
base al principio di buona amministrazione, ove un progetto
edilizio presenti elementi ostativi, peraltro di modesta
rilevanza e tali da poter essere individuati e corretti o
attraverso la modifica del progetto o il meccanismo della
concessione condizionata, il sindaco non deve negare la C.E.
richiesta, ma od invitare il committente a modificare in
conformità il progetto o rilasciare "sub condicione"
la concessione, in tal modo tutelando sia l'interesse
pubblico al pieno rispetto della normativa urbanistica, sia
l'interesse privato alla rapidità ed efficienza della
pubblica amministrazione (in termini, TAR Emilia Romagna
Bologna, 29.08.1984, n. 325).
Con specifico riferimento alla necessità di migliorare
taluni aspetti tecnici (precisamente igienico-sanitari) di
un'opera, secondo la giurisprudenza il comune deve
rilasciare la concessione stessa e prescrivere come semplice
condizione per l'inizio dei lavori la progettazione di una
variante in corso d'opera che attui i miglioramenti tecnici
ritenuti necessari, anziché rigettare l'istanza di C.E. (in
termini TAR Emilia Romagna Bologna, sez. I, 23.10.1991, n.
379) (TAR
Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 25.10.2006 n. 1960 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Se
non può escludersi, in linea di principio,
un'attività surrogatoria della P.A.
laddove sia riscontrata carenza in una
progettazione urbanistica od edilizia dei
requisiti legali e ciò quando
ragionevolmente risponda a criteri di
economicità e speditezza dell’azione
amministrativa, non può certamente
ammettersi, di converso, che la P.A. possa
<conformare> nei suoi aspetti <sostanziali>
l’intervento sottoposto al suo esame, al
solo scopo di evitare un pronunciamento
negativo sullo stesso.
In tale ultima ipotesi, infatti, non solo si
determinerebbe una sorta di ingiustificata
sostituzione intersoggettiva tra
l’amministrazione ed il privato, ma si
licenzierebbe altresì una attività
urbanistica od edilizia priva di un
oggettivo (e preventivo) parametro
documentale di riferimento, con ogni
immaginabile conseguenza in sede di
successivo controllo dell’attività stessa.
E' senz’altro da escludere la ammissibilità
di concessioni edilizie <condizionate>,
nella ipotesi in cui le prescrizioni imposte
dalla P.A. non solo attengano ad aspetti
sostanziali dell’intervento sottoposto al
suo esame, ma non rivestano neppure
carattere <autoesecutive>, implicando
necessariamente un’ulteriore attività da
parte del richiedente o di altro soggetto
(pubblico o privato) coinvolto nel relativo
procedimento, allo scopo di poter
compiutamente definire l’oggetto della
concessione medesima, e la sua conformità ai
parametri legali.
Questo tribunale ha già avuto modo di
precisare in quale misura la riscontrata
carenza in una progettazione urbanistica od
edilizia dei requisiti legali possa essere <surrogata>
dall’attività della P.A., attraverso il
rilascio di un atto di assenso variamente
condizionato.
Se infatti non può escludersi, in linea di
principio, una attività in tal senso quando
ragionevolmente risponda a criteri di
economicità e speditezza dell’azione
amministrativa, non può certamente
ammettersi, di converso, che la P.A. possa <conformare>
nei suoi aspetti <sostanziali>
l’intervento sottoposto al suo esame, al
solo scopo di evitare un pronunciamento
negativo sullo stesso.
In tale ultima ipotesi, infatti, non solo si
determinerebbe una sorta di ingiustificata
sostituzione intersoggettiva tra
l’amministrazione ed il privato, ma si
licenzierebbe altresì una attività
urbanistica od edilizia priva di un
oggettivo (e preventivo) parametro
documentale di riferimento, con ogni
immaginabile conseguenza in sede di
successivo controllo dell’attività stessa.
Così, per quanto qui rileva, è senz’altro da
escludere la ammissibilità di concessioni
edilizie <condizionate>, nella
ipotesi in cui le prescrizioni imposte dalla
P.A. non solo attengano ad aspetti
sostanziali dell’intervento sottoposto al
suo esame, ma non rivestano neppure
carattere <autoesecutive>, implicando
necessariamente un’ulteriore attività da
parte del richiedente o di altro soggetto
(pubblico o privato) coinvolto nel relativo
procedimento, allo scopo di poter
compiutamente definire l’oggetto della
concessione medesima, e la sua conformità ai
parametri legali.
E’ evidente infatti che in questa ipotesi,
il risultato della ulteriore attività
prescritta debba necessariamente essere
valutato dall’amministrazione prima del
rilascio del richiesto titolo edilizio,
difettando altrimenti una seria e compiuta
conoscenza dell’intervento concessionato,
sia nella sua consistenza materiale che (e
soprattutto) nella sua rispondenza alla
normativa di settore (cfr. TAR Liguria,
Sezione Prima, 21.01.2000 n. 35) (TAR
Liguria, Sez. I,
sentenza 08.05.2006 n. 433 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2004 |
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EDILIZIA PRIVATA: Le
c.d. condizioni apposte alle concessioni non
possono consistere in comportamenti
risolutivi del titolo concessorio perché il
rilascio non può essere fatto dipendere né a
priori né a posteriori da fatti imputabili
al concessionario o da adempimenti
successivi al rilascio comunque qualificati.
La giurisprudenza, infatti, ritiene che sia
illegittima l'apposizione di una condizione,
non importa se sospensiva o risolutiva, alla
concessione edilizia, salvi i casi
espressamente previsti dalla legge, stante
la natura d'accertamento costitutivo a
carattere non negoziale di detto
provvedimento.
Ne consegue che, quantunque nella prassi
molte concessioni vengano emesse in forma
c.d. condizionata, si deve ritenere che
queste non siano vere condizioni ma
prescrizioni che ne condizionano (non la
legittimità) ma l’esercizio e che dunque la
loro inosservanza può determinare sanzioni,
quali la sospensione dei lavori ed i
successivi provvedimenti sino alla
decadenza, ma non, come sostiene la difesa
dell’amministrazione, l’illegittimità ab
origine della concessione oppure il venir
meno dei presupposti essenziali per il suo
rilascio e dunque, l’annullamento o la
revoca d’essa a titolo sanzionatorio
Il Collegio osserva, in generale, che -come
è noto- le concessioni non sono revocabili e
che esse possono essere annullate solo per
motivi di legittimità previa valutazione
dell’interesse pubblico in funzione della
comparazione degli interessi coinvolti.
Possono, infine, essere dichiarate decadute
per inattività e/o sopravvenienza di nuove
previsioni urbanistiche contrastanti con il
loro rilascio, ma si tratta di un potere
diverso che non attiene alla legittimità
della concessione ma al venir meno della sua
efficacia per scadenza del termine fissato
ex lege.
Ne consegue che le c.d. condizioni apposte
alle concessioni non possono consistere in
comportamenti risolutivi del titolo
concessorio perché il rilascio non può
essere fatto dipendere né a priori né a
posteriori da fatti imputabili al
concessionario o da adempimenti successivi
al rilascio comunque qualificati.
La giurisprudenza, infatti, ritiene che sia
illegittima l'apposizione di una condizione,
non importa se sospensiva o risolutiva, alla
concessione edilizia, salvi i casi
espressamente previsti dalla legge, stante
la natura d'accertamento costitutivo a
carattere non negoziale di detto
provvedimento (cfr. C.d.S. C.d.S. sez. 5^,
24.03.2001 n. 1702).
Ne consegue che, quantunque nella prassi
molte concessioni vengano emesse in forma
c.d. condizionata, si deve ritenere che
queste non siano vere condizioni ma
prescrizioni che ne condizionano (non la
legittimità) ma l’esercizio e che dunque la
loro inosservanza può determinare sanzioni,
quali la sospensione dei lavori ed i
successivi provvedimenti sino alla
decadenza, ma non, come sostiene la difesa
dell’amministrazione, l’illegittimità ab
origine della concessione oppure il
venir meno dei presupposti essenziali per il
suo rilascio e dunque, l’annullamento o la
revoca d’essa a titolo sanzionatorio
(TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 20.10.2004 n. 3732 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Sulla possibilità di subordinare l'assenso edilizio a
prescrizioni.
L’amministrazione pubblica, la cui
giustificazione ontologica va ricercata nella prestazione di
varie attività di “servizio pubblico” rese ai cittadini, non
può limitarsi ad un esame distaccato e meccanico delle
istanze indirizzatele dagli amministrati, procurando di
accogliere soltanto quelle che ex origine si presentino
esattamente corrispondenti ai formanti normativi rilevanti
per la singola fattispecie e, di contro, respingendo quelle
che manifestino qualunque difformità, anche di minima
entità, rispetto a detti parametri.
Sulla P.A. incombe invece un preciso dovere di
collaborazione con i cittadini al fine di contribuire a
realizzarne, nei margini consentiti dall’ordinamento
giuridico, le legittime aspettative.
È infondata anche la terza
doglianza.
Si sostiene che il Comune di Roma non avrebbe potuto
rilasciare una concessione edilizia condizionata ad una
modifica del progetto, peraltro mai richiesta dalle
Gorgosalice, consistente nell’eliminazione della porzione di
lotto ricadente nel perimetro del P.d.Z..
Le ragioni della ritenuta impossibilità giuridica di
subordinare l’assenso edilizio in parola allo stralcio dei
138 mq. in questione non sono affatto condivisibili.
Militano piuttosto a favore della conclusione esattamente
contraria i principi di buon andamento e di leale
collaborazione.
L’amministrazione pubblica, la cui giustificazione
ontologica va ricercata nella prestazione di varie attività
di “servizio pubblico” rese ai cittadini (Cons. St.,
ad. plen., 30.03.2000, n. 1, ord.), non può limitarsi ad un
esame distaccato e meccanico delle istanze indirizzatele
dagli amministrati, procurando di accogliere soltanto quelle
che ex origine si presentino esattamente corrispondenti ai
formanti normativi rilevanti per la singola fattispecie e,
di contro, respingendo quelle che manifestino qualunque
difformità, anche di minima entità, rispetto a detti
parametri.
Sulla P.A. incombe invece un preciso dovere di
collaborazione con i cittadini al fine di contribuire a
realizzarne, nei margini consentiti dall’ordinamento
giuridico, le legittime aspettative.
Chiaramente non si è ispirata a questi principi la condotta
del Comune di Roma che, una volta preso atto dell’insistenza
di un’irrisoria parte dell’area del progetto presentato
dalle Gorgosalice in una zona non edificabile, ha rigettato
in toto la richiesta.
È opinione del Collegio che la circostanza avrebbe dovuto
indurre l’amministrazione appellante a prediligere un ben
diverso stile gestorio: in primo luogo il Comune di Roma
avrebbe dovuto verificare se effettivamente la modesta
porzione di terreno in questione fosse stata computata dalle
ricorrenti ai fini volumetrici ed altresì se essa incidesse
sul calcolo degli standard previsti nel progetto
(circostanze che le Gorgosalice negano e sulle quali l’ente
civico non ha controdedotto).
In caso di esito negativo di questa preliminare verifica,
nulla avrebbe impedito al Comune di Roma di rilasciare
l’assenso richiesto, epurandolo d’ufficio del piccolo “ritaglio”
in parola (siccome, del resto, prospettato in sede
istruttoria, giusta il rapporto dell’Ufficio, prot. n. 29587
del 23.05.1994); nell’ipotesi contraria, prima di optare per
la radicale e recisa bocciatura dell’istanza, il Comune
avrebbe potuto e dovuto sollecitare le richiedenti a
proporre diverse soluzioni progettuali che tenessero conto
dell’esigenza di eliminare la parte rientrante nel P.d.Z. di
Torre Spaccata Ovest
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 17.07.2004 n. 5127 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
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